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Riassunto del manuale di Alfano esame letteratura italiana 2, Sintesi del corso di Letteratura Italiana

Riassunto del manuale per la preparazione dell'esame di letteratura italiana 2 con il prof. Del Castello, con anche l'analisi e parafrasi dei testi indicati

Tipologia: Sintesi del corso

2023/2024

In vendita dal 10/01/2024

a.papa
a.papa 🇮🇹

4.7

(13)

18 documenti

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Scarica Riassunto del manuale di Alfano esame letteratura italiana 2 e più Sintesi del corso in PDF di Letteratura Italiana solo su Docsity! L’ETÀ DELLA CONTRORIFORMA: IL BAROCCO (1610-1690) L’età della Controriforma va dal Concilio di Trento (1545) agli anni Ottanta del 1600. È suddivisibile in due fasi successive: 1. La prima fase va fino al primo secondo/ decennio del Seicento, è caratterizzata: - sul piano economico, da una permanenza dello sviluppo; - sul piano letterario, dalla resistenza dei modelli classicisti ed è definita fase del manierismo. 2. La seconda fase va fino al 1690, è caratterizzata da una profonda crisi economica ed è la cosiddetta fase barocca. Col termine Barocco si designa il movimento artistico, letterario e musicale sviluppatosi nel Seicento e caratterizzato dalla tendenza alla grandiosità, al virtuosismo formale, alla produzione di effetti sorprendenti, ma anche da un gusto stravagante ed esuberante, artificioso e goffo. All’inizio al termine barocco è stata assegnata una accezione negativa, in senso dispregiativo, per indicare appunto un’arte bizzarra, disarmonica e contraria al buon gusto. Per quanto riguarda l’origine del termine, questa risulta alquanto incerta: • Deriva forse dal portoghese “barroco” che significa “perla irregolare”, non sferica e perciò strana e anormale; • Oppure dal francese “baroque” nel significato di stravagante, bizzarro; • O…. “Baroco” termine desunto dal latino della filosofia scolastica che indicava una forma di sillogismo particolarmente cavilloso. Tuttavia oggi il termine, ha perduto ogni connotazione negativa definendo semplicemente un periodo storico e la tendenza artistica che vi ha prevalso. Il Barocco si sviluppa soprattutto in Italia, Francia, Spagna e Inghilterra. Esso respinge la tradizione di misura ed equilibrio del classicismo perché si ispira a una nuova visione del mondo e a un nuovo modo di percepire. L’uomo è ormai solo, inquieto, in un universo sconfinato, complicato. Può cercare di collegare le cose solo attraverso i sensi e la ragione, con l’analogia o la metafora. Il concetto di imitazione del Rinascimento è ormai caduto. Le caratteristiche principali dell’arte barocca sono: - la somiglianza inaudita fra cose lontane; -la trasformazione di una cosa in un’altra; - la rottura dei confini che separavano i diversi comparti dell’universo. Il pubblico è sempre tenuto presente, il lettore e lo spettatore vanno continuamente conquistati ad ogni costo, suscitando di continuo la sorpresa e la meraviglia. Il Seicento è però anche un secolo caratterizzato da una grave crisi demografica ed economica che investì tutti i paesi europei con l’unica eccezione dell’Olanda e dell’Inghilterra (grazie al rinnovamento dell’agricoltura). Questa situazione provocò una nuova spirale di carestie e pestilenze: la popolazione malnutrita era più facilmente colpita dalle malattie e in particolare dalle epidemie di peste. Si aprì dunque un periodo di deflazione e stagnazione economica, dove traffici e commerci ne risultarono indeboliti. Inoltre la nobiltà fondiaria mirava sempre più a sfruttare le masse contadine, venendosi così a creare una distanza sempre maggiore tra poveri e ricchi. Per quanto riguarda invece la condizione degli intellettuali e l’organizzazione della cultura in Italia, questi non subiscono sostanziali mutamenti rispetto alla prima fase dell’età della controriforma. L’intellettuale continua a trovare impegno presso le corti, ma il suo ruolo è sempre più spesso quello di segretario (privato) del signore o di altri esponenti dei ceti alti; gli si richiedono competenze specifiche, di carattere tecnico, che non investono più la sua funzione civile e ideologica. L’unico strumento superstite di auto riconoscimento e protezione dell’identità intellettuale sono le Accademie. Esse erano sorte numerosissime nella seconda metà del 1500. Continuarono a diffondersi nel 1600, assumendo in genere caratteri sempre più chiusi. Spesso queste erano direttamente o indirettamente controllate dal potere politico. Le accademie letterarie e filosofiche, più importanti furono: • Le accademie del Lincei a Roma, cui aderì Galilei; • Quella fiorentina del Cimento • Quella napoletana degli Investiganti. Il Seicento, e in particolarmente il periodo che va tra il 1610 e il 1690, si apre con: - le famose scoperte astronomiche del tedesco Keplero, che studia il movimento dei pianeti intorno al sole, - le scoperte dell’italiano Galileo Galilei; - le leggi sulle gravitazione universale dell’inglese Isaac Newton. Il Seicento è considerato appunto il secolo della Rivoluzione Scientifica. Nel corso di questo secolo giunge a maturazione il rinnovamento del pensiero avviato dall’Umanesimo italiano e proseguito su scala europea dal Rinascimento. I più grandi pensatori dell’epoca hanno in comune l’esigenza di ricostruire tutto il sapere dalla base, liberandosi da tradizione e pregiudizi, ricavando dalle scienze matematiche e naturali un metodo che garantisca certezza alla conoscenza. Proprio tra fine del Seicento e inizio del Settecento si parlerà di “autonomia della scienza”, la quale diventa sempre più indipendente da religione e magia. Inoltre esce completamente trasformata l’idea del mondo, che da qui in avanti comincia a essere immaginato come una macchina di cui occorre studiare il funzionamento. Alla base di tale rivoluzione sta un nuovo modo di concepire la ricerca, sia quella filosofica che quella scientifica. Decisivo diventa il metodo della ricerca, il quale deve obbedire a un rigore induttivo, non più deduttivo, deve seguire procedure rigorosamente scientifiche che partano dall’analisi di fenomeni concreti e non da idee precostituite. La rivoluzione scientifica del 1600 tende a rendere autonoma la scienza dalla religione. Opponendosi alla cosmologia aristotelica, la concezione copernicana e quella galileiana di fatto si opponevano alla dottrina ufficiale della Chiesa, la quale si ispirava alla posizione geocentrica della tradizione aristotelica. Nel 1616 la Chiesa sospese le opere che sostenevano la teoria eliocentrica e diffidò Galileo dal diffondere le tesi. Galileo inizialmente si oppose a tale posizione della Chiesa, cercando di dimostrare che quanto scriveva la Bibbia non poteva essere preso alla lettera, e affermando che il libro della natura e il libro di Dio rivelerebbero la stessa verità in linguaggi diversi. La Chiesa però non accettò nemmeno questa forma di compromesso, poiché per secoli era stata essa a definire ciò che era vero e ciò che era falso nella concezione dell’universo. La ricerca scientifica doveva semplicemente adeguarsi a illustrare verità precostituite. Ora, invece, i ruoli cominciavano a rovesciarsi. Questo è un passaggio decisivo: separandosi dalla religione, la scienza diventa una ricerca del tutto laica, empirica e sperimentale. Nonostante ciò, la visione del mondo barocca sarà dominata dall’idea di un universo infinito e instabile, labirintico e confuso, incerto e precario, di una vita in cui le sorti si rovesciano di continuo e le parti si modificano come anni, si rifiuta di ritrattare e il 17 febbraio del 1600, condannato come eretico impenitente e pertinace, viene arso sul rogo in Campo de' Fiori. Gli scritti principali di Bruno sono: Il Candelaio, La cene delle ceneri, De l’infinito universo et mondi, Lo spaccio della bestia trionfante, De gli eroici furori. Tutti gli scritti di Bruno presentano una nota comune: l’amore per la vita nella sua potenza dionisiaca. Questo amore così prorompente verso la vita gli fece nutrire un odio così inestinguibile per tutti quelli che facevano della cultura una pura esercitazione libresca e distoglievano lo sguardo dalla natura e dalla vita. Bruno considerò la natura tutta viva ed animata, da qui la sua predilezione per la magia. Il naturalismo di Bruno è in realtà una religione della natura: impeto lirico, esaltazione e furore eroico. La religione appare a Bruno come assurda, un insieme di superstizioni contrarie a religione e natura. Di fronte a questa religiosità che Bruno deride come “Santa Asinità” sta l’alta religiosità, quella dei teologi, dei dotti che in ogni tempo e in ogni nazione hanno cercato la via per giungere a Dio. Questa religiosità è lo stesso filosofare. Bruno parla di Dio in duplice modo, mente al di sopra di tutto e mente presente in tutte le cose: 1. Dio fuori dal cosmo e dalla razionalità dell’uomo e inconoscibile, che ritiene vano il tentativo di risalire dalla natura a colui che l’ha creata. Di conseguenza, in quanto sostanza trascendente, Dio è solo oggetto di fede; 2. Dio è principio immanente del cosmo e risulta accessibile alla ragione umana, costituendosi come oggetto privilegiato del discorso filosofico. In quanto mente delle cose, Dio è anima del cosmo, che opera per mezzo dell’intelletto universale, cioè di quell’insieme di tutte le idee o forme che plasmano dal di dentro la materia, specificandola negli infiniti esseri del mondo. L’attributo fondamentale dell’universo, quello che accorda ed esalta l’impeto lirico di Bruno, è l’infinità. Bruno, polemizzando con la visione aristotelica e tolemaica, concepisce l’universo come qualcosa di illimitato ed infinito, ospitante in sé una molteplicità di mondi e creature. Il tema dell’infinito rappresenta il punto d' incontro tra Bruno e la rivoluzione astronomica moderna. A doversi confrontare con un universo infinito è il soggetto conoscente, che è invece un ente finito. Sull'impossibilità da parte dell'uomo di assimilarsi a Dio secondo un iter conoscitivo ascendente e rettilineo, un filo rosso della sua ricerca filosofica consiste proprio nell'individuazione di nuove vie attraverso le quali l'uomo, pur nella sua finitudine, possa giungere ad intravedere l'infinito. Una delle modalità che il Nolano illustra è la mnemotecnica, l'arte della memoria. Il manifesto della rivoluzione onto-cosmologica bruniana è De la causa, principio et uno, dialogo in volgare, pubblicato a Londra nel 1584, in cui ad essere scardinata fin dalle sue fondamenta è l'opposizione tradizionale, di matrice aristotelica e neoplatonica, tra la materia/ femmina passiva e la forma/maschio attiva, che agisce sul sostrato materiale inerte. Bruno del seno della materia, al contrario, sottolinea la fecondità: la materia è un principio vitale e attivo. Essa genera dal suo interno le forme ed è animata da un inesauribile appetito che la induce a produrne sempre di nuove, in un ciclo infinito in cui nessun ente si annulla e tutto viene continuamente trasformato. La materia rappresenta la fonte generativa della vita: un paradigma teoretico che Bruno non abbandona mai e che viene, nel corso del tempo, perfezionato e arricchito. Contraltare del seno della materia infinita è il sinus phantasticus, descritto nella sua forma più compiuta nell'ultima e più complessa opera mnemotecnica bruniana, il De imaginum, signorum et idearum compositione. Nel seno della fantasia vengono combinati creativamente gli elementi provenienti dalla conoscenza sensibile. Si tratta di una vera e propria combinatoria fantastica, in cui è imprescindibile il valore conoscitivo delle immagini mnemoniche. Attraverso le statue mnemoniche, il filosofo può creare gallerie di immagini metaforiche, costruendole attraverso una successione di traslati. Un rilievo del quale giova ricordare la profonda portata teorica, dato il nesso inscindibile che viene posto tra parola ed immagine, elaborazione letteraria ed arte della memoria. La necessità di un lessico che si assimili quanto più possibile ai contenuti, che si faccia immagine, autorizza il filosofo, laddove il linguaggio sia carente, alla creazione di neologismi. Rispetto all'usuale «metempsicosi», trasmigrazione delle anime, Bruno intende porre in evidenza la centralità dell'elemento fisico. Su queste basi, dunque, si costituisce l'innovazione del pensiero di Bruno: da un lato la speculazione onto-cosmologica sull'infinito, dall'altro le considerazioni sui verba utilizzati per rappresentare gli infinitesimali dettagli del reale: egli dimostra così di voler attuare una radicale riforma di ogni campo del sapere. Nel De gli eroici furori, Bruno delinea un altro possibile cammino dell'uomo verso la verità, l'eroico furore. Per Bruno il filosofo è il “furioso”, l’assetato di infinito e l’ebbro di Dio, che, ricorrendo alla forza della volontà e andando al di là di ogni limite con uno sforzo eroico ed appassionato, raggiunge una sorta di sovrumana immedesimazione con il processo cosmico, perciò l’universo si dispiega nelle cose e le cose si risolvono nell’universo. L'azione della volontà, per dare i suoi frutti, deve congiungersi alla potenza della fantasia, una facoltà di confine che immette il materiale finito proveniente dai sensi in uno spazio mentale in cui esso può riplasmarsi continuamente. In altre parole, l’eroico furore è la traduzione naturalistica del concetto platonico di amore, in quanto mostra come l’uomo “arso d’amore” vada in cerca dell’infinito che solo può appagare i suoi desideri, innalzandosi al di sopra dei bassi furori che lo tenevano incatenato alle cose finite e generando una sorta di sposalizio e di supremo amore tra lui e la natura. Il dialogo è costruito come commento ad una galleria di immagini, accompagnate da componimenti poetici: le potenzialità della scrittura vengono tese al massimo grado, per far sì che essa svolga una funzione gnoseologica affine a quella delle immagini. Non stupisce dunque che nello Spaccio de la bestia trionfante, nell'ambito del recupero, in chiave anticristiana e antiriformata, della religione magica degli antichi egizi, in grado di mettere in comunicazione uomo e natura, venga valorizzata la scrittura geroglifica, lingua che, essendo composta da immagini e capace di veicolare molteplici significati, permette all'uomo di avvicinarsi al divino. Bruno assume naturalmente le distanze dalle categorie tradizionali della poetica. Sono necessarie tempre poetiche differenti e diversificate. Ne consegue che devono essere biasimati quanti, facendo della poetica aristotelica una auctoritas indiscutibile, non riconoscono il valore dell'inventio, del ritrovamento di nuovi temi e argomenti, superiore alla pedissequa imitazione. Questa posizione implica un atteggiamento plastico e poietico nei confronti delle fonti, volto a far scaturire da esse un nuovo potenziale conoscitivo. L’argomento De gli eroici furori si articola come una dichiarazione programmatica antipetrarchista, a seguire è un dialogo all'interno del quale vengono commentati componimenti chiaramente modellati su Petrarca: soltanto interrogandosi sui motivi di fondo di una simile ambivalenza è possibile capire come il Nolano rifiuti non soltanto il petrarchismo ma anche l’antipetrarchismo fine a sé stesso. Obiettivo di Bruno nel corso del dialogo è perciò quello di risemantizzare il lessico e le immagini petrarcheschi. Le opere di argomento magico, pubblicate soltanto molti anni più tardi, alla fine dell'Ottocento, sono testi in cui è esaltata una praxis magica consapevole degli infiniti e inarrestabili mutamenti della realtà, in grado di fare dell'uomo una parte attiva e operativa del ciclo naturale. IL CANDELAIO Il Candelaio è l’unica opera puramente letteraria di Giordano Bruno. È una commedia in cinque atti, preceduta da ben sette parti introduttive, pubblicata nel 1582 ma concepita nel 1576. Con essa viene alla luce la sua posizione: non un rifiuto della tradizione quanto una sua rielaborazione creativa. È impossibile riassumere la trama complicatissima, poiché essa manca di una struttura tradizionale. L’opera è una satira corrosiva sulla pedanteria e sulle passioni che affievoliscono o sconvolgono la ragione umana. Ne sono protagonisti l’“insipido amante petrarchista” Bonifacio, perso in svenevoli sogni d’amore; il “sordido avaro e pseudo alchimista” Bartolomeo, che insegue l’illusione dell’alchimia di trasmutare il metallo in oro; il “goffo pedante” Manfurio, che obbedisce rigidamente alle regole della grammatica e della retorica e per questo è vittima di scherzi e raggiri continui. Un quarto personaggio, il pittore Gioan Bernardo, riflette il pensiero dell’autore ed è portavoce del messaggio filosofico più profondo della commedia e nelle sue parole ricorre il tema della vicissitudine universale. Attraverso i personaggi dell’opera cerca di mettere sotto una luce ridicola le derive inconcludenti della cultura a lui contemporanea. Si tratta di un dissacrante meccanismo metateatrale di denuncia dell'impossibilità di operare in una realtà ormai profondamente sconvolta. Il modello negativo è rappresentato soprattutto da Manfurio, con le sue vane enumerazioni di vocaboli e particelle grammaticali latine che costituiscono una completa distorsione dell'ideale bruniano di una comunicazione concettualmente feconda. Al contrario, il paradigma positivo viene individuato nel pittore Gioan Bernardo, capace di creare un lessico che ritragga adeguatamente la realtà e dunque di ristabilire il nesso biunivoco tra parole e cose che, nel corso del tempo, è stato incrinato dalla vuota pedanteria. La forza che dispone e muove l’intreccio degli eventi è la fortuna, stravagante e volubile, che si sbizzarrisce a suo piacere e senza che l’uomo possa opporvisi. L’autore ha una dichiarata avversione per il mondo accademico e per norme che giudica false, e mette in risalto la sua estraneità ad esse con un atteggiamento trasgressivo, che effetti una forma di magia, viene legata alla capacità del poeta di essere tramite delle tre primalità. Per Campanella l’essere umano è diviso in tre primalità, i tre principi dell'essere che sono realizzati pienamente in Dio: Sapienza, Amore e Potenza. Ogni essere è in quanto può esistere, è in quanto sa di essere. Il possesso di queste tre primalità permette di costruire una gerarchia degli esseri umani. Al vertice c’è Dio e al di sotto gli esseri finiti. Quindi ci saranno esseri finiti saggi, esseri finiti potenti, essere finiti amorosi. L’uomo è quindi un ponte fra la realtà suprema di Dio e gli esseri finiti. Egli, in quanto individuo in grado di recepire l'influsso astrologico a livello sia fisiologico sia psicologico, deve infatti conoscere la natura, avere una visione complessiva del reale, animata da un sentimento d'amore rivolto al tutto e non alla parte, e riuscire a trasporre tale visione in una creazione letteraria che faccia presa sugli animi dei lettori. Ne scaturisce una concezione della poesia come strumento conoscitivo e pratico, poiesis letteraria che, a partire dal nudo materiale verbale, permetta all'uomo di comprendere la realtà e di agire su di essa. Il poeta deve riuscire a porsi dal punto di vista del tutto e non del singolo ente finito, seguendo un movimento speculativo che Campanella stesso mette in atto nel suo canzoniere, in relazione al tema della commedia universales recitata sul palco del mondo. Un fil rouge di molti testi della raccolta Scelte - strutturata come una silloge in cui ai componimenti in versi, scritti in modo spesso frammentario, si alternano commenti in prosa, redatti talvolta a distanza di anni dalla lirica cui si riferiscono - è l'amara constatazione che ogni persona indossa una maschera, che molto raramente ne rispecchia l'interiorità, e tale discrasia tra esse e videri sarà sanata soltanto al sopraggiungere del Giudizio universale, quando le maschere cadranno: fino a quel momento, gli uomini vivranno in una realtà in cui regna l'ingiustizia. In Campanella c’è un netto rifiuto dell’aristotelismo, poiché ritiene che vi sia un legame tra la concezione di pensiero greco, falsa e menzognera, e la concezione di pensiero latina, l’unica in grado di cogliere il nucleo della natura. Della tesi geocentrica, contesta il fatto che, a causa della Bibbia, si impediscono le nuove scoperte. Nonostante l’influenza di Telesio, ci sono delle differenze tra i due filosofi naturalisti: infatti, Telesio afferma che la conoscenza si identifica con il contatto tra l’organo di senso e il sensibile, mentre Campanella afferma che il conoscere non si risolve esclusivamente in una pura passività dell’organo di senso, ma implica una consapevolezza di fondo di sentire, cioè l’essere consapevole di essere modificato da un oggetto esterno. Perciò, l’atto del conoscere s’identifica con la consapevolezza di sentire. Il soggetto dovrà chiarire questa consapevolezza interiore. Campanella così supera la gnoseologia sensitiva di Telesio, e si avvia verso la metafisica e la religione. LA CITTÀ DEL SOLE La Città del Sole, la grande costruzione utopica che vide la luce nell’omonima opera nel 1602 in volgare e nel 1623 in latino, ha un'organizzazione sociale che si regge sull'adeguamento tra attitudine individuale e ruolo che si ricopre e sulla comunione totale dei beni, che impedisce che si generi negli animi un amore egoistico. Obiettivo dell'opera è quello di mostrare come, in una città organizzata razionalmente, sia possibile ristabilire il corretto nesso tra società e natura che filosofi come Aristotele, che non ha riconosciuto alcuna dignità alle mansioni artigianali, hanno rescisso. Al contrario, i lavori manuali possono aiutare a ritrovare quel contatto diretto con la realtà che è compito della religione solare favorire. La città immaginata dall’autore è retta da un Principe Sacerdote, chiamato appunto Sole (o Metafisico). Detiene assoluto potere spirituale e temporale. I requisiti fondamentali di questo governatore devono essere: erudizione, saggezza, conoscenza sia dal punto di vista teorico che pratico, creatività e vena artistica. Deve anche avere più di trentacinque anni perché abbia l’esperienza necessaria a condurre lo stato. Anche in questo testo, il filosofo è la figura più adatta a governare, in virtù della sua saggezza e della ricerca della conoscenza. Egli è assistito da tre Prìncipi: Pon, Sin, Mor, rispettivamente: Potestà Sapienza ed Amore. Il primo si occupa delle arti militari, il secondo delle scienze, dell’istruzione e della religione, il terzo dell’accoppiamento e dell’eugenetica. La città è divisa in sette grandi gironi con i nomi dei pianeti, attraversati da quattro strade e porte, una per ogni punto cardinale. È inespugnabile. In ogni girone sono rappresentati o conservati importanti reperti per lo studio. Uno dei fondamenti della Città del Sole è la comunanza dei beni, i solari dividono la stessa mensa e vestono gli stessi costumi, ognuno ha pari opportunità e riceve eguale educazione da infante. L’abolizione della proprietà privata è alla base dell’uguaglianza tra le persone. Anche le donne sono in comune e gli accoppiamenti sono gestiti e diretti da Mor, il quale tiene in considerazione principalmente l’equilibrio necessario, ma anche l’interpretazione degli astri ed il consiglio medico. I bambini crescono assieme e non conoscono i genitori. Le unioni avvengono tra individui con le stesse caratteristiche e qualità. Nelle visioni utopistiche della società, l’eugenetica è un tema presente, che però evidenzia come l’estremizzazione esasperata di qualsiasi concezione immaginaria dell’organizzazione sociale perfetta porti comunque ad una “disumanizzazione” dell’individuo. Nella Città del Sole i nomi vengono assegnati secondo le caratteristiche individuali e poi arricchiti con cognomi che rispecchino un’arte nella quale la persona eccelle. È una città egualitaria, con organi elettivi, nella quale ognuno è abile e adatto ad un mestiere, un’arte o un impiego, compatibilmente con l’età, il sesso e la predisposizione individuale. Ricorrono alle arti militari solo in caso d’attacco, dato che sono oggetto di rancori dettati dall’invidia, oppure in caso di richiesta d’aiuto, dopo aver consultato il volere divino. Anche le donne vengono addestrate all’attività di guardiane. Campanella ritiene che gli abitanti della Città del Sole debbano tutti lavorare sia manualmente che intellettualmente in modo da poter garantire a tutti il tempo di potersi dedicare alle attività intellettuali. Valorizza le arti pratiche quanto quelle liberali, dimostrando che si può lavorare quattro ore al giorno e per il resto del tempo dedicarsi all’ “imparare giocando”, cioè all’approfondire delle esperienze intellettuali in modo da recarsi piacere. Su questo imparare giocando è formata la sua pedagogia. La scuola non si deve svolgere in ambiente chiuso perché l’istruzione non deve essere una costrizione. Per lui i maestri devono condurre i bambini lungo le sette mura che circondano la città, istoriate in modo da costituire il libro di testo su cui devono essere formati, venendo addestrati visivamente e direttamente ad un sapere enciclopedico. Non solo i bambini ma qualsiasi cittadino, passeggiando lungo queste mura, può imparare agevolmente le nozioni di cui abbisogna, tramite uno studio in primo luogo visivo di imagines che rappresentano res. In questo modo, l’autore fa emergere la posizione antitetica che assume nei confronti della rigidità e pesantezza della scuole basate sul modello scolastico-aristotelico, sottolineando che il vero apprendimento avviene molto lontano dagli scriptoria e dalle chiuse biblioteche. L’elemento caratterizzante è dato dalla religione, che è una religione naturale e razionale, ma che si identifica con i dogmi della religione cattolica. Per cui i solari credono spontaneamente in un Dio uno e trino e in tutti gli altri dogmi della religione cattolica. I sacerdoti dei solari, inoltre, si assumono l'incarico di annotare scrupolosamente i movimenti astrali, indicando gli orari più favorevoli per ogni attività, compresa la generazione. Il testo è ricco di nozioni astronomiche ed astrologiche, il culto è molto simile ad uno precristiano, arricchito dai sette sacramenti. È ancora forte la convinzione dell’immortalità dell’anima, utile anche per esorcizzare la paura della morte ed incentivare gli atti eroici e le prodezze individuali. Secondo Campanella, la religione cattolica trova le sue radici nella natura stessa, ma all’uomo deve anche essere rivelata. Nel corso dei secoli sono stati aggiunti al suo nucleo una serie di abusi che possono venire eliminati rifacendosi ai nuclei naturali della religione. La religione naturale deve servire come norma da osservare per eliminare questi abusi. Campanella attua un rinnovamento di tipo morale, non dogmatico, perché i dogmi sono insiti nella religione. GALILEO GALILEI Figura fondamentale nella storia del pensiero scientifico, responsabile di una svolta epistemologica che segna la nascita dell’età moderna, Galileo è autore che caratterizza in modo profondo anche la storia letteraria del suo tempo. Rispetto al contesto politico culturale dominante e a quella che viene definita prima stagione del Barocco, si ritaglia una posizione autonoma, lontana per esempio dagli sperimentatori che seguono le orme di Marino. Le sue opere si collocano in una linea di deciso rinnovamento delle pratiche letterarie: la formula del dialogo e ripresa del volgare segnano il punto più alto della prosa scientifica italiana e rappresentano un modello che poi sarà ripreso da Leopardi. Galileo nacque a Pisa nel 1564. Il padre lo indirizzò verso lo studio della medicina, tra il 1580 e il 1585, poi abbandonato senza mai conseguire la laurea. Agli studi di questi anni, portati avanti in modo autonomo, si datano i primi contatti con la scienza di impostazione aristotelica. Nel 1589 ottenne l'insegnamento di matematica a Pisa, con conferma per il triennio successivo. Qui le ricerche di matematica e fisica diventarono il centro del suo percorso, pur conservando sempre un interesse profondo per le questioni letterarie. In quegli anni prese parte a suo modo alla polemica nata tra fautori dell'Ariosto e fautori del Tasso e scrisse una serie di Considerazioni sul Tasso, in cui tracciò una distinzione tra il Furioso di Ariosto e Liberata di Tasso, ammettendo di apprezzare più il Furioso della Liberata, che definisce un procedimento tutto artificioso e manieristico. Nel 1592 ricevette il trasferimento a Padova, sempre presso la cattedra di matematica: iniziò così una stagione ricchissima di indagini ed esperimenti che si protrarrà fino al 1610. Da Padova prese parte alle discussioni che si registrano nel 1604, quando l'apparizione di una Tuttavia nel Dialogo cui lavora nella seconda metà degli anni Venti Galileo intende anche fare spazio a molti dei materiali e degli appunti accumulatisi negli anni. Il passaggio dal Discorso al Dialogo è da questo punto di vista un'innovazione strutturale decisiva, la chiave di volta del capolavoro. L'opera viene ribattezzata Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, e presentata dunque come un confronto tra i due sistemi di Tolomeo e di Copernico, un confronto puramente teorico secondo quello che era il monito del 1616. La stampa del dialogo, con l'approvazione scritta del Riccardi, avvenne nel giugno 1632 e l'opera venne dedicata al granduca di Toscana. Dopo la stampa del Dialogo, Galileo si trovò a dover affrontare un'improvvisa e forse inattesa reazione da Roma: è lo stesso Urbano VIII a scagliarsi contro l'opera, lamentandosi di essere stato raggirato, e forse persino sospettando che Galileo abbia voluto schernirlo, raffigurandolo nelle battute goffe di Simplicio. Per ordine del pontefice venne istituita una commissione d'inchiesta sul libro e sull'autore, che venne invitato a presentarsi a Roma per sottoporsi a un interrogatorio da parte dell'Inquisizione. Si tratta di una prospettiva assai minacciosa, e Galileo rispose con una lunga lettera di difesa e giustificazione, indirizzata a Francesco Barberini, cardinale nipote di Urbano VIII. La sorpresa per la citazione del Sant'Uffizio, atto riservato solo a «i gravemente delinquenti», si traduce in un'amarezza profonda per l'esito di tanti anni di studi, e nel pentimento di essersi alla fine deciso a raccogliere nel Dialogo i frutti delle sue ricerche. Su queste basi, Galileo cercò di resistere alla convocazione del Sant'Uffizio: iniziò una guerra di posizione che andò avanti per settimane e che lo vide protestare a più riprese la propria innocenza, ma che alla fine lo vide costretto al viaggio a Roma. Con un meccanismo implacabile, il processo iniziò il 12 aprile e arrivò alla sentenza di condanna il 22 giugno 1633: come colpevole di eresia, Galileo è costretto all'abiura pubblica dei propri scritti, a riconoscere di avere erroneamente sostenuto la tesi copernicana; alla condanna si accompagna l'intimazione a non affrontare più tali argomenti in futuro. A Galileo, ormai quasi settantenne, venne imposto un soggiorno presso la villa di Arcetri e il papa stesso si oppose, nel 1634, a un trasferimento a Firenze. Galileo trascorse così gli ultimi anni in una condizione di emarginazione e solitudine, tenendo vivi i contatti con interlocutori italiani ed europei solo attraverso le lettere. Nel febbraio 1638, l'inquisitore di Firenze lo visitò quasi a sorpresa: trovò un vecchio in cattiva salute, completamente cieco e ormai isolato in un luogo nel quale erano difficili persino le visite dei medici. Tuttavia da questi ultimi anni, emerse un'ultima opera, i Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze (pubblicati a Leida nel 1638), una raccolta delle molte ricerche che sopravvivevano tra le carte del maestro, l'ultimo atto di una tenace battaglia condotta per decenni in nome di una libera indagine scientifica. Galileo morì ad Arcetri il 18 gennaio 1642. DIALOGO SOPRA I DUE MASSIMI SISTEMI DEL MONDO Galileo sceglie un’ambientazione quasi contemporanea, con due personaggi realmente esistiti e uno frutto della sua invenzione sarcastica. I tre interlocutori del dialogo sono: 1. Il nobile fiorentino Filippo Salviati, allievo di Galilei e copernicano; 2. Il nobile veneziano Giovan Francesco Sagredo, amico e allievo di Galilei, rappresentante di quel pubblico di persone curiose ma non specialiste che costituisce il destinatario ideale di tutta l’opera galileiana; 3. L’aristotelico Simplicio, un personaggio immaginario il cui nome nasconde un “filosofo peripatetico” che Galileo non vuole nominare e che allude al filosofo bizantino del VI secolo a.C. Si intravede poi in alcuni passaggi la figura di un “Accademico linceo”, che resta senza nome ma che Salviati nomina spesso a supporto dei suoi discorsi e dietro la quale è forse possibile intravedere la figura del suo vecchio maestro, l’autore tra le righe. Si immagina che i tre protagonisti si riuniscano per quattro giornate a Venezia, nel palazzo Sagredo. Le dinamiche vedono le argomentazioni di Salviati, a sostegno del sistema copernicano, opporsi a quelle di Simplicio, a sostegno del sistema tolemaico. Il confronto tra i due sistemi era sviluppato lungo la materia delle quattro giornate, che può essere così schematizzata: 1) La prima giornata è dedicata a un’esposizione dei presupposti teorici di eliocentrismo (la Terra ruota intorno al Sole) e geocentrismo (Terra ferma al centro dei cieli); 2) La seconda giornata è dedicata alla discussione del possibile moto diurno di rotazione della Terra intorno al Sole; 3) La terza giornata è dedicata alla discussione del possibile moto annuo di rivoluzione della Terra intorno al Sole; 4) La quarta e ultima giornata è dedicata alla descrizione del fenomeno fisico delle maree, fenomeno che dovrebbe offrire la conferma al moto terrestre. Lo sviluppo degli argomenti all’interno delle giornate prevede numerose digressioni, secondo il procedimento erratico tipico del dialogo che consente a Galileo di recuperare nella sua opera scorci delle sue scoperte più antiche. La divisione in quattro “giornate” è indice di un riferimento alla tradizione della commedia letteraria toscana che convenzionalmente chiamava giornate i propri atti, in omaggio alla struttura del Decameron; quindi il Dialogo è in parte improntato sulla comicità. I tre personaggi danno vita a una sorta di commedia di materia scientifica nella quale i singoli fenomeni vengono letti nella prospettiva sia tolemaica sia copernicana. Alla figura forte e incisiva di Sagredo, le cui risposte hanno uno stile più rapido con la caricatura delle posizioni più arretrate, si affianca il magistero più composito di Salviati, che con pazienza e magnanimità illustra la solidità della teoria copernicana. Di contro, spesso bersaglio di ironia, si schiera Simplicio, impegnato in dichiarazioni cariche di superbia a favore del sistema tolemaico: è un prototipo di dogmatismo e presunzione, che finisce per essere sopraffatto dalla concreta esposizione di Salviati. Simplicio subirà un’evoluzione nel corso dell’opera, arrivando a un atteggiamento progressivamente più aperto e disponibile, incline a dichiarare l’ignoranza su molti fenomeni, che per Galileo è il primo e necessario passaggio per una qualunque conoscenza positiva non dogmatica. L'esposizione della spiegazione di flusso e riflusso, da parte del solo Salviati, in un andamento meno mobile e piuttosto trattatistico, si sviluppa su un arco più breve rispetto alle giornate precedenti e si chiude in modo più preciso e univoco. Quasi per paradosso, sulla spiegazione delle maree Galileo aveva torto, ed era piuttosto Keplero ad avere ragione, legando il fenomeno all'attrazione esercitata dalla Luna. E tuttavia, anche al netto del suo valore scientifico, in assoluto o in rapporto ai tempi, il Dialogo rimane un'opera straordinaria sul piano scientifico ed insieme eccezionale sul piano letterario. Se si sono già richiamate l'importanza della scelta del dialogo e la capacità di Galileo di sfruttarne le caratteristiche per illustrare i diversi aspetti delle sue ricerche, la precisione e la chiarezza della prosa e la conquista di uno stile come diretta espressione di un ragionamento rappresentano altri aspetti che fanno dell'opera uno dei capolavori del primo Seicento. Come è stato sottolineato da Maria Luisa Altieri Biagi, non si tratta di un dettato semplice: Galileo costruisce lunghi periodi in cui a dominare è l'ipotassi, con una costruzione complessa dell'esposizione articolata su molte subordinate. E tuttavia la coerenza logica del pensiero galileiano sorregge la prosa, ne determina, attraverso una serie di connettivi, la forte coesione interna e consente così al lettore, anche quello non specialista, di percepire la grande lucidità con cui l'autore dispone i propri argomenti. Proprio per queste caratteristiche, oltre che per una lenta composizione maturata nel corso degli anni, ed entro condizioni storiche complesse, il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo rappresenta uno dei testi fondamentali del primo Seicento, insieme all'Adone e alla Secchia rapita: e le immediate conseguenze della sua pubblicazione ne confermano la natura dirompente, sul piano scientifico e su quello letterario. Galileo, durante la stesura del dialogo, era ancora convinto di poter convertire le alte gerarchie ecclesiastiche al copernicanesimo con la teoria eliocentrica. Il suo obiettivo non era quello di accettare un compromesso fra i due dogmi, ma di propugnare la completa autonomia delle scienze naturali nell’ambito della teologia. Infatti: a. Il discorso scientifico non ha bisogno di autorità estranee ad esso. Attraverso i suoi personaggi copernicani Salviati e Sagredo, nel dialogo Galileo nominò spesso il coraggio del dubbio e la superiorità dei fatti sulle parole; b. In tutto il libro la ragione della scienza è vista con fiducia, mentre la vecchia metafisica è smascherata con l’arma dell’ironia; c. Per Galileo la cosa più importante era quella di divulgare la funzione della ragione: per questo il libro è considerato come un’opera pedagogica che serve a educare il lettore al ragionamento critico. Dal punto di vista ideologico il Dialogo metteva in discussione anche le autorità tradizionali. Per questo motivo subì la dura e intransigente reazione della Chiesa. Le scelte linguistiche di Galileo obbediscono all’intento fondamentale del Dialogo: raggiungere un vasto pubblico formato non solo da studiosi di professione, ma anche da intendenti, che si dilettano di studi scientifici. La lingua impiegata non è dunque il latino, ma il volgare, più adatto a divulgare e a difendere le nuove teorie. Inoltre la scelta di Galileo del genere dialogico e dell’uso del comico nella dimostrazione del copernicanesimo risponde a due principali obiettivi: • Alimentare nel lettore l’impressione che tutto il libro sia una neutrale discussione di due diverse teorie cosmologiche; • Intrattenere i lettori con una gradevole conversazione in cui le argomentazioni scientifiche siano accompagnate da situazioni teatrali e comiche. Al Discreto lettore Tutta l’avvertenza iniziale, rivolta al “discreto lettore”, risponde all’esigenza di sollecitare i tempi di stampa tranquillizzando la censura ecclesiastica. Il testo precede l’opera, fornendone una sorta d’introduzione, che appare rivolta a un destinatario, che assume la figura Tuttavia non bisogna credere che la corrente classicista fosse venuta del tutto meno. Un filone poetico classicista permane anche nel Seicento, ed infatti in genere si distingue tra: - Marinismo: poeti come Claudio Achillini, Girolamo Preti, Giuseppe Artale. Essi accolgono l’invito di Marino a mettere in discussione il modello petrarchesco, a sperimentare nuovi temi e nuove forme linguistiche, a inventare nuove metafore per stupire il lettore. - Antimarinismo: furono antimarinisti i poeti classicisti Gabriello Chiabrera e il ferrarese Fulvio Testi. La tendenza classicista, debole nella prima metà del secolo, si rafforzò notevolmente nella seconda metà andando a confluire nel movimento dell’Arcadia. GIOVAN BATTISTA MARINO Di origini napoletane, fu lo scrittore più significativo del nostro Seicento e rappresentò un modello imitato dagli scrittori dell'epoca in tutta Europa. Pochissimo è noto dei suoi primi anni: si sa della nascita nel 1569, di studi giuridici condotti senza entusiasmo, e, simmetricamente, di una passione letteraria contrastata dal padre. Frequentò gli ambienti di Matteo di Capua, principe di Conca, ed entrò in contatto con Giovan Battista Manso, due dei signori più impegnati nella promozione di una nuova cultura a Napoli. Matteo di Capua, inoltre, è anche proprietario di una straordinaria collezione di opere d'arte, che accende nel giovane poeta un interesse profondo, destinato a durare negli anni. Gli esordi poetici del Marino avvennero in un clima che prevedeva anche la lezione del naturalismo filosofico di Bernardino Telesio e la lezione approfondita nell'Accademia degli Svegliati. Il primo testo con cui Marino divenne celebre, a Napoli e fuori di Napoli, è una Canzone dei baci, immediato segnale della vena che alimenta la sua poesia. Si tratta di quella novità misurata di concetti e linguaggio che caratterizza la prima stagione della poesia mariniana. In parallelo a questi anni di formazione letteraria, Marino condusse un'esistenza all'insegna dell'oltranza: nel giro di un biennio, tra il 1598 e il 1600, venne per due volte condannato al carcere, per ragioni che vanno dai reati sessuali alla produzione di documenti falsi. Nel 1600, probabilmente con l'aiuto dei suoi protettori, riuscì ad evitare la seconda reclusione e lasciò Napoli. Si spostò verso Roma, centro della cultura italiana del tempo. Arrivato a Roma, Marino si guadagnò con rapidità la protezione di alcune delle famiglie più importanti: prima quella dei Crescenzi (Melchiorre Crescenzi è chierico di camera del papa), nel cui ambiente conosce Caravaggio; poi persino quella del cardinale Pietro Aldobrandini, nipote del papa Clemente VIII. È una scalata che conferma la sua straordinaria abilità di autopromozione, la sua capacità di farsi largo come protagonista di una nuova stagione poetica. Nel 1602 vennero pubblicate a Venezia, presso Ciotti, le Rime, dedicate al Crescenzi, e ottennero uno straordinario successo. Marino si rivelò al pubblico italiano come un autore dall'ingegno vivacissimo, con una serie di testi segnati da un felice equilibrio tra la tessitura fonica e la rete di metafore. Su un piano generale di strutture, le Rime del 1602 chiudono definitivamente con il modello del canzoniere unitario, sul modello petrarchesco, e vanno verso una divisione per capi, di ordine tematico, che era stata già avviata da Tasso e che viene così organizzata dal Marino, sin dal frontespizio: Amorose Lugubri Marittime Morali Boscherecce Sacre & Heroiche Varie Si tratta di una struttura duttile che consente un allargamento delle singole sezioni e un loro accostamento all'insegna della novità dei concetti poetici e della continua sperimentazione. Ad esempio, nelle Rime boscherecce Marino accosta tre sonetti su un usignolo, quattro indirizzati “All'Aure che soffiano nei boschi”, e molti sui diversi momenti degli amori tra pastori e ninfe. La raccolta del 1602 e le successive ristampe sancirono il ruolo di Marino quale guida della nuova generazione di letterati: arrivarono i riconoscimenti di Gabriello Chiabrera, che in una serie di lettere riconosce il nuovo magistero del napoletano. Per ottenere una piena consacrazione occorreva però la prova nel genere più alto dell'epica, in un confronto obbligato con il precedente di Tasso. Marino annunciò, proprio a margine delle Rime del 1602, un poema dal titolo di Gerusalemme distrutta, appunto in chiave agonistica con la Liberata. La Distrutta, che doveva raccontare della distruzione di Gerusalemme da parte dell'imperatore Tito nel 70 d.C., malgrado sia stata in più occasioni presentata come imminente, non vide la luce negli anni successivi, segnale chiaro di un disinteresse dell'autore. Marino si sentiva piuttosto portato all'esercizio su scala più contenuta, lontano dalle regole e dalle altezze stilistiche dell'epica. Nel 1605, infatti, in una lettera all'artista Bernardo Castello, annunciò di aver pronti cinque poemetti. Tra i libri annunciati spiccavano la presenza dell'Adone, qui ancora nella misura di un breve poemetto, e quella della Strage de gl'Innocenti, divisa in due libri. Contano però anche altri due aspetti. In primo luogo, la preoccupazione di Marino per le opposizioni dell'Inquisizione, ostacolo che sarebbe stato decisivo a Roma e che poteva essere aggirato con una stampa a Venezia, e con l'aiuto del cardinale Aldobrandini: segnale indiretto che i testi mariniani spingevano sul versante licenzioso, espressione di quella vena lasciva che sarà sempre presente nel Marino maggiore. In secondo luogo, l'incastro tra le prove poetiche e i disegni che sono richiesti al Castello, il quale per ogni opera avrebbe dovuto realizzare dei disegni su indicazione di Marino: una dimensione congiunta di parola e immagine che rappresenta una costante nella parabola in Marino e una caratteristica decisiva di tutta la prima stagione del Barocco italiano. Nel 1605, al seguito di Pietro Aldobrandini, Marino lasciò Roma e si trasferì a Ravenna, dove rimase negli anni successivi. Si trattava di un ambiente culturale assai meno vivace, che Marino cercò di alternare con viaggi a Venezia, a Genova, soprattutto a Bologna, entrando in contatto con letterati e artisti di primo piano: dopo la morte di Clemente VIII, del resto, la protezione dell'Aldobrandini cominciava a stargli stretta, e il poeta si mise alla ricerca di una nuova e più prestigiosa sistemazione cortigiana. L'occasione migliore venne offerta dalla celebrazione delle doppie nozze, nel febbraio del 1608, tra le due figlie di Carlo Emanuele I di Savoia e i principi delle casate d'Este e Gonzaga. Per i due matrimoni torinesi Marino compose due testi encomiastici (balletto delle Muse e soprattutto Il letto, dai tratti apertamente lascivi) e si dedicò poi a un prolungato omaggio indirizzato direttamente al duca: il Ritratto del serenissimo Don Carlo Emanuello, stampato a Torino nel 1608. Si trattava di una politica di encomio con cui Marino riuscì a mettersi subito in luce presso la corte torinese, anche perché, accanto agli omaggi alla casata Savoia, scrisse e fece circolare una serie di testi parodici contro Gasparo Murtola, con l'evidente intenzione di scalzarlo dalla posizione di poeta di corte. Lo scontro, iniziato forse in maniera scherzosa, divenne presto molto aspro e violento: Marino scrisse una serie di sonetti burleschi (oggi noti come Murtoleide), cui Murtola rispose o cercò di rispondere per le rime (sono i testi oggi noti come Marineide). Di fronte al moltiplicarsi dei sonetti, Murtola finì sommerso e decise di passare alle vie di fatto. Nel gennaio 1609 tese a Marino un agguato per strada e cercò di ucciderlo. Marino si salva miracolosamente, mentre il Murtola venne arrestato: l'episodio ha un'eco clamorosa, e vide Marino uscire da trionfatore, e per di più insignito del titolo di cavaliere dei santi Maurizio e Lazzaro, nomina assegnatagli da Carlo Emanuele. Il trasferimento a Torino alla fine del 1609 sembrava dunque l'ennesimo riconoscimento di un'eccellenza, ma in realtà nascondeva un versante in ombra, Marino lasciò frettolosamente Ravenna e il territorio dello Stato Pontificio perché era inseguito da un ordine del tribunale dell'Inquisizione che richiedeva un arresto e un trasferimento immediato a Roma. Accusato di aver composto «poesie oscene ed empie», Marino da qui in avanti dovette fronteggiare le pressioni dell'Inquisizione romana che spingeva per la prospettiva poco tranquillizzante di un ritorno a Roma. La protezione di Carlo Emanuele, da questo punto di vista, risultava una difesa decisiva; Tuttavia, Marino non si astenne ancora una volta da una condotta rischiosa. Già nei suoi primi mesi torinesi, infatti, scrisse dei testi poco riverenti verso il duca (una Gobbeide, sembrava dileggiare il profilo fisicamente non impeccabile di Carlo Emanuele), e per tutta risposta venne subito rinchiuso in prigione. La durata di questa reclusione, di oltre un anno, e la misura congiunta di un sequestro dei manoscritti, ci dicono la gravità dell'episodio. Marino si lamentò a più riprese nell'epistolario, protestò la sua innocenza, richiedendo il perdono del duca e la restituzione delle proprie carte. Allo stesso tempo, dalla prigione, continuò a scrivere lettere burlesche, ancora giocate tra l'osceno, l'irriverente o persino un registro di empietà che doveva essere molto rischioso per un poeta già inseguito dall'Inquisizione. Quando ritornò in libertà e in possesso dei suoi manoscritti, alla metà del 1612, si impegnò per pubblicare alcune delle opere a cui ormai lavorava da molti anni, opere che dovevano rafforzare l'immagine di uno scrittore giunto oltre i quaranta anni con all'attivo solo il successo ormai lontano delle Rime, e ora messo in ombra dalla minaccia dell'Inquisizione. All'inizio del 1614, in un passaggio decisivo, Marino pubblicò la terza parte delle sue rime, intitolata la Lira, nella quale raccoglieva le liriche composte negli anni dopo il 1602 e allo stesso tempo chiudeva la propria esperienza lirica. Rispetto all'esordio di inizio secolo, la Lira del 1614 presentava quella che viene definita una nuova maniera mariniana: conserva una struttura per capi (Amori per le liriche amorose, Lodi per i componimenti encomiastici, Lagrime per i testi in memoria, Divozioni per i testi sacri, e infine Capricci, di materia varia), ma offre ora dei testi in cui la ricerca di metafore e la pratica dei concetti in clausola diventano più marcate. alcune opere sacre dell'Aretino, il poema offre alcuni squarci descrittivi di straordinaria efficacia. Il poema non venne però terminato dal poeta e rimase inedito: verrà pubblicato solo alcuni anni più tardi, nel 1632. Nell'autunno del 1624, trasferitosi a Napoli, Marino si ammalò e trascorse in condizioni precarie le ultime settimane di vita. La leggenda vuole che, in punto di morte, avvenuta il 26 marzo 1625, avesse deciso di dare alle fiamme le tante opere inedite di marca lasciva che ancora conservava manoscritte, concludendo così con una morte pia una vita scandita da sregolatezze. Un ravvedimento in punto di morte che non bastò però a riscattare la sua immagine: nel 1627 l'Adone venne inserito nell'Indice dei libri proibiti, un decreto che relegò Marino e le sue opere maggiori in una zona di condanna e sospetto che si interruppe soltanto con gli studi del secondo Novecento. L’ADONE Quando arriva a stampa, nei primi mesi del 1623, l'Adone è un poema cui Marino sta lavorando da ormai trent'anni. Le prime testimonianze risalgono agli anni napoletani, quando alcuni scorci vengono composti nella corte di Matteo di Capua. A quell'altezza, e poi ancora per molti anni, l'Adone rimase però un poemetto, cioè un'opera abbastanza breve, composta da alcune centinaia di ottave, distribuita su tre canti e con una struttura semplice, in tre tempi: innamoramento, amori e morte. All’inizio era stato concepito come un poemetto idillico-mitolgico; poi divenne un vero e proprio poema formalmente appartenente al genere epico. In realtà, però, siamo di fronte a un poema di pace più che di guerra. Il privato e l’amore prevalgono ampiamente sul pubblico e sulla guerra. La sensualità idilliaca ha la meglio sulla drammaticità dell’epica. La svolta avviene all'altezza del 1614-1615, tra gli ultimi mesi italiani e la decisione di passare in Francia. Persa la partita italiana, Marino probabilmente decide di allargare il disegno del poema su Adone, muovendosi su una materia ovidiana, e soprattutto permettendosi degli azzardi che sarebbero stati rischiosi in Italia. Ad esempio, per l'ottava di esordio, che offre un'invocazione a Venere che ricorda il precedente di Lucrezio, De rerum natura. L’opera non segue un ordine narrativo consequenziale e rigoroso, ma procede attraverso digressioni ed episodi secondari, dando al poema un aspetto ridondante di colori e di vicende. Per questa sua inventiva essa sembra ispirarsi assai più all’Orlando Furioso che alla Gerusalemme Liberata. Il poeta inoltre prende a modello soprattutto le metamorfosi d’Ovidio, ma si rifà anche a numerosi autori latini, nonché a Poliziano, Pulci, ad autori minori del 1500. Quanto al linguaggio, esso non si rifà ai criteri sanciti da Bembo o al fiorentino teorizzato dall’accademia della Crusca, ma alla lingua “comune” dell’epoca, arricchita dall’invenzione di neologismi, latinismi e grecismi. Il poema si incentra sull'amore che lega Venere a Adone, un giovinetto bellissimo di stirpe regale: una favola mitologica, dunque, in opposizione alla materia storica che doveva caratterizzare un poema epico. L'elemento decisivo dell'Adone è però rappresentato dall'ampiezza: la storia dei due amanti, conclusa in poche decine di versi nelle Metamorfosi di Ovidio, diventa la base per il poema più lungo della letteratura italiana. Venti canti, oltre cinquemila ottave, oltre quarantamila versi (strofe di otto versi con uno schema di rima fisso: AB AB AB CC, si parla di ottava fiorentina; AB AB AB AB, si parla di ottava siciliana). L’opera può essere sintetizzata in cinque principali blocchi narrativi: - canti I-III: fase iniziale del poema; Cupido, per vendicarsi della madre, Venere, che lo ha battuto, la induce ad innamorarsi di un mortale, Adone, che arriva sull’isola di Cipro; l'incontro tra i due e l'innamoramento di Venere; - canti IV-VIII: i due amanti attraversano insieme il giardino dei sensi, e infine consumano la loro unione sessuale nel canto VIII, canto significativamente intitolato I trastulli; - canti IX-XI: dopo l'unione sessuale e le nozze, Venere e Adone visitano i cieli della Luna, di Mercurio, di Venere, osservando dall'alto le meraviglie del mondo; - canti XII-XVI: i due amanti vengono separati dall'arrivo di Marte; inizia una serie di avventure e magie che vede Adone prima trasformato in un pappagallo, poi venire rapito da ladroni e infine ricongiungersi con Venere, e persino essere eletto re di Cipro. - canti XVII-XX: Venere si allontana da Cipro e, nel canto XVIII, Adone viene ucciso da un cinghiale durante una battuta di caccia. II poema si chiude con una lunga celebrazione e con giochi in onore del giovinetto, trasformato in anemone. Anche questa breve sintesi del lungo racconto offre la misura di un distacco dai paradigmi dell'epica, con la scelta mariniana indirizzata invece verso quello che viene presentato come un poema di pace. Un cambio di indirizzo che culmina anche nella descrizione del protagonista, Adone, un santieroes dai tratti femminci, per larghi tratti ricettore passivo di quanto accade intorno a lui, dall'amore di Venere alla gelosia di Marte. Bellissimo e quasi astratto, Adone incarna alla perfezione la scelta di una narrazione sensuale da parte dell’autore, mirata soprattutto ai piaceri della passione amorosa. Il poema è interessante non solo per i singoli dettagli ma per il suo disegno complessivo che scopre un intento allegorico. Non si tratta tuttavia di un allegoria come quella classica e medievale. L’allegoria che più interessa a Marino è un’altra: è l’allegoria moderna, più sfuggente perché niente affatto rispondente a una chiave convenzionale e frutto della visione concettuale del singolo artista. Sulla storia principale si innestano una serie di episodi che Marino aggiunge progressivamente negli anni, passando dalla struttura in tre tempi a una narrazione che accoglie digressioni e racconti secondari, più o meno collegati alla favola principale. Si tratta di un'altra divaricazione rispetto al genere epico: l'Adone segna la perdita di una narrazione compatta e logicamente coerente: il principio costruttivo dell'Adone è l'aggiunta che prima consolida e sorregge una favola esile, e finisce poi per renderla imponente. Le aggiunte che intervengono negli anni, a partire dal 1615, accostano alla linea principale del poema mitologico scorci più vicini al poema esameronico, al poema cavalleresco e persino al romanzo greco. L'Adone dunque non rappresenta un’enciclopedia, struttura che prevede esaustività e tassonomia, ma una collezione di materiali letterari che Marino riprende dalla sua sterminata cultura e intreccia intorno alle storie di Venere e Adone. In questo senso, di raccolta e rifusione di tradizioni anche lontane, rappresenta davvero il poema simbolo della stagione barocca. Anche per questa sua natura aggregata, l'Adone rimane un testo di difficile interpretazione. Sulla base di diversi passaggi, negli ultimi anni è stata proposta la lettura dell'Adone come poema «libertino», tra irreligiosità e naturalismo estremo. Nella scrittura di Marino non sembra però di poter scorgere la proposta organica di una teoria filosofica, ma piuttosto la pratica divertita dell'intersezione tra sacro e profano. Nell'Adone domina un ideale di classicismo esclusivo, la possibilità di trapiantare e trasfigurare ogni cosa nel terreno della letteratura e di celebrare il trionfo della letteratura stessa. Una lucida percezione storica (sui tempi di crisi del primo Seicento in Italia) e, soprattutto, quell'irriverenza intima e prepotente, che è tratto stabile della parabola di Marino, accompagnano silenziosamente la meraviglia della parola poetica che scandisce gli episodi più belli del poema. Canto I ALLEGORIA Nella sferza di rose e di spine con cui Venere batte il figlio si figura la qualità degli amorosi piaceri, non giamai discompagnati da’ dolori. In Amore che commove prima Apollo, poi Vulcano e finalmente Nettuno, si dimostra quanto questa fiera passione sia potente per tutto, eziandio negli animi de’ grandi. In Adone che con la scorta della Fortuna dal paese d’Arabia sua patria passa all’isola di Cipro, si significa la gioventù che sotto il favore della prosperità corre volentieri agli amori. Sotto la persona di Clizio s’intende il signor Giovan Vincenzo Imperiali, gentiluomo genovese di belle lettere, che questo nome si ha appropriato nelle sue poesie. Nelle lodi della vita pastorale si adombra il poema dello Stato rustico, dal medesimo leggiadramente composto. Amore, battuto da una frusta di rose intrecciate, che aveva nodi di spine, da Venere, fugge adirato e piangente prima da Apollo, poi da Vulcano e infine da Nettuno. Commuove tutti e tre con la sua bellezza e i piaceri d’amore che non sono mai disgiunti dal dolore. Adone, bel giovane nel fiore degli anni, spinto dalla volubile Fortuna, dalla nascente Arabia arriva a Cipro accolto da Clizio (allegoria del nobile letterato Giovanni Vincenzo Imperiale). ARGOMENTO Passa in picciol legnetto a Cipro Adone da le spiagge d’Arabia, ov’egli nacque. Amor gli turba intorno i venti e l’acque, Clizio pastor l’accoglie in sua magione. Adone, dai lidi dell’Arabia, si trasferisce in una piccola barchetta a Cipro dove nacque. Amore gli scatena contro una tempesta e il pastore Clizio lo accoglie nella sua dimora. 1 Io chiamo te, per cui si volge e move la più benigna e mansueta sfera, santa madre d’Amor, figlia di Giove, bella dea d’Amatunta e di Citera; te, la cui stella, ond’ogni grazia piove, de la notte e del giorno è messaggiera; te, lo cui raggio lucido e fecondo serena il cielo et innamora il mondo, 2 tu dar puoi sola altrui godere in terra di pacifico stato ozio sereno. Per te Giano placato il tempio serra, addolcito il Furor tien l’ire a freno; poiché lo dio de l’armi e de la guerra spesso suol prigionier languirti in seno, e con armi di gioia e di diletto guerreggia in pace et è steccato il letto. 3 Dettami tu del giovinetto amato le venture e le glorie alte e superbe; 1 Io ti chiamo, santa madre di Amore, figlia di Giove, per la quale la più dolce e calma sfera si gira e si muove, bella dea d’Amatunta e di Citera; chiamo te, la cui stella, dalla quale proviene ogni grazia, è annunciatrice della notte e del giorno; chiamo te, il cui chiaro e ispiratore raggio rischiara il cielo e fa innamorare il mondo. 2 Solo tu puoi far godere gli altri, sulla terra, di uno stato di ozio pacifico e sereno. Giano, calmato, ha chiuso per te il tempio e la Rabbia, addolcita, frena la sua ira. Il dio delle armi e della guerra (Marte) spesso è solito stare nel tuo seno e combatte con gioia con armi felici e dilettevoli, e il letto viene chiuso. 3 Tu raccontami i casi fortunati e la gloria alta del tuo amato giovinetto. 16 Che più? Fin de le stelle il sommo duce questo malnato di sforzar si vanta, e spesso a stato tale anco il riduce ch’or in mandra or in nido, or mugghia or canta. Un pestifero mostro, orbo di luce, avrà dunque fra noi baldanza tanta? Un, che la lingua ancor tinta ha di latte, cotanto ardisce?» E ciò dicendo il batte. 17 Con flagello di rose insieme attorte ch’avea groppi di spine ella il percosse, e de’ bei membri, onde si dolse forte, fe’ le vivaci porpore più rosse. Tremaro i poli e la stellata corte a quel fiero vagir tutta si mosse; mossesi il ciel, che più d’Amor infante teme il furor che di Tifeo gigante. 18 De la reggia materna il figlio uscito, con quello sdegno allor se n’allontana con cui soffiar per l’arenoso lito calcata suol la vipera africana, o l’orso cavernier quando ferito si scaglia fuor de la sassosa tana, e va fremendo per gli orror più cupi de le valli lucane e de le rupi. 19 Sferzato e pien di dispettosa doglia, fuggì piangendo a la vicina sfera, là dove cinto di purpurea spoglia, gran monarca de’ tempi, il Sole impera, e ’n su l’entrar de la dorata soglia, stella nunzia del giorno e condottiera, Lucifero incontrò, che ’n oriente apria con chiave d’or l’uscio lucente. 20 E ’l Crepuscolo seco, a poco a poco uscito per la lucida contrada sovra un corsier di tenebroso foco, spumante il fren d’ambrosia e di rugiada, di fresco giglio e di vivace croco forier del bel mattin spargea la strada, e con sferza di rose e di viole affrettava il camino innanzi al Sole. 21 La bella luce, che ’n su l’aurea porta aspettava del Sol la prima uscita, era di Citerea ministra e scorta, d’amoroso splendor tutta crinita. Per varcar l’ombre innanzi tempo sorta già la biga rotante avea spedita, e ’l venir de la dea stava attendendo, quando il fier pargoletto entrò piangendo. 22 Pianse al pianger d’Amor la mattutina del re de’ lumi ambasciadrice stella, e di pioggia argentata e cristallina 16 E che altro? Questo maledetto si vanta di costringere ad amare persino il supremo capo delle stelle, e spesso lo riduce ora in un toro o in un nido, che ora muggisce ora civetta. Un mostriciattolo terribile, cieco, dovrà essere così baldanzoso tra noi? Uno che ardisce di fare tanto, che ha la lingua ancora sporca di latte?” – Dicendo così lo picchia. 17 Con una frusta di rose intrecciate, che aveva nodi di spine, lei lo percosse, e fece più sanguinanti i vivaci rossori, e di ciò si rammaricò molto. Si mossero i poli e la volta dei cieli, a quel forte vagito tutto si mosse; si mosse il cielo che teme più la rabbia di Amore che il furore del gigante Tifeo. 18 Cupido esce dalla dimora di Venere, con quella rabbia con cui la vipera africana calpestata sulla spiaggia soffiando sputa il veleno, o quella dell’orso delle caverne, quando ferito si scaglia fuori dalla grotta e va ruggendo per gli anfratti più scuri delle boscose valli e delle rupi. 19 Picchiato e pieno di vendicativa rivalsa, fuggì piangendo sul Sole, là dove il gran re del tempo, il Sole, comanda circondato da un disco rosso, ed entrando per la soglia dorata del Sole, incontrò Lucifero, la stella annunciatrice e portatrice del giorno, che apriva con la chiave dorata la dorata entrata dell’Oriente. 20 E con lei il crepuscolo, uscito a poco a poco per il luminoso paese sopra un cavallo di colore scuro con il morso che emette ambrosia e rugiada, spargeva per strada il giglio e il colorito croco, che annunciava il mattino e con una frusta di rose e viole affrettava l’uscita del Sole. 21 La bella luce, che sulla porta dorata aspettava il sorgere del sole, era la ministra e la guida di Citerea, tutta splendente di amore. Per scacciare le ombre prima del tempo già aveva mandato avanti la biga del Sole e stava attendendo la venuta della dea, quando il bambino arrabbiato entrò piangendo. 22 La stella mattutina, annunciatrice del giorno, del Sole, pianse per il pianto d’Amore e bagnò di pianto limpido e cristallino rigò la faccia rugiadosa e bella, onde di vive perle accolte in brina potè l’urna colmar l’Alba novella, l’Alba che l’asciugò col vel vermiglio l’umido raggio al lagrimoso ciglio. 23 Ricoverato al ricco albergo Amore, trovò che, posto a’ corridori il morso, già s’era accinto il principe de l’ore con la verga gemmata al novo corso, e i focosi destrier, sbuffando ardore, l’altere iube si scotean su ’l dorso e, sdegnosi d’indugio, il pavimento ferian co’ calci e co’ nitriti il vento. 24 Sta quivi l’Anno sovra l’ali accorto, che sempre il fin col suo principio annoda e ’n forma d’angue innanellato e torto morde l’estremo a la volubil coda, e, qual Anteo caduto e poi risorto, cerca nova materia ond’egli roda; v’ha la serie de’ Mesi e i Dì lucenti, i lunghi e i brevi, i fervidi e gli algenti. 25 L’aurea corona, onde scintilla il giorno, del Tempo gli ponean le quattro figlie. Due schiere avea d’alate ancelle intorno, dodici brune e dodici vermiglie. Mentre accoppiavan queste al carro adorno gli aurati gioghi e le rosate briglie, gli occhi di foco il Sol rivolse e ’l pianto vide d’Amor, che gli languiva a canto. 26 Era Apollo di Venere nemico e tenea l’odio ancor nel petto vivo, da che lassù de l’adulterio antico publicò lo spettacolo lascivo, quando accusò del talamo impudico al fabro adusto il predator furtivo e, con vergogna invidiata in cielo, ai suoi dolci legami aperse il velo. 27 Or che gli espone Amor sua grave salma: «E che sciocchi dolor (dice) son questi? Se’ tu colui che litigar la palma in riva di Peneo meco volesti? Tu tu, mente del mondo, alma d’ogni alma, vincitor de’ mortali e de’ celesti, or con strale arrotato e face accesa vendicar non ti sai di tanta offesa? 28 Quanto fora il miglior, sì come afflitto di lagrime infantili il volto or bagni, volgere il duolo in ira e ’l dardo invitto aguzzar nel’ingiuria onde ti lagni? Fa’ che con petto lacero e trafitto per te pianga colei per cui tu piagni; la faccia bagnata di rugiada per cui poté abbellire la nuova alba di perle trasformate in brina, l’Alba che l’asciugò col velo rosso la lacrima dall’occhio che piangeva. 23 Amore, ripresosi nel fastoso albergo, scoprì che, dopo aver messo le briglie ai cavalli, già il Tempo si era preparato al nuovo giorno con lo scettro tempestato di preziosi e i focosi cavalli sbuffando con la loro impazienza, scuotevano le loro criniere e, stanchi di aspettare, fendevano il pavimento con gli zoccoli e l’aria coi nitriti. 24 Qua è pronto a scattare e a uscire l’anno con le sue ali, il quale unisce sempre la fine col suo inizio e come un serpente che si gira a guida d’anello e ritorto morde la parte finale della sgusciante coda e come Anteo sconfitto e poi risorto, cerca nuova materia per andare avanti, vi è la serie dei mesi e dei giorni lucenti, quelli lunghi e brevi, quelli caldi e freddi. 25 Le quattro stagioni figlie del Tempo, gli ponevano sulla testa la corona d’oro. Aveva due schiere di ancelle alate intorno, dodici scure e dodici chiare. Mentre queste preparavano il carro, i gioghi dorati e le briglie di rosa, il Sole girò gli occhi infuocati e vide il pianto d’Amore, che languiva accanto a lui. 26 Apollo era nemico di Venere e serbava in sé l’odio da quando lassù fece spettacolo pubblico e lascivo dell’antico adulterio, quando accusò Vulcano come ladro del non casto talamo e, con vergogna invidiata al cielo, rese pubblico questo amore. 27 Ora Amore gli espone il suo grave peso e dice: “Che stupidi dolori sono mai questi? Sei tu colui che volesti disputare con me, sulle rive del Peneo, la palma? Proprio tu, la mente del mondo, anima di ogni anima, vincitore degli dei e dei mortali, non sei capace di vendicare una tale offesa o con l’appuntita freccia o con la fiaccola accesa? 28 Dato che, triste, bagni ora il viso con infantili lacrime, quanto aspetterà il campione a volgere la sofferenza in rabbia e travolgere con l’invincibile dardo l’offesa di cui ti lamenti? Fai in modo che colei per la quale tu piangi, pianga anch’ella per causa tua; ché, se vorrai, non senza gloria e nome seguiranne l’effetto; ascolta come. 29 Là ne la region ricca e felice d’Arabia bella Adone il giovinetto, quasi competitor de la fenice, senza pari in beltà vive soletto. Adon nato di lei cui la nutrice col proprio genitor giunse in un letto, di lei che, volta in pianta, i suoi dolori ancor distilla in lagrimosi odori. 30 Schernì la scelerata il re malsaggio accesa il cor di sozzo foco indegno, ond’egli poi per così grave oltraggio, quant’ella già d’amore, arse di sdegno, e le convenne in loco ermo e selvaggio girne ad esporre il mal concetto pegno; pegno furtivo, a cui la propria madre fu sorella in un punto, avolo il padre. 31 Fattezze mai sì signorili e belle non vide l’occhio mio lucido e chiaro. Sventurato fanciullo, a cui le stelle prima il rigor che lo splendor mostraro: contro gli armò crude influenzie e felle, ancor da lui non visto, il cielo avaro, poiché, mentre l’un sorse e l’altra giacque, al morir de la madre il figlio nacque. 32 Qual trofeo più famoso? E qual altronde spoglia attendi più ricca o più superba, se per costui, ch’or prende a solcar l’onde, il cor le ferirai di piaga acerba? Dolci le piaghe fian, ma sì profonde ch’arte non vi varrà di pietra o d’erba. Questa fia del tuo mal degna vendetta: spirto di profezia così mi detta. 33 Più oltre io ti dirò. Mira là dove a caratteri egizi in note oscure intagliati vedrai per man di Giove i vaticini de l’età future: havvi quante il destino al mondo piove da’ canali del ciel sorti e venture, che de’ pianeti al numero costrutte sono in sette metalli incise tutte. 34 Quivi ciò che seguir deggia di questo legger potrai, quasi in vergate carte: prole tal nascerà del bell’innesto che non ti pentirai d’avervi parte. In lei, pur come gemme in bel contesto, saran tutte del ciel le grazie sparte; e questa, o per tai nozze a pien beato, al tiranno del mar promette il fato. 35 Se ciò farai, non pur n’andrà in oblio perché, non senza fama e senza gloria, se vorrai, ne seguirà la conseguenza: ascolta come. 29 Là nella regione felice e rigogliosa della bella Arabia, il giovane Adone, quasi paragonabile alla fenice vive da solo, irraggiungibile nella bellezza, Adone nato da colei la cui nutrice fece giacere nel letto insieme al padre, da colei che, tramutata in pianta, piange ancora le sue pene in lacrime profumate. 30 La scellerata si prese gioco del re poco savio, accesasi il cuore di una sporca passione per cui egli, per l’oltraggio tanto grave, quanto ella ardeva d’amore, ardeva di rabbia e a lei fu necessario andare in un luogo solitario e selvaggio, per partorire il frutto di una cattiva unione, frutto nascosto rispetto al quale la madre fu allo stesso tempo sorella, e il padre nonno. 31 Il mio occhio splendente e chiaro non vide mai Fattezze così nobili e belle. Povero fanciullo, a cui il destino mostrò prima l’amaro rispetto allo splendore: contro di lui il cielo amaro gli puntò crudeli e cattivi segni, che lui non aveva ancora visto, dato che, mentre l’uno nasceva e l’altro moriva, il figlio nacque alla morte della madre. 32 Quale vittoria più celebre e quale bottino più ricco o più altero aspetti, se tramite questi, che comincia ora a navigare, ferirai il cuore con una profonda ferita? Le ferite saranno dolci, ma tanto profonde che non saranno sanabili in alcun modo. Questa sarà la giusta vendetta del tuo male: così mi dice uno spirito profetico. 33 Io ti dirò altro. Guarda là dove in modi difficili e oscuri vedrai scolpiti per mano di Giove le anticipazioni del futuro: vi sono i destini e gli accadimenti che il fato fa piovere dal cielo, che sono incisi tutti in sette metalli, seguendo il numero dei pianeti. 34 Qui troverai scritto tutto quello che accadrà, quasi come su carte scritte: nascerà una tale creatura di bell’aspetto, che tu non ti pentirai di quell’unione. In quella, a guisa di gemme in un bel quadro, saranno date tutte le grazie sparse del cielo e questa fanciulla il destino vuole come sposa del re dei mari, e per tali nozze apparirà felice. 35 Se farai ciò, non soltanto dimenticheremo d’ogni arredo marin, picciola barca. 48 Et ecco varia d’abito e di volto strania donna venir vede per l’onde, ch’ha su la fronte il biondo crine accolto tutto in un globo e quel ch’è calvo asconde; vermiglio e bianco il vestimento sciolto con lieve tremolio l’aura confonde; lubrico è il lembo e quasi un aer vano, che sempre a chi lo stringe esce di mano. 49 Ne l’ampio grembo ha de la copia il corno e ne la destra una volubil palla; fugge ratto sovente e fa ritorno per le liquide vie scherzando a galla; alato ha il piede e più leggiera intorno che foglia al vento si raggira e balla e, mentre move al ballo il piè veloce, in sì fatto cantar scioglie la voce: 50 «Chi cerca in terra divenir beato, goder tesori e possedere imperi, stenda la destra in questo crine aurato, ma non indugi a cogliere i piaceri, ché, se si muta poi stagione e stato, perduto ben di racquistar non speri: così cangia tenor l’orbe rotante, ne l’incostanza sua sempre costante». 51 Così cantava; indi, arrestando il canto, con lieto sguardo al bel garzone arrise, et a lo scoglio avicinata intanto spalmò quel legno e ’n sul timon s’assise. «Adon, seguimi (disse) e vedrai quanto cortese stella al nascer tuo promise; prendi la treccia d’or che ’n man ti porgo, né temer di venirne ov’io ti scorgo. 52 Benché vulgare opinione antica mi stimi un idol falso, un’ombra vana, e cieca e stolta e di virtù nemica m’appelli, instabil sempre e sempre insana, e tiranna impotente altri mi dica vinta talor da la prudenza umana, pur son fata e son diva e son reina, m’ubbidisce Natura, il ciel m’inchina. 53 Chiunque Amore o Marte a seguir prende convien che ’l nome mio celebri e chiami; chi solca l’acqua e chi la terra fende, o s’alcun v’ha ch’onore e gloria brami, porge preghi al mio nume e voti appende et io dispenso altrui scettri e reami; toglier posso e donar tutto ad un cenno e quanto è sotto il sol reggo a mio senno. 54 Me dunque adora e ’n su l’eccelsa cima de la mia rota ascenderai di corto; d’ogni attrezzo marittimo, una piccola barca. 48 Ed ecco, con l’abito e il volto cangiante, vede arrivare tra le onde una strana donna, che ha raccolto sulla fronte, tutta in una crocchia, la bionda capigliatura e nasconde la nuca; il vestito ampio, rosso e bianco, sciolto fende l’aria con un vento leggero; il lembo è sfuggente quasi come un venticello, che scappa dalla mano a chi prova a stringerlo. 49 Da una parte ha la cornucopia, nella destra un globo instabile; a volte scappa veloce e ritorna, scherzando a galla per l’acqua; ha il piede alato e danza più leggera d’una foglia al vento e, mentre danza, comincia a parlare in un tale canto: 50 “Chi prova a diventare felice sulla terra, a godere dei tesori e a possedere imperi, passi la sua mano destra tra questi capelli dorati, ma non si attardi a prendere i piaceri, poiché, se dopo il tempo e la condizione cambiano, non speri di riottenere i beni perduti: il globo rotante così cambia voglia, sempre costante nella sua incostanza.” 51 Ella cantava così; quindi, smettendo di cantare, sorrise gioiosamente al bel giovinetto, e, avvicinatasi intanto a quello scoglio, rimise la barca in mare e si sedette sul timone. Disse: “Seguimi, Adone, e vedrai cosa promise la benevola stella alla tua nascita; afferra con la mano le treccia d’oro che ti porgo, e non aver paura di venire dove io ti porto. 52 Benché l’antica opinione del popolo mi ritenga un fallace idolo, mi chiami ombra fatua, cieca e stupida e nemica della virtù, e altri mi dicano che sono sempre instabile, sempre pazza e tiranno senza potere, vinto talvolta dalla prudenza umana, io sono magica, una dea e regina, la natura mi segue e il cielo s’inchina a me. 53 Chiunque cominci a seguire Amore o Marte, è necessario che celebri e invochi il mio nome; chi naviga e chi coltiva e se c’è qualcuno che desideri ardentemente onore e fama, fa preghiere alla mia divinità e dedica un voto e io dono ad altri scettri e reami; posso riprendere e regalare tutto ad un mio cenno e tutto quello che sta sotto il sole governo secondo la mia volontà. 54 Venerami or dunque e arriverai brevemente sull’eccelsa cima della mia ruota; per me nel trono, onde ti trasse in prima l’empio inganno materno, or sarai scorto; sol che poi dove il fato or ti sublima sappi nel conservarti essere accorto, ché spesso suol con preveder periglio romper fortuna rea cauto consiglio.» 55 Tace ciò detto et egli, vago allora di costeggiar quel dilettoso loco, entra nel legno e de l’angusta prora i duo remi a trattar prende per gioco. Et ecco al sospirar d’agevol ora s’allontana l’arena a poco a poco, sì che mentr’ei dal mar si volge ad essa par che navighi ancor la terra istessa. 56 Scorrendo va piacevolmente il lido mentr’è placido e piano il molle argento, e da principio del suo patrio nido rade la riva a passo tardo e lento, indi a l’instabil fé del flutto infido sé stesso crede e si commette al vento, lunge di là dov’a morir va l’onda e con roco latrar morde la sponda. 57 Trasparean sì le belle spiagge ondose, che si potean de l’umide spelonche ne le profonde viscere arenose ad una ad una annoverar le conche. Zefiri destri al volo, aure vezzose l’ali scotean: ma tosto lor fur tronche, il mar cangiossi, il ciel ruppe la fede: oh malcauto colui ch’ai venti crede. 58 O stolto quanto industre, o troppo audace fabro primier del temerario legno, ch’osasti la tranquilla antica pace romper del crudo e procelloso regno; più ch’aspro scoglio e più che mar vorace rigido avesti il cor, fiero l’ingegno, quando sprezzando l’impeto marino gisti a sfidar la morte in fragil pino. 59 Per far una leggiadra sua vendetta Amor fu solo autor di sì gran moto; Amor fu ch’a pugnar con tanta fretta trasse turbini e nembi, Africo e Noto. Ma de la stanca e misera barchetta fu sempr’egli il poppiero, egli il piloto; fece vela del vel, vento con l’ali, e fur l’arco timon, remi gli strali. 60 Da la madre fuggendo iva il figliuolo quasi bandito e contumace intorno, perché, com’io dicea, vinto dal duolo, di fanciullesca stizza arse e di scorno. Né perché poscia il richiamasse, il volo grazie a me ora sarai riportato sul tuo trono, dal quale ti spodestò l’ignobile inganno materno; solo che devi sapere che, dove ora il fato ti eleva, dovrai essere attento nel mantenerti, poiché spesso il previdente senno è solito andare contro l’avversa fortuna prevedendo il pericolo.” 55 Detto ciò tacque e lui, desideroso allora di approdare a quel luogo piacevole, sale sulla barca e comincia ad impugnare i due remi della stretta prua come per gioco. Ed ecco che in poco tempo la spiaggia si allontana a poco a poco, così mentre lui si gira a guardarla, distogliendo lo sguardo dal mare, sembra che la sia la stessa terra a navigare ancora. 56 Il lido passa tranquillamente mentre il delicato fiume d’argento è calmo e tranquillo e costeggia dall’inizio, con andatura lenta e placida, la riva della sua terra natia, per cui egli si crede e si paragona al vento e all’instabile volere dell’infida corrente, lontano là dove l’onda s’infrange e con suono cupo sulla sponda. 57 Le belle spiagge ondulate erano tanto chiare, che si potevano contare, una ad una, le conchiglie nelle profonde caverne arenose. I venti erano adatti al volo, le bizzarre aure scuotevano le ali: ma non appena cessarono, il mare cambiò, il cielo perse il sereno: oh, malaugurato colui che confida nei venti. 58 O stupido quanto industrioso, o troppo audace primo creatore della temeraria barca, che avesti il coraggio di infrangere l’antica calma del fiero e pericoloso mare; avesti il cuore più duro del coriaceo scoglio e più dell’insaziabile mare, l’ingegno fiero, quando andasti a sfidare la morte, non avendo paura della forza del mare, sulla fragile barca di pino. 59 Amore fu l’unico autore di tale sommovimento per compiere la sua dolce vendetta; fu Amore che portò a combattere con tale velocità i venti furiosi e le nuvole, i venti del sud e del nord. Ma fu sempre lui il capitano, il pilota della piccola e semplice barchetta; il suo velo fece da vela, con le ali creò vento, e l’arco fu il timone, le frecce i remi. 60 Il piccolo figlio, scappando dalla madre come se fosse un ladro e un esule lì intorno, poiché, come dicevo, vinto dalla colpa, arse di rabbia puerile e di vergogna. Non volle mai fermare il suo volo, né perché allora lo avessero richiamato, né per tornare indietro e fermar volse giamai né far ritorno, e ’n tal dispetto, in tant’orgoglio salse che di vezzo o pregar nulla gli calse. 61 Per gli spazi sen gìa de l’aria molle scioccheggiando con l’aure Amor volante, e dettava talor rabbioso e folle tragiche rime a più d’un mesto amante; talor lungo un ruscello o sovra un colle piegava l’ali e raccogliea le piante e, dovunque ne giva, il superbetto rubava un core o trapassava un petto. 62 «Non è questo lo stral possente e fiero ch’al rettor de le stelle il fianco offese? Per cui più volte dal celeste impero l’aureo scettro deposto in terra scese? Quel ch’al quinto del ciel nume guerriero spezzò, passò l’adamantino arnese? Quel che punse in Tessaglia il biondo dio, superbo sprezzator del valor mio? 63 Questa la face è pur cui sola adora, nonché la terra e ’l ciel, Stige e Cocito, che strugger fe’, che fe’ languir talora il signor de le fiamme incenerito, quella da cui non si difese ancora di Teti il freddo et umido marito, che tra’ gelidi umori infiamma i fonti, tra l’ombre i boschi e tra le nevi i monti. 64 Et or costei, da cui con biasmo eterno mill’onte gravi io mi soffersi e tacqui, perché dee le mie forze aver a scherno, seben dal ventre suo concetto io nacqui? Dunque andrà da que’ lacci il cor materno libero, a cui, nonch’altri, anch’io soggiacqui? Arse per Marte, è ver, ma questo è poco, lieve piaga fu quella e debil foco. 65 Altro ardor più penace, altra ferita vo’ che più forte al cor senta pur anco. Si vedrà ch’ella istessa ha partorita la vipera crudel, che l’apre il fianco. Degg’io sempre onorar chi più m’irrita? Forse per tema il mio valor vien manco? No no, segua che può.» Così dicea l’implacabil figliuol di Citerea. 66 Mentre che quinci e quindi, or basso or alto vola e rivola il predator fellone, come prima lontan dal verde smalto vede in picciol legnetto il vago Adone subitamente al disegnato assalto l’armi apparecchia e l’animo dispone e, tutto inteso a tribular la madre, vassene in Lenno a la magion del padre. finì che, in tale cattiveria e in tanto orgoglio, non gli importava di chiedere nulla con dolcezza o preghiera. 61 Amore che volava, scherzando con le Auree, per gli spazi della tranquilla aria talora dedicava, arrabbiato e impazzito, tristi rime a più d’un amante triste; talvolta lungo un ruscello o su di un colle, planava e raccoglieva le piante e, dovunque andasse, il piccolo superbo spezzava un cuore o faceva innamorare. 62 “Non è proprio questa la freccia forte e gagliarda che trapassò il fianco di Giove? per cui, più di una volta, posato lo scettro dorato, scese sulla terra dall’impero celeste? Colui che piegò il dio della guerra ad una quinta parte del cielo, passò l’arnese di diamante? Quella che punse il biondo dio in Tessaglia, che negava superbamente il mio valore? 63 Questa fiaccola è la sola per cui adorano, non solo la terra e il cielo, lo Stige e il Cocito, che fa tremare, che talvolta fa languire incenerito il signore delle fiamme (Vulcano), quella fiaccola dalla quale neppure si difese dal freddo il gelido marito di Teti (Peleo), che ingrossa le fonti tra le gelide acque, i boschi tra le ombre e i monti tra le nevi. 64 E ora costei, dalla quale io subii e tenni in silenzio, con eterno biasimo, mille gravi offese, perché deve desiderare i miei poteri, sebbene io nacqui da lei? Il cuore materno si libererà, dunque, da quei lacci, ai quali, come capitò ad altri, anche io fui legato? Vero, arse d’amore per Marte, ma ciò è poco, quella fu una piaga debole e un piccolo fuoco. 65 Voglio che un altro ardore più doloroso, un’altra ferita senta anche adesso il cuore. Verrà notato che lei stessa ha generato la crudele vipera, che le squarcia il fianco. Posso sempre onorare, io, chi mi irrita di più? Forse il mio valore manca per paura? Giammai, continui ad andare…”. Così parlava l’implacabile figlio della dea di Cipro. 66 Mentre il mascalzone cacciatore vola e continua a volare qui e lì, ora basso ora alto, non appena vede lontano da terra il bell’Adone sulla piccola barca, prepara subito le armi al pianificato attacco e prepara l’animo, e tutto concentrato a dar problemi alla madre, se ne va alla casa del padre a Lenno. 67 Nella fucina fuligginosa e dolorosa per dar effetto a quel ch’ha nel disegno, pon gli stromenti in opera e l’ingegno. 80 Tosto che ’l ferro è raffreddato, in prima sbozza il suo lavorìo rozo et informe, poi, sotto più sottil minuta lima, con industria maggior gli dà le forme; l’arrota intorno e lo forbisce in cima, applicando al pensier studio conforme; col foco alfin l’indora e col mordente, e fa l’acciaio e l’or terso e lucente. 81 Poi che l’egregio artefice a lo strale per tutto il liscio e ’l lustro ha dato a pieno, n’arma il fanciullo un’asticciuola frale, ma che trafige ogni più duro seno; gl’impenna il calce di due picciol ale e ’l tinge di dolcissimo veleno e, tutto pien d’una superbia stolta, pon la caverna e i lavoranti in volta. 82 Va de la dea che generaro i flutti il baldanzoso e temerario figlio spiando intorno, e i ferramenti tutti de la scola fabril mette in scompiglio; or de’ ciclopi mostruosi e brutti la difforme pupilla e ’l vasto ciglio, or il corto tallon del piè paterno prende con risi e con disprezzi a scherno. 83 Veggendo alternamente arsicci e neri pestar ferro con ferro i tre gran mostri: «Troppo son (dice) deboli e leggieri a librar le percosse i polsi vostri; omai con colpi assai più forti e fieri questa mano a ferir v’insegni e mostri; impari ognun da la mia man, che spezza qualunque di diamante aspra durezza». 84 Volto a colui, ch’ha fabricato il telo soggiunge poscia: «In questa tua fornace le fiamme son più gelide che gelo, altro ardor più cocente ha la mia face». Tolto indi in mano il fulmine del cielo, e sciolto il freno a l’insolenza audace, in cotal guisa, mentre il vibra e move, prende le forze a beffeggiar di Giove: 85 «Deh quanto, o tonator, che da le stelle fai sdegnoso scoppiar le nubi orrende, più de la tua, ch’a spaventar Babelle dal ciel con fiero strepito discende, atta sola a domar genti rubelle, senza romor la mia saetta offende; tu de’ monti, io de’ cori abbiam le palme, l’una fulmina i corpi e l’altra l’alme». 86 Depon l’arme tonante, e ricercando per realizzare il suo progetto. 80 Non appena il ferro si è raffreddato, dapprima rifinisce il suo lavoro rozzo e informe, poi, per opera di una più sottile lima, gli dona una forma con maggiore impegno; l’arrotonda intorno e la rende appuntita sulla cima, applicando un impegno adeguato al progetto; infine, la rende dorata col fuoco e con la pinza rende puliti e lucenti l’oro e l’acciaio. 81 Dato che l’egregio creatore ha infuso appieno il liscio e il lucente, arma il fanciullo di una fragile piccola asta, ma che trapassa ogni petto duro; dota di due piccoli ali la coda e la tinge di dolcissimo veleno e, tutto pieno di una sciocca superbia, mette fuori la caverna e i lavoratori. 82 Il baldanzoso e temerario figlio della dea che generò i flutti va spiando intorno e getta alla rinfusa tutti i ferri della scuola del fabbro; si prende gioco con risa e con parole di disprezzo, ora la deforme pupilla e il grande ciglio dei giganteschi e brutti ciclopi, ora il piccolo tallone del piede paterno. 83 Vedendo i tre grandi mostri battere, arsicci e neri di fuliggine, ferro su ferro alternativamente, dice: “I vostri polsi sono troppo deboli e leggeri a dare colpi; è ora che questa mano v’insegni e mostri a colpire con colpi molto più forti e gagliardi; tutti apprendano dalla mia mano, che rompe qualunque durezza di diamante”. 84 Volgendosi a colui che ha realizzato il telo allora aggiunge: “In questa tua fornace le fiamme sono più fredde del ghiaccio, la mia fiaccola ha tutt’altro ardore più caldo.” Quindi tolto dalla mano il fulmine del cielo e tolto il freno all’audace insolenza, in tale atteggiamento, mentre lo vibra e lo muove, comincia a prendere in giro le forze di Giove: 85 “O tonatore, quanto rendi sdegnoso il lampeggiare delle orrendi nuvole dalle stelle, più della tua, che arriva dal cielo con gagliardo rumore per spaventare Babele, capace da sola a domare i popoli ladroni il mio fulmine colpisce senza rumore; abbiamo io il massimo dei cori, e tu dei monti, l’uno colpisce i corpi e l’altro le anime”. 86 Poggia la fragorosa arma e cercando dappertutto il ricovero pieno di fumo di qua di là l’affumigato albergo, trova di Marte il minaccioso brando, il fin brocchier, l’avantaggiato usbergo. «Or la prova vedrem (dice scherzando) s’a difender son buoni il fianco e ’l tergo.» Lo strale in questa uscir da l’arco lassa, falsa lo scudo e la lorica passa. 87 Di sì fatte follie sorridea seco lo dio distorto, che ’l mirava intanto. «Tu ridi (disse il faretrato cieco) né sai che l’altrui riso io cangio in pianto, e più che la fumea di questo speco, farti d’angoscia lagrimar mi vanto.» Ciò detto al gran Nettun vola leggiero, che nel mondo de l’acque ha sommo impero. 88 Velocemente a Tenaro sen viene, e l’aria scossa al suo volar fiammeggia. Abitator de le più basse arene quivi ha Nettun la cristallina reggia, che da l’umor, di cui le sponde ha piene, battuta sempre e flagellata ondeggia. Rende dagli antri cavi eco profonda rauco muggito a lo sferzar de l’onda. 89 A l’arrivo d’Amor da’ cupi fonti sgorga e crespo di spuma il mar s’imbianca, quinci e quindi gli estremi in duo gran monti sospende e in mezo si divide e manca, e, scoverti del fondo asciutti i ponti, del gran palagio i cardini spalanca. Passa ei nel regno ove la madre nacque, patria de’ pesci e region de l’acque. 90 Passa e sen va tra l’una e l’altra roccia, quasi per stretta e discoscesa valle. L’onda nol bagna e il mar, nonché gli noccia, ritira indietro il piè, volge le spalle. Filano acuto gelo a goccia a goccia ambe le rupi del profondo calle, e tra questo e quell’argine pendente apena ei scorger può l’aria lucente. 91 Né già mentre varcava i calli ondosi la faretra o la face in ozio tenne, ma con acuti stimoli amorosi faville e piaghe a seminar vi venne; e là dove, de l’acqua augei squamosi, spiegano i pesci l’argentate penne, tra gl’infiniti esserciti guizzanti sparse mill’esche di sospiri e pianti. 92 Strana di quella casa è la struttura, strano il lavoro e strano è l’ornamento: ha di ruvide pomici le mura e di tenere spugne il pavimento; trova lo spaventoso martello di Marte, il piccolo scudo finemente lavorato, l’utile maglia di ferro. Dice scherzando: “Adesso metteremo alla prova se il fianco e il posteriore sono adatti a difendere.” Scocca la freccia dall’arco, ammacca lo scudo e trapassa la lorica. 87 Il malfatto dio sorrideva tra sé e sé di tali marachelle e intanto lo guardava. Disse il cieco arciere: “Tu ridi ma non sai che trasformo il riso degli altri in pianto, e sono orgoglioso di farti piangere dalla tristezza, più del fumo di questo antro.” Detto questo vola veloce al possente Nettuno, che comanda il mondo delle acque. 88 Giunge velocemente a Tenaro, e l’aria fiammeggia scossa al suo passaggio. Residente nei più bassi lidi, Nettuno ha qui la reggia di cristallo, che ondeggia, toccata e percossa sempre dall’acqua, della quale ha piene le sponde. Allo sciabordare dell’onda trasforma un profondo eco in un sordo rumore. 89 All’arrivo di Amore il mare si tinge del bianco della spuma e s’increspa delle scure fonti, qui e lì alza i due estremi in due grandi montagne e si divide e libera nel mezzo, e spalanca la porta del grande palazzo, trovate asciutte le vie del fondo. Egli passa per il regno dove nacque la madre, patria dei pesci e luogo delle acque. 90 Passa e se ne va tra l’una e l’altra roccia come se fosse una stretta valle in discesa. Le onde non lo bagnano e il mare, nonostante lo infastidisca, si allontana indietro. Entrambe le rupi della profonda gola trasmettono goccia per goccia un freddo intenso, e lui può appena scorgere l’aria chiara fra questo e quell’argine pendente. 91 Non fece riposare né la faretra né la fiaccola mentre attraversava le strade d’onda, ma vi arrivò per spargere scintille, ferite con pungenti stimoli amorosi, e là dove i pesci, uccelli squamosi dell’acqua, allungano le pinne, sparse mille abboccamenti di gemiti e pianti tra gli innumerevoli eserciti di pesci. 92 La forma di quella dimora è strana, strana la costruzione e strana la decorazione; le mura sono di ruvida pomice e il pavimento è di spugna; la scultura è di lucente zaffiro, di lubrico zaffiro è la scultura, de la scala maggior l’uscio è d’argento, variato di pietre e di cocchiglie azurre e verdi e candide e vermiglie. 93 Ne l’antro istesso è la magion di Teti e gran famiglia di nereidi ha seco, che ’n vari uffici et essercizi lieti occupate si stan nel cavo speco. Queste con passi incogniti e secreti e per sentier caliginoso e cieco van, de l’arida terra irrigatrici, a nutrir piante e fiori, erbe e radici. 94 Intorno e dentro a l’umida spelonca chi danzando di lor le piante vibra, chi sceglie o gemma in sabbia o perla in conca, chi fila l’oro e chi l’affina e cribra; qual de’ germi purpurei i rami tronca, qual degli ostri sanguigni i pesi libra e sotto il piè d’Amor v’ha molte ninfe che van di musco ad infiorar le linfe. 95 Belle son tutte sì, ma differenti, altra ceruleo et altra ha verde il crine, altra l’accoglie, altra lo scioglie ai venti, altra intrecciando il va d’alghe marine; e di manti diafani e lucenti velan le membra pure e cristalline; simili al viso et agili e leggiadre mostran che figlie son d’un stesso padre. 96 Pasce Proteo pastor mandra di foche, orche, pistri, balene et altri mostri, de le cui voci mormoranti e roche fremon per tutto i cavernosi chiostri; e le guarda e le conta e non son poche, e scagliose han le terga e curvi i rostri; glauchi ha gli occhi lo dio, cilestro il volto, e di teneri giunchi il crine involto. 97 Giunto a la vasta e spaziosa corte stupisce Amor da tutti quanti i lati, poiché per cento vie, per cento porte cento vi scorge entrar fiumi onorati, che quindi poi con piante oblique e torte tornan per invisibili meati fuor del gran sen, che gli concepe e serra, con chiare vene ad innaffiar la terra. 98 Vede l’Eufrate divisor del mondo, che i bei cristalli suoi rompendo piange. Vede l’original fonte profondo del Nil che ’l mar con sette bocche frange, e vede in letto rilucente e biondo del più fino metal corcarsi il Gange, il Gange onde trae l’or, di cui si suole l’uscio della grande scala è d’argento, intarsiato di pietre e di conchiglie azzurre, verdi, bianche e rosse. 93 La casa di Teti è nell’antro stesso e ha una grande servitù di Nereidi, che sono occupate in diverse mansioni e gioiosi esercizi nella grotta cava. Queste vanno con passi segreti e felpati, per una strada piena di fumo e senza uscita, irrigatrici della secca terra, a nutrire piante e fiori, erbe e radici. 94 Chi danzando dentro e fuori l’umida caverna muove i suoi piedi, chi scova nella sabbia gemme o forma una conca con le perle, chi fila, rende sottile il cribro e l’oro; chi degli esserini violacei taglia i rami, quali delle ostriche sanguigne alza i pesi e sotto la potenza di Amore vi sono molte ninfee che impollinano le linfe di muschio. 95 Sono tutte davvero belle, ma diverse, una ha i capelli azzurri e l’altra verdi, una li raccoglie e l’altra li scioglie ai venti, un’altra ancora li va intrecciando con alghe marine; e coprono le parti del corpo chiare e cristalline con manti trasparenti e lucenti; simili nel volto e agili e leggere dimostrano che sono figlie d’un medesimo padre. 96 Il pastore Proteo nutre una mandria di foche, orche pistrici, balene ed altri mostri, dei cui versi sommessi e rochi tremano dappertutto gli antri cavernosi; le custodisce e le conta e non sono poche, hanno i posteriori squamosi e i becchi curvi; il dio ha gli occhi verdi marino, il volto di un azzurro chiaro, e i capelli intrecciati di pieghevoli giunchi. 97 Amore giunto nella grande e spaziosa corte, ovunque, si stupisce, poiché vede immettersi famosi fiumi per cento percorsi e per innumerevoli foci, che rientrano poi per nascosti meandri, con percorsi obliqui e irregolari, fuori dalla grande foce che è il loro inizio e li chiude, a bagnare la terra con chiari fiumi. 98 Vede l’Eufrate, che divide il mondo che piange rompendo i suoi bei cristalli. Vede la vera nascosta fonte del Nilo che si immette nel mare con sette foci e vede il Gange sfociare in un letto chiaro e splendente del più sottile metallo, il Gange da cui il Sole trae il suo splendore, del quale è solito vestirsi quando sorge al mattino. corteggiata da mille e mille proci, Beroe uscirà, che più d’ogni altra bella fia de le Grazie l’ultima sorella. 112 Costei, sì come mi mostraro in cielo l’adamantine tavole immortali, dove nel cerchio del signor di Delo Giove scolpì gli oracoli fatali, concede al re del liquefatto gelo l’alto tenor di quegli eterni annali, perché venga a scaldar col dolce lume del freddo letto tuo l’umide piume. 113 Ma quando ancor da quel ch’ivi scolpio chi move il tutto, il fato altro volgesse, seben di Tebe il giovinetto dio fia tuo rival ne le bellezze istesse, a dispetto del ciel tel promett’io, scritte in diamante sien le mie promesse. Io, che Giove o destin punto non curo, per l’acque sacre e per me stesso il giuro.» 114 Così parlava, e ’l re de l’onde intanto a lui si volse con tranquilla faccia: «O domatore indomito di quanto il ciel circonda e l’oceano abbraccia, a chi può dar altrui letizia e pianto ragion è ben ch’a pieno or si compiaccia: spendi comunque vuoi quanto poss’io, pende dal cenno tuo l’arbitrio mio. 115 E qual onda fia mai ch’a tuo talento qui non si renda o torbida o tranquilla, s’ardon nel molle e mobile elemento per Cimotoe Triton, Glauco per Scilla? Come fia tardo ad ubbidirti il vento se ’l re de’ venti ancor per te sfavilla, e ricettan l’ardor ne’ freddi cori Borea d’Orizia e Zefiro di Clori? 116 Tu virtù somma de’ superni giri, dispensier de le gioie e de’ piaceri, imperador de’ nobili desiri, illustrator de’ torbidi pensieri, dolce requie de’ pianti e de’ sospiri, dolce union de’ cori e de’ voleri, da cui Natura trae gli ordini suoi, dio de le meraviglie e che non puoi? 117 Sì come tanti qui fiumi che vedi del mio reame tributari sono, così, signor che l’anime possiedi, tributario son io del tuo gran trono. Onde a quant’oggi brami e quanto chiedi da questo scettro a te devoto in dono, o gioia, o vita universal del mondo, altro che l’esseguir più non rispondo». la quale sarà l’ultima sorella delle Grazie più bella di tutte le altre. 112 Questa, siccome mi mostrarono in cielo le tavole immortali di diamante, dove Giove scolpì, nell’isola di Apollo, gli oracoli del fato, concede, al re delle acque, l’alto segno di quegli eterni annali, finché arrivi a riscaldare le umide piume, con la dolce luce del tuo freddo letto. 113 Ma anche se chi muove il tutto ancora da ciò che è qui scolpito, il destino decidesse altro, sebbene Bacco sarà un tuo rivale nel campo della stessa bellezza, io ti prometto a dispetto del cielo, che le mie promesse siano scritte in diamante. Io giuro per le sacre acque e su me stesso, e non m’importa né di Giove né del fato”. 114 Così parlava e intanto il re delle onde si rivolse a lui con viso calmo: “O audace domatore di ciò che il cielo abbraccia e l’oceano include, è giusto che si accontenti ora chi può far gioire o piangere gli altri: usa quanto è nelle mie possibilità come preferisci, la mia volontà è al tuo servizio. 115 E quale onda ci sarà mai, che qui non diventi mossa o calma secondo la tua volontà, se Tritone per Cimotoe e Glauco per Scilla ardono d’amore nel mare? Come sarà lento il vento ad ubbidirti se il re dei venti arde d’amore ancora per te e Borea d’Orizia e Zefiro di Clori accolgono l’ardore nei freddi cuori? 116 Tu, somma virtù dei cieli superiori, che dispensi gioie e piaceri, imperatori dei nobili desideri, raffigurazione dei reconditi pensieri, dolce riparo dei pianti e dei sospiri, dolce unione dei cuori e delle volontà, dal quale la natura trae le sue regole, dio delle meraviglie, cosa non puoi fare? 117 Siccome i molti fiumi che tu vedi qui sono affluenti del mio regno, così, signore che possiedi le anime, io sono tributario del tuo grande trono. Per cui io ti dono, da questo scettro, ciò che tu oggi desideri e chiedi, gioia e vita universale del mondo, e più non dico a ciò che segue.” 118 Così parla Nettuno e, detto ciò, 118 Così dice Nettuno, e così detto crolla l’asta trisulca e ’l mar scoscende. D’alpi spumose oltre il ceruleo letto cumulo vasto inver le stelle ascende; urtansi i venti in minaccioso aspetto, de le concave nubi anime orrende, e par che rotto o distemprato in gelo voglia nel mar precipitare il cielo. 119 Borea d’aspra tenzon tromba guerriera sfida il turbo a battaglia e la procella; curva l’arco dipinto Iride arciera, e scocca lampi in vece di quadrella; vibra la spada sanguinosa e fiera il superbo Orion, torbida stella, e ’l ciel minaccia et a le nubi piene d’acqua insieme e di foco apre le vene. 120 Fuor del confin prescritto in alto poggia tumido il mar di gran superbia e cresce; ruinosa nel mar scende la pioggia, il mar col cielo, il ciel col mar si mesce; in novo stile, in disusata foggia, l’augello il nuoto impara, il volo il pesce; oppongonsi elementi ad elementi, nubi a nubi, acque ad acque e venti a venti. 121 Poté, tant’alto quasi il flutto sorse, la sua sete ammorzar la cagna estiva, e di nova tempesta a rischio corse, non ben secura in ciel, la nave argiva. E voi fuor d’ogni legge, o gelid’Orse, malgrado ancor de la gelosa diva, nel mar vietato i luminosi velli lavaste pur de le stellate pelli. 122 Deh che farai dal patrio suol lontano, misero Adone, a navigar mal atto? Vaghezza pueril tanto pian piano il mal guidato palischelmo ha tratto, che la terra natia sospiri invano, dal gran rischio confuso e sovrafatto. Tardi ti penti, e sbigottito e smorto omai cominci a desperar del porto. 123 Già già convien che il timido nocchiero a l’arbitrio del caso s’abbandoni; fremono per lo ciel torbido e nero fra baleni ondeggianti i rauchi tuoni, e tuona anch’egli il re de l’acque altero, ch’a suon d’austri soffianti e d’aquiloni, col fulmine dentato, emulo a Giove, tormentando la terra, il mar commove. 124 Corre la navicella, e ratta e lieve la corrente del mar seco la porta; piega l’orlo talvolta e l’onda beve, l’asta dalle tre punte crolla e spacca il mare. Infatti arriva alle stelle un grande cumulo di montagna di spuma oltre il fondo azzurro; i venti passano ad un minaccioso aspetto, anime orribili delle nuvole concave e sembra che voglia far crollare il cielo nel mare, rovinato o tolto di forza nel gelo. 119 Borea, trombettiere della dura battaglia, sfida il ciclone e la tempesta a battagliare; Iride arciera tende l’arco dipinto, e scocca fulmini al posto di frecce; il superbo Orione vibra la spada pericolosa e feroce, un’oscura stella minaccia il cielo e squarcia le nuvole gonfie di acque e di fuoco. 120 Il mare, gonfio di grande superbia, sta in alto, al di là del luogo preposto, e cresce; la pioggia cade rovinosa nel mare, mare e cielo si mescolano; l’uccello impara a nuotare e il pesce a volare in un nuovo modo, in una maniera inusuale; gli elementi si scontrano con altri elementi, le nuvole alle nuvole, le acque con le acque e i venti con i venti. 121 La cagna estiva poté, tanto in alto si alzarono i flutti, estinguere la sua sete e la nave argiva, insicura nel cielo, rischiò una nuova tempesta. E voi, gelide orse, al di là di ogni legge, nonostante la gelosa dea, pur lavaste i vostri luminosi mantelli dalle pelli piene di stelle nell’inaccessibile mare. 122 Povero Adone, che farai, lontano dalla patria e inadatto a navigare? La giovanile incoscienza ha portato lontano a poco a poco il mal guidato barcone, che aneli invano la terra natia, spaventato e soverchiato dal grave pericolo. Ti penti tardivamente e ormai cominci, sgomento e pallido, a disperare di raggiungere un approdo. 123 Già è giusto che l’inesperto nocchiero si abbandoni all’arbitrio del caso; i sordi tuoni fremono nello scuro e cupo cielo fra lampi ondeggianti e anche il re dei mari fa un gran rumore, altero, che, simile a Giove con saetta, sconquassa la terra al suono dei venti del sud ululanti e di altri venti, agitando la terra. 124 La piccola nave naviga veloce e leggera la corrente del mare la porta con sé; talvolta piega un lato e tocca l’onda, molto vicina a restarne abissata; assai vicina a rimanerne absorta; più pallido e più gelido che neve volgesi Adon, né scorge più la scorta, e di morte sì vasta il fiero aspetto confonde gli occhi suoi, spaventa il petto. 125 Ma mentre privo di terreno aiuto l’agitato battel vacilla et erra, ambo i fianchi sdruscito e combattuto da quell’ondosa e tempestosa guerra, quando il fanciul più si tenea perduto, ecco rapidamente approda in terra e, tra’ giunchi palustri in su l’arena vomitato da l’acque, il corso affrena. 126 Oltre l’Egeo, là donde spunta in prima il pianeta maggior che ’l dì rimena, sotto benigno e temperato clima stende le falde un’isoletta amena. Quindi il superbo Tauro erge la cima, quinci il famoso Nil fende l’arena; ha Rodo incontro e di Soria vicini e di Cilicia i fertili confini. 127 Questa è la terra ch’a la dea, che nacque da l’onde con miracolo novello, tanto fu cara un tempo e tanto piacque, che, disprezzato il suo divino ostello, qui sovente godea fra l’ombre e l’acque con invidia de l’altro un ciel più bello, e v’ebbe eretto, a l’immortale essempio de la sua diva imago, altare e tempio. 128 Scende quivi il garzon salvo a l’asciutto, ma pur dubbioso e di suo stato incerto, ch’ancor gli par de l’orgoglioso flutto veder l’abisso orribilmente aperto. Volgesi intorno e scorge esser per tutto, circondato dal mar, bosco e deserto, ma quella solitudine che vede gioconda è sì ch’altro piacer non chiede. 129 Quivi si spiega in un sereno eterno l’aria in ogni stagion tepida e pura, cui nel più fosco e più cruccioso verno pioggia non turba mai, né turbo oscura, ma, prendendo di par l’ingiurie a scherno del gelo estremo e de l’estrema arsura, lieto vi ride né mai varia stile un sempreverde e giovinetto aprile. 130 I discordi animali in pace accoppia Amor, né l’un da l’altro offeso geme; va con l’aquila il cigno in una coppia, va col falcon la tortorella insieme, né de la volpe insidiosa e doppia il semplicetto pollo inganno teme; Adone si gira più bianco e più freddo della neve, né vede più la Fortuna che lo aiutava e il pauroso aspetto di una così grave morte turba la sua vista, spaventa il suo cuore. 125 Ma, mentre l’agitata barchetta, priva di un aiuto terreno, vacilla e vaga senza meta, perforate entrambe le fiancate e sballottata da quella furia tempestosa di onde, quando proprio il fanciullo si credeva perduto, ecco che tocca terra velocemente e attracca, gettata dalle acque, tra le canne della palude sulla sabbia. 126 Al di là dell’Egeo, là dove il più grande pianeta, che riporta il giorno, spunta per primo, si estende una dolce isola in un felice e temperato clima. Qui il maestoso Tauro si erge, lì il celebre Nilo bagna la sabbia; di fronte ci sono Rodi e i fertili confini di Soria e della Cilicia. 127 Questa è la terra che tanto fu cara alla dea un tempo, che nacque dalle onde con un nuovo miracolo, e tanto le piacque che, abbandonata la sua divina casa, talvolta qui godeva di un cielo più bello, tra le ombre e le acque creando invidia nell’altro e vi fu eretto un altare e un tempio, ad esempio imperituro della sua immagine divina. 128 Qui scende, all’asciutto, il giovane, salvo, ma, essendo insicuro e confuso sulla sua condizione, ancora gli sembra di vedere l’abisso pericolosamente aperto del superbo mare. Si guarda intorno e vede di essere dappertutto circondato dal mare, dal bosco e dal deserto, ma quella solitudine che vede è tanto dilettevole, che non chiede altro piacere. 129 Qui il tempo, in una calma eternità, è tiepido, pulito in ogni stagione, nella quale la pioggia non sconvolge mai nel più scuro e rabbioso inverno, né il turbine oscura, ma, prendendo in giro ugualmente i danni del più freddo gelo e della più secca arsura, un perennemente rigoglioso e dell’incipiente aprile splende lieto e non cambia mai. 130 Amore pacifica i litigi degli animali, e l’uno non si lamenta per l’offesa dell’altro; il cigno va in coppia con l’aquila, la colomba va insieme col falcone e l’ingenuo pollo non ha paura delle insidie dell’infida e ingannevole volpe; il lupo rispetta il patto con l’alleato agnello, Offrono al nume faretrato e cieco vittime elette i supplici devoti e gli spargono ognor, tra roghi e lumi, di ghirlande e d’incensi odori e fumi. 144 Qui per elezion, non per ventura, già di Liguria ad abitar venn’io; pasco per l’odorifera verdura i bianchi armenti, e Clizio è il nome mio; del suo bel parco la custodia in cura diemmi la madre de l’alato dio, dov’entrar, fuorch’a Venere, non lice, et a la dea selvaggia e cacciatrice. 145 Trovato ho in queste selve ai flutti amari d’ogni umano travaglio il vero porto; qui da le guerre de’ civili affari, quasi in securo asilo, il ciel m’ha scorto; serici drappi non mi fur sì cari come l’arnese ruvido ch’io porto, et amo meglio le spelonche e i prati, che le logge marmoree e i palchi aurati. 146 Oh quanto qui più volentieri ascolto i sussurri de l’acque e de le fronde, che quei del foro strepitoso e stolto che il fremito vulgar rauco confonde. Un’erba, un pomo e di fortuna un volto quanto più di quiete in sé nasconde di quel ch’avaro principe dispensa sudato pane in malcondita mensa. 147 Questa felice e semplicetta gente, che qui meco si spazia e si trastulla, gode quel ben che tenero e nascente ebbe a goder sì poco il mondo in culla: lecita libertà, vita innocente, appo ’l cui basso stato il regio è nulla: ché sprezzare i tesor né curar l’oro questo è secolo d’or, questo è tesoro. 148 Non cibo o pasto prezioso e lauto il mio povero desco orna e compone; or damma errante, or cavriuolo incauto l’empie, or frutto maturo in sua stagione; detto talora a suon d’avena o flauto ai discepoli boschi umil canzone; serva no, ma compagna amo la greggia; questa mandra malculta è la mia reggia. 149 Lunge da’ fasti ambiziosi e vani m’è scettro il mio baston, porpora il vello, ambrosia il latte, a cui le proprie mani scusano coppa, e nettare il ruscello; son ministri i bifolci, amici i cani, sergente il toro e cortigian l’agnello, musici gli augelletti e l’aure e l’onde, al dio con la faretra e cieco e, tra pire e luci, spargono per lui ogni ora profumi di ghirlande e fumi d’incenso. 144 Io già venni qui dalla Liguria, ad abitare per scelta, non per caso; faccio pascolare bianchi branchi per l’odorosa vegetazione e mi chiamo Clizio; Venere mi diede in cura la custodia del suo giardino, dove non è lecito entrare, se non solo a Venere e a Diana. 145 Ho trovato il vero termine di ogni affanno umano, in questi boschi alle dolorose onde; il cielo mi ha portato qui quasi in un luogo sicuro dalle lotte degli affari di governo; i drappi di seta non mi furono tanto cari come il bastone ruvido che porto e adorno meglio le grotte e i prati che le logge di marmo e i dorati palchi. 146 Oh, quanto più volentieri ascolto qui i rumorii delle acque e dei rami, che quelli del fragoroso e sciocco foro, che disorienta il suo aspro della voce del volgo. Una pianta, un frutto e un aspetto di fortuna tanto più celano in sé calma di quello che l’avaro principe elargisce il pane faticosamente guadagnato in un pasto mal preparato. 147 Questa felice e spontanea gente che si muove e si diverte con me, gusta quel bene che il mondo agli albori, giovane e sorgente, poté gustare così poco: una giusta libertà, una vita innocente, presso i quali la regalità non ha valore, poiché disprezza i tesori e non cerca l’oro, questo è un secolo d’oro, questo è un tesoro. 148 Non un cibo o un pasto raffinato e ricco abbellisce e compone la mia povera mensa; o la copre una cerva errante o uno sconsiderato capriolo, o un frutto maturo nella sua stagione; talvolta canto al suono di uno strumento a canne o di un flauto un canzone ai boschi seguaci; amo il gregge non come servo, ma come compagno; questa mandria mal coltivata è la mia reggia. 149 Il mio bastone è il mio scettro lontano da glorie ambiziose e fatue, il manto lanoso la porpora, il latte cibo degli dei, al quale le proprie mani giustificano la coppa e il ruscello nettare; i contadini sono ministri, i cani amici, il toro sergente e l’agnello cortigiano, gli uccelli musicisti e le onde gli ori, le erbe piume e i rami padiglioni. piume l’erbette e padiglion le fronde. 150 Cede a quest’ombre ogni più chiara luce, ai lor silenzi i più canori accenti; ostro qui non fiammeggia, or non riluce, di cui sangue e pallor son gli ornamenti; se non bastano i fior che ’l suol produce, di più bell’ostro e più bell’or lucenti, con sereno splendor spiegar vi suole pompe d’ostro l’aurora e d’oro il sole. 151 Altro mormorator non è che s’oda qui mormorar che ’l mormorio del rivo; adulator non mi lusinga o loda fuorché lo specchio suo limpido e vivo; livida invidia, ch’altrui strugga e roda, loco non v’ha, poich’ogni cor n’è schivo, se non sol quanto in questi rami e ’n quelli gareggiano tra lor gli emuli augelli. 152 Hanno colà tra mille insidie in corte Tradimento e Calunnia albergo e sede, dal cui morso crudel trafitta a morte è l’Innocenza e lacera la Fede; qui non regna Perfidia e, se per sorte, picciol’ape talor ti punge e fiede, fiede senza veleno e le ferite con usure di mel son risarcite. 153 Non sugge qui crudo tiranno il sangue, ma discreto bifolco il latte coglie; non mano avara al poverello essangue la pelle scarna o le sostanze toglie; solo a l’agnel, che non però ne langue, havvi chi tonde le lanose spoglie; punge stimulo acuto il fianco a’ buoi, non desire immodesto il petto a noi. 154 Non si tratta fra noi del fiero Marte sanguinoso e mortal ferro pungente, ma di Cerere sì, la cui bell’arte sostien la vita, il vomere e ’l bidente; né mai di guerra in questa o in quella parte furore insano o strepito si sente, salvo di quella che talor fra loro fan con cozzi amorosi il capro e ’l toro. 155 Con lancia o brando mai non si contrasta in queste beatissime contrade; sol di Bacco talor si vibra l’asta, onde vino e non sangue in terra cade; sol quel presidio ai nostri campi basta di tenerelle e verdeggianti spade che, nate là su le vicine sponde, stansi tremando a guerreggiar con l’onde. 156 Borea con soffi orribili ben pote crollar la selva e batter la foresta: 150 Ogni luce più chiara cede a queste ombre, gli accenti più armoniosi ai loro silenzi; il mezzogiorno qui non scintilla, ora non risplende, e i suoi ornamenti sono sangue e pallore; se non bastano i fiori che il terreno genera, il sole, con gioioso splendore, è solito ostentare sfarzi d’austro e il giorno d’oro. 151 Non è che si sente qui altri che mormora che il sussurro del ruscello; non mi adula o riempie di lodi un adulatore se non il suo chiaro e vivace specchio d’acqua; non c’è posto per la maligna invidia, che tormenti e turbi gli altri, dato che ogni anima ne è infastidita, se non solo quando fanno a gara tra loro gli uccelli in competizione tra questi e quei rami. 152 Il tradimento e la calunnia hanno là nella corte, sede e dimora tra mille insidie, l’innocenza è ferita a morte dai loro crudeli morsi e strazia la fede; la perfidia qui non regna e, se per caso una piccola ape talvolta ti punge e ti ferisce lo fa senza veleno e le ferite sono rimarginate con strofinii di miele. 153 Qui il feroce tiranno non succhia il sangue, ma il cauto contadino munge il latte; la mano avida non toglie, allo smorto poverello, la pelle molto magra o i suoi beni; c’è solo chi tosa le pelli lanose all’agnello, che però non se ne lamenta; il pungolo acuminato sollecita il fianco ai buoi, non uno sfacciato desiderio ci sollecita il cuore. 154 L’insanguinata e mortale arma pungente del violento Marte non vive fra noi ma il vomere e la zappa di Cerere sì, la cui bella attività sostiene la vita, né l’insensata pazzia o il fragore della guerra si sentono in questa o in quella zona, tranne di quelli che la capra e il toro, talvolta fra loro, fanno con amorose cornate. 155 Non si lotta mai in queste tranquillissime contrade con la lancia o con una grossa spada; talvolta solo l’asta di Bacco si agita, per cui il vino, e non il sangue, cade a terra; solo quella difesa di tenerissime e coperte di verdi canne è sufficiente per i nostri campi, le quali, nate là sulle vicine sponde, contrastando, tremando, le onde. 156 Borea può benissimo, con paurosi venti, abbattere la selva e colpire la foresta: la rigida tempesta non turba o agita pacifici pensier non turba o scote di cure vigilanti aspra tempesta. E se Giove talor fiacca e percote de l’alte querce la superba testa, in noi non avien mai che scocchi o mandi fulmini di furor l’ira de’ grandi. 157 Così tra verdi e solitari boschi consolati ne meno i giorni e gli anni; quel sol, che scaccia i tristi orrori e foschi, serena anco i pensier, sgombra gli affanni; non temo o d’orso o d’angue artigli o toschi, non di rapace lupo insidie o danni, ché non nutre il terren fere o serpenti, o se ne nutre pur sono innocenti. 158 Se cosa è che talor turbi et annoi i miei riposi placidi e tranquilli, altri non è ch’Amor. Lasso, dapoi che mi giunse a veder la bella Filli per lei languisco, e sol per gli occhi suoi convien che quant’io viva arda e sfavilli e vo’ che chiuda una medesma fossa del foco insieme il cenere e de l’ossa. 159 Ma così son d’Amor dolci gli strali, sì la sua fiamma e la catena è lieve, che mille strazi rigidi e mortali non vagliono un piacer che si riceve. Anzi pur vaga de’ suoi propri mali conosciuto velen l’anima beve, e ’n quegli occhi ov’alberga il suo dolore volontaria prigion procaccia il core. 160 Curi dunque chi vuol delizie et agi, io sol piacer di villa apprezzo et amo; co’ tuguri cangiar voglio i palagi, altro tesor che povertà non bramo; sazio de’ vezzi perfidi e malvagi, ch’han sotto l’esca dolce amaro l’amo, qui sol quella ottener gioia mi giova che ciascun va cercando e nessun trova. 161 Non ti meravigliar che la selvaggia vita tanto da me pregiata sia, ch’ancor di Giano in su la patria spiaggia ne cantai già con rustica armonia; onde vanto immortal d’arguta e saggia concesse Apollo a la sampogna mia, de’ cui versi lodati in Elicona il ligustico mar tutto risona.» 162 Del maestro d’Amor gli amori ascolta stupido Adone et a’ bei detti intento. Colui, poi ch’affrenò la lingua sciolta, fe’ da’ rozi valletti in un momento recar copia di cibi, a cui la molta i pacifici pensieri di attente cure. E se talvolta Giove piega e colpisce l’imponente punta delle alte querce, in noi non avverrà mai che la rabbia dei grandi lanci con forza o scagli atti di furia. 157 Trascorro così i giorni e gli anni addolciti tra i verdi e solitari boschi; quel sole, che allontana i tristi e scuri orrori, rasserena anche i pensieri, allontana le preoccupazioni, non ha paura degli artigli o dei veleni o dell’orso o del serpente, non le insidie o i danni del feroce lupo, poiché la terra non nutre animali feroci o serpenti, o anche se li nutre, sono innocui. 158 Se c’è qualcosa che talvolta turbi e infastidisca i miei calmi e tranquilli riposi, non è altro che l’amore. Da quando arrivai a vedere la bella Filli, mi struggo stanco d’amore per lei e solo per i suoi occhi è lecito che, per quanto vivrò, bruci e mi accenda di intenso desiderio e voglio che una stessa tomba sigilli, insieme, la cenere del fuoco e delle ossa. 159 Ma sono così dolci gli strali d’amore, il suo ardore e il suo vincolo tanto lievi, che mille inflessibili e mortali dolori non valgono un piacere che si riceve. Anzi, l’anima beve il conosciuto veleno, pur ignara dei suoi mali e il cuore cerca una prigionia volontaria in quegli occhi dove si trova il suo dolore. 160 Curi, dunque, chi vuole delizie ed agi, io apprezzo e amo il solo piacere della campagna; voglio scambiare le regge coi tuguri, non desidero altro tesoro che la povertà; stanco delle cattive e malvagie moine, che nascondono l’amaro amo sotto la dolce esca, mi è utile ottenere qui quella felicità che ciascuno cerca e nessuno trova. 161 Non devi meravigliarti che la vita campestre sia tanto esaltata da me, che già ne cantai, con semplice concordia di suoni, ancora sopra la spiaggia patria di Giano, per cui Apollo concesse alla mia zampogna l’immortale vanto di arguta e saggia, dei cui versi, lodati sull’Elicona, risuona tutto il mare della Liguria”. 162 Lo sbalordito Adone, attento alle belle frasi, ascolta gli amori del maestro d’Amore. Quello, poiché smise di parlare, ad un certo punto fece portare una grande quantità di cibo da rozzi valletti e la molta fame aumentò il sapore e il condimento del cibo; ora in stile alto ora increspato di ironia, e il celebre “senso” dichiarato in I 10 (‘smoderato piacer termina in doglia’) Marino introduce i materiali ideali di un disegno che attende ancora una complessiva esegesi. ANTIMARINISMO: CHIABRERA Uno dei modi per sottolineare il rilievo di Gabriello Chiabrera nella poesia di primo Seicento è quello di ragionare sui suoi estremi biografici: nato a Savona nel 1552 e morto nel 1638, visse a pieno la stagione barocca, dopo essere diventato uno degli autori di riferimento del pontificato di Urbano VIII Barberini. Chiabrera, dunque, attraversa in pieno la transizione che porta al primo Barocco italiano, e ne offre un'interpretazione del tutto personale, assai diversa da quella del Marino, già a partire dalla prudenza e dall'abilità con cui riesce a gestire il rapporto con i principali signori del tempo, tenendosi lontano da polemiche e contrasti, quasi amministratore abile del proprio talento poetico. Della sua lunga carriera meritano di essere qui analizzati alcuni passaggi in rilievo, a partire dalle Guerre de' Goti con cui nel 1582 il poeta savonese fa il suo esordio a stampa nel genere epico, con una soluzione comunque alternativa alla Liberata, se è vero che l'aspetto epico cede il passo a una ricerca mirata su episodi ed espressioni anzitutto lirici. Negli anni successivi si impegnerà in diversi cantieri epici, con i quali celebrare sia la casata de' Medici (il Firenze, poema di nove canti, va a stampa una prima volta nel 1615), sia la casata di Savoia (l'Amadeide, in ventitré canti, verrà pubblicata nel 1620). Queste ed altre prove epiche pervengono però a esiti poco efficaci, lontani sia dal modello implicito della Liberata di Tasso come anche dalla scelta più libera, a base mitologica, dell'Adone mariniano. La sezione più importante della scrittura di Chiabrera è piuttosto rappresentata dalla lirica, entro cui da un lato riprende i modelli della tradizione classica, dall'altro si dimostra capace di una sperimentazione inedita nell'ambito dei metri e dei ritmi. Già nel corso degli anni Ottanta realizza una serie di canzoni pindariche che, pubblicate a stampa nel 1591 con il titolo di Canzonette, riscuotono un grande successo di edizioni. Nelle raccolte Maniere di versi toscani (21 componimenti), Scherzi (diviso in tre sezioni, rispettivamente di 14, 12 e 44 componimenti) e Canzonette morali (16 testi), pubblicate negli anni a cavallo tra i due secoli, Chiabrera fa d'altra parte sfoggio di una gamma straordinaria di soluzioni metriche, con una poesia raffinata, tutta giocata sull'abilità poetica. Già con il titolo di Maniere, per la raccolta di madrigali e canzonette, Chiabrera fa riferimento all'aspetto tutto tecnico della propria ricerca (Raboni), mentre gli Scherzi sono tessuti su una fitta ripresa della poesia francese del Rinascimento, e anzitutto del modello di Pierre de Ronsard. Ne risulta una lirica molto originale nella sua leggerezza, nei suoi toni apparentemente facili. In questi versi - nell'alternanza di ottonari e quaternari, come anche nella frequenza di diminutivi e vezzeggiativi - si consuma una rastremazione dell'esperienza poetica, che lascia infine da parte il grande modello di Petrarca, con tutti gli elementi del dissidio e dei contrasti interiori, e che approda a una ricerca soprattutto ritmica e fonica in dialogo con la coeva esperienza della poesia per musica. Su questa ricerca condotta sul piano del significante, la raccolta delle Canzonette morali arriva a rappresentare una sorta di composta messa a punto sul piano ideologico, offrendo in una compagine di pochi testi una riflessione di gusto oraziano, secondo un impianto che Chiabrera tenterà di adibire come paradigma per la propria condotta. Nel suo insieme la proposta di Chiabrera è dunque distinta dal concettismo e dall'infittirsi del tessuto metaforico che caratterizza la generazione dei poeti di primo Seicento. Non è un caso che, quando vede sorgere la parabola poetica del Marino, Chiabrera se ne discosti, rinunciando a stringere legami solidi, conservando invece una posizione autonoma, come riverito maestro di una generazione precedente, ritiratosi nella tranquilla dimora ligure. Se i primi due decenni del Seicento trascorrono in una ripetuta risistemazione del proprio corpus poetico (edizioni delle Rime con progressivi aggiustamenti escono nel 1605-1606 e ancora nel 1618-1619), è dopo l'elezione di Urbano VIII, nel 1623, che Chiabrera conosce una stagione di nuova centralità quale modello di un raffinato dialogo con i classici (Orazio e Pindaro) di contro agli eccessi sperimentali dei moderni. Viene chiamato a Roma e segnalato da un omaggio diretto del papa, e in questo clima compone trenta canzonette di argomento religioso mandate a stampa nel 1625 a Roma. Gli ultimi anni trascorrono dunque in una posizione di grande rilievo, ed è a questi anni della maturità che va ascritta la stesura di una breve e interessantissima autobiografia. È in questa sperimentazione, nei «nuovi modi» di una poesia che si incammina per sentieri inediti, soprattutto sul piano delle forme, che consiste il grande lascito poetico del poeta savonese, che sarà poi recuperato dalla migliore poesia dell'Arcadia e da Metastasio. IL POEMA EROICOMICO: TASSONI Nel Seicento il genere epico entra in crisi. Il poema eroico subisce un’importante evoluzione e una serie di trasformazioni. In particolare, in alcune situazioni e momenti, tende addirittura a mettere in primo piano aspetti che riguardano la parodia e il comico. Questo avviene per due motivi principali: • Perché una delle caratteristiche salienti del secolo è proprio il ripudio del sublime, con conseguente tendenza al grottesco, al ridicolo e alla satira; • Perché ormai vengono sentiti come antiquati coloro che si sforzano di rispettare le regole che Tasso aveva precedentemente fissato. Nasce così il poema eroicomico, che assume lo stesso metro del poema eroico, l’ottava, e ne riprende i temi ma li stravolge nel ridicolo. L’iniziatore di questo genere fu Alessandro Tassoni. Tassoni nacque da famiglia nobile a Modena, nel 1556. Fa quindi parte della stessa generazione di Chiabrera. Dopo studi giuridici e alcune prove di marca storico-erudita, interviene sulla scena letteraria con le Considerazioni sopra le rime del Petrarca, stampato nel 1609. L’opera mostra un atteggiamento irriverente verso uno dei testi cardine della tradizione letteraria, dando origine ad una polemica, in cui interverrà nuovamente con dei libelli polemici negli anni successivi. Si scaglia apertamente contro il petrarchismo e contro i Rerum vulgarium fragmenta, diventati una sorta di “bibbia”. Questo atteggiamento di critica aperta, anima la grande raccolta dei Pensieri, stampata in un’edizione definitiva nel 1620. In questa è inserito un decimo e ultimo libro intestato al Paragone degli ingegni antichi e moderni. Egli discute così i modelli classici a confronto con quelli contemporanei, abbandonando ogni deferenza in nome di una fiduciosa proposta dei valori moderni. Ebbe vari e diversi incarichi diplomatici e politici e fu anche al servizio di Carlo Emanuele I di Savoia, presso la cui corte si era trasferito nella seconda metà degli anni Dieci. Tassoni rappresenta la spregiudicatezza di una nobiltà laica, curiosa, intraprendente. • Sul piano politico egli mantenne ferme la polemica antispagnola e la fedeltà ai valori nobiliari laici di onore e coraggio; • Sul piano culturale restò fedele a un atteggiamento anti-scolastico e antidogmatico. Dopo una lunga composizione, nel 1622 compare a Parigi la Secchia rapita, poema in ottave di 12 canti. L’opera è pubblicata per la prima volta insieme al primo canto di un poema epico, l’Oceano, che Tassoni lascia incompiuto. È una scelta eloquente, che dimostra l’abbandono del genere tradizionale della poesia epica e la scelta di sperimentare una forma inedita. La storia racconta dello scontro tra Bolognesi e Modenesi nel corso dell’opposizione tra guelfi e ghibellini del Trecento, ma mescola particolari e vicende senza troppa attenzione al dato storico. Tassoni pone al centro della vicenda la secchia, usata per attingere l’acqua da un pozzo, rubata dai Modenesi alla città di Bologna: da questo affronto e dalla successiva reazione muovono una serie di episodi che vedono sfilare personaggi improbabili, tra tutti il Conte di Culagna, dietro i quali è possibile che l’autore volesse rappresentare personaggi della storia contemporanea. Al di là di una natura dismessa, l’opera si rivela in realtà un’operazione letteraria estremamente raffinata: offre una parodia del genere epico, quasi a sancirne il tramonto nel panorama della tradizione letteraria italiana. Allo stesso tempo mette in mostra una tensione sperimentale sul piano dello stile. Accanto alle proposte di un genere inedito e di una “poesia misurata”, va sottolineata l’ambizione di realizzare comunque un poema “regolare”, condotto secondo l’arte, dunque rispettoso dei precetti di poetica. Per Tassoni si tratta del segnale evidente dell’ambizione del progetto. Una conferma giunge dall’attenzione che Tassoni riserva ai destini del poema: lo corregge in vista di una edizione romana, inserendo le correzioni approvate dal Sant’Uffizio, e torna a rivederlo in vista dell’edizione definitiva del 1630. Con quest’opera, Tassoni irride i valori eroici, rivendicati dall’orgoglio e dalla presunzione dei poteri dominanti, attraverso il suo poema eroicomico, che sottopone i contenuti eroici di un tempo a un processo di degradazione ed irrisione. Il rapimento della secchia intende sottolineare le stolte presunzioni degli ideali di gloria e di grandezza, rivelandone il carattere ridicolo, sgangherato e grottesco. Ne risulta un’operazione parodica, che adattando le forme dell’epica ad una realtà meschina, rientra nell’ambito del genere del poema eroicomico, mostrando in maniera evidente la degradazione del poema epico: lo scontro fra bolognesi e modenesi a causa di un secchio (che rappresenta la Elena della guerra di Troia) rende l’idea di un vero e proprio scimmiottamento. LA NARRATIVA SEICENTESCA Nel Seicento il romanzo è il nuovo genere narrativo in prosa che meglio offre la possibilità di esprimere mutevolezza e complessità del presente, andando incontro alle esigenze del pubblico, abituato a un consumo maggiore grazie all’incremento notevole del commercio librario. In Italia, la produzione significativa del romanzo va circoscritta al periodo tra il 1625 e il 1675, in particolare in area veneta e ligure. Dopo questo periodo il romanzo decade in Italia, mentre si svilupperà maggiormente in altri paesi europei. Infatti i grandi romanzi del Seicento non sono italiani, ma spagnoli o francesi. In Italia i 2 principali centri di diffusione del romanzo furono Venezia e Genova con autori quali: Francesco Biondi, Francesco Loredano, Giovanni Ambrogio Marini, Francesco Fulvio Frugoni. Ai tratti magici e comici della letteratura popolare e del dialetto si sovrappone un meraviglioso letterario che punta sull’uso della metafora, serie di immagini, elenco di nomi e aggettivi. In Basile dunque il dialetto e la sensibilità barocca interagiscono, con effetti di comicità irresistibile. Ciò non impedisce tuttavia all’autore una discreta presenza anche del morale. L’opera è stata la fonte di ispirazione di gran parte della letteratura fiabesca europea. Basti pensare alle fiabe La gatta Cennerentola (Cenerentola), Sole, Luna e Talia (La Bella Addormentata nel Bosco), Petrosinella (Raperonzolo), Cagliuso (Il Gatto con gli Stivali) e molte altre fiabe che sono giunte a noi erano contenute in quest’opera. Certamente sono state epurate da tutti gli elementi crudi e drammatici, perché l’opera era riservata a un pubblico adulto, e magari cambiate in alcuni punti poiché spesso di una fiaba si hanno molte versioni, per citarne una Cenerentola ne ha più di trecento. Il Cunto de li cunti divenne un libro noto, fu tradotto in altre lingue europee già alla fine del Seicento e da queste traduzioni presero spunto autori come Perrault, i fratelli Grimm e altri per scrivere le fiabe nella forma cui che le conobbe il resto del mondo. Il filosofo Benedetto Croce, che tradusse la raccolta in italiano, nella premessa all’edizione da lui curata definiva questo testo come “il più antico, il più ricco e il più artistico fra tutti i libri di fiabe popolari”. La cornice L’opera contiene una cornice che funziona da cinquantesimo racconto: infatti è dal racconto della cornice che nascono gli altri 49 narrati per 5 giornate. Alla fine, con l’ultima fiaba, si ritorna alla vicenda della cornice, che così trova la sua conclusione. La cornice si apre con un proverbio che richiama un po’ tutta la storia contenuta in essa: “chi cerca quello che non deve, trova quello che non vuole”, in riferimento alla schiava moresca che, appropriandosi della brocca riempita con le lacrime di Zoza che doveva risvegliare Tadeo, ottiene inizialmente di sposarsi con quest’ultimo, ma farà poi una brutta fine. Poi parte il racconto della storia vero e proprio, che narra la vicenda della principessa Zoza, che si trova nella condizione di non riuscire più a ridere. Invano il padre si sforza di strapparle un sorriso, facendo venire a corte una gran quantità di saltimbanchi, buffoni e uomini di spettacolo: Zoza, però, non riesce ad uscire dal suo perenne stato di malinconia. Un giorno, mentre si trovava affacciata alla finestra della sua stanza, scoppiò a ridere quando vide una vecchia cadere e poi compiere un gesto osceno di rivalsa e di protesta. La vecchia si vendica della risata della giovane principessa con una maledizione: Zoza potrà sposarsi solo con Tadeo, un principe che a causa di un incantesimo giace in un sepolcro in uno stato di morte apparente, e che riuscirà a svegliarsi solo se una fanciulla riuscirà a riempire in tre giorni un'anfora con le sue lacrime. Zoza inizia l'impresa, giungendo al castello di una fata. Si confidò con questa fata che ebbe pietà di lei e le diede una lettera di raccomandazione per una sua sorella, anch’essa fata che, dopo averle fatto tanto componimenti, al mattino le diede una noce dicendole di aprirla solo nel momento di estremo bisogno. Poi questa seconda fata, le diede un’altra lettera di raccomandazione verso un’altra sorella fatata dalla quale Zoza andò che le diede una castagna, con lo stesso avvertimento che aveva ricevuto con la noce. Si reca infine dall’ultima fata che le consegna una nocciola, con lo stesso avvertimento degli altri due doni. Così Zoza si mise in cammino e dopo sette anni arrivò a Camporotondo dove vide fuori dalla città in sepolcro di Tadeo, con l’epitaffio e l’anfora vicino. Così iniziò a riempire l’anfora con le sue lacrime. L'anfora è quasi colma quando ella, stremata dalla fatica, si addormenta. È allora che una schiava moresca si sostituisce a lei, versando le ultime lacrime in modo da svegliare il principe e si fa sposare. Quando Zoza si svegliò e vide l’anfora vuota e con essa tutte le sue speranze svanite, pensò addirittura alla morte. Alla fine, non potendosi lamentare con nessuno oltre che con se stessa, si avviò verso il centro della città dove, sentendo delle imminenti nozze tra Tadeo e la schiava, immaginava come fosse potuta andare la faccenda. Allora prese una casa di fronte al palazzo del principe ed iniziò a guardare assiduamente le mura di queste fin quando, un giorno, Tadeo non la vide. La schiava, incinta di Tadeo, accortasi del fatto che egli guardava Zoza fuori dalla finestra, iniziò a minacciarlo dicendo che, se non si fosse distaccato dalla finestra avrebbe fatto in modo che perdesse il bambino. Tadeo allora, preoccupato per il destino di suo figlio, si distaccò dalla vista di Zoza. Zoza, vedendosi togliere anche questo piccolo sollievo, decise di servirsi dei doni che le avevano fatto le fate. Per prima cosa aprì la noce dalla quale uscì un nanerottolo grande quanto un bambolotto che sali sulla finestra del palazzo di Tadeo ed iniziò a cantare. La schiava lo vide e le venne una voglia tale da minacciare ancora Tadeo dicendogli che, se non gli avesse preso quel nanerottolo avrebbe ucciso il figlio. Il principe allora, mandò qualcuno a chiedere a Zoza se glielo potesse vendere, ma ella disse di non essere una mercante e che quindi glielo avrebbe regalato. Tadeo accettò l’offerta. Dopo altri quattro giorni, Zoza aprì la castagna dalla quale uscì una chioccia con dodici pulcini d’oro che furono messi sulla stessa finestra e che la schiava vide. Alla visione di questi, ancora una volta minacciò Tadeo che avrebbe ucciso il figlio se non avesse ricevuto la chioccia ed i pulcini. Allora Tadeo mandò di nuovo qualcuno da Zoza a chiederle se potesse vendergliela, ma da lei diede la stessa risposta e quindi ottenne anche la chioccia e i pulcini in regalo. Tadeo allora rimase molto colpito dalla generosità e dalla libertà di una donna, cosa molto insolita. Passati altrettanti giorni, Zoza aprì anche la nocciola da cui uscì una bambolina che filava oro e la mise sulla finestra. Quando la schiava la vide, minacciò per l’ennesima volta Tadeo, che, non avendo il coraggio di mandare altri a chiedere questo ulteriore favore a Zoza, andò di persona da lei. Dopo averla pregata a lungo di perdonare la sua indiscrezione dovuta alle voglie di una donna incinta, e dopo che Zoza si era ormai fatta pregare a lungo per poter godere della visione dell’amato il più possibile, gli regalò la bambola chiedendo però a questa di soffiare nel cuore della schiava la voglia di sentire racconti. Tadeo, che si vide ancora la bambola in dono, decise di offrire a Zoza il suo stato e la sua vita in cambio di così tanti favori. Tornato a palazzo Tadeo diede la bambola alla moglie che subito ebbe la voglia di sentire racconti e minacciò il marito con la solita formula ripetitiva. Tadeo fece subito pubblicare un bando: che tutte le femmine del paese andassero al palazzo, in tal giorno per adempiere alla voglia di sua moglie. Tra tutte le candidate scelse dieci vecchie. Una volta scelte queste, alzarono la schiava dal baldacchino e si diressero in un giardino del palazzo, dove c’era un padiglione con al centro una grande fontana dove i cortigiani erano soliti spettegolare. Tadeo iniziò poi un lungo discorso in cui elogia il pettegolezzo che piace un po’ a tutti e si scusò con le anziane signore per la richiesta della moglie, che essendo incinta ha le voglie, e disse loro che avrebbero dovuto raccontare storie per quattro o cinque giorni, giusto il tempo che bastava per far partorire la schiava. Dice loro di raccontare le storie che sono solite raccontare ai più piccoli, di riunirsi sempre in quello stesso posto dove, dopo aver mangiato, si darà inizio alle chiacchiere chiudendo la giornata con qualche egloga che sarà recitata dagli stessi servi di palazzo. Tutti accettarono la richiesta di Tadeo e poi, una volta che furono apparecchiate le tavole e portato il cibo, si misero a mangiare e quando finirono il principe fece segno alla prima vecchia, Zeza la sciancata, di iniziare il racconto e lei fatto un grande inchino al principe ed alla moglie cominciò a parlare. Trattenimientoquarto de la iornata seconda Cagliuso è il quarto racconto della seconda giornata ed è narrato da Tolla. Il racconto si apre con una sorta di rubrica simil Decameron: “Cagliuso, per l’abilità di una gatta lasciatogli dal padre, diventa un signore, ma quando si dimostra ingrato, quella gli rinfaccia la sua ingratitudine”. Poi c’è una parte che ci racconta le reazioni alla storia appena raccontata, proprio come accade nel Decameron. Poi arriva il momento della narrazione per Tolla, che apre il racconto con un proverbio sull’ingratitudine, tematica fondamentale della storia, che dice essere come un chiodo arrugginito che piantato nell’albero della cortesia lo fa seccare, come una fogna rotta che infradicia le fondamenta dell’affetto, come una fuliggine che cascando nella pentola dell’amicizia le leva l’odore e il sapore. Un vecchio molto povero di Napoli muore, lasciando al figlio Oraziello un crivello per lavorare e al figlio Pippo, soprannominato Cagliuso, una gatta magica. Cagliuso non apprezza l'eredità, ma scopre presto che la gatta sa parlare e lo aiuterà a uscire dalla sua miseria. La gatta va a caccia e porta le prede al re da parte del “signore” suo padrone. Il re resta colpito dai continui doni e dal fatto che il padrone della gatta gli sia tanto devoto e leale, perciò chiede alla gatta quanto sia ricco questo signore. La gatta fa le lodi delle ricchezze smisurate del suo padrone e il re manda i suoi servitori a indagare. La gatta passa per i campi e i villaggi e avverte la gente che dei banditi saccheggiano la zona ma se diranno che tutto è proprietà del signor Cagliuso non verrà fatto loro del male. Quando gli informatori del re chiedono in giro, la gente ha paura che siano banditi e rispondono che tutto è proprietà di Cagliuso. Il re allora combina le nozze tra Cagliuso e sua figlia, e, con la dote della principessa, Cagliuso compra delle terre in Lombardia e diventa barone. Cagliuso non smette di ringraziare la gatta per questa immensa fortuna e le promette che, quando morirà, la farà imbalsamare e la metterà su un piedistallo. La gatta però vuole metterlo alla prova e un giorno finge di essere morta. Cagliuso non mostra tutta la gratitudine che prometteva e dice alla per il reintegro nei ranghi dell'Arcadia di Gravina (postumo) e degli altri scismatici passa a pieni voti. In effetti, la concreta produzione in versi risente di queste direttive: le poesie dei primi arcadi mostrano un'attenzione estrema all'aspetto formale, la ricerca di un'eleganza ottenuta in un certo senso per sottrazione, attraverso la selezione di un linguaggio misurato e la costruzione-descrizione di immagini raffinate. Un altro dei fondatori dell'Arcadia è l’avvocato imolese Giambattista Felice Zappi, conosciuto tra gli Arcadi con il nome di Tirsi Leucasio. Le rime sue e della moglie Faustina Maratti (Aglauro Cidonia fra gli Arcadi), stampate assieme a Venezia nel 1723 e divenute celeberrime, esemplificano perfettamente il gusto promosso da Crescimbeni, soprattutto per quanto riguarda i sonetti sentimentali e anacreontici e la concezione di una poesia come socievole rimedio agli affanni della vita o rispecchiamento delle sue occasioni liete. Vale perciò quasi come manifesto delle ragioni della poesia sua e di altri Arcadi un sonetto di Zappi, che evidenzia tanto l'assoluto dominio formale - l'articolazione senza errori del tema nelle unità metriche genera un testo compatto, aggraziato e perspicuo - quanto la facilità melodica che caratterizza la poesia sul piano stilistico e ideologico. Alla tradizione cinquecentesca fa riferimento anche Aglauro Cidonia che, mettendo in versi le proprie vicende sentimentali - l'amore coniugale, la morte del figlio - tiene ben presente il modello di Vittoria Colonna attenuandone però gli eccessi eroici in un più domestico e moderno psicologismo che si riversa in espressioni e scene di contenuto patetismo e melodramma. LA RIFORMA DEL MELODRAMMA: APOSTOLO ZENO I generi classici del teatro - i cui problemi troveranno piena soluzione solo con Goldoni per un verso e Metastasio ed Alfieri per l'altro - subiscono del resto la spietata concorrenza del moderno dramma per musica, costruito sull'alternanza di recitativo - in endecasillabi e settenari con o senza rime - e arie - strofette in metro lirico -, rispettivamente dedicati all'azione e all'espressione degli affetti. Per questo genere i principali teorici dell'Arcadia - Gravina, Crescimbeni, Ludovico Antonio Muratori - hanno parole di repulsa: essi lo condannano come irreformabile per la subordinazione della poesia a musica e scenografia, per la giustapposizione di elementi comici e tragici, per l'inverosimiglianza degli intrecci e l'assurdità della convenzione scenica che impone ai personaggi di cantare anche in circostanze del tutto inopportune (partenze affrettate, morte, ecc.). Da Venezia provengono le più convincenti proposte di riforma. Quella del patrizio e compositore “dilettante” Benedetto Marcello si esprime nel brillante Teatro alla moda o sia Metodo sicuro e facile per ben comporre ed eseguire l'opere italiane in musica all'uso moderno (1720) - una serie di consigli antifrastici sulla produzione e messa in scena del dramma per musica -, opera in cui mette alla berlina il mondo teatrale coevo e, indirettamente, caldeggia un nuovo e più equilibrato rapporto fra poesia e musica, una maggiore profondità di cultura letteraria per musicisti e poeti. D'altra parte, i tentativi di numerosi autori, che dall'ultimo quarto del Seicento cercano di ricondurre la drammaturgia per musica alle regole del teatro classico, sfociano nella significativa esperienza dell'erudito e poeta Apostolo Zeno (Emaro Simbolio). Questi partecipa alla vita culturale di Venezia e della Penisola contribuendo alla fondazione dell'Accademia degli Animosi (poi colonia arcadica), del «Giornale de' letterati d'Italia» (1710) e scrivendo libretti per i teatri d'opera della Serenissima. Particolarmente congeniali al suo stile grave sono quelli di argomento storico, animati da personaggi eroici capaci di rinunciare all'amore per la gloria e di incarnare severi ideali di virtù: gli valgono la chiamata, dal 1718 al 1729, alla corte di Vienna come poeta cesareo. È soprattutto da questa posizione di prestigio che Zeno rimodula la struttura dei drammi per musica, sacri e profani, secondo norme classiche e gusto arcadico: semplicità, organicità, funzione educatrice della poesia. Le unità d'azione, tempo e spazio sono tendenzialmente riproposte, gli intrecci sono semplificati per garantire la verisimiglianza, il numero di personaggi viene ridotto e limitato ai soli caratteri seri, ne sono più attentamente gestiti gli ingressi e le uscite evitando i casi di scena vuota, la struttura recitativo-aria è regolarizzata, collocando quasi sempre la seconda al termine del primo. I limiti drammatici e stilistici che i contemporanei riconoscono nei drammi di Zeno - a inesattezze metriche si aggiungono disarmonie strutturali e una certa difficoltà nelle arie e nell'espressione degli affetti amorosi - non impediscono loro di riconoscere l'importanza storica della sua opera, inevitabilmente letta come precorritrice di quella di Metastasio che lo sostituisce alla corte viennese. Contro gli eccessi barocchi ma anche contro gli anatemi arcadici, proseguendo il tentativo di riforma di Apostolo Zeno, Metastasio si dedica al teatro per musica: opta per un dramma logocentrico ed antropocentrico. La poesia è guida di tutte le arti (sceniche, coreutiche e musicali) che concorrono alla realizzazione dello spettacolo e Metastasio è tragediografo e non librettista: perfettamente inserito nel mondo musicale e teatrale, ne è però indipendente, ritenendo i suoi drammi rappresentabili anche senza musica in virtù dell'armonia infusa nei propri versi. Centro del dramma metastasiano è poi la vita interiore dell'uomo, analizzata nelle passioni, soprattutto ma non solo amorose, di personaggi “grandi” ed “anime belle”: la loro forza tumultuosa fa dell'uomo un essere instabile paralizzato dal dubbio o accecato dal desiderio, un campo di forze contrastanti che solo grazie alla ragione può indirizzare positivamente la propria energia vitale. La tragedia metastasiana punta così a una drammaturgia della felicità, sia per il diletto che procura, sia per l'utile che propone mettendo in scena modelli positivi: il teatro musicale diviene un luogo d'educazione per popoli e re, mezzo di sostegno alla gerarchia e all'armonia sociale, modello d'un provvidenziale potere regio che - a somiglianza del sacrificio e della misericordia divini - deve qualificarsi per la virtù personale e realizzarsi nell'abnegazione del servizio e nella clemenza verso i sudditi. La difficile facilità della lingua poetica - dispiegata anche in rime, oratori, cantate ecc. -, il gusto per la cantabilità, per l'ordine compositivo, per l'accurata connessione delle idee e per la precisione e la sensibilità nel rappresentare l'animo umano, decreteranno l'enorme fortuna dei drammi e delle liriche di Metastasio facendone il più influente ed europeo degli autori del Settecento italiano. LA RIFORMA DEL MELODRAMMA: PIETRO METASTASIO Pietro Trapassi nacque a Roma nel 1698. Nel 1709, all’età di dieci anni, Gravina lo notò, scegliendolo come discepolo e grecizzando il cognome in “Metastasio”, e lo educò alla lettura dei classici greci e latini. Nel 1712 egli compose una prima tragedia, Giustino, in endecasillabi sciolti, sul modello di quelle graviniane. Nello stesso anno Gravina lo condusse prima a Napoli e poi a Scalea, affidandolo al cugino abate per completarne la formazione filosofico-politica all’insegna del razionalismo. Rientrato a Roma studiò diritto e nel 1714 prese gli ordini minori. Intorno al 1716, per volontà di Gravina, lascia la fatica psicologica dell’improvvisazione di versi che sottrae tempo agli studi e indebolisce la salute. Nel 1717 il Giustino è stampato in un volumetto contenente anche due idilli mitologici, un'ode sacra e due componimenti filosofico-civili in terzine. La morte di Gravina (6 gennaio 1718), che lascia l'allievo prediletto suo erede materiale e spirituale, segna una cesura. Il 15 aprile 1718 Metastasio entrò in Arcadia con il nome di Artino Corasio. Nel 1719, però, Metastasio lasciò Roma in seguito a una delusione amorosa e alla difficoltà di trovare un impiego, ma soprattutto a causa dell’avversione contro Gravina ancora insita nell’Arcadia e riversata su di lui che era stato suo allievo. Nel quinquennio a Napoli, dal 1707 capitale del Viceregno asburgico, impiegatosi come avvocato, si dedica però anche alla poesia stringendo relazioni con la nobiltà filoasburgica. Nel 1721, il viceré gli commissiona, per il compleanno di Elisabetta imperatrice d'Austria, la cantata Gli Orti Esperidi, musicata da Nicola Porpora , cui Pietro deve il completamento della sua educazione musicale. La parte di Venere è inoltre interpretata dalla «Romanina», alias Marianna Benti Bulgarelli, cui Pietro si lega d'amore e d'amicizia. La rappresentazione della serenata Angelica (1722), di nuovo composta per il compleanno dell'imperatrice, segna l'inizio della lunga amicizia con Carlo Broschi detto «il Farinello», il più celebrato sopranista del Settecento. Queste occasioni teatrali, destinate a spettacoli privati per un pubblico aristocratico, portano Metastasio sostanzialmente fuori dall'ortodossia arcadica che considerava non riformabile l'ircocervo barocco dell'opera. Esse rappresentano quindi il tirocinio di Metastasio nel vorticoso mondo dello spettacolo napoletano e delle sue esigenze (rapidità di allestimento, adattabilità a cantanti, musicisti, alle attese degli spettatori), la possibilità di sperimentare situazioni drammatiche e uno stile che verbalizzi le passioni. Metastasio rimarca nelle sue opere la primazia non solo della parola ma della necessità di coerenza drammatica rispetto alla musica e alle altre arti che contribuiscono a realizzare lo spettacolo drammaturgico. Il primo passo verso il ripristino di un dramma logocentrico è mosso grazie alle pressanti sollecitazioni della Romanina, per la quale Metastasio compone il suo primo melodramma: al teatro San Bartolomeo di Napoli, nel carnevale 1724, trionfa la Didone abbandonata. Il dramma - Enea abbandona l'innamorata Didone, amata dal re africano Iarba, mentre Selene, sorella della regina, è innamorata segretamente di Enea e amata da Araspe, confidente di Iarba - è costruito tutto sulla volitiva ed impulsiva figura di Didone, contrapposta alla debolezza dell’irresoluto Enea. Il dubbioso ondeggiare fra una ragione e l'altra, fra un affetto e l'altro - moto continuo che porta alla paralisi e mette in questione la propria identità e la propria missione - è un tratto tipico di moltissimi eroi metastasiani, come pure è tipica la contemporanea presenza nell'animo di più istanze e passioni, anche fra sé contrarie: è una traccia dell'influsso dell'interpretazione calopresiana delle Passions de l'âme, una lezione di cui Metastasio si serve Esiti di discussione collettiva di temi filosofici e d'attualità socio-economica inscritti in una prospettiva democratico-liberale, a partire da presupposti teorici sensistici e utilitaristici, sono l'opuscolo di Beccaria Del disordine e de' rimedi delle monete nello Stato di Milano nel 1762, nonché le Meditazioni sulla felicità, le Considerazioni sul commercio dello Stato di Milano e l'Orazione panegirica sulla giurisprudenza milanese (1763) di Pietro Verri. Il Caffè, periodico di lingua, letteratura, costume, economia e politica che esce ogni dieci giorni tra il giugno 1763 e il novembre 1766 (per un totale di 74 fogli, poi riuniti in due tomi), nasce proprio come costola di quest'Accademia, in ragione innanzitutto della coincidenza degli intellettuali coinvolti: oltre al nucleo ristretto della redazione già citato, vi contribuiscono gli economisti Sebastiano Franci e Gian Rinaldo Carli, i matematici e astronomi Paolo Frisi e Ruggero Boscovich, il bergamasco Pietro Secchi, con articoli che spaziano dalla coltivazione del tabacco in Lombardia alla critica teatrale, il poeta Giuseppe Colpani e l'ottico François Baillou. La rivista, ideata con l'intento di «promuovere e di spingere sempre più gli animi italiani allo spirito della lettura, alla stima delle scienze e delle belle arti, e ciò che è più importante all'amore delle virtù, dell'onestà, dell'adempimento de propri doveri», si riallaccia alla grande tradizione giornalistica europea ironica e accattivante che ha come capofila il britannico «The Spectator» di Addison, ponendosi allo stesso tempo in contrasto diretto con la pubblicistica nostrana della «Frusta letteraria» di Giuseppe Baretti, con cui ingaggia una polemica a distanza che percorre tutta la prima annata. La cornice di un caffè ideale in cui discutere i temi all'ordine del giorno costituisce un dispositivo formale di collegamento tra i testi, ma anche etico in quanto consente al maestro di cerimonie, Pietro Verri, di celarsi ironicamente dietro la figura ricorrente del caffettiere Demetrio. Altro collante tra i vari contributi è il presupposto di fondo che lo svecchiamento civile della società passi attraverso il superamento del sistema feudale di ancien régime, ottenuto attraverso la promozione dell'iniziativa imprenditoriale della classe borghese. Ma è soprattutto sull'accessibilità e linearità del discorso culturale, scientifico e letterario che il giornale insiste con convinzione. In particolare, il maggior contributore della rivista, Alessandro Verri, firma una serie di articoli che hanno come bersaglio proprio la pedanteria linguistica, additata come nemico fin dall'avviso ai lettori che apre la prima annata: il Saggio di legislazione sul pedantismo, la Rinunzia avanti notato degli autori del presente foglio periodico al Vocabolario della Crusca, il Promemoria che serve a maggior spiegazione della rinuncia al Vocabolario della Crusca e Del difetti della letteratura e di alcune loro cagioni. Nella Rinunzia (suddivisa in sette punti), Verri - a nome di tutti gli autori del Caffè - si sottrae all'autorità degli «oracoli della Crusca», che obbliga «a scrivere e parlare soltanto con quelle parole che si stimò bene di racchiudervi», rivendicando la necessità di attingere ad altre lingue per arricchire il patrimonio di lessico e di conoscenze dell'italiano. Le idee e le cose devono prevalere sulle parole, la ragione sulle leggi del «dispotico Regno Ortografico»: esempio ne è proprio la lingua del periodico, «che s'intende dagli uomini colti da Reggio di Calabria sino alle Alpi». Questa asserzione pone l'accento sulla «dimensione civile del fatto linguistico», frutto dell'«esigenza di adottare una funzionalità comunicativa che s'aprisse a tutta l'Italia il più ampiamente possibile» (Romagnoli). Un'istanza simile, anche se animata da un più vigoroso e scoperto spirito patriottico, proviene dall'istriano Carli, che nell'articolo Della patria degli italiani richiama l'attenzione sulla necessità di superare l'endemica frammentarietà politica, economica e morale della penisola in favore di un'unità civile su scala nazionale. Questo schizzo di ordinamento politico “federalista” è anche una testimonianza del pluralismo della rivista, in quanto lo stesso Pietro Verri, benché non ne apprezzi il punto di vista non in linea con il cosmopolitismo cui il periodico è improntato, accoglie l'intervento all'interno di questo vasto progetto editoriale e civile di «Cose varie, cose disparatissime, cose inedite, cose fatte da diversi autori, cose tutte dirette alla pubblica utilità». L'ENCYCLOPÉDIE L’Encyclopedie, diretta da Denis Diderot in collaborazione con d’Alembert, rappresenta il fatto culturale e editoriale più importante del secolo, un tentativo grandioso di mutare il modo di pensare comune. Nonostante l’opposizione della corte, dei magistrati, della polizia, dell’esercito, del papa e altri innumerevoli problemi, essa ebbe un’influenza enorme. L’opera fu il prodotto collettivo di due generazioni di intellettuali illuministi: cominciò a uscire nel 1751 e fu chiusa solo nel 1772. Fu una grande operazione, che rivela la sensibilità non solo culturale ma anche editoriale di Diderot. Egli riuscì comunque a trasformare un’operazione commerciale in una formidabile operazione culturale presto tradotta in ogni paese d’Europa, anche in Italia: infatti fu pubblicata a Lucca a partire dal 1758 e poi a Livorno nel 1770. Il modello dell’enciclopedia era stato rinnovato dal filosofo inglese Bacone che, nella prima metà del 1600, aveva cercato di delineare una grande enciclopedia delle scienze. Ma l’esempio più prossimo era quello del “Dizionario Storico e Critico” di Bayle che aveva condotto una lotta contro i dogmi e contro il principio di autorità. Gli enciclopedisti francesi dunque cercano di unire la forma del dizionario usata da Bayle a quella più scientifica e più enciclopedica di Bacone. Da un lato la trattazione è condotta per voci alfabetiche, dall’altro riguarda tutto il campo del sapere e mira a organizzarlo. I punti fondamentali di questa enciclopedia sono: • Conciliare l’unità del sapere con la sua articolazione, rifiutando tuttavia ogni visione sistematica a favore di una concezione empirista; • Prospettare un metodo di lavoro che respinga ogni dogma precostituito e si basi esclusivamente su ragione e verifica sperimentale; • Definire un bilancio della storia del pensiero; • Delineare una mappa del sapere dove al centro della ricerca non vi è più un su un supposto piano divino dell’universo, ma l’uomo, la sua ottica particolare e i suoi fini conoscitivi e pratici. DEI DELITTI E DELLE PENE Il testo più noto e importante dell’Illuminismo italiano è senza dubbio quello di Cesare Beccaria “Dei delitti e delle pene” pubblicato nel 1764 a Livorno. In esso convergono alcune delle idee sociali più significative della nuova cultura, espresse in uno stile elegante e limpido al tempo stesso, un modello di esposizione per i nuovi filosofi. L’autore aveva preferito far comparire anonimo il libello, nel timore di attacchi personali: e in effetti furono molte e tempestive le reazioni di condanna soprattutto da parte della Chiesa, che nel 1766 inserì l’opera nell’Indice dei libri proibiti. Ciò nonostante, il libro ebbe un successo strepitoso a tutti i livelli. L’opera è divisa in 42 brevi capitoli, ognuno dei quali tratta un aspetto specifico della questione dibattuta. Scopo dell’opera nel suo insieme è dimostrare l’assurdità e l’infondatezza del sistema giuridico attuale. Esso è smascherato quale sistema puramente repressivo, e rappresentato nei suoi insignificanti rituali di violenza. Anziché essere al servizio della giustizia, il sistema giudiziario si rivela fondato su un mostruoso meccanismo di potere. In particolare l’opera si scaglia contro la pena di morte, vertice di inciviltà gestito dallo Stato, e contro le pratiche di torture, inutili e barbare. Un altro elemento decisivo dell’opera è anche la distinzione tra reato e peccato: il reato risponde a un sistema di leggi liberamente concordato tra uomini e dunque esso deve essere definito in ottica laica e terrena. GIAMBATTISTA VICO Vico si dedica allo studio della filosofia antica e moderna, dei classici latini e volgari. Membro dell’Accademia degli Uniti con il nome di “Raccolto”, si dedica principalmente alla poesia italiana, ora però in forme arcadiche, e latina, prediligendo, in accordo con Gravina, versi che uniscano classicismo formale e contenuti morali e filosofici. In “La scienza nuova” l’autore tratta per la prima volta la Storia perché per lui ci sono leggi eterne nel comune divenire storico di tutti i popoli gentili. Il metodo è vitale per lui al fine di risalire alle verità originarie dell’uomo. GIUSEPPE PARINI La traiettoria poetica e culturale di Parini occupa l’intera seconda metà del 700 milanese: formazione arcadica, apertura all’Illuminismo, gusto neoclassico, adesione piena al riformismo di Maria Teresa d’Austria e distaccata a quello di Giuseppe II, fedeltà asburgica e rifiuto degli eccessi della Rivoluzione francese. È per vocazione un poeta e un educatore. La sua estrazione provinciale è all’origine del particolare punto di vista da cui osserva la società e gli uomini, immaginandone la riforma. La prossimità al mondo degli ultimi acuisce la sua percezione della strutturale ingiustizia della società, dell’immoralità dei privilegi e delle ricchezze di un’aristocrazia neghittosa e corrotta, vantaggi economico-sociali ingiustificabili ove non s’accompagnino a una moralità e a un’utilità comune che li riscatti. D’altra parte l’orgogliosa consapevolezza di essere un poeta, di far parte di un’aristocrazia spirituale, lo rende coscientemente diverso dai cenciosi plebei per nascita e spirito. Da qui il bisogno di autoritrarsi come poeta e di comporre una poesia “difficile”, distinguendosi in questo dalla facilità arcadica e dalla melodia metastasiana troppo compromesse con un uso sociale che svilisce la lirica. Impegna le risorse del suo talento letterario e pedagogico che, da un lato, con le armi della satira, invita ed educa a una riforma razionale e morale dell’uomo e della società, dall’altro, tramite la lode del merito e l’adesione alla verità, celebra la vera nobiltà dell’esistenza: virtù, libertà, tenerezza degli affetti. Giuseppe Parino, poi Parini, nacque a Bosisio il 23 maggio 1729 da una famiglia di piccoli commercianti. Nel 1738 arrivò a Milano dove frequentò la scuola dei Padri Barnabiti. Alloggiò e fu mantenuto agli studi da una prozia che, in cambio di una piccola eredità, gli chiese di prendere gli ordini sacerdotali. Nel 1752, anno in cui si diploma dai Barnabiti, pubblicò il suo Maria Teresa e i suoi ministri. È una scelta che porta avanti anche a costo di tralasciare l'attività poetica per più di un decennio: è del 1766 l'ultima ode civile, Il bisogno, in cui, come Beccaria, sostiene l’inutilità di pene aspre se non si pone rimedio alle cause socio- economiche del crimine. Il silenzio poetico sarà in parte compensato dalla nomina a poeta del teatro Ducale nel 1768, componendo poi alcuni drammi. Dopo l’esperienza da redattore del settimanale governativo «La Gazzetta di Milano» nel 1769, ricevette l’incarico di professore per la cattedra di Eloquenza e Belle Lettere nelle pubbliche Scuole Palatine. Le sue lezioni proponevano un classicismo purista fondato sul toscano degli autori di Trecento e Quattrocento, funzionale a uno stile comunicativo, semplice e forte, ispirato ai principi della retorica classica ed adatto anche a contenuti scientifici. Nel 1774 fu inserito nella Commissione per la revisione dei testi scolastici, redigendo nel 1776 un Piano per la riforma dei libri elementari scolastici. Nonostante l’aggravarsi della sua salute, la sua vita prosegue senza troppe incertezze, ricevendo persino nel 1791 un aumento di stipendio. Alla fine degli anni Settanta riprese l’attività poetica e letteraria e nel 1777 fu ammesso all’Arcadia con il nome di Darisbo Elidonio. Nello stesso anno scrisse La laurea, opera molto significativa perché riafferma la dignità della poesia e della persona del poeta libero di rappresentare solo chi vuole nelle sue opere. A questo tema s’affianca quello della celebrazione della bellezza, rappresentata in versi di compostezza neoclassica. Le odi più ambiziose degli anni Ottanta riprendono la tematica della Laurea precisando ulteriormente il nesso che lega la dignità della poesia e della persona del poeta alla volontà di questi di celebrare chi lo merita. Negli anni Ottanta riprende il lavoro, a lungo abbandonato, su Mattino, Mezzogiorno e Sera. Le condizioni sono però mutate: la spinta riformatrice ed educativa che anima le stampe degli anni Sessanta e che era sostenuta dal contesto e dal programma della ormai chiusa Accademia dei Trasformati si è riversata in un'effettiva partecipazione alle riforme teresiane. Inoltre il processo di revisione porta a un mutamento strutturale dell'opera che diviene un poema. Il Giorno, suddiviso in quattro parti (Mattino, Meriggio, Vespro, Notte), del quale restano, soprattutto per le ultime due parti, solo frammentari manoscritti autografi oltre ad appunti in prosa, che indicano alcuni dei temi che Parini intendeva sviluppare. Il lavoro sulla Notte prosegue fino al 1792-1796 per poi essere definitivamente abbandonato. I frammenti del Vespro e della Notte mostrano un indebolimento della funzione del precettore, che tende ad essere assorbito dalla struttura descrittiva. Viene così meno un elemento di fondamentale unità dell’opera, che tende così a disgregarsi in una serie di episodi staccati. Rientrati gli austriaci a Milano il 28 aprile 1799, Parini non fu coinvolto nella violenta repressione antifrancese e restò circondato dall'affetto di allievi e amici. Il 15 agosto 1799 morì nelle sue stanze a Brera, dove si era trasferito nel 1773. IL GIORNO Il Giorno, capolavoro di Parini, è poema in endecasillabi sciolti incompiuto. L’opera è divisa in quattro parti, e il poeta in vita ne pubblicò solo due: Il Mattino nel 1763 e Il Mezzogiorno nel 1765. Negli ultimi anni della sua vita si dedicò con grande impegno alla composizione delle due parti mancanti, Il Vespro e La Notte. L’oggetto del poema è il racconto di una giornata esemplare della vita di un giovane nobile, scandita nei quattro momenti della giornata, corrispondenti alle quattro parti dell’opera. Il racconto è svolto dal punto di vista del precettore, che intende guidare il “Giovin signore” attraverso le distinte tappe della sua giornata. Il precettore incarna una prospettiva decisamente critica e dissacratoria. In questo modo le meschinità, le vanità, i vizi e la corruzione del mondo aristocratico divengono oggetto di una caricatura feroce e di una denuncia antinobiliare. Prendendo quindi a enunciare i propri insegnamenti, il precettore mostra come la propria funzione sia piuttosto quella di scrivere la vita reale del suo rampollo che non quella di educarlo veramente a qualcosa. Il Mattino ha per tema le (in)attività d'un giovane aristocratico ed offre quindi un giudizio globale sulla nobiltà lombarda. Parini introduce però una nuova modalità di intervento e critica sociale: copre i panni del poeta satirico con quelli del maestro di eleganza e divertimento. Abbandona i toni dell'indignazione e della rivendicazione e costruisce il proprio conversevole discorso sull'ironia, sull'uso costante dell'antifrasi e sulla continua celebrazione ed elevazione stilistica di vite e oggetti preziosi ma fatui, che incessantemente rimandano a una realtà sociale di oppressione, sfruttamento, ingiustizia. L'edonismo poetico, linguistico e rappresentativo aggrava così la netta severità del giudizio morale sistematicamente sotteso ad ogni frase. “Il Mattino” esce, come primo poemetto anonimo, nel 1763 e rappresenta una prima parte del primitivo progetto pariniano non concluso. Si apre con l'ironica dedica Alla Moda: da essa dipendono la scelta degli endecasillabi sciolti (propri di una poesia didascalica, divulgativa, polemica, satirica) e la destinazione dell'opera ai «pacifici altari, ove le gentili dame e gli amabili garzoni sagrificano a sé medesimi le mattutine ore», Poesia da toilette, ostentatamente disimpegnata e modaiola. Tuttavia II Martino ha alle spalle, per il metro, poemi cinquecenteschi e settecenteschi; lo stile elegantissimo fa riferimento ai classici (Orazio, Virgilio); per genere si affianca a un capolavoro della poesia eroicomica come il Rape of the Lock di Pope. L’endecasillabo sciolto risponde alla volontà classicistica di riprodurre l’andamento narrativo didascalico dell’esametro latino. Sapientissima è la costruzione dell’endecasillabo pariniano, piegato a tutte le sfumature espressive e narrative grazie ad un’attenta dosatura di cesure, accenti, fonemi. L’utilizzo dell’enjambement dà solennità al costrutto sintattico. Lo scopo pariniano è quello di far cooperare organicamente la metrica e lo stile. La satira pariniana non abbassa il registro eroico in modo da deformarlo e sconvolgerlo, ma piuttosto lo tiene fermo sul piano formale, applicato però ad oggetti, personaggi e situazioni inadeguati ad esso. Insomma, Parini innalza il “fango” al livello degli eroi classici. Da ricordare è l’incredibile raffinatezza dello stile pariniano, che riguarda ogni piano del discorso. Il protagonista ufficiale del Giorno è il Giovin signore, a cui il narratore si rivolge attraverso la seconda persona singolare. Di questo protagonista non viene detto neppure il nome ed egli non pronuncia nemmeno una battuta. È un personaggio per cui la personalità è l’identità. Al contrario, una posizione più complessa è quella del narratore, il quale può essere interpretato come il vero protagonista dell’opera. Il narratore presenta se stesso come precettore della vita e dei piaceri del Giovin signore, quindi si mostra inserito in un meccanismo di complicità nei confronti del Giovine. Ma si tratta, anche qui, di una maschera: dietro la finzione del precettore si nasconde un dissimulato castigatore dei costumi corrotti. In qualunque modo vi è una complicità tra il Giovin signore ed il precettore. Il primo, vivendo senza senso critico una vita di apparenze, la crede eroica, così che il precettore ne offre la corrispondente definizione linguistica, proponendo un’interpretazione appunto eroica dei miseri eventi, cui è ridotta la giornata tipo di un aristocratico. L'inizio del Martino rivela subito tutto il suo sofisticato fascino letterario e la sua sostanza satirica: i riferimenti ironici alla nobiltà di sangue o di moneta; il raffronto fra la durezza degli avi e la vita oziosa e annoiata del signorino; le abitudini viziose e imbelli, ma anche la sua relativa innocenza per ignoranza o inconsapevolezza (la corruzione dei costumi sociali e educativi si ripercuote sul singolo). Al fondo della critica pariniana sta il tema del distacco della società aristocratica dalla natura. Per questo è emblematico l'inizio vero e proprio della mattinata del «Giovin Signore», che, reduce dalla nottata di festeggiamenti, si corica al canto del gallo che invece richiama all'opera contadini ed artigiani, presentati anche qui come modelli di vita laboriosa e accordata a un ordine elementare e superiore. La mattinata del nobile, risvegliatosi a giorno fatto, sarà tutta occupata dalla preparazione di sé per l'uscita in carrozza. Il risveglio, la colazione, la lunga sosta alla toilette e la vestizione offrono il destro per rappresentare la miriade d'oggetti e di persone che gli ruotano intorno, le visite ricevute (dei maestri di danza, musica, francese; del parrucchiere, del venditore di oggetti di lusso – pagato subito, diversamente dal sarto e dal calzolaio; del miniaturista che deve ritrarre la bella), l'esterofilia, superficialità e immoralità delle letture durante la pettinatura. Scopo dei preparativi è la comparsa nel bel mondo e soprattutto l'accompagnamento della dama di cui il «Giovin Signore» è cavalier servente. Ne darà conto la seconda parte del poema, ma già qui la riflessione sull'amore, come costume sociale, è un punto fondamentale del poemetto. A fronte della sana e feconda vita familiare degli umili, il cicisbeismo rappresenta il segno della corruttela nobiliare, della distorsione artificiosa del bene e della virtù. Alla divisione fra amore e matrimonio viene dedicata la favola di Amore e Imene, una delle due che Parini inserisce nel testo allo scopo di fornire un “riposo” poetico e dilettevole al lettore. Nello stesso 1765 è pubblicato il secondo poemetto sulla giornata del nobile: Il Mezzogiorno. Rispetto al Mattino, non muta l'impianto formale e ideologico, ma si arricchisce di nuovi temi, personaggi e un maggiore movimento articolato in quattro tempi: l'arrivo del Giovin Signore presso la Dama, il desinare, il caffè ed il gioco, la passeggiata al Corso. Vengono alla ribalta la Dama, che si è lungamente preparata, i corteggiatori che l'attorniano, il marito inebetito cui è vietata la gelosia e che si cruccia solo perché il ritardare del cavaliere ritarda l'ora del pasto. Al suono dei passi del Giovin Signore si compone in un istante la scena delle reciproche consapevoli finzioni. Il cicisbeismo, ovvero il rituale rapportarsi di Dama e Cavaliere di cui parte reciproche infedeltà, studiati litigi e gelosie, e la pittura dei tipi e delle mode che caratterizzano la socialità nobiliare sono le due fila da cui dipendono le scene e gli episodi del Mezzogiorno, nonché le due favole. Prima non solva che già grande il giorno 60 Fra gli spiragli penetrar contenda De le dorate imposte; e la parete Pingano a stento in alcun lato i rai Del sol ch’eccelso a te pende sul capo. Or qui principio le leggiadre cure 65 Denno aver del tuo giorno: e quindi io deggio Sciorre il mio legno, e co’ precetti miei Te ad alte imprese ammaestrar cantando. Già i valetti gentili udìr lo squillo De’ penduli metalli a cui da lunge 70 Moto improvviso la tua destra impresse; E corser pronti a spalancar gli opposti Schermi a la luce; e rigidi osservaro Che con tua pena non osasse Febo Entrar diretto a saettarte i lumi. 75 Ergi dunque il bel fianco, e sì ti appoggia Alli origlier che lenti degradando All’omero ti fan molle sostegno; E coll’indice destro lieve lieve Sovra gli occhi trascorri, e ne dilegua 80 Quel che riman de la cimmeria nebbia; Poi de’ labbri formando un picciol arco Dolce a vedersi tacito sbadiglia. Ahi se te in sì vezzoso atto mirasse Il duro capitan quando tra l’arme 85 Sgangherando la bocca un grido innalza Lacerator di ben costrutti orecchi, S’ei te mirasse allor, certo vergogna Avria di sé più che Minerva il giorno Che di flauto sonando al fonte scorse 90 Il turpe aspetto de le guance enfiate. Ma il damigel ben pettinato i crini Ecco s’innoltra; e con sommessi accenti Chiede qual più de le bevande usate Sorbir tu goda in preziosa tazza. 95 Indiche merci son tazza e bevande: Scegli qual più desii. S’oggi a te giova Porger dolci a lo stomaco fomenti Onde con legge il natural calore V’arda temprato, e al digerir ti vaglia, 100 Tu il cioccolatte eleggi, onde tributo Ti diè il Guatimalese e il Caribeo Che di barbare penne avvolto ha il crine: Ma se noiosa ipocondria ti opprime, O troppo intorno a le divine membra 105 Adipe cresce, de’ tuoi labbri onora La nettarea bevanda ove abbronzato Arde e fumica il grano a te d’Aleppo Giunto e da Moca che di mille navi Popolata mai sempre insuperbisce. 110 le avvince prima che il giorno ormai avanzato 60 Tenti di penetrare tra gli spiragli delle imposte dorate; ed è giusto che i raggi colpiscano appena la parete da qualche parte del sole che alto ti pende sopra la testa. Ora qui devono cominciare le occupazioni 65 della tua giornata: e quindi io devo salpare con la mia nave, e con i miei precetti educarti col canto all’alte imprese. Già i valletti premurosi hanno udito lo squillo vicino del campanello a cui da lontano 70 la tua mano destra impresse il movimento; e corsero prontamente a spalancare le imposte che proteggono dalla luce; e scrupolosamente badarono che Febo non osasse procurarti fastidio entrando direttamente negli occhi. 75 Solleva dunque il bel fianco, e così appoggiati ai cuscini, i quali degradando dolcemente ti fanno da molle sostegno alle spalle; Poi scorrendo l'indice destro con molta leggerezza, scorri sopra gli occhi, e togli da lì 80 ciò che resta della nebbia Cimmeria; e formando con le labbra un piccolo arco, bello da vedere, sbadiglia silenziosamente. Oh se ti vedesse compiere un gesto così aggraziato il rozzo capitano quando in battaglia, 85 storcendo le labbra, lancia un grido che lacera anche le orecchie più resistenti; Se ti vedesse così, sicuramente avrebbe vergogna di sé più di quanta ne ebbe Minerva il giorno in cui, suonando il flauto, vide in uno specchio d'acqua 90 il brutto aspetto delle sue guance gonfie. Ma già vedo entrare di nuovo il tuo servo ben pettinato; con sommessi accenti ti chiede quale delle solite bevande oggi tu preferisca bere nelle tazze preziose, 95 tutte merci e bevande provenienti dalle Indie: scegli quella che più desideri. Se oggi preferisci dare allo stomaco un gradevole tepore, in modo che il calore naturale vi bruci in giusta misura, e ti aiuti a digerire, 100 scegli la cioccolata scura, della quale ti fanno dono i Guatemalesi e i Caraibici, che hanno i capelli avvolti di piume come i barbari: ma se una noiosa tristezza ti opprime, o cresce troppo grasso intorno alle tue membra 105 graziose, rendi onore con le tue labbra al caffè divino come il nettare, dove abbrustolito fuma e brucia tostato il seme arrivato a te da Aleppo e da Moca, città superba per le mille navi che sempre la affollano. 110 Certo fu d’uopo che dai prischi seggi Uscisse un regno, e con audaci vele Fra straniere procelle e novi mostri E teme e rischi ed inumane fami Superasse i confin per tanta etade 115 Inviolati ancora: e ben fu dritto Se Pizzarro e Cortese umano sangue Più non stimàr quel ch’oltre l’oceàno Scorrea le umane membra; e se tonando E fulminando alfin spietatamente 120 Balzaron giù dai grandi aviti troni Re messicani e generosi Incassi, Poi che nuove così venner delizie O gemma degli eroi al tuo palato. Cessi ’l cielo però che, in quel momento 125 Che le scelte bevande a sorbir prendi, Servo indiscreto a te improvviso annunci O il villano sartor che non ben pago D’aver teco diviso i ricchi drappi Oso sia ancor con polizza infinita 130 Fastidirti la mente; o di lugùbri Panni ravvolto il garrulo forense Cui de’ paterni tuoi campi e tesori Il periglio s’affida; o il tuo castaldo Che già con l’alba a la città discese 135 Bianco di gelo mattutin la chioma. Così zotica pompa i tuoi maggiori Al dì nascente si vedean d’intorno: Ma tu gran prole in cui si féo scendendo E più mobile il senso e più gentile 140 Ah sul primo tornar de’ lievi spirti All’uficio diurno ah non ferirli D’imagini sì sconce. Or come i detti Di costor soffrirai barbari e rudi; Come il penoso articolar di voci 145 Smarrite titubanti al tuo cospetto; E tra l’obliquo profondar d’inchini Del calzar polveroso in sui tapeti Le impresse orme indecenti? Ahimè che fatto Il salutar licore agro e indigesto 150 Ne le viscere tue te allor faria E in casa e fuori e nel teatro e al corso Ruttar plebeiamente il giorno intero! Non fia che attenda già ch’altri lo annunci, Gradito ognor benché improvviso, il dolce 155 Mastro che il tuo bel piè come a lui piace Guida e corregge. Egli all’entrar s’arresti Ritto sul limitare, indi elevando Ambe le spalle qual testudo il collo Contragga alquanto, e ad un medesmo tempo 160 Il mento inchini, e con l’estrema falda Certo fu necessario che la Spagna uscisse dai suoi antichi territori, e con navi ardite, tra tempeste in mari stranieri, nuovi mostri, paure, rischi e privazioni inumane superasse i confini da tempo 115 rimasi inviolati; ed è giusto che Cortes e Pizarro non giudicarono umano il sangue che scorreva negli uomini d'oltre oceano, per cui, colpi d’arma da fuoco e a colpi di cannone spietatamente 120 rovesciarono dai loro antichi troni i re Aztechi e i valorosi Incas, perché in questo modo giunsero nuove delizie al tuo palato, o gemma degli eroi. Non voglia il Cielo però che in quel momento 125 in cui ti accingi a bere le bevande che hai scelto, il servo inopportuno non ti annunci all’improvviso o il sarto villano, che non soddisfatto di avere condiviso con te le stoffe preziose abbia osato ancora, con un conto interminabile, 130 chiedertene il pagamento: o il rumoroso forense avvolto in lugubri panni, a cui si affida la sorte dei tuoi campi e tesori paterni; o il tuo amministratore di beni che già all’alba discese in città, 135 i capelli bianchi per il gelo della brina mattutina. Così una pompa zotica i tuoi antenati si vedevano intorno all’alba: Ma tu, gran discendenza, in cui si fece progredendo più mobile il senso e anche più gentile 140 ah sul primo ritorno dei lievi spiriti alle occupazioni mattutine, ah non colpirli con immagini sconce. Oppure come sopporterai le parole di queste persone barbare e rudi: Come sopporterai il penoso chiacchierare di 145 voci che si smarriscono timorose al tuo cospetto; E trai profondi inchini come sopporterai della scarpa polverosa sui tappeti le impresse orme indecenti? ahimè, che resa quella salutare bevanda aspra e indigesta 150 tra le tue viscere, ti farebbe eruttare in modo plebeo tutto il giorno sia in casa che fuori, in teatro e al corso. Ma il dolce maestro, che guida e corregge i tuoi piedi a suo piacimento non attende che gli altri 155 lo annuncino, ogni ora gradito, benché arrivi improvvisamente. Lui all’entrata si fermi dritto sulla soglia, dunque alzando entrambe le spalle, come fosse una tartaruga quando contrae il collo, e allo stesso tempo 160 inchini il mento e con l’estrema punta Del piumato cappello il labbro tocchi. E non men di costui facile al letto Del mio signor t’innoltra o tu che addestri A modular con la flessibil voce 165 Soavi canti; e tu che insegni altrui Come vibrar con maestrevol arco Sul cavo legno armoniose fila. Né la squisita a terminar corona Che segga intorno a te manchi o signore 170 Il precettor del tenero idioma Che da la Senna de le Grazie madre Pur ora a sparger di celeste ambrosia Venne all’Italia nauseata i labbri. All’apparir di lui l’itale voci 175 Tronche cedano il campo al loro tiranno: E a la nova inefabil melodia De’ sovrumani accenti odio ti nasca Più grande in sen contro a le bocche impure Ch’osan macchiarse ancor di quel sermone 180 Onde in Valchiusa fu lodata e pianta Già la bella Francese; e i culti campi All’orecchio dei re cantati furo Lungo il fonte gentil da le bell’acque. Or te questa o signor leggiadra schiera 185 Al novo dì trattenga: e di tue voglie Irresolute ancora or quegli or questi Con piacevol discorso il vano adempia, Mentre tu chiedi lor tra i lenti sorsi Dell’ardente bevanda a qual cantore 190 Nel vicin verno si darà la palma Sovra le scene; e s’egli è il ver che rieda L’astuta Frine che ben cento folli Milordi rimandò nudi al Tamigi; O se il brillante danzator Narcisso 195 Torni pur anco ad agghiacciare i petti De’ palpitanti italici mariti. Così poi che gran pezzo ai novi albori Del tuo mattin teco scherzato fia Non senza aver da te rimosso in prima 200 L’ipocrita pudore e quella schifa Che le accigliate gelide matrone Chiaman modestia, alfine o a lor talento O da te congedati escan costoro. Doman quindi potrai o l’altro forse 205 Giorno ai precetti lor porgere orecchio Se a’ bei momenti tuoi cure minori Porranno assedio. A voi divina schiatta Più assai che a noi mortali ciel concesse Domabile midollo entro al cerèbro, 210 Sì che breve lavoro unir vi puote Ampio tesor d’ogni scienza ed arte. del cappello piumato si tocchi il labbro. E non meno di lui, liberamente, accostati al letto del mio Signore o tu che insegni a intonare con voce agile 165 teneri canti, e tu che insegni agli altri come far vibrare con maestria sul violino armoniose note Né a terminare la bella corte intorno al tuo letto manchi, o Signore, 170 l’insegnante della bella lingua francese, che dalla Senna, madre delle Grazie, venne a spargere di ambrosia celeste le labbra all’Italia insofferente nei confronti della propria lingua. Quando appare, le parole italiane 175 tronche cedano il campo al loro tiranno: E alla inaudita ineffabile melodia dei superbi accenti ti nasca odio più grande in seno contro le bocche impure che osano ancora macchiarsi di quella lingua 180 con la quale in Valchiusa fu lodata e pianta già la bella Francese (Laura); e con la quale vennero cantati i campi all’orecchio del re lungo la dolce fonte dalle belle acque (Fontainebleau). Dunque, o Signore, questa bella schiera 185 Ti trattenga al giorno appena iniziato: e delle indecisioni sul da farsi o quelli o questi occupi i tempi vuoti con un piacevole discorso, mentre chiedi loro tra i lenti sorsi della bevanda calda a quale cantante lirico 190 nell’inverno prossimo si darà la vittoria sopra le scene; e se è vero che torna l’astuta Frine che ben cento folli Signori rimandò poveri al Tamigi; O se il ballerino vanesio Narciso 195 torna ancora ad ingelosire i mariti italici dagli apprensivi petti Poiché per così lungo tempo alle prime luci del tuo mattino, avranno scherzato con te, non senza aver riposto prima 200 l’ipocrito pudore, e quella riservatezza che le severe e accigliate matrone chiamano modestia, o per loro volontà o da te congedati, vadano via costoro. Quindi domani o dopodomani, forse potrai 205 porgere gli orecchi ai precetti loro se porranno assedio con cure minori ai tuoi bei momenti. A voi stirpe divina il Cielo concesse più assai che a noi mortali più materia cerebrale dentro alla scatola cranica 210 così che una minima fatica vi basta per imprimervi nuove idee. Entrò nell’alto, e il grande arco crollando 315 E il capo risonar fece a quel moto Il duro acciar che a tergo la faretra Gli empie, e gridò: «Solo regnar vogl’io». Disse, e volto a la madre: «Amore adunque, Il più possente in fra gli dei, il primo 320 Di Citerea figliuol, ricever leggi, E dal minor german ricever leggi, Vile alunno anzi servo? Or dunque Amore Non oserà fuor ch’una unica volta Fiedere un’alma come questo schifo 325 Da me pur chiede? E non potrò giammai Da poi ch’io strinsi un laccio anco disciorlo A mio talento, e se m’aggrada, un altro Strignerne ancora? E lascerò pur ch’egli Di suoi unguenti impece a me i miei dardi 330 Perché men velenosi e men crudeli Scendano ai petti? Or via perché non togli A me da le mie man quest’arco e queste Armi da le mie spalle, e ignudo lasci Quasi rifiuto degli dei Cupido? 335 Oh il bel viver che fia quando tu solo Regni in mio loco! Oh il bel vederti, lasso! Studiarti a torre da le languid’alme La stanchezza e il fastidio, e spander gelo Di foco in vece! Or genitrice intendi: 340 Vaglio e vo regnar solo. A tuo piacere Tra noi parti l’impero, ond’io con teco Abbia omai pace; e in compagnia d’Imene Me non veggan mai più le umane genti». Amor qui tacque; e minaccioso in atto 345 Parve all’idalia dea chieder risposta. Ella tenta placarlo, e preghi e pianti Sparge ma in van; tal ch’ai due figli volta Con questo dir pose al contender fine: «Poi che nulla tra voi pace esser puote, 350 Si dividano i regni: e perché l’uno Sia dall’altro fratello ognor disgiunto Sien diversi tra voi e il tempo e l’opra. Tu che di strali altero a fren non cedi L’alme ferisci, e tutto il giorno impera; 355 E tu che di fior placidi hai corona Le salme accoppia, e con l’ardente face Regna la notte». Or quindi almo signore Venne il rito gentil che ai freddi sposi Le tenebre concede e de le spose 360 Le caste membra; e a voi beata gente E di più nobil mondo il cor di queste E il dominio del dì largo destina. volò a cielo aperto, e scuotendo con forza 315 il grande arco e il capo, fece risuonare, con quel movimento, le frecce che dietro gli riempiono la faretra, e allora gridò: «voglio regnare solo io!» Disse, e rivoltosi alla madre aggiunse: «Amore dunque, il più forte degli dei, il primo figlio 320 di Venere a ricevere le leggi, dal fratello minore dovrebbe ricevere le leggi, come un misero allievo, anzi come un servo? Ora dunque Amore non avrà che una sola volta per colpire l’anima, come questo schizzinoso 325 a me chiede? E non potrò più stringer un laccio amoroso e scioglierlo a mio piacimento e, se mi fa piacere, stringerne ancora un altro? E lascerò pure che lui imbratti con i suoi unguenti i miei dardi, 330 cosicché meno velenosi e meno crudeli scendano di più al cuore? Dai, perché non togli dalle mie mani quest’arco e dalle mie spalle queste frecce e lasci nudo Cupido, quasi come un rifiuto degli dei? 335 Oh, il bel vivere che fai quando tu solo regni al mio posto! Oh, com'è bello vederti tranquillo! studiarti mentre togli dai languidi corpi La stanchezza ed il fastidio e spargi freddo Anziché calore! Ora, madre, cerca di capirmi: 340 Voglio e desidero regnare da solo. dividi tra noi come preferisci l’impero, affinché io con te possa stare in pace; e le genti umane non mi vedano più in compagnia di Imene» Amore stette in silenzio; e con fare minaccioso 345 sembrava aspettare una risposta da Venere. Lei tenta di calmarlo, con pianti e con preghiere che sparge, ma invano; finché si voltò ai due figli dicendo così, per porre fine al problema: «Poiché tra voi due sembra non poter essere 350 pace che vengano divisi i regni, e perché possiate essere separati in qualsiasi momento siano diversi sia lo scopo che il tempo. Tu che, fiero delle tue frecce, non sai regolarti ferisci pure i corpi e governa tutto il giorno, 355 E tu che di placidi fiori hai una corona, accoppia i corpi e con la fiaccola accesa regna la notte». Ora quindi, nobile Signore venne il rito gentile che concede agli sposi le caste membra 360 delle spose; e a voi, gente beata e del mondo nobile, destina il loro cuore e il dominio del grande giorno. LA COMMEDIA DELL’ARTE Nel Seicento in Italia si vive il clima della Controriforma cattolica. Si crea dunque una situazione culturale che induce a togliere importanza alla parola a favore del gesto o della musica. L’attore diventa dunque un mestiere vero e proprio, riconosciuto e retribuito come tale, che comporta anche una specifica specializzazione. A poco a poco nascono i primi teatri pubblici, distinti dai teatri di sala delle corti. La prima compagnia di professionisti nasce a Padova nel 1545. Questo tipo di Commedia si basa soprattutto sull’uso delle maschere e sull’improvvisazione, infatti, per questo è detta anche “Commedia dell’Improvvisazione”. I caratteri della Commedia dell’arte sono: a. La recitazione si basa esclusivamente su “canovacci”: trame con intrecci superficiali su cui gli attori dovevano inserirsi improvvisando con tecniche di recitazione di un certo livello. Tuttavia non tutto era affidato all’improvvisazione. Vi erano delle battute scritte, dei “generici”: passaggi fissi che facevano parte di repertori degli attori. Altri momenti fissi erano i “lazi”, ovvero scherzi, giochi di parole; b. Presenza irriverente delle “maschere” e personaggi fissi: vi era una certa continuità. Le compagnie tipo erano formate da: – due “zanni”, cioè, due servitori: uno furbo (Brighella) e uno sciocco (Arlecchino, Pulcinella) – due anziani – due innamorati i quali non erano mascherati e attorno ai quali si sviluppa tutto l’intreccio. c. Di solito gli innamorati vengono aiutati dal servo furbo e quello sciocco rovina tutto. La Commedia dell’arte è un fenomeno di lunga durata nella storia del teatro italiano. Esso si protrae dalla metà del Cinquecento fino alla riforma goldoniana, intorno alla metà del Settecento. Ancora oggi la commedia dell’arte costituisce un punto di riferimento importante per molti studiosi di spettacolo. I comici dell’arte sono attori di professione e non più dilettanti occasionalmente prestati al palcoscenico; essi vivono del loro mestiere di attori. Inoltre il pubblico della Commedia dell’arte non è aristocratico ma sostanzialmente borghese. Soprattutto è un pubblico non selezionato: chiunque paghi il biglietto può accedere allo spettacolo. CARLO GOLDONI E LA RIFORMA DEL TEATRO COMICO Il percorso di Goldoni nella letteratura italiana del Settecento è segnato in primo luogo dalla proposta di una riforma, di cui è l’interprete più significativo e principale apologeta, da un’azione di rinnovamento all’interno del teatro comico maturata nel corso di una stagione decisiva, tra mutamenti sociali e il progressivo diffondersi anche in Italia della riflessione illuministica. Si fronteggiano, da un lato le convenzioni e gli stereotipi della commedia dell'arte, dall'altro un nuovo teatro fondato sulla cura di personaggi e testi, pensato in rapporto alla grande letteratura europea. In Goldoni la ricerca di riforma convive con una ripresa rispettosa delle convenzioni teatrali o con la pratica del teatro musicale. Il passaggio tra vecchio e nuovo avviene dunque con lentezza e gradualità, persino con un'area di ambigua convivenza tra pratiche teatrali assai differenti. Nacque a Venezia nel 1707 da una famiglia di origine modenese, e nei primi anni i suoi studi seguirono gli spostamenti del padre. Nel 1723 entrò in un collegio a Pavia per svolgere gli studi di giurisprudenza ma nel 1725 venne espulso. Gli anni successivi furono occupati da viaggi e varie occupazioni, fino a quando iniziò a svolgere mansioni giuridiche minori, per le quali risultava sufficiente la formazione solo parziale fin qui ricevuta. Questa formazione irrequieta si legò subito alla scrittura teatrale. Si tratta di una passione che viene per tradizione ricollegata a un episodio della fanciullezza, raccontato in un brano della più tarda autobiografia. Nell'aprile 1721 Goldoni così descrive una fuga da Rimini per tornare a Chioggia, imbarcandosi con una compagnia di comici. Nello stile concitato del racconto si legge il fascino per un mondo carico di vitalità e allegria, animato dalle bizzarrie degli attori e da un clima di spensieratezza che Goldoni avverte subito come affascinante. Una brusca torsione arrivò nel 1731 quando, costretto in certa misura dalla morte del padre, prese la laurea in legge e l'anno dopo cominciò ad esercitare la professione di avvocato a Venezia. Si trattava di una pratica che coprirà e condizionerà gli anni successivi, ma che non cancellò la tensione per la scrittura di teatro. Dal 1734 iniziò a collaborare con il teatro San Samuele di proprietà Grimani e con un altro teatro, il San Giovanni Grisostomo, specializzato nella proposta di opere musicali. Prese il via così una stagione fitta di opere, una sorta di apprendistato concreto, nel quale vanno sottolineati il rapporto con il capocomico Giuseppe Imer e i primi successi nel confronto con il pubblico di Venezia. Nel 1736 sposò la giovane Nicoletta Connio, che gli rimarrà accanto per tutta la vita. Tra 1737 e 1741 consolidò il rapporto con il San Giovanni Grisostomo, un rapporto che passa attraverso la composizione di drammi seri e giocosi, di cantate e intermezzi, brevi azioni sceniche che erano appunto collocate nella pausa tra i diversi atti degli spettacoli. Nel 1738 Goldoni scrisse il Momolo cortesan, una commedia nella quale accanto alle indicazioni sommarie riservate agli attori, la parte del protagonista è scritta per intero, precisata in battute definite. L'opera sarà poi riscritta e pubblicata con il titolo di L'uomo di mondo nel 1757, secondo una dinamica di ripresa e revisione a distanza dei testi, interessante e insieme ambiguo, per la volontà spesso evidente dell'autore di mascherare le carte; così, mentre non ci è pervenuto il canovaccio della commedia andata in scena nel 1738, nell'Uomo di mondo tutte le parti saranno interamente dettagliate, in una prospettiva di più deciso abbandono della pratica dei canovacci. L’opera rappresentò da subito una svolta: la mediazione tra una sezione scritta e parti lasciate all’improvvisazione degli attori. Inoltre viene maturata una riforma della maschera tradizionale di Pantalone: la figura perde i tratti più convenzionali e rigidi, assumendo invece toni più seri e meditati, diventando quasi un polo positivo nella rappresentazione della società veneziana. I primissimi anni Quaranta sono fitti di scritture. Nel periodo del San Samuele, Goldoni mise a fuoco gli elementi chiave della sua riforma attraverso un rapporto serrato con il pubblico veneziano e con le compagnie degli attori. La proposta di una innovazione convisse in Goldoni con una parziale conservazione dei moduli della commedia dell'arte, proprio in ragione del necessario spirito di mediazione con quella che era la pratica degli attori. Dopo aver ricoperto nel triennio 1740-1743 la carica di console della Repubblica di Genova a Venezia, nel 1744 fu costretto a lasciare Venezia a causa di una serie di debiti, trasferendosi a Pisa. Nel periodo pisano ci fu la sua aggregazione all’Arcadia con il nome di Polisseno Fegejo. Nel 1748 terminò il suo soggiorno pisano e anche la sua attività da avvocato. Ritornò a Venezia, dove sottoscrisse un contratto per cinque anni con l’impresario Girolamo Medebach, scegliendo di perseguire in modo esclusivo la professione teatrale. francesi, svolgendo persino a più riprese l’incarico di insegnante di italiano presso la famiglia reale francese. Nel 1783, ormai ultra settantacinquenne, avviò la composizione dei Mémoires, autobiografia scritta in francese. L’opera fu composta tra il 1783 e il 1787 e si articola in tre grandi arcate: Parte prima → infanzia, formazione e giovinezza: narrazione che procede a scatti, ora efficacissima ora poco elaborata nella sua immediatezza; Parte seconda → gli anni della scrittura teatrale a Venezia: articolato manifesto di poetica a difesa della propria riforma; Parte terza → gli anni francesi: romanzo di viaggio e un saggio sui costumi francesi. Le ultime due parti sono soprattutto mirate alla costruzione di un mito, e il romanzo di una vita offre il supporto a un progetto culturale e ideologico che Goldoni vuole così suggellare, sia pure dalla prospettiva di Parigi, ormai lontano dal mondo italiano. Più in generale i Mémoires portano a piena espressione quella tendenza autobiografica che è costantemente presente nella scrittura goldoniana e che scandiva, seppure con altri toni, anche le prefazioni alle edizioni delle sue opere. L'opera fu pubblicata nel 1787 ma rimase sostanzialmente senza pubblico. Gli ultimi mesi di Goldoni sono turbati dallo sconvolgimento rivoluzionario, cui assistette come un uomo d'altri tempi: nel giugno 1792 la sua pensione reale venne revocata, provvedimento che lo ridusse in condizioni di effettiva miseria, morendo a Parigi nel 1793. Nel gioco complesso tra testo rappresentato sulle scene e testo pubblicato in volume, il caso di Goldoni si offre come un esempio di grande interesse per le diverse iniziative editoriali e per i ripetuti ritorni dell'autore sui propri testi. Una prima edizione Bettinelli prese avvio durante la stagione di collaborazione con il teatro San Samuele e vide il primo volume aperto dalla decisiva introduzione su «Mondo» e «Teatro». L'edizione andò avanti fino al 1757 (9 volumi, di cui solo i primi 3 seguiti e approvati dall'autore), ma già dal 1753, interrotto il rapporto con Medebach, Goldoni riorganizzò i suoi testi in una nuova edizione, la Paperini, stampata a Firenze, che proseguì fino al 1757 (10 volumi). Una nuova pubblicazione complessiva venne avviata ancora a Venezia nel 1761 presso Pasquali e sarà portata avanti fino al 1780 (complessivamente 17 volumi), con i singoli volumi accompagnati da interventi e presentazioni d'autore che spesso offrono notizie ed elementi significativi. Ultima iniziativa fu rappresentata dall’edizione Zatta, pubblicata a Venezia tra il 1788 e il 1795, per 44 tomi complessivi, gli ultimi finiti di stampare dopo la morte dell’autore. LA LOCANDIERA “La locandiera” è una commedia in tre atti divisi in 62 scene, rappresentata per la prima volta nel 1753 al teatro Sant’Angelo di Venezia. Non riscuotendo inizialmente grande successo tra il pubblico, si è rivelato in seguito una delle opere più importanti di Goldoni. La commedia si svolge interamente all’interno di una locanda fiorentina, gestita da una giovane donna di nome Mirandolina, che risulta essere la protagonista intorno alla quale ruotano tutte le vicende. Goldoni ce la presenta come una donna astuta e seducente che riesce a far cadere ai suoi piedi tutti gli uomini presenti nella taverna. ATTO 1: La scena si apre presentandoci, in un colloquio pieno di ripicche, il Marchese di Forlipopoli, di antica nobiltà ma squattrinato, e il Conte d'Albafiorita, assai ricco ma dal titolo comprato: entrambi sono innamorati di Mirandolina, la locandiera. In scena entra poi Fabrizio, cameriere della locanda, anch'egli innamorato della sua padrona. Il quarto personaggio è il Cavaliere di Ripafratta, che afferma più volte di stimare poco le donne e tanto meno la locandiera. A questo punto appare in scena Mirandolina, che disgusta gli sciocchi spasimanti e si prefigge come scopo di far innamorare di lei il Cavaliere. Giungono poi alla locanda due commedianti, Ortensia e Dejanira, che si spacciano una per baronessa e l'altra per contessa. La loro finzione è scoperta solo dall'astuta Mirandolina che, divertita dal lazzo, sta al gioco. ATTO 2: Il secondo atto si apre con un astuto segno di attenzione della locandiera per il Cavaliere, facendogli servire il pranzo per primo, il quale apprezza la cortesia e comprende come Mirandolina riesca ad “incantare” tutti. Il Cavaliere decide di ripartire subito perché non vuole essere ammaliato nuovamente dalla locandiera, ma Mirandolina lo raggiunge, desolata e piangente per la sua improvvisa decisione, e simula addirittura uno svenimento. Il povero misogino-innamorato non sa che fare e le sussurra dolci parole d'amore: Mirandolina trionfa felice, l'impresa è fatta. ATTO 3: In un colloquio con Fabrizio, alternando i comandi alle promesse, ella lo lega a sé ancor di più, mentre il Cavaliere le manda in regalo una boccetta piena di spirito di melissa, in caso di altri svenimenti. Mirandolina rifiuta e il Cavaliere va in collera. La bella locandiera allora comincia a manifestare un po’ di paura per il gioco pericoloso che sta facendo e perciò decide di sposare Fabrizio. Il Cavaliere, divenuto geloso, esplode contro Fabrizio e si rivela innamorato della donna anche davanti al Marchese e al Conte. Tutto si sta per concludere in un duello con tanto di spade, quando Mirandolina fa sapere la sua decisione di voler sposare Fabrizio. Il Cavaliere se ne va furioso e Mirandolina prega il Conte e il Marchese di alloggiare presso un'altra locanda. “La locandiera” risulta essere una commedia “dei caratteri” nella quale Goldoni indaga a fondo sulla psicologia dei personaggi, che risultano mutare ed evolvere durante le commedia, ed attraverso essi delinea i tratti caratteristici della società del Settecento. Le classi sociali che vengono principalmente trattate sono quella della nobiltà e della borghesia mentre il popolo invece rimane ai margini della storia. Il Marchese di Forlimpopoli ed il Conte d’Albafiorita rappresentano due sfaccettature della nobiltà contemporaneamente esistenti nel Settecento: Il Marchese appartiene alla nobiltà di “sangue”, ormai caduta in rovina e ancora convinta che lavorare sia disonorevole; Per il Marchese, il Conte non è propriamente un nobile in quanto nelle sue vene non circola sangue blu, avendo acquistato il titolo che porta. Tra di essi naturalmente nascono continue discussioni o di tipico stampo sociale o al riguardo della avvenente Mirandolina. Quest’ultima è invece la rappresentante della classe sociale emergente all’epoca di Goldoni. Essa si rivela come una donna d’ affari, o meglio una donna imprenditrice, il cui unico scopo è l’affermazione individuale come soggetto indipendente. Mirandolina, infatti, non vuole perdere la sua autonomia e, per poter far funzionare al meglio la sua locanda, preferisce “accontentarsi” e sposarsi con Fabrizio, un uomo proveniente dalla sua stessa classe sociale. Questa elaborazione e trattazione dei caratteri anche nei loro più piccoli particolari risulta essere il frutto della riforma del teatro comico operata da Goldoni, che si era difficilmente imposto sulla ormai tradizionale Commedia dell’Arte, riuscendoci però grazie alle personalità di Medebach e Vendramin. Con questa “rivoluzione” Goldoni riuscì ad imporre l’uso di un copione interamente scritto, che ridava importanza sia alle opere stesse, che rimanevano immutate nel corso del tempo, sia al drammaturgo, che riassumeva un ruolo centrale nella delineazione di un’opera. Alle commedie vennero restituiti i valori di realismo sociale e psicologico che con le “maschere” della Commedia dell’Arte erano stati totalmente persi a causa della forte tipizzazione data ai “personaggi” e alla non esistenza di un testo teatrale vero e proprio. Ridiede inoltre alla commedia un intento etico e morale, precedentemente perso per il prevalere dell’intento comico: infatti quando il testo venne pubblicato a stampa, Goldoni lo fece precedere dalla lettera di dedica al patrizio fiorentino Rucellai e da una nota dell’autore a chi legge, in cui vengono chiaramente esposti i motivi e le giustificazioni morali della composizione della commedia. Nella lettera Goldoni cerca di ricondurre le eventuali contraddizioni riscontrabili nell’opera entro i confini e lo statuto della composizione letteraria. Nella nota al lettore, invece, l’utilità morale della commedia viene individuata nell’essere un esempio da “evitare”. Ma se l’esempio da evitare più dichiarato e più conforme agli schemi del tempo, è la misoginia e la presunzione di casta del Cavaliere, quello su cui sottilmente più insiste l’autore è l’intento simulatore di Mirandolina. Goldoni, insomma, sembra far di tutto perché la figura di Mirandolina venga apprezzata in quanto pura e semplice “finzione teatrale”, ma venga smascherata e rifiutata, condannata, in quanto possibile figura sociale. Infine da Goldoni viene data grande importanza non solo alle trame ma anche alle ambientazioni stesse: l’intera commedia si svolge tra le mura della locanda che diventa il palcoscenico di tutte le vicende, da cui i vari personaggi entrano ed escono e dove hanno luogo non solo i diverbi ma anche dei “monologhi” dalla funzione rivelatrice dei pensieri di ogni personaggio. La lingua usata è il volgare fiorentino che conferisce all’intera opera un carattere più naturale e maggiormente attrattivo per il “grande” pubblico. Il passaggio dal luogo pubblico al privato determina certamente cambiamenti d’esperienza. Infatti si può notare come il rapporto tra Mirandolina e il Cavaliere sia più freddo e distaccato quando si trovano in sale affollate, mentre diventa molto più amichevole e confidenziale (se così si può dire all’interno della finzione) quando si trovano loro due da soli. Si può fare un discorso analogo anche per quanto riguarda Ortensia con Dejanira e Fabrizio con Mirandolina; le coppie infatti hanno un legame stretto e d’intesa fra loro. Invece, di fronte ad altre persone tutto cambia e si comportano con molta normalità, anzi quasi come se si conoscessero appena. Linguaggio dell’opera La sintassi del racconto è semplice e lineare. È paratattica e presenta frasi molto brevi con un uso abbondante della punteggiatura. Il modello resta invariato sia nei dialoghi fra i vari personaggi che nei monologhi. Il lessico usato è piuttosto quotidiano e ricco di espressioni gergali tipiche di quel tempo. Il linguaggio di alcuni personaggi però viene modificato a seconda delle circostanze o dell’interlocutore. Per esempio Fabrizio, quando dialoga con i clienti della locanda acquista un tono elegante ed ossequioso, mentre con Mirandolina usa un linguaggio più familiare. Mirandolina stessa parla in modo più posato e ricercato con il Cavaliere, il Conte e il Marchese, invece nei suoi monologhi è molto sciolta. Così come Ortensia e Dejanira, le quali tra loro usano una parlata dal gergo dialettale, quando discorrono con gli altri personaggi invece hanno un modo d’esprimersi più raffinato. Villafalletto, con cui intrecciò una relazione terminata nel febbraio 1775; nella seconda il fulcro è la gloria letteraria, obiettivo perseguito con lucidità con la rottura del legame amoroso. Tra il dicembre 1773 e il gennaio 1774 si affacciò alla drammaturgia, abbozzando l’Antonio e Cleopatra, poi messo in scena al teatro Carignano nel luglio 1775. Il testo conobbe sette stadi redazionali, in un passaggio dalla prosa all’endecasillabo sciolto, scrivendo sia in italiano che in francese. Lo spunto autobiografico è controbilanciato dal tema universale del potere tirannico, tema cardine dell’intera e successiva drammaturgia alfieriana. Dopo anni avvenne ciò che lui definì “conversione letteraria e politica”. Infatti acuì le sue capacità lessicali e la sua conoscenza del toscano, disprezzando il francese e le lingue straniere. Creò il metodo di lavoro dei tre respiri (ideare, stendere, verseggiare), che dà compiutamente l’idea di come lavorava Alfieri. Nel luglio 1775 si ritirò a Cesena in val di Susa, dove riscrisse in prosa italiana le stesure francesi di due tragedie, il Filippo e il Polinice, leggendo anche autori come Dante, Petrarca, Tasso e la Tebaide di Stazio. Tornato a Torino, verseggiò il Filippo, poi riverseggiato nel 1780-1781, applicandosi anche allo studio del latino e alla lettura in francese di Shakespeare. Il Filippo, che ha come protagonista il sovrano spagnolo Filippo II, preda della mania del controllo e chiuso nella propria reggia-prigione, è una tragedia cui Alfieri lavorò a più riprese per un totale di quattro versificazioni, distaccandosi gradualmente dalla fonte nella connotazione antitirannica e libertaria assunta da Carlo, figlio di Filippo, e affinando un lessico di impronta marcatamente dantesca. Alla lettura della Tebaide è direttamente collegato il Polinice, verseggiato a Pisa nel 1776 e riverseggiato nel 1781. È una tragedia imperniata su due figure negative, il fratello di Polinice e tiranno di Tebe Eteocle e l’aspirante al trono, lo zio Creonte. Diversamente dal modello antico e da quello moderno proposto dal tragediografo francese Racine, la catastrofe finale che vede la morte di entrambi i fratelli non contempla un Polinice vendicativo, bensì uno che, nel morire, ribadisce la sudditanza del fratello che, morente, lo uccide. A Pisa maturò l’idea e la stesura in prosa dell’Antigone, verseggiata nel 1777 e riverseggiata a Napoli nel 1781. È la prima tragedia dall’iter compositivo interamente in italiano, la cui materia attinge alla mitografia tebana ma con l’accento spostato sulla protagonista femminile. Dalla lettura e traduzione delle tragedie senecane e dell’Ars poetica di Orazio, scaturirono le idee dell’Agamennone e dell’Oreste, stesi a Siena nel 1777, verseggiati poi a Firenze nel 1777-1778 e riverseggiati nel 1781. Il tema portante della prima è la malsana passione di Clitennestra per il manipolatore Egisto, che la conduce alla rovina, mentre in Agamennone vengono meno i connotati tirannici. La seconda rivaleggia direttamente con l’omonimo dramma voltairiano, rispetto al quale Alfieri si fregia di aver ottenuto una maggiore essenzialità nella costruzione dei rapporti tra i personaggi e un distillato tragico a senso unico nell’implacabile vendetta che anima Oreste. A Firenze s’innamorò della contessa Louise Stolberg d’Albany, definito “degno amore” perché non lo ostacola nel perseguimento delle proprie ambizioni. Allo stesso tempo, il disincanto per il progetto politico di Vittorio Amedeo III, lo spinse nel 1778 a donare tutti i beni alla sorella Giulia in cambio di una cospicua rendita: divenne così indipendente dal placet sabaudo per quanto riguardava la pubblicazione dei propri scritti, stabilendosi poi definitivamente a Firenze con la contessa. Nel 1777 ideò, stese e verseggiò la Virginia e la Congiura de’ Pazzi, entrambe riverseggiate nel 1781, e nel 1779 ideò il Timoleone, steso nel 1780 e verseggiato nel 1781-1782. La prima è una celebrazione della repubblica romana, il cui popolo, animato da spiriti libertari, rovesciò la tirannide di Appio. La seconda si rifà alla congiura antimedicea ordita dai banchieri Pazzi, nella quale Raimondo assume i connotati di un “Bruto toscano” che si contrappone ai tiranni Giuliano e Lorenzo. La terza vede fronteggiarsi Timoleone e Timofane, libertà e tirannia, restituendo un’idea di eroicità bifronte. La fase creativa successiva si concentrò sul perfezionamento delle prime tragedie, inseriti però in più complessi disegni di trama, con linee drammaturgiche che minano la compattezza strutturale e stilistica dell’insieme. Questa fase comprende numerose tragedie come il Don Garzia, che compie idealmente il ciclo antimediceo insieme all’Etruria vendicata, poema in ottave sull’uccisione del duca Alessandro de’ Medici da parte del cugino Lorenzino, e l’Ottavia, tragedia che culmina col suicidio della moglie di Nerone, allontanandosi quindi dalla fonte storica di Tacito per far emergere più nettamente le qualità negative del tiranno in contrasto con quelle positive della protagonista. Nel 1780 seguì l’amata prima a Roma, poi a Napoli per poi tornare, nel 1782, nuovamente a Roma. Qui il poeta fece il suo ingresso a pieno titolo nella repubblica delle lettere, entrando a far parte dell’Arcadia. A questo periodo appartengono la Merope, che mette in scena la passione materna deturpata dagli orpelli stilistici settecenteschi della passione galante, e il Saul. L’opera è occupata dalla personalità frastagliata del tiranno biblico, Saul: un eroe contraddittorio, tormentato dalla perdita del potere e dall'avvento della vecchiaia, animato da sentimenti contrastanti nei confronti di David e dei figli, un eroe tirannico che attiva tuttavia il meccanismo di identificazione dello spettatore in forza della sua complessità emotiva. A questo punto rivide tutte le prime 14 prove, per approdare nel 1783 alla stampa senese del primo volume di tragedie. Ripartì poi per un altro giro per la penisola, in città come Padova, dove incontrò Cesarotti, e Milano, dove conobbe Parini che recensì favorevolmente la sua opera. Tornò quindi a Siena, dove terminò di pubblicare gli altri due volumi delle tragedie. Partì poi per l’Inghilterra, dove vi rimase fino all’aprile 1784. Raggiunse poi l’Alsazia, dove ideò l’Agide, la Sofonisba e la Mirra. L’Agide, di materia plutarchiana, indaga il dramma del sovrano giusto ed innocente ingiustamente condannato a morte. La Sofonisba è tutto condensata nell’odio politico della protagonista nei confronti dei romani, a scapito di un piano affettivo pressoché assente. La Mirra è invece rappresentazione interamente affettiva della passione censurata e negata, dell’innocenza violata dalla potenza dei nuclei passionali nati nel proprio stesso intimo. Essa è la storia della fanciulla incestuosamente innamorata del padre Ciniro, ripresa dalle Metamorfosi di Ovidio in cui però Mirra acconsentiva al piano della nutrice per esaudire il proprio desiderio; qui invece si consumano una tragedia della reticenza e una lotta tra questa passione incestuosa e la volontà inattingibile di fuga dalla reggia e dai propri stessi desideri. La reticenza è figura retorica su cui si struttura l’intero dramma, in un climax che conduce al disvelamento finale e al suicidio della protagonista. Tra il 1787 e il 1789 seguì la stampa definitiva di tutte le sue tragedie. Restarono però fuori da questo progetto la «tramelogedia» di tema biblico Abele, ideata e stesa nel 1786 e verseggiata nel 1790, e l’Alceste seconda. In questa produzione tragica, la mitografia e la storiografia greco-latine sono sottoposte alle leggi del testo teatrale, quindi possono essere modificate e adattate alle ragioni interne a sviluppo drammatico e dimensione performativa. La materia è riversata nella misura dell’endecasillabo sciolto e il lessico è quello forte e selezionato della grande tradizione italiana, mosso da frequenti interiezioni ed esclamazioni e da ricorso a iperbato e anastrofe. La proposta alfieriana di riforma del teatro tragico consiste in: • Semplificazione dell’impalcatura drammaturgica; • Eliminazione della figura del confidente a favore del monologo; • Assenza del coro; • Riduzione dei personaggi; • Rispetto unità aristoteliche di tempo, luogo e azione; • Recupero modello antico della catastrofe tragica senza concessione ad istanze consolatorie per lo spettatore. Corollari teorici che chiariscono le linee portanti della drammaturgia alfieriana sono i trattati Della Tirannide e Del Principe e delle Lettere. Della Tirannide, abbozzato a Siena nel 1777, rivisto nel 1787 e nel 1789 e pubblicato a Kehl nel 1790, fu scritto sull’onda dell’entusiasmo suscitato da Machiavelli. Egli dovette però aver tenuto conto anche di altre letture e delle riflessioni politiche di Montesquieu e Rousseau. Nel primo libro il tiranno viene definito come l’«infrangi-legge», colui che in virtù di un potere assoluto non deve sottostare ad alcuna norma. L’importante è che il suo potere si fondi su un regime di scacco psicologico che implichi paura, viltà, ambizione, amore per il falso onore e il lusso, coadiuvato nel suo progetto da clero, esercito ed aristocrazia. Nel secondo libro discute del rovesciamento della tirannide in favore di una repubblica costituzionale, rovesciamento reso possibile solo da una rivolta popolare. Del Principe e delle Lettere, avviato nel 1778, ripreso a fasi discontinue fino alla conclusione nel 1786 e pubblicato a Kehl nel 1789, affronta in tre libri il rapporto tra letterati e potere. Il trattato si apre con il paradosso della dedica ai principi che non proteggono le lettere poiché non espongono il letterato al rischio di una dannosa corruzione morale. Questa corruzione è tanto più scongiurabile quanto più il letterato disponga di sostanze proprie, in virtù dell’appartenenza a un’élite libera e facoltosa. Nel 1785 stese il Panegirico di Plinio a Traiano, stampato poi a Parigi nel 1787: il poeta finse di aver tradotto un «manoscritto antico nuovamente ritrovato» in cui Plinio esorterebbe Traiano ad abdicare al trono assoluto in favore del ripristino delle istituzioni repubblicane. La ripubblicazione nel 1789 testimonia della volontà di Alfieri di avanzare effettivamente, nel pieno della Rivoluzione, la propria proposta repubblicana. La prima parte delle Rime venne stampata nel 1789 e comprendeva testi stesi tra il 1776 e il 1788. La seconda parte fu pubblicata postuma nel 1804 e abbracciava liriche composte fino ai cinquant’anni, considerati dal poeta il termine del proprio percorso creativo. Se è vero che la maggioranza dei componimenti affonda le sue radici in eventi contingenti e autobiografici, è anche vero che notevole è lo sforzo di trasfigurazione del particolare in universale mediante il ricorso all’astrattezza del lessico petrarchesco, alla frequente omissione