Scarica Riassunto del Manuale di educazione al genere e alla sessualità di Fabio Corbisiero e più Appunti in PDF di Sociologia solo su Docsity! MANUALE DI EDUCAZIONE AL GENERE E ALLA SESSUALITA’ CAPITOLO 1 COME SI DEFINISCE IL GENERE 1.1 LE TEORIE CLASSICHE Il concetto di genere è stato definito dalle scienze sociali solo nel corso del XX secolo, ma da un’analisi di tipo scientifico rispetto alle differenze fra uomini e donne si è affermata a partire dalla seconda metà del XIX secolo con il diffondersi di modelli sociali sempre più complessi. Con l’industrializzazione e l’inurbamento in Europa e nel Nord America, infatti, un numero sempre più elevato di persone condivideva gli stessi stili di vita pur avendo origini e condizioni diverse. Proprio per questi cambiamenti sociali, temi come la diversità sociale o la nuova struttura sociale per classi (borghesia e proletariato) sono stati oggetti dei primi studi sociologici, che hanno evidenziato come i fondamenti della vita sociale e la relazione tra gli individui fossero determinate da caratteristiche innate o acquisite. Fra queste, erano proprio le caratteristiche fisiche e biologiche che distinguono uomini e donne e la loro funzione riproduttiva. I primi esponenti della disciplina sociologica parlarono di teoria della differenza naturale. Secondo questo modello, comportamenti, ruoli e aspettative di ogni individuo sono direttamente correlati alle proprie caratteristiche fisiche e biologiche che causano lo svolgersi di determinate azioni. Nel corso del XX secolo questa accezione sarebbe stata ripresa dalla sociobiologia che intese contrapporsi a tre prospettive di analisi della trasformazione delle differenze sessuali in differenziazioni di ruolo, di identità e di aspettativa sociale. 1.1.1 Prospettiva conflittualista La prima può essere definita conflittualista e la si può considerare alle origini di un pensiero scientifico rivolto all’identità di genere (gender1). Infatti, già nel Seicento si deve all’osservazione di pensatori l’affermazione secondo la quale l’opinione dell’inferiorità della donna era basata su un’effettiva inconsistenza scientifica e, quindi, sul pregiudizio alimentato da una cultura prevalente maschile. Questo pregiudizio era stato la causa di una produzione di leggi e norme definito tipicamente maschile, al punto da precludere alle donne gran parte dei diritti spettanti. Si affermava, così, una visione della società moderna secondo la quale ruoli e funzioni erano determinati da una cultura orientata da squilibri nell’accesso alle risorse economiche, politiche, sociali a favore degli uomini. Si vedrà come anche questi principi, al pari di quelli emergenti dalla Rivoluzione francese, si sarebbero tradotti nelle idee a fondamento di movimenti di pensiero e azione quali quelli per l’emancipazione femminile, votati a definire e stabilire l’uguaglianza economica, politica e sociale dei sessi. Fra questo uno dei più noti fu quello delle suffragette2. 1 Gender: prima che nelle scienze sociali è stata la sessuologia, con John Money nel 1955, a introdurre la distinzione tra i concetti di sesso biologico (maschio genotipo XY/femmina genotipo XX) e genere (uomo/donna) come modelli di comportamento. 2 Suffragette: movimento di rivendicazione del diritto di voto (suffragio) per le, le cui componenti erano definite appunto suffragette. Se ne ha una prima esperienza nel corso della Rivoluzione francese, quando alle assemblee incaricate di eleggere deputati per gli Stat generali furono presentati i Cahiers des doléances des femmes per chiedere la rappresentanza femminile. Dopo la stesura della Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina nel 1791, con cui Anche nell’ambito economico ciò era evidente, sia nel rispetto alla funzione produttiva della donna sia alla sua funzione di autonoma gestione di risorse economiche (disparità di risorse economiche, di competenze e di ruoli). La seconda prospettiva è quella riconducibile alla corrente funzionalista, che guarda alle differenze biologiche e culturali fra uomini e donne come a loro attributi costitutivi e identitari. In particolare, ogni individuo apprende e interiorizza dal proprio contesto di riferimento quelle regole, valori e aspettative di ruolo che ne costruiranno l’identità di genere. Identità e ruoli assunti durante l’infanzia da agenti di socializzazione quali famiglia, scuola e gruppo dei pari si riproducono lungo tutto il corso della vita. Per i teorici del funzionalismo il margine di cambiamento sociale è limitato a quanto necessario per assicurare il perfetto funzionamento del sistema sociale fondato sulle caratteristiche biologiche, anatomiche, fisiologiche maschili e femminili e sul loro valore sociale. Le implicazioni negative per la condizione femminile sono giustificate dal funzionalismo in nome dell’equilibrio del sistema. 1.1.2 Prospettiva fenomenologica ed etnometodologica La terza prospettiva di analisi è quella proposta dalla fenomenologia e dall’etnometodologia, secondo le quali a determinare le differenze di genere sono le pratiche e i comportamenti che uomini e donne mettono in atto interagendo e utilizzando le risorse a disposizione. Questa corrente punta sull’acquisizione di ogni individuo che pone in essere servendosi del corpo, del linguaggio, della posizione sociale per produrre e riprodurre la propria identità di genere. Ogni individuo, però, è libero di non aderire alle norme consolidate dalle pratiche, generando così nuove forme di mascolinità e femminilità che inducono il cambiamento sociale. 1.2 LE LETTURE FEMMINISTE Le differenze socialmente costruite fra uomini e donne sono state oggetto di analisi da parte di chi osservava con metodo scientifico la società, ma anche di chi ha tradotto in teorie e pratiche la rivendicazione della parità di diritti economici, civili e politici fra i sessi, ha criticato la concezione tradizionale della donna e ha proposto nuovi ruoli di genere nella vita pubblica e privata. Considerando quella femminile come la condizione tradizionalmente più svantaggiata rispetto al genere maschile, questa posizione critica verso la società è stata riconosciuta con il nome di femminismo. In esso confluiscono le proposte di studio, ideologiche e politiche di un complesso e articolato movimento sviluppatosi a partire dalle richieste per il riconoscimento del diritto di voto alle donne nella Francia della Rivoluzione Francese. Si deve alla prima pensatrice e attivista Hubertine Auclert il primo riferimento al termine femminismo in un suo articolo per la sua rivista “La Citoyenne” nel 1881. In questo articolo Auclert propose un modello sociale le cui leggi, norme e pratiche non assumessero il sesso biologico come fattore per modellare l’identità sociale e l’accesso ai diritti della persona. A partire dall’esperienza francese, il movimento femminista si è poi diffuso in molti Paesi europei e negli Stati Uniti, assumendo posizioni teoriche, pratiche di affermazione e dinamiche di mobilitazione differenti perché orientate dalla cultura locale e dalle trasformazioni sociali che si sono succedute negli ultimi due secoli. Per questo motivo, almeno da un punto di vista storico, se non geografico, si sono distinti quattro modelli di femminismo: si dichiarava l’uguaglianza politica e sociale tra uomo e donna, il movimento si estese anche in altri Paesi come il Regno Unito e la Nuova Zelanda. Negli stessi anni anche l’antropologa nordamericana Gayle Rubin contribuì a esplorare le origini dei meccanismi di oppressione delle donne. La studiosa evidenzia la funzione centrale del genere che trasforma la differenza sessuale biologica in un risultato dell’attività umana e attribuisce determinati ruoli in base al sesso di appartenenza, perpetuati dagli individui nel corso della loro vita secondo le aspettative sociali. Gayle Rubin evidenza come questa istituzione fosse stata utilizzata per opprimere sessualmente le donne, il cui scambio avveniva fra gli uomini della famiglia privandole di un analogo diritto a scegliere liberamente per la propria sessualità verso gli uomini e per sé stesse. Se lo studio della condizione sessuale delle donne portò Rubin ad ampliare l’oggetto dei suoi studi verso le identità omosessuali, questo rimase focalizzato sui modelli di comportamento femminili per la psicoanalista Nancy Chodorow, che nel 1978, approfondisce il tema del complesso di Edipo, incontrato anche da Rubin. Le prime fasi della vita in famiglia per un bambino e per una bambina sono decisive per lo sviluppo della propria identità di genere: per i bambini la madre diventa il primo oggetto sessuale che vivono, emulando il comportamento possessivo del padre; per le bambine invece, l’amore per la figura paterna, contrastata dal rapporto con la madre, si trasforma in una predisposizione femminile alla maternità, emulando la madre, e di oggetto dell’amore del maschio dominante. La compartecipazione di madre e padre a queste funzioni interromperebbe le dinamiche di in/dipendenza dai genitori dei bambini, e delle bambine che crescerebbero secondo modelli in cui la mascolinità e la femminilità non sarebbero posti in rapporto gerarchico. Ne è convinta anche la filosofa italiana Luisa Muraro che affida alla fase primaria della cura infantile una funzione strategica per iniziare la costruzione di un ordine simbolico materno. Se nella società prevale un ordine simbolico maschile è perché si sottovaluta, fino ad annullarlo, il valore dello scambio di segni gesti significati che avviene fra la mamma e il bambino e che genera valori, regole e simboli. Inseriti nelle regole sociali patriarcali prevalenti questi si sviliscono, al punto che la filosofa italiana e la comunità scientifica di Diotima5, di cui fa parte, arrivano a proporre di rifiutare l’opposizione sesso/genere, equivalente a quella di natura/cultura. il valore dell’ordine simbolico femminile, infatti, non è solo naturale e questa distinzione con la cultura giocherebbe a favore dei significati impiegati nella costruzione sociale delle identità di genere secondo significati che sono patriarcali. 1.4 I MEN’S STUDIES I men’s studies si occupano degli uomini e del loro agire sociale. Nascono negli Stati Uniti e hanno alle spalle una lunga stagione di mobilitazione politica giovanile: quella che va dalle prima occupazioni dei campus universitari degli anni Sessanta ai movimenti femministi. In questo stesso tempo storico si è iniziato a parlare di liberazione maschile del tardo capitalismo anche per l’influenza di autori come Herbert Marcuse. Nel corso della modernità il bisogno di trasformazione maschile si è variamente affermato nelle relazioni sociali tra i generi, scontando anche i limiti politici dei movimenti di protesta degli anni Settanta. Sulla scia di questi movimenti e degli studi femministi che molti uomini hanno cominciato a interrogarsi e a riflettere sulla loro esperienza sessuata, sul significato del loro essere uomini, avviando un’operazione di decostruzione dei modelli dominanti di virilità e di etero-patriarcato, costruendo al loro posto una domanda di libertà e di ridefinizione simbolica del maschile. La 5 Comunità filosofica femminile di Diotima: istituita presso l’Università di Verona nel 1983 su iniziativa di un gruppo di donne accademiche e attiviste il cui obiettivo è di “essere donne e pensare filosoficamente”. contestazione dei ruoli sessuali e sociali costruiti dagli uomini e sugli uomini ha condotto studiose e studiosi a far propria l’idea che il genere fosse una costruzione sociale e non un destino biologico. Fin dalla loro nascita, l’obiettivo di una parte dei men’s studies è stato quello di decostruire i modelli dominanti della mascolinità, di smontarne la naturalità, di storicizzare la differenza di genere e ricollocare il maschile nella propria parzialità. Approcci contemporanei Beasley osserva che, mentre gli studi di genere e delle sessualità cercano di turbare e sconvolgere categorie fisse e mainstream di genere e di identità sessuale, le riflessioni dei teorici dei men’s studies si basano proprio su queste categorie essenzialiste di uomo e di mascolinità. Grazie ai men’s studies emergono nuove identità e forme di mascolinità. Anche in Italia appaiono una serie di studi e di ricerche empiriche. Gli studiosi e le studiose del tema si stanno concentrando in modo particolare sulla relazione tra i men’s studies e il campo più ampio degli studi di genere. Possiamo distinguere due approcci contemporanei di questi studi: - Un primo approccio emerge come reazione agli studi di genere e al femminismo. Sebbene chi appartiene a questo filone riconosca l’oppressione storica delle donne, enfatizza in ogni caso l’idea che i sistemi patriarcali siano in grado di opprimere anche gli uomini. Questo filone scientifico esprime la preoccupazione che gli uomini siano esclusi della discussione più generale degli studi di genere o siano addirittura svalutati. - Il secondo approccio prevede una convivenza più pacifica con il femminismo e gli studi sulle donne. Secondo chi lo sostiene, la missione degli studi sugli uomini è continuare il progetto rivoluzionario degli studi di genere. In sintesi, i men’s studies hanno portato alla ribalta argomenti rimasti per molto tempo ai margini delle riflessioni sociologiche più tradizionali. Questi studi riconoscono la parzialità del genere uomo e rendono più attuale la prospettiva intorno al genere maschile. Critica ai men’s studies Nonostante il discorso teorico classifichi questo filone di studi in continuità e interconnesso a quello del femminismo, è stata sollevata la preoccupazione che i men’s studies siano una forma di appropriazione maschile della produzione scientifica. Secondo questa idea, attraverso le loro riflessioni gli studiosi uomini avrebbero uno strumento potenzialmente utilizzabile per mettere a tacere il punto di vista femminile negli studi di genere, riverberando l’oppressione patriarcale anche sul piano culturale e scientifico. Inoltre, questa lettura dei men’s studies solleva anche la questione del perché sia necessaria una modalità di indagine specializzata e basata sull’agire maschile, quando in sostanza già tutta la storia dell’umanità è stata dedicata agli studi sugli uomini. Chiaramente chi sostiene i men’s studies ha cercato di difendersi da tale accusa controbattendo che questa resistenza femminista equivale a un’appropriazione forzata degli studi di genere e alla ripetizione delle pratiche di esclusione di cui sono stati accusati gli uomini. Oltre gli sforzi per capovolgere queste accuse, si è cercato di dimostrare che, nonostante la storia dell’umanità sia stata tradizionalmente equiparata al maschile, ciò non esclude che l’analisi sociale debba occuparsi della dimensione del maschile come genere. De-costruire la mascolinità Le concezioni moderniste e le pratiche politiche dell’identità sono state indagate e criticate dalle scienze sociali e questo ha generato dibattiti circa i modi alternativi di costruire il genere e la società e la loro relazione. Tra le conseguenze di queste riflessioni, sono aumentate le spinte alle de- costruzione sociale del maschile. Sono stati inseriti elementi di critica alla sua crisi con l’introduzione di elementi sia strutturali sia bio-politici nel sostenere l’importanza dei men’s studies. Sul versante strutturale si afferma, ad esempio, che la crisi degli uomini si manifesti innanzitutto in termini di salute a causa del numero significativamente più alto di uomini afflitti da patologie. Gli storici hanno ipotizzato che questa visione di una crisi del maschio contemporaneo sia conseguenza dei processi di industrializzazione. In diverse analisi storico-sociali gli uomini sono tradizionalmente descritti come capo-famiglia e sostenitori del nucleo familiare. Dunque l’idea di crisi della mascolinità si sposa pienamente con l’analisi del danno che il patriarcato ha perpetrato. Vista da questa angolazione critica, la mascolinità sistemica non solo causa conflitti e situazioni di crisi con il genere femminile. Ma anche tra gli uomini stessi, con il rischio che vengano trasmesse alle nuove generazioni di uomini caratteristiche strutturali patogene quali la paura del femminile, la capacità emotiva ridotta, l’omofobia e l’eterosessismo ma soprattutto comportamenti di violenza contro le donne o le minoranze sessuali. In Italia Negli ultimi decenni gli studiosi e le studiose attivi nei campi del femminismo, degli studi LGBT+ ecc. confermano l’idea che la maschilità sia in trasformazione. Sebbene non vi sia unanimità nello stabile la natura di questo mutamento, vi è un senso diffuso d’inadeguatezza rispetto ai modelli culturali stabiliti del maschile. Ad esempio, sul versante della cura, è innegabile il crescente coinvolgimento di mariti, partner e padri nella vita familiare. Il numero crescente di famiglie con un solo genitore, miste, same-sex, ricostruite ecc. sta convogliando l’interesse delle riflessioni scientifiche verso una figura di padre- marito. Il movimento dei diritti paterni che si colloca all’interno della più generale mobilitazione per i diritti degli uomini, è uno dei fenomeni più noti di questa dimensione di cambiamento. Ma nonostante ciò, l’omofobia continua a costituire uno dei principi organizzatori della mascolinità. Il timore che qualcuno possa considerare una mascolinità omosessuale spinge gli uomini a mettere in atto comportamenti e atteggiamenti esageratamente virili, per assicurarsi che nessuno si faccia idee sbagliate. In questo quadro di trasformazione dell’essere maschio emerge prepotentemente anche la necessità di curare la propria salute bio-psico-fisica: le mutate condizioni degli stili di vita richiedono un diverso atteggiamento nei confronti del proprio corpo, che necessità di una sempre maggiore quantità di cure: dalla nutrizione all’estetica. Gli uomini mutuano oggi alcuni atteggiamenti e comportamenti prima considerati esclusivamente femminili: è in forte aumento l’utilizzo maschile di prodotti per il viso e il corpo. 1.5 GLI STUDI LGBT+ A partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso la sociologia ha progressivamente ampliato il proprio focus, concentrandosi sulle diverse componenti dell’identità sessuale, considerata come un complesso intreccio di sesso, genere e orientamento sessuale. Ciò ha portato alla nascita di quelli che sono stati definiti gay and lesbian studies. La pubblicazione dei primi studi sociologici che hanno focalizzato la propria attenzione sull’orientamento omosessuale è costituita da indagini che si sono concentrate principalmente sulla una decostruzione del gender-polarized world, ossia una concezione nettamente dicotomica della società sessuata, proponendo, invece, una visione inedita di considerare i modi di vivere il corpo, l desiderio erotico, la femminilità e la mascolinità. Gli studi queer hanno iniziato a incoraggiare riflessioni e analisi sulle questioni che riguardavano le marginalità sessuali con il duplice obiettivo di promuovere la visibilità dei soggetti che collocano oltre i tradizionali binari, da un lato, e, dall’altro, di riconoscere piena legittimità alle configurazioni identitarie trasversali e ai processi complessi e pluralizzati sottesi. Di conseguenza, la sessualità viene presentata così un terreno di sperimentazione, per cui l’omosessualità non può essere considerata più come un orientamento opposito all’eterosessualità, ma, al contrario, diventa complementare a essa. CAPITOLO 2 SESSUALITÁ 2.1 PENSARE LA SESSUALITÁ SOCIOLOGICAMENTE La sessualità costituisce un tema d’interesse per la teoria e la ricerca sociologica da qualche decennio. Pur rimandando ad aspetti soggettivi della persona (dimensione psicologica), a una funzione naturalmente necessaria che assicura la riproduzione (dimensione biomedica), la sessualità può mettere in gioco uno o più elementi che richiamano l’appartenenza del soggetto alla società al suo legame più profondo con elementi della cultura di riferimento, quali norme e valori (dimensione sociale e culturale). La dimensione sessuale permette di rispondere a un bisogno fondamentale per l’esistenza di una società, ovvero la condizione necessaria di entrare in relazione con l’altro. Tra le scienze sociali che si occupano della sessualità in termini non necessariamente connessi alla funzione riproduttiva, troviamo l’antropologia, per la quale il controllo della sessualità assume un ruolo centrale nella spiegazione delle genealogie e delle politiche della parentela. L’antropologia ha consentito di evidenziare con il controllo delle pulsioni sessuali da parte dell’essere umano sia collegato al processo di istituzionalizzazione della società, nella misura in cui la sessualità, anche quando considerata come puro istinto, si distinguerebbe da quello animale, che è invece orientato al mero fine riproduttivo. La sessualità va canalizzata, direzionata in azioni legittimate socialmente, nella misura in cui, in assenza di queste, c’è il pericolo che l’eccesso pulsionale conduca a un’aggressività reciproca. Anche la psicologia ha trattato a lungo di sessualità. Freud, nel suo testo Il disagio delle civiltà, ha messo in rilievo la centralità assunta del controllo delle pulsioni sessuali come elemento che contribuisce al processo di civilizzazione. La sua distinzione fra Eros (piacere sessuale) e Thanatos (pulsione distruttiva) costituisce il processo attraverso il quale la psicologia perviene a spiegare l’istituzionalizzazione della vita e i meccanismi che portano alla creazione di una morale condivisa quale processo centrale per la formazione della civiltà. Questi spiegano come lo studio della sessualità non può ridursi alle sole manifestazioni fisiologiche e biologiche, ma debba comprendere anche quei meccanismi di regolazione sociale e culturale che da sempre hanno circoscritto i modi di esprimersi di questa funzione così centrale per la sopravvivenza e la continuazione della specie. Dal punto di vista della sociologia, invece, studiare la sessualità significa considerarla al pari di qualsiasi fatto sociale6. La sociologia compie un ulteriore passo avanti: analizza l’affrancamento della sessualità dalla riproduzione e secolarizzazione dei valori, la progressiva tolleranza rispetto alle scelte nell’orientamento sessuale, la differenziazione fra sessualità e affettività, la pluralizzazione delle forme in cui gli individui autodefiniscono la propria identità sessuale. Per Durkheim la sessualità doveva essere circoscritta all’interno di istituzioni specifiche che avevano il compito di predeterminare i comportamenti sessuali attesi di uomini e donne; tra queste istituzioni egli vedeva nel matrimonio quella più importante. La centralità assunta dall’ordine e la stabilità sociale nella sua teoria, metteva ai margini le persone la cui sessualità non era finalizzata alla riproduzione e quei legami non convenzionali. Influenzato dalla morale del tempo, anche Parsons vedeva nella famiglia un’istituzione fondamentale per la riproduzione sociale e culturale della società. l’attenzione ai processi di socializzazione, in particolare a quelli legati al genere, erano centrati nel porre in evidenza ruoli e compiti differenziati fra i membri della famiglia, lungo le linee rigide delle dicotomie e del dismorfismo sessuale. Nella sociologia di Parsons le donne sono naturalmente predestinate al compito della cura dei figli e del focolaio domestico, che si specializza dunque nelle funzioni affettive a differenza degli uomini che si specializzano nella funzione intellettuale. Alla base di questa specializzazione dei ruoli sessuali, c’è un sistema patriarcale e sessista che assegna alla donna una posizione sostanzialmente subalterna all’interno di un ordine di genere e sessuale al cui apice troviamo l’uomo. In questa fase del ragionamento sociologico sulla sessualità poca attenzione è posta alla condizione della donna, la cui sessualità è stata costantemente repressa, associata solo al fatto procreativo, negandole ogni ambizione al piacere sessuale. L’approccio sociologico funzionalista tenderò a non problematizzare la sessualità, dando per scontato che uomini e donne debbano corrispondere a ruoli sociali che naturalmente essi sono chiamati a interpretare, proprio sulla base della loro differenza sessuale. La Scuola di Chicago, che tra gli anni ’20 e ’30 del Novecento inaugurò la prospettiva ecologica e interazionista intorno alla figura di Robert Park la corrente drammaturgica, il cui principale esponente fu Erving Goffman, e in particolare l’approccio etnometodologico di Harold Garfinkel, getteranno le basi per una nuova ontologia della sessualità e una sua visione che porrà particolare enfasi sulle influenze poste dal contesto culturale, ovvero sull’immaginario che si crea, ricrea e si negozia intorno alla sessualità per tramite delle interazioni socio-sessuali, e in particolare attraverso il linguaggio. Nonostante possano riconoscersi molteplici differenze fra questi approcci, tutti hanno in comune una maggiore attenzione a individuare gli ambiti di senso all’interno dei quali l’esperienza sessuale è concretamente vissuta e a collegare aspetti di natura intrapsichica a quegli aspetti di natura culturale che forniscono orientamenti normativi e valoriali utili per l’esplicitazione delle pratiche sessuali. Esprimendo la necessità di denaturalizzare la sessualità, questi autori si pongono come obiettivo scientifico di mettere in evidenza quei fattori che conducono a trasformare una persona da essere sessuato in un essere sessualizzato all’interno di una specifica cultura. 2.2 LA COSTRUZIONE SOCIALE DELL’IDENTITÁ SESSUALE 6 Fatto sociale: con il termine, Durkheim intende quei modi di agire, pensare e di sentire esterni all’individuo (per esempio le regole morali) e pertanto indipendenti dalla sua volontà e dal suo controllo. Le più recenti teorie interpretative hanno ormai superato l’idea che l’identità in generale sia qualcosa di dato e immutabile, stabilizzato nel tempo e nello spazio al di là delle esperienze e dei contesti di appartenenza. Durante la propria vita, gli attori sociali sono protagonisti di un processo volto alla scoperta e alla consapevolezza di sé. Questo percorso si nutre delle sollecitazioni provenienti dai contesti sociali e culturali, dalle esperienze vissute e dalle interazioni sociali. In altri termini l’identità sessuale non può essere considerata solo un dato anagrafico, determinato esclusivamente dall’anatomia, ma anzi è un concetto multidimensionale che integra fattori biologici, psicologici, sociologici e culturali. Sin dalla più tenera età, i bambini sono spesso spinti da genitori, parenti e da altri agenti di socializzazione ad assumere comportamenti specifici in base al loro sesso biologico. Si tratta di sollecitazioni fornite talvolta in maniera implicita o inconsapevole: uno tra gli esempi più evidenti è rappresentato dal regalare giocattoli diversi a bambini e bambine, sulla supposta ipotesi che esistano balocchi per “soli maschi” e per “sole femmine”. Secondo Priulla, le aspettative sociali associate ai ruoli hanno retaggi antropologici legati alla biologia umana, alla struttura fisica e alla funzione generatrice femminile. Il ruolo degli adulti che incoraggiano bambini e bambine ad assumere comportamenti diversi sulla base del loro sesso biologico si configura come un importante fattore nella costruzione di quello che viene definito ruolo di genere, che si riferisce a modi, comportamenti e tratti di personalità che ciascuna società, cultura e periodo storico prescrivono come maschile o femminile. Di conseguenza, molti modi di agire, comportarsi e relazionarsi con gli altri possono essere condizionati nel percorso di crescita da questo tipo di attese sociali. Lo psicoanalista e psichiatra statunitense Lichtenberg ha individuato diverse fasi che si susseguono si dall’infanzia nel processo di costruzione dell’identità sessuale: Già tra il primo e il secondo anno di vita, i bambini sono incoraggiati da chi li accudisce ad assumere i comportamenti considerati maggiormente in linea con il ruolo sessuale. Entro i 3 anni i bambini generalmente si riconoscono come maschi o femmine. Il processo di apprendimento del ruolo di genere si consolida tra i 3 e i 7 anni, periodo durante il quale bambini e bambine hanno la facoltà di comprendere compiutamente ciò che viene considerato tipicamente maschile e femminile. Alcune persone possono avvertire un senso di disagio derivante proprio dall’incongruenza tra la propria identità sessuale e il sesso assegnato alla nascita. I soggetti che si discostano del tutto o in parte dalla cultura mainstream sono a rischio stigmatizzazione, dal momento che non aderiscono ai cosiddetti stereotipi di genere, ossia i processi di astrazione e di definizione della realtà che collegano un gruppo di caratteristiche ad una categoria. 1-2 anni si apprendono e ripetono atteggiamenti considerati da maschi e da femmine Entro i 3 anni Si si riconosce come maschi o femmine Tra i 3 e i 7 anni Il processo di apprendimento del ruolo gi genere si consolida Il tema della sessualità è affrontato dai ragazzi nell’ambito del gruppo dei pari, ovvero quell’insieme di persone accomunate da caratteristiche similari che costituiscono un frame di riferimento importante per i processi di identificazione, oltre che ambito all’interno del quale i giovani acquisiscono norme, valori e riferimenti per l’agire. All’interno di questa ottica, le amicizie sono pertanto il contesto entro il quale i ragazzi raccolgono informazioni, si scambiano esperienze, sciolgono dubbi, costituiscono le basi rudimentali per la costruzione dei copioni sessuali. La famiglia e la scuola sono identificate dai ragazzi come istituzioni della tradizione, i rapporti amicali invece, anche per il fatto di essere caratterizzati da relazioni orizzontali, diventano ambito elettivo per l’espressione creativa, della libertà, della sperimentazione. Le ricerche sulla socializzazione alla sessualità sottolineano anche come le amicizie divergano per caratteristiche associate al genere, al cesto sociale di appartenenza, al livello di istruzione. Rispetto al genere, la socializzazione alla sessualità fra pari risente della differenziazione fra maschi e femmine. Questa differenza si evidenzia rispetto ai modi in cui i giovani e le giovani si confrontano sulle prime esperienze sessuali e affettive. La socializzazione alla sessualità tra i maschi costituisce un momento al quale i ragazzi attribuiscono un significato importante per il passaggio all’età adulta, vissuto all’interno delle cerchie amicali con il quale il giovane si confronta. Le amicizie assumono qui la doppia funzione: da un lato costituiscono i riferimenti, dai quali ottenere informazioni utili ad affrontare le prime pratiche ed esperienze sessuali, dall’altro costituiscono una sorta di palcoscenico ideale sul quale i ragazzi inscenano ed esibiscono la capacità d’interpretare i copioni sessuali condivisi. Parlare di sesso è tipico degli adolescenti in gruppo e questa attività si collega direttamente al bisogno di confermare la propria eterosessualità. Rinaldi, per esempio, collega questa particolare fase al possibile sviluppo di condotte omotransfobiche: prendere di mira con insulti e atteggiamenti aggressivi quei compagni di scuola o conoscenti con caratteristiche di genere e sessuali non conformi, diventa spesso l’espediente attraverso il quale i maschi confermano agli altri la propria maschilità eterosessuale. Per quanto concerne la socializzazione alla sessualità delle ragazze, sembra ancora prevalere il peso di una morale che limita la sessualità delle donne. Le amicizie dello stesso sesso in epoca adolescenziale costituiscono il principale riferimento entro il quale le giovani ragazze si confrontano, sciolgono dubbi relativamente alle esperienze sessuali quali: il primo bacio, il primo rapporto, mentre maggiormente tabuizzato risulta il tema della masturbazione. Difatti, le confidenze scambiate sembrano focalizzarsi sugli aspetti emotivo-sentimentali, che quelli ludico-sessuali. Un aspetto deve essere dedicato al tema della socializzazione alla sessualità delle persone non eterosessuali, e dunque alle difficoltà che incontrano le persone omosessuali, bisessuali nell’ambito di istituzioni prevalentemente etero normative. Da questo punto di vista le reti amicali costituiscono un fattore fondamentale, spesso suppletivo alle assenze o all’atteggiamento ostativo evidenziato da altre agenzie di socializzazione. Un’opera recente ha messo in evidenzia il ruolo primario che occupano le reti amicali delle persone gay e lesbiche relativamente al processo di costruzione dell’identità omosessuale. Le amicizie fra persone LGBT+ si rivelano un capitale sociale essenziale, giacché all’interno di queste si apprendono quelle che sono le regole e i processi relazionali che caratterizzano i mercati omoerotici. 2.5 L’INVENZIONE DEI CORPI La dimensione culturale interviene attribuendo un valore ai corpi e a parti di esso, organizzandone le differenze in una scala gerarchica dettando funzioni e aspettative su cosa e come dovrebbe apparire, su quando considerarlo sano e quando no, su come dovrebbe muoversi, persino vestirsi o desiderare. Una delle grandi questioni che ruotano attorno alla nostra interpretazione dei corpi è quella legata alle dimensioni del sesso e del genere: a determinate caratteristiche anatomiche la nostra società ha attribuito altrettanto funzioni, aspettative, vincoli e possibilità. Eppure, la categorizzazione di genere che operiamo sui soggetti si basa su considerazioni tutt’altro che basate su caratteristiche fisiologiche: in linea di massima, quando incontriamo una persona non abbiamo accesso alle informazioni relative alla tipizzazione cromosomica o ai suoi genitali. A guidare questo processo sono elementi quali gli abiti, il tono della voce, il modo di muoversi cioè i marcatori sociali che variano sensibilmente nel tempo e nello spazio. Il corpo parla di noi a prescindere dalle nostre intenzioni, ma il lavoro che operiamo costantemente su di esso può in qualche modo confermare o tentare di decostruire tutta una serie di presunzioni che ci investono. Da un lato, sembrerebbe che non ci si possa esimere dal fare il genere, dall’essere soggetti disabilitati, razzializzati e via discorrendo. Fino alla fine del Settecento il modello attraverso il quale si pensava e rappresentava il corpo era quello monosessuale: il corpo era quello maschile e quello femminile altro non era che una sua versione meno sviluppata. La differenza tra maschile e femminile si basava su differenze legate a ruoli, condotte e posizioni sociali e agire in modo non conforme rispetto al proprio gruppo di appartenenza poteva incidere sulla materialità del proprio corpo, che si sarebbe modificato di conseguenza; il sesso era dunque una categoria sociologica e non ontologica. A partire dal XVIII secolo, i saperi promossi dalla scienza medica producono un cambio di paradigma: corpi, pratiche e condotte divengono terreno di misurazione, medicalizzazione e classificazione, promuovendo una lettura essenzializzante della sessualità che va dunque a enfatizzare la dimensione biologica. Questo corpus di saperi prenderà il nome di sessuologia. Tale disciplina vedrebbe l’essere umano nascere con una natura sessuale biologicamente data che comprenderebbe, al pari di altri bisogni primari, l’impulso sessuale, inteso come naturalmente eterosessuale. Il sesso diviene, secondo Garfinkel, un’attitudine naturale socialmente costruita che definisce i contorni di accettabilità sociale di maschilità e femminilità. Potere e carattere normativo si articolano anche all’interno delle femminilità e all’interno delle maschilità o richiedendo correzioni o aggiustamenti per tutti quei corpi che, in qualche modo, vengono percepiti come eccedenti o imprevisti. È questo il caso delle persone intersex8, che presentano delle caratteristiche che non permettono la classificazione sessuale in un sistema binario maschile femminile. La loro stessa esistenza metterebbe in qualche modo in discussione la griglia di lettura che applichiamo ai corpi, facendo emergere la presenza di una varietà anatomica, ma tale è la 8 Intersex: termine generico usato per una varietà di situazioni in cui una persona nasce con un’anatomia riproduttiva o sessuale che non si adatta alla classificazione di maschile e femminile. A volte i medici eseguono interventi chirurgici su neonati e bambini intersessuali per adattare i loro corpi alle idee binarie di maschio o femmina ignorando la questione dell’identità di genere che svilupperanno. pervasività del paradigma binario che la richiesta, è quella di agire tempestivamente nei confronti di questa ambiguità, attraverso interventi di chirurgia estetica genitale. Si tratta di interventi irreversibili e invasivi che vengono operati su soggetti in età precoce e che nel 2016 sono valsi all’Italia un’ammonizione da parte del Comitato delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità perché considerate forme di mutilazione genitale. Così, l’unica modalità di pensarsi sessuali diviene quella eterosessuale, perfettamente integrata nel modello binario che intreccia corpo, genere e sessualità. Imparare a essere sessuali significa quindi imparare a interpretare parti del corpo, azioni e interazioni come sessuali, a distinguerle da ciò che sessuale non è. Simon e Gagnon parlano di copioni sessuali; questi agirebbero su tre livelli: quello degli scenari culturali, quello interpersonale e quello intrapsichico. Ciascun livello non agirebbe in modo isolato né indicherebbe una serie fissa di istruzioni da seguire senza alcuna possibilità di adattamento, malleabilità e modifica; al contrario, richiederebbero un processo continuo di improvvisazione, interpretazione e negoziazione, agite attraverso e sul corpo. Il livello degli scenari culturali fornisce una serie di significati disponibili, di requisiti da soddisfare, di punti di orientamento per stabilire il chi, dove, quando e come della sessualità. Quello interpersonale riguarda l’applicazione di tali scenari in una data situazione. L’ultimo livello, quello intrapsichico, si riferisce allo spazio del sé, al luogo di produzione delle fantasie e dei desideri. Smarcare la sessualità da una mera lettura biologica, far emergere il sociale nel sessuale, implica riconoscere che anche il corpo è immerso in una sofisticata costruzione sociale. Costruzione sociale che ordina gerarchicamente tali corpi anche nel loro essere sessuati e nel loro divenire sessuali. All’invenzione dei corpi e delle sessualità partecipano i saperi e le pratiche mediche e scientifiche, le istituzioni, le diverse agenzie di socializzazione e i mass media e le produzioni culturali. 2.6 PORNOGRAFIE PLURALI Con il termine pornografia audiovisiva ci riferiamo a delle interazioni sessuali programmate, performate e riprese affinché vengano fruite da terze persone non necessariamente coinvolte e presenti nell’interazione suddetta. La pornografia è uno degli scenari culturali più popolari e diffusi a cui attingere nei processi di costruzione sociale dei generi e delle sessualità. Per molto tempo la pornografia è stata considerata come un genere prodotto e pensato per un pubblico esclusivamente maschile che riservava alle donne il solo ruolo di performer. Le donne si pensava non potevano essere interessate a quel tipo di prodotto. Prima dell’avvento del videoregistratore, la visione del film porno avveniva principalmente in luoghi percepiti come inaccessibili per le donne. Il dibattito attorno al tema della pornografia è stato nel corso del tempo molto vivace e prolifico. Talmente tanto da essere riconosciuto con il termine sex wars e a scontrarsi due diverse correnti, che vedevano nella pornografia una forma di violenza e uno strumento di oppressione sessuale o un mezzo dal potenziale rivoluzionario per l’emancipazione femminile e la liberazione dei suoi desideri. Tale conflitto ha vissuto una fase particolarmente vigorosa soprattutto durante la cosiddetta golden age dell’industria pornografica, ma in realtà, non si è mai esaurito. Eppure, a partire dalla prima metà degli anni ’80, hanno iniziato a farsi strada prodotti che vedevano le donne protagoniste. Da queste prime esperienze, il panorama delle pornografie audiovisive ha subito numerosi leggendo o discutendo con gli amici. Essi però possono essere trasmetti anche dalle istituzioni, come la famiglia o la scuola. Genitori e insegnanti possono modificare questi modelli oggi anacronistici, ponendo l’accento sulle differenze. Generi e generazioni in dialogo Nella società contemporanea la rappresentazione del maschile e femminile è profondamente mutata rispetto alle generazioni precedenti. Due tendenze sono compresenti nei processi di socializzazione delle nuove generazioni: la prima sostiene la necessità di una maggiore omogeneizzazione dei comportamenti, la seconda pone l’accento sull’importanza della differenziazione e del mantenimento delle diversità tra i generi. Nella società attuale assistiamo all’omogeneizzazione dei percorsi di crescita secondo il genere, perdendo o eliminando l’importanza della dimensione biologica di appartenenza. Dall’altra parte le istanze che stressano la distinzione in modi e tempi diversi si legano all’idea che ci siano dei percorsi differenziati anche all’interno dell’ambito maschile/femminile. Infine, tutto ciò si origina nelle esperienze socializzative che ciascun soggetto vive e sperimenta. La realizzazione dell’identità di genere/sessuata è conseguentemente un percorso relazionale, in cui la relazione si stabilisce sul coinvolgimento responsabile di diversi attori appartenenti a generazioni diverse con diversi background culturali. È un processo che può idealmente essere suddiviso in fasi che accompagnano lo sviluppo fisico, psicologico e sociale del soggetto. La prima fase è caratterizzata dall’iniziale riconoscimento della propria appartenenza biologica ad uno dei due sessi. In un secondo momento, si presenta la fase della ricerca, in cui il soggetto cerca di definire la propria identità di genere anche in base agli stimoli culturali ricevuti dal contesto. Oltre a diversificarsi nel tempo, l’identità di genere si differenzia anche in base ai contesti in cui si realizza, poiché il processo è sia individuale sia sociale. Nel rapporto tra generazioni un tema importante è quello della differenza/indifferenza oppure disuguaglianza/uguaglianza di genere. Tale aspetto risulta fondamentale in una società sempre più multiculturale in cui i contesti socializzativi sono caratterizzati da prospettive culturali differenti e a volte concorrenti. Il rapporto tra le generazioni è oggi più complesso e apre spazi di rinegoziazione sul che cosa significa essere donna e uomo rispetto al modo in cui lo intendono le generazioni precedenti. 3.2 SPAZI DI SOCIALITÁ AL GENERE NELLO SVILUPPO DI BAMBINI E BAMBINE Secondo la sociologia dell’infanzia i bambini non hanno un ruolo passivo nei processi di socializzazione; al contrario, questo approccio all’educazione al genere sottolinea l’impotenza dell’attività di riproduzione interpretativa10. Nella sociologia classica il bambino e la bambina sono considerati oggetti di socializzazione adulta. Utilizzando un’espressione di tipo foucaultiana, tra i bambini e gli adulti vige una relazione di possesso, ma anche di cura e di potere; la società forma e educa i bambini conferendogli uno status sociale inferiore rispetto agli adulti. Questa prospettiva adultocentrica ha oscurato l’interesse nei confronti dell’infanzia, che diventa un oggetto di studio relativamente recente. 10 Riproduzione interpretativa: il termine “interpretativa” coglie gli aspetti innovativi e creativi della partecipazione dei bambini alla società. i bambini creano e partecipano alle loro culture dei pari assumendo o appropriandosi creativamente delle informazioni provenienti dal mondo degli adulti per affrontare le premure della loro età. Il termine “riproduzione” coglie l’idea che i bambini non interiorizzano semplicemente la società e la cultura ma contribuiscono attivamente alla produzione e al cambiamento culturale. Tale cambio di rotta riconosce l’importanza dei bambini nelle scienze sociali, facendo crescere l’esigenza di studiare i bambini come agenti sociali. La nuova sociologia dell’infanzia offre al bambino un nuovo teatro in cui diventano soggetti attivi, socialmente competenti e in grado di partecipare all’interazione sociale. In questo senso, la nuova sociologia dell’infanzia assegna un nuovo significato a questa e considera i bambini soggetti capaci di assegnare significato a ciò che li circonda. A contribuire allo sviluppo di questo paradigma è principalmente la Convenzione sui Diritti del Fanciullo approvata dall’ONU nel 1989: un documento epoca che ha dato la spinta a produrre una serie di studi sull’infanzia. La sociologia dell’infanzia ridefinisce i modelli teorici sulla socializzazione: - quello deterministico, in cui i bambini hanno un ruolo passivo - quello costruttivista, in cui sono visto come agenti attivi. I bambini si appropriano della cultura dell’adulto, reinterpretano e ne riproducono i significati traducendola nello spazio, con l’obiettivo di riorganizzare i mondi sociali che gli adulti creano. Durante le attività ludiche, a scuola o al nido, i più piccoli si confrontano con gli stereotipi e le aspettative sociali, in un contesto in cui gli spazi sono ben organizzati e differenziati, non neutri rispetto al genere. L’importanza dello spazio nella socializzazione al genere Lo spazio rappresenta un elemento fondamentale nella vita quotidiana del bambino. Gli spazi per bambini vengono separati da quelli degli adulti e vengono pensati e progettati con una finalità ben precisa: proteggere e prendersi cura dei più piccoli. Questi spazi che riguardano gli asili nido, le scuole materne, le aree di gioco, delineano dei confini bene precisi e sottomettono i più piccoli ad un controllo vigile e attento dell’adulto. La limitazione nello spazio del bambino rappresenta una sorta di campo sociale obbligatorio attraverso cui confrontarsi con tutta una serie di ruoli imposti dagli adulti. L’organizzazione degli spazi scolastici riproduce e promuove lo svolgimento della mascolinità e della femminilità. Nelle aule scolastiche la decisione degli spazi maschili e di quelli femminili è uno dei primi elementi che emerge conferendo allo spazio-gioco il ruolo di riproduttore degli stereotipi di genere attraverso spazi sessuati. Ciò che si sviluppa è una genderizzazione dello spazio del gioco infantile che, di conseguenza ha ripercussioni sulla formazione dell’identità di genere. In termini di analisi critica, la sociologia dell’infanzia suggerisce che gli ambienti scolastici dovrebbero essere quanto più neutri possibile rispetto alle dimensioni di genere (gender neutral) ed essere sensibili e attenti a messaggi di giustizia sociale e di equità. Ma soprattutto la scuola dovrebbe migliorare i propri percorsi di educazione sul genere. Le differenze di genere nel gioco infantile La correlazione tra differenze di genere e gioco infantile è oggetto di molte indagini che fanno riferimento non soltanto allo strumento ludico, ma anche agli stili o agli atteggiamenti che questi ultimi adottano. È noto che parlare del gioco nello sviluppo del bambino è particolarmente importante in quanto, attraverso questo, i bambini esplorano e provano i ruoli di genere. Nel mondo del gioco il bambino costruisce la propria identità di genere. Attraverso il gioco e il sistema di giocattoli l’adulto propone degli schermi di comportamento e trasmette, di conseguenza, dei condizionamenti culturali. Nelle prime indagini in cui si discuteva della correlazione che potesse esistere tra il gioco e il genere, emergeva come la differenziazione avveniva soprattutto nel mercato dei giocattoli. Lo stile differenziato, durante le attività ludiche, resta sempre un tema discusso, poiché già dai primissimi anni, è visibile come bambini e bambine giochino in maniera diversa. L’interesse a cose che sono particolarmente associate al loro sesso, permettono al bambino di percepire il genere maschio e femmina, di riprodurlo e di perpetuarlo addirittura. Si ritiene che le bambine e i bambini scelgano proprio di giocare a cose diverse e in modi diversi e di farlo con compagni del loro stesso sesso. Kilvington e Wood ritengono come nei giochi all’aperto o per strada la segregazione di generi sia molto meno netta rispetto ai contesti scolastici; è proprio in questi contesti che i bambini giocano con qualsiasi cosa indipendentemente dal colore che viene associato al loro genere. Favorire un’educazione outdoor non solo consentirà di creare ambienti fisici e sociali più inclusi in cui possono assimilare insegnamenti di giustizia ed equità sociale ma permetterà ai più piccoli di giocare con la fantasia in un gioco meno condizionato e segregato. Il queer nella socializzazione di genere Di recente si è diffuso un ulteriore filone di studi che celebra, sin dall’infanzia, il diritto all’autodeterminazione e la libertà di genere. Sono molti i genitori che riconoscono e considerano la propria bambina o il proprio bambino gender creative. Tale concetto è stato introdotto dalla psicologa Ehrensaft per sostenere un modello che consideri una gamma più vasta di genere. In questo modo, i bambini hanno diritto di definire la loro identità di genere individuale e gli adulti hanno responsabilità di ascoltare questi ultimi, nonché il dovere morale di sostenere tale libertà. Le questioni legate alla fluidità di genere dei bambini investono non soltanto il bambino in quanto tale ma anche tutta la famiglia, gli educatori e le altre agenzie educative che sono a contatto con l’intero nucleo famigliare. 3.3 LA COSTRUZIONE EDUCATIVA DEL GENERE: IL RUOLO DELLE ISTITUZIONI Introdurre il tema della costruzione del femminile e del maschile nei contesti educativi significa confrontarsi con la complessità dei processi di socializzazione, con uno sguardo di consapevolezza rispetto alle differenze di genere. È nei diversi livelli della socializzazione che avviene il trasferimento a livello educativo, culturale, psicologico e sociale di differenti modelli ai quali bambini e bambine, uomini e donne si uniformano nel tempo. Nel processo di interiorizzazione dei ruoli di genere, vengono costruite le categorie socioculturali del femminile e del maschile, insieme ai cosiddetti stereotipi di genere. L’idea di una società indifferente neutra rispetto al femminile e al maschile socialmente intesi può essere letta come un camuffamento del maschile. Significa pensare che solo il maschile rappresenti il riferimento neutrale e come tale le azioni educative e sociali possano essere indirizzate all’assimilazione del femminile al modello di riferimento maschile. Dalla lingua, ai comportamenti, l’uniformità di genere esiste nei riferimenti ai modelli e ai ruoli proposti dagli uomini: diventare uguali agli uomini. Il divario tra ciò che accade nei luoghi di formazione (nidi, scuole e università) e fuori (famiglia, social media...) rende ancora più difficile ridurre la complessità dei contesti odierni. Possiamo affermare che fuori dai luoghi della formazione il lavoro per la parità di genere si svolge primariamente sul piano legislativo. Nei contesti educativi e formativi della scolarizzazione, il lavoro da compiere per superare il binarismo maschile/femminile e i conseguenti stereotipi di La linguista Alma Sabatini ha evidenziato tre principali categorie di uso del genere grammaticale che sfuggono all’accordo di genere e ha mostrato come in questi usi non coerenti con la norma si rifletta chiaramente un privilegio sessista e maschilista: - L’uso del maschile come titolo professionale per le donne; - l’uso del maschile per indicare l’insieme dei membri di un gruppo formato da donne e uomini; - l’uso del maschile per designare una funzione astratta che potrà di volta in volta essere ricoperta da una donna o da un uomo. Vediamo ora questi tre aspetti in maggior dettaglio. a) Titoli professionali: si osserva spesso ancora oggi una significativa diffusione della forma maschile del sostantivo per tutte le funzioni di maggior prestigio a prescindere dal genere di chi le svolge, mentre nelle funzioni meno alte si usa regolarmente il femminile. Questo la dice lunga sul fatto che la presenza femminile è storicamente consolidata e data per acquisita in alcuni ambiti professionali tradizionali non dirigenziali, mentre in quelli di livello culturale superiore la presenza della donna è un fatto relativamente recente. Da qualche tempo però le cose stanno lentamente cambiando: questo singolare uso del maschile per le donne non è più un dato indiscusso, anzi la pubblica opinione e i media si interrogano continuamente su questo tema, riflettendo una varietà di posizioni. La questione del genere, oggi produce frequenti dubbi. In ogni caso, col passare del tempo, la scelta di usare un genere grammaticale coerente col genere della persona a cui si riferisce è sempre più frequente. Ciò ha portato alla diffusione di molti sostantivi che fino a questo momento non erano ancora stati utilizzati nella loro forma regolare femminile. b) Gruppi misti: quando ci si riferisce ad un gruppo formato da donne e da uomini, anche nei casi in cui la componente femminile è maggioritaria, tradizionalmente si ricorre al maschile. Questa asimmetria nella grande maggioranza delle situazioni mette in evidenzia la presenza degli uomini nel gruppo e opacizza la presenza delle donne. A questa asimmetria di genere, che svantaggia la componente femminile si sta cercando di porre rimedio con delle soluzioni: o la ripetizione del termine nei due generi, questa soluzione è elegante e corretta, ma ha lo svantaggio dell’allungamento del testo; o il ricorso alla barra obliqua per separare le desinenze; la scelta di termini che evitino di indicare il genere; o il ricorso a elementi grafici come l’asterisco o la chiocciola per rappresentare simultaneamente i due generi con un solo carattere; o l’uso del simbolo fonetico detto schwa, rappresentato da una ‘e’ capovolta, che ha il vantaggio rispetto all’asterico e alla chiocciola di essere pronunciabile; o l’uso di ‘u’ come desinenza ambigenere; o la scelta del solo femminile motivata o dalla forte prevalenza delle donne in un gruppo con una minoranza di uomini o dalla rivendicazione in alcuni contesti politici del capovolgimento dei rapporti di potere a favore delle donne. c) Funzioni astratte: questo è l’aspetto tra quelli indicati dalle linee guida di Alma Sabatini, in cui ci sono stati i minori cambiamenti nell’uso. Persone LGBT+ e genere grammaticale in italiano Il secondo grande ambito nel quale gli usi linguistici sono estremamente significativi per accompagnare e sostenere i profondi cambiamenti sociali e culturali è quello che riguarda la scelta del genere grammaticale in relazione alle diverse categorie di persone incluse nell’acronimo LGBT+. Nel caso delle donne e degli uomini transgender, il sesso biologico definito alla nascita non coincide con l’identità di genere assunta successivamente dalle persone. La donna transgender era infatti stata registrata anagraficamente alla nascita come persona di sesso maschile, ma ha adottato poi una identità di genere femminile, viceversa vale per l’uomo transgender. La conseguenza logica di questo è l’utilizzo del genere grammaticale corrispondente alla scelta biografica della persona, ovvero alla sua identità di genere acquisita. L’accordo grammaticale col sesso biologico e non con il genere acquisito rivela immediatamente un atteggiamento transfobico da parte di chi lo adotta. Nel caso di donne lesbiche e uomini gay, si tratta di persone che non hanno effettuato alcun cambiamento di genere, definite per questa ragione cis gender, termine che designa chiunque non abbia transitato nel genere opposto. Le persone cis gender conservano infatti il genere attribuito alla nascita e vi si riconoscono sul piano anagrafico, identitario e socioculturale. Sul piano linguistico la logica conseguenza di questo è l’uso del genere grammaticale femminile per le donne lesbiche e di quello maschile per gli uomini gay. Quando una persona eterosessuale usa ostentatamente il maschile parlando di una donna lesbica o il femminile per un uomo gay, sta adottando un atteggiamento omofobico. Un ulteriore grado di complessità si è andato, imponendo soprattutto negli ultimi anni con la progressiva evoluzione di nuovi modelli di comportamento e di nuovi tipi di identità. Appare necessario citare il genere non binario, cioè tutte quelle persone che rifiutano di assumere un’identità orientata decisamente verso il maschile o verso il femminile. Dalla crescente diffusione di queste identità non binarie, deriva anche la sempre più diffusa scelta, nei modelli anagrafici di alcuni paesi di fornire a chi risponde, oltre le classiche risposte F e M, anche una terza opzione, definita con ‘altro’. Anche questa categoria di persone pone nuove interessanti questioni legate agli usi linguistici e al genere grammaticale, a cominciare dai nomi propri di persona e dai pronomi con cui è corretto riferirsi loro. Alcune delle soluzioni sono l’asterisco, la chiocciola, la u e soprattutto la schwa. Anche per quanto riguarda i pronomi, è in corso l’elaborazione di forme di gender neutral. La breve rassegna dei cambiamenti linguistici in corso in relazione alle questioni di genere conferma che le lingue sono strumenti adattivi che nel tempo acquisiscono dimensioni di uso e di forma corrispondenti alle innovazioni sociali e culturali. Inoltre, come già da tempo è stato osservato dalla letteratura del tema, esistono due spinte al cambiamento che producono effetti a volte contrapposti: - quella della categorizzazione del genere, che va nella direzione dell’espressione della dualità maschile vs femminile; - quella della decategorizzazione del genere, che spinge invece nella direzione opposta, cioè verso la cancellazione delle differenze anche grammaticali. CAPITOLO 4 SALUTE 4.1 L’APPROCCIO DI GENERE ALLA SALUTE È all’inizio degli anni Novanta che la cardiologa Bernardine Patricia Healy scrisse un articolo, richiamando la protagonista di un libro di Isaac B. Singer Yentl nel quale esprimeva la preoccupazione che il sistema sanitario americano stesse curando le donne come fossero uomini. Da allora, molti passi in avanti sono stati fatto nell’acquisizione di conoscenze. Nel 2000, l’Organizzazione Mondiale della Salute (OMS) inserisce la medicina di genere nell’Equity Act, mentre le stesse società scientifiche fondano sezioni sul genere. Le donne fanno più ricorso ai farmaci e alle visite mediche, hanno stili di vita più salubri e aderiscono in percentuali superiori alle campagne di prevenzione; sono però scarsamente presenti nei trial clinici, pur essendo riconosciuto che ci sono incertezze nei profili di efficacia, sicurezza e tollerabilità dei medicinali, conseguenti alla stessa sperimentazione clinica condotta prevalentemente su animali maschi. Genere e sapere medico Sono diversi gli aspetti sociali della salute, a partire dall’utilizzo riduttivo che, in medicina, si fa del termine genere come sinonimo di sesso. Finora, si sono considerati gli aspetti riproduttivi, fisici, ormonali, come determinanti naturali, tralasciando importanti informazioni che provengono dalle esperienze biografiche, dagli eventi di vita, dalle relazioni e dalle emozioni. Tale spazio conoscitivo, riguardante il contesto sociale e ambientale della/del paziente, è rimasto in ombra nella pratica terapeutica. Il motivo di una visione riduzionista risiede nel considerare la scienza oggettiva e immune dalle influenze culturali, ma se leghiamo l’invisibilità delle donne alla loro posizione nella storia, il loro mancato riconoscimento, all’interno di un modello neutro inclusivo maschile, si spiega con la consapevolezza di una cittadinanza tuttora debole modellata su un diritto ritenuto universale, ma in realtà costruito su una tradizione androcentrica. È il pregiudizio implicito di un unico compro che ha riservato, per lungo tempo, alle donne il posto di secondo sesso, includendo tutte le differenze nel termine uomo. Ciò ha inciso anche sulla ricerca scientifica, in quanto i nostri riferimenti teorici sono connessi alla più generale visione del mondo che caratterizza una società in un momento della storia. Quello che abbiamo dato per scontato nella nostra esperienza quotidiana impone una revisione degli approcci, attraverso una visione sistemica e necessariamente aperta, per comprenderne i diversi aspetti: dalla prevenzione alla cura delle malattie. Occorre considerare le molteplici dimensioni nel loro reciproco rapporto, affinché la costruzione sociale delle differenze di sesso non si traduca in diseguaglianze di genere, anche migliorare l’appropriatezza du un percorso terapeutico. La semplificazione operata con la divisione tra mente/corpo e la descrizione nosografica delle malattie non hanno tenuto conto che l’essere umano è al tempo sesso essere fisico, psicologico e sociale e quindi tutti i determinanti devono essere indagati e presi in considerazione. Il taglio operato sulle variabili rispetto all’unità del soggetto ha generato una spiegazione, per cui alcuni registri interpretativi riguardanti la declinazione dell’ottica di genere sono rimasti legati alla comprensione delle sole differenze fisiche/riproduttive, tralasciando l’importanza del contesto culturale e istituzionale. 4.2 BENESSERE E CONCILIAZIONE VITA-LAVORO: IL “GENDER GAP” I percorsi esistenziali delle donne subiscono tuttora discriminazioni, a partire dall’invisibilità delle peculiari differenze, non solo organiche, all’interno dei protocolli medici e di ricerca. In altri termini, il genere è una dimensione cruciale della vita personale e quindi un fattore trasversale di Secondo i dati ISTAT più recenti si evidenzia il basso tasso di fertilità dell’Italia; un aumento costante dell’età al matrimonio e alla ricerca figli. I genitori single e le coppie sposate sono raddoppiati crescono le famiglie omogenitoriali e le persone singole e le coppie omosessuali che si rivolgono alle cliniche estere per realizzare l loro desiderio di genitorialità. A questo si aggiunge una condizione di genere che è ancora significatamente ineguale, per esempio: il tasso di occupazione maschile in Italia nel 2019 è stato del 73,4% rispetto al tasso di occupazione femminile che è solo del 53,8%. La condizione svantaggiata delle donne sul mercato del lavoro è altresì aggravata dallo squilibrio della distribuzione dei carichi del lavoro domestico e di cura tra i generi. Ci sono quindi fattori sociali che si influenzano a vicenda ed è per questo che si può parlare di infertilità sociale, cioè della difficoltà/impossibilità di mettere al mondo dei bambini a causa delle condizioni economico-sociale e del sistema di welfare che genere sostegni non sufficienti per le famiglie. 4.5 INFERTILITÁ E PROCREAZIONE MEDICALMENTE ASSISTITA Il problema della sterilità12 non si è posto con l’avvento delle tecnologie della riproduzione assistita (TRA) e della procreazione medicalmente assistita (PMA) ma ha sempre riguardato l’umanità, come tutte le questioni alla procreazione. Fino a tempi recenti, ha riguardato soprattutto il corpo femminile ritenuto l’unico responsabile dell’eventuale assenza involontaria di prole. La storia della medicina e la storia delle donne hanno avuto un percorso parallelo e lo spazio sociale delle donne è sempre stato mediato dalla medicina fatta da uomini. Nel 1927, la Enciclica Casti Connubi penalizza le pratiche contraccettive, dando così inizio al periodo uno degli aborti clandestini, che terminerà solo dopo più di 50 anni, con la legalizzazione dell’aborto, grazie alla Legge 194 del 1978 e confermata dal referendum del 1981. È evidente che la fertilità delle donne ha subito sempre gli orientamenti culturali, progressisti o conservatori. Le società e le culture hanno sempre adottato forme di superamento del problema a garanzia della sopravvivenza della specie, della riproduzione sociale e per assicurare la discendenza maschile nelle società patriarcali. A questi presupposti è legato lo stigma della sterilità, cioè la caratterizzazione negativa dell’oggetto o del soggetto nel caso si tratti di donne infertili o sterili. Lo stigma della sterilità produce e riproduce immagini negative delle persone senza figli, alimentando la loro sofferenza e promuovendo un ricorso, a volte indiscriminato, a qualunque mezzo in grado di procurare loro la prole. In tempi più recenti è stata scientificamente provata l’infertilità maschile ma spesso le donne si sottopongono ai trattamenti medici al posto del proprio partner sterile, poiché la sterilità maschile si trascina dietro un’insinuazione di impotenza, ancora oggi. La donna sterile è sempre stata malvista da ogni gruppo sociale: oggetto di scherno, esclusa da feste e rituali, evitata, ripudiata, o guardata con sospetto e considerata pericolosa in quando disobbediente alla legge della riproduzione. La coppia sterile sperimenta il peso dell’esclusione, che è spesso reclusione, poiché in modi più o meno impliciti viene rimarcata la differenza tra chi ha generato e chi no. Essere spettatori della capacità altrui di generare mentre la propria è lesa, è spesso un peso che si preferisce non portare. La PMA offre risposte medico-tecnologiche a questa sofferenza. 12 Sterilità e fertilità: la sterilità è la situazione di una coppia di un uomo e di una donna in cui uno o entrambi sono affetti da una condizione fisica permanente che non rende possibile il concepimento. Si parla, invece, di infertilità quando una coppia di un uomo e una donna non riesce a ottenere una gravidanza dopo un anno di rapporti costanti e non protetti. Il termine infertilità, quindi, al contrario di sterilità, non si riferisce a una condizione assoluta, bensì a una situazione generalmente risolvibile e legata a uno o più fattori interferenti. La procreazione medicalmente assistita. Questione di genere La PMA si inserisce nel complesso processo di medicalizzazione e di espansione del controllo medico della riproduzione. La ricerca e la riflessione su queste pratiche medico-tecnologiche è particolarmente importante anche sulla loro interconnessione con la medicina, con la politica e con la morale, come mostra il complesso iter della legge italiana sulla PMA (L. 40/2004): per esempio, l’art. 1, che indirettamente attribuisce personalità giuridica all’embrione e limita la capacità decisionale della donna e della coppia valorizzando, così, il corpo femminile non nella sua funzione di maternage, ma in quella biologica di contenitore dell’embrione/feto. La prospettiva di genere è sicuramente il filo rosso che ci permette di analizzare la PMA e le sue implicazioni sociali e culturali. La letteratura scientifica mostra pratiche mediche di PMA focalizzate sul corpo delle donne e sui loro organi riproduttivi. Assieme alla sessualità anche la figura maschile è rimossa, il suo corpo assente dal processo riproduttivo: il contributo maschile alla riproduzione appare irrilevante. Si parla solo di maternità e la PMA focalizza l’attenzione sulla disperazione delle donne sterili. La PMA enfatizza solo gli aspetti biologici della infertilità/sterilità. Ma questa è prima di tutto un’esperienza, socialmente e culturalmente costruita: un’esperienza dei corpi e delle vite delle persone che sono talvolta è riferibile a disturbi, mancanze, malattie dell’apparato riproduttivo. La biologia diventa la causa primaria, conducendo tutto a un dato biologico/genetico e ponendo in secondo piano gli altri fattori causali. La tecnica del social egg freezing La Frozen oocyte replacement (sostituzione di ovociti congelati) è una tecnica in cui gli ovociti in crioconservazione, dopo lo scongelamento vengono fecondati in vitro e trasferiti nell’utero. Questa tecnica offre alle donne la possibilità di avere figli più avanti nel tempo. Negli ultimi anni ha attirato un’attenzione pubblica considerevole e viene talvolta definita congelamento sociale degli ovociti. La tecnica del Social egg freezing si sta sviluppando anche in Italia come discorso medico e sembrerebbe così voler offrire una chance riproduttiva al ritardo concezionale delle donne italiane. Anche questa tecnica riproduttiva è rivolta esclusivamente alle donne e alla loro fertilità; non è altrettanto contemplato il ritardo concezionale degli uomini nonostante molti studi ormoni dimostrino che anche la fertilità maschile comincia a declinare a partire dai 35 anni di età. 4.6 QUESTIONE DI SALUTE E DI GENERE PRESSO LA POPOLAZIONE MIGRANTE L’International Organization for Migration (IOM) definisce il genere connettendo questo concetto ai ruoli e alle relazioni socialmente costruiti, ai tratti della personalità, agli atteggiamenti, ai comportamenti, ai valori, al potere relativo e all’influenza che la società attribuisce alle persone in base al sesso loro assegnato. Il concetto di genere assume significati rilevanti per varcare i diversi confini dello stato di salute di un individuo, anche in relazione all’ambiente entro cui esso svolge la propria vita quotidiana. In questa prospettiva è bene aggiungere al nostro discorso anche la definizione di salute, che viene delineata per la prima volta dalla Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) nel 1948: “La salute è uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non solamente un’assenza di malattia”. Con questa prospettiva si riconosce anche che la salute è uno dei diritti fondamentali di ogni essere umano. Sarà utile fornire anche la definizione di migrante proposta dall’ONU. Il migrante è una persona che si è spostata in un Paese diverso da quello di residenza abituale e che vive in quel Paese da più di un anno. Questo concetto tende a sottolineare che chi migra decide di spostarsi, opera cioè una scelta. Le persone migranti sono esposte a diverse vulnerabilità proprio perché devono affrontare difficoltà, sia interne che esterne al Paese di origine. Secondo i dati ISTAT, è avvenuta una sorta di femminilizzazione della migrazione, ovvero la crescente rilevanza della presenza delle donne, sia a livello globale sia nazionale, significa analizzare il cambiamento demografico e il ruolo significativo che i sistemi sociali possono avere nell’individuare adeguate azioni di salute per la tutela delle persone. Questo modello ha dato luogo a un fenomeno che gli studiosi hanno definito delle “famiglie transnazionali”. I figli che crescono in Paesi diversi rispetto ai genitori generano un fenomeno complesso, dove alla sicurezza economica corrispondono relazioni affettive dislocate, sensi di colpa, ansia e disagio psico-emotivo. I determinanti sociali della salute dei migranti Il fenomeno migratorio coinvolge una pluralità di elementi che condizionano la salute. Tra questi individuiamo i fattori individuali, sociali, le politiche di accoglienza del paese di arrivo e le reti sociali di appartenenza. Non è un caso che la migrazione rientri tra i fattori chiave dei determinanti sociali della salute, ovvero quelli che influenzano o possono influenzare, la salute e le diseguaglianze, tra gli stati e tra le persone. Il livello di istruzione è un determinante che ostacola, per esempio, la comprensione delle pratiche burocratiche e di funzionamento dei sistemi sanitari dei Paesi di arrivo. Le donne, in particolare, hanno contatti più limitati rispetto agli uomini e quindi meno facilità di inclusione sociale e anche sanitaria. Per le donne che provengono da sistemi culturali differenti è più difficile ricevere assistenza sia per le difficoltà linguistiche, sia per alcune norme culturali che possono impedire loro, per esempio, di accettare le cure da operatori sanitari di sesso maschile. Non ultima, la difficoltà dei viaggi della speranza che espongono le donne ad abusi fisici, sessuali e psicologici. Nel caso delle donne migranti, in particolare, le sfide ne gravano sulla salute sono molteplici sia a livello sociale e culturale sia strettamente sanitario: esse sono discriminate in quanto donne e in quanto immigrate. Partiamo dal presupposto, ormai acclamato in letteratura, che le persone che partono sono in buono stato di salute, grazie al cosiddetto migrante effetto sano, che consente loro di affrontare i difficili viaggi. Eppure, le insidie sono molteplici. La situazione per le donne migranti ha necessità di un’attenzione specifica anche nei Paesi di destinazione dove si incrina il sistema salute. 4.7 SISTEMA TRANSCULTURALE “La salute al femminile può rappresentare una cartina di tornasole della relazione tra donne migranti e il contesto socio-culturale della società ospite” proprio perchè può essere rilevante spazio di visibilità e di incontro, un’occasione di inclusione sociale, se questa è rappresentata da un adeguato accesso ai servizi sanitari. In virtù di questo parliamo di Salute Transculturale, ovvero di una salute che rappresenta il nucleo di un obiettivo tra società di accoglienza e la persona, un elemento che sia in grado di riconoscere le diverse culture in quanto tali. Un diamante culturale della salute che sappia accogliere e interpretare i bisogni di salute alla luce delle diverse semeiotiche culturali. tempo pieno, rappresenta un modello di famiglia ancora minoritario, ma in crescita, tra le coppie più giovani. - Le nuove tecnologie riproduttive. Le tecniche di procreazione medicalmente assistita (PMA) hanno allargato la possibilità di fare un figlio. Ciò ha reso evidente non solo che esiste una distinzione tra procreare e diventare genitori, ma che la filiazione ha una dimensione insieme sociale e intenzionale. - I mutamenti aperti dallo scenario della globalizzazione, soprattutto dalle migrazioni, che mettono a confronto, sia nei Paesi di destinazione sia in quelli di origine, modalità diverse di fare e intendere la famiglia, pratiche culturali diversificate. In conclusione, possiamo affermare che nel XXI secolo una varietà di forme e di modi di intendere e fare famiglia convive a fianco della famiglia coniugale-nucleare con figli basata sul matrimonio. 5.2 RAPPRESENTANZA E RAPPRESENTATIVITÀ POLITICA Col moderno, la singola persona viene riconosciuta sia come portatrice di diritti e di libertà inalienabili in qualità di essere umano, sia come oggetto politico deliberante in quanto cittadino avente la facoltà di esprimere direttamente il proprio volere e le proprie preferenze rappresentative. L’idea moderna di rappresentanza politica si secolarizza pertanto rispetto alla precedente visione religioso-monarchica, dove il sovrano fungeva da ponte fra la sfera teologica e la comunità materiale dei credenti. Nel corso del tempo, le rivendicazioni per il suffragio si sono venute a trasformare in richieste per una democrazia realmente paritaria, che significa equa presenza delle donne in tutti gli ambiti rappresentativi, ma anche ugual rispetto in tutti gli spazi della vita consociata, contro ogni tipo di discriminazione, molestia o violenza. La tragica morte di Olympe de Gouges nel 1793, ghigliottinata dai giacobini vincitori sui girondini e vessata da chi riteneva che fosse una donna dalla fervida immaginazione perché credeva nei diritti e nei doveri delle donne, segna l’inizio di battaglie per il sovvertimento dell’ordine patriarcale nel suo insieme: dalle istituzioni, alle strutture di dominio, fino alle mentalità oppressive che governano la vita quotidiana, la politica e la società. Si tratta di una rivoluzione ancora in corso, che procede per avanzamenti, ma anche retrocede per la resistenza di un sistema radicato da millenni. La storia delle donne indica pertanto un sommovimento radicale rispetto alla grande dicotomia che distingue la sfera pubblica dal dominio privato. A partire dal Secondo dopoguerra, i diritti umani e di cittadinanza delle donne si sono così venuti ad articolare e ad ampliare, grazie a costituzioni democratiche e a convenzioni internazionali che affermano il principio formale e sostanziale di uguaglianza, seppur nella tutela delle differenze. Tuttavia, la vera svolta culturale e politica avviene quando le lotte per i diritti umani delle donne acquistano una valenza differente, ovvero di genere. Non si tratta solo di tutela della maternità, bensì rispetto per la facoltà di procreare: dai diritti sessuali fino al rifiuto di essere violati proprio per questa determinazione biologica, come nel caso della violenza di genere, sessuale e domestica. Sono proprio i diritti sessuali e di genere a essere attualmente al centro di numerosi dibattiti, rappresentando una causa di accesi scontri nell’arena pubblica e nelle istituzioni politiche a livello globale. Nel testo sull’idea di rappresentanza, Hanna F. Pitkin ritiene che la rappresentanza politica sia una passi volta a rafforzare le voci, i punti di vista, gli interessi e i bisogni dei cittadini. Per questo, l’autrice distingue quattro diversi tipi di rappresentanza: - Formalistica: è costituita da accordi istituzionali che determinano la rappresentanza; - Simbolica: si riferisce al significato che un/a rappresentante ha verso i propri lettori - Descrittiva: riguarda un/a rappresentante eletto/a, inteso/a come colui/colei che dovrebbe rappresentare gli interessi del gruppo a cui appartiene. - Sostanziale: è l’azione che un/a rappresentante compie per conto e nell’interesse della persona che rappresenta gli elettori. Per il movimento delle donne queste quattro concezioni devono interagire, anche se sono spesso cause di conflitti rispetto agli interessi in gioco, ovvero se questi sono particolari e riguardano solo le donne. La politica deve saper fondare la propria legittimità democratica proprio su istanze che provengono dal mondo della vita e da esperienze di violazione, come la storia delle donne ci dimostra. Tuttavia le battaglie delle donne non sono mai completamente vinte, poiché sono spesso seguite da contraccolpi e retrocessioni. 5.3 DIRITTO Per riflettere sulle tematiche sottese al rapporto fra genere e diritto occorre, innanzitutto, richiamare le disposizioni costituzionali che al primo fanno riferimento. Nella Costituzione italiana vi è un espresso riferimento solo al sesso, oltre che alle generiche “condizioni personali”, all’art. 3, comma primo. Queste ultime sono certamente idonee a ricomprendere anche le nozioni di sesso, identità di genere, orientamento sessuale e genere. In particolare, con l’espressione di orientamento sessuale, si intende fare riferimento alla “scelta del genere del partner nell’ambito della sfera erotico- affettiva” e ci si riferisce alla “direzione dell’affettività e della sessualità di un individuo, indipendentemente dal genere, maschile o femminile, a cui appartiene”. Così l’identità sessuale ricomprende sia “la componente dell’orientamento sessuale, nella quale è qualificante la dimensione relazionale, sia quella dell’identità di genere”; a essa si può più correttamente ricorrere con riguardo alle persone omosessuali, che aspirano a non appartenere a un sesso diverso da quello biologico, come le persone transessuali, bensì a non essere discriminate per la scelta affettiva e sessuale di un partner dello stesso sesso. L’orientamento sessuale è per sua natura complesso dal che rappresenta il risultato dell’interazione multipla dei diversi significati assumibili dai due fattori che la compongono: orientamento affiancato a sessuale; esso si riferisce, in termini astratti, alle preferenze o inclinazioni di una persona di ordine sessuale, mentre in termini concreti appare idoneo a contenere il riferimento a condotte, pratiche, espressioni o manifestazioni varie di natura sessuale. Anche il termine sessuale ha una duplice connotazione indicando, allo stesso tempo, un’attrazione o una condotta affettiva ed erotica così come il sesso o genere delle persone interessate. Le altre disposizioni fondamentali cui occorre fare riferimento sono non solo l’art. 3 della Costituzione, già citato, e l’art. 2 della Costituzione ma anche i seguenti artt: - 29: che in modo rivoluzionario sancisce l’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi; - 37: che impone parità di diritti e parità di retribuzione fra uomini e donne a parità di lavoro; - 51; che stabilisce che la Repubblica promuova le pari opportunità fra uomini e donne in relazione alla possibilità di accesso ai pubblici uffici; - 117: settimo comma della Costituzione che stabilisce che le leggi regionali rimuovano ogni ostacolo che impedisce la piena parità e promuovano la parità di accesso alle cariche elettive A fronte delle disposizioni costituzionali che forniscono un quadro di riferimento imprescindibile nella prospettiva di riflettere sulle problematiche sottese all’implicazione fra genere e diritto, occorre necessariamente richiamare alcune storiche pronunce della Corte costituzionale. Si pensi per esempio alla materia della rettificazione del sesso e a quella del riconoscimento del rilievo dell’unione anche omosessuale. Se con riguardo a quest’ultimo tema la Corte, con la Sentenza n. 138 del 2010, non riconosce la possibilità di estendere direttamente la disciplina del matrimonio eterosessuale alle unioni omosessuali, in modo particolarmente significativo assegna specifica copertura costituzionale alla coppia omosessuale, alla luce dell’art. 2 della Costituzione. Il tema del rapporto fra genere e diritto è indiscutibilmente attuale, se si pensa non solo al DDL Zan, ma anche alle costanti e mai superate problematiche connesse alla disparità fra uomini e donne che conduce a poter parlare di una parità ambigua. Ecco che, in questa prospettiva, per tentare di fornire una chiave di lettura che consenta di individuare le prospettive future e le possibili soluzioni alle problematiche che sottese alla perdurante disparità di trattamento, assume un uomo centrale l’evoluzione del costume e della coscienza sociale da un lato e dall’altro, inevitabilmente, anche l’utilizzo di un linguaggio sempre più consapevole, attento e sensibile a queste tematiche. Accanto a queste considerazioni, uno strumento essenziale per una vera e propria attuazione della democrazia paritaria o di parità fra i generi, sia costituito da un corretto e consapevole uso del linguaggio. 5.4 MERCATO DEL LAVORO Soprattutto a partire dagli anni Settanta del XX secolo in poi, la presenza delle donne nel mercato del lavoro è cresciuta in Italia e nella maggior parte dei Paesi europei. La generale crescita della partecipazione femminile al mercato del lavoro è stata favorita dall’aumento dei livelli di istruzione delle donne. Nonostante la crescita nel tempo della presenza femminile nel mercato del lavoro, attualmente i tassi di occupazione delle donne continuano a essere più bassi rispetto a quello degli uomini e quelli di disoccupazione più elevati nella maggior parte dei Paesi europei, tuttavia, il cosiddetto gender gap varia molto da Paese a Paese. Nel mercato del lavoro lo squilibrio e le diseguaglianze di genere consistono anche nella persistenza di fenomeni di segregazione orizzontale e verticale. Per quanto riguarda in particolare il secondo dei due fenomeni, molti contributi si focalizzano sul meccanismo del cosiddetto glass ceiling (soffitto di cristallo) inteso come quella barriera invisibile che impedisce alle donne di arrivare ai gradini più alti di una professione. Questo fenomeno può essere spiegato con la teoria della svalutazione di England con la quale si sostiene che i compiti e le attività tradizionalmente femminili sono sottovalutati proprio perchè svolti generalmente da donne. Parallelamente alla crescita della presenza femminile nel mercato del lavoro, è andata aumentando anche la continuità nella loro presenza nel mercato del lavoro. In questo senso, ad esempio, è aumentata nel tempo la partecipazione delle madri che sempre meno interrompono o sospendono le loro attività lavorative in presenza di aumentati carichi di cura familiare. Uno dei più importanti cambiamenti nel modello italiano di occupazione è stato il rallentamento della tradizionale caduta dei tassi di occupazione delle donne nel periodo centrale e avanzato del loro corso di vita lavorativa. Dalla fine degli anni Ottanta in avanti assistiamo anche in Italia a politiche di smantellamento e trasformazione del welfare state a politiche di flex-security che portano a una diversa strutturazione del mercato del lavoro, con un reingresso delle donne nel mercato del lavoro, la diffusione di coppie con un doppio reddito, la doppia presenza delle donne del mercato del lavoro e nella cura. Oggi, in realtà, le difficoltà delle donne di ingresso nel mercato del lavoro, con contratti sempre più precari, fanno anche posticipare la formazione della coppia e la maternità. La differenza tra i tassi di occupazione delle donne e degli uomini aumenta con il numero dei figli. I dati italiani sulla presenza delle donne in accademia confermano l’andamento europeo, presentando al contempo alcune peculiarità. L’introduzione del Glass Door Index (GDI), un indice specificatamente concepito per rilevare la distanza dalla parità di genere nella transizione dalla fase di precariato alla fase di incardinamento nei ruoli a tempo indeterminato, permette di quantificare le differenze di genere nella fase di reclutamento. La crescita dei valori del GDI a seguito della riforma accademica introdotta con la Legge 240/2010 testimonia l’instaurarsi di nuovi processi di segregazione di genere. La rilevazione della porta di cristallo mostra come il tema delle disuguaglianze di genere nella scienza non può essere considerata una questione superata: piuttosto, in accordo con le indicazioni di policy fornite dalla Commissione europea ormai da diversi anni, sono necessarie politiche di intervento strutturale per sostenere i processi di trasformazione verso l’equità. Si sottolinea come la scienza sia divenuta oggetto esplicito dell’indagine sociologica negli anni Cinquanta, quando Robert K. Merton avanzò un cambiamento di prospettiva radicale nello studio della scienza mediante l’elaborazione di un modello volto a descrivere la scienza come istituzione sociale. Merton analizzò la struttura normativa che regola il funzionamento della scienza, ponendo l’attenzione sul carattere impersonale, pubblico e processuale della scienza. La struttura normativa continua ad essere estremamente efficace per comprendere i frame narrativi utilizzati dai ricercatori e dalle ricercatrici per far fronte ai potenziali conflitti tra diverse norme, valori e ruoli. Il tema della neutralità della scienza è stato fortemente dibattuto nell’ambito dei gender and feminist studies che hanno analizzato la relazione tra genere e istituzioni scientifiche da diverse prospettive. Recenti prospettive hanno analizzato il concetto di genere oltre l’idea di identità e immagine binaria socialmente costruita, ispirandosi alle correnti che interpretano il genere come una categoria analitica. Il genere nella scienza è piuttosto un elemento costitutivo e parte integrante di questi processi, che non possono essere adeguatamente compresi senza un’opportuna analisi di genere. Le ricerche mostrano come diseguaglianze sociali e processi complessi e sfaccettati agiscano influenzano la conoscenza scientifica, da un lato, e le carriere accademiche, dall’altro. Nel rivendicare l’accesso alle donne ai processi di costruzione di conoscenza scientifica, alcune studiose della scienza ed epistemologhe femministe hanno imputato la disuguaglianza di genere nella scienza a un rapporto di subordinazione con il potere e hanno evidenziato gli stereotipi di mascolinità materializzati nei dispositivi socio-tecnici. Hanno, così, rimarcato quello che Cockburn aveva definito il monopolio maschile sulla tecnologia, enfatizzando il suo ruolo attivo nella riproduzione della divisione di genere del lavoro e nella marginalizzazione delle donne, in ruoli loro assegnati dalla cultura patriarcale. Secondo l’epistemologia femminista è proprio la dimensione sociale e consensuale della scienza a minimizzare la soggettività introdotta dai propri posizionamenti sociali ed epistemici. Una volta svelati e condivisi con la comunità scientifica, anziché eclissati e taciuti, insieme alla diversità essi rappresentano la forza epistemica della scienza. 5.7 RELIGIONI La religione è un ambito privilegiato per poter cogliere il complesso intreccio tra tradizione e contemporaneità, tra azione sociale e azione individuale, tra costruzione delle diseguaglianze di genere e agency femminile sviluppata allo scopo di contrastarle. L’approccio di genere negli studi sulla religione si è imposto solo di recente, a fronte di evidenti specificità femminili e maschili. Inoltre, la sua applicazione ha riguardato soprattutto i contesti occidentali. Partendo da queste premesse, rifletteremo sui seguenti argomenti: a) alcuni aspetti del complesso intreccio tra genere e religione; le differenze di genere nell’impegno religioso, tradizionalmente più forte tra le donne b) La discriminazione a danno delle donne c) I mutamenti che stanno interessando la relazione tra mondo femminile e religione. A. Donne e uomini partecipano con differenti gradi di intensità alla vita e cultura religiose. Ciò che emerge da varie ricerche è la più consistente religiosità delle donne rispetto agli uomini. Per alcuni, la religione si può interpretare come uno strumento compensativo per far fronte alla marginalità economica e sociale; pertanto, acquista maggior significato negli strati più vulnerabili della popolazione. Per altri la socializzazione al ruolo di caregiver, riservata alle donne, le porta a curarsi maggiormente di figli, anziani, persone malate, avvicinandole alla sofferenza e alla religione come strumento di consolazione e conforto. Il numero più elevato di uomini che partecipano alla preghiera settimanale rispetto alle donne è dovuto a norme religiose che danno la priorità alla partecipazione maschile, impedendo ad esempio alle donne l’accesso alla moschea o relegandole in spazi marginali. B. Le donne sono più attive nella pratica religiosa in tutte le religioni e i processi di socializzazione religiosa dipendono grandemente dal loro lavoro, spesso invisibile o scarsamente riconosciuto. Il lavoro femminile nella religione è fondamentale e assume diverse forme: nei Paesi cristiani, le donne si occupano della cura e pulizia delle chiese, sono lavoratrici volontarie nelle parrocchie e negli oratori, sono agenti attive di socializzazione religiosa come catechiste. Il numero complessivo delle religiose continua a restare superiore a quello dei sacerdoti, diocesani e appartenenti a ordini religiosi. Negli organismi centrali della Chiesa cattolica molti ruoli o o preclusi alle donne: soltanto un numero molto ristretto occupa posizioni apicali e nelle sedi religiose ufficiali la presenza femminile resta secondaria. Sul piano ideologico, e religioni sovente legittimano religioni di genere polarizzate tra predominio maschile e sottomissione femminile, espressione di una cultura androcentrica e sessista che celebra la superiorità maschile e la passività e subordinazione femminile. C. Negli ultimi decenni i è prodotto un significativo e rapido allontanamento delle giovani generazioni dalla religione. Le nuove generazioni fanno fatica a comprendere il linguaggio religioso istituzionale; criticano la religione come semplice passaggio di norme, regole e precetti; affrontano il divario tra il messaggio religioso originario e la rigidità delle istituzioni; si dichiarano estranei a istituzioni religiose percepite come ingiuste, discriminatorie e gerarchiche. Queste generazioni sono state altresì esposte a decisi mutamenti nelle relazioni di genere e nelle forme di convivenza, diventati sempre più evidenti a partire dagli anni Sessanta/Settanta del XX secolo. Ciò ha incrementato la loro apertura al cambiamento e al rispetto delle differenze e l’insofferenza nei confronti della subalternità femminile. 5.8 ARTE E ARTISTA La storia delle donne nelle arti è l’indicatore di un’identità sociale, cancellata nella storiografia affermatasi nell’Europa dell’Ottocento. L’analisi dei percorsi biografici rileva come le donne siano state attive e protagoniste nelle arti, presenti nelle recensioni, autorevoli e stimate, attente testimoni della società a loro contemporanea. Lo scandalo della sociologia emerge quando le offerenti impostazioni teoriche non riescono effettivamente a spiegare la configurazione empirica delle disuguaglianze e/o la loro dinamica. In ambito europeo e americano sappiamo che non solo hanno creato e organizzato la vita artistica ma si sono inevitabilmente impegnate pubblicamente per il riconoscimento dei diritti civili e politici di tutte le donne, così come oggi, nei Paesi mediorientali e orientali, molte artiste emergono in diversi ambiti creativi, spesso denunciano problemi sociali collettivi e assenza dei diritti civili. Le artiste sono state spesso oggetto di censura, pregiudizi e stereotipi ghettizzati e marginalizzati, tanto da stigmatizzarle in una doppia devianza: da un lato quella di essere donne ribelli ai costumi della propria epoca e cultura, di esercitare un’attività creatrice ancora oggi considerata marginale rispetto al mondo economico dell’imprenditoria o del libero professionismo; dall’altro, quella di essere artiste e, dunque, per tradizione, individui deviati o stravaganti nel migliore dei casi. La vita delle artiste è stata ed è anche oggi quella che Marcel Mauss definirebbe un fatto sociale totale, perché la sinergia tra l’opera e l’identità sociale di ogni artista offre l’opportunità di un’analisi diacronica a partire da singole storie che definiscono un agire sociale in cui lo spazio privato e lo spazio pubblico si uniscono. I sociologi della letteratura, dell’arte e della musica non hanno ancora dedicato la dovuta attenzione alla storia sociale delle artiste, maggiormente attenti a questioni apparentemente neutre dal punto di vista della storia delle donne, usai del tutto concentrati sulle analisi culturali, politiche e fruitive della vita artistica come fosse un prodotto asessuato. Pierre Bourdieu ne Il dominio maschile (1998), ispirato da Virginia Woolf, svelò pienamente i meccanismi dell’ordine stabilito dal potere maschile: il rapporto di dominio, il modo in cui viene imposto o subìto, è l’esempio per eccellenza di sottomissione paradossale alla violenza simbolica, invisibile alle stesse vittime, che si esercita attraverso l’uso della comunicazione e della conoscenza, in cui la doxa è doppiamente paradossale quando smonta la trasformazione della storia e dei costumi culturali in qualcosa di naturale. Mai come nel Novecento nel ventesimo secolo il corpo delle donne si è trovato al centro della narrativa, della poesia, dei romanzi, anche grazie all’emersione della donna, come anello forte del sapere, volere e poter finalmente raccontarsi pubblicamente. La sociologia deve ancora analizzare in modo approfondito questo cambiamento nella narrazione letteraria. Evidente l’importanza dello studio delle produzioni, delle storie di vita, della storia culturale delle artiste, perché la rappresentazione delle loro opere e la modalità della narrazione o della censura del loro ruolo attivo nella società del proprio tempo è l’indicatore di una violenza simbolica normalizzata e data per scontata nel corso dei secoli. CAPITOLO 6 VIOLENZA 6.1 LA VIOLENZA NELLE RELAZIONI INTERPERSONALI Il tema della violenza interpersonale è oggi fra i più rilevanti della ricerca sociale. Si tratta di un fenomeno storicamente ricorrente, di cui si registrano manifestazioni in differenti momenti storici e in diverse culture. Fin dagli anni Sessanta, la violenza interpersonale era considerata come un’azione non ascrivibile alla casistica dei reati contro la persona. Le giustificazioni rispetto all’uso della violenza esposte in virtù della necessità di mantenere l’istituzione matrimoniale, o a fini apertamente correttivi nei confronti di soggetti reputati devianti, escludevano gran parte di questo tipo di azioni dall’elenco di reati annoverati nei codici penali. In Italia, ad esempio, fino al 1981 il matrimonio estingueva il reato di stupro, mentre erano previsti sconti di pena per chi uccideva, a causa di uno scatto d’ira successivo alla scoperta di un tradimento, la propria moglie, sorella o figlia. Le leggi sancivano l’impunibilità della violenza contro le donne agita nei contesti sociali della upper class, mentre a partire dall’esperienza della loro infanzia, nella famiglia di origine e in altri ambienti che possono avere esposto gli intervistati a forme di violenza. Quando poi ci si avvicina minori, è possibile ricorrere alle community mapping, dei disegni realizzati dalle rispondenti e dai rispondenti per rappresentare situazioni contestuali in cui possono realizzarsi i fatti o comportamenti violenti. Invertendo la prospettiva d’osservazione del rapporto tra violenza e genere femminile, volgiamo lo sguardo allo studio della violenza agita dalle donne, in particolare nel contesto di azione delle organizzazioni criminali e terroristiche. In generale è possibile distinguere due diversi aspetti dell’azione femminile, che definiscono altrettante differenti immagini della donna: - L’una vicina ai classici stereotipi di genere che la vedono moglie, madre, figlia dedita alle attività educative e di cura; - L’altra, dai contorni più vividi, che trova spazio in un mondo prevalentemente maschile (e maschilista), acquisendo una nuova agency nel contesto criminale. Il ruolo più tradizionale colloca la donna in una dimensione meno palese dell’azione violenta e la vede impegnata in attività di assistenza dei membri dell’organizzazione e di comunicazione. Parliamo, dunque, di un ruolo che si definisce nel retroscena del sistema associativo-criminale ma che è fondamentalmente per il mantenimento dell’organizzazione del circuito di violenza fisica, simbolica e psicologica da questa prodotto. Più di recente, in simili contesti ha cominciato a emergere con sempre maggiore chiarezza anche un rinnovato ruolo della donna. Non di rado la donna, in un ruolo di supplenza dell’uomo, svolge mansioni tipicamente maschili in caso di detenzione o latitanza del padre/fratello/marito/figlio. Riconoscere l’esistenza di questi diversi ruoli assunti dalla donna nel contesto della criminalità organizzata implica una riflessione sul modo in cui è possibile studiare le diverse forme di agency femminile. Per individuare ruoli e posizioni strategiche all’interno di una rete, si analizza la centralità dei simboli nodi, distinguendo i soggetti importanti dai soggetti marginali: in termini sociologici l’analisi della centralità riguarda il potere, la preminenza e la subalternità, la dominazione, la dipendenza, l’influenza o il prestigio degli attori. In una recente ricerca sulle cosche 'ndranghetiste il calcolo degli indici di centralità attraverso la tecnica della social network analysis ha messo in evidenza il peculiare ruolo relazionale della donna in simili contesti. Nello specifico, dallo studio emersa sia la presenza di alcune donne popolari o strategicamente posizionate all’interno della rete, sia la presenza di diverse donne che godono di un potere relazionale “indiretto”, acquisito grazie alla vicinanza a mariti e fratelli importanti dal punto di vista reticolare gerarchico. 6.3 MODELLI DI RICONOSCIMENTO DELLA VIOLENZA La violenza di genere non rientra e non trova una spiegazione univoca utilizzando i modelli biologici e/o ambientali nelle teorie criminologiche e della devianza. Anche per queste ragioni il processo di vittimizzazione secondaria è molto importante sia in riferimento alla tutela della coesione sociale, sia nei modi in cui avviene la rappresentazione individuale e collettiva della vittima e del carnefice. La vittimologia è considerata da molti una branca della criminologia e le sue origini sono rintracciabili negli studi della criminologia americana degli anni 40 del Novecento. Per avviare la specifica lettura delle dinamiche vittime logiche è necessario precisare che sia arrivata una definizione del processo, introducendo una distinzione tra vittimizzazione primaria e vittimizzazione secondaria. In specifico ci occuperemo della vittimizzazione secondaria, in quanto ci offre lo spunto per puntualizzare le difficoltà inerenti alla violenza di genere e le sue ripercussioni socioculturali. Rivivere e ripercorrere gli eventi che hanno portato alla violenza subita, rappresenta la possibilità di poter chiedere aiuto e di superare la storia di sofferenza e le vicende ad essa legate. Tutto ciò può essere causato anche dalle procedure istituzionali conseguenti alla denuncia del reato. La vittimizzazione secondaria produce delle conseguenze di cui ancora non sono stati studiati completamente i suoi effetti sulle vittime. Il primo modello di vittimizzazione a cui fare riferimento è quello sistemico-lineare che si è sviluppato negli anni 80 a cura del criminologo Emilio C. Viano. In questo modello l’attenzione posta sull’analisi della relazione interpersonale che si instaura tra l’aggressore e la vittima.si tratta di una relazione circolare e per questo vengono posti al centro la posizione e il ruolo delle due parti. Dal criminologo Viano l’attenzione viene quindi posta sulla relazione diadica tra i due e non è in questo senso possibile l’analisi delle singole parti senza tenere al centro il tipo di legame esistente. La vittima in questo senso è tale in relazione allo specifico aggressore è alla specificità del contesto in cui si è consumato il reato, ovvero, la vittima non è tale rispetto a un altro contesto e nella relazione con altri soggetti. Questo approccio, ponendo al centro la relazione, dà significato allo stesso ruolo della vittima, che essa svolga ruolo attivo passivo rispetto al reato specifico. Il reato e la scena in cui è avvenuto saranno analizzati dopo gli eventi scrivendo gli avvenimenti e tenendo in considerazione la narrazione dei fatti. Queste indicazioni trovano le loro origini nel concetto di contestualizzazione soggettiva, considerando come la personalità dei partecipanti alla scena criminale si strutturi sulla base della relazione tra le parti e l’ambiente. Questo concetto è ancora più forte nel momento in cui tra la vittima e il carnefice, come negli atti relativi alla violenza di genere, il rapporto è profondo, trattandosi, nella maggior parte dei casi di un reo conosciuto intimamente e che ha con la vittima una relazione profonda e quotidiana. Tenendo in considerazione quanto sopra esposto, il percorso di uscita dal ruolo di vittima del reato è un percorso complesso che non sempre riesce a restituire serenità e dignità alla stessa. L’avvio è sicuramente rappresentato dalla comprensione da parte della vittima del livello di relazione disfunzionale che la lega all’autore/agli autori del reato e di tutti coloro che hanno contribuito al processo di vittimizzazione primaria e secondaria. Il percorso di uscita dalla condizione di vittima può essere facilitato soltanto dall’intervento di figure professionali specializzate e capaci di creare una rete di supporto rispetto alla lettura degli eventi, ma soprattutto dei propri vissuti personali, che possono aver contribuito all’accettazione del ruolo di vittima. E dagli studi dello stesso Emilio C. Viano che il processo di uscita dalla condizione di vittima viene diviso in quattro fasi: - Riconoscere il danno subito - Riconoscersi nella condizione di vittima - Decidere come intraprendere il percorso di uscita - Ricevere l’aiuto per riuscire dal processo di vittimizzazione Le storie delle vittime, raccontato dalle operatrici dei CAV e a tutti coloro che lavorano nel percorso di uscita delle vittime, testimoniano le tante diverse forme in cui le vittime hanno subito accettate i comportamenti violenti e lesivi della loro persona e delle persone a loro vicine, non conoscendo spesso altri modi di stabilire delle relazioni positive e sane. In conclusione è possibile affermare che la vittimologia restituisce dignità alle vittime e ne delinea i tratti. La vittima che soffre, improvvisamente subisce una brusca interruzione del suo normale percorso di vita e deve, suo malgrado, fare i conti con una serie di problemi di non facile soluzione, in una realtà che adesso vive come estranea. 6.4 CRIMINALITÀ ORGANIZZATA E TERRORISMO Portando la letteratura scientifica prodotti negli ultimi vent’anni sulla questione della relazione tra genere e terrorismo è possibile individuare quattro approcci principali: - Il primo approccio consiste nell’utilizzo del genere come variabile che, insieme ad altre quali l’età, la razza, la classe background socio economico, può consentire di individuare le differenze tra gli uomini e le donne donne rispetto all’esperienza dell’esercizio della violenza terroristica, - Il secondo approccio analizza il potere delle norme di genere di condizionare modellare i ruoli di uomini e donne all’interno delle organizzazioni terroristiche, - Il terzo si concentra sulle motivazioni sui diversi fattori ideologici, culturali, economici e sociali che possono spiegare come perché le donne e gli uomini scelgono di entrare a far parte di un gruppo estremista, - Il quarto approccio, infine, cerca di analizzare in che modo la femminilità e la mascolinità possono innescare delle dinamiche in grado di influenzare i percorsi individuali e collettivi di radicalizzazione violenta. Le scienze sociali si sono concentrate soprattutto sulla crescente adesione delle donne a forme estreme e violente di pensiero e di azione. I primi contributi hanno condizionato negativamente di interpretazione del terrorismo femminile etichettandolo come irrazionalmente motivato da desideri di appagamento emotivo oppure interpretandolo come una scelta dettata da una sorta di codice materno-sacrificale e non da specifiche credenze ideologiche. Le ricerche realizzate nei due decenni successivi sono state influenzate sia dall’intensificarsi del fenomeno sia dalla sua evoluzione storica e ciò ha prodotto un corpus di conoscenze notevole ma poco coerente all’interno del quale è possibile identificare specifici itinerari di ricerca. Rientra nel primo quadro interpretativo lo studio di Anat Berko ed Edna Erez le quali, sono giunte a definire la loro come una situazione di non ritorno e di non vittoria, una volta constatate sia la difficoltà di queste donne ad essere nuovamente accolte nelle loro famiglie di origine sia la tendenza, nell’organizzazione terroristiche in cui avevano militato, a riprodurre una condizione di oppressione di genere identica a quella sperimentata nella realtà sociale esterna al gruppo. il secondo quadro interpretativo è ben rappresentato dallo studio di Miranda Alison sulle donne combattenti nei conflitti armati del Sri Lanka e Irlanda del Nord. Partendo dalla considerazione che il conflitto etnico-separatista armato costituisce un’interessante arena teorica in cui esaminare ruoli di genere, aspettative ed esperienze di guerra, Alison arriva a sostenere che in tutti i conflitti nazionalisti le donne combattenti sono spesso percepiti come “un’anomalia necessaria e contemporanea” in un periodo di crisi di bisogno nazionale. Mia Bloom e Ayse Lokmanoglu hanno concluso che nei percorsi che queste donne seguono per arruolarsi e riscontrabili un’agency attiva, una certa autonomia decisionale che dopo l’ingresso nell’organizzazione si trasforma in un’agency apparente, poiché i ruoli femminili non sono altro che un riflesso di un rapporto di subordinazione: sono gli uomini di queste organizzazioni i soli a prendere decisioni e ad assegnare ruoli. La prima macroarea di ricerca si è caratterizzata per una particolare attenzione alla tendenza globale del femal suicide bombing e ai fattori in grado di motivare una forma di violenza agita così estrema. A partire dagli anni 70, gli sviluppi del campo dell’informatica delle telecomunicazioni hanno determinato il passaggio ai cosiddetti nuovi media, che hanno inaugurato accompagnato la transizione al digitale. Prima la diffusione dei pc e poi quella del World Wide Web hanno favorito cambiamenti sostanziali nei modelli di consumo. Gli ultimi anni hanno visto un ulteriore evoluzione per quanto riguarda le caratteristiche dei media. L’arrivo del web 2.0 e dei social media a partire dalla fine degli anni 90 ha determinato un cambiamento fondamentale perché ha inaugurato la stagione dei media partecipativi, contraddistinti dalla possibilità, per i fruitori, di interagire in modo inedito con i contenuti mediali, modificandoli, remixandoli e producendo nuovi artefatti. Le piattaforme social hanno determinato uno straordinario cambiamento di paradigma che, almeno potenzialmente, offre agli utenti la possibilità di produrre contenuti comunicativi sempre più ricchi e variegati. Per quanto riguarda il rapporto tra “genere e media”, le principali aree di interesse di analisi scientifica sono: rappresentazione, produzione e consumo. In particolare: - Rappresentazione: il tema della rappresentazione ha a che vedere con le soggettività che ottengono visibilità all’interno dei media. Le rappresentazioni mediali hanno una rilevanza quantitativa, nel senso che hanno a che fare con le percentuali di presenza di donne e di uomini nei media e una rilevanza qualitativa, perché si interfacciano con i ruoli e le posizioni rivestite dai diversi generi nell’ambito dei media. - Produzione: l’area di indagine relativa alla produzione mediale è legata all’industria dei media, che è stata in gran parte condizionata dall’ impatto digitale. Per un periodo i diversi mezzi di comunicazione quali la stampa, il cinema, la televisione erano considerati come comparti separati. Oggi la convergenza di processi produttivi e dei contenuti impongono di ripensare in maniera radicale la struttura e il funzionamento dell’industria mediale. - Consumo: l’area di analisi relativa al consumo è quella che si occupa del modo in cui i pubblici ricevono e rielaborano le informazioni dei media. Attraverso l’analisi delle teorie degli effetti sociali dei media è possibile individuare un percorso che va da un ricevente sostanzialmente passivo sino a teorie più avanzate come l’approccio usi e gratificazione o come i cultural studies, che riflettono sulla capacità dei pubblici di negoziare significati mediali. Gli studi su genere e media si intrecciano con i femminismi. Il legame forte che viene rilevato dalle studiose di gender media studies è quello con il cosiddetto postfemminismo. Potremmo definire il postfemminismo come una tendenza culturale o meglio una sensibilità, come la definisce Rosalind Gill che è rivolta all’analisi dei prodotti culturali e mediali della contemporaneità. La rappresentazione del genere nella televisione italiana è coincisa per lungo tempo con la rappresentazione della donna. La televisione degli esordi era una televisione definita pedagogica. In questa fase storica la donna coincide quasi esclusivamente con la presentatrice televisiva, la cosiddetta “signorina buonasera” che dava l’annuncio dei programmi televisivi o con la soubrette del varietà in onda il sabato sera: le gemelle Kessler. Inizia, inoltre, l’era delle vallette, che fanno da spalla al conduttore principale del programma, in quel periodo rappresentato esclusivamente da professionisti di sesso maschile. Facendo un passo indietro, però, è opportuno ricordare che gli anni Settanta sono caratterizzati dall’emergere della questione dei diritti delle donne. L’introduzione del divorzio (1970) e la legge sull’interruzione volontaria di gravidanza (1978) avevano comunque segnato un cambiamento epocale. In quel periodo si segnalano trasmissioni come Processo per Stupro. Gli anni 80, si distinsero per un cambiamento strutturale. Si avvia un cambiamento nella direzione della cosiddetta neotelevisione. La TV delle reti private è una TV che si differenzia per un radicale cambiamento dei linguaggi e dei codici comunicativi. Una TV più spensierata col quale si instaura un rapporto di complicità, a partire dai conduttori. In questa situazione sociale si innesca un cambiamento nella rappresentazione della donna e in particolare del suo corpo, caratterizzato da un’inedita spinta al consumismo e all’individualismo. Sono gli anni in cui si afferma un fenomeno politico, ma anche culturale, che è stato definito berlusconismo, per indicare una tendenza legata alla personalità degli ex imprenditore edile Silvio Berlusconi. Quest’ultimo inaugura un impero imprenditoriale basato sul possesso delle televisioni o meglio di un impero mediale, ma soprattutto su una formula basata sulla centralità della triade sesso-potere-denaro, il tutto in una cornice caratterizzata dalla parola d’ordine libertà. Le TV di Berlusconi indagano immediatamente una sfida nei confronti dell’emittenza Rai, con una vera e propria guerra di ascolti e l’affermazione progressiva dell’emittenza privata su quella pubblica. Tornando alle rappresentazioni di genere, un programma come Drive di Antonio Ricci, rappresenta molto bene la nuova filosofia delle TV berlusconiane. Vediamo qui comparire le ragazze fastfood, donne formose che si offrono allo sguardo del pubblico e che propongono uno stereotipo di donna passiva e compiacente nei confronti degli uomini. Gli anni successivi continuano ad essere caratterizzati da questa tendenza che cerca di proporre una TV basata sull’ironia l’autodeterminazione femminile. Negli anni 90 la situazione non migliora, quanto a modelli di rappresentazione della donna. Soltanto per fare un esempio un programma come Non è la Rai era caratterizzato dalla massiccia presenza di ragazze molto giovani, intente a esibirsi in balletti e canzoni, da sole o in gruppo alle quali non erano affidati ruoli da svolgere autonomamente. Soltanto qualche anno dopo Uomini e donne di Maria De Filippi, promuove un preciso concetto di femminilità e maschilità. L’uomo e la donna possono corteggiare o essere alternativamente corteggiatori e corteggiatrici, ma i modelli estetici proposti sono tutti orientati alla bellezza estetica e a specifici canoni corporei: il ragazzo macho, palestrato e tatuato, la ragazza quasi quasi sempre snella, di gradevole aspetto e vestita all’ultima moda. Al termine di questa rapida e semplificatoria carrellata, ci chiediamo allora se oggi ci sia ancora spazio per modelli alternativi di femminilità soprattutto per altre soggettività che non debbono necessariamente essere ricondotte al modello di uomo forte, direttivo e competente e di donna bella, oggettivata e stupida. Qualche spiraglio può essere rintracciato nella programmazione televisiva più recente. Se da un lato programmi come Matrimonio a prima vista ancora non prevedono la presenza di coppie omosessuali, dall’altro trasmissioni come la stessa Uomini e donne o Primo appuntamento hanno mostrato di abbandonare i pregiudizi dando spazio anche alla partecipazione delle persone omosessuali. 7.2 I MEDIA DIGITALI La trasformazione digitale permette alla TV di assumere forme nuove. Vengono innovati i contenuti seguendo le dinamiche di mercato, si modificano le strategie industriali e cambiano, infine, le pratiche spettatoriali, poiché si assiste a un mutamento dei luoghi degli stili di fruizione. Nell’età della convergenza occorre pensare al medium televisivo come sistema. La cultura convergente è il paradigma che permette di comprendere la nascita dei moderni prodotti culturali e viene declinato in diversi significati: la convergenza tra consumatori e produttori, tra vecchi e nuovi media, tra linguaggi, la convergenza economica e, infine, culturale. La convergenza favorisce la creazione di prodotti transmediali e lo sviluppo di una fandom culture: gli eroi della Marvel non sono più solo al cinema, ma diventano prodotti di merchandising, dall’abbigliamento ai costumi dei bambini. In questo nuovo contesto, in cui sono facilitati contatto e condivisione, le aziende progettano i loro prodotti incorporando in essi gli aspetti collaborativi e partecipativi, coinvolgendo consumatori all’interno delle campagne di marketing e comunicazione. In questo quadro, Netflix rappresenta un esempio molto interessante di azienda televisiva che include nella sua filosofia e nel suo modello di business l’interesse per le questioni di genere. Il modello di business di Netflix è assestato su bassi investimenti iniziali e produzioni locali, a costi possibilmente contenuti, con attori sconosciuti e cachet ridotto. L’azienda ha puntato su idee che intercettassero i bisogni di espressione di comunità specifiche di spettatori che a loro volta hanno usato il passaparola, attivando forme di pubblicità gratuita per l’azienda. Ciò ha fatto sollevare in alcuni casi sospetti di pinkwashing, cioè l’accusa di aver sfruttato la visibilità fornita dal movimento LGBT+ o femminista, ma Netflix si è difesa affermando di avere sempre abbracciato una politica inclusiva e rispettosa di ogni differenza. Nel confezionamento di questi prodotti si pone grande attenzione alla rappresentazione dei corpi, alle scene erotiche, all’evoluzione dei personaggi attraverso prove nella vita reale. Le saghe familiari sono da sempre il luogo di rappresentazione di modalità di vita che non riproducono le norme tradizionali. Il family drama è il genere ideale per mettere in scena i coming out, poiché all’interno della famiglia si vive l’accettazione o la repulsione di orientamenti e generi non conformi. Bechdel notò che fino a Jane Austen i personaggi femminili avevano subito una rappresentazione stereotipata. Da quel disegno è nato il test che ho offerto la possibilità di misurare la rappresentazione delle donne in una fiction. 7.3 LE/GLI INFLUENCER I social si caratterizzano per la straordinaria possibilità da parte dei pubblici di partecipare, creare, ma anche e soprattutto condividere, nella logica dello sharing dei contenuti. Social media come Facebook o Instagram pongono sul piatto nuove questioni legate alla rappresentazione di diffusione delle immagini e dei corpi. La moltiplicazione esponenziale dei selfie e soprattutto di una loro precisa grammatica di realizzazione mette nuovamente al centro il corpo come protagonista. Parlando di social e selfie non possiamo non citare gli influencer e le influencer che mostrano con evidenza la doppia funzione del sistema mediale: quella di far sì che i soggetti possono essere contemporaneamente soggetto e oggetto dei media. Nel primo caso i media offrono loro uno spazio di azione ed espressione inedito, mentre nel secondo dipendono oggetto della comunicazione mediale perché ne vengono in qualche modo dominati. Un caso emblematico è quello di Kim Kardashian, che attraverso i social, documenta quotidianamente ogni singolo aspetto della sua vita, mostrandosi spesso in pose sexy e che, comunque, pongono al centro il corpo. Le/Gli influencer rappresentano una categoria riconoscibili dei social media e in particolare in Instagram: la loro fortuna dipende in gran parte dal numero di follower che li segue, proprio perché nel tempo riescono a costruirsi una affidabilità e autorevolezza orizzontali. La loro fortuna economica è anche legata al ruolo di testimonial di famosi brand internazionali che vengono regolarmente sponsorizzati. Nell’analisi del fenomeno, la ricerca si è concentrata soprattutto su due variabili che caratterizzano assai per bullismo: l’età e il genere. La prima variabile è stata nei parti particolari interesse per educatori e psicologi, che hanno prestato attenzione al passaggio dalla preadolescenza all’adolescenza individuando caratteristiche e comportamenti differenti in base all’età. Sono numerosi gli studi che tendono di restituire uno spaccato delle caratteristiche di genere di cyberbulli e cybervittime. Anche in Italia sono state condotte indagini di questo tipo che, in ogni caso, appaiono concordi su un punto: il fenomeno del cyberbullismo coinvolge tutto il complesso mondo della preadolescenza e dell’adolescenza. Ma il tema del genere apre la strada a un’altra specifica categoria di bullismo elettronico. Nello specifico, ci si riferisce a quell’insieme di prepotenze e vessazioni rivolte ai ragazzi ai ragazzi che sono omosessuali in quanto non corrispondono alle aspettative di genere socialmente costruite e che costituiscono la base del fenomeno dell’homophobic cyberbullying. Il bullismo omofobico è definito come una risposta di molestie esplicitata dall’uso di etichette peggiorative o frasi denigratorie nei confronti di individui percepiti come appartenenti alla popolazione queer e, quindi, categorie considerate non conformi alle norme di genere socialmente condivise. La ricerca sul cyberbullismo omofobico è solo agli albori sebbene i primi studi evidenziano già le conseguenze di questa forma di violenza spesso considerata invisibile proprio a causa dell’assenza di un contrasto fisico o di ripercussioni direttamente osservabili sulla vittima. Non è solo la popolazione è LGBT+ essere anche altre categorie possono essere incluse tra le vittime di cyberbullismo omofobico: gli adolescenti che vengono percepiti come omosessuali con identità di genere non conforme alle norme sociali basate sugli stereotipi vigenti; gli adolescenti con familiari apertamente omosessuali; gli adolescenti eterosessuali crescono fuori dagli schemi non vengono considerati conformi alle norme culturali di genere. Gli studi sul cyberbullismo omofobico evidenziano di disagi disturbi, nelle vittime, simili a quelli che caratterizzano altre forme di bullismo, con due peculiarità che sembrano emergere con maggiore decisione: il ruolo centrale delle immagini e il fenomeno dell’omofobia interiorizzata. Da un lato, quindi, le azioni di cyberbullismo basate sul genere sull’orientamento sessuale si prestano particolarmente all’utilizzo di immagini, video e internet meme che hanno anzitutto lo scopo di deridere e indurre pubblicamente alla vergogna della vittima. Dall’altro lato, gioca vuole importante quella che letteratura è stata definita come omofobia interiorizzata ovvero il frutto dell’accettazione passiva da parte delle persone omosessuali di tutti i pregiudizi, i comportamenti e le opinioni discriminatorie in cui sono immersi. Ad oggi, le ricerche sul cyberbullismo omofobico si sono concentrata soprattutto su due aspetti: il ruolo è la capacità di intervento di chi assiste in qualità di spettatore online alle vessazioni; la correlazione tra la perdita di inibizione online e l’aumento dei casi di atti di bullismo nei confronti delle minoranze di genere. Negli episodi di cyberbullismo omofobico e quindi importante il ruolo dei cyberbystander, ovvero di chi assiste in rete al sopruso e alle ingiurie. Gli spettatori delle vessazioni intervengono più facilmente e maggiore quantità nelle relazioni online, sia in difesa della vittima sia nel ruolo di chi denuncia segnala comportamenti di bullismo rivolti ad altre persone. Per comprendere contrastare il cyberbullismo omofobico è necessaria qualche rielaborazione rispetto alle forme più tradizionali di cyberbullismo. 7.6 PROSPETTIVE EDUCATIVE E SVILUPPI FUTURI In una società che è sempre più complessa, globale e multiculturale e che recentemente è stata colpita anche dall’ondata pandemica, che ha messo a dura prova le nostre numerose certezze ridefinito i paradigmi di lettura della realtà sociale, è, infatti, importante anche riconosce l’esistenza di una gamma sempre più vasta di soggettività che chiedono di prendere la parola di potersi esprimere, esercitando il loro diritto di cittadinanza anche attraverso la comunicazione. Come osserva Capecchi, ciò significa in primo luogo pensare in modo più articolato ai ai pubblici, che sono composti non soltanto da individui di genere maschile e femminile, ma anche da soggetti che non si identificano nella gabbia di dicotomica tradizionalmente delimitata dai generi. Secondo Capecchi, pertanto, comunica in ottica di genere significa: 1. Abbandonare una visione della realtà presentata come neutra e universale 2. Accettare la parzialità dei punti di vista maschili sulla realtà e dare valore ai punti di vista femminili 3. Considerare il genere femminile e quello maschile in relazione dialettica tra loro 4. Tendere all’uguaglianza tra uomini e donne 5. Abbattere gli stereotipi di genere e il sessismo Nel settore dell’Informazione è importante che le notizie siano scelte, scritte e trattate nel rispetto di tutti i ruoli di genere e che anche tra coloro che confezionano e diffondono le news sia possibile identificare professionisti appartenenti ai diversi generi. Si tratta di una professione declinata prevalentemente al maschile, dove soltanto recentemente si sta affermando con particolare forza la presenza femminile. Pensiamo al fenomeno del femvertising, nell’ambito del quale si propongono pubblicità che utilizzano modelli di rappresentazione della donna differenti e alternativi rispetto a quelli tradizionali. In particolare, questo tipo di pubblicità si basa sull’empowerment, sull’idea, cioè, che le donne abbiano il controllo delle loro scelte identitarie. Infine, questa sensibilità nei confronti del genere e della prospettiva delle pari opportunità si sta affermando progressivamente anche all’interno delle politiche pubbliche e aziendali. Le amministrazioni pubbliche e le aziende cominciano a comprendere, cioè, quando l’adozione di una prospettiva di genere possa essere conveniente anche per i loro profitti. La socializzazione ai ruoli di genere è un processo molto complesso e articolato che vede concorrere numerose agenzie di socializzazione, dalla famiglia, alla scuola, al gruppo dei pari. Tuttavia, accanto alle agenzie cosiddette tradizionali, da diversi anni è emerso con particolare evidenza anche il ruolo dei media nell’ambito dei processi di socializzazione al genere. Ciò concorre a costruire una cultura che poi contribuisce a socializzare e formare ai ruoli di genere. Il ruolo dei media nella socializzazione di genere è il presupposto per riflettere sull’esigenza di promuovere strategie educative legate a un uso corretto e produttivo dei mezzi di comunicazione. A tal proposito, è di fondamentale importanza ragionare sulla media education, un ambito interdisciplinare di competenza che parte da alcuni semplici presupposti che possiamo così riassumere: - i media sono agenti di socializzazione - I media non sono trasparenti - Le persone sono ricettive e non passive nei confronti dei media, è possibile educare a un uso critico e responsabile La media education coinvolge diversi contesti, formali e non formali, dalla scuola all’extrascuola, e diverse generazioni, da quelle più giovani a quelle più mature. Dal punto di vista linguistico, quando parliamo di media education ci riferiamo, inoltre, a due accezioni: - educazione dei media, termine con il quale fa riferimento al processo di insegnamento e apprendimento centrato sui media; - Media literacy, che ne costituisce il risultato La media literacy si connette al tema delle competenze e, in particolare, delle competenze digitali. Accanto a competenze relative all’accesso o alla produzione di contenuti, assumono sempre più importanza le competenze etiche e quelle relative alla gestione del sé e delle relazioni sociali all’interno dei social media. Importante è anche la competenza legata alla capacità di riconoscere fonti autorevoli e meno autorevoli per incorrere in trappole. Senza dubbio i media hanno contribuito a rendere ancora più globale e che ha prodotto un contesto transnazionale e sempre più complesso e articolato in cui si collocano le soggettività di genere. D’altro canto l’emergenza pandemica ha mostrato da un lato la forza, dall’altro, la debolezza della comunicazione mediatica. Oltre al pericolo rappresentato dalle fake news, i media hanno rappresentato la cartina di tornasole degli effetti del Covid-19. Da una parte le donne hanno pagato alto il prezzo dell’emergenza sanitaria, subendo un peso ancora maggiore del lavoro di cura con un aumento esponenziale delle responsabilità e delle attività domestiche, mentre su un altro versante i media hanno continuato a offrire una rappresentazione piuttosto squilibrata del loro ruolo nella società. Sugli schermi televisivi si sono avvicendate figure esperte che hanno assunto la caratteristica di detentori della verità e della competenza sui temi scientifici e sull’azione politica legata alla pandemia. La presenza femminile si è limitata a rarissime eccezioni o, quando c’è stata, è stata posta nelle condizioni di essere interprete e modello stereotipato. CAPITOLO 8 LGBT + 8.1 UNIVERSO LGBT + L’acronimo LGBT, che nel corso del tempo è andato ad arricchirsi di ulteriori lettere simboli, è un espediente introdotto a partire dai primi anni del XX secolo per riferirsi contemporaneamente a tutte le minoranze sessuali di genere. Ognuna delle lettere dell’acronimo è metaforicamente rappresentativa anche delle rotte sociali e culturali condotte per rivendicare il diritto di poter essere sé stessi in ogni ambito della propria esistenza. In ambito scientifico, studiose e studiosi hanno individuato quattro elementi che sostanziano l’identità sessuale: - Sesso biologico: il sesso biologico riguarda i caratteri sessuali con i quali una persona nasce. Questo viene definito su vari fattori: - Patrimonio genetico - Organi genitali - Quadro ormonale - Identità di genere: può essere definita come la relazione di adeguatezza o inadeguatezza che è un individuo ha con il proprio essere biologico. L’assunzione di tale principio ha forti conseguenze sul piano empirico: non solo viene dato per scontato che tutte le persone debbano essere eterosessuali, ma anche le relazioni finiscono per essere ordinate gerarchicamente sulla base dei principi eterosessisti. Tale scenario fa da sfondo a un altro fenomeno, ossia l’omofobia. Il termine è stato coniato da George Weinberg per definire l’intolleranza e l’odio nei confronti delle persone omosessuali da parte della società eterosessista. Il discorso di può estendere anche alle altre minoranze sessuali e di genere. L’omofobia si fonda su un pregiudizio consapevole. Di conseguenza, gli effetti negativi di tale avversione non ricadono sul soggetto o fobico ma, al contrario, si riversano sulle persone omosessuali, che sono le vere vittime del pregiudizio. L’omofobia si traduce in repulsione, disgusto o chiusura nei confronti dell’omosessualità, che può sfociare, nei casi più gravi, anche in forme più o meno accentuate di violenza fisica e verbale. Alcuni teorici sostengono che le persone che esprimono pensieri e sentimenti omofobici lo fanno per prendere le distanze da questo gruppo sociale, sottolineando implicitamente la propria appartenenza alla maggioranza eterosessuale. Tale forma di violenza rappresenterebbe un dispositivo utile per rafforzare il predominio dell’eterosessualità e della cultura eteronormativa. Esiste poi una forma di omofobia, detta interiorizzata, che prende forma all’interno della stessa comunità omosessuale. Con questa locuzione ci si riferisce infatti a un’avversione agita nei confronti dell’omosessualità proprio da parte di uomini e donne omosessuali. Anche questo tipo di atteggiamento può essere considerato come uno dei risultati delle influenze dell’eteronormatività. Questa discordanza può comportare una lotta interiore cosciente, che spesso vede contrapporsi le convinzioni religiose o sociali apprese dall’esterno con i desideri sessuali ed emotivi interiori. Si utilizza l’espressione omofobia istituzionalizzata in riferimento a tutte quelle forme di disparità di trattamento tra soggetti sulla base dell’orientamento sessuale che sono condotte dalle istituzioni. Rientrano in questa macrocategoria, ad esempio, anche gli apparati normativi o le istituzioni religiose. L’omofobia istituzionale prende forma anche in tutti quei territori in alcuni diritti di cittadinanza che sono esclusivo appannaggio delle persone eterosessuali. Per quanto riguarda, invece, l’ambito della religione, molte confessioni contengono insegnamenti anti-omosessuali o considerano soltanto le relazioni procreative tra uomini e donne come legittime. La maggior parte delle organizzazioni internazionali per i diritti umani lotta da anni per l’abolizione delle leggi che considerano le relazioni omosessuali tra adulti consenzienti un crimine. Anche la comunità LGBT+ è molto attiva per combattere l’omofobia-bi-transfobia ed infondere una cultura maggiormente inclusiva pronta a riconoscere valore e dignità a tutte le identità. Tra le principali azioni condotte vi sono le parate Gay Pride insieme ad altre iniziative coordinate e diffuse su scala globale, come ad Sempione la giornata mondiale contro l’omo-trans-bifobia. 8.4 OMOFOBIA NEL MONDO Nel mondo contemporaneo le pene a cui le persone omosessuali sono sottoposte cambiano da Paese a Paese. In cinque Stati d’Africa e dell’Asia, l’omosessualità è punita con l’esecuzione capitale. I comportamenti omosessuali sono puniti in 10 stati e prevedono una reclusione che può andare da un minimo di 14 anni fino all’ergastolo. Al momento, accanto a un processo d’inasprimento delle leggi contro gli omosessuali si assisterebbe parallelamente a un movimento di depenalizzazione, di cui si sono fatti portatori alcuni Stati presso l’ONU. A partire dall’inizio degli anni Novanta, i piani di cooperazione internazionale pongono la giustificazione al loro essere nella difesa dei diritti umani, in particolare quelli della donna. Stesso discorso può essere esteso all’omosessualità, una condizione che diventa l’emblema della chiusura del mondo islamico verso le diversità di genere e sessuale. Joseph Massad, nel suo libro Desiring Arabs sviluppa un’analisi sistematica e plurisecolare che si rileva critica nei confronti di quella che egli definisce “lobby internazionale gay”. A partire dagli anni Ottanta, “l’international gay” avrebbe attuato un’incitazione al discorso sulla sessualità per categorizzare e distinguere le identità sessuali che fino a quel momento erano state abbastanza sfumate nei Paesi arabi. In reazione a questa missione di liberazione e di modernizzazione, le politiche e le ideologie di contrasto alla sessualità sarebbero divenute più repressive. Attraverso la rilettura dei testi sacri, alcuni studiosi dimostrano come l’Islam riconosce e sostiene l’uguaglianza di genere, ribadendo come nel corso dei secoli una ristretta élite maschile ha imposto interpretazioni distorte delle sacre scritture e sostenuto il patriarcato in nome del Corano. Aspetto quest’ultimo che non è solo unidirezionale - del mondo occidentale nei confronti di quello orientale - ma bidirezionale nella misura in cui in risposta all’orientalismo, si va affermando l’Occidentalismo, una sorta di orientalismo capovolto. Questo, si prefigge di mettere in evidenza la diversità del mondo occidentale, da quello arabo-musulmano. L’omonazionalismo ci parla dei modi in cui i poteri occidentali mettono in circolazione determinati tipi di idee circa le altre culture al fine di produrre un’immagine dell’Occidente come culturalmente, moralmente e politicamente avanzato e superiore. L’omonazionalismo si sofferma in particolare sui modi attraverso cui le retoriche su diritti di genere e sessuali acquisiscano un ruolo centrale nelle forme contemporanee di egemonia occidentale. Gli effetti dell’omonazionalismo diffuso nei Paesi occidentali e in particolare nel milieu LGBT+ sono stati evidenziati dalle ricerche condotte sulle rappresentazioni sociali dei soggetti migranti e queer. Ricorrendo alla definizione di soggetto etno-sessuale, la sessualità dei migranti pone ancora in luce la persistenza di un modello di attribuzione dell’identità sociale utilizzati dalla società mainstream che ricalcano visioni essenzialistiche dell’identità etnica e sessuale dei migranti, ovvero di uno status sociale considerato come inferiore e indesiderabile. Compito delle società di accoglienza è di sensibilizzare questi immigrati imponendo loro un contratto morale che li conduca ad accettare tali valori comuni, che si basano sul rigetto dell’omofobia, del sessismo, della cultura patriarcale identificata in queste nazionalità. In definitiva il pericolo è di considerare la comunità gay come un’unica comunità di accoglienza che sembrerebbe poco problematica per gli immigrati LGBT+: infatti, questi esclusi dalle loro comunità culturali omofobe sono immaginati come largamente inclusi nella comunità LGBT+, non tenendo conto di come anche in questo universo pensato come “coeso” si riproducono visioni stereotipate dei migranti e delle loro culture. 8.5 MIGRANTI LGBT+ In base ai dati contenuti nel rapporto Fleeing Homophobia, ogni anno in Europa 10.000 LGBT+ stranieri pongono domanda di protezione internazionale per orientamento sessuale e identità di genere. Sono persone che scappano da contesti dove l’omosessualità è considerata un reato, dove sono frequenti aggressioni, stupri e uccisioni di persone sorprese o sospettate di svolgere pratiche omosessuali. La scelta di migrare costituisce pertanto un percorso obbligato che culmina nella richiesta di protezione internazionale in uno dei paesi che prevedono forme di tutela specifiche per persone perseguitate per via dell’orientamento sessuale, dispositivo che in letteratura è definito con l’acronimo SOGIESC (Sexual Orientation, Gender Identity and Expression, and Sex Characteristics). È con le linee guide prodotte dall’UNHCR del 2002 che è la persecuzione legata alla condizione SOGIESC è considerata come violazione dei diritti umani e dei diritti fondamentali degli individui, generando così all’interno dei paesi occidentali forma di tutele specifiche. Per gli operatori delle associazioni e per i funzionari dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), diverse sono le difficoltà che gli stranieri incontrano nei paesi di immigrazione. Tra le difficoltà evidenziate, centrale è il modo in cui gli attori istituzionali chiamati concedere questo riconoscimento interpretano quelle che sono le leggi che sottendono il dispositivo di protezione internazionale per motivi SOGIESC che spesso fungono da unità di misura di un lavoro morale dello Stato, più che da un modello di riferimento. Un altro aspetto sottolineato dalle associazioni LGBT+ è legato alla difficoltà da parte delle persone stranieri richiedenti asilo di aderire a un orizzonte di senso “intriso di stereotipi di genere che strutturano attorno al narrazione di autenticità, di libertà individuale, di sofferenze di desiderio proprie di una cultura individualista quale quella occidentale”. Si mette in evidenza l’esercizio di una violenza simbolica che si esercita attraverso un processo che obbliga il soggetto migrante ad aderire a un modello di vulnerabilità idealtipico e nel quale l’autenticità è la credibilità della storia sono costantemente messe in dubbio. Tale modello di carriera omosessuale dovrebbe seguire un certo copione: “sentimento e desiderio erotico e affettivo verso persone dello stesso sesso, scoperta della propria omosessualità, presa di coscienza e accettazione della propria identità, ma soprattutto presenza di sentimenti negativi o di omofobia interiorizzata, dato che il contesto omofobico e transfobico del paese di origine comporta uno scarto rispetto allo strumento di politica pubblica utilizzato dallo Stato”. È possibile ipotizzare che sui migranti pesino ancora alcuni stereotipi legati alle culture di appartenenza. Si fa riferimento a quel processo determinatosi in epoca coloniale che continua ad esercitare una sua rilevanza nell’immaginario collettivo occidentale, è più nello specifico in quello italiano. Lo straniero continua a rappresentare quel soggetto sul quale si proiettano le proprie paure, al quale si associano comportamenti che rimandano a società nelle quali i diritti e le libertà personali sono poco riconosciuti. Questo processo di proiezione trova origine nell’assenza di una elaborazione adeguata del nostro passato coloniale. L’accento posto sull’intreccio tra processi di razzializzazione e sessualizzazione se da un lato ha evidenziato le condizioni strutturali entro le quali gli stranieri si mettono in gioco come uomini e donne, dall’altro lato limitato una lettura dei loro comportamenti sessuali alla questione della vulnerabilità psicologica e sociale. Le ricerche su gay e lesbiche migranti Variegate sono le concezioni e persino le manifestazioni di ciò che in Occidente si definisce, in modo unitario, omosessualità. se nel mondo occidentale ci si confronta con il modello degli omosessuali moderni, altrove possono evidenziarsi modelli alternativi. Da una ricerca svolta da Masullo, su maschi in gran parte provenienti dai paesi del Maghreb, si rileva come il modello della sessualità mediterranea costituisca una delle modalità utili utilizzate dai migranti intervistati per valutare il proprio orientamento sessuale. Gran parte di questi, non sempre vi aderiscono, evidenziando un’inclinazione per un’omosessualità occasionale comunque comportante a rapporti di tipo eterosessuale. Un esempio di questo approccio è la ricerca condotta da Shelly Grabe in Nicaragua e Tanzania, per lo studio dei processi di potere che hanno un impatto sui diritti umani delle donne. Il fattore strutturale capace di agire sul cambiamento culturale è la proprietà della terra da parte delle donne, dal momento che coloro che si trovano in questa condizione acquisiscono un diverso peso nelle relazioni con gli uomini, nell’affermazione dei propri diritti e nelle decisioni relative al proprio corpo: un fattore strutturale che è possibile problematizzare solo utilizzando un mix di metodi quali-quantitativi incorporati disegni di indagine di tipo quasi-sperimentale. Tuttavia, si fa sempre più strada l’esigenza di andare oltre la categorizzazione binaria standard (maschio/femmina) per raccogliere un’informazione più accurata. La determinazione binaria tende a escludere tutti e tutte coloro che non rientrano nella categoria alternativa di uomo o donna, lasciando poco spazio all’espressione di differenze. Un’opportunità per restituire visibilità questi gruppi minoritari e oggi offerta dall’utilizzo dei Big Data. Infatti è possibile estrapolare da dataset con milioni di osservazioni sottoinsiemi di unità con specifiche caratteristiche, in modo da riuscire a raggiungere popolazioni che altrimenti verrebbero del tutto trascurate. L’espressione di genere concerne il grado di conformità dei tratti della personalità di un individuo a quegli aspetti ritenuti stereotipamente associati al carattere femminino o mascolino. La gender expression può essere rilevata in base all’autovalutazione dell’intervistato o in base a come il rispondente ritiene che gli altri lo vedano, o ancora in base al rapporti genitoriali o requisiti retrospettivi, attraverso i quali se ne misura la maggiore o minore conformità a determinati stereotipi di genere. La ricerca in questo ambito fa largo uso di interviste cognitive per comprendere il processo dei meccanismi che hanno portato gli intervistati a rispondere in un determinato modo a una domanda specifica. Per quanto concerne, poi, le persone intersex, negli ultimi ultimi anni l’attenzione sulle questioni metodologiche relative alla loro individuazione visibilità nella ricerca e indubbiamente cresciuta, superando i confini della sfera clinica. Le persone intersex hanno una propria identità di genere e un proprio orientamento sessuale, e non è raro che si identificano nelle categorie binarie standard e che presentino un orientamento sessuale etero. Occorre evidenziare che l’inclusione o meno in un questionario di quesiti volti e rilevare identità ed espressione di genere, orientamento sessuale e intersex debba essere sempre valutata alla luce delle domande di ricerca, degli obiettivi dello studio, degli ipotesi di lavoro, per evitare la molestia statistica e il rischio di perdere informazioni preziose sulla conoscenza di un determinato campo di studi. 9.3 INDAGARE OLTRE LA DICOTOMIA DI GENERE Le conseguenze teorico-metodologiche di un sistema binario di norme, rappresentazioni sociali ed espressioni di genere sono vissute come una sorta di tirannia di genere sia per coloro che trasgrediscono il genere nella loro vita quotidiana, ma anche per coloro le cui vite sono vissute all’interno dei vincoli determinati dalla aporia uomo-donna. Le scienze sociali segnalano da tempo oramai che il genere è fluido e performativo e trascende i confini del corpo umano. La fluidità di genere è la capacità di diventare liberamente consapevolmente uno o più di un numero illimitato di generi, per qualsiasi periodo di tempo e in maniera autodeterminata. Le contestazioni del controllo delle norme sessuali da parte di quello che Brown definisce genderismo, sottolinea il tentativo di lasciare i margini di ciò che destabilizza le dicotomie di genere. La norma di genere è rappresentata da questo binarismo rigido e stereotipato. Siamo un carrefour di differenze sociali che formano la nostra prospettiva sul mondo, ma che, allo stesso tempo purtroppo, si traducono in disuguaglianze e vulnerabilità che limitano i diritti di cittadinanza piena per coloro che si autodeterminano. La differenza sessuale è la dicotomia di genere servono a legittimare l’organizzazione bio-politica delle società e a perpetuare i rapporti di potere. Quando un corpo ha un aspetto ambiguo, si farà di tutto, tecnologicamente e non, per inserirlo nella normalità del modello della doppia differenza sessuale, impedendo così a quel corpo di destabilizzare l’organizzazione della società. I trattamenti che mirano alla normalizzazione estetica e all’inclusione forzata in una delle due categorie sessuali che l’umanità riconosce, non conducono a miglioramento delle condizioni di vita e al benessere per sé. Il genere continua ancora oggi ad essere una struttura strutturante che produce conformismo logico e morale sulla preminenza sociale costruita della differenza tra maschile e femminile. 9.4 NUOVE PROSPETTIVE DI RICERCA: SOSTENIBILITÀ E SOCIETÀ TRANSCULTURALE Sostenibilità Il genere è entrato nelle leggende politiche delle istituzioni organizzazioni mondiali e internazionali ormai da qualche decennio. I principi proposti dalla terza ondata del femminismo sull’empowerment per premiare le diversità sociali e sul mainstreaming sono stati decisivi, ma un ruolo degno di nota lo si deve all’eccezione estesa di sviluppo sostenibile, il paradigma per orientale e valori, azioni e obiettivi della società globale. Soprattutto le Nazioni Unite si sono fatte promotrici di questo nuovo modello di sviluppo condensando nei loro obiettivi quelli di tutti e 193 Stati membri al 2021, praticamente l’intera superficie amministrativamente abitata e gestita dall’uomo sul pianeta. un primo atto decisivo è stato compiuto nel 2000 con la Dichiarazione del Millennio che hanno impegnato tutti gli Stati membri a raggiungere entro il 2015 seguenti risultati: - Sradicare la povertà estrema e la fame nel mondo; - Rendere universale l’istruzione primaria; - Promuovere la parità dei sessi e l’autonomia delle donne; - Ridurre la mortalità infantile; - Ridurre la mortalità materna; - Combattere l’HIV/AIDS, la malaria e altre malattie; - Garantire la sostenibilità ambientale; - Sviluppare un partenariato mondiale per lo sviluppo. Si trattava di obiettivi che sono stati in larga parte disattesi entro la scadenza prevista, ma che hanno fissato l’attenzione internazionale di decisori politici e opinione pubblica. Dalla lettura di dati scientifici, in realtà, si traggono evidenza che confermano una duplice incidenza del fattore di genere rispetto allo sviluppo sostenibile, sebbene quella prevalente sia la prima e non solo dei numeri: a) Genere come minaccia, fonte di discriminazione, fattore invisibile per lo sviluppo; b) Genere come opportunità, fattore strategico e indicatore di sviluppo. Per il punto a) si è incontrato già nelle linee direttrici dello sviluppo dei gender studies un evidente limite allo sviluppo indotto dalla rivoluzione della modernità nell’esclusione dai suoi benefici di molti, spesso proprio di genere femminile o di minoranze di genere. Per l’accezione b) sono interessanti alcune tendenze che possono fornire le basi di un modello di sviluppo che si possa supportare grazie alla diversità di genere. Tra le più note eccetera certamente quella proposta dalla corrente di economiste della womenonomics, secondo la quale superamento delle discriminazioni di genere nel mercato del lavoro avrebbe risolto i problemi economici. Il lavoro femminile come opportunità per il bene del sistema economico è stato colta da alcuni decisori politici. Questa proposta teorica è un esempio di come una condizione delle donne più equilibrata e che acceda alle risorse possa avere un effetto moltiplicatore positivo per l’intera società. La diversità sociale si è integrata nei processi decisionali dei vari ambiti sociali può apportare valore aggiunto ai contenuti delle proposte programmatiche degli interventi realizzati. Cioè è stato dimostrato dalle donne progressivamente entrate nelle istituzioni e nelle organizzazioni, a livello nazionale e internazionale. ma è anche raggiungimento dell’obiettivo dell’equità che, non causalmente, è fondamentale per lo sviluppo sostenibile. Società transculturale Quella della società transculturale è una direttrice di ricerca che si sviluppa parallelamente a quella della sostenibilità, essendo totalmente integrata, come dimostrano i temi dell’equality e dell’equity. Per società transculturale si intende ciò che è più efficacemente descrive l’equivalente termine inglese cross-cultural, cioè lo spazio sociale in cui si incrociano più culture che determinano influenze reciproche sui comportamenti individuali e collettivi. La transculturalità porta a un livello di integrazione superiore per relazioni stabilite le condizioni di coesistenza fra le culture che sono rappresentate nel termine di multiculturalità. La crescente complessità sociale ha fatto della coesistenza di popolazioni con culture diverse su di uno stesso territorio uno spazio sociale più interconnesso, nel quale quelle culture si incontrano e si scontrano, si scambiano reciprocamente stimoli e novità, producendo, dapprima, uno scenario sociale di interculturalità. È il passo preliminare alla definizione della transculturalità quale spazio sociale, in cui la diversità culturale non solo si confronta e si cambia in input, ma produce un output uniforme e più ampio della stessa somma delle culture coesistenti. Fra le opportunità che il fattore di genere offre, c’è quella dell’agency femminile. Si tratta di un fenomeno sviluppatosi nella forma di network locali e transnazionali per rispondere a comuni condizioni di svantaggio, servendosi di analoghi strumenti di scambio di informazioni e di mutuo supporto che supera i confini e unisce le culture. Fra i comuni obiettivi vi sono quelli dell’empowerment femminile in politica e in economia, della difesa dei diritti fondamentali negati solo per la propria identità di genere eccetera. Grazie alla funzione di advocacy di queste componenti nelle reti locali e transnazionali si acquisito un pubblico riconoscimento delle loro istanze di genere. L’uguaglianza di genere contribuisce alla pace e i negoziati con le donne hanno maggiori possibilità di essere sostenibili ed efficaci, assegnando proprio alle donne ruoli di mediazione, riconciliazione e mantenimento della pace. Scientifici che studiano le dinamiche transculturali e la agency femminile a sostegno, sono in prevalenza uomini coloro che possono permettersi di condurre ricerche in contesti che richiedono forte mobilità, in inconciliabile con i cari di lavoro familiari che le donne si assumono. Solo in rari casi costituiscono eccezioni che confermano la regola, come quello della Svezia, nella quale è stato varato un piano di politica estera femminista dalla ministra Margot Wallstrom nel 2014, i cui obiettivi sono stati: - Pieno godimento dei diritti umani da parte di donne e ragazze;