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Riassunto Del Manuale Di Storia Della Pedagogia di Franco Cambi, Sintesi del corso di Storia Della Pedagogia

Riassunto ben fatto e completo per superare al meglio l'esame di STORIA DELLA PEDAGOGIA

Tipologia: Sintesi del corso

2016/2017
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Caricato il 26/09/2017

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Scarica Riassunto Del Manuale Di Storia Della Pedagogia di Franco Cambi e più Sintesi del corso in PDF di Storia Della Pedagogia solo su Docsity! RIASSUNTO: MANUALE DI STORIA DELLA PEDAGOGIA (Franco Cambi) Introduzione La storia della pedagogia è nata tra il 1700 e il 1800 e si è sviluppata per tutto il XIX secolo grazie a uomini di scuola che da un lato volevano mettere in luce gli aspetti fondamentali dell’educazione e dell’istruzione e dall’altro gli ideali che avevano guidato lo sviluppo storico. Negli ultimi trent’anni c’è stata una grande rivoluzione che ha segnato il passaggio dalla storia della pedagogia alla storia dell’educazione, comportando una rivoluzione storiografica che ha ridisegnato tutto il dominio storico. La pedagogia non dava importanza alla prassi ma si basava esclusivamente su modelli teorici conformi ai principi e alle ideologie filosofiche e ciò fu molto evidente nella scuola gentiliana in cui i suoi seguaci diedero vita ad una serie di storie della pedagogia svolte in simbiosi con la filosofia. Tuttavia con il passaggio dalla storia della pedagogia alla storia dell’educazione la pedagogia cominciò a distaccarsi dalla filosofia e ad apparire come una scienza costituita dall’incontro di più scienze; quindi appariva come un sapere interdisciplinare e la sua storia si intrecciava con la storia delle altre scienze. Poi la pedagogia assunse un ruolo sempre più centrale nell’ambito sociale, in quanto divenne importantissimo formare il cittadino, ossia l’individuo capace di interagire nella società e anche il modo di fare storia subì un grande mutamento: la storia, infatti, non era più storia delle idee e del loro sviluppo nel tempo bensì una storia che prendeva in considerazione tutti gli aspetti di un momento storico o di una vicenda. Dagli anni ’50 fino agli anni ’70 si è sviluppato un modo di fare storia degli eventi educativi che ha rotto con il modello del passato e ha dato vita ad un’indagine pluralista e problematica del tutto nuova. Quindi da un modo chiuso di fare storia si è passati (definitivamente negli anni ’70) ad un modo aperto che si è reso conto della complessità del suo campo d’indagine e della varietà degli strumenti che è opportuno utilizzare per studiarlo a fondo. Il passaggio da un unico modo di fare storia ad un concetto plurale di storia si è avuto grazie a quattro orientamenti specifici: il marxismo, la scuola degli Annales, la psicoanalisi e lo strutturalismo. Il marxismo vede il suo principale esponente in Marx, il quale aveva affermato che “l’economia è il motore del mondo”. Da questa famosa affermazione si evince che per i marxisti alla base dello studio della storia c’è la struttura economica-sociale la quale ci permette di capire il rapporto tra economia e politica, tra politica e cultura, tra cultura e società. Inoltre per i marxisti la storia è lotta di classi e di ideologie, in quanto durante il corso della storia ci sono sempre state due classi: una dominante e una dominata. La classe dominante era quella che imponeva le ideologie all’interno della società; la classe dominata era quella che faceva andare avanti l’economia e che quando si rendeva conto di possedere il punto di forza della società si ribellava alla classe dominante, ottenendo l’egemonia. Tuttavia anche se l’economia svolge uno dei ruoli più importanti nella storia, essa non è in grado di dare una spiegazione a 360°. Les Annales era una rivista fondata in Francia nel 1929 che si ispirava ai principi marxisti. Tuttavia questi arricchirono la visione marxista guardando alla storia in modo globale, ossia prendendo in considerazione tutti gli aspetti di un certo evento o di una vicenda. Quindi Les Annales hanno sottolineato il pluralismo storico e affermato che tutte le storie hanno pari dignità. Un altro contributo importante al passaggio dalla 1 storia alle storie è stato dato dalla psicoanalisi, la quale attraverso la psicostoria ha compiuto una ricerca storica leggendo in modo critico le mentalità collettive e individuali prendendo in considerazione le strutture individuate da Freud (inconscio, coscienza e super Io, ossia le repressioni imposte dalla società). L’ultimo orientamento è lo strutturalismo, il quale si è proposto di studiare le strutture che regolano i comportamenti individuali, le quali possono essere lette sotto un profilo quantitativo ( e cioè possono essere misurate statisticamente). Dall’incrocio di questi orientamenti sono nate tre rivoluzioni storiografiche in cui viene maturata una visione critica della storia: i metodi, il tempo e i documenti. La rivoluzione dei metodi ha messo in luce che non è possibile fare storia utilizzando un solo metodo, bensì una serie di metodologie conformi alle diverse storie. Con questa rivoluzione, infatti, si è superato il modo di intendere la storiografia di Croce o di Gramsci che riconoscevano un unico metodo di fare storia e si è giunti alla consapevolezza che esistono tanti metodi quante sono le storie. La rivoluzione del tempo è stata portata avanti soprattutto da Braudel, il quale ha affermato che il tempo storico è diverso da quello quotidiano (vissuto) e da quello dell’orologio, perché è un tempo plurale, problematico e connesso a dei punti di vista. Secondo Braduel i tempi sella storia sono 3: il tempo della storia-narrazione, ossia un tempo legato agli avvenimenti e agli eventi storici; il tempo delle brevi durate, che prende in considerazione tutto quello che è relativo e momentaneo, come le strutture politiche, sociali e culturali; il tempo delle lunghe durate, che invece coglie quelle che sono le permanenze profonde. L’ultima rivoluzione è quella dei documenti, la quale ha portato in primis ad un cambiamento di significato di documento: infatti oggi il documento non è più un monumento, ma l’effetto di un’interpretazione. I documenti sono molto importanti perché la storia si fa solo sui documenti che devono essere più che altro dei dati che ci permettono di capire le cause di un determinato evento. Inoltre questa rivoluzione è stata fondamentale perché ha incentivato l’affermazione della pluralità dei documenti, ossia l’utilizzo di numerose fonti relative a quella determinata branca della storia. Ciò ha determinato il fatto che non esistono documenti di serie A o di serie B, ma tutti i documenti sono importanti ( anche quelli incompleti o già interpretati) affinchè dilatino la nostra conoscenza sugli eventi. ambiti di autonomia delle storie La storia dell’educazione si presenta come un contenitore di storie diverse, ma interconnesse tra di loro. Oltre che le storie anche i metodi utilizzati per studiarle sono diversi, in modo da garantire ad ogni ambito la sua autonomia. Gli ambiti autonomi sono: - le teorie; - le istituzioni; - le politiche; - la storia sociale, che è la storia di particolari figure storiche o storia del costume, delle mentalità e delle culture; - l’immaginario, il quale è un ambito ancora gracile ma pronto ad affermarsi. Le teorie pedagogiche afferiscono alle filosofie, alle concezioni del mondo e alle scienze, le quali rappresentano i campi che guidano la ricerca. A queste si sono aggiunte le ideologie che ridisegnano la ped. nella storia. Un altro ambito autonomo è quello delle istituzioni come la scuola, la famiglia, la bottega, la fabbrica, i luoghi ricreativi, che hanno tutti uno specifico ruolo formativo nelle diverse società. Queste 2 stata l’unificazione romana, nutrita dalla Koinè greco-ellenistica (predominanza del dialetto greco). Il mediterraneo si è posto come mare-crocevia soprattutto da un punto di vista religioso in quanto ha accolto una molteplicità di ideologie e fedi differenti (provenienti sia da Oriente che da Occidente) che si sono mescolate tra loro. Proprio per questo motivo dal mediterraneo-crocevia è emersa l’emancipazione del pensiero dal mito, che è stata molto forte in Grecia. Tutto ciò ha comportato, in primo luogo, il passaggio da un Dio trascendente all’archè, ossia ad un principio originario del mondo che non sta al di fuori del reale ma all’interno (= principio immanente); in secondo luogo il passaggio dal mito al Logos, che si svilupperà diversamente in Oriente e in Occidente. In oriente questo passaggio avvenne più lentamente perché il popolo restò avvolto in una tradizione mitopoietica o magico-religiosa; mentre in Occidente avvenne più rapidamente attraverso un processo di crescita. Anche da un punto di vista educativo c’è stata una rivoluzione che ha determinato l’affermazione dell’istituzione-scuola, e cioè di scuole statali e libere che accolgono i figli delle classi dirigenti e medie per dar loro un’istruzione di base di impronta retorica-letteraria, trascurando così il fronte scientifico. Queste scuole si trasformano nel tempo, passando dal Thyasos (cenacolo degli amici) al collegio. Anche la figura del pedagogo subisce un mutamento: in origine egli era uno schiavo che accompagnava il figlio del signore, poi è diventato un formatore/educatore e,infine, si è affermato come un maestro/insegnante (visto come maestro d’anime e vero protagonista della formazione giovanile). In questa prospettiva cominciò a delinearsi un nuovo tipo di educazione, una nuova paideia che venne concepita come formazione dell’uomo attraverso il contatto con la cultura, organizzata in un corso di studi che vede al centro le discipline umanistiche (gli studia humanitas). A questi tre aspetti rivoluzionari dell’educazione antica, si aggiunse anche il dualismo tra il lavoro intellettuale e il lavoro manuale il quale dette vita a due modelli educativi separati che innervarono tutta la formazione dell’uomo greco. Da questa distinzione si evince che l’educazione del mondo antico è un’educazione classista e differenziata , fatta in relazione ai ruoli e alle funzioni sociali, al gruppo sociale di appartenenza e alla tradizione da cui trae alimento. Il caso Grecia è quello più emblematico in quanto la differenza tra aristoi (gli eccellenti) e il demos (il popolo) era netta e molto sentita anche da un punto di vista educativo. Infatti già agli albori della pedagogia greca questa differenza tra gli aristoi e il demos persiste in diverse ideologie: i sofisti (termine che deriva da “sofia”=saggezza) consideravano l’educazione come un qualcosa che doveva essere indirizzato solo a coloro che si impegnano nella vita politica e che vogliono partecipare alla dimensione della cosa pubblica. Questa è un’educazione che emargina qualsiasi forma di lavoro manuale e che valorizza solo la parola: tant’è vero che la filosofia dei sofisti viene definita “arte del ben parlare”. In seguito Platone ha sottolineato il dualismo educativo tra le due classi di governanti e il demos facendo riemergere due modelli educativi distinti: il modello razionale-filosofico (superiore) e un modello inferiore. Il modello superiore è un modello dialettico (e cioè si costruisce attraverso la parola), libero, regale e autonomo. Il modello inferiore è un modello non eccellente, banausico (nel senso che è finalizzato all’addestramento al lavoro) ed è rivolto ad ottenere effetti pratici. Questo dualismo dei modelli formativi che rispecchiano il lavoro intellettuale e quello manuale, resterà ancorato al mondo antico sino alla rivoluzione del Cristianesimo in quanto esso affonda le sue radici in un periodo che precedette quello in cui si diffuse la pedagogia dei sofisti. Questo doppio modello, infatti, emerse già nella cultura arcaica con Omero. Il quale nell’episodio di Ulisse e le sirene ha messo in luce le due figure del demos e dell’aristoi: i marinai-demos 5 vengono affascinati dal canto delle sirene (che rappresenta le idee) ed è per questo che sono destinati ad essere governati e diretti; mentre il capitano-aristos si autogoverna e si autolimita, anche se immerge se stesso nella dimensione dell’ignoto e del rischio. Con questo modello statico di società, prima fissato dalle società idrauliche, poi da quelle commerciali del Mediterraneo e infine da quelle nomadi, anche le istituzioni educative hanno mantenuto a lungo un’unità di struttura. Sia la famiglia (che è patriarcale) che la scuola rivolta ai futuri governanti, mantengono i caratteri legati – prima- al gruppo etnico –poi, con l’apporto greco- rivolti alla formazione dell’uomo, sotto l’influsso della paideia che alimenta la scuola e tocca la famiglia. Alla luce di tutto ciò possiamo dire che il mondo classico è la terra d’origine della cultura occidentale e immergersi in esso significa andare alla scoperta di un mondo che non è univoco, ma plurale, animato da differenze e costruitosi sul confronto e sul conflitto. Questo discorso vale anche per la pedagogia e l’educazione in quanto l’antichità rappresenta la fonte dalla quale l’occidente ha estratto i modelli della formazione umana e sociale. 2. L’EDUCAZIONE IN GRECIA I Greci non furono un popolo unitario, ma una mescolanza di culture ed etnie che si stanziarono nell’Ellade, una penisola frastagliata che si apriva sul mare Egeo. Su questo terreno nacque la civiltà cretese o minoica nell’isola di Creta, la quale era governata da re-sacerdoti; intorno al 1600 a.C. questa civiltà venne sottomessa dai micenei. A Micene erano legati gli achei, i quali vennero sopraffatto – tra il 1200 e il 1100 a.C. – dai Frigi e dai Dori. Da ciò si evince che in Grecia si crearono una serie di regni isolati, che grazie agli scambi commerciali furono accomunati da una profonda unità spiritual. Questa unità trova la sua testimonianza nell’Iliade e nell’Odissea di Omero, in cui ritroviamo anche i caratteri dell’educazione eroica la quale si fonda sui valori della forza e sul valore fisico e spirituale. L’educazione eroica delineata nell’Iliade riprende gli aspetti della formazione di Achille (il quale incarna il modello ideale di virtù) che riprende gli aspetti dell’educazione pratica, la quale unisce lingua e mano e verte sulla cura del corpo senza escludere l’oratoria organizzata attraverso un rapporto personale tra maestro e scolaro. Gli stessi elementi relativi all’educazione eroica, li ritroviamo nell’Odissea in cui si prende in considerazione la formazione di Telemaco. In questo caso l’ambiente formativo è la famiglia con le sue pratiche e i suoi affetti. L’educazione era rivolta agli adolescenti aristocratici i quali venivano allevati al combattimento (attraverso gare e giochi con il disco, il giavellotto, l’arco..che devono favorire oltre la forza fisica anche l’astuzia); inoltre l’agonismo rappresentava il carattere principale dell’educazione ed esso si sviluppava attraverso esercitazioni con la lira, esercitazioni di danza e di canto (per lo spirito). Tra le poleis greche due città occuparono un ruolo-guida in quanto elaborarono modelli politici, sociali ed educativi opposti ma, nello stesso tempo, esemplari. Queste due poleis sono state Sparta e Atene, che hanno dato vita a due ideali di educazione: l’uno basato sul conformismo e sullo statalismo; l’altro sull’idea di paideia. sparta Sparta era una città che viveva di agricoltura ed era divisa rigidamente in classi. Essa si basava su un modello totalitario con una prospettiva di formazione di cittadini- guerrieri omogenei all’ideologia di una società chiusa e compatta. L’ideale di 6 educazione si radicava nel conformismo e nello statalismo e la formazione protendeva ad essere una formazione esclusivamente militare. Infatti i bambini all’età di 7 anni venivano sottratti alle famiglie e portati in scuole-ginnasio, dove restavano fino a 16 anni ricevendo una formazione militare, utile a favorire l’acquisizione della forza e del coraggio. Per quanto riguarda la cultura ad essa era concesso poco spazio nella formazione dello spartano; e, oltre agli uomini, anche le donne dovevano irrobustire il loro corpo mediante l’educazione fisica. Il declino di questa grande polies (Sparta) cominciò ad emergere dopo la lunghissima guerra del Peloponneso, durante la quale Sparta fu sconfitta da Atene. atene Atene raggiunse il successo in Grecia grazie all’opera di Solone, il quale dette vita ad una costituzione di tipo democratico e promosse una cultura aperta, la quale valorizzava l’uomo e le sue capacità. Tale cultura ebbe una fioritura in ogni campo soprattutto dopo la diffusione dell’alfabeto ionico, il quale divenne comune a tutta la Grecia ed essa non era rivolta solo agli uomini, ma anche alle donne. La scrittura venne acquisita da tutti i cittadini liberi, che misero da parte il lavoro manuale e si dedicarono all’oratoria, alla filosofia e alla letteratura e ciò spinse l’educazione a diventare il ruolo chiave di Atene. La prima educazione era rivolta ai ragazzi i quali venivano istruiti alla lettura, alla scrittura, alla musica e all’educazione fisica, guidati da 3istruttori (l’insegnante di grammatica, uno di ed.fisica e il maestro) . Inoltre il ragazzo era guidato e controllato da uno schiavo. All’età di 18 anni il giovane entrava nella vita cittadina e prestava servizio militare x 2 anni. L’ideale dell’educazione ateniese si basa sulla paideia, ossia sulla formazione libera e nutrita da diverse esperienze (sociali, ideologiche e culturali), che viene scoperta proprio in questa polies per poi diffondersi in tutta la Grecia. la nascita della paideia Nel corso del V, IV secolo a.C. la cultura greca entrò in un periodo di crisi e di trasformazione, al quale si unì un mutamento della società. Nuovi ceti sociali (legati al commercio) reclamavano una politica democratica che fosse in grado di favorire il ricambio di classi nella gestione del potere; e in questo contesto cominciò a profilarsi una cultura più critica (nei confronti della religione e del sapere mitopoietico) e più tecnico-scientifica la quale esalta la dimensione e il libero esercizio della ragione di ogni individuo. Questo modello di cultura dette vita al così detto “illuminismo greco”, una stagione che fu interpretata dai Sofisti, i quali erano maestri di retorica e di sophia (ossia sapienza tecnica legata al discorso) che insegnavano ai giovani delle classi sociali più abbienti l’arte del ben parlare, ricevendo – in cambio- un compenso. Quindi con i Sofisti si ha una svolta nella cultura greca perché essi concentrano l’attenzione su l’uomo, sui suoi problemi e sulle sue tecniche (tra le quali il discorso). Tra i Sofisti quelli più famosi sono Protagora e Gorgia di Lentini i quali sottolineavano l’antropologismo e il relativismo di ogni sapere perché erano convinti che l’uomo fosse la misura di tutte le cose (Protagora), di conseguenza nulla si regge su verità assolute ma tutto è relativo all’uomo il quale nel momento in cui conosce qualcosa non la può comunicare agli altri perché ciò che ognuno percepisce appartiene solo a sé (Gorgia). Da queste nuove idee nacque una cultura diversa rispetto al passato: una cultura fatta di conoscenze distinte dalla sapienza del sacerdote, dalle abilità tecniche e intesa come formazione morale, retorico-linguistica, storica dell’uomo politico. E’ una cultura 7 quello di realizzare le virtù dianoetiche (razionali) alle quali perviene mediante l’azione dell’intelletto – nus- (ossia vivendo secondo ragione)che insieme alla vita contemplativa rappresenta una delle virtù verso le quali l’individuo deve protendere. Ma nello stesso tempo l’uomo è anche un animale sociale, inserito in una società e in uno stato. La concezione aristotelica di Stato è più realistica rispetto a quella di Platone: Aristotele distingue – all’interno della comunità- due classi sociali: il popolo e quella degli uomini liberi, ai quali è rivolta l’educazione. Gli uomini liberi vanno educati a “vivere in ozio” per raggiungere la virtù della sophia, che nasce attraverso il controllo del corpo e delle passioni. In seguito questi uomini vengono istruiti seguendo 4 discipline che sono propedeutiche alla filosofia. Alla luce di ciò si evince che il modello pedagogico di Aristotele non è molto lontano da quello platonico e che tra i due più che opposizione c’è continuità: infatti Aristotele individua una società divisa in due classi sociali ed esalta la virtù dell’ozio. SENOFONTE: Anch’egli era seguace di Socrate e guardava all’educazione spartana come modello formativo più idoneo per far uscire Atene dalla sua crisi. Secondo Senofonte era necessario ripristinare un’educazione tradizionale, secondo la quale la donna deve essere legata ai lavori domestici, bisogna esaltare la disciplina e le attività guerriere ed opporsi all’identificazione (fatta da Platone) della virtù con la conoscenza. ellenismo L’Ellenismo coincide con il periodo storico in cui si sviluppa l’egemonia greca su tutto il Mediterraneo, in cui si costruisce un koinè greca (ossia una lingua comune) e si afferma un modello di cultura basato sull’humanitas, ossia sulla valorizzazione dell’umanità propria dell’uomo, posta in essere con l’assimilazione della cultura che ne esalta il carattere di universalità. Inoltre questa è un’età in cui si delinea una cultura sempre più specializzata, scientifica e articolata in forme diverse, sia per gli oggetti che per metodi: in particolar modo la filosofia e la fisica acquistano un vigore che non si era mai visto prima. Inoltre l’Ellenismo è un’età segnata dal declino della polis e dalla nascita di monarchie territoriali burocratiche; dall’affermarsi dell’individualità del soggetto il quale non si riconosce più solo come cittadino, ma soprattutto come uomo. L’Ellenismo è, quindi, una grande età che viene fuori e matura intorno a una crisi ( quella tra l’individuo e lo Stato) e ad una crescita della cultura scientifica e umanistica insieme, che si modella sulla tradizione greca. In questa età accanto ad Atene si svilupparono altri centri di cultura: Rodi, Pergamo e Alessandria – fondata da Alessandro Magno- che si affermò come il centro di tutta la cultura ellenica. In questo periodo, in ambito filosofico si andò delineando un nuovo pensiero: di stampo antropologico e focalizzato sui problemi dell’etica e della ricerca della vita buona che sono legati alla figura del “saggio” il quale è colui che limita i propri bisogni e va alla ricerca della felicità individuale attraverso l’ascesi. In questo nuovo clima filosofico due figure di spicco erano Zenone ed Epicuro che riconoscevano come virtù del saggio l’apatia (ossia l’indifferenza) e l’atarassia (e cioèimpertubabilità). Questo è un clima filosofico che guarda all’uomo e al mondo con meno disincanto e con atteggiamenti più laici. L’età dell’ellenismo è un’età molto importante che inizia con la morte di Alessandro Magno e dura fino alla morte di Augusto o, più precisamente, fino al V secolo: l’anno in cui ci fu lo scontro decisivo tra cultura classica e pensiero cristiano. Un ruolo decisivo in questa conciliazione spirituale del Mediterraneo fu svolto da Roma, che conquistando l’Oriente, fu (a sua volta) conquistata dalla cultura greco- ellenistica, che si diffuse in tutto l’impero (in quanto la sua cultura era molto giovane). Questa cultura promuoveva la maturazione della tradizione Greca, che era segnata da 10 un forte individualismo il quale spingeva l’individuo a prendersi cura di sé e a compiere esercizi spirituali capaci di favorire l’ascesi. Se l’uomo della polis non credeva di poter vivere al di fuori della polis, l’uomo ellenistico vuole dimostrare che l’uomo può bastare a sé come individuo ed essere autosufficiente. L’idea di Alessandro relativa alla realizzazione di un’ecumene greca (ossia di un mondo abitato dai greci, e formato da una cultura ellenistica) si realizzò con Roma ma mantenne al centro la cultura greca soprattutto per come si sviluppò ad Alessandria: essa infatti si distinse in cultura scientifica e cultura dell’humantias. Questa cultura alessandrina da un lato fu contrassegnata dall’erudizione e dallo specialismo; dall’altro fucaratterizzata da una forte coscienza etica che attraversandola le ha dato un connotato profondamente pedagogico, di cui l’enkyklios paideia è stato il prodotto più maturo. In questo contesto la paideia viene intesa come costruzione di uno spirito pienamente sviluppato, come è indicata nella nozione di humanitas, che è il principio della formazione ellenistica, ispirata a valori universali e capace di distinguere l’uomo dal bruto, l’elleno dal barbaro. La formazione si propone come fine ultimo la nascita di un uomo completo, moralmente sviluppato; di un uomo che non sia solo un tecnico ma un individuo che ha una conoscenza letteraria, che è esperto nell’uso della parola, che è cosciente della tradizione e che si presenta come soggetto dotato di carattere. Questi principi trovano una loro collocazione sia nella pedagogia ellenistica, sia nella scuola dell’Ellenismo e se anche in questo periodo non sono stati elaborati dei modelli pedagogici comparabili a quelli della Grecia classica, delle figure importanti sono stati: Luciano (commediografo); Plutarco (moralista); Sesto Empirico (filosofo) e Plotino (flosofo) i quali hanno messo in evidenza la condizione dell’uomo nel periodo ellenico: un uomo disorientato e spinto, dagli studiosi, a ricercare la propria salvezza in se stesso. Al centro dell’itinerario pedagogico ellenistico si colloca la formazione etica e del carattere, che si compie come “cura di sé”, come autocontrollo, attraverso un dosaggio armonico di piaceri e di rinunce e attraverso degli esercizi spirituali che permettono all’individuo di costruirsi un habitus interiore che contrassegna la sua personalità e metta nella condizione di controllare gli eventi esterni, in modo che essi non alterano i processi di equilibrio interiore. scuola greca e scuola ellenistica Nella scuola dell’Ellenismo il concetto dell’enkyklios paidea è posto al centro della formazione ed è caratterizzato da 3 elementi: la disciplina intellettuale; la parola scritta si quali si fonda; la funzione formativa della cultura verso il quale si rivolge. Ma la scuola ellenistica è solo una tappa della scuola Greca, la quale affonda le sue radici già nei tempi presofistici assumendo- nel corso del tempo- un ruolo di istituzione centrale in tutta la cultura greca. EVOLUZIONE DELLA SCUOLA GRECA: All’inizio le scuole non erano altro che delle sette culturali e religiose – il thyasos – che accoglievano uomini e donne legati ad una stessa attività o ad una comune idea religiosa. Il thyasos di Lesbo, in cui operò la poetessa Saffo, e la scuola pitagorica (fondata da Pitagora) sono esempi che ci aiutano a comprendere che tipo di comunità erano queste scuole. Comunità in cui vigevano forti legami tra i componenti e dove il persisteva un sapere di tipo esoterico. Ad esempio la scuola pitagorica era una setta religiosa i cui componenti si vestivano di 11 bianco, non mangiavano carne e nel momento che entravano nella setta dovevano mantenere segrete tutte le nozioni apprese. Con la nascita dell’alfabeto e della scrittura iniziò ad avere importanza l’educazione del fanciullo. Essa avveniva prima a casa con la matrice e con la mamma; in seguito con il pedagogo (ossia il padre) che gli insegnava ciò che era sbagliato e ciò che era il bene, rimproverandolo e percuotendolo. In un secondo momento l’educazione avveniva a scuola con dei maestri o nelle botteghe attraverso l’imitazione e l’osservazione. In questo periodo cominciarono a nascere anche istituzioni educativo-culturali nuove, come le scuole di alta cultura filosofica che sono stati: l’Accademia di Platone e il Liceo di Aristotele. L’accademia- fondata ad Atene- era sia un centro di formazione culturale, sia una palestra di formazione politica. Dopo Platone essa si sviluppò in senso più scientifico che metafisico. Il Liceo - fondato da Aristotele- mirava ad insegnare un’enciclopedia del sapere incentrata sulla fisica, sulla metafisica, sulla logica e sull’etica. Dopo Aristotele prevalse il carattere scientifico il quale contribuì alla diffusione della psicologia e di una filosofia più materialistica. Attraverso questo percorso si arriva all’età ellenistica in cui il sistema degli studi è stato organizzato in modo più uniforme intorno al modello dell’enkyklios paideia. 3. ROMA E L’EDUCAZIONE L’educazione ellenistica a Roma La cultura latina è sorta nel momento in cui la cultura greca si è consolidata ed è giunta sino a Roma attraverso le guerre. Il contatto con la cultura greca ha spinto Roma ad entrare nell’orbita dell’Ellenismo e su quel modello di saperi e di arti che l’hanno indotta a modificare la propria identità culturale, accogliendo il greco come lingua colta e riorganizzando i propri saperi e le arti su quella koinè culturale. L’atteggiamento dei romani nei confronti della cultura ellenistica fu duplice: da un lato c’erano coloro che ne rimasero affascinati; dall’altro ci furono quelli che nutrivano timore nei confronti di tale cultura. Tra questi ultimi ricordiamo Catone il Censore, il quale si rese conto che la cultura greca era pericolosa per quella romana in quanto poteva far scomparire la sua identità sul nascere. Tuttavia il contatto con la cultura greca investe qualsiasi campo, compreso quello della pedagogia che con la nozione di humanitas (= formazione dell’uomo attraverso una cultura umanistica) assume un ruolo centrale sia nella cultura romana che nella formazione dell’uomo, il quale si sente – prima di tutto- soggetto umano, portatore di umanità universale piuttosto che cittadino legato al mos maiorum e alla gens. In questo contesto nasce la pedagogia in senso proprio e il promotore di tutto ciò è stato Cicerone. Cicerone sostiene che la pedagogia è un sapere riflesso sull’educazione che è svincolato dal mos/ethos, è più rigoroso, più universale, meno contingente e locale e, infine, viene elaborato attraverso un discorso razionale. In questo modo si creano dei modelli nuovi di pedagogia, i quali sono legati al sapere filosofico con caratteri legati allo stoicismo, alla paideia retorica e all’enciclopedia del sapere. VARRONE: Egli è il primo pedagogista di questo modello ellenistico di Roma, il quale ha fissato lo schema delle arti liberali, legando ad esse il processo di istruzione. Inoltre Varrone ha elaborato un modello formativo erudita (ossia caratterizzato da una 12 si ruppe con l’avvento del Cristianesimo e con la sua legittimazione politico-religiosa fatta da Costantino in quanto i cristiani svalutavano la retorica e la cultura dei pagani e attaccavano quelle scuole che tramandavano una cultura diversa da quella cristiana. E che si orientavano verso valori diversi da quelli evangelici. Nonostante ciò la cultura romano-ellenistica non scomparve in quanto venne difesa dall’aristocrazia senatoria e dagli intellettuali pagani anche se in modo sempre più debole. Nel IV secolo lo scontro tra il modello culturale cristiano e quello pagano divenne sempre più acceso e frontale, fino a che la cultura pagana non fu costretta a soccombere. Con le invasioni barbariche la situazione andò precipitando radicalmente in quanto l’ignoranza degli invasori creò degli impedimenti e degli abbandoni nell’impegno formativo da parte dei giovani. A partire da questo momento l’arretramento culturale ha investito tutto l’Impero (escludendo l’Oriente e l’Italia, dove rimasero in piedi alcune città e, di conseguenza alcune scuole). 4. IL CRISTIANESIMO COME RIVOLUZIONE EDUCATIVA L’avvento del Cristianesimo ha operato una grossa rivoluzione nel mondo antico, la quale prima di toccare e modificare la cultura si presentò come rivoluzione della mentalità, delle istituzioni sociali e delle politiche. Infatti tale rivoluzione determinò la nascita di un nuovo modello di uomo (solidale, egualitario,dedito alla povertà, ecc.) il quale dall’ambito religioso giunge a modellare tutta la visione della società, reinventando la famiglia (la quale si fondava sull’amore e non solo sul dominio e sull’autorità); il lavoro ( in quanto il padrone e lo schiavo venivano messi sullo stesso piano e non c’era più il disprezzo per i lavori manuali); e la politica( che deve ispirarsi ai valori cristiani: amore, uguaglianza, solidarietà). In questo contesto nacque un nuovo tipo di società che seguiva i principi del Vangelo, che trovava nella chiesa il suo ideale guida e il suo strumento di attuazione proprio perché essa rappresenta l’istituzione umana più alta che ha il compito di guidare la società verso i fini da raggiungere (che sono quelli cristiani). Tutto ciò ha provocato una rottura con il mondo antico e-in particolare-con la sua mentalità, la sua organizzazione sociale, la sua politica e la sua cultura, in quanto gli ideali classici sono stati capovolti: infatti si esalta l’umiltà anziché il dominio, si esalta la pace anziché la forza e, infine, si giunse ad esaltare tutti quei valori che nel mondo antico venivano considerati negativi, quali: la debolezza, la compassione e la tolleranza. Questa rivoluzione (che ha invaso ogni settore) ha provocato dei grossi mutamenti anche in campo pedagogico-educativo: - molte istituzioni, come la scuola. Si trasformarono radicalmente; - la Chiesa si affermò come agenzia educativa più centrale ( e quindi più importante) rispetto alle altre; - tutta la società si fece educatrice perché tutti si orientavano verso i principi religiosi; - la paidea classica si trasformò diventando paideia cristiana, la quale si concentrava sulla figura del Cristo; - i processi di teorizzazione pedagogica si orientavano e regolarizzavano secondo un principio religioso. 15 in questo nuovo contesto, completamente riformato, emersero nuovi documenti canonici relativi al Cristianesimo. Essi erano 4: il Vangelo, le Lettere di Paolo, l’Apocalisse e gli Atti degli Apostoli. VANGELI: Nei Vangeli vengono messi in evidenza alcuni aspetti dell’educazione cristiana, la quale è guidata da un maestro-profeta (il Cristo) che parlando contro le abitudini della vita quotidiana si propone di provocare - nell’uomo-una crisi interiore , una crisi spirituale. Inoltre nei Vangeli c’è l’aspetto della comunità in quanto l’uomo è destinato a vivere con gli altri e i suoi rapporti devono basarsi sull’amore, sulla solidarietà e la collaborazione; inoltre l’amore è il perno di tutta l’educazione cristiana in quanto l’individuo deve essere guidato da un amore verso Dio e da un amore verso il prossimo. LETTERE DI PAOLO: accanto ai Vangeli si collocano le Lettere di Paolo, nelle quali c’è una visione più drammatica e inquieta del messaggio cristiano. Inoltre in queste lettere emergono anche aspetti di valore pedagogico, e due in particolare: il dualismo anima/corpo e la condanna della corporeità la quale viene vista come un peccato e come un qualcosa che sconvolge la vita dello spirito; per questo motivo la pedagogia deve proporsi di reprimere gli istinti dell’uomo. APOCALISSE: nell’Apocalisse di San Giovanni ci sono i temi relativi alla fine del mondo, alla tensione escatologica nella storia e alla risurrezione dell’uomo i quali illuminano il cammino educativo dell’uomo che deve vivere sulla terra per prepararsi ad una vita migliore e celeste da vivere in un altro mondo, dopo la fine del nostro. ATTI DEGLI APOSTOLI: in questi atti si trova l’azione educativa delle prime comunità cristiane, le quali miravano alla diffusione di valori come: la rigenerazione interiore, la carità, la solidarietà che –a loro volta- alimentavano le funzioni educative e i riti di iniziazione (battesimo, messa, preghiera). In sintesi possiamo, quindi, affermare che con tali documenti il cristianesimo propone un nuovo modello di vita basato sulla comunità, sulla carità, l’amore, in cui l’uomo deve vivere in prospettiva della salvezza futura. Da tale rivoluzione educativa il Cristianesimo, a contatto con l’ellenismo, assumerà una forma più razionale ma sempre universale. Tra i padri della Chiesa che divennero formatori delle nuove generazioni cristiane c’è S. Agostino, nato a Tageste, prima aderente alla eresia manichea, poi venne a contatto con il vescovo di Milano Ambrogio che lo avvicinò alla interpretazione allegorica delle Sacre Scritture. Nel 396 fu ordinato sacerdote a Ippona e poi divenne vescovo della città. Agostino riconosce una certa vicinanza di pensiero tra la filosofia Platonica e quella Cristiana. Entrambe esaltano l’anima in una dimensione superiore che arriva a Dio ed alla verità; per Agostino l’uomo è ragione e fede ed entrambe avvicinano l’uomo a Dio uno e Trino. Le sue opere: Le confessioni, Il maestro, La città di Dio, La dottrina cristiana. Parte seconda: L’età medievale 16 1. I CARATTERI DELLEDUCAZIONE MEDIEVALE L’immagine tradizionale del Medioevo, che gli umanisti hanno elaborato e gli illuministi rilanciato, è quella di un secolo buio caratterizzato dalla regressione della civiltà e da un ritorno a condizioni di vita di tipo arcaico, ad un economia di sussistenza e ad una società in cui si manifestano forme di dipendenza volte a trascendere nella schiavitù. Inoltre il Medioevo è stato definito anche “età di mezzo” tra due periodi storici di grande sviluppo: il mondo antico e il mondo moderno. In realtà ci si è resi conto che il Medioevo non è affatto un’età di mezzo (se lo si guarda con una prospettiva storica) bensì l’età in cui si è formata l’Europa cristiana e il periodo in cui sono cominciati ad emergere i prerequisiti dell’uomo moderno, un nuovo modello di società ( contrassegnata da un forte spirito di comunità), l’evoluzione di alcune materie specialistiche (come la matematica e la logica) e-infine- una serie di principi e valori religiosi intorno ai quali tutto è cominciato a ruotare. Già il Romanticismo aveva riconosciuto il medioevo come un età autonoma e – in più - aveva riconosciuto in esso un tipo di società accentrata intorno al valore religioso e all’autorità della Chiesa. Per questo motivo si parla di un’età carica di tensioni e contrasti. Da ciò si evince che il Medioevo è il tempo della Chiesa e del Cristianesimo, ma – nello stesso tempo- è importante sottolineare che esso rappresenta anche l’età dei popoli e degli ideali comuni europei i quali hanno costruito il bagaglio (sia ideologico che immaginario) della popolazione europea (ideali-miti, ideali-tradizioni, ideali-leggende). Se nel Romanticismo ci fu l’esaltazione di questi valori tipici del Medioevo, nel Positivismo gli autori furono impegnati a studiare una serie di raccolte di documenti e le ricostruzioni filologiche di testi. Tuttavia il 1900 fu il secolo importante per la rivalutazione dell’età medioevale. Grazie agli studi degli esponenti della scuola delle Annales si è aperta una stagione di rinnovamento critico e di esaltazione della società medioevale la quale è stata vista come la II matrice dell’Occidente (dopo quella classica legata alla diffusione del Cristianesimo). Indipendentemente da questa rivalutazione del Medioevo, è importante sottolineare che esso presenta delle differenze rispetto all’Antico e al Moderno: 1) in primo luogo – nel Medioevo – tutto ruota intorno ad un unico principio trascendente: Dio; 2) differenza antropologica: l’uomo medievale è l’homo erachiens e non l’homo aequalis moderno; 3) differenza politica: nel medioevo si afferma il dualismo Chiesa-Impero (che sono costantemente in contrasto tra loro) e lo spirito sovranazionale; 4) differenza culturale: la cultura medioevale non è secolarizzata, laicizzata e scientifica, ma è una cultura logica e retorica. Alla luce di quanto detto sinora si evince che il Medioevo è un’età molto complessa perché procede mediante chiaro-scuri; perché è pervasa da contraddizioni e contrasti; perché è pervasa dal pluralismo ma –nello stesso tempo- concentrata attorno a strutture costanti: Chiesa, Fede e coscienza cristiana. In questo contesto il Cristianesimo non è solo una dottrina religiosa alla quale il popolo si converte, ma è un sistema che pervade tutta la società scandendone le tappe dell’evoluzione; inoltre esso è anche un costume di vita, un reticolo di istituzioni e l’elaboratore di miti, leggende e figure eroiche. L’azione del Cristianesimo si è sentita notevolmente dopo il blocco del Mediterraneo, invaso dall’islam e divenuto mare di frontiera (e non più di scambi), in quanto grazie ad esso il mondo europeo – che si presentava plurale e unitario, articolato in diverse nazioni e animato da diversi popoli – fu unificato; ( e in particolar modo dalla religione, dalla cultura, dalla fede cristiana e dalla lingua latina). 17 cambiano anche i processi formativi all’interno della famiglia (che nelle zone più evolute già si appresta a diventare nucleare) e nella società. Alla luce di tutto ciò il Medioevo appare come un’età lunga e complessa e caratterizzata da profonde trasformazioni che hanno investito diversi settori e che non ci rimandano un’immagine di una comunità o monolitica o bloccata,ma vitale e pronta ad affermare istanze di libertà all’interno di una società uniforme. Infatti con il Medioevo si è dissolto il mondo antico e classico e, ad esso, si è sostituito un mondo nuovo connotato dall’ideale cristiano e da 3 strutture: l’Europa, la cultura laica e le nazioni. L’Europa - con il suo policentrismo, i suoi conflitti, la sua unità dinamica legata alla vita spirituale e ad una cultura comune – sarà al centro di tutta l’avventura della modernità. La cultura laica porrà i limiti ai poteri assoluti (Chiesa e Impero) nella società moderna e favorirà la maturazione delle istanze di libertà. Le nazioni saranno sempre di più al centro dell’impegno politico e della vita collettiva. Infine gli effetti storici del Medioevo si sentiranno anche in ambito educativo grazie alla costituzione di strutture di lunga durata, quali: università; la formazione professionale artigianale; le istituzioni sociali di carattere religioso; la famiglia alla quale si assegna il compito di educare il fanciullo prima di qualsiasi intervento educativo pubblico e le istituzioni caritative-educative. l’alto medioevo e l’educazione feudale L’età del Medioevo (che si sviluppa dal 476, anno della fine dell’impero romano d’occidente, al 1942) è caratterizzata da una nuova organizzazione di società, che ruota intorno al feudo. Il feudo è un’unità territoriale che è nelle mani di un signore il quale svolge il ruolo di fonte di diritto in quanto impone agli abitanti del feudo il lavoro da svolgere e l’impegno alla fedeltà e alla sottomissione, in cambio di protezione. Qui l’economia è di sussistenza – nel senso che si produce ciò che è necessario per vivere senza dare spazio a nessun tipo di scambio- e la cultura si sviluppa solo nel castello del feudatario, nelle chiese e in particolar modo nei monasteri: quindi anch’essa è contrassegnata da pochi scambi e ruota completamente intorno alla fede cristiana, ai suoi dogmi e ai suoi miti. Pertanto la società feudale è una società fissa, con poca mobilità e poco ricambio e ogni uomo sono collocati in una precisa classe sociale e ciascuno svolge un ruolo sociale altrettanto predeterminato. Al vertice di questa piramide sociale ci sono i bellatores (i guerrieri) e gli oratores (i chierici); al di sotto ci sono i laboraotores (i contadini, gli artigiani, ecc.) che vivono in condizioni che si avvicinano di molto alla schiavitù. L’economia feudale che vige in questo tipo di società statica è stata determinata da una serie di fattori: prima di tutto dalle invasioni barbariche; poi dalla caduta dell’Impero che fece scomparire ogni autorità centrale; e, infine, dallo spopolamento delle città e dallo spostamento di molti uomini dal centro alle campagne. Questo tipo di società e lo stesso uomo feudale sono il prodotto della mentalità cristiana, la quale concentra la propria attenzione sull’oltretomba e conduce gli uomini a pensare che la vita terrena è solo “una maschera che allude ad una realtà profonda”, cioè è un momento di passaggio, è una vita non reale, è un momento che l’uomo deve vivere compiendo una serie di sacrifici per poi essere felici nell’aldilà. Inoltre nella societaà feudale i vincoli esistenti tra uomo e uomo non sono più legati alla polis o alla communitas (come nel mondo classico), ma a legami di sangue che saldano il rapporto di parentela come primario. la società feudale non è stata immobile nel tempo, infatti è possibile distinguere 3 fasi: 20 - una fase di incubazione, che va dalla fine dell’Impero all’età Carolingia (comprendendo anche le invasioni); - una fase aurea, che va dal feudalesimo di Carlo Magno al 1000; - una fase di declino, di revisione e di trasformazione delle strutture feudali. Questa fase è stata caratterizzata anche da una ripresa delle città, degli scambi e di una cultura più aperta e dinamica. In questo tipo di società l’educazione resta dualistica e classista in quanto ci sono dei modelli, dei processi e dei luoghi di formazione diversi per 2 classi sociali: la nobiltà e le classi inferiori, il che da vita ad una formazione di uomini diversi ( che seguono itinerari formativi diversi). L’educazione si organizza in istituzioni, quali la famiglia e la chiesa, che sono impermeabili al cambiamento e trasmettono una serie di valori e indicazioni che sono valide in qualunque momento perché legate alla visione cristiana. Alla luce di tutto ciò si evince che l’educazione dell’Alto Medioevo è distinta tra nobiltà e popolo, tra scuola e apprendistato, ma – nello stesso momento- si alimenta della paideia cristiana che viene interpretata in sede teorica e istituzionale. Inoltre anche se l’Occidente feudale è chiuso in se stesso ciò non significa che è impermeabile, in quanto esso mantiene degli scambi con altre aree culturali e – a loro volta- anche le pratiche educative risentono di questa attenzione data alle culture vicine. Tutto questo delinea quello che viene definito il monopolio ecclesiastico dell’educazione il quale mette in evidenza che il modello cristiano si diffonde come reticolo di istituzioni educative e l’egemonia cristiana si incrocia con altri modelli, di cui se ne nutre in parte. il basso medioevo e l’educazione cittadina Molti storici hanno considerato il Mille come una data spartiacque, in quanto dopo quest’anno l’Europa si ritrovò al centro di un grande processo di trasformazione che inondò qualsiasi settore. Infatti in Occidente si diffuse un intenso dinamismo; nacquero nuove strutture politiche, sociali, economiche, ecc; si affermò una nuova classe sociale (la borghesia), nuovi valori (libertà, la nazione-stato) e nuovi protagonisti ( le città, gli individui, i Comuni, i borghesi). Tutto ciò ha segnato il passaggio dalla società feudale ad un mondo completamente nuovo il quale si presenta complesso, plurale, caratterizzato da tensioni e conflitti. Quest’immagine coincide con quella di un’Europa che si è salvata dagli attacchi da parte dei popoli barbari, fondendosi nella res publica christiana e che – dopo il 1000- si è delineata come un entità politico-culturale complessa e unitaria, a carattere conflittuale, aperta agli scambi e gelosa sia della propria autonomia che della propria complessità. Come abbiamo detto precedentemente, in questa Europa che è pluralismo di stati, di etnie e di tradizione, ma anche unità spirituale, di culture e di fede nacque una nuova classe sociale: la borghesia. Essa era una classe legata agli scambi, imprenditrice, attiva, dinamica, che nutriva una precisa coscienza di sé e che ha fatto maturare nuovi principi e nuovi ideali (come la libertà, l’individuo, la produttività). In questo contesto di profonda trasformazione anche la cultura cambia, in quanto cominciano ad affermarsi le lingue nazionali e le letture in lingua volgare e c’è una ripresa della filosofia, delle scienze e del pensiero religioso. Come la cultura anche l’educazione non resta estranea a questo processo : infatti – dopo il Mille- prese corpo un nuovo modello educativo che si impose in tutta Europa e divenne il principale istituto di educazione che dominava l’Occidente da un capo all’altro. Questo nuovo modello formativo è nato, in particolar 21 modo: dall’evoluzione delle scuole cattedrali, che nel giro di un breve secolo si trasformarono in Università o studium generale, e dalla formazione di scuole cittadine indipendenti dalla Chiesa. Per quanto riguarda l’Università furono la Francia e l’Italia ad avviare un moto di fondazione delle istituzioni universitarie, le quali anche se seguivano dei modelli diversi erano accomunate da un rigoroso metodo di insegnamento ed itinerario di studi. A Parigi lo studium generale nacque intorno al 1150, intorno alla scuola episcopale illuminata dal prestigio di Abelardo, istituendo un corso relativo alle arti liberali prima, e alla teologia, al diritto e alla medicina (dopo) in quanto essi costituivano il livello superiore dell’insegnamento. Il percorso di studi andava dai 5 ai 7 anni e si concludeva (intorno ai 21 anni) con una cerimonia di disputa o dibattito che nominava lo studente baccelliere. Dopo altri 2 anni di studi lo studente diventava magister non a tutti gli effetti. Lo diventava dopo sei mesi, con una cerimonia in cui veniva licentiatus. Tuttavia a Parigi la facoltà più importante era quella di Teologia, dove insegnavano i maestri della scolastica i quali, seguendo le orme di Abelardo, rinnovarono lo studio della religione. In Italia già nel 1100 Bologna espresse la sua esigenza di diventare centro dello studio del diritto; esigenza che venne soddisfatta nel 1158, anno in cui Federico Barbarossa riconobbe l’universitas bolognese. Da questi due centri l’università si diffuse in tutta Europa in modo progressivo e il metodo d’insegnamento (relativo alla formazione degli studenti) al quale tutte si rifacevano era quello che ebbe come suo principale iniziatore Abelardo, che diede molta importanza alla dialettica e alla logica. La prima veniva concepita come forma-principe del pensiero; la seconda come strumento di regolazione del linguaggio. In questo nuovo processo di apprendimento un ruolo fondamentale viene assunto dal libro (che diviene strumento di una cultura che tende a diffondersi sempre di più), dagli auctores e dai maestri. La rielaborazione del pensiero pedagogico (inteso come riflessione teorica intorno alla formazione, alla crescita umana e culturale del soggetto e al suo apprendimento di tecniche e regole) è avvenuto all’interno delle scholae e delle università. Inoltre la Scolastica avviò una rilettura dell’educazione che coinvolse sia i processi di formazione che i processi di apprendimento: i processi di apprendimento ricevettero un contributo dalle università, con la loro organizzazione di studi e con le tecniche di lavoro intellettuale elaborati dai maestri; i processi di formazione-invece- furono affrontati dai grandi intellettuali della scolastica che risentirono della grande disputa tra ragione e fede. Sono stati due grandi Ordini mendicanti a delineare i diversi modelli di teorizzazione e a riprendere la distinzione tra aristoi e demos: da un lato ci furono i Domenicani, dall’altro i Francescani. I primi valorizzavano la ragione, concependola come strumento utile x penetrare e dispiegare il significato della fede; i secondi sottolineavano la superiorità della fede rispetto alla ragione e privilegiavano la vita mistica per conoscere la realtà e per formare l’uomo. Nell’ambito delle scholae i primi due esponenti che hanno elaborato un quadro innovativo dei processi educativi sono stati Pietro Abelardo e Ugo di San Vittore. Pietro Abelaro nella sua opera autobiografica ha messo in risalto una nuova identità umana( la quale deve essere più individuale, più razionale e più libera) che si propone come modello formativo. Nell’Epistolario, invece, pone la ragione come strumento di formazione dell’uomo e – infine- nell’opera “Sic et non” consegna alla Scolastica il metodo di studio razionale dei vari argomenti. Ugo di San Vittore nel “Didascalicon” ha proposto un approccio mistico alla realtà, che va affrontata attraverso la cogitato, la meditatio e la contemplatio . Anche la formazione del clero deve seguire queste tre tappe e per quanto riguarda la conoscenza essa – in quest’opera- viene valorizzata in 22 Infine, con la Modernità, sono nate: - la pedagogia come scienza, ossia come sapere della formazione umana che tende ad analizzare e controllare razionalmente le variabili che attivano questo processo; - la pedagogia sociale, che si propone di formare l’uomo-cittadino e cioè l’individuo capace di agire nell’ambito di una comunità; - la pedagogia antropologica – utopica che tende a sfidare l’esistente e a porre ciò come il vero senso di fare pedagogia. Il mondo moderno è caratterizzato da una profonda ambiguità: da un lato è animato da un’idea di libertà, e cioè vuole liberare l’uomo, la società e la cultura da qualsiasi tipo di vincolo e/o limite; dall’altro tende a conformare l’individuo secondo modelli sociali di comportamento. Questa è un’antinomia (opposizione) che contrassegna la storia della Modernità, la quale si distingue in due fasi: - la prima fase della Modernità va dal 1492 al 1789 e in questo periodo l’antinomia non è molto consapevole perché (anche se ci sono delle forti spinte di liberazione) si segue un itinerario in cui prevale la conformazione; - la seconda fase coincide con l’età contemporanea (che va dalla rivoluzione francese ad oggi), durante la quale tale antinomia viene presa in considerazione come un problema aperto e contraddittorio. Nell’ancien regime (fino al 1789) il mondo moderno si organizzava intorno a processi di civilizzazione (proposti da Elias) di razionalizzazione (Weber) e di istituzionalizzazione (Foucault) i quali diedero vita ad uno stile di vita nuovo in cui si affermarono atteggiamenti di autocontrollo e di conformazione alle buone maniere; si censurano comportamenti troppo crudi, i quali devono essere controllati il più possibile. Il centro motore di questo progetto di pedagogizzazione della società è lo Stato, di cui il Re è il perno in quanto detiene tutto il potere nelle sue mani. Le immagini di stato assoluto e accentrato e di un sovrano che dispone di un’immensa egemonia sono state teorizzate da Macchiavelli e da Hobbes. Il primo parla di un sovrano (il Principe) che per mantenere l’ordine nello Stato e per raggiungere gli obiettivi proposti deve utilizzare qualsiasi mezzo (talvolta anche la violenza). Utilizzando i termini metaforici presenti nella sua opera più importante (Il Principe) il sovrano deve essere “astuto come una volpe e forte come un leone”. Il secondo, invece, parla di uno Stato Leviatano e cioè di uno Stato che nasce da un contratto e in cui si stabilisce un sovrano che deve tenere nelle proprie mani tutto il potere, che non deve condividere con nessuno. La più esplicita realizzazione di questo modello di Stato si è avuta in Francia con Enrico IV, Luigi XIII, Luigi XIV, Mazzarino e Richelieu. Un grande filosofo del XX secolo che ha compiuto una riflessione sul sistema di governo moderno è stato Foucault, il quale ha affermato che la Modernità nasce come volontà di governo, ponendosi continuamente il problema relativo al modo giusto di governare. Tuttavia, anche se si interroga su questo punto, essa esercita tale funzione seguendo un nuovo itinerario, che è quello della “microfisica” del potere. Ciò significa che il potere agisce in molti luoghi del sociale e penetra nelle coscienze attraverso il corpo in modo che esse possono essere guidate dalle finalità del potere. Pertanto l’individuo deve essere controllato a partire dal corpo, ma x rendere docile anche la sua coscienza è importante che questa operazione venga eseguita dalle istituzioni educative dirette dallo Stato: l’esercito, gli ospedali ( che curano i corpi malati); i manicomi (che controllano i folli, separando la ragione dalla follia); le scuole (che formano le nuove generazioni, conformandole ai modelli di normalità e di efficienza della società) e – più di tutte – le prigioni che riabilitano alla vita sociale rieducando i soggetti disadattati. 25 Secondo Foucault le prigioni rappresentano il caso esemplare di questi interventi educativi perché in essa si può educare attraverso un controllo capillare continuo e invisibile. Proprio per questo motivo Foucault teorizzò come modello applicabile alla società moderna il Panopticon, un carcere (ideato da Bhentam) il quale aveva una struttura a stella e in cui tutti i prigionieri potevano essere controllati costantemente da un unico guardiano, senza che se ne rendessero conto. Questi aspetti – sottolineati da Foucault – rappresentano i punti fondamentali della Modernità che però non sono esclusivi, in quanto si combinano con altri diversi e (talvolta) opposti. Alla luce di quanto detto sin’ora si evince che la società moderna si presenta come una società educante, volta a conformare le coscienze verso i suoi modelli e i suoi obiettivi e, di conseguenza, incline a disporre la Modernità nell’antinomia: emancipazione- conformizzazione. Nella modernità le istituzioni che subiscono un profondo mutamento sono:la famiglia e la scuola in quanto entrambe si fanno sempre più centrali nell’esperienza formativa dei soggetti e nella riproduzione della società. Infatti entrambe le istituzioni svolgono non solo una funzione connessa alla cura, all’istruzione e alla crescita del soggetto in età evolutiva, bensì una legata anche alla formazione personale e sociale di questo. Da ciò si evince che nella Modernità la scuola e la famiglia hanno acquisito un’immagine alquanto diversa rispetto al Medioevo. Per quanto riguarda la famiglia vediamo che essa nel Medioevo era una famiglia patriarcale, e cioè composta da molti nuclei, tutti guidati da un Pater familias che imponeva la sua autorità su tutti. Essa veniva organizzata come una piccola azienda e non come un centro di affetti. Con l’avvento della Modernità si è affermata una concezione di famiglia intesa come nucleo di affetti, in cui si è fatto sempre più spazio il “sentimento d’infanzia”, che fa del bambino il motore della vita familiare ed elabora un sistema di cure controlli del bambino stesso che tendono a conformarlo ad un ideale, ma – nello stesso tempo – a valorizzarlo come un mito innocente e spontaneo. L’emergere di tale sentimento ha determinato la nascita di uno spazio sociale del bambino (= la famiglia); di un modello formativo adatto ad esso, e cioè privatizzato e familizzato; e di un sapere dell’infanzia che è nato in funzione delle cure familiari. Pertanto la famiglia – in questa nuova prospettiva- diviene il luogo educativo del bambino in quanto ci si è resi conto che questo non nasce con una maturità tale da renderlo capace di affrontare la vita ed è per questo che va educato nell’ambito familiare. In questo modo è nato il sentimento di famiglia, che ha portato i genitori a capire che non si possono mettere al mondo tanti figli e sistemarne solo qualcuno; piuttosto è importante dare a tutti i figli e a tutte le figlie ( concezione nata verso la fine del 1600) una preparazione alla vita. Il compito di assicurare tale preparazione è affidato alla scuola, la quale presenta delle particolari differenze tra il Medioevo e la Modernità. Nel primo periodo essa era religiosa e avveniva nelle chiese e nelle cattedrali; nel secondo momento storico la scuola si presenta come un’agenzia che istruisce, che forma, che fa apprendere conoscenze e comportamenti. Essa è una scuola che si articola intorno alla didattica, alla razionalizzazione degli apprendimenti dei diversi saperi e, alla disciplina, alla conformazione programmata e alla pratiche repressive. Essa è una scuola nuova divisa per gradi e in cui non si insegnano a tutti le stesse discipline, ma per ogni grado ci sono delle discipline corrispondenti. Nel XVI secolo cominciarono ad affermarsi anche i collegi, attraverso i quali si è dato inizio ad un processo di riorganizzazione disciplinare della scuola attraverso l’elaborazione di programmi di insegnamento/ educazione che fissavano un programma di studio e di comportamento. A partire dal ‘400, ma in modo più efficace tra il ‘500 e il ‘600, i collegi si sono affermati sempre di 26 più nell’ambito dell’educazione e della formazione della gioventù. In questo stesso arco di tempo si è giunti alla scoperta della disciplina scolastica che affonda le sue radici in quella religiosa ed ecclesiastica. Alla luce di tutto ciò è importante sottolineare che la scuola della Modernità opera un controllo continuo del corpo, cercando di portarlo ad assumere degli atteggiamenti corretti; esercita una divisione produttiva del tempo, cercando di organizzarlo senza fare sprechi e mettendo a frutto ogni sua porzione; e – infine- ritualizza il momento dell’esame, il quale non è altro che il momento in cui il soggetto viene sottoposto ad un massimo controllo attraverso il suo sapere. Anche Foucoult fa una riflessione sulla scuola e, a tal proposito, afferma che essa attraverso la sorveglianza gerarchica, il controllo interno continuo, le sanzioni che mirano al rispetto delle norme e l’esame instaura un potere sul soggetto, il quale diventa un corpo docile che ha interiorizzato tale potere e – di conseguenza- modella il suo comportamento in base ad esso. Ciò significa che la scuola moderna assume anche il ruolo di agenzia che riproduce e diffonde nelle coscienze di una società l’ideologia dominante e il potere, gli ideali e gli obiettivi ad essa connessa. Un altro ambito di rinnovamento della Modernità, che segna una rottura con il Medioevo, è quello dei curriculum. La Modernità – infatti- inizia con una ripresa della paideia classica e della sua idea di cultura in modo da poter rivivere il mondo degli antichi nella sua complessità, nella sua incertezza e specificità; e prendere il loro stile di vita ( sinonimo di perfezione e armonia) come modello per la formazione dell’uomo. Tuttavia anche se l’umanesimo nasce retorico e filologico non si preclude di percorrere anche altre dimensioni, come quella religiosa, politica e scientifica che però sono state incluse nel progetto scolastico solo nel Seicento: e in particolare con la nascita dell’empirismo x opera di Loke, con studi di Bacone e con la scoperta del metodo sperimentale x opera di Glileo Galilei. Il Seicento –infatti- è stato un secolo di grande rinnovamento nel settore scientifico ed è proprio per questo motivo che, nel corso di quest’epoca, gli studia humanitas si impoverirono particolarmente e ( nello stesso tempo) cominciarono a nascere nuovi elementi del conoscere e del sapere che daranno vita a dei curricoli più ampi e complessi rispetto a quelli della scuola umanistica che abbozzeranno i contenuti culturali della scuola moderna. Questi nuovi sapere sono, per esempio: le matematiche con Cartesio; la scienza sperimentale di Galilei; le nuove istanze religiose nate con la Riforma e la Controriforma e le nuove esigenze politiche – più democratiche – proposte da Locke. Un autore che, in una sua opera pedagogica, ha messo in risalto questo rinnovamento della cultura scolastica è stato Gusdorf, il quale ha sottolineato che: 1) l’autorità del latino resta indiscussa, anche se viene temperata dalla presenza di lingue nazionali; 2) la matematica e le scienze devono trovare spazio nella scuola e non devono essere considerate più delle discipline filosofiche, bensì delle scienze empiriche e sperimentali; 3) la storia deve essere storia delle società, dei popoli, delle etnie e deve essere collegata alla geografia, la quale deve mettere in evidenza le diverse condizioni economiche e civili dell’umanità distribuita in differenti zone della terra. Inoltre Gusdorf ha scritto che fu lo spazio delineato per la scienza a rinnovare il curriculum d’istruzione e che solo con Locke la cultura tecnica è stata integrata in quello ( curriculum) formativo. Questo mutamento dell’istruzione si realizzò nel 1700 solo da un punto di vista teorico, in quanto solo poche scuole – in pochi paesi europei – sono state rinnovate e riformate. Infatti un riscontro pratico si verificherà nel XIX secolo con la nascita delle Scuole tecniche e l’affermazione di curricoli a base sia scientifica che umanistica. Con la realizzazione di questo processo anche gli scopi dell’educazione sono cambiati: essa non verte più sulla formazione del “buon cristiano” o del dotto – cortigiano, bensì sulla 27 pensiero politico e religioso della Riforma, invece di avvicinarsi alle richieste del pensiero moderno, tendevano verso le istanze razionalistiche della Scolastica. Infine altri due studiosi che hanno espresso la loro opinione sul rapporto Umanesimo Rinascimento sono stati: Burdache e Garin. Il primo è convinto che tra Umanesimo e Rinascimento c’è una continuità assoluta e che entrambe costituiscono una sola unità; il secondo si rifà ad un concetto di Rinascimento comprensivo dell’intero pensiero del XV e del XVI secolo, che presenta una specificità tutta propria e che fa i conti con le esigenze del tempo che lo ha espresso. Inoltre la nuova storiografia sostiene che tra il Medioevo religioso e il Rinascimento pagano non c’è una forte opposizione (come sosteneva Burckhardt) e – nello stesso tempo- non esiste nemmeno una continuità assoluta tra i due momenti storici (come sosteneva Burdach). Infatti la civiltà rinascimentale ha origine da una serie di grandi trasformazioni politiche, sociali e culturale che sono iniziate nel 1300 ma che hanno fatto sentire i loro effetti negli anni successivi. Tra questi effetti molto importanti sono 2 trasformazioni: 1) dopo la caduta delle 2 grandi istituzioni medioevali (Papato e Impero) c’è stata la formazione degli Stati nazionali in Europa e di quelli regionali in Italia; 2) l’affermarsi di una borghesia attiva che ha il proprio centro di vita nelle città, le quali sono diventate dei luoghi di sviluppo dell’economia e della cultura. A fare le spese di tutto ciò p la vecchia aristocrazia feudale che ha perso tutti i suoi privilegi; mentre la piccola borghesia e il popolo minuto beneficia (anche se in modo riflesso) di una condizione di accresciuto benessere. Da ciò si evince che il ‘400 è stato un secolo di grande sviluppo per la borghesia, la quale – ad un certo punto- ha cominciato a lavorare non soltanto più per vivere, ma anche per conservare ricchezze e formarsi un capitale da investire. Tuttavia alla fine di questo secolo la classe borghese comincia a vivere un leggero declino, causato da ragioni economiche, politiche e dalla scoperta di nuove terre che hanno prodotto un processo di periferizzazione del Mediterraneo. Alcune grandi famiglie borghesi italiane sono state: i Medici a Firenze, gli Estensi a Ferrara, i Malatesta a Rimini, ecc. Nei primi anni del 1500 i fermenti di rinnovamento religioso, che iniziarono già nel 1200, sono esplosi dando luogo ad un movimento di riforma: la riforma protestante. Alla base della riforma protestante ci sono, innanzitutto, motivi di ordine religioso quali: l’avversione per la gerarchia ecclesiastica ritenuta responsabile del disordine disciplinare e della corruzione nella Chiesa di Roma; l’aspirazione ad un Cristianesimo delle origini. A questi motivi se ne aggiungono altri di natura economica e sociale in modo che questo sentimento di innovazione, partendo dalla sfera spirituale, ha coinvolto ogni dimensione della vita dell’uomo: sul piano dottrinale emerge il principio del “libero esame” e quello della salvezza tramite la sola fede; sul piano sociale viene superata la distinzione tra clero e laicato, tra azione civile e religiosa e il mondo terreno viene concepito come il luogo in cui si realizza l’opera di Dio; sul piano economico il lavoro (grazie alla concezione di Calvino) viene considerato un elemento di salvezza per l’uomo e un mezzo per instaurare il regno di Dio in terra. La Riforma protestante, nata in Germania per opera di Marti Lutero che rifiutava l’autorità papale e si proponeva di ritornare al Cristianesimo delle origini, ha avuto – sin dall’inizio- delle ripercussioni in ambito pedagogico, in quanto sia Lutero che Melantone si sono soffermati spesso sul problema educativo. Essi, infatti, valorizzando il principio del libero esame si sono resi conto che se tutti devono leggere e capire autonomamente le Sacre Scritture è necessario che tutti acquisiscano gli strumenti culturali utili per farlo: e cioè tutti devono essere capaci – almeno- di leggere. La diffusione di questa cultura di base popolare è avvenuta attraverso delle istituzioni 30 scolastiche pubbliche, mantenute a spese dei Municipi. Da quanto detto sinora si evince che con protestantesimo si è affermato il diritto-dovere di ogni cittadino per lo studio e si sono poste le basi per l’affermazione di un concetto autonomo e responsabile di formazione, non essendo più il soggetto condizionato da un rapporto con Dio e con la verità mediato da un’autorità. MARTIN LUTERO: egli era un monaco agostiniano che, dopo un viaggio compiuto in Italia nel 1510, rimase profondamente deluso della corruzione che dominava negli ambienti della Chiesa Romana. Inoltre la pratica delle indulgenze è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso in quanto Martin Lutero si allontanò dall’ortodossia cattolica e nel 1517 pubblicò le famose 95 tesi contro il Papa. Da un punto di vista pedagogico la concezione di Lutero si basa sul richiamo alla validità universale dell’istruzione, affinchè l’uomo possa svolgere i propri doveri sociali. L’istruzione viene concepita – dal monaco tedesco – sia come un obbligo per i cittadini che come un dovere per gli amministratori delle città. I cittadini hanno quest’obbligo perché la legge di Dio può essere mantenuta solo con la testa e con i libri e chi si mostra contrario all’istruzione deve essere costretto ad avvicinarsi ad essa. Gli amministratori delle città hanno l’obbligo di istituire e mantenere a proprie spese le istituzioni scolastiche perchè esse rappresentano una risorsa per tutta la comunità: infatti la formazione di cittadini colti e rispettosi della legge favorisce la pace sociale e il dispendio di un minor numero di risorse finanziarie. Per Lutero l’educazione deve vertere, soprattutto, sullo studio delle lingue (sia antiche che quella nazionale) perché le lingue rappresentano il mezzo utile per comprendere la verità. Per questo motivo la scuola è organizzata in 4 settori: quello delle lingue per risalire alle fonti delle Sacre scritture, quello delle opere letterarie per l’insegnamento della grammatica e la lettura dei testi, quello delle scienze e delle arti e –infine- quello della giurisprudenza e della medicina. Un ruolo fondamentale – all’interno della scuola – è svolto dal maestro il quale sostituisce la famiglia nel momento in cui essa è incapace di adempiere il suo compito (ossia quello di formare il giovane); e deve possedere il giusto equilibrio tra severità e amore in quanto con l’amore si ottengono più risultati rispetto all’utilizzo della severità. MELANTONE: Egli è stato definito “precettore della Germania” perché ha elaborato le strutture organizzative e i contenuti culturali delle scuole secondarie della Riforma. L’obiettivo educativo di Melantone si incentrava sull’importanza dell’istruzione e sulla validità della cultura classica per poter penetrare la verità delle Sacre scritture. L’ignoranza – per Melantone- è il più grande nemico della fede ed essa va combattuta riformando le scuole e recuperando l’autorità culturale e morale degli educatori. Nel 1527 Melantone redisse gli Articoli di visitazione, all’interno dei quali espose le sue idee sulla scuola e sulla sua organizzazione: il corso di studi deve essere diviso in 3 cicli il primo è per i principianti ed è finalizzato a far acquisire le prime nozioni di latino; il secondo è indirizzato allo studio della grammatica e il terzo si orienta verso la dialettica e la retorica. In questo stesso piano Melantone ha fornito utili indicazioni sul metodo di apprendimento e ha attribuito alle autorità il compito di istituire e finanziare le scuole e di nominare insegnanti dotati di buona cultura classica. Infine a Melantone bisogna riconoscere anche il merito di aver introdotto nel corso di studi universitario nuove materie, come: la matematica (finora insegnata solo per scopi pratici e professionali). GIOVANNI CALVINO: egli è un altro riformatore che, come Lutero, era convinto che la salvezza dell’uomo risiede nella Parola divina contenuta nelle Sacre Scritture. Tuttavia c’è un punto che distingue Calvino e Lutero: la predestinazione degli eletti. Calvino era convinto che Dio, dalla sua posizione di eternità, aveva fatto una distinzione tra gli 31 uomini predestinati a vivere in eterno e in comunione con lui, i quali devono cercare continuamente nelle opere e nel mondo i segni della propria elezione, e gli uomini predestinati a vivere una dannazione eterna. nel 1541 Calvino assunse il governo della città di Ginevra ed è per questo che diede via ad un programma di riforme sociali e religiose: gli Ordinamenti ecclesiastici, in cui ha messo in evidenza che ogni rappresentante della nuova Chiesa deve frequentare necessariamente la scuola e in cui ha indicato le lingue e le scienze secolari come strumenti indispensabili per la formazione. ERASMO DA ROTTERDAM: egli è nato in Olanda ma la sua formazione è avvenuta in ambienti culturali di diversi luoghi, ed è per questo che egli si è contraddistinto per la sua mentalità cosmopolita. Grazie alla sua esperienza di viaggiatore e il suo obiettivo di pacificazione dei continui conflitti tra i popoli egli è giunto ad affermare che l’educazione è un aspetto centrale della vita dell’uomo e che è necessario dar vita ad una lingua nazionale. Le idee sull’educazione di Erasmo da Rotterdam sono contenute in molte sue opere, sia di stampo pedagogico che non, e in una di quelle che trattano esclusivamente dell’educazione, del suo valore e della sua funzione sociale il “De Ratione studii” egli ha messo in evidenza che il latino e il greco sono due lingue vive e che vanno insegnate ai giovani attraverso un contatto diretto con i testi. Inoltre il latino deve essere studiato sia dentro che fuori l’istituto scolastico in quanto esso rappresenta il mezzo più praticato nella comunicazione (insieme al greco). Con questa sua concezione Erasmo è entrato in polemica sia con l’utilizzo del latino volgarizzato nelle università medievali e nella Scolastica, sia con la riduzione di esse ad un apprendimento meramente grammaticale. Tuttavia oltre al latino e al greco è importante introdurre nel curricolo – secondo Erasmo- anche la storia e le scienze; per quanto riguarda gli autori, invece, è fondamentale leggere quelli che parlano di problemi concreti (come Aristotele, Platone) e che non offrono solo esempi di stile (come Cicerone). Oltre alla struttura dell’educazione Erasmo ha affrontato anche il problema relativo al valore dell’educazione, soffermandosi soprattutto sulle finalità di questa. A tal proposito egli ha affermato che la caratteristica che contraddistingue l’uomo è la ragione, la quale va coltivata costantemente perché essa è essenziale per realizzare la vera umanità. Questo compito di coltivazione spetta all’educazione, la quale deve essere impartita sin dalla tenera età, rispettando – pur sempre- la natura dell’individuo (ossia le sue doti fisiche e mentali). Per quanto riguarda l’insegnante Erasmo sostiene che questo deve avere il compito di individuare le diversità dei soggetti e in base a queste dar vita a delle modalità di insegnamento opportune. Inoltre egli sottolinea il ruolo fondamentale dei genitori e della comunità: i primi devono preoccuparsi dell’educazione dei figli; le comunità devono dar vita a delle scuole efficienti in quanto l’educazione è una funzione pubblica (pari a quella dell’esercito). Con la rottura dell’unità cattolica, provocata da Lutero, ripresero vigore le spinte di rinnovamento all’interno della Chiesa le quali trovarono uno sbocco positivo nell’elezione del pontefice Paolo III il quale dette istituì il famoso Concilio di Trento, proponendosi di dar corpo a tali richieste di rinnovazione. Il Concilio d Trento confermò i capisaldi della religione cattolica, definì nuovi compiti per gli ecclesiastici sia sul piano disciplinare che pastorale; diede un forte impulso agli studi biblici e teologivo-filosofici e favorì la nascita di ordini religiosi proponendosi 2 scopi: quello di frenare l’avanzata dell’eresia protestante e diffondere la religione cattolica in tutto il mondo. 32 lingua materna. Egli condannava l’apprendimento mnemonico in quanto ogni conoscenza doveva essere capita e sperimentata. ALSTED: egli riprende in considerazione l’ideale pansofico e il problema del metodo, che però ha riletto in chiave religiosa. Per Alsted attraverso l’educazione è possibile realizzare nel mondo la volontà di Dio ed egli ha elaborato un modello di insegnamento che si basava su dei presupposti di natura teorica: dio è il fondamento di tutto il sapere, mentre chi realizza il processo di apprendimento sono i testi e gli insegnanti. Inoltre questo autore ( a livello dell’organizzazione scolastica) distinse le scuole elementari da quelle superiori che si distinguevano in “demicae” (necessarie a tutti) e “accademicae” (o università). ANDREAE: nella sua opera di ispirazione utopistica egli si oppose allo studio mnemonico perché questo non arricchisce la mente dell’individuo e ha sollecitato l’uso – nelle scuole- dei migliori autori. Inoltre egli si è rifatto a Comenio quando ha parlato della centralità dell’educazione nell’uomo, del concetto di istruzione che dura tutta la vita e che è aperta a tutti. COMENIO L’aspetto più originale e significativo del pensiero pedagogico di Comenio coincideva col fatto che esso era permeato sia di innovazione che di tradizione. Infatti questo pensiero pedagogico comprende – da un lato- una serie di ideali di derivazione medioevale (come quello della pianificazione universale e dell’organizzazione pansofica del sapere); dall’altro numerosi motivi di base che hanno reso Comenio il grande innovatore e anticipatore dei problemi e delle soluzioni educative della modernità. Questi problemi sono: - lo stretto legame tra le problematiche educative e quelle generali dell’uomo; - la centralità dell’educazione nello sviluppo sociale; - l’esistenza di un metodo universale d’insegnamento; - il concetto di un’istruzione aperta a tutti e che duri tutta la vita; - la concezione unitaria del sapere; - l’impegno per un’educazione alla pace e alla concordia tra i popoli. Inoltre la grandezza di Comenio è stata riconosciuta anche nella sua capacità di essere uno spirito luminoso in un’età difficile, fatta di guerre e persecuzioni e coincidente con la famosa guerra dei Trent’anni. Infatti, nonostante questo clima poco favorevole, il pedagogista ceco diede vita ad un rinnovamento universale della cultura e della società, mettendo al centro il ruolo creativo dell’educazione; sviluppò una concezione educativa che prendeva in considerazione sia i problemi teorici che pratici e, infine, affermò la dignità e la priorità dell’educazione. Alla luce di ciò Comenio si rese conto che se l’educazione doveva far venir fuori e sviluppare il suo potenziale educativo era necessario che la pedagogia si staccasse dalla filosofia e dalla teologia e cominciasse a riconoscere la propria autonomia, fondandosi su principi e criteri fondati sia dal punto di vista scientifico che da quello relativo alla conoscenza. Comenio nacque in Moravia da una famiglia appartenente alla setta religiosa dei Fratelli Boemi e fu ordinato sacerdote nel 1616. Egli ha vissuto a pieno la guerra dei Trent’anni e nonostante le diverse vicende dolorose legate al conflitto non ha mai abbandonato la sua idea di realizzare un ordine e una pacificazione universale attraverso – proprio- l’educazione. I primi lavori di Comenio sono stati degli scritti divulgativi (come l’enciclopedia universale e il vocabolario della lingua boema, nati per fornire al popolo boemo gli strumenti necessari per riconoscersi nella propria storia) e dopo le diverse lotte politico-religiose che ebbero luogo in Boemia, egli fu costretto a 35 fuggire dalla sua città e intraprendere un percorso di pellegrinaggio in tutta Europa, che terminò con la sua morte. Tuttavia questa condizione di pellegrino fece maturare in Comenio nuove prospettive culturali e lo spinse verso la costruzione di una scienza universale in grado di produrre quella pacificazione universale verso la quale egli tanto mirava. La concezione pedagogica di Comenio si fondava su un ideale religioso che concepisca l’uomo e la natura come manifestazioni di un disegno divino e Dio come il centro della vita dell’uomo. Da ciò si evince che il progetto pedagogico di Comenio e le sue riforme di innovazione della società e della scuola erano permeate da una forte carica religiosa e da una connotazione utopica che lo indusse a protendere verso la realizzazione di una pace universale. Su questa concezione dell’uomo Comenio ha edificato il suo progetto educativo, presentandosi come un grande innovatore e sistematore del discorso pedagogico in quanto è stato in grado di conciliare gli aspetti tecnici della formazione con una complessiva riflessione sull’uomo. Per il pedagogista ceco la formazione doveva avvenire sin dalla tenera età all’interno delle istituzioni scolastiche, le quali per essere efficienti dovevano essere organizzate secondo il modello di scuola comeniano e puntare su di un’educazione che si realizza con dolcezza e delicatezza. Inoltre Comenio ha affermato l’esigenza di un’educazione universale, che non faccia differenza di sesso o di classe di appartenenza; e per quanto riguarda i contenuti di tutto il sapere egli ha affermato che – siccome non si può avere una conoscenza approfondita su tutto il sapere- è necessario conoscere i fondamenti, i fini e le ragioni di quelle discipline che riguardano l’uomo. Nella sua opera Didactica Magna e – successivamente- anche nella Consultatio egli ha messo in luce il fine dell’educazione universale e i punti principali del suo metodo, che è un metodo ciclico ( in ogni ciclo scolastico bisogna insegnare le stesse materie con un maggior approfondimento mano a mano che si va avanti) attraverso il quale insegnare tutto a tutti. Alla base della Consultatio c’è la convinzione che l’ideale pansofico dell’unità del sapere universale passa attraverso la ricomposizione unitaria della sapienza cristiana la cui universalità è stata messa in crisi da una serie di contrasti politico-religiosi che caratterizzano la comunità cristiana e gli stati richiamatisi al Cristianesimo. Da qui è nata la proposta di una riunione di tutti i cristiani per una riforma di tutte le cose. La pansofia, che costituisce l’unitarietà di tutti i saperi, si realizza (secondo Comenio) attraverso la pampaedia (ossia un educazione universale) che la trapianta nella mente, nei sentimenti, nei discorsi e nelle azioni di ciascun individuo per raggiungere il fine altissimo della pacificazione universale. La pansofia costituisce la parte centrale della Consultatio in cui, oltre a definirsi il fine ultimo dell’educazione (ossia la formazione universale di tutto il genere umano), vengono presentati anche i metodi e i mezzi per raggiungerlo . Per quanto riguarda il metodo esso – oltre ad essere ciclico- deve utilizzare i momenti dell’analisi, della sintesi e della sincresi in modo da accrescere la conoscenza e consentire al soggetto di comprendere l’armonia delle cose e la loro relazione con il tutto. Infine un’altra parte importante della Consultatio è la Panglottia, che individua nella lingua il mezzo necessario per l’insegnamento universale. nascita della scuola moderna Nel corso del 1600 anche la scuola si rinnovò, assumendo i caratteri della scuola moderna: organizzata in modo capillare, gestita dallo Stato, capace di formare l’uomo- 36 cittadina, l’uomo-tecnico e non solo il perfetto cristiano o il buon cattolico. Essa assunse, nei paesi più moderni (come la Francia) un ruolo più specializzato, come nei collegi rivolti alla formazione della futura classe dirigente, ma anche più popolare in quanto cominciarono ad affermarsi delle scuole popolari ( affidate alla chiesa9 che cercavano di eliminare il problema dell’analfabetizzazione. Inoltre la scuola cominciò ad essere razionalizzata al suo interno in modo da poter rispondere meglio ai fini di interculturazione dei giovani e di trasmissione delle conoscenze e – infine- si articolò su tre binari: quello pubblico-statale, quello religiosi-ecclesiastico e quello privato che spesso sono entrati in conflitto tra loro. In questo modo cominciò a delinearsi il sistema scolastico moderno, caratterizzato – in primis- da un’articolazione tra scuola elementare, scuola media e scuola superiore o universitaria; in secondo luogo da una pratica didattica strutturata intorno alla spiegazione/interrogazione e all’elaborato- esercizio, giungendo – poi – all’esame finale. Per quanto riguarda i metodi essi vengono creati prestando attenzione ai processi naturali di apprendimento, i quali partono dal concreto per giungere all’astratto; per quanto riguarda l’ampliamento dei programmi ciò fu messo in atto introducendo in esso nuove materie e, nella scuola moderna, si esaltava molto l’utilizzo di libri di testo che però dovevano essere chiari. Inoltre la scuola moderna venne sottoposta a sistemi di controllo e pianificazione (appello, registri) che costituiscono degli aspetti fondamentali anche da un punto di vista formativo. Quindi nel corso del 1600 la scuola si è razionalizzata, riorganizzata e laicizzata subordinandosi – sempre più - allo Stato e al potere politico, che ne esalta la funzione e l’ideologia. 4. IL SETTECENTO Il ‘700 è stato segnato da una grande trasformazione pedagogica, la quale ha posto l’educazione come uno strumento di formazione sia della mente che della morale dell’uomo borghese. Questa ventata di innovazione pedagogica è stata spinta dall’affermazione e la diffusione delle idee degli illuministi, i quali delinearono un rinnovamento dei fini dell’educazione, dei metodi e delle istituzioni. Fra queste la prima è stata la scuola che doveva diventare statale e doveva proporre programmi di studi funzionali all’uomo moderno. Questa rinnovazione pedagogica attraversò tutta l’Europa, differenziandosi nelle diverse aree nazionali. FRANCIA: In Francia l’illuminismo produsse le teorie pedagogiche più innovatrici e organiche del secolo ed espresse anche le soluzioni più radicali. Tra i diversi esponenti di questo processo di trasformazione pedagogica i più importanti sono stati: - La Chalotais (rappresentante della borghesia), il quale nella sua opera “Saggio di educazione nazionale” delineò il principio di un’educazione nazionale opponendosi alla cultura, alla formazione e ai collegi dei Gesuiti; - Diderot e D’Alambert nell’Enciclopedia sostengono che l’educazione è utile alla società e allo Stato e deve essere impartita in scuole rinnovate nei curriculum (che devono avere meno latino e più scienze e storia) e che prendono come modello la scuola militare. Inoltre D’Alambert esaltava la scienza come modello di formazione intellettuale; - Voltaire polemizzò contro i Gesuiti e si oppose alla cultura religiosa come modello formativo, contrapponendo ad essa una sapere utile e una formazione civil; - Etienè de Condillac: famoso per le sue idee psicologiche le quali delinearono un itinerario formativo di stampo sensista, risvegliando tutte le capacità umane attraverso l’uso del tatto. In questo itinerario c’era la convinzione pedagogica secondo 37 infantile. Tutto ciò generò delle conseguenze importanti: innanzitutto risultava necessario modificare il metodo dell’educazione, il quale doveva mettere al centro del processo il bambino stesso; in secondo luogo tale educazione doveva avvenire in modo “naturale”, ossia allontanando il bambino dalla società e portarlo in un posto dove questo potesse vivere a contatto con elementi semplici e potesse essere guidato da un precettore. Tuttavia è importante sottolineare che il termine “natura” nel pensiero pedagogico di Rousseau poteva assumere 3 significati diversi: 1 natura = opposizione a ciò che è sociale; 2 natura = valorizzazione dei bisogni dei bambini e dei liberi processi di crescita; 3 natura = continuo contatto con un ambiente naturale e non urbano. Sul terreno educativo nell’opera si delineano delle innovazioni molto originali, ma tra queste si distinguono 3 aspetti particolarmente importanti: 1. Valorizzazione dell’infanzia, intesa come un’età autonoma e dotata di caratteri e finalità specifiche e diversi da quelli dell’età adulta; 2. Il forte legame tra motivazione e apprendimento posto al centro del processo formativo intellettuale e morale di Emilio; in quanto Rousseau si rese conto che si può parlare di vero apprendimento solo nel momento in cui esso si muove da un interesse; 3. Attenzione rivolta all’antinomicità e alla contraddittorietà del rapporto educativo; tra libertà e autorità nell’atto educativo non c’è esclusione ma una sottile dialettica. Oltre a queste prospettive innovatrici il pensiero di Rousseau fu influenzato anche da altre tradizioni educative, come quella spartana e plutarchiana e quella legata a Locke e a Condillac; e alla base del suo romanzo pedagogico si apre un’aspra polemica contro le pedagogie del suo tempo, e in particolar modo contro quella dei Gesuiti e contro quella legata all’educazione aristocratica. Ai Gesuiti Rousseau rinfacciava l’artificiosità della loro educazione, troppo intellettuale, autoritaria e legata al libro. All’educazione aristocratica, invece, Rousseau rimproverava il fatto di spingere i giovani verso le pratiche innaturali delle buone maniere e della conversazione, trascurando i loro bisogni e le caratteristiche della loro età. L’opera di Rousseau è particolare perché immagina di seguire il processo di crescita e di formazione del fanciullo (= Emilio) dalla nascita sino al matrimonio. Nel romanzo Emilio viene condotto in campagna dove, sotto la guida di un precettore-amico, maturerà lentamente appropriandosi- però- di quelle cognizioni che gli sono più utili le quali verranno apprese nel momento in cui l’individuo sarà pronte (da un punto di vista cognitivo) a farle proprie. In questo percorso il ruolo del precettore è quello di ritardare il più possibile gli apprendimenti, in modo da evitare qualsiasi anticipazione maturativa e far vivere ad Emilio l’età infantile a pieno. Tuttavia il precettore deve anche guidare il fanciullo, correggerlo, impedire che intraprenda strade negative e indirizzarlo verso dei comportamenti il più possibile naturali. Il fine di tutto questo itinerario educativo coincideva – x Rousseau- con la formazione dell’uomo in quanto tale perché questo tipo di educazione renderà il giovane capace di adempiere qualsiasi ruolo che gli verrà assegnato. La formazione dell’uomo naturale si compie (secondo Rousseau) in 5 fasi, le quali sono descritte nei 5 libri che compongono il suo romanzo pedagogico. Il primo libro è dedicato all’infanzia, un’età che si conclude con la capacità di articolare discorsi organici e che è caratterizzata da un allevamento igienico e capace di non creare nel bambino delle abitudini innaturali. Il secondo libro è dedicato alla puerizia (che va dai 3 ai 12 anni) la quale viene presentata come 40 un’età caratterizzata da debolezza, dipendenza, curiosità e libertà che deve essere ben regolata. Essa è un’età pre-morale e pre-razionale durante la quale il precettore perda tempo e che –nello stesso tempo-faccia apprendere al giovane delle nozioni di base attraverso l’esperienza. Da ciò si evince che Rousseau era contro qualsiasi forma di istruzione precoce e che si proponeva come obbiettivo educativo la formazione del corpo e il corretto uso dei sensi, con rari elementi di istruzione di tipo scolastico. Il terzo libro è dedicato alla pre-adolescenza, periodo di vita che Rousseau definì età dell’utile, durante la quale si poteva iniziare lo studio di nozioni limitate ma giuste. In questo periodo la formazione avviene attraverso delle lezioni che non sono astratte, ma che si legano all’esperienza; il metodo di studio deve essere empirico e l’unico libro da poter leggere è il Robinson Crusoe, in cui si rispecchia l’autosufficienza del fanciullo in questa età e la sua curiosità. Inoltre al giovane viene insegnato un lavoro, utile per abituarlo a sottoporsi a delle regole, ad entrare in contatto con gli altri e ad essere autonomo da un punto di vista economico. Il quarto libro è dedicato all’adolescenza la quale è un’età particolare perché si risvegliano – nel giovane- tutte le passioni e si manifesta nell’amicizia e nella pietà una prima attenzione verso gli altri uomini. In questo periodo possono cominciare ad essere affrontati la storia, la morale e la religione e – molto importante- è la “professione di fede del vicario savoiardo” la quale deve spingere l’adolescente a ricercare una visione religiosa del mondo assolutamente personale. Nell’adolescenza si giunge al momento in cui parlare di giovane o ragazzo non è più opportuno. Infatti- in questo periodo- ci si fa riferimento ad un uomo che può innamorarsi e cercare la sua Sofia (ossia la sua donna ideale). Il quinto libro è dedicato alla storia d’amore tra Emilio e Sofia, anch’essa guidata dal precettore, e che si conclude con l’impegno di Emilio nell’essere precettore del figlio. Oltre a questa storia d’amore il quinto libro di questo romanzo è importante perche Rousseau ha preso in considerazione altri 2 tipi di educazione: l’educazione della donna e un’educazione sociale e politica per Emilio. Per quanto riguarda l’educazione della donna essa si indirizzava verso un’unica direzione: la formazione di una moglie e di una madre. Pertanto anche se la donna venia esaltata come modello di virtù e saggezza, essa occupava sempre una posizione subalterna rispetto a quella dell’uomo. La seconda educazione, e cioè quella sociale e politica si otteneva compiendo numerosi viaggi e studiando i caratteri dei vari popoli e le diverse lingue. Oltre al modello dell’educazione nazionale Rousseau ha dato importanza ad altri due modelli: l’educazione negativa e l’educazione indiretta. L’educazione negativa teorizza un non intervento dall’educatore, il quale deve accompagnare la crescita del fanciullo, allontanarlo dalle influenze negative della società e – eventualmente- correggerlo attraverso l’esempio. Infatti sarà stesso la crescita ad alimentare la curiosità e la voglia di scoprire nuove nozioni da parte del fanciullo, ed è per questo che Rousseau concedeva ad Emilio una libertà regolata la quale è fondamentale per l’apprendimento perché da un lato permette al giovane di esprimere la propria libera iniziativa; dall’altro consente al precettore di tenere costantemente sotto controllo il giovane. Inoltre l’apprendimento – secondo il filosofo ginevrino- doveva avvenire attraverso il contatto con le “cose” ed è per questo che egli ha parlato anche di educazione indiretta. Tuttavia è importante mettere in luce il fatto che se da un lato l’educazione naturale e negativa è stata molto esaltata in diverse pagine, dall’altro è stata messa in ombra in alcuni passi del testo in cui Rousseau ha richiamato l’importanza di un’azione di intervento da parte dell’educatore e ad un ruolo autoritario che egli deve assumere. Quest’ultimo aspetto entrava esplicitamente in contrasto con il pensiero pedagogico che Rousseau ha espresso nell’Emilio e per questo motivo il filosofo è stato molto 41 criticato e accusato di essere poco coerente; ma una critica più costruttiva è stata portata avanti da un certo numero di interpreti i quali hanno visto in questa contraddizione la consapevolezza della complessità e della antinomicità che vigono in ogni atto educativo. Degli studi più recenti hanno messo in evidenza che Rousseau nella sua opera più matura ha delineato due modelli pedagogici diversi tra loro e talvolta opposti. Questi sono: il modello dell’educazione naturale e libertaria e il modello dell’educazione sociale e politica, svolta dallo Stato e legata al principio di conformazione sociale. Questa opposizione tra educazione dell’uomo ed educazione del cittadino già fu presentata da Rousseau nell’Emilio, in cui la seconda è stata svalorizzata perché in una società dove manca l’istruzione pubblica non c’è patria; e dove non c’è patria non ci sono nemmeno cittadini da educare. Al contrario, in quelle società dove è possibile restaurare uno spirito nazionale l’educazione del cittadino veniva considerata quella più giusta e più praticabile. Da ciò si evince che i due modelli presentati da Rousseau non rappresentavano due fasi del suo pensiero, piuttosto due vie per attuare la rinascita della società e dell’uomo morale. Pertanto la via dell’Emilio doveva essere applicata in quelle società complesse e – ormai – troppo corrotte; mentre la via delle Considerazioni ( opera in cui il filosofo ginevrino ha esposto il modello dell’educazione politico-sociale) doveva essere applicata in quelle società non troppo vaste, basate su un’economia primitiva e caratterizzate da una forte coesione tra i vari gruppi sociali. Dall’analisi di tutto questo è possibile affermare che i due modelli sono molto diversi e che Rousseau preferiva quello dell’educazione politco-sociale, anche se il pensiero pedagogico moderno è stato profondamente influenzato dal modello educativo presente nell’Emilio, che dopo essersi diffuso in tutta Europa ha spinto la pedagogia a seguire un altro percorso, soffermandosi su problematiche che precedentemente venivano ignorate e valorizzando una nuova visione sia del fanciullo che del precettore. Oltre al modello dell’educazione nazionale Rousseau ha dato importanza ad altri due modelli: l’educazione negativa e l’educazione indiretta. L’educazione negativa teorizza un non intervento dall’educatore, il quale deve accompagnare la crescita del fanciullo, allontanarlo dalle influenze negative della società e – eventualmente- correggerlo attraverso l’esempio. Infatti sarà stesso la crescita ad alimentare la curiosità e la voglia di scoprire nuove nozioni da parte del fanciullo, ed è per questo che Rousseau concedeva ad Emilio una libertà regolata la quale è fondamentale per l’apprendimento perché da un lato permette al giovane di esprimere la propria libera iniziativa; dall’altro consente al precettore di tenere costantemente sotto controllo il giovane. Inoltre l’apprendimento – secondo il filosofo ginevrino- doveva avvenire attraverso il contatto con le “cose” ed è per questo che egli ha parlato anche di educazione indiretta. Tuttavia è importante mettere in luce il fatto che se da un lato l’educazione naturale e negativa è stata molto esaltata in diverse pagine, dall’altro è stata messa in ombra in alcuni passi del testo in cui Rousseau ha richiamato l’importanza di un’azione di intervento da parte dell’educatore e ad un ruolo autoritario che egli deve assumere. Quest’ultimo aspetto entrava esplicitamente in contrasto con il pensiero pedagogico che Rousseau ha espresso nell’Emilio e per questo motivo il filosofo è stato molto criticato e accusato di essere poco coerente; ma una critica più costruttiva è stata portata avanti da un certo numero di interpreti i quali hanno visto in questa contraddizione la consapevolezza della complessità e della antinomicità che vigono in ogni atto educativo. 42 rompere con le loro tradizioni e ad operare un rinnovamento radicale in ogni campo. La contemporaneità è stata definita anche età dell’industrializzazione perché la “rivoluzione industriale” ha mutato profondamente l’economia –prima dell’Inghilterra - e poi dell’Europa a causa della nascita di un sistema di fabbrica, della produzione su larga scala e di un libero mercato esteso in tutto il globo. Inoltre tali mutamenti economici ebbero delle ripercussioni anche sul piano sociale in quanto – con la nascita delle industrie- emerse una nuova classe sociale il proletariato e ci fu una grande emigrazione dalle campagne alle città, la quale comportò anche un cambiamento delle ideologie e degli stili di vita. La contemporaneità è stata definita- ancora- età dei diritti in quanto a partire dal 1789 sono stati riconosciuti ( su di un piano teorico) e affermati ( su di un piano pratico) , attraverso un processo concentrico e non lineare, una molteplicità di diritti: i diritti dell’uomo, del cittadino, della donna, del bambino, degli animali, della natura, ecc. La contemporaneità è –poi- età delle masse. Il concetto di massa è nato con l’età napoleonica e l’emergere del proletariato e in questo periodo esse cominciarono a sentire l’esigenza di assumere un loro ruolo nella storia e di affermare i propri ideali. Nella società contemporanea le masse si sono ribellate per affermarsi come nuova classe sociale e appropriarsi del potere il quale era radicato nelle mani di un elitè che per coscienza non si distaccava dal suo antagonista ( le masse). Da ciò si evince che la contemporaneità ha prodotto le masse, che hanno invaso la vita sociale con il loro spirito utilitario e consumistico, e i mezzi necessari per controllarle. Infine la contemporaneità si è presentata – anche – come età della democrazia o, più precisamente, come età della ripresa della democrazia in quanto questa forma di governo già fu attuata nella Grecia di Pericle. Il cittadino della democrazia era l’uomo borghese dotato di autonomia, opinioni e di beni; e di conseguenza esso si configurava anche come soggetto politico con pieni diritti. In questo secolo dar vita ad una forma di governo democratica significava prendere in considerazione il trattato di Montesquie, il quale aveva parlato di divisione dei poteri, e metterlo in atto intendendo – così- per democrazia sia un’organizzazione specifica dello Stato; sia una precisa strutturazione della vita sociale. Questo modello si diffuse progressivamente in tutta Europa (partendo dall’Inghilterra), ma sono stati soprattutto gli Stati Uniti a dare un volto moderno alla democrazia, anche perché prima della rivoluzione francese c’era stata la rivoluzione americana. Nonostante tutto le tensioni rivoluzionarie, le trasformazioni economiche legate all’industrializzazione, l’affermazione dei diritti dell’uomo e i processi di ribellione delle masse, e – infine- la rinascita della democrazia hanno provocato , nel 1800, un cambiamento della cultura e – di conseguenza- un cambiamento della pedagogia e dell’educazione. In questo contesto la pedagogia/educazione occupò un ruolo specifico: quello di mediatore e riequilibratore nella vita sociale; pertanto l’età contemporanea può essere – ancora – definita come l’età d’oro dell’educazione e, più precisamente dell’educazione sociale la quale si è rimodellata secondo un nuovo modello teorico che integrava scienza e filosofia, sperimentazione e riflessione critica. Nell’età contemporanea la pedagogia ha assunto un ruolo sociale sempre più centrale il quale si è manifestato – prima di tutto- nella dipendenza alle ideologie di una società e – in secondo luogo- nella costruttività. Ciò significa che da un lato la pedagogia/educazione si collocava come un momento all’interno delle ideologie, dalle quali dipendeva; dall’altro essa si presentava come produttrice e divulgatrice di tali ideologie. A tal proposito molto importanti sono le parole di Althusser il quale ha affermato che la pedagogia è il luogo della diffusione sociale di un’ideologia, tramite l’istituzione scolastica e la sua azione prolungata nel tempo. Dall’analisi di ciò si evince che sia la pedagogia che l’educazione, nell’età 45 contemporanea, sono state caratterizzate da questa forte simbiosi con l’ideologia, scoperta dal marxismo. Da Marx in poi è stata fatta una lunga riflessione sull’ideologia, sul suo statuto e sulla sua funzione nella società che – in seguito- ha coinvolto anche la pedagogia, la quale è andata acquisendo un ruolo sempre più centrale nella società tanto da farsi carico degli obiettivi ideologici di essa e della trasmissione di saperi, comportamenti e atteggiamenti mentali. Inoltre – nell’età contemporanea – è stata messa in luce la funzione politica della pedagogia e il suo collocarsi all’interno della nicchia della società, da dove si è impegnata a riarticolare la società stessa. Questo legame tra ideologia e pedagogia ha influenzato anche i processi educativi, i quali si sono connotati in una forma più ideologica: la famiglia, assumendo il carattere di “famiglia nucleare” e perdendo qualsiasi ethos e cultura, si è aperta sempre di più; la scuola ha cominciato ad agire proponendosi delle finalità socio-politiche; il tempo libero è stato sottratto ai riti e alle usanze religiose per essere affidato ad associazioni economiche, sindacali e statali come i Boys Scaut. Inoltre il processo di ideologizzazione che ha investito la pedagogia ha avuto come effetto quello di porre al centro della riflessione sull’educazione il rapporto tra educazione e società, e cioè la dipendenza di qualsiasi tipo di teorizzazione pedagogica o progetto educativo ad un particolare tipo di società. Il rapporto educazione- società è stato un grande tema/problema della pedagogia contemporanea e, ancora oggi, continua ad essere una questione aperta in riferimento alla quale si ipotizzano soluzioni diverse e contrapposte. Inoltre il nesso tra pedagogia e ideologia ha sottolineato – sempre di più – il rapporto simbiotico che si è costruito- nell’età contemporanea- tra la pedagogia e la politica, il quale ha spinto la pedagogia ad essere uno dei castelli fondamentali del fare politica. La questione legata a tale rapporto è stato presa in considerazione già da Gramsci, il quale nella sua opera “Quaderni del carcere” ha scritto che l’azione pedagogica, finalizzata alla costruzione dell’egemonia utile all’attuazione di un lavoro politico progressista, doveva essere capillare e organica (ossia toccare diverse istituzioni: scuola, stampa, ecc.) e doveva essere rivolta a tutti. Ma tale rapporto è stato particolarmente enfatizzato dai totalitarismi del XX secolo. i nuovi soggetti dell’educazione La contemporaneità è passata alla storia come un’età contrassegnata dalla crescita di nuovi soggetti educativi, che hanno comportato dei mutamenti radicali nell’ambito teorico dell’educazione. Questi nuovi soggetti sono stati: il bambino, la donna e l’handicappato, a cui si sono aggiunti – molto recentemente- le etnie e le minoranze culturali; e la loro nascita è stata importante perché essi hanno rotto il modello educativo tipico dell’antica Grecia, il quale si rivolgeva solo al soggetto adulto e maschio. IL BAMBINO: Anche se già nel periodo dell’Umanesimo e del Rinascimento si verificò una “scoperta dell’infanzia” è stato nel corso del 1800 che, grazie alle scienze umane e alle istituzioni educative borghesi che il bambino ha assunto un ruolo sempre più centrale nell’educazione in quanto non è stato più concepito come un adulto in miniatura, bensì come un soggetto unico, diverso dall’adulto e caratterizzato da aspetti particolari e valori propri. In questo modo il bambino è diventato il soggetto da educare per eccellenza, ed è per questo motivo che nell’800 cominciarono ad essere reclamati gli “asili infantili” da istituire accanto alla scuola, in quanto si giunse alla consapevolezza che è proprio nell’età prescolare che si forma la personalità 46 dell’individuo. Di conseguenza la pedagogia si fece puerocentrica, attenta al valore dell’infanzia e a quello del gioco. A tal proposito curioso è il paradosso messo in luce dalla Montessori “il bambino è padre dell’uomo”, il quale è stato ripreso anche in altre forme culturali (come la letteratura: Wordsworth esprime questo paradosso nella sua poesia “My heart leaps up” per indicare che il bambino è già in potenza l’uomo che sarà). Infine se l’800 è stato il secolo della scoperta del valore dell’infanzia, il ‘900 è stato il secolo del fanciullo, della sua conoscenza e del suo riscatto. LA DONNA: Anche la donna – nell’età contemporanea – non ha accettato più il suo ruolo subalterno all’uomo e ha cominciato ad affermarsi sempre di più al centro della scena educativa, tanto che il problema dell’educazione femminile e dell’istruzione delle donne si sono imposti con fermezza all’attenzione di tutta la società. L’educazione si delineava come emancipazione della donna, la quale mirava al raggiungimento della parità (con l’uomo) e al riconoscimento di una funzione all’interno della società. Questo riscatto si poteva ottenere facendo frequentare alle donne le scuole di ogni ordine e grado e concedendo anche ad esse l’accesso in tutte le istituzioni maschili del tempo libero, in modo da favorire un’integrazione delle donne nella vita sociale e una loro socializzazione non subalterna. Ma, nel corso degli anni, l’obiettivo dell’emancipazione e della parità non è stato raggiunto; e ad esso è stato sostituito quello della differenza che ha posto l’accento sull’autonomia femminile e sui valori che lo ispirano. Pertanto è stata attuata un’educazione tutta al femminile, diversa da quella maschile, che – nonostante tutto- ha messo in crisi il modello educativo maschile il quale non poteva essere considerato più superiore a quello femminile. L’HANIDCAPPPATO: Già a partire dal Settecento il diversamente abile è stato messo al centro di una pedagogia del recupero finalizzata ad una sua normalizzazione. Nell’800 le tecniche del recupero sono migliorate e si sono specializzate grazie a Séguin e alla Montessori, i quali partivano dai sensi e da questa loro esperienza educativa con i diversamente abili pensarono di attuare le stesse metodologie didattiche con questi anche con i bambini normodotati. Infine nel corso dell’800 e del ‘900 queste tecniche di recupero si sono sviluppate sempre di più grazie alla nascita della psicoanalisi e della psichiatra infantile. In questo modo il diversamente abile cominciò ad essere integrato tra gli altri, rendendolo protagonista di un processo educativo e facendolo entrare all’interno di istituzioni educative e scolastiche (sempre attraverso un processo progressivo), e – nello stesso tempo – nacque una pedagogia di recupero sempre più specializzata, ma – nello stesso – connesse alle tematiche della pedagogia. ETNIE E MINORANZE CULTURALI: Con il colonialismo e la decolonizzazione è nato il problema del dialogo educativo tra etnie diverse, mentalità asimmetriche e culture disomogenee e il problema relativo al fatto di come poter acculturare questi gruppi etnici, sociali considerati inferiori. Tutti questi aspetti hanno spiazzato – nel corso del’800- la pedagogia la quale si è ritrovata a ripensare i propri obiettivi e i propri valori e ad aprirsi ad un confronto basato sulla tolleranza, la quale vede la differenza non in modo negativo bensì come un qualcosa dal quale si possono imparare cose nuove e interessanti. Attraverso l’emersione di questi nuovi soggetti e il risveglio dell’emarginalità il modello educativo univoco, ideologico ed egemonico tipico dell’800 entrò in crisi, ed è per questo che si ritrovò costretto a sottoporsi ad una revisione radicale e ad un rinnovamento. In poche parole nacque la necessità di dar vita ad un numero diverso di pedagogie pari al numero diverso dei soggetti. 47 movimento dell’attivismo e dal marxismo i quali erano coscienti che questa sarebbe stata un’operazione difficile. Infatti al giorno d’oggi il problema relativo al rapporto istruzione-lavoro ha perso la sua centralità e molta importanza, nell’ambito educativo, è stata data all’istruzione in quanto la formazione dei giovani deve coincidere con la trasmissione di competenze professionali e comportamenti adeguati e conformi alle richieste socio-economiche. In questo modo il lavoro, nella scuola contemporanea, è stato spiazzato del tutto in quanto non viene visto più come il suo baricentro anche se è ancora acceso un dibattito relativo alla ricerca di un nuovo asse culturale atto ad organizzare i saperi scolastici e a renderli formativi. Infine va sottolineato che anche se l’uomo moderno (nato dalla nostra tradizione) è contrassegnato dalla praxis e dal lavoro, l’istruzione ha sempre un carattere più centrale in quanto in una società complessa – come quella contemporanea- la riproduzione di un mercato di lavoro dipende da una conoscenza tecnica e teorica. la scuola e le riforme Un altro carattere che ha attraversato la contemporaneità è stato il rinnovamento dell’organizzazione scolastica e l’attuazione di una serie di riforme. A partire dal 1700 la scuola è stata sottoposta ad una revisione,riprogettazione e riorganizzazione in vista di una maggiore funzionalità sociale,legata sia all’ideologia che sottendeva il potere sia all’efficienza nel rispondere ai bisogni posti dalla società. In questo modo la scuola è stata ristrutturata adeguandola alla società che l’attraversa e rendendola,sempre di più, un’istituzione centrale della vita sociale. La scuola è diventata obbligatoria,gratuita e statale(o quasi). Un carattere centrale della legislazione degli stati moderni è stato l’obbligo di frequenza per tutti i cittadini,almeno a livello della scuola popolare la quale fornisce al soggetto le qualità tipiche del cittadino moderno(sentirsi parte di uno stato,riconoscere le leggi dello stato,difendere lo stato e promuovere il suo sviluppo). Il principio dell’obbligo scolastico è stato attuato nei vari stati europei -compresa l’Italia – gradualmente: prima c’è stata la legge Casati;poi la legge del 1962 che ha innalzato l’obbligo fino al 14° anno destinato,però,ad aumentare fino al 16° anno. Anche la gratuità è stato un principio che ha accompagnato la crescita della scuola,ponendola al servizio di tutti e rendendola socialmente decisiva per un risveglio delle masse popolari e di una loro partecipazione alla vita economico-politica della società. Con la gratuità le famiglie(che mantenevano i figli a scuola) pagavano delle tasse simboliche e ricevevano dei sussidi e dei contributi. Infine un altro aspetto della scuola contemporanea è stato la statalità, ossia il controllo dell’istruzione da parte dello stato,che si è fatto carico della scuola per sottrarla dalle diverse influenze ideologiche e per renderla una scuola aperta a tutti. La statalità,anche se non ha salvato l’istituzione scolastica dalle pressioni ideologiche,è stata pur sempre una conquista per la scuola contemporanea in quanto ha laicizzato l’insegnamento e ha valorizzato il suo aspetto critico e razionale. Un altro carattere importante è stato quello della differenziazione,e cioè dell’articolazione interna della scuola in ambiti e settori diversi da un punto di vista culturale in modo da poter mettere a disposizione delle diverse classi sociali degli istituti atti a rispondere alle loro esigenze. In Italia si è cercato di favorire questa differenziazione – all’interno della scuola - sino all’età Giolittiana,ma con la riforma fascista la scuola è stata bloccata in una struttura “a canne d’organo” che solo alla 50 fine degli anni ’60 è stata rimessa in discussione. Accanto a questi caratteri la scuola degli ultimi secoli fu invasa da una profonda irrequietezza, da un’insoddisfazione e un’esigenza di mutamento continui finalizzati a rendere più saldo il rapporto scuola- società in modo che la prima sia più agile e mobile nei confronti di una comunità soggetta a costanti trasformazioni. Pertanto la scuola contemporanea, così intrigata col politico e cos’ immersa nel sociale, rischia di essere sottoposta ad un duplice modello: uno che la mette in luce come istituzione tecnica e professionalizzante; l’altro che – invece – la mette in luce come istituzione formativa e culturale finalizzata alla promozione della formazione intellettuale, morale e sociale dell’individuo. Il sapere pedagogico: scienza, politica e filosofia Nell’età contemporanea anche il sapere pedagogico ha subito una serie di trasformazioni radicali: 1) si è emancipato in modo netto dalla metafisica; 2) si è articolato intorno ad una rete di saperi scientifici; 3) si è staccato dalla filosofia, che si è fatta regionale nel discorso pedagogico occupando una piccola parte (comunque importante); 4) si è rivelato interconnesso con il politico e l’ideologico. In sintesi la pedagogia ha assunto l’aspetto di un sapere complesso, plurale, problematico e in continuo divenire. Uno degli aspetti fondamentali – che ha caratterizzato la trasformazione del sapere pedagogico- è il declino del modello metafisico, iniziato già tra ‘600 e ‘700 con Locke e cresciuto mano a mano nel corso del tempo (passando per Kant, Rousseau, il Romanticismo, il Positivismo e giungendo sino al secolo scorso dove era rimasto ad appannaggio dell’idealismo, del pensiero cattolico, ecc.). Un altro punto nodale – che è cambiato- coincide con il ruolo centrale che per secoli ha avuto la filosofia nell’ambito del discorso pedagogico. Infatti la pedagogia – fino all’800- poteva essere considerata “ancella della filosofia”, ma con lo sviluppo del pensiero contemporaneo questa disciplina ha sentito il bisogno di richiamarsi alla scienza e non alla filosofia, e ciò si è manifestato come richiamo ad una molteplicità di scienze ( psicologia, sociologia, antropologia, statistica, biologia e più recentemente cibernetica) dalle quali la pedagogia ha tratto una serie di contributi indispensabili per affermare il suo statuto epistemologico. In questo contesto di innovazione lo spazio della filosofia non è scomparso, ma si è specializzato in quanto ad esso è stata delegata la riflessione sul rigore scientifico della pedagogia; il politico è stato sottoposto ad una revisione, e cioè ad un controllo razionale/critico fatto dalla stessa filosofia e – infine – è stata rimossa l’autorità dell’ideologia sul sapere educativo. Alla luce di tutto ciò, ossia tra antimetafisica, il passaggio dalla pedagogia alle “scienze dell’educazione” con laì’assemblea di Hoods Hale, l’elaborazione filosofico-critica e la dis-ideologizzazione, il sapere pedagogico è diventato: - un sapere non lineare e molto complesso al suo interno; - un sapere dotato di uno statuto logico plurale e, di conseguenza, instabile e incerto; - un sapere controllabile attraverso una pluralità di procedure. 2. L’OTTOCENTO: IL SECOLO DELLA PEDAGOGIA L’800 è stato riconosciuto come il secolo del trionfo della borghesia, ma nello stesso tempo è stato anche il secolo della grande paura borghese che spesso si è sentita minacciata dal socialismo-comunismo. Pertanto il XVII secolo è stato caratterizzato da una profonda lotta di classe che ha investito le politiche, le ideologie la cultura, l’economia e la vita sociale. Con la diffusione dell’industria e il rinnovamento economico- sociale da essa determinato la borghesia si è articolata in diverse forme al suo interno, ciascuna delle quali svolgeva un ruolo economico specifico. Nello stesso tempo anche il popolo si presentava molto frazionato e disomogeneo. In una società così lacerata, sia da un punto di vista politico che da un punto di vista sociale, 51 un ruolo essenziale è stato riconosciuto all’impegno educativo che, per le borghesie, coincideva con la diffusione del proprio dominio tecnico e socio-politico attraverso la formazione di figure professionali capaci e guidate da uno spirito borghese e produttivo e dall’operatività; per il popolo – invece – consisteva nell’attuare l’emancipazione delle classi inferiori attraverso la liberazione della coscienza e della mente per poi giungere alla liberazione sociale e politica. Le borghesie hanno avuto, spesso, una visione paternalistica dell’educazione, la quale metteva in evidenza che il popolo doveva essere educato secondo i valori borghesi della laboriosità, del risparmio e del sacrificio per evitare disordini sociali e per controllarlo costantemente. In questo contesto (dominato da tale visione) cominciarono a nascere le Work-house, ossia degli istituti in cui venivano inculcati al popolo i valori propri della borghesia in quanto l’obiettivo della pedagogia borghese era quello di salvaguardare l’ordine sociale e di incentivare la crescita di una società collaborativa e pacifica al proprio interno. Se da un lato si sviluppò il pensiero pedagogico borghese, dall’altro cominciò a farsi strada anche la pedagogia popolare, la quale si distinse in due forme: quelle riformiste e quelle rivoluzionarie, e cioè quelle che guardavano l’emancipazione come integrazione delle classi popolari all’interno della società e quelle che reclamavano la presa di potere da parte del proletariato. In questo modo si delinearono modelli pedagogici diversamente orientati, ma pur sempre fortemente ideologizzati. In Germania, per esempio, già con Pestalozzi si affermò il nesso pedagogia-società attraverso la disciplina e il lavoro e il valore di libertà, concepita come la funzione socio-politica e ideologica dell’educazione. Questa ideologia di libertà trovò la sua massima espressione proprio nel pensiero pedagogico tedesco ( con Hegel, Herbart e Marx) i quali sono stati autori di modelli educativi diversi, ma spinti da una forza comune e verso un ideale comune: quello di libertà. Negli altri paesi europei, invece, si diffusero le ideologie della Restaurazione le quali si proponevano di ritornare ad un ordine sociale naturale e invariante al quale l’educazione doveva dare stabilità. Le ideologie della Restaurazione e quelle della libertà sono entrate in contrasto, si sono collegate e intrecciate, alimentando un dibattito intenso e articolato che pone al centro del progetto politico l’educazione, la quale – spesso- è chiamata a sostituire la politica stessa. Con il Positivismo e il socialismo l’ideologizzazione della pedagogia si è fatta ancora più esplicita. Nel Positivismo la pedagogia viene considerata un momento della sociologia che tende a conformare gli uomini secondo i modelli sociali, e cioè secondo quei modelli che determinano l’identità e l’equilibrio di una determinata società. Partendo da Comte sino a Durkheim l’avvento di una società positiva ha determinato la centralità del ruolo dell’educazione all’interno della società, in quanto essa (=l’educazione) socializza e conforma il soggetto ai valori sociali della partecipazione alla vita sociale e alla produttività. Il socialismo, invece, non solo smaschera ogni pedagogia- e cioè la riconosce criticamente come ideologia - , ma le indica (come guida) l’ideologia della società liberata. Da ciò si evince che il socialismo ha cercato di creare uno stretto legame tra pedagogia e libertà, intendendo – quest’ultima – come liberazione/emancipazione, ossia come superamento dei vincoli storici imposti alla formazione umana e come potenziamento di quest’ultima, la quale deve essere uguale per tutti in una società in cui non ci sono classi sociali e classi subalterne ad altre, alienate nel lavoro. Negli anarchici – una componente dei socialisti- il concetto di un’educazione fortemente ideologizzata nella libertà era molto più evidente e centrale. Dall’analisi di tutto ciò si evince che la pedagogia ottocentesca è stata animata da una serie di processi fortemente ideologizzati: infatti le teorie della formazione avevano un grande spessore politico, una valenza politica ed erano collegate con le ideologie più forti del secolo; l’educazione ha assunto un ruolo sociale sempre più centrale. Per questo motivo ad essa sono stati delegati compiti di riappacificazione tra le classi sociali e i diversi ceti, omologandoli con valori comuni; compiti di formazione sociale e di integrazione produttiva. Quindi l’educazione veniva concepita dai riformisti come il mezzo-chiave per dar vita ad una società organica e ben equilibrata; e dai gruppi conservatori come lo strumento utile x frenare il disordine sociale, agendo in modo paternalistico nei confronti del popolo che doveva essere integrato nella cultura borghese. Tuttavia la pedagogia dell’800 non è stata contrassegnata solo da questi caratteri, bensì anche da altri aspetti più filosofici e tecnici. Essi sono particolarmente quattro: 1) riflessione intorno alla Bildung, la quale ha attraversato – x tutto il secolo – la pedagogia tedesca proponendosi di riformulare il modello di formazione umana e culturale; 2) attenzione prestata alla funzione educativa dell’arte, la quale ha il potere di potenziare la fantasia, di sviluppare capacità cognitive e di arricchire la personalità del bambino. Inoltre essa è molto importante nell’infanzia , dove è soprattutto gioco; 3) importanza assunta dall’epistemologia, e cioè dal bisogno della pedagogia di affermarsi 52 misura anche in Germania, dove – però- fu invaso da uno spirito diverso: quello di dar vita ad un forte autoritarismo. Il fondatore delle scuole nuove in Germania è stato Lietz con le sue “case d’educazione in campagna”, ma i maggiori esponenti dell’attivismo tedesco sono stati Wyneken e Kerschensteiner. Wyneken elaborò un modello educativo antiborghese e libertario che ebbe una grossa influenza sui giovani fino alla 1 guerra mondiale. Con la sua concezione pedagogica egli si oppose all’autorità familiare, alla tirannia degli adulti ai metodi scolastici conformistici e mistificanti, contro i quali esaltò una formazione scolastica che dava più spazio alla lingue moderne e alla scienza e valorizzò la libera iniziativa dei giovani i quali dovevano organizzarsi in movimenti autonomi come è stato quello dei Wandervogelo o “uccelli migratori”. Con la diffusione del pensiero di Wyneken emersero diverse “proteste” giovanili, alle quali aderirono giovani borghesi che esaltavano un senso romantico della vita, il ritorno al popolare, al semplice e al naturale e andavano contro alla vita della città. Kerschensteiner elaborò una scuola nuova che egli stesso definì “scuola del lavoro” perché egli si propose di modificare i curriculum introducendo anche il lavoro, il quale veniva concepito come l’attività fondamentale dell’uomo ed è per questo che doveva essere al centro della formazione infantile. Questo lavoro doveva essere produttivo (anche se non economico) e dotato di un lavoro reale; inoltre esso non doveva essere fine a se stesso, ma doveva badare che le rappresentazioni dei fini dell’azione producessero una reazione di natura obbiettiva. Per svolgere questo lavoro le scuole dovevano essere dotate di laboratori attrezzati e officine ed esso aveva un valore educativo nel momento in cui era consapevole delle proprie finalità complessive. Questa scuola nuova e rinnovata sulla base del lavoro doveva mirare ad una formazione professionale, una formazione morale e una sociale dell’alunno, dove quest’ultima veniva considerata l’obiettivo fondamentale della scuola popolare. ITALIA: In Italia le “scuole nuove” si svilupparono nell’ambito che Giuseppe Lombardo Radice definì come “scuola serena” in quanto essa mirava a creare una continuità tra la scuola e la famiglia, a valorizzare le attività artistiche e una visione del fanciullo come un artista spontaneo. I rappresentanti maggiori dell’attivismo italiano sono stati. Maria Boschetti Alberti si rese conto dell’arretratezza e dell’insufficienza dell’insegnamento tradizionale ed è per questo che chiarì i presupposti sia educativi che didattici di una scuola rinnovata. Per la Boschetti la scuola serena doveva essere svolta in un ambiente non attrezzato, secondo criteri didattici di avanguardia e doveva dipendere dal ruolo del maestro, dal suo lavoro e dalla sua coscienza pedagogica ed educativa. Invece il lavoro scolastico doveva distinguersi in 3 gruppi di attività: l’accademia, in cui i fanciulli dovevano leggere, recitare e avvicinarsi alla poesia per sviluppare il senso del bello; il controllo il quale doveva essere svolto dall’insegnate seguendo ogni giorno una materia diversa, che gli alunni dovranno portare avanti attraverso il lavoro individuale x due settimane; il lavoro libero il quale doveva svolgersi a gruppi (liberi) e riguardava le attività che interessavano maggiormente i ragazzi. Anche se il metodo della Boschetti fu molto interessante esso fu criticato perché troppo legato all’iniziativa individuale. Rosa Agazzi elaborò un metodo per le scuole dell’infanzia che si basava – prima di tutto – sul principio di continuità tra asilo infantile e atmosfera familiare ed è per questo che l’insegnante doveva assumere un ruolo “quasi” materno, mentre gli alunni dovevano essere liberi di svolgere le attività che più gli interessavano in un ambiente ordinato, al cui mantenimento dovevano partecipare anche i bambini. Tuttavia l’aspetto fondamentale del metodo delle sorelle Agazzi è stato il materiale non pre- 55 ordinato e non scientifico, il quale era costituito da tutte le cianfrusaglie che i bambini raccoglievano perché incuriositi e interessati. Questo materiale era importante perché con esso si strutturava un museo, si venivano articolando ricerche, conversazioni ed esperienze che costituivano momenti importanti per la vita all’interno della classe. Dall’analisi del metodo agazziano si evince che esso, per molti aspetti, si contrapponeva a quello montessoriano: infatti l’ambiente non era pre-ordinato scientificamente e l’ordine era mantenuto dai ragazzi stessi; e anche il materiale di studio non era predeterminato da valori scientifici ma veniva raccolto spontaneamente dai fanciulli. Giuseppina Pizzigoni istituì la “Rinnovata”, cercando di lavorare nella scuola tradizionale dando luogo – però- ad un nuovo metodo. Per la Pizzigoni era necessario far entrare nella scuola l’esperienza diretta dei fanciulli e collegare la vita scolastica con quella sociale soprattutto attraverso le visite guidate. Inoltre il suo metodo sperimentale puntò molto sul lavoro e sull’attività sociale; in più dava la precedenza all’esperienza dell’alunno rispetto alla parola del maestro. L’esperimento della Pizzigoni è avvenuto più tardi rispetto a quelli europei, ma nello stesso tempo,è stato largamente riconosciuto ed elogiato e rappresentato dalla Scuola-città Pestalozzi fondata a Firenze da Ernesto e Maria Cordignola. Questa scuola si proponeva come obiettivo la formazione sociale dei ragazzi i quali dovevano essere consapevoli dei propri diritti e doveri civili, ed è per questo che essa si basava su un’organizzazione interna che rispecchiava quella democratica adulta e che veniva gestita direttamente dai ragazzi. Inoltre la scuola voleva essere una comunità di lavoro in cui tutti dovevano partecipare a tutti gli aspetti della vita collettiva e qui l’insegnamento doveva partire dall’esperienza personale del fanciullo e dei problemi della vita concreta per articolarsi nell’interazione tra attività intellettuale e manuale. Gli orari e i programmi furono completamente rinnovati rispetto alla scuola elementare tradizionale; nella scuola vennero introdotti la biblioteca e i laboratori e – infine- il metodo didattico si presentava libero e non prefissato. Il modello di Cordignola ebbe un grande successo non solo in Italia, ma in tutta Europa, dove conservò la sa centralità sino agli anni settanta. Un esperimento educativo, sviluppatosi in Europa, e alimentatosi grazie all’attivismo è stato quello dei Boy-scuts promosso da Robert Baden Powell. Esso si ispirava al colonialismo ed era organizzato in forma militare: i ragazzi- infatti- erano divisi per classi d’età ( quelli dagli 8 agli 11 anni erano i “lupetti”; quelli dai 12 ai 17 gli “esploratori”; quelli dai 17 in su i “pionieri”). La struttura era organizzata in pattuglie e l’immissione nel gruppo avveniva attraverso una cerimonia, nella quale veniva letta una promessa che metteva in evidenza i principi ai quali il ragazzo doveva aderire e i caratteri di un’educazione virile e impegnata, rappresentata dal lavoro, dall’autocontrollo sessuale e dalla disposizione alla gioia. I caratteri dell’attivismo presenti nello scoutismo coincidevano con: 1) il legame con l’ambiente naturale; 2) la valorizzazione della vita di gruppo; 3) l’entusiasmo verso ciò che era selvaggio; 4) lo sviluppo dello spirito di iniziativa e delle capacità manuali. i modelli piu’ maturi in usa e in europa Negli USA accanto all’esperimento di Dewey nacquero altre tre iniziative altrettanto importanti. 1) Kilpatrick era un teorico dell’educazione che però si è occupato anche di didattica elaborando un metodo che ha incontrato larghi consensi sia in America che in Europa. Questo era il “metodo dei progetti” il quale si distingueva da quello “dei problemi” di Dewey perché poneva l’accento sulla dimensione pratica del momento intellettuale, ma – nello stesso tempo – vi si associava perché entrambe si basavano sul fatto che 56 bisognava partire dall’interesse del fanciullo e perché davano importanza alle esperienze concrete e problematiche, alle quali il soggetto doveva dare una soluzione (ricercata autonomamente). Il progetto era un’attività intenzionale, rivolta al conseguimento di un fine definito e che si sviluppava in varie forme: progetto di produzione, relativo alle tecniche di costruzione di un prodotto; progetto di consumo, inerente all’apprezzamento e alla fruizione di un prodotto; progetto di problema, riferito al superamento di qualche difficoltà; progetto di apprendimento, che si riferiva all’acquisizione di tecniche con cui far proprie nuove competenze e abilità. Ciò che è comune a tutte queste forme di apprendimento era la presenza di una forte motivazione pratica e lo stimolo che essa introduceva nel processo cognitivo per sollecitare scelte e soluzioni creative. Con l’introduzione di questo metodo nella scuola essa era costretta a mutare completamente anche se poteva mantenere la sistemazione organica delle varie discipline. 2) Helen Parkust è stata colei che ha elaborato il Dalton Plane, il quale si rifaceva a molti principi della pedagogia scientifica della Montessori. Le idee fondamentali di questo “piano” coincidevano con l’individualizzazione dell’insegnamento, in quanto la Parkhust si proponeva di esaltare i valori del singolo alunno nella situazione didattica, e con la libera scelta del lavoro scolastico. Il programma era organizzato in unità minime di studio che dovevano essere acquisite dall’allievo entro una data prestabilita, dandogli – in questo modo- la possibilità di rispettare i propri tempi di apprendimento. Lo svolgimento di un programma libero comportava anche la trasformazione dei locali scolastici: infatti le classi scomparvero in quanto le aule vennero assegnate ad un preciso insegnamento, diretto da un docente specializzato e – di conseguenza- gli allievi si spostavano da un aula all’altra. Agli allievi venivano assegnati compiti mensili; l’insegnante era chiamato a seguire il lavoro e ad intervenire solo nel caso in cui fosse stato necessario e ogni giornata scolastica si articolava in attività di laboratorio, di organizzazione del lavoro e di lezioni tradizionali. Il Dalton Plane della Parkust presentava degli elementi positivi e negativi: i primi coincidevano con la sensibilità che esso manifestava nei confronti dei problemi dell’apprendimento individuale e con un progetto di razionalizzazione interessante del lavoro scolastico; i secondi coincidevano con il suo carattere troppo rigido e con l’immagine di una vita scolastica priva di obiettivi comuni e rivolta alla sola formazione intellettuale. 3) Washburne fu l’organizzatore delle celebri scuole di Winnetka, in cui cercò di dar vita ad un insegnamento individualizzato che doveva avvenire attraverso il sistema del libero raggruppamento degli allievi e secondo un programma altrettanto libero. Mosso dall’obiettivo di far apprendere all’alunno delle conoscenze autonomamente e di guidarlo verso l’autocorrezione egli distinse il programma in una parte comune e in una parte creativa e libera. La prima comprendeva le conoscenze e le tecniche di base; la seconda – invece- comprendeva stimoli e occasioni offerte nell’ambiente in vista di un lavoro creativo che interessava la collettività. Tutto il materiale educativo era concepito in modo da rendere possibile l’autocorrezione che si articolava in “tests” di avviamento e di controllo che riguardavano tutte le materie del programma comune. Le attività creative presenti nella scuola erano – invece – quelle musicali, artistiche, il gioco, il laboratorio e la stampa. Il movimento delle scuole nuove ha trovato in Europa ( e in particolar modo in Francia) una sua interpretazione assai ricca e articolata in Cousinet e in Freinet i quali elaborarono dei metodi didattici significativi ma anche una riflessione sui fondamenti teorici e sulle implicazioni politiche dell’educazione nuova. 57 al centro dell’attività scolastica; l’associazione, che organizza l’ambiente che il fanciullo ha osservato nella direzione di spazio e tempo; l’espressione che poteva essere concreta o astratta. Infine una delle applicazioni del metodo globale di Decroly che ha avuto un grande successo si è avuto sul piano dell’insegnamento della lettura, nel quale era necessario seguire due principi: 1) una parola deve essere sempre associata ad un’immagine ad essa corrispondente; 2) bisogna partire dalle cose e passare per la frase per poi giungere alla parola. Infine l’insegnamento della lettura doveva avvenire anche attraverso dei giochi educativi, che dovevano rendere gradevole lo sforzo relativo all’impossessarsi dei simboli alfabetici e del linguaggio scritto. CLAPAREDE fondò la famosa “scuola di Ginevra” in cui applicò la sua opera pedagogica che si svolse in relazione alle nozioni di educazione funzionale e di scuola su misura. Per quanto riguarda il primo concetto Claparede sosteneva che l’educazione doveva essere sempre sostenuta da un bisogno ed è per questo che era necessario rivedere i programmi di studio e i metodi della scuola tradizionale nella quale si escludeva qualsiasi partecipazione ispirata dall’interesse del fanciullo, direttamente connesso ad un suo bisogno; per quanto riguarda il secondo punto la scuola doveva organizzarsi “su misura” del bambino, rispettando la sua natura e soddisfacendo i suoi bisogni. Inoltre la scuola aveva il compito di organizzare anche processi di apprendimento individualizzati attraverso l’offerta di una molteplicità di attività che il fanciullo poteva liberamente scegliere. La figura più di spicco della scuola di Ginevra fu Ferrière che ebbe prima una formazione biologica-sociologica e, in seguito, si indirizzò verso la filosofia e la pedagogia, aderendo al movimento attivista di cui divenne sostenitore e diffusore. Egli si ispirò alla filosofia di Bergson assumendone la nozione dell’elan vital (= slancio vitale), capace di organizzare una concezione attivistico-creativa dei processi vitali e quindi anche dell’attività di crescita e formazione umana dell’individuo. Inoltre Ferrière assunse una posizione di difesa dei diritti e dei doveri del fanciullo e dei suoi bisogni fondamentali; difesa che andava posta al centro della scuola rinnovata “attiva” la quale doveva accettare le funzioni essenziali della psiche umana – e infantile in particolare – ossia quello dello slancio spirituale, del progresso e dell’ereditarietà dei “tipi psicologici”. Inoltre essa doveva organizzare la propria attività intorno a due principi: quello dell’interesse e quello della ricapitolazione biogenetica. In questo modo – secondo Ferrière- la scuola attiva poteva raggiungere il suo scopo: ossia quello di educare alla libertà attraverso la libertà. Inoltre essa si è ritrovata costretta a trasformarsi, mettendo al centro delle sue attività sia il gioco che il lavoro i quali venivano messi ai margini della scuola tradizionale; compiendo una sicura formazione del carattere (libero e democratico); e realizzando un incremento dell’autonomia come atteggiamento essenziale dell’individuo, in quanto il governo si organizzava secondo il principio dell’autogoverno. MARIA MONTESSORI nacque ad Ancona ma si formò a Roma, dove si laureò in medicina e si dedicò alla cura dei bambini subnormali. Nel 1906 organizzò degli asili presso alcune case popolari a Roma e un anno dopo fondò la prima “Casa dei Bambini”; in seguito si dedicò alla diffusione delle sue idee pedagogiche in tutto il mondo, le quali ebbero max successo all’estero che in Italia. Sin dai primi scritti la Montessori cominciò a difendere i diritti dell’infanzia, sottolineando i caratteri di attività e di religiosità intrinseci in quest’età dell’uomo. Alla base del suo metodo c’era uno studio sperimentale sulla natura del fanciullo che si concentrava – soprattutto – sulle sue attività senso-motorie, le quali dovevano essere sviluppate sia attraverso gli 60 esercizi di attività pratica ( come il nutrirsi e il vestirsi) che mediante degli oggetti pre- ordinati scientificamente. Oltre a riorganizzare le scuole dell’infanzia e ad elaborare dei metodi nuovi per i bambini ortofenici la Montessori si dedicò anche ad un ampia riflessione pedagogica, la quale verteva su 3 punti fondamentali: 1) la liberazione del fanciullo; 2) il ruolo formativo dell’ambiente; 3) il concetto di mente assorbente. Per quanto riguarda il primo punto la Montessori sosteneva che il bambino doveva raggiungere la propria autonomia svolgendo liberamente diverse attività; tuttavia questa libertà non doveva coincidere con lo spontaneismo ed è per questo che il bambino doveva essere sempre controllato (indirettamente) da un adulto il quale doveva essere consapevole dei bisogni dei fanciulli e degli ostacoli che si contrappongono alla sua formazione. Per quanto riguarda il secondo punto la Montessori anche se riconosceva all’ambiente un ruolo secondario nell’ambito della formazione di un fanciullo, non poteva non ammettere che esso ha una grossa influenza perché può modificare, può aiutare e distruggere, ma mai creare; ed è per questo che doveva essere adatto al fanciullo, ossia riorganizzato secondo le sue esigenze fisiche e psichiche. Lo stesso arredamento doveva essere progettato a misura del fanciullo in modo che egli poteva maneggiarlo e spostarlo direttamente; inoltre esso comprendeva anche quei materiali attraverso l’uso dei quali si compie l’autoeducazione dei fanciulli (anche se sotto il controllo del maestro). Infatti secondo la Montessori il fanciullo doveva fare da sé ricevendo stimoli dall’ambiente in cui vive continuamente. Il terzo punto del pensiero pedagogico della Montessori coincideva con la mente del bambino, concepita come mente assorbente, ossia capace di assorbire una molteplicità di nozioni (anche inconsciamente) fino all’età di tre anni, dopo la quale tutto comincia ad essere esternato. Inoltre la mente assorbente non era dotata solo di potere di assimilazione, ma anche di potere di partecipazione-comunicazione che si manifestava nel gioco, nell’immaginazione creativa, nel piacere dei racconti e nell’attaccamento alle persone. Come il metodo della Pankhurst anche quello della Montessori fu oggetto di diverse critiche, ma nello stesso tempo gli è stato riconosciuto il merito di aver coniugato il momento della richiesta di un’indagine scientifica con quello della liberazione del fanciullo e dell’uomo. In Italia l’attivismo trovò (nel secondo dopoguerra) dei grandi sostenitori come il gruppo facente parte della rivista “Scuola e città” fondata da Ernesto Cordignola e altri: Lamberto Borghi, De Bartolomeis, Visalberghi, Laporta e Giacomo Cives. Verso la fine degli anni ’50, sia negli USA che in Europa, l’attivismo venne sottoposto ad una radicale e drastica revisione in quanto l’educazione attiva venne accusata di essere responsabile della formazione insoddisfacente della nuova generazione e di aver condotto la scuola a dimenticare le sue finalità culturali e cognitive. Anche se le critiche nei confronti dell’attivismo furono molte, non si potevano riconoscere i suoi punti d’onore, quali: la valorizzazione della psicologia infantile come elemento fondamentale di ogni processo educativo e l’elaborazione del nesso che legava l’educazione alla società e, di conseguenza, alla politica. 4. IL SECONDO NOVECENTO Nel 1900 il dibattito relativo al rinnovamento della scuola, lo scontro ideologico- sociale, la nascita di prospettive culturali e filosofiche sempre più innovatrici e l’impegno della pedagogia nell’ambito sociale sono stati dei fattori che hanno prodotto sia una revisione delle teorie pedagogiche già esistenti, sia la formazione di nuove teorie, disposte su diversi fronti, ma capaci di ripensare in modo nuovo l’identità e il 61 ruolo culturale e politico della pedagogia. Tra le diverse teorie esistenti tre modelli ebbero più successo: quello di Gentile in Italia, quello dei marxisti in Europa e quello di Dewey in America. GENTILE: Egli criticando il Positivismo, il pensiero di Herbart e qualsiasi pedagogia scientifica sottolineò l’identità esclusivamente filosofica della pedagogia, che intendeva come “scienza dello spirito”. In questo modo Gentile (prendendo in considerazione anche le teorizzazioni già diffuse in Germania e in Francia) ha dato vita ad una pedagogia che si incentrava sull’identità spirituale del soggetto umano, che andava contro i modelli predominanti e che si proponeva di restaurare un ordine scolastico ed educativo che privilegiava l’autorità e la tradizione. Da un punto di vista filosofico Gentile era molto vicino all’idealismo hegeliano, ma – nonostante ciò- egli è stato il fondatore e max esponente dell’attualismo secondo il quale il fondamento di tutta la realtà dinamica è il pensiero pensante. La caratteristica di questo pensiero è che è autoctisi e sintesi a priori: ossia è un pensiero che crea se stesso attraverso un oggetto che è condizione necessaria della sua attività e che non può essere separato da esso. Sulla base di questa sua concezione filosofica Gentile ha affermato che la pedagogia può essere considerata vera scienza nel momento in cui essa diventa filosofia in quanto il processo di svolgimento della vita spirituale (che poi è l’oggetto dell’educazione) può essere compreso e definito solo al di fuori di ogni dualismo e meccanicismo, caratteri propri delle pedagogie scientifiche del Positivismo. Infatti la pedagogia può dirsi scientifica (secondo Gentile) solo se riflette sull’educazione e sull’uomo che né è il protagonista in termini di spirito, dialettica e unità attraverso il principio della sintesi a priori. Pertanto la vera scienza doveva essere la filosofia e la vera educazione l’autoeducazione. Analizzando l’attualismo di Gentile si evince che egli si opponeva a tutte le concezioni pedagogiche a base naturalistica, secondo le quali la pedagogia è tecnica perché si delinea come l’azione attraverso la quale uno spirito promuove lo sviluppo di un altro spirito. Seguendo queste teorie pedagogiche si andava incontro sia a delle conseguenze negative sia a dei pericoli abbastanza forti. Le conseguenze coincidevano con: la separazione di teoria e prassi, tra conoscere e fare che provocava una serie di complicazioni e di contrasti irrisolvibili all’interno del processo educativo; la degradazione della pedagogia da scienza ad arte. I pericoli – invece- erano: dare un’immagine astratta e rigida della vita spirituale e presentarla in termini materialistici; bloccare le pedagogie scientifiche su un terreno non-scientifico e su una visione meccanicistica dell’uomo a causa dell’assenza della nozione di svolgimento spirituale e di autoformazione dello spirito. Ciò fu reso trasparante dalla “psicologia pedologica” la quale elaborò un modello di bambino mitico, non esistente e costretto a vivere un’infanzia obbligata. Questo “bambino” infatti era costretto a giocare, imitare, a interessarsi a racconti meravigliosi e, dopo, affaticarsi. Nei due volumi che costituiscono il “Sommario di pedagogia come scienza filosofica” Gentile espose i postulati della sua pedagogia filosofica attraverso un confronto con le pedagogie ad essa antagoniste e delineando sia una concezione specifica della scuola, la quale veniva considerata come l’unico luogo in cui compiere processi di formazione spirituale, che una precisa concezione della didattica alternativa a quella delle pedagogie naturalistiche. L’obiettivo di questo trattato era quello di eliminare tutte le contrapposizioni presenti nell’educazione: 1) quella tra educazione negativa ed educazione positiva; 2) quella tra educazione formale ed educazione morale; 3) quella tra istruzione ed educazione; 4) quella tra educazione religiosa ed educazione scientifica; 5) quella tra educazione estetica ed educazione umanistica, etcio-religiosa. 62 attualistico di Gentile, ma sin dall’inizio il suo pensiero presentava degli aspetti divergenti rispetto a quello del filosofo del fascismo. Infatti sul rapporto tra l’io individuale e l’io universale Radice risolse la questione prestando maggiore attenzione ai diritti del soggetto vivente e, quindi, reintroducendo nell’attualismo delle istanze psicologiche. Lo spirito – per Radice- era unione di spiriti e vita di relazione e per il soggetto umano esso (ossia lo spirito) più che un atto rappresentava un compito perché coincideva con un processo attraverso il quale era possibile attuare un allargamento del se. Sul piano politico Gentile si focalizzò sui problemi sociali e sul ruolo di educatore che doveva assumere lo Stato (piuttosto che soffermarsi sullo Stato etico), il quale non doveva essere espressione di un’unica classe sociale ma di un pensiero totale dell’epoca. Una caratteristica simile è visibile anche nel suo nazionalismo il quale era legato ad un sottofondo socialista che lo ha reso interprete delle esigenze del popolo. Tuttavia l’aspetto fondamentale della riflessione pedagogica di Lombardo Radice è stato quello relativo alla didattica, presentata nei programmi x la scuola elementare del 1923. Questa didattica si è caratterizzata come: 1) una “didattica viva” (ossia un sapere che non può essere sviluppato in astratto, ma solo in relazione ad un esperienza concreta e legata all’insegnamento), creativa e situata all’interno del processo educativo; 2) una coscienza dei mezzi attraverso i quali sviluppare questo processo e come costruzione operativa di tali mezzi; 3) una critica didattica che operava contro l’eccessiva specializzazione, pur riconoscendo questa funzione nella riflessione sull’atto educativo, e che si risolveva in una ricerca continua e problematica. Alla base della didattica di Radice (la quale determinava il tipo di lavoro scolastico) c’erano delle nuove nozioni, quali: 1) una nuova figura del maestro che doveva collaborare con il fanciullo, svestendosi della propria umanità personale e ponendosi sul piano del comune spirito umano; 2) una nuova concezione della lezione, intesa non più come entità frammentata e isolata, ma come una ricca e complessa unità organica che si collegava con tutti gli altri atti educativi; 3) una specifica concezione dell’infanzia, vista come un’età attiva, creativa, intensamente affettiva e rivolta ad una conoscenza magica del mondo. Infatti – secondo Radice- il bambino è sia scienziato che poeta: è scienziato perché si accinge a scoprire il mondo che lo circonda; è poeta perché effettua queste scoperte con l’ingenuità e la vivacità, che sono caratteristiche proprie della condizione di fanciullo. Da questi principi fondamentali Lombardo Radice rivolse la sua attenzione sia sull’educazione artistica (ossia sul canto,sul disegno) finalizzata a rassenerare l’anima, che all’educazione linguistica vista come il baricentro di tutto l’insegnamento e nella quale veniva valorizzata l’originalità, la sincerità e la chiarezza. Per quanto riguarda il modello di scuola che Radice teorizzò ( e che sperava di veder realizzarsi) è stato quello della “scuola serena”la quale era una scuola di tipo attivistico dove al centro veniva posta l’espressione artistica (e non il lavoro) e la collaborazione spirituale tra maestro e allievo, piuttosto che il solo fanciullo. Inoltre questa scuola era laica, ma viveva intensamente i valori religiosi legati alla tradizione sei vari popoli. Un altro aspetto sul quale si soffermò Radice coincise con la preparazione degli insegnanti, la quale doveva allontanarsi da quella esclusivamente teorica di Gentile e dirigersi verso una max specializzazione in cui doveva essere riconosciuto il ruolo formativo professionale anche alla psicologia e alla didattica. ERNESTO CORDIGNOLA fu, anch’egli, un collaboratore di Gentile, un organizzatore di cultura attraverso delle riviste (tra le quali importante è stata “Scuola e città”) e il direttore della casa editrice La Nuova Italia. Egli si interessò di teorie pedagogiche, di storia della pedagogia e di storia del pensiero religioso e nel 1945 fondò a Firenze la 65 “scuola-città Pestalozzi”: una scuola-pilota ispirata ai principi di Dewey. Cordignola si allontanò dall’attualismo pedagogico portando avanti una critica sempre più serrata sia nei confronti dei principi autoritari e astratti di questo orientamento, che nella pedagogia italiana contemporanea in quanto attraverso di lui si è realizzato (in pedagogia) uno spostamento culturale che da un egemonia dell’idealismo è giunto ad un’apertura al pragmatismo americano. JHON DEWEY è stato il più grande pedagogista del Novecento in quanto ha elaborato un pensiero pedagogico completamente nuovo che non solo si è diffuso in tutto il mondo, ma che ha anche operato una profonda trasformazione nell’ambito educativo e in quello legato all’istituzione scolastica nei vari paesi in cui ha preso corpo. Tuttavia Dewey, prima di essere un pedagogista è stato un filosofo, e precisamente filosofo del pragmatismo, ossia di una filosofia che pose come punto di partenza l’esperienza. L’esperienza veniva vista – da Dewey- come un ambito in cui avviene uno scambio tra il soggetto e l’ambiente; scambio che non è armonico, ma attivo, capace di trasformare entrambe i fattori e caratterizzato da un forte squilibrio che, attraverso il pensiero, l’uomo è capace di ristabilire. In questo modo egli affidava all’uomo e alla sua intelligenza creativa lo sviluppo e il controllo dell’esperienza, attraverso la logica, definita come “teoria dell’indagine” (indirizzata a trasformare una situazione indeterminata in una situazione determinata) la quale era caratterizzata dal metodo scientifico e dai suoi principi di sperimentazione (sperimentazione, generalizzazione, ipotesi e verifica) che doveva diventare il criterio di comportamento intellettuale in ogni ambito dell’esperienza. Inoltre anche all’arte, all’immaginazione e alle sue procedure simboliche venne assegnato un ruolo fondamentale per la crescita dell’esperienza e per attuare uno sviluppo intelligente, organico e creativo di essa. L’arte rappresentava il momento fruitivo e progettuale-immaginativo presente in ogni esperienza, un momento che veniva sviluppato organicamente nell’attività estetica, la quale doveva diventare un fattore centrale dell’esperienza (sia individuale che sociale) e della sua dimensione valutativa, ispirata all’unità-continuità-identità tra fini e mezzi. Da un punto di vista politico il pensiero di Dewey valorizzava la democrazia, vista come la forma più avanzata e attuale in una società di massa come quella contemporanea, che doveva essere costruita attraverso: 1) un’opera di educazione scolastica, e cioè formando ogni cittadino alla democrazia e nella democrazia all’interno di una scuola rinnovata( ossia organizzata in forma di laboratorio e volta a stimolare l’attività individuale). 2) uno sviluppo dell’opinione pubblica, la quale permetteva la creazione di una grande comunità capace di autoregolarsi attraverso il controllo collettivo dell’intelligenza liberamente sviluppata e promossa al centro della vita sociale. Il pensiero pedagogico di Dewey era strettamente legato alla sua filosofia perché da un lato traeva da essa i concetti fondamentali; dall’altro seguiva lo stesso percorso, indirizzandosi verso prospettive nuove e più organiche o rivedendo quelle alle quali già si era giunti. La riflessione pedagogica di Dewey ha accompagnato tutta la sua produzione scritta (che è stata molto ampia) e si è diretta sia verso la costruzione di una rigorosa filosofia dell’educazione, sia verso l’elaborazione di un progetto operativo relativo alla scuola e alla didattica. La pedagogia deweyana è racchiusa in quei testi che hanno reso il pedagogista americano famoso in tutto il mondo, ed essa si articola su degli aspetti fondamentali: 1) innanzitutto si ispirava al pragmatismo e quindi ad un continuo contatto e interazione tra la pratica e la teoria, in quanto il fare doveva essere messo al centro del processo di apprendimento; 2) si intrecciava con le altre scienze sperimentali in modo che queste potessero ridefinire i suoi problemi da un 66 punto di vista scientifico; 3) e infine si impegnava nella costruzione di una filosofia dell’educazione organica perché la pedagogia, oltre ad impegnarsi nel campo educativo, aveva il compito di far sviluppare la democrazia nella società e di dare all’uomo la possibilità di formare una mente moderna, scientifica e aperta alla collaborazione. Nella sua prima grande opera “Scuola e società” Dewey espose i caratteri principali del suo pensiero pedagogico. Quest’opera nacque e si sviluppò in contesto abbastanza complesso perché in questo periodo gli USA erano attraversati da uno sviluppo produttivo e politico-sociale causato dall’espansione dell’industria e dalla richiesta, sempre maggiore, da parte del popolo di partecipare alla vita politica. Secondo il pedagogista americano la scuola non poteva rimanere estranea a tutto ciò ed è per questo che doveva essere riformata, dando vita ad un’istituzione capace di formare individui che, una volta catapultati nel mondo reale, fossero in grado di rispondere alle nuove esigenze nate in conformità a tali mutamenti. Pertanto la scuola doveva diventare una piccola comunità in stretto contatto con l’ambiente e con la realtà sociale del lavoro; in essa dovevano essere introdotti dei laboratori in cui svolgere attività pratiche legate a quelle del mondo del lavoro e alle attività familiari in quanto il “fare” e il lavoro manuale rendevano il fanciullo – secondo Dewey- più ricco, attivo e capace di affrontare il vero mondo del lavoro. Un altro punto fondamentale di quest’opera coincide con la valorizzazione del fanciullo, ossia dei suoi interessi e dei suoi bisogni. A tal proposito dewey compì nella scuola una vera e propria rivoluzione copernicana in quanto pose al centro di essa e di qualsiasi apprendimento il bambino e i suoi 4 interessi fondamentali: interesse di comunicare, interesse di scoprire cose nuove, interesse di costruire delle cose e interesse di esprimersi. Per soddisfare questi interessi la scuola doveva costruire, oltre che i laboratori, anche degli spazi per le attività artistiche e x il gioco. In un’altra sua importante opera “Democrazia ed educazione”, la quale si presentava come un trattato di filosofia dell’educazione, Dewey riprese alcuni concetti fondamentali dell’opera precedente e ad essi aggiunse altri due temi nuovi: la funzione democratica della scuola; la valorizzazione della scienza come metodo per specifico di un’educazione democratica. Per quanto riguarda il primo punto Dewey ha messo in evidenza che la scuola non doveva solo adeguarsi alle trasformazioni sociali, ma doveva promuovere nella società un incremento progressivo della democrazia. Ciò significava formare degli individui capaci di partecipare alla vita sociale come protagonisti ed inserirsi in essa con una mentalità aperta al dialogo e alla collaborazione per il raggiungimento di obiettivi comuni liberamente scelti. Pertanto il ruolo della scuola era quello di trasformare anche politicamente il volto della società, rendendola sempre meno repressiva e autoritaria e propensa a sviluppare momenti partecipativi e di comunicazione. Per quanto riguarda il secondo punto ( quello relativo alla scienza come metodo dell’educazione democratica) Dewey sosteneva che per un’educazione finalizzata a formare un uomo e una società democratici il metodo più opportuno era quello della scienza in quanto esso, essendo caratterizzato dalla libera indagine e della verifica intersoggettiva dei risultati dell’indagine stessa, rappresentava un metodo democratico. Esso- infatti- era capace di avviare il soggetto umano verso credenze elaborate in comune e sottoposte ad un controllo e verso un operare capace di trasformare in senso sempre più razionale l’esperienza individuale e sociale. In quest’opera “Democrazia ed educazione” Dewey richiamò l’importanza fondamentale della formazione individuale rispetto alla valorizzazione del fare e delle attività pratiche, esaltati in Scuola e società. Tuttavia all’interno dell’attivismo americano ci 67 RIASSUNTO: SCUOLA E POLITICHE EDUCATIVE IN ITALIA DALL’UNITÁ A OGGI (Corbi - Sarracino) 1. LA SCUOLA DAGLI STATI PREUNITARI ALLA NASCITA DEL REGNO D’ITALIA Dopo la nascita dello Stato unitario, il ruolo della scuola (la quale può essere intesa come la principale agenzia educativa) era quello di porre rimedio alle conseguenze derivanti sia dalla frammentazione politica, sociale ed economica che aveva caratterizzato il nostro Paese per secoli; che da un processo di unificazione avvenuto senza la partecipazione attiva di masse rurali e urbane. Per risolvere tale situazione la scuola propose un’iniziativa pedagogico-educativa finalizzata ad inculcare nelle singole coscienze i valori dell’unità nazionale e ad allargare e rinforzare le basi del consenso sociale nei confronti di uno Stato unitario. Un forte contributo a quest’opera di educazione fu dato da un vasto settore dell’editoria, la quale diede vita a diversi generi di pubblicazione che promuovevano il patriottismo, il sentimento nazionale e modelli di comportamento che favorivano l’integrazione tra i diversi strati sociali. Tuttavia questa grande diffusione della stampa e della letteratura per il popolo avvertì un grosso limite: un tasso di analfabetizzazione altissimo, pari al 75/80%. Per questo motivo il compito della scuola divenne duplice: da un lato essa doveva cercare di ottenere un assetto sociale che garantisse la vita del nuovo Stato; dall’altro doveva trovare uno strumento in grado di combattere tale analfabetizzazione. Questa linea politica scolastica vedeva da un lato l’ostilità dei gruppi reazionari, i quali consideravano l’alfabetizzazione del popolo come la causa di disordine e squilibrio sociale; dall’altro l’approvazione della borghesia e degli imprenditori del nord, che vedevano l’alfabetizzazione dei lavoratori come un fattore indispensabile per il miglioramento del lavoro e per lo sviluppo del Paese; e la preoccupazione dei gruppi politici moderati, i quali erano interessati esclusivamente a promuovere, attraverso la scuola, l’integrazione sociale delle classi di estrazione più bassa. Nonostante i diversi problemi che si ritrovò ad affrontare e la distribuzione disomogenea sul territorio nazionale, la scuola rappresentava la principale agenzia educativa e di socializzazione di cui potesse disporre il nuovo Stato unitario. L’importanza data alla funzione politico- ideologica della scuola dipendeva da due fattori: la situazione particolare della nazione; un sistema rappresentativo molto debole perché fondato su un meccanismo elettorale che ammetteva al voto solo una minima parte della popolazione (quella più agiata). Questo sistema rappresentativo, essendo costituito elusivamente dai ceti più agiati assicurava un ‘omogeneità della base sociale al potere politico, ma nello stesso tempo non forniva un consenso sociale globale di cui lo Stato avrebbe avuto bisogno per affrontare gli squilibri interni e l’arretratezza economica. Infatti da un punto di vista economico l’Italia rappresentava il paese più arretrato d’Europa in quanto lo squilibrio tra Nord e Sud era davvero notevole. Anche se la destra storica dette vita ad un’unificazione del sistema fiscale, amministrativo e giudiziario senza preoccuparsi di accattivarsi il popolo, il livello di consenso alla nuova politica e al nuovo Stato fu molto basso anche per altri fattori, quali: una realtà caratterizzata da una scarsa mobilità sociale (passaggio da uno status sociale all’altro) e la tendenza delle classi dominanti a concepire le dinamiche sociali come fattori pericolosi per l’integrità dello Stato. Alla 70 luce di ciò si evince che l’Italia unita si ritrovava ad affrontare una realtà molto complessa in cui la politica emergente non poteva proporsi un profondo mutamento del sistema scolastico. Quindi l’accentuazione del ruolo politico-ideologico della scuola è stato determinato dalla debolezza delle altre forme istituzionali e sociali. Tuttavia per comprendere il quadro in cui si inserisce la politica scolastica del nuovo Stato è importante prendere in considerazione la situazione in cui si trovavano gli stati italiani prima dell’unità, ossia negli anni ’30, ’40 e ’50 dell’800. Il quadro dell’istruzione pubblica negli stati preunitari si distingue in due grandi aree: - da un lato ci sono il Regno di Sardegna, il Granducato di Toscana e in regno Lombardo-Veneto, i quali sono attraversati da diverse spinte innovative sul piano scolastico; - dall’altro ci sono lo Stato Pontificio e il Regno delle due Sicilie, in cui la politica è avversa all’istruzione popolare e va contro a qualsiasi tipo di ammodernamento della scuola. Queste due grandi aree erano caratterizzate da una forte disomogeneità e ciò riguardava in particolar modo la prima, in cui emergevano notevoli differenze tra la linea piemontese e quella austriaca. La linea piemontese si concentrava sullo sviluppo dell’istruzione secondaria ed universitaria e tendeva ad eliminare dall’insegnamento l’influenza ecclesiastica; la linea austriaca si concentrava sui problemi dell’istruzione popolare e professionale. Inoltre tali differenze erano presenti anche all’interno di uno stesso regno: prendendo in considerazione il regno di Sardegna era evidente il contrasto tra le condizioni della scuola nel territorio piemontese e quelle di totale abbandono delle scuole della Sardegna. Il Gran ducato di Toscana: nel Granducato di Toscana la svolta reazionaria di Leopoldo II, il quale nel 1849 revocò la Costituzione e nel 1852 promulgò una legge che si proponeva di realizzare una riforma organica del sistema scolastico, di potenziare le università di Pisa e Siena e di dare un forte impulso allo sviluppo delle scuole secondarie, fu preceduta da un periodo di tolleranza verso le idee liberali e di apertura alle esigenze di cambiamento. In questo periodo la Restaurazione non segnò una svolta reazionaria nella politica scolastica del Granducato e l’atteggiamento di Leopoldo II e di suo padre (suo predecessore) Ferdinando III oscillò tra l’indifferenza e il paternalismo (forma di governo in cui i provvedimenti presi a favore del popolo vengono affidati alla volontà del sovrano e non ai diritti del popolo). Inoltre dopo l’espulsione dei Gesuiti (1773) il governo toscano ha sempre cercato di opporsi alla partecipazione del clero nel mondo della scuola. Durante questo periodo la Toscana fu al centro di una serie di iniziative, promosse da intellettuali di posizione politica liberale, le quali dettero un grosso impulso allo sviluppo sociale e culturale dello Stato. Un elemento molto importante fu il periodico di impegno intellettuale l’Antologia, diretto da Vieusseux, intorno al quale si riunirono una serie di personalità che vedevano nell’educazione l’elemento essenziale per il risveglio nazionale e per i progresso civile. Questo dinamismo culturale che animava il Granducato di Toscana dette un grosso impulso anche alla diffusione degli asili infantili, tanto che nel 1846 la Toscana si presentava come la terza regione d’Italia con un max numero di asili infantili. Inoltre in Toscana si realizzò (più che in altre zone) una fusione tra gli asili infantili e le scuole di mutuo insegnamento, le quali ebbero la possibilità di svilupparsi e diffondersi in questo ambiente perché le autorità governative non posero nessun tipo di ostacolo. Infine, in questo clima di fervore intellettuale, fu non meno importante la creazione (nella tenuta del marchese Ridolfi) di un’azienda modello e di un istituto destinato alla formazione di contadini e dei proprietari. Degli istituti simili furono 71 fondati, in seguito, dai Lambruschini diventando delle vere e proprie scuole agrarie in cui non si dava importanza solo all’istruzione professionale degli allievi, ma anche a dei compiti educativi. Lombardia: nel 1846,mentre la Toscana era la terza regione per il numero di asili presenti sul suo territorio, la Lombardia si presentava come la prima. Ciò era dovuto all’azione di Ferrante Aporti, il quale nel 1828 stabilì il primo asilo infantile a San Martino dell’Argine perché il suo obbiettivo era quello di migliorare la vita dell’infanzia più disagiata, favorendone l’inserimento sociale attraverso la formazione morale e l’insegnamento della scrittura, della lettura e del far calcolo. Quest’opera educativa guidata da Aporti seguiva una linea politica: quella del cattolicesimo liberale, la quale si proponeva di dar vita ad una società più giusta e pronta ad aiutare quella parte più debole della popolazione. Inoltre questa iniziativa educativa era in sintonia anche con le idee della borhesia lombarda, la quale concepiva l’istruzione come quel fattore indispensabile per lo sviluppo economico e sociale. Gli asili infantili fondati da Aporti si svilupparono in tutto il territorio nazionale, tranne che nello Stato Pontificio e nel Regno delle 2 Sicilie ( al sud c’erano solo 2 asili: uno a l’Aquila e l’altro a Napoli); e ciò indicava innanzitutto l’interesse dei governanti nei confronti dei problemi legati all’infanzia e dell’istruzione popolare e, in secondo luogo, la differenza che esisteva tra regioni dominate dall’immobilismo agrario e regioni in cui la borghesia e gli imprenditori si preoccupavano di ridurre il tasso dell’analfabetismo. Tuttavia nel periodo di repressione delle idee liberali e dei moti risorgimentali fu portata avanti la tesi che questa cura che il governo austriaco-lombardo dedicava all’istruzione popolare coincideva con una forma di paternalismo finalizzato a neutralizzare le ragioni della protesta. Regno Sabaudo: la Restaurazione incentivò, all’interno del Regno sabaudo, lo sviluppo di un clima avverso alle idee illuministiche: infatti l’istruzione pubblica segnò il ritorno delle Regie Costituzioni del 1777; il principio dell’istruzione elementare obbligatoria non fu attuato e, infine, l’istruzione era completamente nelle mani del clero in quanto la max parte dei docenti erano preti. Tuttavia nel 1844 cominciarono a venir fuori nuove riforme che interessarono, in particolar modo, l’università e la vita culturale dello Stato. I fattori che hanno determinato la svolta costituzionale sono stati due: la Legge Boncompagni, la quale ha portato alla realizzazione della riforma della pubblica istruzione; e l’istituzione di una scuola di metodo per la formazione degli insegnanti. La diffusione di queste scuole di metodo suscitò il malcontento e l’opposizione del clero, il quale da un lato aveva il timore che in tali istituti si diffondessero idee pedagogiche che entravano in contrasto con quelle promosse dalla chiesa; ma dall’altro il clero si rese conto che con l’istituzione di queste scuole di metodo si cercava di allontanare la Chiesa dalla scuola e dall’educazione. Questo timore fu confermato dalla legge Boncompagni,la quale sottraeva al clero la gestione della scuola e la metteva interamente nelle mani dello Stato. Nello Stato Pontificio Leone XII nel condurre il progetto di restaurazione di autorità, cercò di mettere ordine anche nel campo scolastico dando vita ad una serie di iniziative. Tra queste molto importante è stata l’istituzione della Congregazione degli studi: un organo nelle cui competenze doveva ricadere l’attività della pubblica istruzione. Nonostante tutto le iniziative proposte da Leone XII e dai suoi successori (come Pio IX) non riuscirono a migliorare le condizioni in cui si trovava l’istruzione nello stato pontificio e il risultato finale fu che nel 1869 le scuole pubbliche a Roma erano solo 20. Quest’arretratezza da un punto di vista scolastico nello Stato Pontificio non può essere riconosciuta solo come una conseguenza del fatto che i problemi della 72 - la prima caratteristica coincide con la rapidità: a differenza delle altre leggi scolastiche, le quali hanno degli iter molto lunghi e che molto spesso non sono state portate a compimento, la legge Casati è stata approvata nel giro di 4 mesi e insieme alla riforma Gentile rappresenta una norma che è stata portata a compimento; - la seconda caratteristica coincide con il rispetto del modello piramidale napoleonico. Infatti la legge Casati prevede un sistema centralistico-burocratico piramidale in cui gli aspetti amministrativi e burocratici sono concentrati nelle mani di pochi. Al vertice di questa gerarchia c’è il Ministro; al centro c’è il Consiglio superiore della Pubblica Istruzione e 3 ispettori generali nominati dal re, uno degli studi superiori, uno degli studi classici e uno degli studi tecnici e primari; infine (in periferia) ci sono i Provveditori agli studi (presenti in ogni provincia), i capi d’istituto (ossia i presidi) e i docenti, i quali governano la classe di alunni. In questo sistema piramidale i Comuni svolgono un ruolo preciso: quello di organizzare i concorsi finalizzati alla selezione dei docenti per la scuola elementare e quello di governare e gestire proprio la scuola elementare, alla quale la Legge Casati non da molta importanza. Infatti l’ordine di studi previsti dalla legge riguarda: 1) l’istruzione superiore, impartita nelle università alle quali si può accedere solo se si frequenta il liceo classico; 2) l’istruzione secondaria, che si distingue in classica e tecnico-professionale; 3) l’istruzione elementare, gratuita e articolata in due gradi: un grado inferiore e un grado superiore, ciascuno di 2 anni. All’istruzione elementare sono dedicati 63 articoli (dal 315 al 378) in quanto la maggior parte di essi si riferiscono all’università e alla scuola secondaria classica;mentre alla scuola secondaria tecnico-professionale sono dedicati 43 articoli. Da ciò si evince che un’altra particolarità di questa norma coincide con l’essere elitaria e classista in quanto privilegia il percorso umanistico-letterario a discapito degli altri. Ciò significa che quegli alunni,che appartenevano a famiglie le quali potevano permettersi di far proseguire gli studi al proprio figlio,era destinato a svolgere un lavoro intellettuale e direttivo; mentre gli alunni che appartenevano a famiglie in cui c’era bisogno di max manodopera per vivere, erano destinati a svolgere un lavoro manuale e subordinato. Inoltre la legge Casati si basa su di un modello “a canne d’organo” il quale non da la possibilità agli studenti di passare da un percorso di studi all’altro; questo perché uno degli obbiettivi di questa legge era quello di tagliar fuori tutti coloro che non erano destinati a proseguire gli studi. Quindi la legge Casati si occupava molto poco della scuola elementare ( e ciò si evince sia dal numero di articoli ad essa dedicati che al compito di controllo affidato ad un solo ispettore sia per la scuola elementare che per quella superiore tecnica) e ciò è stato considerato un errore in quanto l’istruzione elementare aveva la forza di rinsaldare nelle singole coscienze i vincoli dell’unità nazionale, di promuovere la conoscenza tra le varie genti italiche e, infine, di portare i cittadini ad acquisire una cultura nazionale partendo da quella locale. Purtroppo la legge Casati privilegiava gli studi classici ,pose la sua attenzione sulla formazione dei futuri dirigenti della società e affidò la scuola elementare ai Comuni, i quali non sono stati in grado di incentivare lo sviluppo della scuola da qualsiasi punto di vista. - la terza caratteristica della legge Casati è che essa era una legge tipicamente piemontese. Ciò significa che essa nacque per rispondere alle esigenze specifiche del Piemonte (dove le istituzioni educative funzionavano bene perché avevano avuto un forte impulso dalla legge Boncompagni), ma dopo l’unità fu estesa a tutta Italia in cui 75 la situazione (soprattutto dal punto di vista scolastico)non era analoga a quella del Piemonte,ma in alcuni Stati completamente disastrosa. Un altro difetto della Legge Casati stava nei contenuti, i quali erano troppo poveri e incompleti per garantire l’autonomia culturale di base alla max parte degli allievi appartenenti a ceti sociali svantaggiati. Per quanto riguarda l’istruzione elementare due anni sono troppo pochi per favorire all’allievo competenze linguistiche e socio- cognitive di base. Per quanto riguarda l’istruzione superiore, la sua pecca stava nel fatto che essa forniva agli alunni cognizioni e abilità pratiche piuttosto che il metodo e quelle competenze utili a trasferire il proprio sapere e le proprie conoscenze in altri contesti. Inoltre questa norma era limitata perché si proponeva di fornire agli alunni che non avrebbero continuato gli studi solo quelle nozioni relative alla storia nazionale. Tuttavia il regolamento applicativo del19 settembre 1890 ampliò il contenuto della norma e molto importante fu l’introduzione della lettura sui principali Stati Europei, la quale ampliava la ristretta visione nazionale. Un altro punto saliente riguardava la religione cattolica in quanto l’art. 325 prescriveva che il parroco aveva il compito di valutare gli allievi, stabilendo una forma di controllo. Ciò sollevò una polemica molto grossa relativa alla necessità di non ridurre l’educazione religiosa alla sola concezione cristiano-cattolica. Questo problema relativo all’educazione alla religione è stato e continua ad essere il motivo che mette in contrasto i cattolici e i laici; in più esso è ,molto importante perché la religiosità rappresenta una dimensione della conoscenza e della sensibilità umana. La legge Casati è composta da 379 articoli, i quali si dividono in: - PRIMO TITOLO: 46 articoli che si occupano dell’amministrazione della pubblica istruzione; - SECONDO TITOLO: 141 articoli che si occupano dell’istruzione superiore e dell’università; - TERZO TITOLO: 84 articoli che si occupano dell’istruzione secondaria classica; - QUARTO TITOLO: 43 articoli che si occupano dell’istruzione tecnica; - QUINTO TITOLO: 58 articoli che si occupano dell’istruzione elementare (sia di grado inferiore che superiore), normale e della scuola dell’obbligo. le inchieste ministeriali La legge Casati stabiliva che il Consiglio Superiore della P.I. ogni 5 anni doveva presentare una relazione sullo stato d’insegnamento pubblico al ministro. All’adempimento di questo compito sono legate le inchieste ministeriali, i cui materiali rappresentano una fonte di conoscenza molto preziosa. Le principali inchieste ministeriali furono quella del 1864, del 1897 e del 1907. L’inchiesta del 1864 aveva come obbiettivo la verifica dei risultati ottenuti con l’applicazione della legge Casati in tutto il territorio nazionale, focalizzandosi particolarmente sull’istruzione popolare. Anche se la lotta contro l’analfabetismo era molto dura da affrontare, si registrò comunque un aumento del numero delle scuole, dei docenti e degli alunni. Tuttavia restava la piaga dell’assenteismo e dell’evasione scolastica, causate dal bisogno delle famiglie di un aiuto in più nel lavoro. Per quanto riguarda il tema dell’evasione scolastica anche su questo punto la legge Casati presentava una pecca in quanto essa imponeva l’obbligo di frequenza, ma non prevedeva l’attuazione di nessuna sanzione nel caso in cui la legge non venisse rispettata. Infine la legge Casati si basava su di un rigido controllo dei docenti, i quali sono considerati funzionari di rango inferiore e addomesticatori di forza-lavoro; inoltre ricevevano uno stipendio 76 misero ed è per questo che dovevano sacrificare la loro preparazione per svolgere altri piccoli lavoretti. i programmi Dopo la legge Casati ( e fino Gentile) non ci sono state più riforme scolastiche, bensì una serie di provvedimenti che hanno modificato questa legge senza, però, distruggerla. Una serie di aggiustamenti sono stati apportati grazie alle relazioni presentate degli ispettori generali dopo 3 anni dall’attuazione della legge. Queste relazioni sono state molto importanti perché costituivano una fonte inesauribile di informazioni e notizie e in più hanno messo in luce il disagio vissuto dalle popolazioni del Sud (dove molti Comuni non avevano i mezzi sufficienti ad istituire il secondo grado dell’istruzione elementare, alimentando così l’analfabetizzazione; per esempio). Oltre a queste relazioni, altrettanto importanti sono stati i programmi, i quali possono essere definiti come delle indicazioni dettate dallo Stato, ai quali gli insegnanti devono attenersi. Essi sono costituiti da due parti: una introduttiva e una più specifica, e sono molto importanti perché attraverso di essi è possibile valutare lo sviluppo della scuola italiana nel corso del tempo. I primi programmi, emanati in relazione della legge Casati, sono stati quelli del 1867 emanati dal Ministro Coppino che apportò delle modifiche ai programmi di ogni tipo di scuola. Il quadro dell’istruzione pubblica emerso dall’inchiesta ministeriale del 1864 appariva preoccupante su due punti: l’analfabetizzazione e la preparazione degli insegnanti. Per questo motivo furono elaborati I Programmi del 1867, i quali proponevano di semplificare i contenuti dei vecchi programmi emanati da Casati, in quanto essi erano adatti alla popolazione del Piemonte ma non a quella dell’Italia centro-meridionale, e coordinarli a l fine della scuola elementere. I tagli furono apportati alla grammatica, la quale doveva essere insegnata in modo pratico perché ciò che contava era l’apprendimento della lingua italiana (in quanto dopo l’unità erano emersi una serie di dialetti che sottolinearono la presenza di un’unità territoriale, ma non linguistica); e all’aritmetica. Inoltre questi programmi del ’67 ribadivano la necessità di congiungere, sia nella scuola elementare che nella scuola normale (ossia quella che preparava i maestri), l’istruzione con l’educazione in quanto era importante tener sempre presente i principi della morale. Infine è importante sottolineare che in questi programmi non c’era nessun riferimento all’insegnamento della religione cattolica nella scuola elementare, e ciò segnava una diminuzione dell’attenzione al carattere confessionale della religione ma non al suo ruolo di fondamento della morale e dell’istruzione popolare. Infatti nelle scuole normali l’insegnamento della pedagogia era legato a quello religioso e le lezioni di pedagogia potevano essere svolte dal parroco. Il 1876 fu un anno molto importante perché fu segnato da una svolta politica: il passaggio dalla destra storica, i cui governi avevano limitato l’emergente richiesta d’istruzione proveniente dal Paese, alla sinistra liberale la quale diede molta importanza all’istruzione. Infatti i Governi della sx liberale vararono una serie di provvedimenti: - aumento dello stipendio degli insegnanti; - incentivi economici ai Comuni per favorire la costruzione degli edifici scolastici; - distribuzione di sussidi all’istruzione primaria popolare. Inoltre i governi di sx si proponevano di diminuire il tasso di evasione ed è per questo che fu presentata una proposta di legge (16 dicembre 1876) del ministro della P.I. Michele Coppino, la quale ribadendo il principio di gratuità dell’istruzione elementare tentava di rendere effettivo l’obbligo scolastico per i bambini di età compresa tra i 3 e 77 che volevano continuare gli studi; per quelli che non avevano la possibilità di proseguire furono ripristinate la V e la VI elementare. Inoltre con questa norma fu innalzato l’obbligo scolastico fino a 12 anni e furono istituiti dei corsi serali in modo da dare la possibilità a chi lavorava di continuare gli studi e avere, almeno, una preparazione elementare. Da ciò si evince che lo Stato cominciava a preoccuparsi dell’istruzione dei propri cittadini e siccome dall’inchiesta del 1907 di Corradini venne fuori ancora una grossa differenza tra Nord e Sud, nel 1911 fu varata la legge Daneo- Credaro, con la quale la max parte delle scuole del territorio nazionale furono avocate allo Stato, nel senso che la gestione di queste scuole fu tolta ai Comuni e data allo stato. Inoltre questa norma si occupava di questioni burocratiche, della situazione relativa all’edilizia scolastica, decretò l’aumento degli stipendi sia dei direttori che dei maestri e un risistemazione della struttura amministrativa e dei ruoli scolastici. Il nuovo ordinamento introdotto dalla legge Orlando rese necessaria una riforma dei programmi, che venne attuata nel 1905 per opera di Francesco Orestano il quale cercò di far conciliare le idee di Gabelli con quelle del filosofo Herbart. I programmi di Orestano hanno messo in evidenza l’importanza della gradualità dell’apprendimento e si sono focalizzati molto sul rapporto con il mondo in cui il bambino vive. A tal proposito questi programmi mettono in luce il fatto che sarebbe opportuno servirsi, all’inizio, di un metodo d’insegnamento differenziato in quanto ognuno arriva a scuola con delle competenze linguistiche diverse; in più viene consigliato di alimentare la lettura istituendo una biblioteca di classe. Inoltre in questi programmi si raccomandava ai direttori di distinguere gli alunni in due gruppi: quelli che avrebbero dovuto continuare gli studi e quelli che avrebbero concluso il loro percorso frequentando la V e la VI elementare. Da ciò si evince che se da un lato questi programmi hanno fatto un passo avanti nello studio della mente del bambino, dall’altro puntavano ancora su di un’educazione classista. Nel 1905 il ministro della P.I Leonardo Bianchi istituì una Commissione reale d’inchiesta la quale aveva il compito di avanzare proposte per il riordinamento dell’istruzione secondaria. Dalle riunioni della Commissione vennero fuori posizioni contrastanti: in un primo momento fu proposto di creare una scuola di primo grado (postelementare), di 3 anni, uguale per tutti. Questa proposta fu molto ostacolata, soprattutto da Galletti e Salvemini, i quali sostenevano che un’unica scuola postelementare non avrebbe garantito una buona istruzione né a coloro che erano destinati a proseguire gli studi, né a coloro che erano destinati ad entrare direttamente nel mondo del lavoro. Per questo motivo fu avanzata la tesi di dar vita, sin dal principio, ad una separazione tra ginnasio-liceo e scuole di indirizzo tecnico e professionale. Nel 1909 la Commissione giunse alla fine dei suoi lavori e presentò una relazione in cui si proponevano tre tipi di scuola secondaria inferiore: ginnasio, scuola tecnica e scuola complementare (x la formazione dei maestri elementari. l’istituto magistrale nascerà con la riforma Gentile). 3. DA GENTILE ALLA REPUBBLICA Dopo la prima guerra mondiale e tutti gli avvenimenti che la succedettero, provocarono nuove difficoltà nell’ambito dell’educazione e della scuola, la quale veniva considerata come un’agenzia incapace di formare la classe dirigente perché molti potevano accedere facilmente alla scuola classica. Quest’inefficienza della scuola era stata colta già nel 1908 da Giovanni Gentile, il quale prima di essere un politico è un grande filosofo che con il suo pensiero idealista ha influenzato la cultura italiana sia prima dell’avvento del fascismo che dopo la sua caduta. Ritornando al discorso precedente, Gentile nel 1908 (in un’occasione pubblica) 80 affermò che la società italiana era piena di disoccupati (soprattutto laureati in medicina e giurisprudenza) non a causa di una carenza del lavoro, ma perché questi erano ignoranti in quanto non avevano avuto una buona formazione né nella scuola secondaria che in quella superiore, ossia nell’università. Per questo motivo egli propose (in qualità di intellettuale) di rendere selettiva ed elitaria la scuola secondaria classica e il suo proseguimento, e cioè l’università; e creare delle scuole tecniche e commerciali per coloro che non frequentavano il liceo classico. In questo caso il compito dello Stato era quello di non fornire i mezzi necessari per andare all’Università a coloro che non frequentavano la scuola classica. Queste furono le premesse della riforma Gentile, che nascerà nel 1923; ma molto importante fu anche il VII congresso della Federazione Nazionale degli insegnanti Scuole Medie (1909) in cui ci fu uno scontro tra Salvemini, il quale proponeva una scuola classica elitaria e l’istituzione di scuole tecniche per chi non proseguiva gli studi, e Nicoli che, invece, proponeva una scuola media unica in nome del diritto di tutti ad una formazione culturale. La tesi di Nicoli rimase nell’ombra in quanto intorno alla concezione di un’istruzione secondaria elitaria c’era un forte consenso che divenne ancora più forte negli anni del dopoguerra in cui si propose di ridurre il numero delle scuole secondarie statali per innalzare la qualità degli studi; di allontanare gli studenti poco dotati e poco volenterosi dal liceo classico e indirizzarli verso istituti privati o tecnici. Le idee di Gentile riuscirono a svilupparsi notevolmente nell’ambito dell’istruzione grazie alla poca influenza del positivismo (il quale entrò nella scuola italiana molto tardi con i programmi Gabelli del 1888) e alla continua pressione da parte dei cattolici, i quali volevano partecipare attivamente all’educazione delle nuove generazioni. In questo periodo anche il movimento operaio aveva cercato di dar vita a delle innovazioni nel campo educativo conducendo delle aspre battaglie in Parlamento per l’istituzione di una scuola per il popolo e l’innalzamento dell’età dell’obbligo. Questi movimenti operai furono alimentati da una forte diffusione, nel nostro Paese, delle idee socialiste che entravano in contrasto con: il disimpegno della classe politica che aveva paura di un’alfabetizzazione del popolo, con l’ostilità della Chiesa che voleva imporre la sua egemonia sulla cultura e l’impiego del lavoro minorile; e grazie alle quali si sono riuscite ad ottenere molte conquiste culturali ed educative. Infatti lo scopo dei socialisti ( che erano guidati dalle idee di Marx) era quello di eliminare la borghesia e fare del proletariato la futura classe dirigente del Paese. Per far ciò i lavoratori non potevano limitarsi all’istruzione elementare, ma andare oltre e non lasciare alla borghesia la gestione degli istituti finalizzati a formare la futura classe dirigente. Il quadro del dopoguerra era molto complesso e in questo periodo nacque un organismo di propaganda educativa, affidato al Ministero della P.I., che si serviva di due strumenti: una rivista “Educazione nazionale” e un’associazione di insegnanti “ Fascio di educazione nazionale”. Questa rivista e questa organizzazione (che vide al suo interno uomini di spicco come Lombardo Radice e Croce) affiancarono un’opera finalizzata alla creazione di un nuovo assetto sociale e scolastico. Si delineò, in questo modo, la strada che ha lasciato spazio a quella che Mussolini definì “la più fascista delle riforme”: la Riforma Gentile. Il 30 novembre 1922 Benito Mussolini riuscì ad ottenere la carica di Presidente del Governo. Tutto ciò avvenne in modo illegale in quanto dopo aver annientato il partito socialista dall’Italia, Mussolini puntò alla presa del potere agendo su due linee: una moderata e una violenta. Da un lato egli intrecciò trattative con i liberali; rassicurò la monarchia sconfessando le tendenze repubblicane del fascismo; si accaparrò l’appoggio degli industriali annunciando di voler restituire l’iniziativa privata. Dall’altro 81 egli preparò un colpo di Stato: la Marcia di Roma, la quale consistette in una mobilitazione di tutte le forze fasciste che partì il 27 ottobre 1922 da Napoli. Nello stesso giorno cadde il governo Facta il quale chiese al re uno stato d’assedio. Questo in un primo momento era propenso ad accettare, ma avendo paura di uno scontro con i fascisti, rifiutò aprendo la strada a Mussolini, che la sera del 30 ottobre fu nominato dal re presidente del Governo. Il primo obbiettivo di Mussolini era quello di diffondere le idee fasciste nelle singole coscienze ed è per questo che egli dette molta importanza alla scuola, la quale veniva considerata come quell’agenzia in cui era possibile formare una classe dirigente che mancava al governo fascista e che aveva il compito di governare secondo le ideologie fasciste. Nello stesso anno in cui gli fu dato l’incarico di formare un nuovo Ministero Mussolini affidò a Gentile il compito di riformare la scuola in quanto Gentile era un uomo colto e illustre da un punto di vista intellettuale. Divenuto Ministro della P.I. Gentile ha avuto la possibilità di mettere in pratica le sue idee propagandate in tanti anni di battaglie scolastiche in una riforma emanata il 1923: la riforma Gentile. Il primo compito del nuovo Ministro era quello di riportare l’ordine e la disciplina nella scuola, adeguandosi perfettamente alla politica fascista. Il 25 novembre 1922 Gentile emanò una prima circolare ministeriale in cui mise in evidenza che nella scuola (la quale rappresenta uno degli organi più delicati dello Stato) bisogna educare al: rispetto delle leggi, all’ordine, alla disciplina, all’adesione cordiale (e cioè un’adesione al regime che non deve dimostrare astio) e all’obbedienza scrupolosa al regime. Inoltre in questa circolare Gentile chiedeva ai dirigenti e agli insegnanti di punire immediatamente e severamente chi non rispettava l’ordine e la disciplina e chi manifestava ideologie avverse a quelle del regime. Quindi tale riforma proponeva esclusivamente il rispetto delle leggi, il quale doveva essere garantito adottando la così detta “politica del manganello”. Ciò significa che gli alunni dovevano rispettare le leggi o con la democrazia e le buone maniere o con colpi di manganello. Lo stesso discorso si trasferiva dall’ambito educativo a quello sociale. A tal proposito molto importante è una circolare di Gentile (di cui alcuni storici hanno messo in dubbio la sua autenticità) in cui il ministro afferma che ogni forza è sempre di tipo morale perché si rivolge alla volontà, qualunque sia lo strumento utilizzato. Ciò significa che qualsiasi mezzo si utilizzi per far rispettare le leggi è sempre giusto ed è per questo che con la Riforma Gentile e il fascismo gli insegnanti cominciarono ad essere autorizzati ad utilizzare la violenza fisica in classe. Questa Riforma era composta da 12 Regi decreti emanati da febbraio a dicembre 1923, 10 dei quali interessavano la scuola elementare. Per quanto riguarda la scuola materna essa assunse con la riforma il ruolo di scuola preparatoria a quella elementare e istituita facoltativamente per i bambini di età compresa tra i 3 e i 6 anni. Tuttavia, come già successe per le Istruzioni del 1914, questo passo avanti nella scuola dell’infanzia rimase solo su carta in quanto i fascisti non davano molta importanza all’istruzione infantile favorendo lo sviluppo, in questo settore, di istituti privati e cattolici. La scuola elementare durava 5 anni ed era divisa in un grado inferiore e in un grado superiore, al quale si arrivava facendo un esame al terzo anno. Inoltre venne previsto un corso integrativo della durata di 3 anni che però non era obbligatorio. La scuola media comprendeva: la scuola complementare (che non dava la possibilità di proseguire gli studi); il ginnasio, il quale veniva considerato la scuola per eccellenza perché apriva le porte al liceo prima e all’università poi.; l’istituto magistrale, l’istituto tecnico e la scuola d’arte. La scuola media superiore si distingueva, a sua volta, in: - istituto magistrale superiore, il quale apriva le porte alla Facoltà di Magistero; 82 denominato “il ministro più rozzo della Minerva”. De Vecchi dette vita ad una bonifica fascista ed è per questo che sotto il suo governo vennero soppressi i consigli scolastici, vennero istituite le Facoltà di Magistero e modificati i programmi scolastici con l’introduzione di nuove materie. Il 19 gennaio 1939 il Ministro Bottai dette vita ad una Carta della Scuola (definita la riforma della riforma Gentile) in cui metteva in evidenza l’importanza dell’ingresso delle masse nella scuola e l’istituzione di una scuola popolare, in modo da formare lavoratori attivi e disciplinati e nello stesso tempo contenti dei limiti imposti dallo Stato. In questa Carta della Scuola si proponeva una scuola elementare divisa in 2 cicli: - la scuola elementare, triennale; - la scuola del lavoro (biennale) in cui i programmi venivano posti sotto l’insegna del lavoro, in modo da condurre i giovani a prendere coscienza di esso e avvicinarvisi con amore e interesse. Nel frattempo l’opera di restaurazione del regime fascista continuava in quanto fu introdotto il giuramento di fedeltà al regime e cominciarono le persecuzioni razziali. Nonostante ciò la guerra era alle porte ed è per questo che né la Carta della Scuola, né le idee del Ministro che succedette Bottai (Biggini) potettero essere sperimentate in quanto l’avvento della guerra ha segnato il crollo del ventennio fascista. Il ventennio fascista e la seconda guerra mondiale avevano costretto l’Italia ad una chiusura nei confronti delle ricerche pedagogiche avvenute nel mondo, come quella di Dewey negli USA e quelle di Makarenko in Russia, che sono entrate nel nostro paese dopo 50 anni dalla loro nascita. Con la caduta del fascismo in Italia cominciarono ad entrare numerose correnti pedagogiche ed esperimenti educativi che hanno spinto la scuola e l’istruzione verso il cambiamento, anche se ciò è avvenuto mediante un processo lungo e difficile. Questo perché da un lato bisognava rispondere alle nuove esigenze che stavano nascendo contemporaneamente alla Repubblica; dall’altro bisognava tener testa alle difficoltà imposte dai: - crociani, i quali volevano riportare alla luce gli ideali della scuola di Casati elitaria e classista; - laici e dai marxisti. Nonostante ciò le conseguenze di queste diverse posizioni furono negative per le riforme scolastiche in quanto le indicazioni teoriche, i metodi e le pratiche fasciste continuarono a sopravvivere nella scuola italiana per molto tempo. washburne e i programmi del 1943 Nelle vicende dalla scuola italiana un ruolo molto importante lo ebbe Washburne, un pedagogista statunitense che fu nominato membro della Commissione alleata nel controllo dell’Italia e consigliere per la politica scolastica nel nostro governo. Il lavoro di Washburne si svolse prima in Sicilia e, via via, nelle zone che venivano liberate dai tedeschi trovando mille difficoltà. Tali difficoltà non erano solo di natura materiale ma anche di natura politica e psicologica, in quanto il nostro Paese, uscendo molto provato dalla guerra, metteva in primo piano altri problemi rispetto a quelli legati alla scuola e all’istruzione. Nonostante ciò Washburne affidò a Ferretti (un pedagogista italiano che aveva manifestato più volte il suo pensiero antifascista) il compito di estendere nel paese i programmi e le indicazioni didattiche x la scuola elementare del 1943-44. Washburne prese poco in considerazione la scuola secondaria e diede molta importanza a quella elementare, ma nonostante ciò i suoi programmi vennero distrutti dalle autorità perché escludevano l’insegnamento della religione. 85 i programmi del 1945 Dopo il fallimento dei programmi del 1943 Washburne, il quale l’anno dopo doveva dar vita a nuovi programmi, si preoccupò di mettere un monsignore nella commissione, il quale controllò che gli altri membri non includessero nulla di offensivo per la Chiesa. La commissione elaborò dei programmi innovativi in cui si sentiva l’influenza del pensiero democratico di Dewey: infatti dai programmi viene fuori un progetto educativo che passando per l’insegnamento individualizzato, è orientato verso la collaborazione tra gli alunni e un’esperienza di partecipazione comunitaria aperta alla famiglia e alla società. Tuttavia non mancano, in questi programmi, delle parti in cui Weshburne mette in evidenza il ritardo della cultura italiana rispetto a quella mondiale soprattutto per la religione e per il lavoro agricolo. Nonostante questi loro limiti i programmi del 9 febbraio del 1945 risultarono essere troppo avanti rispetto agli avvenimenti che si verificarono nel nostro paese e nel mondo nel decennio successivo. 4. IL SECONDO DOPOGUERRA (1946-1960) Dopo la seconda guerra mondiale l’Italia si presentava come una nazione molto provata da un punto di vista economico e sociale; e molto disorganizzata da un punto di vista politico in quanto in questo periodo si affermarono i maggiori partiti politici che avevano dato il loro contributo alla liberazione del paese. I maggiori erano la DEMOCRAZIA CRISTIANA, il PARTITO COMUNISTA e il PARTITO SOCIALISTA. Nel 1946 si instaurò in Italia il secondo governo De Gasperi, il quale era stato uno dei fondatori della DC e scelse come ministro della P.I. Guido Gonnella (1947-1951), un cattolico. Questa scelta non era il frutto di un accordo tra i partiti che costituivano questo nuovo governo (e cioè DC, partito popolare e partito socialista), ma una decisione politica presa solo da de Gasperi, che si proponeva di rinsaldare i rapporti con gli ecclesiastici accogliendo il pensiero religioso per risolvere i problemi legati alla scuola e all’istruzione. La scelta di Gonnella come ministro fu una ottima mossa in quanto pochi mesi prima dalla sua nomina egli mise in evidenza, nel primo congresso nazionale della DC, la sua tesi relativa al ruolo dello Stato e della Chiesa nei confronti dell’istruzione. Egli affermò che lo Stato doveva “fare le veci della famiglia”, e cioè limitarsi ad aiutare l’iniziativa privata solo nel momento in cui essa non era in grado di rispondere ai bisogni sociali. La Chiesa veniva considerata l’unica istituzione in grado di definire le finalità del processo educativo ed è per questo che ad essa venne assegnato il magistero pedagogico. Di conseguenza nacque l’idea che se alla Chiesa spettava il compito di stabilire i contenuti etico-religiosi dell’insegnamento, lo Stato aveva il compito di fornire un quadro giuridico complessivo ai vari interventi educativi e svolgere un ruolo di supplenza senza mettere in dubbio il ruolo primario della chiesa nell’ambito dell’educazione. Tuttavia è importante guardare questa tesi di Gonnella con prospettiva storica, la quale ci permette di valutare il contesto in cui viveva questo ministro. L’Italia, nel secondo dopoguerra, fu segnata da una serie di scontri politici tra DC e partiti della sinistra che presto si trasformarono in scontri ideologici (relativi soprattutto alla politica internazionale). Inoltre nel nostro paese, come in tutto il mondo, si sentiva molto il clima della guerra fredda: infatti tra il 1946-47 i partiti di sinistra vennero esclusi dal governo perché l’Italia entrò a far parte dei paesi occidentalizzati e tutto ciò contribuì ad un concentramento del potere nelle mani della DC, la quale riuscì ad affermarsi in modo molto forte in alcuni settori, come quello 86 dell’informazione e dell’istruzione. Nel primo settore la resistenza da parte della sinistra contro l’invadenza democristiana fu alquanto viva; mentre nel settore dell’istruzione fu pressoché assente in quanto la sinistra sottovalutò i problemi della scuola e il loro legame con i processi di trasformazione della società. In questo contesto il ruolo svolto dal ministro Gonnella fu importante perché egli riuscì ad utilizzare la burocrazia ministeriale in modo proficuo per l’affermazione del potere politico della DC e a promuovere una serie di iniziative che servivano a mettere in atto una fitta rete di relazioni clientelari e realizzare un controllo costante e articolato del mondo della scuola da parte del potere centrale. Il modello al quale si ispirò l’azione di Gonnella lo si può estrapolare dalla sua proposta di legge del 1951: Norme generali sull’istruzione, la quale non fu mai discussa in Parlamento e si proponeva l’attuazione di un sistema scolastico che nasceva dalle conclusioni a cui era pervenuta la Commissione Nazionale d’inchiesta per la riforma della scuola fondata dallo stesso Gonnella nel 1947. Con questo disegno di legge Gonnella si proponeva di sostituire il decentramento amministrativo e funzionale della scuola (e cioè una diramazione burocratica centrale, regionale e provinciale che moltiplicò gli organismi di direzione e di controllo), con il quale si voleva dare uno spazio maggiore agli insegnanti, con la costruzione di una struttura che avrebbe escluso qualsiasi forma di democrazia e permesso alla burocrazia centrale e al ministro un controllo costante della scuola. Anche se questa legge non fu approvata in Parlamento Gonnella attuò una serie di iniziative finalizzate a confermare l’egemonia politico-amministrativa nell’ambito educativo. In questo progetto rientrarono: la Costituzione della Commissione nazionale d’inchiesta x la riforma della scuola (1947); la creazione di una serie di apparati burocratici; la nomina di una Consulta della scuola, la quale emanò una serie di proposte che sono state la base dei programmi del 1955; e infine la riattivazione dei Centri didattici (creati da Bottai nel 1942) i quali avevano il compito di appoggiare le posizioni governative, le quali rimasero immutate con i ministri democristiani che successero Gonnella fino al 1955. In questi anni del centrismo democristiano molto importante fu la sintonia che si creò tra il vertice politico del ministero e la burocrazia ministeriale centrale e periferica, la quale sentiva come un obbligo quello di evitare che nella scuola ci fossero degli squilibri e fratture rispetto all’ereditarietà del fascismo (in quanto la concezione che predominava dall’alto era quella di favorire una “continuità dello Stato”). Inoltre questi dirigenti ministeriali intervennero spesso nelle discussioni relative ai problemi educativi, ponendosi di fronte ad essi con un atteggiamento più realistico rispetto ai cattolici. In più l’alta burocrazia, proponendosi come obiettivo quello di opporsi al’influenza del comunismo e agendo tenendo presenti i valori umanistici e cattolici e l’importanza della legalità, perseguì un progetto teso ad evitare una trasformazione troppo radicale e (al contrario) finalizzato a promuovere un passaggio fluido dalla scuola fascista a quella post-fascista in modo da assicurare a questa l’appoggio di coloro che aderirono al progetto fascista del ministro Bottai. A tutto ciò è opportuno aggiungere che nei primi anni del centrismo democristiano, oltre a promuovere una continuità di Stato, si cercò di attuare anche una continuità materiale in quanto i quadri dirigenti e gli ordinamenti della scuola rimasero quelli del fascismo. Da ciò si evince che il controllo della scuola era volto a scoraggiare qualsiasi intervento innovatore. Questa egemonia esercitata a lungo dall’integralismo cattolico all’interno della scuola non è stata solo la conseguenza dell’azione politica del partito democristiano, ma anche figlia di un forte interesse che la Chiesa ha sempre rivolto all’istruzione scolastica, in quanto si è sempre resa conto che essa ha una grossa influenza sui processi di trasformazione sociale e culturale. Da 87 istituzioni, dall’altro era segnato da una profonda ideologia che svolgeva il ruolo di guida e dalla difficoltà di dar vita ad una progettualità che potesse essere applicata nella prassi, in quanto poco flessibile e per niente incline ad aprirsi e confrontarsi con ideologie alternative le quali, a loro volta, erano caratterizzate da questa pretesa di assolutezza. Questa caratteristica, oltre che nel pensiero comunista, persisteva in modo radicale anche sul fronte della pedagogia cattolica, che appoggiò la politica di destra, e cioè quella del partito democristiano. Questo scontro tra due visioni del mondo diverse (ossia quella dei partiti di sx e dei partiti di dx) nell’ambito della cultura pedagogica e didattica è stata dimostrata anche dal fatto che negli anni del dopoguerra – nel momento in cui bisognava ricostruire il paese – gli intellettuali cattolici sostenevano che solo una soluzione cattolica avrebbe fornito una risposta adeguata ai problemi della società. In questo modo lo scontro tra intellettuali di dx e di sx divenne sempre più acceso da un punto di vista ideologico, ma una serie di avvenimenti che si verificarono intorno agli anni ’50 migliorarono la situazione. Nel 1958 fu eletto come papa Giovanni XXIII, il cui magistero fu caratterizzato dall’ecumenismo, ossia da questo movimento che tende ad avvicinare tutti i cristiani e quelli delle diverse chiese in nome di Dio; in questi anni furono denunciati tutti i crimini di guerra e nel 1956 ci fu la rivolta ungherese. Tutti questi avvenimenti provocarono, in Italia, la rottura tra il partito socialista e quello comunista e molti cominciarono a guardare ai regimi totalitari con uno sguardo nuovo. Tuttavia è importante sottolineare che il panorama pedagogico italiano non mutò improvvisamente, ma nel nostro Paese continuarono a persistere una serie di questioni che cercheranno di essere risolte nel nuovo decennio: tra questi problemi uno molto importante era quelle del diritto di ogni cittadino alla scuola x almeno 8 anni. DOCUMENTI sindacati e associazionismo nel dopoguerra Nel 1945 nacque una federazione aderente alla C.G.I.L nella quale confluirono tutti i sindacati della scuola: quelli pubblici e privati. Ma con la rottura dei governi di coalizione anche quest’unità sindacale crollò e la conseguenza fu che i sindacati abbandonarono la C.G.I.L. e cominciarono ad unirsi in organizzazioni autonome. Il sindacalismo autonomo, che si sviluppò anche in altri settori del pubblico impegno, se da un lato poteva rispondere meglio alle richieste dei propri rappresentanti dall’altro contribuì a far indebolire nei lavoratori la consapevolezza degli interessi generali e crescere gli squilibri legati alle retribuzioni. Negli anni del dopoguerra risorse anche il fenomeno dell’associazionismo: i laici si unirono in due associazioni e proponevano una max aggregazione tra gli insegnanti. Tuttavia queste associazioni vennero isolate perché esse rimasero estranee alle grandi divisioni ideologiche e partitiche. Infatti in questo clima di guerra fredda le più importanti associazioni furono quella dei cattolici e quella dei comunisti. l’attivismo pedagogico Decroly e Dewey vengono considerati i padri dell’attivismo pedagogico, i cui temi possono essere individuati: - nel puerocentrismo, ossia in quest’esigenza di mettere il bambino al centro del processo educativo; - nella valorizzazione del fare nell’ambito dell’apprendimento infantile; 90 - nella motivazione, in quanto un apprendimento organico avviene solo nel momento in cui il soggetto è spinto da un interesse; - nella centralità dello studio dell’ambiente, perché è proprio dalla realtà in cui l’allievo vive che trae gli stimoli per il suo apprendimento; - nella socializzazione; nell’antitotalitarismo, il quale poneva l’adulto come un soggetto superiore al fanciullo e nell’antiintellettualismo, il quale promuoveva una conoscenza più libera da parte del discente. Andando più in fondo è possibile affermare che Decroly ha aperto la strada verso il metodo globale, ritenuto da esso il metodo giusto perché va dal tutto alla parte ed è conforme al modo di ragionare del bambino. Il bambino, infatti, vede l’esperienza quotidiana come un’esperienza globale dalla quale estrapolare e analizzare le singole parti. Dewey, invece, ha visto nell’interesse il centro dell’azione pedagogica ed è stato il promotore dell’educazione alla democrazia. la crisi epistemologica della pedagogia Nella seconda metà del’800 si era diffusa la convinzione che la pedagogia avesse conquistato un proprio statuto epistemologico, fondato sull’applicazione del metodo sperimentale. Nell’ambito di questa convinzione ci si era resi conto della multidisciplinarità delle fonti del sapere pedagogico, che nell’800 non venne visto come un problema o come una minaccia per l’identità della pedagogia, ma come una conseguenza del progresso scientifico. Con il passaggio al secolo successivo (1900) la pedagogia cominciò a sentire il declino della certezza relativa al suo statuto epistemologico, in quanto questo periodo fu caratterizzato da una profonda crisi culturale che colpì sia l’ambito della filosofia che quello della fisica. Per quanto riguarda la pedagogia, già verso la fine dell’800, cominciarono a svilupparsi una serie di esperienze educative d’avanguardia le quali si proponevano di andare contro i modelli educativi tradizionali e che sfociarono in una grande corrente pedagogica: l’attivismo, il quale si sviluppò in tutta Europa. Il max esponente dell’attivismo negli USA fu Dewey, che con il suo pensiero ha influenzato moltissimo l’educazione europea in quanto esso (ossia il suo pensiero) costituì il principale punto di riferimento della riflessione pedagogica della prima metà del 1900. Dewey da molta importanza alle ricerche delle scienze sperimentali, le quali oltra a dare una serie di conoscenze, forniscono un modello di unificazione di valori importanti quali: l’intersoggettività, la comunicazione e la democrazia. Inoltre la teoria dell’educazione di Dewey non poggia sull’assolutezza e l’oggettività delle conoscenze scientifiche, ma sul loro carattere problematico e aperto al mutamento. 5. SCUOLA E EDUCAZIONE PERMANENTE TRA ACCENTRAMENTO E DECENTRAMENTO (1960-1990) La politica scolastica portata avanti, nel corso degli anni ’50, dal moderatismo centrista (il quale dette un forte impulso nell’elaborazione dei programmi per la scuola elementare del 1955) vide la fine (dopo il tentativo di restaurazione attuato da Tambroni nel 1960) con la costituzione delle prime coalizioni governative del centrosinistra. Le problematiche relative alla scuola e all’educazione continuavano ad essere quelle che si sono sempre sviluppate nell’ambito dei partiti di sx da un lato, e nell’area cattolico-moderata dall’altro ; ma a queste si aggiungevano anche una serie di opposizioni che si verificavano all’interno dello stesso schieramento di sinistra: e in 91 particolare tra il Partito comunista italiano e il Partito socialista italiano, il quale cominciò a collaborare con la DC al governo. Le prime critiche mosse in campo scolastico nei confronti dei comunisti e dei socialisti (tra il 1961-62) riguardarono la posizione che assunsero nei confronti della legge relativa all’istituzione della scuola media unica, che il Parlamento approvò il 31 dicembre 1962. La scuola media unica era stata già istituita nel 1940 con la riforma Bottai. Essa andò a sostituire i corsi inferiori del ginnasio, del liceo scientifico, dell’istituto magistrale ecc., dando al panorama scolastico una maggiore organicità. Ma in realtà questa scuola non fece altro che rendere ancora più evidente la separazione tra chi era destinato a proseguire gli studi e chi, invece, era destinato a lavorare in quanto la riforma Bottai prevedeva una scuola media inferiore divisa in tre ranghi: la scuola artigiana, la scuola professionale e la scuola media unica per chi sarebbe andato avanti con gli studi e frequentato l’università. Nel dopoguerra, invece, divenne sempre più evidente la consapevolezza di dover istituire una scuola media unica e uguale per tutti. Questo progetto, che in un primo momento fu ostacolato dai comunisti, fu poi appoggiato e portato avanti proprio da quest’ultimi, anche se non mancarono degli scontri all’interno dello stesso partito. Ciò accadde perché la discussione relativa all’unificazione della scuola media si intrecciò con quella relativa all’introduzione del latino in questo percorso scolastico triennale. Su tale questione importanti furono le posizioni contrapposte di due esponenti di sx: da un lato c’era Marchesi, il quale sosteneva l’introduzione del latino nella scuola media; dall’altro c’era Banfi che, invece, promuoveva l’introduzione delle scienze e della tecnica al posto del latino. Con l’avvio degli anni ’60 furono attuati una serie di tentativi finalizzati a realizzare questa scuola media unica, in cui furono introdotti una pluralità di percorsi da seguire. Ma, infine, dopo un lungo dibattito in Parlamento, il 20 dicembre 1962 fu approvata la legge che istituì la scuola media unica per tutti. Per quanto riguarda lo studio del latino questa riforma prevedeva l’insegnamento di alcune nozioni di base nella II classe e la possibilità di studiare questa materia (in modo facoltativo) nella III classe. Infine con un decreto del 1963 furono regolamentati orari, programmi e prove d’esame; mentre l’esame di ammissione fu abolito già nel 1961. Anche se questa legge fu un grande passo avanti nel mondo della scuola è importante sottolineare che i docenti erano ancora molto impreparati nell’affrontare un sistema scolastico diverso, ed è per questo che per molti anni molti insegnanti continuarono a lavorare utilizzando i metodi selettivi di sempre. Fu proprio questo la causa dell’elaborazione di una serie di saggi critici nei confronti dei maestri, come quello di Don Milani. Negli anni in cui è stata varata questa legge gli scontri tra le forze politiche, sia in Parlamento che fuori, furono molto accese; ma nonostante ciò si delinearono una serie di scelte che ancora oggi hanno una validità, come: 1) l’affermazione dell’importanza dell’unitarietà lungo tutto il percorso di formazione scolastica; 2) l’affermazione dell’importanza della continuità verticale tra i vari gradi della scuola dell’obbligo; 3) l’affermazione dell’importanza dell’adattamento dei programmi ministeriali alle varie situazioni ambientali, in modo da evitare delle discriminazioni tra aree più sviluppate e aree meno sviluppate; o tra zone urbane e rurali; 4) infine l’affermazione dell’importanza del completamento della scuola pubblica sul tutto il territorio nazionale in modo da placare lo sviluppo delle scuole private, le quali sono di carattere religioso. Con la legge del 1962 ebbe inizio un periodo molto movimentato, durante il quale caddero due Governi sui problemi della scuola, e che cominciò a trovare un po’ di equilibrio intorno al 1968 grazie all’emanazione della legge istitutiva della scuola materna statale e dei suoi Orientamenti didattici l’anno dopo (10 settembre 1969). 92 i decreti legislativi Un esempio di gestione allargata della scuola è rappresentata dai decreti legislativi che furono pubblicati il 31 maggio 1974 dopo l’emanazione (il 40 luglio 1973) di una legge che delegava il governo di emanare proprio dei decreti per la scuola che dovevano fissare i principi sui quali la nuova normativa doveva attenersi. Tra i 5 decreti pubblicati i primi due introdussero dei cambiamenti importanti sia per l’organizzazione della scuola che per la definizione della figura del docente. Con questi decreti furono istituiti gli organi collegiali, e ciò aveva lo scopo di garantire una max partecipazione della comunità nella gestione della scuola. Degli organi collegiali di circolo e di istituto entrarono a far parte i rappresentanti dei genitori degli alunni e, nella scuola superiore, i rappresentanti degli alunni stessi; e sia agli uni che agli altri venne riconosciuto il diritto di riunirsi in assemblee, ossia in organizzazioni assolutamente democratiche in cui poter approfondire i problemi relativi all’educazione e alla formazione dei soggetti. Al distretto scolastico è attribuito il fine di realizzare la partecipazione democratica delle comunità locali e delle forze sociali alla vita e alla gestione scolastica in modo da garantire sia uno sviluppo delle istituzioni stesse e delle attività ad esse connesse; sia un miglioramento nella crescita culturale e della formazione della comunità. Con l’attuazione dei decreti legislativi si è registrato un momento di svolta nell’ambito della scuola italiana, anche se gli obiettivi di democrazia partecipativa hanno raggiunto dei risultati poco brillanti a causa di una serie di fattori, quali: uno scarsissimo potere decisionale dato ai rappresentanti dei genitori e degli alunni negli organi collegiali; l’interpretazione burocratica data da molti capi d’istituto e dirigenti a molti momenti decisivi di partecipazione collegiale e il grosso potere burocratico del potere centrale e periferico. L’istituzione degli organi collegiali e la proposta di una max partecipazione della comunità nella gestione della scuola rappresentò il riflesso di un bisogno, sentito dalle forze sociali e culturali, di un decentramento dei poteri dal centro verso al periferia, in modo da dare una risposta più adeguata alle esigenze delle popolazioni e utilizzare in modo più produttivo le risorse umane e strutturali. Con la nascita “formale” delle Regioni (le quali già si delinearono nel 1948 con la Costituzione da un punto di vista istituzionale, e ancor prima da un punto di vista geografico) nel 1970, furono emanate una serie di norme legislative che rendevano più forti e autonome le amministrazioni locali e le strutture periferiche dello Stato, creando un clima favorevole di partecipazione territoriale, ma nello stesso tempo anche situazioni più problematiche e la duplicazione di compiti da svolgere. Tutto ciò si presentava come una materia nuova, complessa e articolata, che magmaticamente è emersa da qualsiasi settore e che per essere analizzata richiede la presenza di competenze politiche, sociali e culturali relative alla ricerca educativa e pedagogica. Dall’analisi di ciò si evince che tutte le istituzioni locali erano coinvolte un progetto di educazione permanente rivolto concretamente agli interessati e che le Università non potevano farsi da parte, ma avviare delle indagini scientifiche nel territorio e mettere in luce delle proposte di intervento che si propongono come fine lo sviluppo culturale dell’intera società. la stagione delle proposte. la politica dei progetti educativi in sede locale Il coinvolgimento di tutti gli istituti presenti nel territorio nelle questioni legate all’educazione è stato il punto di arrivo più concreto delle politiche educative degli anni ’80, raggiunto dopo aver affrontato l’astrattezza delle teorizzazioni, dei documenti e dei Convegni tenutisi in tutta Europa. Inoltre è proprio agli inizi degli anni 95 ’80 che sono stati elaborati i primi scritti che indicano la strada per sperimentare interventi di autoeducazione delle comunità e di didattica territoriale. E’ così che nel 1978 ha avuto inizio la “stagione delle proposte” durante la quale, attraverso le sperimentazioni, l’idea e la pratica di educazione permanente è maturata sempre di più: infatti l’educazione permanente ha cominciato a legarsi, oltre che ai problemi sella scuola, anche a quelli più generali dei “pubblici” di un territorio. Ed è proprio questo che ha dato vita a quel salto di qualità che ha permesso il passaggio dall’idea di un’educazione permanente centrata sull’educazione degli adulti a quella di educazione permanente diretta a tutti e a tutte le istituzioni in cui può avvenire la formazione (famiglia, scuola, quartiere, fabbrica). Inoltre in questo primo decennio degli anni ’80 si sono sviluppate una serie di iniziative e interventi educativi e culturali, che hanno coinvolto sia le Regioni, le Province e i comuni; sia le istituzioni di decentramento, l’Università, gli istituti di ricerca e le scuole. A tal proposito molto importante è stata la partecipazione tra il 1983 e il 1986 dei Comuni Flegrei nella costituzione dei servizi comunali didattici, i quali svolgono programmi formativi rivolti alla popolazione dei comuni attraverso dei laboratori e la collaborazione con la scuola e le diverse agenzie formative del territorio. Durante questa “stagione delle proposte”, al termine territorio (introdotto in ambito educativo nel 1979) si è aggiunto quello di ambiente che ha acquisito una triplice legittimazione x opera di alcuni autori: 1) legittimazione pedagogica, che coincide con l’acquisizione della dignità formativa dell’ambiente; 2) legittimazione politico-istituzionale, ossia gli enti locali sono considerati promotori di cultura; 3) legittimazione curricolare-didattca, in quanto una serie di ricerche hanno dimostrato che l’ambiente è una fonte di risorse molto ricca dalla quale bisogna attingere nella programmazione didattica. Il fine ultimo del dibattito aperto sull’educazione extrascolastica e sull’uso del territorio come risorsa coincide l’istituzione di un Sistema Formativo Integrato: il S.F.I., retto intorno a 4 pilastri: la scuola, la famiglia, il comune e l’associazionismo. mentre la “stagione delle riforme” è iniziata nel 1978, il 1979 è stato l’anno di nuove riforme importanti iniziato con l’approvazione dei nuovi programmi per la scuola media unica, nei quali si proponeva un insegnamento pluridisciplinare, una max attenzione ai bisogni e alla natura degli alunni e l’integrazione dei diversamente abili nel mondo della scuola. Questi programmi costituivano il frutto di due leggi importanti: la legge 348 del luglio 1977 , relativa alla modifica degli orari delle materie e all’abolizione degli esami della sessione autunnale; e la legge 517 del 4 agosto dello stesso anno la quale mise in luce una programmazione per gruppi classe omogenei ed eterogenei e la promozione di attività integrative. Inoltre le leggi n. 348 e la legge n. 517 hanno dato la spinta x la maggior parte delle riforme scolastiche successive e la modifica, strutturale e metodologica, della scuola media ha affrettato il cambiamento sia della scuola primaria che di quella materna. Per quanto riguarda la scuola elementare nel 1985 sono stati elaborati i nuovi programmi didattici: i Programmi Falcucci; mentre per quanto riguarda la scuola materna nel 1990 c’è stata la stesura dei “Nuovi Orientamenti”. programmi della scuola primaria 1985 I programmi del 1985 presero le distanze da quelli del 1955 in quanto - tenendo conto del cambiamento della realtà italiana, causato dalle diverse trasformazioni economiche, culturali e sociali; e delle acquisizioni di cui si sono arricchite la teoria e la pratica educative – si propongono come fine dell’educazione la formazione dell’uomo e del cittadino. Inoltre questi programmi mettono in evidenza che la scuola elementare 96 non esaurisce tutte le funzioni educative per cui essa deve favorire l’integrazione con la famiglia e con la comunità sociale. Il suo compito è quello di alfabetizzare gli alunni e permettergli di acquisire un proprio bagaglio culturale, non attraverso la trasmissione passiva di contenuti e nozioni, ma presentandosi come ambiente educativo e di apprendimento in cui il soggetto è costretto ad individuare un problema, analizzarlo, ipotizzare delle soluzioni, verificarle e metterle in atto. Per quanto riguarda la didattica i nuovi programmi assegnano una grande importanza alla programmazione delle attività, la quale deve essere svolta dai docenti che non devono mettere in evidenza solo i contenuti delle attività, ma anche i tempi e le modalità necessari per realizzarle. Infine in alcune sezioni riguardanti la programmazione delle attività didattiche della 3, 4 e 5 classe vengono considerati essenziali le collaborazioni e il lavoro collegiale tra i docenti e gli alunni. Sia nel caso dei programmi x la scuola primaria (1985) che nel caso degli Orientamenti della scuola dell’infanzia i prodotti, e cioè i modelli pedagogico-didattici che stanno alla base dei documenti, sono buoni; ma a questi si sono aggiunti dei moduli organizzativi e gestionali locali (sia per la scuola materna, che per quella primaria e media) i quali hanno sottolineato la differenza nei trattamenti e negli interventi tra Nord e Sud, tra zone interne e zone costiere, tra aree rurali e urbanizzate. Dopo il riconoscimento di un discorso filosofico e antropologico relativo alle “comunità locali” (e alla autonomia ad esse concessa) è nata l’esigenza di mettere in luce la loro validità anche sul piano istituzionale. Infatti a partire dal dopoguerra e fino ad oggi in Italia si è sentitala necessità di riorganizzare (da un punto di vista istituzionale) le aree territoriali locali in modo da poter prendere in considerazione le richieste provenienti sia dal centro che dalla periferia. Per questo motivo durante in questi anni ci sono state molte opere di decentramento politoco-amministrativo, le quali si sono svolte di pari passo ad un processo teso a dare max autonomia agli enti locali (Regioni, Province e Comuni). Tuttavia lo spostamento di gran parte del potere dal centro alla periferia ha messo in crisi molti Comuni, i quali non avendo i giusti mezzi a disposizione non sono stati in grado di risolvere i diversi problemi che si sono presentati in questi anni e di gestire al meglio i servizi (che dopo una grande evoluzione sia sul piano economico che su quello sociale sono aumentati radicalmente). Per superare questi problemi i Comuni si sono organizzati in forme di cooperazione, di aggregazione e coordinamento su specifici settori, in modo da poter rispondere alle varie esigenze della comunità con un minor dispendio di risorse sia umane che strutturali in quanto l’obiettivo finale era quello di creare un rapporto inter-sitituzionale proficuo e produttivo. Una situazione simile si presentò nelle grandi città le quali, per una serie di problematiche interne relative al piano politico-amministrativo, non si trasformarono in metropoli ma in un insieme di forme di aggregazione sociale e amministrativa che nel tempo sono state legalizzate. La caratteristica comune di queste forme di aggregazione era quella di voler superare le circoscrizioni tradizionali e riorganizzare i servizi per rispondere alle esigenze poste dal territorio. Tutto ciò non sconvolse solo i confini geografici dei comuni, ma anche quelli delle Province e delle Regioni. Infine va sottolineato che i Comuni, oltre a dover fare i conti con un aumento demografico e con le nuove esigenze della popolazione, si ritrovarono a fronteggiare la richiesta da parte dei cittadini di una max partecipazione diretta (attraverso forme di controllo) nella gestione dell’amministrazione. le unita’ locali territoriali integrate: realta’ e prospettive 97