Scarica RIASSUNTO del volume di Roberto Longhi (con introduzione di Previtali) "Caravaggio" e più Sintesi del corso in PDF di Arte solo su Docsity! 1 Introduzione di Giovanni Previtali del 1982. Il mito moderno di Caravaggio “pittore rivoluzionario” nasce dalle pagine di Bellori, che nel 1664 tiene un discorso all’Accademia di san Luca in cui va a costruire, seppur inconsapevolmente, il modello in negativo di questo pittore popolare, materialista, sensista. Perché il ritratto dell’artista diventi positivo bisogna aspettare la Rivoluzione francese e il critico Gabriel Laviron (1806-1849) che ci presenta C. come l’autore di una “rivoluzione prodigiosa” fra gli allievi dei Carracci. Su idee come quest’ultima si va a formare Gustave Courbet (1819-1877), colui che era destinato a ridar sangue e carne, e perciò credibilità, al “modello Caravaggio”. Nel 1855 il critico Jacob Burckhardt (1818-1897) afferma che “il naturalismo moderno comincia nella maniera più cruda con Caravaggio”; stessa idea la ritroviamo in Alois Riegl (1858-1905) che nelle sue lezioni viennesi di inizio ‘900 osserva che “il naturalismo è l’unica verità che rompe tutti i ponti dietro di sé”. Alla Biennale Venezia 1910 fu poi una Retrospettiva su Courbet a costituire, affiancata a quella su Renoir, la rivelazione essenziale che spinse il giovane Roberto Longhi (1890-1970) a partire alla RISCOPERTA DI CARAVAGGIO; già nella sua tesi di laurea, discussa con Pietro Toesca a Torino, egli incluse un capitolo dedicato ai lombardi “Preparatori del naturalismo” (Lotto, Moretto, Moroni, Savoldo). Quindi quando Longhi diventa docente nei licei romani, propone Caravaggio come punto di origine di tutta la tradizione moderna della pittura, fino a Courbet; egli è la fondazione essenziale su cui si imposta la tradizione di una nuova plasticità ottenuta in maniera pittorica per mezzo della luce. Da notare che se per Lionello Venturi (1885-1961) il realismo di Caravaggio era un dato scontato, Longhi nella sua discussione sull’artista non parla del concetto naturalismo/realismo! Per Longhi Caravaggio è un grande “stilista”, un semplificatore, il creatore di una nuova plasticità ottenuta con l’ausilio della luce, NON un naturalista, dal momento che negata l’espressività extrapittorica ossia sentimentale. Infatti bisogna tenere presente che il giudizio degli artisti era basato su opere famose e autentiche esposte nei musei, ma gli esperti dovevano fare i conti con un altro mezzo migliaio di dipinti sparsi per chiese e collezioni, di cui 1/10 aveva la possibilità di essere del maestro; basti pensare che la lettura del pittore fatta da Venturi è basata su soli 9 dipinti, di cui ben 7 non sono di Caravaggio, e di questi ultimi 5 per noi non appartengono neanche alla cerchia dei caravaggeschi in senso stretto. Ci fu quindi un ampliamento di campo nel periodo 1905-10 che andò ovviamente a far perdere la messa a fuoco sull’artista. Bisogna anche tenere presente che la scuola italiana di connoisseurship si era formata nella tradizione Morelli-Berenson, e cioè essenzialmente sull’analisi dell’arte del Rinascimento, per cui il confronto con questo materiale caravaggesco richiedeva anche una revisione di metodo non indifferente. Venturi ad esempio si avventura in un’analisi formale argomentando le proprie attribuzioni sul ripetersi, in Caravaggio, di una “linea retta da lui molto amata”, nel suo “modo di disegnare la narice e le rughe sopra l’occhio”; anche Longhi cadrà nel confronto fra le falangi; entrambi dovranno poi rendersi conto che questa non era la strada giusta. Sarà poi Longhi il più abile a ricostruire anche la storia dei caravaggeschi italiani in vari Saggi: Orazio Borgianni 1914, Battistello 1915, Gentileschi padre e figlia 1916, Carlo Saraceni 1917. Tramite i saggi di Longhi ci sarà una svolta nell’interpretazione del naturalismo seicentesco, nei procedimenti di analisi, nella strumentazione concettuale: 1. Revisione della interpretazione “pittorica” dell’arte del Caravaggio, connessa alla teoria del giovanile viaggio a Venezia. Nel 1913 anche Longhi parla di influenza veneziana ma già cerca di spostare l’attenzione sulla plasticità ottenuta in maniera “pittorica”; nel 1914 parla di “nuovo senso di plasticità” da lui definita visione plastico-luminosa; nel 1915 parla semplicemente di luminismo, dicendo che Caravaggio non disegnava ma inclinava i piani di luce; nel 1916 mette in guardia sull’uso del termine plasticità; nel 1918, infine, decide che il termine plasticità va abbandonato, perché non crede che si possa parlare sul serio di plasticità e di volume in Caravaggio. 2. Componente lombarda. Contestualmente assistiamo ad una riduzione del supporto dell’educazione veneziana, che alla fine scompare per lasciare il posto all’educazione lombarda-milanese e quindi alla “pittura di valori”. Infatti nel 1914-15 Longhi conferma il sottofondo “giorgionesco” di C., ma nel 1916 prende le distanze dalla tesi giorgionesca del Caravaggio giovane. Infatti studiando 2 Orazio Gentileschi, Longhi si accorge che il punto di partenza del pittore toscano non poteva essere stato che il Caravaggio giovane, dolce, chiaro, aperto, dai toni preziosi, dalle ombre lucide, insomma il Caravaggio primo coloritore lombardo. 3. Pittura di valori. Per “pittura di valori”, invece, Longhi intendeva “colore alieno sia da favolose divagazioni iridate che dalla targhe cromatiche alla tizianesca, ma sovrapposto in impasti vividi, schietti e delicati, e studiato con diligenza: il colore che si trasforma in luce”; la Presentazione di Maria di Gentileschi a Fabriano è una delle prime cose riuscite sulla base dei valori piuttosto dei colori, dove non c’è bianco-colore ma bianco-luce; l’interesse è tutto per i transiti di luce e per i valori sotto i quali anche la forma è eccezionalmente in ferma. La pittura di valori trasforma in stile il realismo. Abbiamo già detto che per Longhi il naturalismo non è arte, quindi bisogna distinguere bene il senso profondo della realtà del Caravaggio dal mero realismo; questo argomento viene spiegato dal critico in un saggio del 1915 su Battistello, dove contrappone Caravaggio a Ribera, in cui emerge proprio questa concezione negativa del realismo=verismo, concezione che sopravvive anche nel 1916 nel saggio su Gentileschi, che è per lui più realista di Caravaggio. Proprio quando Longhi, studiando Gentileschi, si va convincendo che Caravaggio è innanzitutto pittore di valori, viene pubblicato un Saggio di Matteo Marangoni (1876-1958), ispettore delle gallerie di Firenze, in cui propone un’interpretazione dell’artista: - Longhi aveva parlato di un C. grande stilista, inventore di una nuova plasticità, e anche secondo Marangoni C. ci dà il più alto esempio di stile di tutto il ‘600. - Per Longhi lo stile di C. era ben lontano dal realismo ad oltranza, e anche per Marangoni C. ricorre alla luce non per fine realistico ma come mezzo per costruire stilisticamente le forme. - Longhi aveva parlato di una nuova plasticità ottenuta con la luce, Marangoni dice che a C. basta concretare una forma con sicuri intenti plastici in un ambiente italiano. Il Caravaggio che si va a proporre perciò, basato sull’interpretazione longhiana ben accettata da Marangoni, è tutt’altro che un pittore di valori, perché sembra quasi considerare il mondo consistente di un un’unica materia plastica. Ma questo al Longhi del 1918 non va più bene, tanto che scrive una dura recensione al Saggio di Marangoni in cui dice che le idee dei due sono molto diverse, in quanto “io non credo che si possa parlare sul serio di plasticità e di volume in Caravaggio”. Non ci meraviglia questo atteggiamento di Longhi, che nell’immediato dopoguerra sottopone e critica radicale il suo lavoro, inclusa la distinzione decorazione-illustrazione e i concetti di “valori plastici” e “arte pura”. L’immagine del Caravaggio plastico ed arcaico rimarrà poi nella testa di Longhi una preoccupazione per tutta la sua vita. Nel 1918, però, Longhi non poteva fermare nessuno, e l’interpretazione di Marangoni venne sostenuta anche da Lionello Venturi, che nel 1921 presenta Caravaggio non come un realista ma come u semplificatore, che si sofferma sulla materia e poi la rinnega in nome della luce. Neanche Marangoni cambiò idea, neppure dopo la brutta recensione. Così sulla base del Caravaggio arcaico, plastico e dinamico, “idealista accanito”, si va a organizzare la Mostra del Seicento e del Settecento del 1922 a Palazzo Pitti-Firenze, che fu la 1° frettolosa apoteosi del Caravaggio. Come ha osservato Berne-Joffroy, quella mostra può rappresentare a tutti gli effetti la chiusura della fase pionieristica ed eroica della moderna riscoperta di Caravaggio, perché tutto divenne più chiaro e, avendo le opere esposte insieme, furono possibili i confronti; durante la mostra si compresero gli originali, di capì che la Suonatrice di liuto Liechtenstein non era dell’artista (ma di Orazio Gentileschi), e soprattutto si scoprì che il Bacco degli Uffizi è un autentico Caravaggio. Negli anni 1926-29 poi Longhi, nel momento di ritorno agli studi dopo la pausa dei viaggi europei, continua a fare gli scongiuri contro la parola “naturalistico”. Nel 1929 Longhi pubblica sulla sua rivista Pinachoteca il saggio Quesiti caravaggeschi, dove arriva ad un giudizio salomonico: “la condanna di mero naturalismo inflitta al Caravaggio dal Baglione e dal Bellori è senza dubbio ingiusta, ma dà ragione almeno di una delle due facce dello stile dell’artista”. Siamo negli anni in cui si diffonde il cinematografo, tanto amato dal critico, che avrebbe permesso di osservare la nascita di nuove forme di espressione artistica, e avrebbe permesso all’umanità di reimparare la lingua mimica 5 Dopo la malattia soggiorna qualche mese presso il pittore Giuseppe Cesari d’Arpino, altro enfant prodige, 3 anni più vecchio di C. Qui il soggiorno non era di certo gratuito, tanto che i due quadri giovanili Ragazzo col canestro di frutta (del 1589-90) e il Bacchino malato (anch’esso del 1589-90, nel tempo fu attribuito a vari artisti, nel 1927 Longhi lo ha confermato come originale di Caravaggio e anche autoritratto del giovane artista, il giovane appare malato di malaria proprio come poco prima l’artista era stato ricoverato in Ospedale), entrambi eseguiti da Caravaggio mentre risiedeva presso d’Arpino, furono requisiti da d’Arpino stesso nel 1607 (oggi a Villa Borghese). Da casa d’Arpino uscì ben presto. Caravaggio provò poi a vivere da solo, in realtà presso una stanza di monsignor Fantin Petrignani. È in questa fase che dipinge alcune delle opere più note: il Bacco degli Uffizi, la “Zingara che dà la ventura” ossia la Buonaventura (o quella del Louvre o quella dei musei capitolini, svenduta per 8 scudi), il Riposo dalla fuga in Egitto del Doria Pamphili, la “Maddalena convertita” ossia la Maddalena del Doria Pamphili, il Giovinetto morso da un ramarro (svenduto per 25 giuli). Vediamo che le opere venivano vendute per pochissimo denaro, tanto che rimase ancora povero e mal vestito; per questo alcuni personaggi, per carità, lo aiutarono (forse Longhi e Tempesta, suoi futuri amici). In questo stesso periodo sopraggiungono i rapporti con maestro Valentino il rivenditore di quadri presso San Luigi del Francesi, che vende alcuni quadri e gli fa incontrare il cardinal Del Monte. Il cardinal Francesco Maria Del Monte prese in casa l’artista dandogli alloggio, vitto e stipendio, ed è qui che finiscono le sventure dello squattrinato Caravaggio. L’anno preciso di arrivo dal cardinale è ancora incerto, ma possiamo fissarlo al 1592-93 perché Caravaggio dipinse presso di lui i Bari, il Suonatore di liuto dell’Hermitage, la Medusa degli Uffici e fece anche la sua 1° commissione pubblica ossia il San Matteo della cappella Contarelli in San Luigi dei francesi, quindi il periodo non può essere successivo. Ma guardiamo meglio queste prime opere romane del Caravaggio. Di certo nella città di Sisto V egli appariva come un “irregolare”, con già questo suo tarlo di una pittura fedele alla realtà (dato che a Roma non si chiedeva pittura di realtà ma pittura di devozione, nobiltà quindi soggetti nobili e miti). Ci sono però delle sottospecie, ad esempio viene usata la parola diligenza sia per la pittura di Caravaggio (es. Canestra dell’Ambrosiana), sia per i ritratti dettagliati di Scipione Pulzone o i vasi di fiori di Jan Bruegel. Qualcosa non va: infatti i ritratti del Pulzone hanno una forma di abnegazione mentale di fronte al particolare per cui la sua diligenza è pazienza denominatoria e di dettaglio; il Caravaggio propone invece un’unità di visione totale, pervasiva, dura a volte, quindi la sua diligenza è pittura come specchio della realtà. Da notare è che il biografo Baglione ci dice che i primi quadri dell’artista furono “nello specchio ritratti”. All’inizio si pensava che egli usasse sé stesso come modello, cosa assurda e che infatti fa solo nel Bacchino malato. L’uso dello specchio era cosa nota nella pittura del ‘500, e veniva usato o per mancanza del modello o per poter realizzare in un solo quadro più vedute di una stessa figura. In realtà è più probabile che Caravaggio usasse lo specchio per attenersi alla sola visione oggettiva, senza lo sfuocamento della retina, scoprendo così la sua personale “camera ottica”; così egli si rivolse alla vita intera, tutti i sentimenti, tutti gli oggetti che nello specchio valgono come uomini/figure. Quando Caravaggio inizia a dipingere per sé distrugge subito i due soggetti più frequentati a Roma ossia la mitologia sacra e quella profana; inoltre vanifica la scala dei soggetti. Da ricordare è che i titoli usati da noi oggi, che ricalcano quelli proposti da biografi come Mancini o Baglione, non sono quelli che venivano usati da Caravaggio: si preferiva chiamarli teste, capocce, mezze figure quindi con una distinzione per formato. MA quando si avvertì che queste opere erano portatrici di qualcosa di nuovo, allora si iniziò con la denominazione che ha ovviamente una condanna morale implicita, che si formalizzerà 50 anni dopo quando Bellori dirà che C. dipingeva “i simili”. Infatti non va dimenticato che Caravaggio dipinse soggetti feriali fin dal primo giorno, così come bisogna ricordare che all’epoca si dipingeva per soggetti imposti, su commissioni che erano appannaggio degli ecclesiastici o dei nobili. 6 Dopo i primi dipinti di vena lombarda come il Ragazzo col cesto di frutta o il Bacchino malato, il Bacco degli Uffizi si incastra subito in una polemica palese a causa della ripresa dei Bacchi di Michelangelo, di Sansovino, di Bellini o di Tiziano; ma è una ripresa del passato, quella di C., assolutamente diversa, che non vuole né porre il focus sull’anatomia né sul rapporto uomo-natura, bensì sull’immagine di questo garzone da osteria già pronto a sopportare motteggi popolari. Anche il Bacco fu dipinto probabilmente negli anni presso il d’Arpino quindi 1589-90; l’opera andò persa a fine ‘600, fu trovata da Longhi nei depositi degli Uffizi; fu restaurato nel 1922 per la mostra degli Uffizi. Perché in questi primi soggetti Caravaggio sceglie sempre figure di adolescenti? Oggettivamente egli era povero, non aveva i soldi per i modelli famosi quindi chiedeva ai suoi giovani amici, garzoni, ragazzi di strada di posare per lui; per questo non ci deve stupire che essendo così giovani essi abbiamo un’identità di genere quasi sfumata certe volte (il Suonatore di liuto dell’Hermitage sembra una suonatrice). Forse però, secondo Longhi, intervenne anche la voga pittorica del tempo nei confronti dell’angelismo. Gli angeli erano il problema tematico della bellezza a quei giorni, tanto che la Roma pittorica si riempì di angeli nel periodo 1585-1595, tutti dipingono angeli nelle più varie gerarchie. I caravaggeschi preferiranno l’Angelo custode, per il suo tono più confidenziale. Baglione ad esempio ci informa che Scipione Pulzone nel 1585-90 dipinse la Cappella degli Angeli al Gesù con “angeli assai belli, ritratti dal naturale, rappresentanti persone da tutti conosciute”, realizzando la pala dei Sette angeli adoranti, poi censurata e rimossa. Attenzione! Quel “ritratti dal naturale” non va inteso in senso caravaggesco. Infatti, come ci dice il Mancini, Caravaggio non sapeva fare ritratti riconoscibili o similitudinari, li risolveva sempre a suo modo; a conferma di questo basta guardare il suo Ritratto di Maffeo Barberini dipinto intorno al 1595 (Fi, collez. privata, diverso dagli altri ritratti del Barberini che conosciamo). Secondo Longhi, Caravaggio aveva “assistito” alla rimozione dell’opera di Pulzone e con le sue opere voleva rinnovare lo scandalo; parliamo di opere come il Suonatore di liuto di Washington, che sappiamo essere una copia, ma proviene da originali caravaggeschi, e che è di fatto l’unica deviazione irrealistica e astraente dell’opere di C; ma anche di tutti quei suonatori, bari, giocatori. Di fatto a detta di Caravaggio stesso la sua opera più bella fu il Suonatore di liuto dell’Hermitage, passato da Del Monte a Giustinaini. Non stupisce quindi che lo stesso Caravaggio abbia impiantato a Roma la natura morta, che vediamo sia come parte del Suonatore di liuto che come soggetto della Natura morta della NG di Washington (vedi sotto). L’artista era incantato dalle cose lasciate a sé stesse, dal loro modo di ricevere luce e ombra. Ricordiamo nella raccolta Lettere memorabili dell’ab. Matteo Giustiniani, la Lettera sulla pittura a Teodoro Amideni pone la pittura di natura morta solo al 5° posto della gerarchia dei soggetti. Siamo però negli anni in cui la pittura di natura morta cerca di crescere di pregio dipingendo bicchieri di Murano, cristalli di Boemia, antipasti e dolciumi. Questo per Caravaggio non vale, dato che lui continuerà a dipingere le ceste di frutta a buona mercato, con frutta bella ma anche marcia. Ne è un esempio la Canestra di frutta dell’Ambrosiana, dipinto citato nel 1607 nel codicillo di Federico Borromeo che lo dona alla Pinacoteca Ambrosiana, e nel 1625 nel suo Museum come opera di Caravaggio; l’opera non era parte di qualcosa di più grande, è sempre stata pensata solo come cesta di frutti; va messa in relazione con la lettera del cardinale Del Monte al Borromeo, dove si scusa per il ritardo perché l’artista richiede molta pazienza; qui l’artista immagina di appoggiare il cesto sulla cornice di un mobile, dipinge il fondo in un secondo tempo; l’opera fu esaminata da Venturi solo nel 1910. L’unico altro soggetto di questo stesso genere è la Natura morta della raccolta Kress di NY, oggi alla NG di Washington, poco più tarda della Canestra ambrosiana; quest’opera è stata successivamente attribuita a fine anni ‘60 al “Pensionante del Saraceni” ossia un caravaggesco della prima ora. Ovviamente ci furono critiche all’artista. 1. Dov’era l’azione nei suoi quadri di historia? Si diceva fosse comodo ritrarre a specchio le cose ferme, le sue azioni venivano viste insignificanti, inesistenti fin dal suo biografo Mancini nelle sue 7 Considerazioni sulla pittura del 1617-21 (redazione in 2 fasi). Caravaggio rispose già con il Fanciullo morso dal ramarro della Fondazione Longhi, sospendendo nell’aria il riflesso fisiologico del dolore del ragazzo; Mancini cita l’opera fra le primissime del Caravaggio, realizzata presso monsignor Pandolfo Pucci, ma in realtà egli si riferisce a un’altra opera di soggetto simile dell’artista, dal momento che qui è evidente un’abilità del C. già più avanzata; citato nel 1650 a Villa Borghese come opera del maestro, verso fine ‘700 lasciò questo luogo e riapparve nel 1925 sul mercato parigino; se ne conoscono molte copie. Ma ancora non era abbastanza. L’artista allora riprovò con la sua Testa di Medusa degli Uffizi, dipinta su un vecchio scudo orientale da torneo, ma di nuovo l’espressione proposta non fu abbastanza di dolore (come detto anche da Burkhart a metà ‘800). Ma a questi critici Caravaggio avrebbe risposto che oltre un certo punto non si poteva andare, sennò si sarebbe raggiunta quella stilizzazione dei riflessi psicofisici, quell’espressionismo che lui odiava. 2. Dov’erano gli affetti nelle sue opere? A queste obiezioni, Caravaggio rispose con le due redazioni de la Buona ventura (quella del 1593-95 è al Louvre, quella successiva del 1596-97 è ai Capitolini di Roma) e dei Bari (nelle due versioni pressoché coeve del 1595ca. di Oxford e Forth Worth). Già Mancini notava l’affetto della zingara che dà la buonaventura al giovanotto. Nella Buona ventura del Louvre, anch’essa citata dal Mancini perché dipinta presso Petrignani; nel 1619-20 il quadro appartenne ad una Vittrice (famiglia che commissionò la Sepoltura di Cristo nel 1602-04), ma nel 1657 è già presso i Pamphili, che la vendettero nel 1665 a Luigi XIV (il cui consigliere Bernini non giudicò bene l’opera). Visti gli spostamenti il quadro mostra notevoli danneggiamenti, soprattutto sotto a destra. Nella Buona ventura della Galleria Capitolina, invece, notiamo una variazione nei modelli e nei costumi; quest’opera ha avuto varie difficoltà di attribuzioni, ma la riconsegna a Caravaggio è arrivata quando si è scoperto che l’opera è stata dipinta su un pezzo di tela precedentemente dipinto da d’Arpino, quindi fu eseguito nel periodo di coabitazione dei due pittori. Quanto ai Bari, nei due giovanotti c’è forza, nel ragazzo c’è timore. 3. I soggetti “di strada” non venivano accettati, era meglio la pittura di historia, ossia i fatti consacrati dalla religione o dalle più illustri azioni umane. Per quanto riguarda i soggetti sacri, non sappiamo quanto e quale fu l’intervento di Caravaggio nella scelta dei soggetti. Alludiamo al Riposo dalla fuga in Egitto e alla Maddalena entrambi alla Doria- Pamphili. Nel Riposo alla fuga in Egitto è evidente il riferimento all’Adorazione dei pastori di Lotto del 1534, conservato alla Tosio Martinengo di Brescia, ed è evidente come sia un quadro pensato “in ferma/sosta”. Il tema del presepe all’epoca veniva decorato con palme e datteri, come riferimento a Betlemme, ma qui Caravaggio mette solo piante della flora romana, mattoni rossi, fiume; l’angelo inoltre sembra una risposta dell’artista al tema della grazia, che lui credeva esistere ma che fosse difficile da trovare. Ricordiamo che il Riposo fu citato dal Mancini nel 1619 e anche dal Bellori nel 1672 come opera di Caravaggio, ma successivamente fu supposta del Saraceni; è anch’esso collocabile nelle “prime opere” dell’artista a Roma (dopo il soggiorno dal d’Arpino ma prima di quello da Del Monte), ed è il 1° quadro in cui C. si cimenta con l’argomento sacro. La Maddalena è invece un soggetto molto comune al tempo, ma di certo l’idea di dipingere un po' dall’alto (a specchio inclinato) questa giovane con la lacrimuccia sulla gota è uno dei grandi traguardi dell’artista. Anche quest’opera fu citata dal Mancini nel gruppo di cose fatte presso monsignor Petrignani, che dava una stanza al Caravaggio in questi mesi; anche questo dipinto nell800 fu attribuito al Saraceni, e solo nel 1906 Kallab lo restituì a Caravaggio Capiamo quindi che i soggetti di religione vengono interpretati con più laica semplicità; non troviamo mai il nimbo per i santi (solo nella Santa Caterina di Lugano); questi quadri sacri della gioventù non erano destinati ad altari ma erano un “quadro di genere religioso” per collezionisti privati. 10 - Poi l’artista aveva deciso di orientarsi sempre più verso i soggetti sacri, così nel 1593 tentò di subentrare al Cavalier D’Arpino (che aveva fatto la volta ma non aveva ancora toccato le pareti) proponendo ai committenti grandi quadri a olio al posto degli affreschi. - Nel 1597 D’Arpino fece un tentativo per rientrare di nuovo in gioco e ottenere la commissione degli affreschi laterali, probabilmente perché sapeva che un palcoscenico come la Contarelli avrebbe portato un successo enorme al suo rivale Caravaggio. - La commissione ufficiale a Caravaggio delle due tele laterali della Contarelli arrivò il 23 luglio 1599, ma come dice Longhi stando allo stile le due tele erano già state iniziate da un po’ (ingaggiato sulla parola o solo spinto dal desiderio di accaparrarsi la commissione). Entro il 1599 i due quadri laterali sono già nella cappella, che già nel 1601 è ricordata come “bellissima”. Vocazione di San Matteo. La scelta di organizzare questo momento come una scena di giocatori d’azzardo è un attacco alle sue opere precedenti di soggetto feriale, come i Bari, mentre è ancora tipico del suo atteggiamento giovanile il fatto che l’opera sia di grandi dimensioni e di pubblica destinazione. In questo contesto il biografo Sandrart, nella sua Vita di Holbein, ha sottolineato che l’opera di Caravaggio guarda anche all’incisione di Holbein I giocatori e la morte, con questa concezione poetica di una vita dissoluta. Solo in un secondo momento Caravaggio arrivò ad applicare a questa scena mondana quella luce radente, quel rinforzo di ombre e luci che dà il che di drammatico. In quest’opera, a differenza del primo San Matteo, l’artista mostra di sapere chi era Matteo, ossia un pubblicano, agente di cambio, appaltatore di gabelle; per questo il momento della vocazione avviene proprio durante una partita d’azzardo a dadi. La luce che rade sotto al finestrone lascia riflessi fiochi nella mano del Cristo, si staglia su Matteo incredulo, tocca il vecchio in occhiali e le spalle del giocatore a capotavola. La scena fu concepita come evento di costume moderno, ma il Cristo e l’apostolo in queste vesti moderne non erano mai stati proposti: egli risolve il problema concedendo una storica drappeggiatura che verrà poi a celarsi dal gioco luce-ombra. Martirio di San Matteo. È l’esito della pala della Vocazione. L’opera fu ripensata due o tre volte, e si optò centripeta. In questo caso si denota ancora una certa influenza manierista nei due nudi che sorreggono ai lati la parte inferiore, a dimostrazione della precocità di C. e anche della sua immaturità d’invenzione in questo momento. Sebbene la leggenda fosse situata in Etiopia (re Irtaco fa colpire Matteo, che aveva avuto pretese per la figlia di Egesippo), C. la propone come un evento di cronaca nera entro una chiesa romana dei suoi giorni, violando la santità del luogo e mostrando Matteo già rovesciato sui gradini dell’altare; i presenti sono attoniti, tranne un signorotto insolente che rispinge la spada nel fodero, timorosi, tentando di scappare come da una rissa, oppure stupiti. Nell’aria bruna grava al centro la figura del carnefice (memore di quello del Moretto nel San Pietro martire di Bergamo). Da notare ancora segni di giovinezza caravaggesca come il giovane chierico che riprende il Fanciullo morso dal ramarro, la Medusa, l’Isacco che grida; la natura morta a destra in penombra; l’angelo che scende con la palma del martirio. Notiamo inoltre i rapporti fra il nudo manigoldo e il nudo dell’Amor vincitore e l’Oloferne del dipinto Costi, ma i contatti sono anche con altre opere precedenti, andando a realizzare un legame fra la 1° e la 2° fase del maestro. L’uomo che fugge a sinistra è l’autoritratto dell’artista, la mano dell’astante a sinistra riprende quella della Cena in Emmaus di Londra, il chierichetto fuggente si lega ai motivi della Medusa e del Fanciullo morso dal ramarro. Capiamo quindi che C. costeggia le indagini tra naturalistiche, sperimentali e magiche della nuova epoca. Dal biografo Mancini apprendiamo che nel suo studio la luce proveniva dall’alto, in un ambiente quasi buio alle pareti, di modo da dar rilievo alla pittura. A differenziarlo poi dal Tintoretto o dal Greco, di cui sicuramente conosceva i “teatrini luministici”, c’era il fatto che egli guardava al vero, senza basarsi su modellini. Sempre negli anni di San Luigi dei Francesi, quindi il periodo del pieno anni ‘90, il pittore riprende gli argomenti della sua prima età riprovandoli dopo il ringagliardimento delle ombre. Suonatore di liuto, oggi a Monaco, il viso si staglia sul fondo ormai buio (ha una specie di bandana in testa quindi non è una delle due versioni del Suonatore di liuto dell’Hermitage e di NY). Negli 11 inventari antichi l’opera era riferita o a “seguace di Caravaggio” oppure a “scuola tedesca di fine ‘600”; già nel 1920 Longhi riattribuì l’opera al maestro, la propose come originale al Congresso di storia dell’arte di Londra 1939 e lo ripubblicò negli Ultimi studi del 1943. L’opera si data al 1592-95, nello stesso periodo della Santa Caterina Barberini e della Giuditta e Oloferne, ed è ricordato come il più antico esempio del colore-luce. Longhi nota che l’unica opera che in un certo senso di ben avvicina a questa è il “Suonatore di liuto” prima attribuito a Lys, poi a Finson, ma che per Longhi è da avvicinare a Caravaggio stesso; in realtà oggi sappiamo che l’opera che ricorda Longhi è del caravaggesco Finson. Narciso, oggi a Gall. Naz. Palazzo Corsini, è ancora un’eccezione mitologica ma pronta a denominarsi Ragazzo che si specchia nello stagno, è un melanconico vagabondo che ha decorazioni damascate nel corpetto, mentre il suo sentimento introverso preannuncia il giocatore perplesso della Vocazione. Nel 1913 l’opera si trovava presso una collezione privata di Milano; dopo un riferimento di Longhi al Caravaggio fu comprata a Kwoshinsky e donata alla Gall. Naz. Come il Fanciullo morso da un ramarro¸ quest’opera non è citata nelle antiche fonti. A parte questi due esemplari, però, Caravaggio tende soprattutto ad innovare nel campo del sacro. Madonna col bambino o Madonna che svezza il bambino, Gall. Naz. Palazzo Corsini, nell’800 sembrò qualcosa di crudo a Burkhart, ma in realtà riecheggia il Riposo dalla fuga in Egitto, oppure la Maddalena di cui è forse un seguito narrativo. Il gruppo siede sopra un cippo antico, contro un fondo diviso fra luce-ombra; i due vestono costumi moderni; le ombre sono a colore e non nere. Sacrificio di Isacco, una nuova redazione conosciuta solo tramite copie a Como e a Salerno, ha un Isacco con effetto lunare nel corpo e un Abramo con muscoli cervicali accentuati. Vocazione dei santi Pietro e Andrea, oggi alla Hampton Court di Londra, Longhi lo conosce solo tramite l’incisione di Murphy ma nel 2006 l’esemplare è stato dichiarato un autentico di Caravaggio; per Longhi qui l’artista sembra anticipare alcune ricerche della Vocazione ma con effetti classicistici anche nello staglio a ¾ delle figure passanti, anche se l’opera appartiene probabilmente alla fase di maggior successo di C. a Roma ossia al 1603-06. Maddalena rimproverata da Marta, Longhi lo cita nella copia di Oxford ma ne conosceva anche altre; fra queste altre copie una, restaurata, fu venduta al museo di Detroit che tentò di promuoverla come originale. In questo caso a C. venne criticata l’assenza di composizione, di sintassi che si perde fra i crolli di luce e ombre. San Giovanni Battista, Doria Pamphili. Qui la polemica sulla composizione arriva al colmo; per Mahon 1953, esistendo due esemplari dell’opera, l’originale non è quello di Doria Pamhili ma quello della Pinacoteca capitolina (proveniente da palazzo Mattei). Il soggetto sembra uno dei nudi della Sistina di Michelangelo, come se C. volesse mostrarci che alle volte “il vero” appare così. Incredulità di San Tommaso, oggi a Postdam, realizzato per Vincenzo Giustiniani, richiama ancora Masaccio e forse anche Raffaello. Giustiniani lo riteneva ormai l’artista “un classico” fra i classici. Qui il blocco serrato delle figure si nega coprendo d’ombra il protagonista e gettando luce solo sulle ferite del Cristo. Cattura di Cristo, oggi alla NG of Ireland, Longhi lo conosce solo tramite copie, l’originale è stato ritrovato nel 1990 da Sergio Benedetti. La testa di Cristo è come avvolta da un manto d’ombra, Giuda è schiarito da un lampione e sembra quasi incrinarsi. Incoronazione di spine, oggi alla Galleria di Palazzo Alberti di Prato, individuato da Longhi come originale e così confermato dopo un restauro del 1974. Qui il contrasto ombre-luce gonfia il torso di Cristo fin quasi a spezzarlo, e le sue mani si oppongono come oggetti senza più nome. San Giovanni Battista, ora a Kansas City, lo sviluppo verticale è ormai quello del San Matteo e l’angelo-2 di San Luigi dei Francesi. Non abbiamo più le vedute del Riposo o del primo Sacrificio di Isacco, abbiamo solo un piccolo accenno autunnale; secondo Longhi, Caravaggio ormai non realizzava più queste piccole vedute en plein air, ma in un angolo del suo studio con ceppi e sterpaglie; qui manca il capro, che invece c’è nel Battista di Basilea e anche nell’Isacco degli Uffizi, che sappiamo Caravaggio affittava ad un gregge che attraversava Roma. Stando alla realtà rivelata come 12 in un lampo dal contrasto di una “macchia” sempre più drammatica, l’opera va situata dopo i laterali di San Luigi dei Francesi e accanto al San Matteo e l’angelo-2, quindi verso fine ‘500. San Giovanni Battista, Gall. Naz. Palazzo Corsini, mostra il santo prima scorbutico, ora seduto nel bosco, fra i tronchi; posto sul fondo scuro, ma con corpo pallido acceso dalla luce. Longhi lo indicò come autografo nel 1927, e lo posizionò fra i due laterali di San Luigi dei Francesi e San Matteo e l’angelo-2 quindi nel 1598-99; il modello del Battista è lo stesso dell’Amor vincitore. Solo le opere ci consentono di capire che in questi anni il Caravaggio acquisisce sempre più fama, dato che non abbiamo documentazione a riguarda. Fra il poco che abbiamo, citiamo un documento del febbraio 1596 Lettera del cardinal Del Monte a Federico Borromeo, dove scrive che il Caravaggio è ormai da tempo nella sua casa e che il suo carattere è ormai noto per essere un po' fumino, con lui bisogna avere pazienza. L’anno seguente 1597 il San Francesco in estasi passa di mano per la seconda volta perché realizzato da un artista “celeberrimo”. Verso il 1599 il Caravaggio convalescente andava in giro con l’amico architetto Onorio Longhi, per il quale aveva fatto da paciere in una disputa fra artisti, e si faceva portare la spada da un ragazzino a simboleggiare che era un pittore già conosciuto, arrivato. A conferma di questo, un documento del 1600 che dice che C. aveva presso di sé un aiuto pittor Mario e un servitore Bartolomeo. Il 24 settembre 1600 acquisisce la commissione dei due quadri in Santa Maria del Popolo ossia la Crocifissione di San Pietro e la Conversione di Saulo. La sua fama è quindi al culmine quando lui ha solo 29 anni. Ma chi era il Caravaggio di questi anni? - 1601, van Mander scrive che Caravaggio non studia molto, quando ha lavorato 15 giorni si prende una pausa di un mese, gira col ragazzo che gli tiene la spada e passa le giornate fra i tavoli da gioco, sempre pronto a rissarsi. - Iscrizione 1672, Caravaggio viene descritto moro, occhi scuri, capelli e ciglia neri. - 1615 Bellori, Caravaggio è descritto di umore bizzarro, pallido in viso, alto, occhi vivaci. Queste descrizioni a parole sono coerenti con i ritratti di Caravaggio realizzati da Ottavio Lioni, che lo aveva incontrato varie volte. Dai suoi disegni ricaviamo una fisionomia dell’artista che coincide con quella che egli stesso propone nel giovanotto che “scappa” del Martirio di San Matteo della cappella Contarelli, e nel Bacchino malato (ma anche nella copia del Concerto ideale). In generale dobbiamo immaginarlo come un carattere forte, di certo non un agnellino. Fra le memorie che abbiamo di lui del periodo romano 1600-1606 leggiamo che fu querelato più volte, fu incarcerato per insulti agli sbirri, fu arrestato per diverbi con gli sbirri un’altra volta, gli furono sequestrate le armi, tornò ancora in prigione, fu denunciato per aggressioni dal notaio Mariano Pasqualone da Accumulo e per questo fuggi a Genova (dove probabilmente dipinte l’Hecce homo di Palazzo Rosso), fu denunciato per non aver pagato l’affitto; nel 1606 durante una rissa per il gioco della pallacorda Caravaggio uccide Ranuccio Tommasoni da Terni e, ferito a sua volta, fugge da Roma per andare prima a Napoli e poi a Malta, dove viene prima nominato “cavaliere di grazia”, poi incarcerato, evaso, privato dell’ordine; ritorna infine a Roma ma viene arrestato, rilasciato e muore di febbre su una spiaggia. Agosto 1603: il pittore Giovanni Baglione sporge querela contro Onorio Longhi, Caravaggio, Orazio Gentileschi e Filippo Trisegni per aver diffuso su di lui poesie diffamatorie; Caravaggio verrà arrestato ma rilasciato con libertà condizionata per intercessione del re di Francia. Baglione sarà poi il biografo dell’artista. In realtà la situazione è più complicata, e parte dalla commissione della Resurrezione di Cristo al Gesù, che Baglione aveva soffiato a Caravaggio. Nel processo Caravaggio asserisce, da uomo di grande cultura, che esige rispetto per la pittura e che quindi questa non debba essere frequentata da chi non è esperto (Baglione); segue un elenco di valentuomini che possono praticarla, ossia pittori che sanno imitare le cose naturali. Il Baglione attribuì tutta la situazione alla pura invidia della cerchia di Caravaggio; l’artista replicò dicendo che non solo Baglione non era un 15 alla fine del loro cammino, hanno la fortuna di incontrare la Vergine mentre, uscendo di casa, si appoggia allo stipite della porta. Ma è qui che Caravaggio mette un dubbio, perché la Vergine è bellissima: lei è dunque solo una bella donna che diventa l’idolo di due stanchi pellegrini, o è invece un’antica statua che viene a reincarnarsi grazie all’umile devozione dei due pellegrini (sorprende il fatto che la Madonna caravaggesca ha la stessa testa della Irene di Cefisodoto il Vecchio del 370 a.C.). Di certo questa interpretazione della nota leggenda turbò le consuetudini dell’epoca; in particolare Baglione racconta della polemica dei popolani, che si lamentarono per essere stati messi sugli altari senza nessun abbellimento. Da notare anche che forse Caravaggio, con questo suo ex voto, voleva creare concorrenza alla Madonna e Sant’Anna della stessa chiesa, quadro veneratissimo. Nel 1605 monsignor de Massimi commissiona un Hecce Homo e fra gli artisti selezionati per la commissione mette Caravaggio, il Cigoli e il Passignano; fra le opere proposte egli scelse quella del Cigoli, disfandosi di quella caravaggesca. L’Hecce homo di Caravaggio, oggi in Palazzo Rosso a Genova, ha come volto del Cristo l’autoritratto stesso dell’artista, caricaturato, quasi come se durante il lavoro egli avesse il presagio di finire in galera. Nel novembre 1605 Caravaggio ottenne l’incarico della Madonna del serpe o Madonna dei palafrenieri, il più rilevante della sua vita, per l’altare dei Palafrenieri in San Pietro (commissionata dall’arciconfraternita dei Palafrenieri), oggi alla Galleria Borghese; l’opera viene pagata nel 1605, collocata sull’altare il 14 aprile 1606, ritirata dall’altare il 16 aprile. Caravaggio sapeva l’argomento legato al simbolo liturgico della Immacolata Concezione, ma affronta l’opera in tono “plebeo”, tanto da riceve un rimprovero. Infatti Sant’Anna sembra una vecchia ciociara, Maria una lavandaia, il Bambino è nudo; i nimbi sembrano piccoli anelli dorati della povera gente. Era quasi scontato che i Signori cardinali della fabbrica di San Pietro avrebbero rifiutato l’opera. Il dipinto fu ritirato dal cardinale Scipione Borghese nel luglio 1606, pagandolo 100 scudi. Il motivo iconografico del quadro è tratto da un esemplare manieristico lombardo visto dal Caravaggio apprendista a Milano, quello del Figino in Sant’Antonio Abate. Ricordiamo che a fine maggio 1606 Caravaggio uccide Tommasoni e fugge da Roma; poco prima della fuga egli aveva dipinto la Morte della Vergine per la cappella dell’avvocato Laerte Cherubini in Santa Maria della Scala in Trastevere, oggi al Louvre; l’opera nel 1607 verrà comprata dal duca di Mantova (Vincenzo Gonzaga) grazie all’intermediazione di Rubens (che prima di spedirlo al nord ne organizzò anche una pubblica esposizione di 1 settimana). Anche quest’opera fu tolta dall’altare perché rifiutata. I biografi Mancini, Baglione e Bellori ci dicono tanto su questa Madonna proposta, rifiutata forse perché era il ritratto dell’amata dell’artista, forse perché la mostrava gonfia e con le gambe scoperte, forse perché sembrava troppo morta; l’opera di fatto ci racconta la morte di una popolana del rione, ma l’angoscia di quegli attimi è aumentata dal fascio di luce che tocca il viso della Madonna, fende di traverso il viso addolorato di Giovanni, rende Maddalena seduta un grande tassello di luce. Questa è di fatto l’ultima opera dipinta da Caravaggio a Roma. L’opera fu venduta nel 1628 a Carlo I d’Inghilterra e passò poi al banchiere parigini Jabach, poi a Luigi XIV e infine al Louvre. Capiamo quindi che se nel 1603, anno del processo con Baglione, Caravaggio è ancora pittore mirabile, intorno al 1605-1607 l’artista inizia a veder rifiutate le proprie opere. Non che la sua vita privata incida sulla sua pittura, ma di fatto le vicende che vive in questi anni gli impediscono di focalizzarsi sul lavoro d’arte. Nel 1605 il notaio Mariano Pasqualone da Accumulo denuncia Caravaggio per averlo ferito alla testa ed essere subito scappato verso palazzo Dal Monte. Per sfuggire all’arresto l’artista si rifugia a Genova (dove dipinge probabilmente l’Hecce Homo di Palazzo Rosso). Dopo un mese egli rientra a Roma, fa pace con Pasqualone. Poco dopo, però, viene nuovamente denunciato, questa volta per aver tirato dei sassi alla finestra di Prudenzia Bruna (sua affittacamere che lo aveva denunciato per non averle pagato l’affitto per 6 mesi, e quindi gli aveva fatto sequestrare dalle guardie tutti gli averi). 16 L’artista viene quindi ospitato da Andrea Ruffetti, e presso di lui realizza probabilmente la Morte della Vergine. Negli stessi mesi Caravaggio realizza il San Gerolamo scrivente della Galleria Borghese, con manto rosso spiegazzato, raffigurato mentre scrive spedito con accanto il teschio, vecchi volumi e l’asciugatoio; per Bellori l’opera fu dipinta per il cardinale Scipione Borghese dopo il luglio 1605; nell’800 era considerato di Ribera, fu Modigliani a restituirlo al maestro nel 1909; è da porre fra le invenzioni tipiche “a tre quarti” di taglio “orizzontale”. Allo stesso periodo è ascrivibile anche l’altro Gerolamo, ossia il San Gerolamo oggi a Montserrat, questa volta sviluppato in verticale, è lo stesso modello di sopra, ma mostra un rosso troppo crudo svelato dalla pulitura eccessiva. Allo stesso periodo risale il Cristo che risveglia i discepoli nell’orto degli ulivi, prima al Kaiser Museum di Berlino ma perso durante la guerra. Da un avviso spedito da Roma alla corte di Urbino e da una Lettera di Pellegrino Bertacchi (incaricato modenese) leggiamo che il 29 maggio 1606 Caravaggio uccide Ranuccio Tommasoni durante una rissa sorta per il giudizio su un fallo durante il gioco della pallacorda, presso l’ambasciata di Toscana; durante la rissa egli uccide in modo casuale, ma violento, il Tommasoni e rimane ferito; viene quindi bandito da Roma. Inizialmente Caravaggio fugge nella campagna romana, presso i feudi del principe Marzio Colonna suo amico. Nei mesi che seguono, giungono da queste zone alcune sue opere: - Maddalena, in disperata penitenza, inchiodata dalla luce sul fondo nero. - San Francesco che si torce inginocchiato sul crocifisso, lo vediamo nella copia presso i musei civici di Cremona. - Cena in Emmaus della Pinacoteca di Brera. L’opera fin dal 1624 fu nella collezione dei marchesi Patrizi, dove restò fino al 1939 quando fu acquistata dagli Amici di Brera. Fatta conoscere da Venturi nel 1912, è probabilmente l’opera che Caravaggio dipinse nel suo rifugio di Palestrina nel 1606, e che mandò a vendere a Roma, dove venne acquistata dal Costa. Non riuscendo ad ottenere la revoca del bando capitale, Caravaggio va a Napoli. Nell’autunno 1606 Caravaggio arriva a NAPOLI. Teniamo ben presente che in realtà i soggiorni napoletani dell’artista furono 2: uno del 1606-1607, e uno nel 1609-1610 (di ritorno da Malta). Per questo motivo in generale le opere del periodo “napoletano” vengono citate un po' alla rinfusa. Sicuramente durante il 1° soggiorno del 1606-1607 Caravaggio dipinge le Sette opere di Misericordia a la Madonna del Rosario; nulla sappiamo della Flagellazione di San Domenico e della Resurrezione di Cristo a Sant’Anna dei Lombardi, che risalgono più probabilmente al 2° soggiorno (vedi dopo). Sette opere di Misericordia, oggi alla Chiesa del Monte della Misericordia di Napoli, sono un soggetto antico, comunale, romanico per cui Caravaggio guarda a citazioni remote ma riconoscibili: - Cimone e Pero sono utili per la popolana che allatta il vecchio alla grata della prigione. - Come San Martino, il gentiluomo che sfodera la spada spartisce il suo mantello col mendicante nudo. - L’oste e l’albergatore, forse il tedesco proprietario dell’albergo del Cerriglio presso Santa Maria la Nova, danno da bere all’assetato che si serve dell’uopo, come Sansone. Mai il Caravaggio si sentì più libero che in questo quadro napoletano. Le Sette opere fu eseguita probabilmente nel 1607, e fonde in una sola opera il dar da mangiare agli affamati e il visitare i carcerati. Notiamo che la testa del pellegrino che sopraggiunge a sinistra è forse il ritratto dell’oste dell’albergo cerriglio, dove Caravaggio alloggiò nel suo viaggio di ritorno da Malta-Sicilia. Madonna del Rosario, oggi al Kunshistoriches Museum di Vienna, fu dipinta dall’artista “col cuore in mano”, in un momento eccezionale di schiarita. Egli aveva raccolto i pezzenti più straordinari e perfetti nella sagrestia dei frati inquisitori e li aveva messi in ginocchio fra i domenicani più tetri e patetici, in atto di chiedere loro quegli amuleti contro il loro destino di miseria. Il committente è ritratto sotto al mantello di San Domenico, e rifiutò l’opera. Il quadro fu messo in vendita nel settembre 1607, come vide Pourbous; negli anni ’10 fu portata in Belgio dal pittore Finson, e nel 1619 entrerà nella chiesa dei Domenicani di Anversa (su consiglio di Rubens), dove resta fino a fine ‘700; viene poi comprata dalle Gallerie di Vienna. 17 Secondo Longhi in questi stessi anni Caravaggio dipinge anche: - Il Martirio di San Sebastiano, poi trasferito a Parigi e oggi noto solo da copie; - David con la testa di Golia di Vienna, dove il ductus è identico a quello della Madonna del Rosario, a cui si lega anche per tratti specifici della fattura. Secondo Longhi l’opera coincide con la “mezza figura di Davide” che per Venturi fu acquistata dal conte di Villamediana, che fu a Napoli 1611-17. - Forse anche il Martirio di Sant’Andrea (noto dalla copia di Toledo, che per alcuni è un originale) e la Incoronazione di spine sempre a Vienna. Nel luglio 1607 Caravaggio arriva a MALTA. Di questo soggiorno abbiamo 3 cose certe: 1. Decollazione del Battista in San Giovanni dei Cavalieri, più spietata che mai, con gli ergastolani che spiano l’esecuzione dall’inferriata in un pomeriggio calmo e lento. 2. San Gerolamo in meditazione oggi alla Cattedrale della Valletta, nella cappella di San Giovanni. 3. Amorino dormiente oggi a Palazzo Pitti. Forse memore dello scacco subito per la nudità del Bambino della Madonna del serpe, qui cela i particolari osè sotto un “grembiule” d’ombra. Esistono poi altri dipinti che si possono ascrivere al periodo maltese, ma con meno certezza: 4. Annunciazione di Nancy, di cui sopravvive solo l’angelo portentoso. 5. Salome con la testa del Battista, ossia Salomè, la fantesca e il manigoldo con la testa del Battista, un dipinto a mezze figure che è un argomento maltese, oggi al Palazzo Reale di Madrid. Nel 1927 Longhi la indicò come autografa, proponendo l’identificazione dell’opera in quella che Caravaggio inviò da Napoli al Gran Maestro Wignacourt di Malta per placarne lo sdegno, proprio perché rievoca la fierezze pittorica delle opere maltesi. Nel luglio 1608 all’artista viene concessa la croce di cavaliere “di grazia”; a ottobre in seguito, ad una contesa con un cavaliere “di giustizia”, egli viene rimandato in carcere; il 6 ottobre evade dal carcere e scappa in Sicilia. Giunto in SICILIA il Caravaggio subito visita le antichità di Siracusa. In questo periodo siciliano l’artista dà ancora prova di sé, dimostrando di sapersi riprendere rapidamente dalle sciagure che vive durante la sua vita. Il dipinto più antico di questo breve periodo siciliano è anche il più guasto/rovinato, ed è la Sepoltura di Santa Lucia nella chiesa di Santa Lucia di Siracusa, dove l’artista ha l’idea di diminuire la grandezza delle figure, affrontate a altissime mura. Il nuovo rapporto spazio-figura viene affrontato poi nella Resurrezione di Lazzaro a Messina (oggi al Museo regionale), forse lasciato tronco dal pittore; autografa è la parte al centro con l’invenzione del gesto di Lazzaro che si sta stiracchiando svegliandosi da sonno e con la mano destra “attinge” alla forza della luce. L’artista riuscì invece a terminare l’Adorazione dei pastori (Presepio coi pastori) per i Cappuccini di Messina, oggi al Museo Nazionale di Messina, dove ritenta ancora più umilmente il rapporto spazio-figura. Il Bambino è piccolo, gli animali grandi e immobili; in primo piano c’è poi una specie di “natura morta dei poveri”. Citata nel 1644 e nel 1672, si afferma eseguita nel 1609; è molto guasta a causa di varie puliture. L’altro presepio ossia l’Adorazione dei pastori con i santi Francesco e Lorenzo dell’Oratorio di San Lorenzo a Palermo per Longhi è meglio conservato perché viene dipinto nel 1609 sulla via del ritorno, ma fu poi trafugato nel 1969. L’artista qui ritorna sui suoi passi, rievoca quasi il periodo milanese, mostrando però tutte quelle sue scoperte come i semitoni ombrosi degli animali. Il Bellori ricorda bene che l’artista realizzò il dipinto dopo essersi trasferito da Messina a Palermo, prima dell’ottobre 1609 (quando è nuovamente a Napoli). A fine estate 1609 Caravaggio torna a NAPOLI. Giunto alla locanda del Cerriglio, viene trovato dagli emissari del suo rivale maltese e così picchiato da essere quasi irriconoscibile. La notizia arriva fino a Roma, dove però non è chiaro se l’artista sia solo stato picchiato oppure ucciso. Questo 2° soggiorno napoletano dura almeno 10 mesi, ma se ne sa poco.