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Riassunto di Figure di Falcinelli, Sintesi del corso di Comunicazione Grafica

Sunto del libro "Figure" di Falcinelli

Tipologia: Sintesi del corso

2022/2023

Caricato il 16/09/2023

valeria-anzalone
valeria-anzalone 🇮🇹

4.8

(10)

4 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Riassunto di Figure di Falcinelli e più Sintesi del corso in PDF di Comunicazione Grafica solo su Docsity! RICCARDO FALCINELLI: FIGURE 1 CAPITOLO - SPAZIO Il potere del centro La suora che faceva catechismo si mise seduta e cominciò a parlare. Prima di iniziare con Gesù e gli apostoli, e la trinità, e il mistero della messa, disse che voleva raccontare come aveva deciso di prendere i voti. Raccontò che aveva la nostra età, stava giocando, quando si voltò e vide di fronte a sé la vergine Maria: «Era lì, al centro del giardino, avrei potuto toccarla». Da questa frase emergeva secoli di idee, di forme e di figure. Diciamo «stare al centro» e ci sembra una cosa facile. Ma lo è davvero? Ogni volta che osserviamo qualcosa, tendiamo a incentrare nello sguardo l’oggetto del nostro interesse. Si dice che qualcosa è centrato perché instaura rapporti privilegiati con la cornice che gli sta intorno. Non a caso l’etimologia della parola viene dal greco kentron, ossia l’aculeo del compasso dove intorno si delimita la circonferenza. In altre parole esiste un centro solo se c’è uno spazio dato, definito, anche soltanto a occhio. Il centro è una consuetudine storica, che si basa però su una predisposizione psicologica. Per esempio gli studi hanno rilevato evidenziato come i bambini tendono a iniziare i loro scarabocchi nel mezzo del foglio, di rado disegnano sul margine, anzi, quando questo accade potrebbe essere indizio di un disagio psicologico: come se scegliere la periferia del campo fosse la figura simbolica di un'emarginazione interiore. È indubbio che la maggior parte dei bambini disegni partendo dal mezzo, è altrettanto vero che questo spazio è guidato da regole precise visto che in natura non esistono fogli A4. È difatti significativo che la prima volta che si propone un foglio un bambino questo disegni muovendo il pastello ovunque: il foglio c’è, ma i suoi confini non sono sentiti rilevanti. Solo chi ha coscienza del limite è infondo davvero libero. Un pallino al centro del campo ci comunica un senso di calma, un pallino decentrato diventa invece un’immagine dinamica. Il centro rende assoluto è ineluttabile. Fare centro è sempre frutto di uno sforzo e di una scelta, è la manifestazione di una volontà ed è stato il modello prediletto dei ritratti ufficiali. Le divinità e i potenti della Terra lo scelgono per prendere le distanze dalla casualità degli eventi e dagli uomini comuni: nelle icone, Cristo è spesso simmetrico e ci guarda negli occhi, unendo al potere del centro quello della frontalità. Ciò che consacra il prestigio del centro è tuttavia una scoperta del XV secolo: la prospettiva. Si tratta di un sistema di regole grafiche che permette di suggerire l’effetto della terza dimensione su un piano bidimensionale in modo analogo a quanto accade con la visione diretta. Storicamente l’invenzione attribuita Brunelleschi, ma il teorico é Leon battista Alberti, uno dei padri del rinascimento, scrive nel 1435 che secondo lui un dipinto è come una finestra aperta sulla realtà. L’idea rivoluzione del XV secolo consiste infatti nell’usare la geometria per trascrivere in un disegno ciò che l’occhio sta vedendo in un momento esatto e da una posizione precisa. I raggi visuali che le cose proiettano nell’occhio vengono intercettati e segnati su un telaio posto tra l’osservatore e la realtà, trascrizione che dà vita a un’immagine plausibile. Per definire questo prelievo Alberti usa un termine fascinoso “velo”. L’immagine è un vero estratto dal flusso che va dal mondo allo sguardo. Con la metafora della finestra Alberti sta dunque ponendo un problema pratico e filosofico: e cioè che di fronte la pittura debba starci qualcuno che la guardi. Insomma, abituati a vedere i dipinti alle mostre, nei libri o su un monitor, non ci scordiamo che stare davanti ha un’immagine come fosse un televisore non è mai stata la norma. Ecco perché la proposta di Alberti è rivoluzionaria: sta “inventando“ lo sguardo moderno. Composizione egiziana del V secolo a.C.: non c’è una volontà illusionistica, la conseguenza è che posso osservarla da varie angolazioni, è tutto coerente. Un disegno prospettico funziona solo se mi metto davanti con esattezza. Il disegno perciò, per risultare plausibile, va osservato mettendosi grosso modo dove stava chi l’ha creato. La prima testimonianza di un meccanismo simile la dobbiamo a Masaccio che nella trinità di Santa Maria novella, disegna personaggi inseriti in una nicchia otticamente perfetta. Per innescare l’illusione di profondità e di realismo bisogna stare nella posizione stabilita dal pittore: se ci si sposta l’effetto non regge più. Il prototipo perfetto di un’idea simile è la raffigurazione da Leonardo da Vinci del cenacolo, in poi: cristo coincide col fuoco, i raggi visuali si dirigono verso di lui. È un sistema percettivo e simbolico. È il trionfo del centro. Per millenni se una cosa era di rilievo doveva essere più grossa delle altre, ma nei dipinti rinascimentali la dimensione maggiore rispetto alle cose più vicine a chi guarda. Il successo dell’invenzione era tale che la prospettiva sembra l’unico modo possibile per pensare le immagini. La prospettiva non è un dispositivo neutro o naturale per restituire la realtà: è un artificioso, a cominciare dal fatto che nella vita reale usiamo due occhi e non uno solo. In termini moderni è una macchina culturale che possiede già dentro di se il un modo per interpretare le cose. Per esempio che esistano spettatori più importanti gli altri. La storia va tuttavia raccontata al contrario: è il disegno prospettico ha posto le basi dello sguardo che conosciamo oggi, se la pittura del 400 ci pare più verosimile è solo perché abbiamo in testa, come standard, la fotografia. Se il parametro è somigliare alla visione concreta, solita e vicino alla realtà, non c'è dubbio che la prospettiva sia il sistema più efficace mai inventato dall'uomo. Alhazen é il primo che formula una teoria articolata dei raggi visivi. Si aggiunga poi che nella fine del XII secolo l’invenzione degli occhiali e le lenti di ingrandimento avevano permesso di osservare le cose attraverso un filtro. Non ultimo si consideri che verso la fine del XIV secolo si diffonde l’uso delle finestre a vetri nell’edilizia privata: si tratta di un bene di lusso. Insomma nella vita quotidiana europea compaiono alcuni dispositivi visuali che cambiano il punto di vista sul mondo. Tra questi c’è anche la cosiddetta camera oscura. È il vero prodromo della macchina fotografica, il coronamento pratico delle indagini sulla fisiologia dell’occhio sulla fisica della luce. È il sogno degli artisti che cominciano usare la nuova macchina come ausilio per dipingere: basta mettere sul fondo una lastra di vetro ricalcare quello che si vede. Nel 1838, si trova il modo di fissare quelle proiezioni dentro la scatola usando una superficie emozionata: e nasce la fotografia. Il Rinascimento non sta più solo disegnando la madonna ma lo sto servando da un punto di vista preciso e con un solo occhio, come il poligono di tiro: la finestra di Alberti insomma è un mirino. proprie immagini siano guardate e votate: dai crici del Salon, dai cuori di Instagram. Non c'è nulla di male. Eppure questo gioco avviene con regole rigidissime: puoi esprimere te stesso ma dentro superfici quadrangolari. A un certo punto tu gli uomini sulla Terra hanno sento che il rettangolo era più immagine di altre immagini e hanno preferito costruire sempre più rettangoli. E tuo ciò era tenuto in tale conto che ci hanno scritto pure un romanzo in cui un uomo arriva ad ammazzarsi non riuscendo a compiere il rettangolo ideale. Proporzione magiche e industriali Gustav Fechner è considerato l’inventore della psicologia sperimentale. Il culmine delle sue ricerche lo ebbe nel 1879 e coincide con un test importante per la storia della cultura visiva. Fechner propone una serie di rettangoli diversi e chiede alla gente quale preferisce. Conclude che il rapporto 1:1,618 possiede una superiorità estetica (un rapporto 5:8). Si tratta del cosiddetto “rettangolo aureo“, il cui nome si riferisce a una straordinaria particolarità: è una forma che contiene se stessa all’infinito. Ovvero se al suo interno si disegna un quadrato basato sul lato minore, la parte che rimane è a sua volta un rettangolo aureo e così via. Non succede con nessun altra proporzione. Fechner era difatti convinto che ogni corpo fosse dotato di un’anima e che si potesse trovare una legge in grado di mettere in rapporto i due mondi: quello interiore e quello materiale. Se andiamo a misurare a campione molti dipinsi del passato le misure sono le più diverse e di rado incontriamo numeri interi. Al tempo degli impressionisti invece Manet, Degas, Seurat utilizzano in primis i formati 4:3, 5:4 e 8:5. La generazione del secondo ottocento è la prima a comprare tele preconfezionate. Tra tutte le proporzioni la più diffusa è la 4:3. Quando i fratelli Lumière inventano il cinema si chiedono che formato debba avere il fotogramma e scelgono il 4:3, il più diffuso in pittura. A un certo punto però, proprio nel cinema, sorgono nuovi problemi: nel 1927 con l’avvento del parlato, il fotogramma si era dovuto restringere per fare spazio alla colonna sonora. Sono anni in cui si cerca di mettere a punto uno standard internazionale, il cinema è un mass midium emergente: chiedersi che formato debba avere il fotogramma vuol dire stabilire l’aspetto delle immagini per il XX secolo. “Formato“ e difatti un termine moderno industriale che entra in uso nell’ottocento. “Formato“ significa sia la forma sia le sue proporzioni ed è un concetto legato alla produzione in serie. Arriva poi negli Stati Uniti il regista russo Sergej Ėjzenštejn. Tiene una conferenza rimasta nella storia ad Holliwood: lui propone di usare un fotogramma quadrato. Ma non un semplice quadrato, bensì un quadrato “dinamico“. Nel giro di un decennio, orizzontale sintomo di epico. Nel caso dei primi piani ci si accorge che invece di porre l’attore al centro, è più interessante decentrarlo, lasciando spazio dal lato dello sguardo. Non solo c’è spazio per le scenografie ma anche per il suo interlocutore. Il vuoto comincia interagire con i volti ponendo le basi di un gusto diffuso ancora oggi. Da quanto abbiamo raccontato si capisce dunque come, nel mondo moderno, l’idea di standard non sia solo una norma ma una necessità, per ragioni economiche e produttive. Sui taccuini dove disegna Cézanne l’uso dello spazio è significativo: ogni volta che lavora un paesaggio lo distende in orizzontale, talvolta anche su due pagine; però per ritrarre un volto lo gira in verticale. Si potrebbe sostenere che la scelta di Cézanne è una questione di buon senso: si gira la pagina dal verso in cui il soggetto ci entra meglio dentro. È plausibile credere che Cézanne stia scegliendo non il verso più comoda ma quello culturalmente più solido. Insomma: il verticale è stato prevalentemente un ritratto, qualcuno distante e volitivo che ci si para davanti, l’orizzontale è un paesaggio, un territorio, una donna nuda, cioè qualcosa che si stende nello spazio, che si possiede. Il problema del formato è legato sia al modo in cui ci troviamo a guardare, sia il medium o alla tecnologia che viene impiegata. Il formato più diffuso per raccontare storie però il cosiddetto “sedici noni“. Secondo alcuni studiosi il sedici noni è la proporzione che più si avvicina alla psicovisione umana perché, nonostante il campo visivo sia circa un tre per quattro , in realtà noi muoviamo gli occhi a destra e a sinistra focalizzando l’attenzione molto più in orizzontale che in verticale. Dintorni dorati e psicologici Nel linguaggio comune la parola “cornice“ evoca un telaio che si mette intorno alla pittura. Quando ne prendiamo uno in casa la scelta non è mai casuale, ma non ragioniamo sempre così. Il telaio della TV ci risulta invisibile perché al suo interno possono accadere più cose e dunque lo trattiamo da elemento neutro. Kant la pensava in questo modo pure riguarda la pittura. Nella critica del giudizio sostiene che le cornici servono solo per abbellire i quadri, mentre Poussin invece alla cornice ci teneva molto. Ci troviamo di fronte a due teorie opposte: Kant considera “immagine“ solo la superficie dipinta, Poussin al contrario l’opera è il colpo d’occhio d’insieme, cornice inclusa. il confine dell’opera è sempre soltanto il confine della tela. Nel mondo moderno la pensiamo più come Kant. Malgrado ciò, le cornici sono fondamentali per la comprensione storica delle immagini e possono svelarne i risvolti fascinosi. Mentre la cornice di Poussin ci sembra consona al classicismo , quella scelta per Van Gogh risulta sdolcinata rispetto al tono del quadro. Non ultimo bisogna considerare che mettere un telaio classico intorno a un quadro radicale significava nobilitarlo, come a dire che Van Gogh è arte quanto Poussin. questo pone un interrogativo sia storico sia filosofico: se la cornice è stata pensata e montata insieme al dipinto, togliendola, sto alterando la verità di Van Gogh? Quello con la cornice è il vero Van Gogh quello senza? Secondo gli storici sarebbe stato Monet a inaugurare la composizione della tela “al vivo” che divenne il modello più diffuso, facendo sì che il pubblico si accorgesse del ruolo e del peso di quei telai che aveva sempre avuto sotto il naso. Tra i meriti dell’eredità impressionista c’è pure quello di aver proposto insieme alla pittura un modo di guardarla che dura ancora oggi: se infatti cerchiamo Poussin dentro Google viene fuori solo la tela. La cornice ha un ruolo cruciale non è affatto un elemento neutro o innocuo. Almeno dal punto di vista percettivo aveva ragione Poussin: ciò che sta intorno stabilisce i modi di cui l’immagine si rapporta con ciò che resta fuori. la cornice è un meccanismo fondamentale per indirizzare le percezioni. Ludwig Wittgenstein nelle ricerche filosofiche ha ribadito un dato ovvio: quando guardiamo non siamo in grado di vedere i margini della nostra visione. Sappiamo che ciò che abbiamo di fronte è solo una parte del mondo, tuttavia non ne cogliamo i limiti. Quelle che chiamiamo immagini rendono esplicita questa soglia. Se un’immagine finisce senza bordure il soggetto si espande. Ci sono poi quei casi in cui la marginatura svolge un ruolo funzionale alla narrazione: come nei fumetti, dove ogni vignetta è circondata da un segno scuro che ne dichiara il rapporto con gli altri. Nel fumetto lo spazio bianco collega le cose.Sul piano percettivo immagini affiancate si influenzano a vicenda: qualcosa di largo sembra ancora più largo messo accanto qualcosa di stretto. Il contesto visuale della pittura nell’ottocento è insomma comparabile a quello di una libreria o di un supermercato dove vediamo decine di figure ammassati le une alle altre. Nel mondo attuale l’isolamento delle rappresentazioni è pressoché impossibile. È lo standard di ogni social network. E pure tale affastellamento non è un’invenzione del mondo digitale: sono stati appunto i musei ottocenteschi a rendere istituzionale questo tipo di sguardo. Il prototipo è il Louvre, che nasce con l’idea di essere un archivio universale di tutta l’arte possibile. Per esempio nel VI secolo un’icona di Cristo era considerata una manifestazione del divino e nessuno l’avrebbe mai messa accanto ad altre figure, oggi quell’icona si trova vicino alla natura morta. Ciò comporta che i confini mentali tra l’una e l’altra siano più deboli. Nel MOMA le opere ci sembrano più valorizzati: c’è uno spazio adeguato che le separa il giusto respiro per goderne. È il MOMA che cambia le carte in tavola e fissa un nuovo standard: è una mostra ma anche un manifesto programmatico. È una sintesi perfetta del gusto modernista e ha influenzato tutto il XX secolo, al punto che oggi anche uno showroom di Armani è arredato allo stesso modo: per esaltare qualcosa bisogna pensare bene non solo alle cornici ma pure al vuoto tra luna e l’altra. E dunque per metafora, la cornice più importante è sempre il contesto culturale in cui ci troviamo immersi. Nel 1883 Alphonse Allais espone una serie di composizioni grafiche in cui gioca con i risvolti meta linguistici delle immagini. È forse una delle prime attestazioni di opere monocrome. C’è una cornice e un titolo che costituiscono insieme un punto di vista su quei rettangoli e ci si chiede cosa è realmente dentro e cosa è realmente fuori. Dentro l’abisso Negli anni 40 tra i generi cinematografici esplode il meló, del melodramma - da cui prende il nome - condivide la vocazione enfatica: una macchina costruita per commuovere: passioni sono turgide, la recitazione marcata, la trama ricca di colpi di scena. Un maestro di questi film è Douglas Sirk. Dove in un suo film c’è il riflesso della donna in uno specchio e se osserviamo lo specchio della donna sul tavolo notiamo che è montato dentro un telaio di legno scuro. Ora, che i dipinti possiedono una cornice. Ci troviamo di fronte a un’idea compositiva più diffusa di quanto non si creda, e dai risvolti suggestivi. In questa foto siamo dentro a un’automobile dove c’è il parabrezza reso eloquente dall’acqua. Il soggetto di immagini del genere non è il traffico, la pioggia o il parabrezza, ma la sensazione stessa di guardare, Sono immagini che dichiarano la presenza di un osservatore con cui finiamo per coincidere. La donna riflessa nello specchio non è un semplice personaggio ma una moglie che pensa a se stessa e allo stesso tempo si domanda come la vede il marito. Il tema dell’immagine inquadrata dentro un’altra ha origini remote e inizia diffondersi a partire dalla pittura fiamminga nel XV secolo. Andrè Gilde ha coniato un termine fascinoso per descrivere questo tipo di effetti: mise en abyme, letteralmente “messa in abisso“ per indicare il vortice di duplicazione in cui veniamo risucchiati. Il risultato è toccante. Nel dipinto di Friedrich alberi e figure hanno un doppio compito: Da una parte sono argomento del dipinto, dall’altra si comportano da cornice per il nostro sguardo che punta a una sottile falce di luna. Friedrich ci chiede di partecipare insieme a quegli uomini alla comunione con la natura e il fatto che siano visti di spalle aiuta a immedesimarsi. massima acuità. L’occhio dunque non vede la realtà in un lampo piuttosto l’esplora come si muovesse su una mappa. Yarbus conclude che i movimenti oculari riflettono i processi del pensiero umano, e la traccia che ne rimane è il modo in cui abbiamo ragionato di fronte a una data immagine in un certo lasso di tempo. Oggi le tecnologie digitali permettono di analizzare i movimenti oculari durante azioni complesse, mentre il corpo è in movimento naturale nello spazio: si chiama eye tracking, un ambito di particolare interesse specialmente per il marketing. Un focus recente ha studiato i comportamenti di fronte una campagna pubblicitaria per dolce e gabbana. Tramite un software che ha registrato fissazioni e movimenti oculari del gruppo campione, sì è ricavata una Heatmap, una “mappa di colori“. Composizioni diverse invitano l’occhio a comportarsi in modi altrettanto diversi e dunque le immagini contengono già il presupposto di come saranno guardate. La pubblicità di dolce e gabbana e la madonna di Raffaello hanno un punto focale forte perché entrambi vogliono essere compresi in un unico sguardo. Un vecchio adagio sostiene che la musica sia un’arte del tempo, mentre la pittura sarebbe un’arte dello spazio. In realtà, come abbiamo visto, anche le immagini contengono un’idea di tempo: ogni opera ha un suo modo di essere perlustrata. Secondo uno studio recente i turisti del Metropolitan Museum di New York dedicano meno di 30 secondi a ciascun dipinto e subito passano al successivo. 4 CAPITOLO - MECCANISMI Strade, stracci, coltelli e pistole Quando guardiamo un’immagine in qualche modo ci entriamo dentro. Se infatti, ogni figura possiede un suo tempo per essere guardata, ne consegue che ci sono cose che notiamo per prime, altre per seconde, e così via. Nel gergo dei pittori, si dice che una composizione possiede un “punto di ingresso“ ovvero qualcosa da cui partiamo che accompagna lo sguardo dentro l’immagine. Sentiamo come un flusso pulviscolare che si muove attraverso le forme. Anche se quel sentiero è fermo ci intravediamo movimento, quello che i pittori chiamano “tensione“. Mettiamo un pallino nello spazio. Attira la nostra attenzione. Nel momento in cui aggiungiamo altri due pallini non vediamo soltanto tre pallini ma anche un triangolo. Il nostro occhio non può fare a meno di legare quei tre nodi con un filo invisibile. In psicologia questo fenomeno si chiama “induzione“. Non vediamo semplici punti: per lo sguardo umano il cielo non è coperto di stelle sparpagliate ma di costellazioni. La conseguenza sul piano pittorico appunto una tensione che attraversa le forme. Storicamente nelle tavole imbandite è stato spesso il chiarore di un tessuto a fare da via d’ingresso. Ora però, di tutti i puntatori possibili, non c’è dubbio che in pittura i più usati siano stati le braccia e le mani. Le mani sono l’unica parte del corpo che non è sempre in diretto rapporto col pesare a terra, abbiamo persino un dito che è stato battezzato indice per la facilità con cui lo usiamo per dire «guarda lì» Insieme agli occhi partecipano del parlare; persino Leonardo viene criticato per il troppo gesticolare degli apostoli nell’ultima cena. Nei film e nelle serie TV si continua a fare lo stesso. È un meccanismo a orologeria. Si entra, si esplora, si esce e poi da capo. In oriente si frammentano i nuclei focali: l’importante è perdersi dentro l’immagine e non l’andare da qualche parte, mentre in Occidente conta l’ingresso e il colpo d’occhio. La spinta degli alberi In una scena di E.T. Il soggetto è l’astronave, tuttavia metà del fotogramma è occupato da una fronda dell’albero che sbuca da sinistra. Perché dare tanta importanza a qualcosa che in fondo non sembra rilevante? Uno dei luoghi che ha contribuito a formare la grammatica dello spazio visivo è stato il teatro: a partire dal 500, alcune invenzioni scenografiche si intrecciano con quelle della pittura, gli elementi che compongono il palcoscenico classico sono tre: il boccascena, il fondale e le quinte. Dal punto di vista percettivo di elementi svolgono un ruolo simile: fanno convergere lo sguardo sull’azione al centro della scena. Come si evince da alcuni disegni del XVI e XVII secolo, fondali e quinte risentono di molte norme tipiche della pittura: ad esempio gli scenografi le decorano con colonne sontuose secondo la moda lanciata dai dipinti di Raffaello. Pian piano però i rapporti si ribaltano ed è la pittura a imitare le idee del teatro: così nei quadri seicenteschi cominciano a comparire gruppi di alberi che sbucano da destra e da sinistra e che citano lo spazio come un palcoscenico. Ci si accorge che se una sola quinta si trova in primo piano il suo ruolo cambia, anziché indirizzare lo sguardo lo spinge in profondità. Ecco, il ramo di E.T. é un repoussier, uno una delle basi della grammatica visiva moderna. Per questo occupa tanto spazio nel fotogramma, perché ci permette di vedere meglio l’astronave, facendoci sentire la distanza tra noi e lei. La differenza tra quinta e repoussier dipende infatti dal ruolo che svolgono nella composizione. Il repoussier non significa qualcosa, ma svolge un compito: rende eloquente la lontananza. Le immagini dunque non si limitano a mostrare: sono in grado di “fare delle cose“. Il motivo di tale successo va con molta probabilità ricercato nel cinema: non è un caso che le riprese di un telegiornale non usino il repoussier. Il verbo repousser significa respingere, allontanare: il pubblico vuole essere spinto dentro una storia, non addosso il conduttore delle news. Cinema, serie TV, fumetti vi ricorrono di continuo per concentrare l’attenzione sull’oggetto principale e per creare profondità. I Il repoussier più celebre di tutta la storia del cinema lo troviamo però un melodramma: “via col vento” di Fleming. La citazione del dipinto di Friedrich che abbiamo incontrato è palese. Rossella O’Hara è abbracciata al padre: osservano i loro possedimenti anche qui l’albero è una metafora dello sguardo e del proiettarsi in avanti. In un’altra scena la vediamo di spalle che guarda l’orizzonte incorniciata dalla grande quercia, stavolta senza il padre. L’albero non inquadra più i terreni e la casa, bensì protende le aspirazioni verso il futuro. Finché su quel cielo compare l’unica cosa possibile, la scritta “the end“. L’albero, decentrato, è diventato un brandello di sipario che incornicia l’intero film, spingendoci, a parteciparne. La scoperta del fulcro Dorè artista tormentato e infelice con passione per il disegno. Spopola con le immagini riprodotte in serie ma dentro di sé considera più nobili le grandi tele delle epoche passate; è travolto dal consenso delle masse, ma sogna l'approvazione dei critici che non gliela daranno mai. L’inferno di Dorè non è quello dell’immaginario medievale, ma sempre una delle prime rappresentazioni della società di massa, e quelli che compaiono nelle tavole non sono più semplici dannati, ma una cosa nuova: la folla. Il suo inferno è dunque quello della città moderna e i dannati che abitiamo le sue tavole non sono poi così diversi da noi, oggi, quando prendiamo una metropolitana. Questo nuovo modo di stare comportano modo di guardare: in mezzo al caos e non possiamo essere attenti a tutto e, anzi, il più delle volte, magari con la musica nelle orecchie, ci spostiamo per la città senza servare davvero ciò che abbiamo intorno. Lo sguardo moderno è costantemente distratto da troppo rumore, sonoro e visivo. La maggior parte degli artefatti visivi del passato, come abbiamo detto, mette al centro la cosa più importante. Se però la scena si affolla, ecco che pure una cosa al centro diventa poco visibile. Così Gustave si inventa questo: non importa che il soggetto sia grande o sia al centro, l’importante è che spicchi. E per farlo Dorè sguinzaglia ogni espediente possibile: illumina un solo punto della scena, usa le massime puntatori. Propone cioè un dispositivo costruito apposta per l’occhio moderno, dove le immagini non hanno più un centro ma un fulcro. In un campo a tinta unita l’occhio non ha un punto dove soffermarsi e vaga senza appigli; non appena introduciamo una vignettatura, ecco che lo sguardo punta verso quel nucleo. Un trucco di impressionante efficacia. Dorè è teatrale come un set designer che punta un faretto su un solo attore lasciando il resto nell’oscurità. Con quei tocchi chiari ha definito il fulcro e il layout generale. Dorè è in anticipo sui tempi, dipinge per questo un nuovo occhio. Il fulcro è il cuore di quasi tutta la grafica e il cinema a venire. Ma anche ogni volta che in pubblicità un prodotto spicca in mezzo a tutto il resto, quello, è un po’ Dorè. La folla è la grande protagonista delle narrazioni moderne, specialmente al cinema. Nel 1928 King Bidor le dedica un film, “la folla” appunto. Lui ci mostra uno sciame, tanti puntini in movimento. È un tipo di immagine a cui oggi siamo abituati anche solo dal telegiornale, ma per l’epoca è un pugno nello stomaco. Prima di allora non ci eravamo mai guardati così. È peggio dell’inferno o del giudizio universale. Un uomo medievale l’avrebbe trovata una raffigurazione eretica che distrugge la dignità dell’uomo e nega in definitiva l’esistenza di Dio. L’idea di Vidor è comunque troppo cruda per Hollywood, Così nei film a venire la folla diventa un mero fondale su cui far spiccare un unico attore. Il dramma della società di massa in fondo è tutto qui: pensiamo sempre che la folla siano gli altri. Forse per questo Dorè è stato tanto amato: si è inventato l’artificio per far spiccare un bruscolino in mezzo al caos, e farci credere che quell’eroe siamo noi. 5 CAPITOLO - TOPOLOGIA La gravità è nell’occhio di chi guarda Gustave Harbert si ferma davanti a un collage intitolato ”Le Bateau” Di Matisse e nota che quell’opera è appesa al contrario, effettivamente aveva ragione. Quest’opera è un collage asciutto su un fondo bianco, tratteggiato da nuvole, compaiono due triangolini azzurri: uno che rappresenta una barca un altro simile che nel riflesso. Matisse suggerisce la sensazione dell’acqua come specchio raddoppiati. Un elegante elogio alla simmetria. Tuttavia i triangoli non sono identici: uno è più elaborato e Habert pensa che Matisse non avesse mai usato la forma più ricca per farne un riflesso. Il riflesso è la forma più essenziale. Il successo della diagonale è venuto crescendo negli ultimi tre secoli, entusiasmando la cultura romantica e divenendo uno stratagemma per la pubblicità. I tagli sbiechi sono infatti quelli che più di tutti raccontano le tensioni dei nostri tempi: che si tratti di inquietudini dell’anima o di frecce pubblicitarie. A dispetto di quello che pensava Mondrian, la diagonale è stata una grande protagonista del mondo moderno. Sappiamo che qualcosa che poggia tende a rimandare in quella posizione, mentre ciò che sta in bilico può spostarsi, cadere. La conseguenza sul piano figurativo è che l’orizzontalità racconta lo spazio dato, c’è un senso di riposo o di calma. L’inclinazione rende invece la scena dinamica e il cervello interpreta le righe oblique come oggetti pendenti rispetto al suolo. Un orizzonte inclinato è innaturale per lo sguardo. Una diagonale risulta infatti instabile e dinamica solo in rapporto al quadro generale in cui la vediamo agire. C’è però anche chi ha usato le diagonali per raccontare non il movimento ma il silenzio. In questo dipinto di Edward Hopper la stanza è minimale. Al centro spicca la luce della porta che descrive sul muro una traccia obliqua. Hopper ha dichiarato più volte di aver lavorato per anni con un’unica ossessione: riuscire a restituire sulla tela l’effetto della luce nello spazio. I suoi quadri sono famosi per questa solitudine muta. Ernest Haller è uno dei fondatori dell’immaginario moderno. Se fino a quel momento a Hollywood la norma era di fare le ombre solo per i fondali, qui lo schema è sovvertito. Le ombre oblique ricadono direttamente sul volto della protagonista. Un segno dal deciso potere grafico e narrativo: fa spiccare il soggetto nel fotogramma e allo stesso tempo lo rende inquieto: è un’ombra ed è pure un taglio che, dividendo lo spazio, allude a una doppia verità. Ogni caso ad Hollywood non si inventa mai nulla: quei contrasti luministici si spirano alla pittura di Caravaggio. Il prototipo di ogni ombra trasversa e tormentata compare infatti per la prima volta nella “vocazione di San Matteo”. Nella pittura medievale e rinascimentale le ombre erano soltanto il lato oscuro delle cose. Caravaggio ne fa invece un meccanismo retorico, si inventa una lama che sezione la tela accompagnando il gesto della mano di Cristo. L’esempio più celebre di diagonale cinematografica lo dobbiamo però in un film dei fratelli Lumière. All’inizio il treno non c’è i binari imbastiscono una fuga prospettica. Poi arriva il treno, ripercorrendo quella riga la fa brillare. La cinepresa dei Lumière non aveva mirino e l’intelligenza visiva dei due fratelli sta nell’anticipare con l’immaginazione come verrà fuori il fotogramma finito. Tutto ciò è possibile perché i Lumiere non stanno mettendo una cinepresa davanti a un treno ma lo stanno posizionando davanti a una diagonale. E la diagonale è l’essenza figurativa del movimento: instabile, dinamica, enfatica. 6 CAPITOLO - COMPOSIZIONE
 Metafisica delle ciotole
 Cézanne per più di trent’anni ha dipinto nature morte usando sempre gli stessi oggetti. Ciò che gli interessava erano le possibilità combinatorie che venivano fuori a ogni variazione e si trattava di fare apparire progetti come un discorso unico, coerente e armonico. Una faccenda di sensibilità, non di geometria. Questi artisti, spostando di qualche centimetro un bicchiere si stanno ponendo una domanda antica quanto la pittura: come cambia il nostro sguardo al cambiare dell’ordine delle cose. Prendiamo uno spazio e mettiamoci una bottiglia. Questa la vediamo al centro e ci trasmette un senso di mobilità, se però viene decentrata la composizione acquista dinamismo. Se entra in scena un secondo oggetto, l’insieme diventa ancora più articolato. Se i due oggetti sono uguali, c’è un effetto di ripetizione e simmetria, mentre mettendone uno avanti e uno dietro, emerge l’idea che una bottiglia si è ripetuta. Per evitare un senso di rigidezza, gli artisti preferiscono usare dimensioni e altezze diverse: l’alto si slancia in verticale, il basso lo bilancia in orizzontale. Nelle bottiglie dipinte da Giorgio Morandi ci sono contrasti di pieno e di vuoto, di grosse e di piccolo, di chiaro e di scuro. Potremmo dire che la disposizione dei pezzi ha suscitato un “discorso“. Da una parte si tratta di rapporti di tipo narrativo: osservando quegli oggetti ci vediamo dentro una storia. Dall’altro c’è un aspetto più astratto legato al ritmo che scaturisce dall’insieme. La logica strutturale delle nature morte è appunto di tipo ritmico: ogni rapporto tra oggetto e oggetto, tra le qualità dell’oggetto le qualità opposte di un altro e le affinità tra ciascuno e lo spazio che li contiene suggerisce un particolare tipo di andamento. La ripetizione di qualcosa nel tempo possiede infatti qualità piacevoli e rassicuranti, ed è la base delle principali funzioni vitali. Il ritmo conferisce coerenza alle varie parti del discorso che altrimenti resterebbero slegate. La natura è chiamata “morta” perché ogni cosa è immobile e non ci sono esseri umani o azioni visibili. Il nostro corpo non vive per sempre, è stagionale come un frutto che ci appare nel pieno del suo fulgore.Chardin, Cezanne e Manet non stanno sparpagliando oggetti a caso, stanno componendo sinfonie. In Chardin la natura è davvero silenziosa. Prendere atto del potere formale della natura morta ha tra l’altro un valore politico: ogni giorno ci imbattiamo in fotografie in cui l’hamburger ci si affianca a un bicchiere di Coca- Cola. La pubblicità contemporanea non è altro che una sconfinata natura morta. L’interesse per la disposizione esatta delle cose non ha riguardato solo la pittura o la pubblicità; anche nel cinema c’è chi gli ha dedicato cure non comuni. Il regista giapponese Ozu sistemava di persona ogni oggetto nei suoi film. Per lui quello che conta è l’equilibrio del singolo fotogramma, come fosse un dipinto. Si racconta che Ozu disegnasse ogni dettaglio dell’idea che aveva in testa, e poi la realizzasse fissando la scena attraverso il mirino della cinepresa. Il gioco del disporre e comporre, rivela una sfumatura profonda nel rapporto tra noi e le immagini. Forse il contenuto delle nature morti in prospettiva evoluzionistica potrebbe essere questo: il desiderio che la vita abbia un senso. Teoria dell’occhiata La parola “composizione“ nel Rinascimento è pressoché inesistente. Fino al 300 la pittura era incentrata su due concetti principali: il disegno e il colore. Il termine compositio inizia a figurare nei ragionamenti a partire da Leon battista Alberti; compositio sarebbe l’arte di mettere l’insieme di un dipinto secondo una gerarchia prestabilita. È nel seicento che il termine diventa un classico nel dibattito artistico. Gli artisti non hanno mai messo le figure a casaccio nello spazio, e dai tempi più antichi il principio guida è sempre stato la geometria. La cultura medievale, quasi non contempla un disegno privo di geometria, perché la forma, deve testimoniare le cause segrete. Tra le forme di base il cerchio rimanda alla perfezione. Oppure tra i motivi sacri c’è la mandorla, forma ancestrale: il risultato è un’apertura da cui si genera l’universo; è la forma per eccellenza della nascita, del principio, dell’origine. Le forme triangolari sono state invece predilette per le raffigurazioni in cui il sacro è una faccenda istituzionale: nel Rinascimento lo schema prescelto per la madonna. Conferisce alle figure un ritmo e rimanda alla trinità. A partire dal 400 ciò che più affascina i pittori e i committenti diventa la verosimiglianza delle tridimensionale e al centro del dibattito si pone il “realismo”. La cultura visiva del Rinascimento ruota intorno a due temi principali: la raffigurazione di spazi illusionisti e la figura umana. È un interesse che dura per tutto il cinquecento, finché non viene spodestato da ragionamenti d’altro tipo: non la geometria, non il realismo, ma la distribuzione degli elementi del quadro. Poussin era solito costruire delle statuine di cera alte circa 20 cm, una per ciascun personaggio: le disponeva su una tavola a scacchiera per studiarne le possibili collocazioni, gli effetti di luce e di ombra. Lui studia la distribuzione spaziale come abbiamo visto fare in Cézanne: è un compositore moderno. Per la sensibilità raffaellesca quello che conta è il disegno delle figure, la loro gestualità. In un qualsiasi quadro di Poussin il nodo centrale è la coerenza tra i vari elementi. Questa capacità di tenere insieme un “tutto” è quella che abbiamo in mente quando oggi parliamo di composizione. Lui intende la pittura non più come un disegno ma come una regia. Il Rinascimento modella i suoi ideali sulla pittura ad affresco, in cui è difficile avere una visione d’insieme. Nel medioevo la carta è una materia rara e poco interessante. La rivoluzione tipografica di Gutenberg cambia gli assetti consolidati e impone la carta come materiale nuovo e ricercato. Comporre significa infatti provare riprovare, arrangiare le cose in modi diversi fino a trovare quello più convincente; e la via più facile per provare il disegno. Nell’ottocento gli artisti lavorano su formati più piccoli rispetto al passato e poi ci sono i fotografi che maneggiano figure alte pochi centimetri, e saranno loro a inventare i canoni che conosciamo oggi. Sono gli anni in cui esplode la riproducibilità tecnica. Le regole dell’orizzonte In che modo lo spazio è suddiviso? Il disegnatore tiene l’occhio fermo e fissa attraverso una scena che sta aldilà. È però nel seicento che l’impiego di ausiliari ottici diventa parte integrante dell’attività disegnativa. La diffusione massiccia di tele rettangolari e dell’idea che il quadro sia come una finestra; perché una volta stabilito il formato, rimane da decidere in che maniera uno spazio simile vada suddiviso. Da tempi è sempre stato quello di tracciare gli assi di simmetria, oppure le diagonali e le sotto diagonali. A partire dal seicento la questione si fa però più complessa. Cercano regole, principi, formule che conferiscono rigore e autorevolezza ai mestieri artistici. Tra le varie prescrizioni, una pratica suggerisce di “battere“ il lato corto su quello lungo cioè di riportare la misura dell’altezza (AC) sulla base (AB) del quadro. Si ricava così una divisione dello spazio che elude le rigidezze della centratura e delle simmetrie perfette. Viene chiamata rabatment, cioè ribaltamento. C’è poi la “sezione aurea“. Poiché in un rettangolo la diagonale principale è sempre perpendicolare a quella del rettangolo contenuto al suo interno, si generalizza il principio,