Scarica Riassunto di "Filologia romanza - 3. Analisi letteraria" di Eugenio Burgio e più Sintesi del corso in PDF di Filologia romanza solo su Docsity! 1 Filologia romanza 3. Analisi letteraria Eugenio Burgio 2 Introduzione 1. Filologia. Il termine filologia ha origine greca, e significa “amore per la parola”. Oggi può indicare l’insieme degli studi letterari, oppure, più specificatamente, gli studi umanistici. Più in generale, con filologia si intende un atteggiamento verso le lingue e verso i testi che privilegi una lettura approfondita, fondata su documentazione certa e su metodi espliciti, che ne analizzino la formazione originaria e la trasformazione nel corso del tempo. 2. Romanza. Nel termine “filologia romanza” l’aggettivo indica le lingue derivate dal latino. Queste cominciarono ad essere percepite come distinte dalla loro matrice comune nel corso dell’Alto Medioevo. 3. Europa. La filologia romanza offre anche per l’area italiana una prospettiva comparatista che allarga lo sguardo all’insieme della cultura europea medievale. Questa caratteristica colloca la nostra disciplina in un punto di osservazione privilegiato, per comprendere il retroterra dell’Europa di oggi. Alla fine dell’Ottocento, la filologia romanza è nata alla ricerca delle origini delle lingue, con l’idea forte che la comparsa e l’affermazione del volgare esprimesse un’identità popolare, contrapposta alla cultura del Medioevo latino come una nuova energia fondatrice. Nel corso del Novecento, i totalitarismi e la tragedia delle guerre mondiali hanno portato alla crisi del modello culturale occidentale e al possibile recupero di una radice comune europea, da cui ripartire. 4. Critica testuale. La filologia, in quanto critica testuale, studia gli antichi manoscritti e offre alla lettura contemporanea i testi medievali, si interroga sulle trasformazioni dei testi nel tempo. La filologia romanza ha dovuto confrontarsi con una realtà testuale viva e dinamica: i testi in lingua volgare lasciavano ai copisti ampia libertà di intervento. 5 • MESSAGGIO/REFERENTE. Il messaggio riguarda il governo spirituale: il suo referente è il modo della pastorale. I laici poi non si accostavano direttamente alla Scrittura, sia perché analfabeti sia perché la Chiesa ne limità l’accesso al corpo ecclesiastico. Istruire significa “tradurre” in parole semplici la dottrina sacra, e in un regime di forte oralità la predicazione si rivelò uno strumento prezioso, per tutto il Medioevo. • CODICE/CANALE. La scrittura a funzione prescrittiva, risponde a una pratica corrente nel mondo carolingio: affidare allo scritto le deliberazioni dei placita, per renderle note agli aristocratici al governo (i conti) e agli amministratori regi (i missi). Tale attenzione alla scrittura si spiega nel contesto del progetto culturale di Carlo Magno. La creazione di una rete di scuole per l’educazione del clero e dell’élite di governo, guidate da maestri formati ad Aquisgrana. Il programma -che prevedeva l’acquisizione del latino- produsse un “ritorno” verso la regola latina. o La Rinascita carolingia segnò una forte discontinuità con il passato: il tessuto culturale si contrasse ai monasteri benedettini, e la qualità del latino scritto subì un marcato impoverimento. o I membri della Scuola palatina provenivano da regioni diverse. La Christianitas insulare fu determinante per la continuità altomedievale del latino, che per i monaci irlandesi era lingua estranea all’idioma celtico e accessibile solo con lo studio; la distanza fra scrittura e oralità permise di mantenere l’uso scritto a un livello di “correttezza” della norma che l’uso continentale non prevedeva. Inoltre i chierici attivi fuori della Romania affrontarono idiomi e culturale estranee alla Latinità, e modellarono la loro azione di conseguenza; a tale dinamismo si possono ricondurre: la precocità della messa per iscritto del volgare in area germanica; il fatto che le più antiche testimonianze dell’assorbimento negli schemi cristiani del patrimonio immaginale “etnico” provengono dalla testualità insultare altomedievale. o La scuola carolingia eredità dalla quella tardoanitica articolazione dei saperi, contenuti e pratiche intellettuali. I chierici carolingi applicarono alla cultura antica lo stesso atteggiamento ermeneutico elaborato dai chierici tardoantichi: la sua inquietante alterità religiosa venne depotenziata a dispositivo metaforizzante. o L’esito linguistico più rilevante fu il recupero di una forma classica di latino, adatta a ogni forma di testo; si creò uno strumento disponibile per utenti in potenza illimitati, perché indifferente alle variazioni nello spazio e nel tempo. 1.2.2 La rivoluzione volgare ebbe tempi e intensità diversi nelle aree della Romania, ma conobbe delle costanti socioculturali. Nella sua lunga diacronica possiamo riconoscere 3 fasi: • Le Origini: i primi (rari) testi scritti in volgare documentati, dal IX alla fine dell?XI secolo in area galloromanza, alla fine del XII nella penisola iberica e in Italia. • Dalla fine dell’XI secolo alla fine del Duecento (gli anni de Vita nuova e De vulgari eloquentia), la lirica d’arte italiana brillò nell’imitatio coi modelli occitanici, e il programma di traduzioni impostato da Alfonso X fece del castigliano una lingua adeguata per la prosa scientifica. • Da fine XIII al XV secolo si colgono le premesse di un cambiamento nei rapporti di forza fra letteratura francese e le altre letterature romanze, a vantaggio di quella italiana. Le costanti di cui s’è detto si distribuiscono sotto 4 voci principali: • PRECOCITA’ GALLOROMANZA. I volgari germanici conobbero la scrittura con un anticipo di oltre un secolo rispetto quelli romanzi: fra VII e VIII secolo si data, per esempio, il Beowulf. Alfredo il Grande promosse delle versioni dal latino che contribuirono a stabilizzare la scripta inglese. Entro gli anni Ottanta del IX secolo i chierici della Francia occidentale passarono alla composizione in volgare; entro il 1075 ca. (Chanson de Roland) si registrano 13 testi, quasi tutti monumenti (intenzionale schema formale) e non documenti(a pura funzione informativa), per la più parte di natura religiosa. In area italoromanza, solo l’indovinello veronese e l’iscrizione di Commodilla (oggetti modesti e ai margini di situazioni di latino), e i Placiti di area campana (960-963), prima attestazione sicura di un bilinguismo consapevole; fra 1075-1080 e la fine del Cento i testi italiani non sono più di una dozzina. Le ragioni materiali e culturali della precocità e della ricchezza dell’esperienza volgare in area galloromanza sono strettamente intrecciate. La Riforma carolingia agì in un contesto compatto, mentre il mondo iberico fu a lungo frammentato e isolato. Frammentata era pure l’Italia: il regno centrosettentrionale e, a sud della Toscana, i territori longobardi, i domini bizantini e la Sicilia; dall’XI secolo il Nord era comunale e il Sud normanno. L’intensità e la profondità della latinizzazione, una maggiore tenuta delle antiche forme istituzionali, la debolezza dell’elemento germanico rallentarono probabilmente il distacco della lingua parlata dall’uso scritto, le cui esperienze tradiscono, com’è noto, un mediocre orizzonte linguistico-culturale. 6 • EGEMONIA GALLOROMANZA. I primi testi letterari in Italia e nella penisola iberica sono del XII secolo: il castigliano Auto de los Reyes Magos, i Ritmi giullareschi. È una produzione gracile per quantità e per qualità degli esiti. Con le persone circolavano i testi. I trovatori e le loro liriche superarono immediatamente i confini galloromanzi, e si mossero fra le corti iberiche e italiane prima e dopo la Crociata albigese; fra Due e Quattrocento, nell’Italia centro-settentrionale e nella Napoli angioina le forme “lunghe” della narrativa furono francesi. Alcuni testi si pongono sul confine fra tradizione galloromanza e tradizioni locali. • TIPOLOGIA TESTUALE. La più parte dei testi delle “Origini” convive con testi in latino, negli spazi bianchi di codici di origine ecclesiastica. Il contenuto dei testi e il contesto comunicativo permettono di distinguerli in due classi. o Testi di natura performativa: pattuizioni, giuramenti di alleanza. La loro funzione è tradurre la volontà degli individui negli schemi della legge: si tratta di conformare il qui e ora di un’azione all’acronia della norma, scritta o orale/consuetudinaria. Fra tardo Antico e alto Medioevo permase attiva al tradizione giuridica romana, fondata sulla scrittura; uno dei passaggi decisivi dell’integrazione dei germani fu fra V e VI secondo l’assorbimento delle loro consuetudini nel sistema normativo latino, grazie alle Leges romano-barbariche. Per la sua autenticità ed efficacia la trascrizione dell’atto giuridico richiede il riconoscimento dell’individualità linguistica delle parti: chi non parla in latino non può giurare in latino; d’altra parte è necessario rispettare le forme fissate dalla tradizione giuridica. o I testi letterari hanno perlopiù contenuto religioso e/o edificante, e sono creazione di ecclesiastici; il loro modello di riferimento è spesso l’intreccio agiografico. I testi italiani nel XII-XIII secolo sono legati ai monasteri benedettini, e destinati all’istruzione degli illitterati. Da Montecassino viene il frammento del Ritmo cassinese (fine XII sec.). • LO STILE. I testi delle Origini presentano forme metriche diverse, ma sono tutti caratterizzati dal ruolo affidato al verso nella strutturazione della lingua poetica. Tutti i versi romanzi sono il frutto della traduzione di forme mediolatine utilizzate nella liturgia, generate dall’adattamento nel ritmo intensivo di metri quantitativi latini. I testi più antichi obbediscono alle stesse regole costruttive: assenza di enjambements nelle clausole, marcatura delle unità con la rima o l’assonanza. Si formò un codice che qualificò la lingua poetica pure dopo la fase delle Origini, almeno fino al XII secolo: frasi brevi (spesso coincidenti con il verso), modesta profondità ipotattica (solo subordinate di primo grado), un’andatura per giustapposizione di frasi che non evita talvolta l’anacoluto; ricorso a parallelismi (per ribadire o opporre) e a dittologie sinonimiche. 1.3 I testi volgari nello spazio 1.3.1.1 Lo spazio sociale: secondo Lefebvre 1974 ogni cultura ne produce uno proprio, nel quale si tengono coesi tre livelli di esperienza. • Lo spazio percepito (dalla sua pratica quotidiana, nei meccanismi di produzione economica e nelle regole che governano le relazioni fra i corpi). • Lo spazio concepito (dalla geografia, dalla cosmologia, ecc.). • Lo spazio vissuto (nelle rappresentazioni simboliche e immaginali). Lo spazio vissuto si ritrova nei testi: una letteratura costituisce la proiezione immaginaria dello spazio sociale. 1.3.1.2 Il quadro geopolitico. Fra il IX e l’XI secolo lo spazio delle “Origini” romanze fu sottoposto a un doppio movimento -ritrazione/conflitto con l’Islam. Fra il 711 (invasione iberica) e il secondo quarto del IX secolo gli eserciti islamici chiusero il Mediterraneo occidentale ai Latini; dopo il Mille, la reazione: fra 1022 e 1091 pisani e genovesi ripresero la Sardegna e la Corsica, nel 1099 cadde Gerusalemme. La frattura islamica ebbe conseguenze su più piani. • Il Mediterraneo cessò di essere il centro di uno spazio omogeneo, latinofono ed ellenizzato, e si trasformò in un confine tra un qui settentrionale legato al passato imperiale, e un altrove meridionale, estraneo e nemico; lo scontro tra Christanitas e Islam fu acuito dalla loro natura di monoteismi che traevano contenuti dialettici del Giudaismo, e segnato dalla inassimilabilità degli islamici, che si preoccuparono invece “di assimilare le scienze e le arti dei loro nemici sconfitti”: i loro testi funzionarono da collettore/trasmettitore del sapere ellenistico e delle tradizioni asiatiche indopersiane. • Per molti storici l’espansione islamica fu la cesura effettiva fra l’Antichità e una nuova entità, “Europa” (il campo carolingio); la teoria ha una falla nel fatto che in età carolingia e lungo il Medioevo “Europa” non fu mai un concetto forte, anche se è vero che in esso si identificavano tutti i paesi che si riconoscevano nella Chiesa di Roma. 7 Nella crisi religiosa successiva allo scisma d’Oriente (1054) precipitò una diffidenza culturale e morale nonostante la regolare intensità degli scambi di uomini e merci fra Mediterraneo e mar Nero; infine, la tensione divenne conflitto aperto negli anni 1204-1261, quando la quarta Crociata finì nella creazione di un Impero latino d’Oriente. • Per oltre cinque secoli la penisola iberica fu il prolungamento dell’Islam, incorporato nella sua rete culturale mediterranea. Ciò comportò l’egemonia assoluta della testualità in arabo su quella latina, ma al contempo trasformò al-Andalus in un terminale di accumulazione del sapere assimilato dagli arabi, che dopo la Reconquista fu messo in circolo in traduzioni dall’arabo al volgare. • La “rappresentazione letteraria dello spazio fisico”. Intorno al 1000, con la riapertura del Levante grazie alle Crociate, gli schemi rappresentativi sostituirono una geografia del desiderio, di aggressiva conquista dello spazio, alla precedente geografia della nostalgia ripiegata sull’antico spazio imperiale. 1.3.3 fra XII e XIII secolo la crescita demografica impose la creazione di nuovi villaggi, e quindi il disboscamento; fra 1236 e 1242 le campagne mongole nell’Europa slava provocarono uno choc cognitivo, e la presa d’atto che il mondo era molto più ampio di quanto si immaginasse. I testi letterari. • I protagonisti di epica e romanzo sono protesi verso l’altrove. In particolare nelle canzoni di gesta francesi l’opposizione “Christianitas vs Pagania” si rovescia in una topografia sempre più imprecisa e inverosimile via via che ci si allontana dal centro francese e ci si inoltre nell’altrove saraceno. • Il romanzo si rivolge verso l’ignoto piuttosto che scontrarsi con un Altro: il suo è uno spazio astratto e polarizzato fra il castello-centro e la foresta-desertum, che determina il moviemnto pendolare del cavaliere alla ricerca dell’aventure; da Bèroul ad Ariosto le “selve spaventose e scure” sono lo spazio mitico del caos. Nei romanzi in prosa del Duecento (Lancelot-Graal): la foresta si popolò pure di eremiti, frequentati dai cavalieri per riceverne istruzione e direzione morale. • I contesti umili e ristretti (la casa, il villaggio) fanno spesso da sfondo agli intrecci delle forme narrative brevi non cortesi (novelle). • L’Aldilà fu organizzato secondo una griglia spaziale funzionale a definire l’estensione e a permettere la descrizione del suo “paesaggio”. 1.3.4 Dobbiamo ai “moderni” Cimabue e Giotto le prime rappresentazioni dello spazio urbano, fra il 1280 e il 1292 ca. Testimoniano la consapevolezza delle città italiane a fine Duecento, fondata sulla buona salute economica e sull’ininterrotto prestigio pure nelle fasi più depresse dell’alto Medioevo. • La città-Stato si sviluppò all’esterno del potere sovrano, profittando della fragilità delle signorie rurali per imporre al contado il peso fiscale della sua soggezione e cercando legittimazione nel pactum commune fra cittadini, un patto fra pari e non, fra un inferiore e un superiore. Il contesto istituzionale fu motore e conseguenza di uno sviluppo economico cresciuto nella combinazione di attività manifatturiere (tessili), scambi commerciali e sviluppo finanziario. Ma Bonvesin è consapevole del conflitto fra nobili e borghesi, borghesi e contado. • La Chiesa seppe far fronte alla complessità del nuovo tessuto socioeconomico e culturale dei laici (portatore di richieste spirituali più articolate di quelle rurali): rafforzando la “religione civica (le feste religiose dedicate ai protettori della città e dei suoi quartieri), e sfruttando le competenze degli ordini mendicanti (i francescani, i domenicani) per rinvigorire la predicazione. • Le strutture politico-economiche favorirono lo sviluppo dell’alfabetizzazione, e la formazione di un ceto intellettuale estranei ai clerici. La scrittura si rivelò decisiva per le magistrature e l’amministrazione, per le attività dei corpi intermedi (corporazioni) e per la vita economica dei mercanti. Nuove forme letterarie (il fabliau e la novella) celebrarono i costumi e i valori della borghesia, e il mobile fascino della vita urbana. Il contrasto città-campagna è stato più forte nel Medioevo che nella maggior parte delle società e delle civiltà: da una parte l’ammirazione la ricchezza e la bellezza delle città (che alimenta un’attitudine predatoria); dall’altra la presa d’atto del contrasto fra castello e città (ma la storia culturale mostra che è la seconda ad adottare i valori del primo, non il contrario). 1.3.5 I luoghi, spiegano i geografi, non sono solo “estesi”: possiedono pure un’intensione, cioè un’individualità che deriva da qualità intrinseche stratificatasi nei processi naturali e nelle vicende umane. Vale la pensa domandarsi se e in che misura lo “stile” volgare si preoccupò di descrivere il paesaggio. I trattatisti medievali di ars poetica non dedicarono molta attenzione al tema: si mantennero sulla linea degli Antichi, che consideravano la descrizione come una figura ornamentale del discorso, non strettamente necessaria all’argomentazione o alla narrazione. La descrizione delle persone era privilegiata su quella degli oggetti e dello spazio. Allo scarso rilievo del
BOX1
L'embrayage nei testi in volgare
Sicie. (e) testi epici; (a) testi agiografici; (r) romanzi
in versi; (nb) narrazioni brevi; (tad) testi allegori-
co-didattici; (pn) prosa narrativa; (pa) prosa argo-
mentativa.
(1a) Allocuzioni iniziali / finali al pubblico
(e) Couronnement Louis, 1-5 — Oiez, seignor,
que Deus vos seit aidanz ! / Plaist vos oir d'u-
ne estoire vaillant, / Buene changon, corteise
et avenant? / Vilains joglere ne sai por quei
se vant, / Nul mot en die tresque on li co-
mant ('Udite signori, che Dio vi aiuti! / Vi pia-
ce ascoltare una storia di valore, / una buona
canzone, bella e cortese? / Non so perché si
vanti un vile giullare, / non dica una parola
finché non glielo si ordini.)
(e) Spagna, vi, 46, 1-6 - Signori, i' vo' finir questo
cantare / e gire a bere e rinfrescarmi alquan-
to:/e voi, se sète stanchi d'ascoltare, / potete
riposare un poco intanto; / e poi seguiterò al
mio tornare / la storia bella al settimo canto.
(e) Cid, 2276-2277 — jLas coplas d'este cantar
aquis van acabando, / el Criador vos vala
con todos los sos santos! ('Le strofe di que-
sto cantare giungono alla fine, / il Creatore vi
protegga con tutti i suoi santi!’)
(a) Gonzalo de Berceo, Milagros de Nuestra Sefio-
ra, prol., 1 - Amigos e vassallos de Dios omnipo-
tent, / si vos mes escuchéssedes por vuestro
consiment, / querriavos contar un buen ave-
niment: / terrédeslo en cabo por bueno vera-
ment. (‘Amici e vassalli di Dio onnipotente, / se
voi mi ascoltaste per vostro consenso, / vorrei
raccontarvi una buona storia: / alla fine la consi-
dererete veramente buona!)
(a) Alfonso X, Cantigas de santa Maria, 59, 3-8 —
E daquesto un gran feito / dun miragre vos
(nb)
direi / que fez mui fremos' afeito / a madre
do alto rey / per com'eu escrit'achey, / se me
quiserdes oir. (‘E su questo vi dirò / il gran
fatto d'un miracolo / che bellissimo fece / la
madre dell'alto re / come l'ho trovato scritto,
/ se vorrete ascoltarmi.)
Marie de France, Lai du chievrefoil, 1-7, 117-
118 — Asez me plest et bien le voil, / del lai
qu'hum nume Chievrefoil, / que la verité vus
en cunt / pur quei fu fez, cument e dunt. /
Plusur le m'unt cunté e dit / e jeo l'ai trové en
escrit / de Tristram e de la reine, / ... / Dit vus
en ai la verité / de lai que j'ai ici cunté. (Mi
piace molto e voglio / raccontarvi la verità /
sul lai ch'è chiamato Caprifoglio, / perché fu
fatto, come e dove. / Molti mi hanno raccon-
tato e detto / e io l'ho trovato nella scrittura
/ su Tristano e la regina / ... / Vi ho detto la
verità / sul lai che ho qui raccontato.)
(tad) Juan Ruiz, Libro de buen amor, prol., 14-15 —
Si queredes, seniores, oîr un buen solaz, /
ascuchat el romange, sosegadvos en paz; /
non vos diré mentira en quanto en él yaz, /
ca por todo el mundo se usa e se faz. / E por-
que mijor sea de todos ascuchado, / fablar-
vos he por trobas e por cuento rimado: / es
un dezir fermoso e saber sin pecado, / razòn
ms plagentera, fablar màs apostado. (‘Signo-
ri, se volete ascoltare qualcosa di piacevole, /
ascoltate il testo in volgare, e state tranquilli;
/ non vi dirò bugie per quanto c'è in esso, /
perché in tutto il mondo si usa e si fa così. // E
perché sia meglio ascoltato da tutti, / vi par-
lerò in versi e in rima: / è un dire elegante, e
un sapere senza macchie, / un contenuto più
piacevole, un parlare più adeguato)
10
11 2.2 Giullari 2.2.1 nel gioco della comunicazione il giullare ebbe un ruolo decisivo. Il nome deriva dal lat. Iocularis “scherzoso”, riconducibile a iocari “giocare”, il cui significato in età tardoantica si sovrappose a ludere “recitare”. I giullari erano, ovunque, portatori della festa e del “carnevalesco”, signori dell’intrattenimento circense e affabulatori di molte virtù: musici, dicitori, giocolieri, danzatori, acrobati, pratici di animali ammaestrati e di marionette. Il loro nomadismo era percepito come instabilità materiale e morale: il vagabondaggio giullaresco fu condannato da infinite fonti clericali, insieme all’elenco dei vizi: il carattere inutile della loro attività e la natura turpis/vergognosa del suo contenuto, evidente nell’uso improprio del corpo e della parola. Ma, almeno dopo la metà del XII secolo, i giullari non erano illitterati: molti erano usciti dalle scuole urbane. A corte erano accolti come litterati: contribuivano alle necessità amministrative e all’intrattenimento del signore. Dal XIII secolo molti 12 giullari si sistemarono nelle corti, per lo più come musici; nel giro di un secolo il fr. menestrel “menestrello” (<lat. Minister “servitore”) si impose come sinonimo di “giullare”: l’ars del musico di corte, la più apprezzata, offriva opportunità migliori dell’erranza. Pure in città il giullare poteva scegliere fra stanzialità e vagabondaggio. Nel 1175 ca. fu fondata ad Arras la Carité “Carità”, confraternita che forniva assistenza ai soci, giullari e borghesi; un caso importante di integrazione dei giullari in un corpo sociale “Intermedio”. La “riorganizzazione” giullaresca contribuì a modificare il giudizio dei chierici. I francescani impararono dai giullari che pure la predicazione può essere una performance, e instaurarono con loro un rapporto di imitazione/concorrenza. 2.2.2 Le fonti letterarie volgari inchiodano il giullare all’inferiorità: che sia un ladro del lavoro altrui o lo deformi in maldestre esecuzioni è un tòpos. Fra Otto e Novecento si è invece ipotizzata l’esistenza di una “letteratura giullaresca”, prodotta nell’improvvisazione. La discussione si è concentrata su alcuni fatti. • La mouvance: è la varianza testuale, endemica nelle opere a tradizione pluritestimoniale, più evidente nei testi epici e nei fabliaux francesi, che da copia a copia possono presentare marcate differenze di dimensioni e di intreccio. • Lo stile epico: un carattere specifico dei testi narrativi in versi francesi e castigliani è il ricorso alle “formule” più antiche “tradizioni orali” euroasiatiche, prova di una continuità stilistica fra queste e la performance giullaresca. • L’anisosillabismo: la poesia colta rivendicò sempre a sé -contro i giullari- la competenza nell’uso di versi e rime, e per Menéndez Pidal 1959 l’anisosillabismo era segno di uno stile arcaico, anteriore alla regolarità metrica (innovazione galloromanza). Di fatto, in molti casi il fenomeno è legato ai fatti di copia: in area anglonormanna e padana va ricondotto alla competenza linguistica del copista (mai francofono). I casi di effettivo anisosillabismo non sono molti, ma rappresentano un’irregolarità legata all’esecuzione vocale dei testi, perché compensabile nella recitazione cantilenante. 2.3 La tradizione orale e i testi 2.3.1.1 È complesso il discorso di prodotti/trasmessi da bocca a orecchio, la cui verità si basa su quelli trasmessi dalle generazioni precedenti. Nello spazio europeo la “tradizione orale” coincide da metà XIX secolo con il “folklore”: il termine designa… • Una produzione anonima dotata di storicità indefinita ma antica, raccolta spesso informatori analfabeti. • Gli elementi culturali depositati nei testi: riti, credenze, ecc.; la comparazione dei fatti folklorici ha spesso suggerito l’ipotesi di continuità culturali che si perdono nel tempo proto/preistorico. 2.3.1.2 Quanto sappiamo della “tradizione orale” dipende dalla scrittura dei chierici, e dal filtro della loro diffidenza per ciò che si dice tra il popol(in)o. Alla fine del IV secolo il Cristianesimo vittorioso portò alla diffusione della Rivelazione. La missione comportò uno scontro con il paganesimo. Agostino definì le religioni precristiane superstitiones, “ciò che sopravvive” alla frattura imposta dalla Rivelazione, ne rimarcò la falsità demoniaca. Da qui una pastorale organizzata su due linee, indicate da Gregorio Magno: consacrare in chiese i templi pagani senza distruggerli; stroncare i riti e i culti magici. Ma risultati durevoli richiedevano duttili compromessi, come accadde con la “sistemazione” della relazione coi defunti; i culti precristiani degli antenati furono depotenziati: dopo il Mille si stabilì la festa dei morti; si enfatizzò l’importanza dei corpi dei santi, “trasferendo” su di loro i culti attribuiti ai corpi degli antenati. Lo stesso sforzo fu dedicato alla cristianizzazione del tempo, assorbendo nell’anno liturgico le feste precristiane: il Natale coincise con il solstizio d’inverno, la Pasqua con l’equinozio di primavera, ecc. 2.3.1.3 Gli elementi della “tradizione orale” precristiana si rintracciano nella comparazione fra testi scritti: le testimonianze mediolatine e volgari, e quelle non cristiane del “folklore” moderno e della cultura agrafe. La loro “sopravvivenza” nel latino dei chierici è legata a due processi: la manipolazione in uno schema cristiano che li investe di un nuovo senso; la condanna ella loro alterità/resistenza all’assimilazione. I testi si dispongono principalmente intorno al Mille, durante l’evangelizzazione delle gentes settentrionali, e fra XII e XIII secolo, quando i chierici fecero i conti con le superstitiones rurali. A metà XII secolo la “tradizione orale” celtica emerse nell’Inghilterra francofona e fornì alla scrittura in volgare lo scheletro immaginale. Qualche caso: • La Navigatio sancti Brendani è il referto in prosa (di un monaco irlandese, fine VIII sec.) del viaggio per mare alla ricerca della “Terra promessa dei Santi”. Il quadro semantico della Navigatio è chiaramente agganciato al modello eremitico; altrettanto forte è la componente celtica, anteriore all’educazione religiosa dei monaci. L’intreccio riconduce la Navigatio agli immrama (navigazioni) anticoirlandesi; la mèta è l’Aldilà: la sua 15 • Molte delle chansons de femme francesi sono attestate come “citazioni” in romanzi in versi: il Guillaume de Dole di Jean Renart. Anch’esse hanno struttura e ritornello e contenuto lirico-narrativo; la strofa decasyllabes monorimi, ha caratteri arcaici. Questa morfologia ha dato un corpo a un “fantasma” che si aggira nelle fonti altomedievali: delle “canzoni” (cantilenae) eseguite da donne, legate al ballo in contesti festivi (Jeanroy 1889). Da qui l’ipotesi filogenetica di una tradizione illitterata anteriore alla Kunstpoesie, rafforzata dai dati raccolti dal seminista Samuel Stern (1943). In 80 testi circa la clausola, la kharja, ha voce femminile ed è redatta in mozarabo: ne viene una dissonanza linguistica (il mozarabo al posto dell’arabo classico o dell’ebraico delle stanze) e semantica (data dalla voce). Le kharjat più antiche (1040 ca.) sono anteriori alla prima generazione trobadorica; pare più probabile che siano citazione di testi volgari antecedenti, anziché creazione dei poeti arabi. 2.3.2.2 L’ipotesi di un’arcaica filogenesi “tradizionale” sconta alcune obiezioni. • L’apparente continuità fra le cantilene e i testi conservati permette ai “tradizionalisti” di predatare i secondi; ma non ci sono certezze sulla forma delle cantilenae e si può ipotizzare un “salto di specie” fra le une e gli altri, sicché la datazione di quelle non serve per datare questi. • La continuità tra kharjat e liriche iberiche è meno sicura di quanto sembri. È improbabile che le kharjat superassero il confine di al-Andalus e degli alfabeti semitici; le più antiche cantigas de amigo non mostrano l’influenza delle kharijat, sono prodotti sofisticati e affini ai modi trobadorici delle cantigas d’amor; a loro volta le occorrenze volgari della strofa zagialesca dipendono più dalle varianti mediolatine che dalla tradizione araba. • Le cantigas de amigo sono il prodotto di un milieu colto, come gli innesti delle kharjat, e delle chansons de femme: mostrano la raffinata rielaborazione di materiali non solo precortesi ma di radice “folklorica”, e un gusto per le forme percepite come popolari o arcaiche. Sono materiali esistenti nella memoria collettiva, e riattivati dall’azione individuale del poeta, che non è né popolare né riconducibile alla “tradizione orale”; che siano la “sopravvivenza” di una “tradizione orale” più articolata è un’ipotesti ragionevole, ma non possiamo andare oltre. Si può invece insistere sul fatto che la poesia medievale è innervata di formule e motivi tradizionali e, come altre forme artistiche, privilegiava l’ars sull’ingenium individuale; la distinzione fra Kunst e Naturpoesie è moderna, come è moderna l’opposizione fra “sperimentale/individuale” e “convenzionale/tradizionale” per distinguere i prodotti per un’elite colta da quelli popolari: l’elite e il vulgus medievali godevano spesso degli stessi testi e in situazioni comunicative simili, e gli autori ricorrevano a materiali per noi tradizionali. 2.4 Le canzoni di gesta e la “tradizione orale” 2.4.1 Le canzoni di gesta sono la forma più diffusa di tradizione orale, dal XII a.C. al secolo scorso: una produzione multiforme, con alcuni caratteri comuni. • La relazione “esecutore (EGO)-destinatario (vos)’ è incorporata nel testo, nel presente della performance; non prevede una distanza ironica ma da voca e un NOS, una comunità. • La relazione è funzionale alla condivisione del passato comune, oggetto dell’elocuzione (<lat. Gesta, “le azioni passate): esso si configura come conflitto fra NOT e l’ALTRO, in cui i valori identitari di NOS sono depositati in un destino guerriero. • Il racconto del passato si compone di intrecci noti a esecutori e destinatari: il loro contenuto è riproposto senza modificazioni in ogni performance, variandone la forma; NOS e gli eroi condividono la stessa rappresentazione dei fatti: la “verità” dell’intreccio coincide con tale condivisione (è l’oggettività epica”). • La funzione della performance è confermare l’identità di gruppo: riattivando la memoria del passato comune, offrendo giudizi di valore e modelli da imitare. • La relazione con il passato è ambivalente: il discorso epico riferisce di fatti dotati di storicità e fissati in una geografia riconoscibile, ma li rielabora in schemi formali e ideologici contemporanei alla performance. La filologia positivista ha spesso enfatizzato il valore documentario dei testi, ma la distorsione dei fatti fa parte della varietà epica. • La variazione nella performance dipende dagli schemi narrativi e verbali prefabbricati e ripetibili a disposizione dell’esecutore; il rapporto fra tali schemi e la performance è di tipo causale: per conservare/trasmettere i contenuti è necessario pensare in moduli mnemonici creati apposta per un pronto recupero orale. • I testi hanno lunghezza e complessità d’intreccio variabili. Quelli brevi -i romances o le byline ruse- offrono singoli episodi, narrati per ellissi e allusioni a un contesto più ampio (e noto); i lunghi oscillano fra i 3700 versi e gli oltre 70000. Nel Novecento alcuni testi sono stati trascritti dalla voce di cantori professionisti. 16 2.4.2 Una canzone di gesta? L’unità minima è la lassa: composta da un numero variabile di versi, governati dall’assonanza (dal Duecento, dalla rima), a cui corrisponde la melodia che sorregge la performance. In area galloromanza il verso più usato è il decasyllabe, ma sono attestati pure l’octosyllabe e, dal XII secolo, l’alessandrino. Le dimensioni della lassa dipendono dallo sviluppo tematico: ogni unità formale tende a essere unità narrativa che sviluppa un solo elemento, azione o discorso (ciò è più evidente nelle chansons antiche, con lasse tendenti alla brevità, che nelle due-trecentesche; nel Cid la corrispondenza fra unità narrativa e metrica è più debole). Le lasse sono governate dalla paratassi: ogni verso contiene una frase, giustapposta alla seguente (talvolta un verso contiene 2 frasi coordinate, una per emistichio); l’ipotassi è rarissima, e di primo grado; non sono i presenti enjambements. La narrazione è debolmente focalizzata (i personaggi sono privi di spessore psicologico, la descrizione è limitata al minimo); l’intreccio si muove a scatti; gli episodi si dilatano in scene unite da transizioni contratte fino all’ellissi. D’altra parte, la lassa vive della tensione fra linearità (l’intreccio) e iterazione (l’assonanza/rima e gli effetti della ripetizione correlati alla performance cantata); tipico è l’utilizzo di serie di lasse similari in cui un’unità tematica/azione è ripetuta in più lasse e da più punti di vista, producendo un’intensificazione del pathos. Gli intrecci epici sono strutture semplici, basate su poche situazioni riconducibili all’elite guerriera: procedono per motivi che ripetono sequenze di azioni prestabilite: p.es. l’attacco a cavallo prevede la serie: • Spronare il cavallo • Brandire la lancia • Colpire • Spezzare lo scudo dell’avversario • Romperne l’usbergo o la corazza • Trapassarlo/scalfirlo/mancarlo • Abbatterlo da cavallo La struttura del verso ne determina la fisionomia: il decasyllabe prevede formule di primo /4-5 sillabe) e di secondo emistichio (6-7); si applicano a situazioni simili: narrative, descrittive, commemorative. Le formule sono considerate costitutive della tradizione orale, ma sono presenti pure nei testi agiografici e nei primi romanzi in octosyllabe, nati nella scrittura. 2.4.3.1 Chansons e cantares vivono della tensione fra la temporalità dei fatti narrati e quella dei stesti storicamente dati. I fatti del Roland (Normandia, ante 1095) sono noti da fonti arabe e carolinge. La costruzione dei fatti nel Roland, e in generale nelle chansons, dipende dallo stratificarsi nel tempo di elementi narrativi intorno a un nucleo antico, e dall’uso del cronotopo carolingio come luogo dell’autorappresentazione guerriera: sullo sfondo si riconosce un paesaggio simbolico modellato dalla relazione di fides fra signore e vassalli e dagli esiti dell’anarchia feudale (Francia X-XI sec.). Le chansons danno una rappresentazione olistica dell’elite guerriera, cristallizzata nei valori: la fedeltà (al signore e ai compagni), la forza fisica e il coraggio in battaglia… Come macrosegni, le chansons si articolano in un Significato (i materiali di storicità propria) e in un Significante (la forma epica); e dato che Significante e Significato ebbero tempi e modi di sviluppo diversi, la questione è quando si verificò la loro sincronizzazione: se in una fase di dominante tradizione orale o in una segnata dall’uso della scrittura. 2.4.3.2 Le soluzioni proposte in quasi due secoli di discussioni sono in sostanza due: • Per i tradizionalisti i testi esistenti furono preceduti da una tradizione orale in continuità con la cultura di visigoti (in Iberia), e di franchi e burgundi (in Gallia). • Gli individualisti (Bédier) negano o l’essenza della protostoria delle chansons o la sua rilevanza per la ricostruzione della storia del genere, datano i poemi nei dintorni della confezione dei codici, e si concentrano sulla relazione ideologica con l’invenzione del passato. 1. La poesia eroica germanica: le fonti latine e greco-bizantine attestano una tradizione orale di canti guerrieri germanici: sono dedicati al mito delle origini etniche o alla biografia di guerrieri, celebrano valori tribali. Ci sono poi i testi: fra gli altri il Beowulf anglosassoni (VIII sec.). gli intrecci insistono per lo più sui fatti fra l’ingresso degli ostrogoti nell’impero (375) e la morte di Alboino (572); i testi sono brevi (200 versi ca.), usano versi lunghi cesurati (anisosillabici, su quattro accenti e allitterati) e kenningar (SG.: perifrasi formulari): esiti di una tradizione orale initerotta fino alla trascrizione del ibelungenlied (XIII secolo). I contatti con la scrittura latina si riconoscono sia negli atti di copia (lo Hildebrandslied uscì da Fulda, 830 ca.) sia in quelli creativi: l’intreccio del Waltharius ha elementi comuni con il Nibelngenlied, e trova un’eco nelle chansons. Sono elementi enfatizzati dai “neotradizionalisti”. Rajna insisteva sul valore modellizzante del discorso epico per l’elite franca, e tendeva a riconoscere nell’elemento guerriero della storiografia latina altomedievale trace di poemi perduti. 17 2. La tradizione romanza: nella vita di san Farone Ildegario di Meaux (m.875) si narra che dopo la vittoria di Clotario II (m. 629) contro i Sassoni, un coro danzante di donne intonò un canto pubblico prossimo al volgare: Gaston Paris lo utilizzò, con altre fonti latine sulle cantilenae popolari, per spiegare la storia del Roland in termini simili a quelli di Wolf: fra VIII e X secolo si registra la creazione di brevi testi lirico-narrativi, le cantilenae; fra X e XI secolo i giullari le rifusero in testi epici più ampi. 3. Le canzoni e il sacro: l’intreccio fra valori guerrieri e il Sacro è frequente; le chansons svalorizzano la vita religiosa e guardano alla ricchezza ecclesiastica come possibile bottino; ma il Sacro informa struttura degli intrecci: l’esercizio della violenza è modellato in direzione religiosa (Orlando), o è abbandonato per la monacazione (Guglielmo d’Orange); i corpi dei guerrieri sono oggetto di devozioni. Clerici sono gli autori delle fonti scritte allegate dalle chansons. Bédier sostenne che le chansons conservatesi sono creazioni moderne (XI sec.), scritte e individuali, nate dalla collaborazione fra chierici e giullari per dare forma a tradizioni rielaborate presso i monasteri lungo le vie di pellegrinaggio dalla Francia al Camino di Santiago, a Roma e Gerusalemme, e promuovere così i luoghi sacri e le loro reliquie. 4. Forma e tradizione testuale: dopo Bédier il dibattito si è concentrato su questioni formali, di nuovo a partire dalla tradizione omerica. Rychner 1955 ricondusse alla creatività combinatoria dei giullari sia lo stile romanico dell’agiografia arcaica e delle chansons sia la variabilità riconoscibile nelle singole copie di una stessa chansons (che sarebbero registrazioni scritte di singole performances). Le obiezioni più articolate vengono da Segre 1974: la continuità retorica fra testi agiografici e testi epici è l’esito dell’imitazione da parte di chi componeva le chansons, e che la mouvance nella storia della tradizione del Roland è inscritta nelle pratiche della copia. 2.4.3.3 In assenza di nuove ipotesi, alcune osservazioni: • Il tradizionalismo ha un limite di metodo: le prove a favore possono essere cercate solo nei documenti, cioè nella scrittura. Dimostrare la persistenza nella lunga durata di oggetti culturali tradizionali si scontra con l’impossibilità di dire alcunché su quelli non documentati; ciò vale pure per la competenza attiva dei giullari: ciò che sappiamo si basa in larghissima parte sull’analogia con i cantastorie moderni. • La tecnica formulare dipende dalla struttura del verso: l’etimo di decasyllabe, ecc., è in metri latini e non germanici: ammesso che le formule siano lo stigma della creatività orale dei giullari (ma si ritrovano pure nelle forme narrative di sicura composizione scritta), la loro matrice è colta e non popolare. • I temi e gli intrecci sono una cosa, la forma un’altra. Le chansons francesi hanno caratteri formali così regolari che pensarle come esito di un’intenzionale manipolazione di materiali leggendari con una tecnica innovativa è più semplice che immaginare una creatività tradizionale. Nella forma delle chansons attestata nei codici si riconosce l’esito dell’egemonia della scrittura sul regime vocale in cui esse circolavano, e nel quale si costituì probabilmente la tradizione orale dei materiali narrativi. In tale contesto la formula funziona come dispositivo modulare per la trasmissione orale di un contenuto e per la composizione scritta di un testo, forse per la sua capacità di dare espressione verbale univoca a contenuti extraverbali. 2.5.1 Il Roland fu copiato da un monaco inglese, a metà del XII secolo nel codice O; la sua materia ha precedenti nella cantilena Rollandi e nella Nota emilianensis. Al centro del Roland sta il conflitto fra Christianitas e Islam, mondi speculari: i saraceni adorano una Trinità di idoli (le statue di Maometto, Apollo e Tervagante), trattata come i cristiani trattano i santi. Il Sacro pervade il testo nei dettagli: dei Pari, 12 come gli apostoli, Gano è il traditore, come Giuda, per odio verso Orlando e per denaro. I segni sacri si infittiscono nell’episodio della morte di Orlando: preannunciata dai prodigi in Francia, gli stessi della Passione. Ma l’intreccio è pure innervato delle tensioni che attraversano il corpo dell’elite. È un corpo maschile articolato in gruppi dagli opposti interessi. le tensioni precipitano nello scontro fra Orlando e Gano. Sono due tipi feudali: Gano (che insiste per la pace) è un casatus poco disponibile a rischiare le terre per la guerra a oltranza; Orlando (che vuole la guerra) è uno iuvenis, guerriero non sposato e senza feudo che dalle armi ricava la sua ricchezza; in mezzo sta Carlo, che permette a Orlando di imporre Gano per la missione. Gano cerca contro Orlando (che secondo lui punta alle sue terre) la faida, senza rivolgersi alla giustizia di Carlo (la cui terzietà gli appare dubbia): rivendica la legittimità della vendetta di fronte al giudizio voluto da Carlo; assolto, è condannato come traditore da un duello giudiziario. Lo scontro fra Gano e Orlando è il motore di una vicenda dall’esito prestabilito; la sua inevitabilità è ribadita dalle dichiarazioni e dai gesti di Gano, dai sogni profetici di Carlo, dalle prolessi del narratore. I fatti sono già nella memoria dei destinatari, e per questo carichi di una fatalità che supplisce alla mancanza di profondità dei personaggi. Di fronte alla superiorità numerica dei saraceni Orlando rifiuta l’invito di Olivieri a suonare il corno per richiamare Carlo; quando lo fa è troppo tardi, Orlando è prode ed Olivieri è saggio. 20 Guglielmo gli resta fedele pure quando Luigi gli offre il feudo di un minore: Guillaume rifiuta e cerca la sistemazione di casatus nell’Altrove saraceno. 2.5.4.4 Nel Raoul de Cambrai la prima mossa, causa del conflitto, è del signore: l’intervento in una faida; errori nella distribuzione dei feudi. L’intreccio si sviluppa in un crescendo di violenza. In generale, le chansons sono una sorta di “doppio” rappresentativo delle tensioni attive dei fatti. Quelle della fides furono elaborate in momenti di rande deboleza della monarchia; il loro antimodello si fece più frequente nel XIII secolo, quando Filippo Augusto e i suoi successori si impegnarono in una robusta riduzione dell’autopsia feudale. 2.5.5 Il corpus epico occitanico si compone di pochi testi fra XII e metà XIII secolo – a fronte dell’egemonia della lirica trobadorica, nello stesso periodo al suo massimo sviluppo; è preceduto dalle attestazioni arcaiche della lassa nel Boeci e nella Sancta Fides. Sono testi redatti spesso in una scripta occitano-pittavina (per molti un artificio per darsi un tono francese), che… • Sviluppano intrecci settentrionali in circolazione fra Midi e Settentrionale iberico. Prendiamo per esempio il Daurel e Beton, che combina temi germanici e leggende sui conflitti fra i conti/duchi d’Aquitania e i Carolingi; spicca il giullare Duarel, educatore di Beton (fuggiasco e destinato a vendicare il lignaggio): l’episodio celebra la superiorità delle nature aristocratica sulla norreture (l’educazione), e offre il destro a una sorta di ensenhamen. • Si concentrano su tradizioni locali. 21 Pensiamo al Girart de Rossilho, la leggenda di un ribelle dai modi eteronimi, costruita sul conte di Vienne (877). Il cuore della canso è l’intreccio di fides e amore: Girart è vittima del desiderio di Carlo Martello per Elissent, ma la violenza lo fa colpevole. • Su fatti recenti. Come la Canso de la Crozada – resoconto della Crociata albigese, fino al 1218 – riprende lo schema metrico della Canso d’Antiocha. Spesso il materiale epico è mescolato con elementi romanzeschi e didattici. 2. I cantores iberoromanzi 2.6.1 Le prime tracce parlano di un’egemonia francese: in Castiglia, la precoce circolazione dei gesta di Orlando è attestata dalla Nota emilianensis e nella Cronica de La polblacion de Avila da una “canzoncina” per danza femminile, che celebra non Roldan e Olivero ma Corraquin Sancho, eroe della reconquista della città (1158). Quattro i testi, castigliani: il Cantar de Mio Cid e le Mocedades de Rodrigo, il Roncesvalles (frammento), il Libro de Fernan Gonzales, tutti in codice unico -5000 versi in tutto. Le tradizioni manoscritte iberiche sono modeste (con perdite certe di copie): molti i testi in copia unica o affidati a 2 relatori. Le concause sono molteplici: la modestia degli atelier, la scarsa circolazione dei testi; la prosificazione dei cantares. Menendez Pidal rintracciò nelle cronache in castigliano dei cantares perduti, parafrasati in prosa; il loro regesto fu arricchito da fonti indirette: • Le cronache latine presentano temi riconducibili a tradizioni intermedie fra le leggende visigotiche e i cantares. • Fra i romances (testi brevi lirico-narrativi, monorimi/monoassonanzati, che alludono a vicende condivise dalla memoria collettiva, in copie del XV sec.) il più antico materia epica, Rey don Sancho, rey don Sancho, è del 1465/1470; per Menendez Pidal i romances epici apparvero molto prima (1270 ca.), estratti dai cantares: ma nessun documento sorregge l’ipotesi, e i parallelismi fra romances e cantares sono rari. L’infoltimento dei cantares permette una ricostruzione “neotradizionalista” su due pilastri: • Le prime attestazioni sono retrodatate all’XI secolo, con l’effetto di trasformare il Cid nell’episodio più maturo del genere. • I pochi testi conservati sarebbero parte di cicli: il Roncesvalles è prova di una più ricca serie di cantares carolingi. Sono argomenti accreditati fra gli studiosi iberici, ma c’è chi pensa che l’epica castigliana inizi nel 1207. Più semplice pare fissare il termine finale: non abbiamo notizie di cantares dopo le Mocedades (fine Duecento), anche se quelli esistenti circolarono fino a tutto il Quattrocento. 2.6.2 Il Cid conta oltre 3700 versi in 3 cantares; datazione e attribuzione si concentrano sul “Per Abbat” e sul “1207” indicati nel verso 3732: copista dell’antigrafo del codice madrileno che lo conserva, o autore del poema. Il Cid (> ar. Sidi “mio signore”) è Rodrigo Diaz di Bivar: il piccolo aristocratico protagonista, dopo la presa di Toledo (1085), dell’espansione castigliana fino a Valencia, a danno dei piccoli regni islamici); su di lui si costituì una leggenda alimentata da chierici e veterani. Il Cantar narra i fatti fra “esilio” e la presa di Valencia, con una certa “fedeltà” (individui storicamente definiti, precisa coreografia dello spazio fra Bivar e la costa catalana), e con qualche libertà: la biografia del Cid è semplificata, e il nesso “matrimonio delle figlie” – processo è inventato. Il cronotopo è calettato nello schema delle “fiabe di magia”, con un doppio movimento perdita > prova > recupero (in climax: la seconda perdita è maggiore della prima, così il recupero). L’oggetto perduto e recuperato è, secondo tradizione, l’onore (con la ricchezza): • Il Cid lo perde nel destierro, e sul campo lo riacquista; • Gli infanti lo insultano con l’affronto alle figlie, ma il processo e il loro nuovo matrimonio riportano l’ordine. Non c’è corrispondenza fra struttura dell’intreccio e cantares: la loro lunghezza (1000/1200 versi) pare dipendere dalla durata di una performance. La vicenda si snoda in una sociosfera articolata: il re, i ricos omnes (gli infanti, di alta nobiltà), gli infanzones, i cavalieri, il popolo; all’esterno, gli stranieri. La tensione fra interessi antagonisti è interpretata in termini morali: il Cid è inferiore agli infanti per rango, superiore per virtù e coraggio; ma è notevole l’importanza attribuita al denaro (che nelle chansons è cosa per non aristocratici): esiliato e privo di risorse, il Cid cerca la ricchezza liquida per la sua masnada (da qui la truffa ai prestatori ebrei); col bottino paga i suoi, attrae nuovi guerrieri, ammorbidisce l’ira del re; la conquista di Valencia lo fa ricco, e ingolosisce gli infanti, convincendoli a nozze, a suo onore e a nostro vantaggio (1888). Il Cid ricorda Guglielmo: entrambi risolvono il conflitto con il sovrano mettendosi alla prova nell’Altrove; ma lo schema acquista nella realtà castigliana un valore specifico. Il regno, nato negli anni 1020, trovò nella Reconquista un motore socio-economico e un mito fondatore: nel conflitto sulla frontera con al-Andalus il re rafforzava il suo potere, attraendo i nobili a cui prometteva terre e signorie, garantiva ricchezza a guerrieri e contadini, e ai chierici il trionfo della Christianitas. Da qui la soluzione del Cid, non prevista dalle chansons. Qualunque sia la colpa di Diaz (il testo, acefalo, la tace), solo la sua fides rende 22 possibile il riavvicinamento con il re, a Valencia, lontano dalla Castiglia; nel secondo movimento il suo rientro si fa effettuale: a Toledo egli mette nelle mani del re l’azione giudiziaria, rinunciando alla faida. L’ascesa dell’infanzon è marcata dalle doppie nozze ipergamiche delle figlie, che non sono solo lo sviluppo di un tema tradizionale: il Cid ha per le donne un’attenzione che lo caratterizza rispetto alle chansons (in cui lo spazio femminile cresce via via che, nel XIII secolo, esse si contaminano con il romanzo); essa contribuisce alla qualificazione del personaggio: forte e saggio (qualità che le chansons distribuiscono spesso fra più personaggi), misurato e riflessivo, oratore capace, attento all’uso della violenza come puro mezzo per il guadagno. 2.6.3 Il Libro de Fernan Gonzales (1251/1258), biografia leggendaria del primo conte di Castiglia autonomo dal regno di Leon, rielabora in un cantar perduto; il racconto segue uno schema ascendente di tipo folklorico, punteggiato di motivi di tradizione orale (un’educazione umile, la profezia di un eremita sul suo grande destino). Mocedades de Rodrigo è titolo moderno a un poemetto frammentario (1350/1360), forse rielaborazione di un cantar perduto, sulla giovinezza del Cid, in cui la celebrazione delle enfances procede il regno dalle pretese francesi, dell’imperatore e del papa: invade la Francia; si coglie una malcelata insofferenza per l’egemonia francese. 2.7 Un’epica di seconda mano (Italia, XIII-XV secolo) 2.7.1 Non esiste in Italia un’epica locale: l’impatto germanico sulla cultura altomedievale fu modesto, come la presenza del feudalesimo; in compenso, le leggende francesi penetrarono precocemente nella testualità ni volgare: nel Ritmo 25 Capitolo 3 Litterati e illitterati (Il sapere religioso e il volgare) 3.1 Com’è un testo religioso nel Medioevo volgare 3.1.1 Nelle biblioteche medievali i libri religiosi erano ben più numerosi di quelli profani, e venivano letti da ecclesiastici e da laici. La vita dei medievali era imbevuta di Sacro, e nell’agire quotidiano le sue ragioni si intrecciavano di continuo a quelle profane. Si capisce dunque l’importanza dei testi religiosi per lo studio delle “mentalità”; ma essi sono pure rilevanti sul piano letterario, caratterizzato da alcuni tratti socioculturali specifici. • Gli autori sono uomini di Chiesa, formati alla scrittura nelle sue scuole. • Nei testi il piano semantico è preminente su quello formale. • I testi sono mediatori fra il Libro (la Bibbia) e i suoi destinatari; sono per lo più traduzioni. • La ricezione dei testi in volgare nutriva delle comunità testuali: gruppi orientati nell’esperienza della fede da un litteratus capace di trasformare la competenza testuale in prassi religiosa. • La produzione dei testi è una scientia (un sapere) concepita non per la speculazione ma per l’operare, per allontanare quelli che vivono questa vita dallo stato di miseria e condurli a uno stato di felicità. Essi indicano i valori e le azioni necessarie a perseguirli, selezionando le tecniche di persuasione più adatte alla circostanza; da qui l’adozione di stili e forme “alla moda” presso i laici ma l’accusata esibizione di un’attitudine polemica contro di loro. 3.1.2.1 Il chierico è un litteratus, che ha studiato e che per questo può succedere a una carriera ecclesiastica. Dopo il Mille il sistema d’istruzione si sviluppò in relazione coi dinamismi espansivi della società europea; alle grandi scuole monastiche si affiancarono le scuole di cattedrale nelle sedi episcopali, da cui si svilupparono, fra metà del XII secolo e il pieno XIII, le universitates, istituzioni nate dall’associazione di studenti o professori, riconosciute dalla concessione papale (l’abilitazione all’insegnamento). Il programma di studi perfezionò i meccanismi scolastici altomedievali ereditati dal mondo antico. Base dello studio era la ruminatio, la lettura lenta degli auctores, selezionati fra pagani e cristiani. I loro libri nutrono le artes liberales: grammatica, retorica e dialettica furono raggruppate dopo il IX secolo nel trivium; Boezio organizzò nel quadrivium aritmetica, geometria, musica, e astronomia. Lo studio degli auctores: • Era oggetto delle discipline di base, la grammatica e la rhetorica; • Era finalizzato all’imitazione dello stile degli auctores, in vista della pratica scritta del latino anche in contesti non letterari. 3.1.2.2 Anche se nel XIII secolo il sapere universitario ridimensionò il peso delle artes linguistico-letterarie a favore della logica aristocratico-scolastica, nella prassi intellettuali tardomedievali si riconosce una continuità che è un aspetto del tradizionalismo medievale. Il principio dell’auctoritas si fonda sulla salda immobilità della teologia. Agostino e Girolamo si erano convertiti da adulti, dopo una formazione nella cultura grecolatina, e pur rifiutando il suo politeismo dovevano fare i conti con il sapere e il fascino dei testi. Il rapporto con l’Antico trovò soluzione nell’allegoria: una figura per cui si fa capire qualcosa di diverso da quanto si dice. 3.2 Figura 3.2.3.2 Il dispositivo allegorico è presente in testi volgari assai diversi fra loro, ma accomunati da una marcata intenzione didattica; alcuni sono particolarmente rappresentativi. • AREA GALLOROMANZA – Nell’Eructavit (fine XII sec.) il cisterciense Helinand de Froidmont celebrò la fragilità del secolo di fronte al potere della Morte, la cui personificazione è una delle immagini medievali più celebri. L’allegoresi può incorporare immagini e temi laici, e trasformarmi in strumento di valutazione morale del proprio tempo. • AREA IBEROROMANZA – Il catalano Ramon Llull (1316) votò tutto il suo lavoro alla conversione degli infedeli. in tale contesto vanno letti gli esperimenti in volgare di Llull, usati per avvicinare i destinatari più diversi e spingerli alla salvezza grazie ai contenuti universali trattati, e ricorrendo al repertorio formale profano. • AREA ITALOROMANZA – Tesoretto di Brunetto Latini (ante 1265) rielabora materiali del Livres dou Tresor inserendoli in una cornice narrativa di carattere autobiografico: nel 1260 EGO si perde in una foresta, da cui esce grazie all’insegnamento di Natura. Filosofia convince EGO a non disperarsi per la perdita dei beni terreni, e a iniziare il cammino verso il Regno dei cieli (giunto presso le Virtù, EGO assiste al loro vittorioso scontro coi Vizi). 26 3.2.4.1 L’utilizzo dell’allegoresi si rintraccia pure nei testi profani, narrativi o argomentativi. • Nelle narrazioni si riconoscono due modalità combinatorie. o I realia sono profani, la tipologia di riferimento religiosa. o Il termine tipologico è il codice cortese. • L’allegoria agisce come metalinguaggio cortese: la lirica occitanica utilizzò spesso la personificazione dei propri valori (Giovinezza, Misura, Pregio), e così fecero i poeti fino allo Stil Novo. Essa funziona bene pure nei testi prodotti nella maturità del codice cortese. 3.2.4.2 L’esito più rilevante dell’allegoresi profana è il Roman de la Rose. Il suo esile intreccio è il resoconto autodiegetico di un sogno popolato di personificazioni cortesi, in cui il protagonista (Guillaume) vuole conquistare una dama, la Rosa, nel giardino di Piacere: grazie all’intervento di Natura e del suo cappellano Genius riesce nel suo intento. La prima sezione rilegge in termini simbolici la fenomenologia della fin’amors, trasformando le metafore cortesi in oggetti materiali (le mura, la fontana…). Ragione (nella prima sezione si limitava a indicare la natura illusiva del desiderio) assume con Natura e Genius il compito di spiegare che il Piano richiede all’uomo di amare per opporsi alla Morte, usando il piacere per la procreazione. Per l’abile uso dell’allegoresi nella prima sezione e le spregiudicate riflessioni della seconda il Roman de la Rose divenne rapidamente riferimento per il discorso amoroso tardomedievale. 3.3 Tradurre 3.3.1.1 I chierici lavorano in un contesto linguistico bipolare: traduzione della lingua-fonte, il latino degli Antichi, alla lingua d’arrivo; il latino nell’enarratio (il commento per i litterati), il volgare per gli illitterati. 3.3.1.2 Volgarizzamento indica in italiano antico la versione in volgare. Si possono notare delle costanti linguistico- culturali, comuni all’ambito religioso e profano. • La versione è sempre giustificata da uno scarto di competenza linguistica. Wace si rivolge a coloro che non hanno imparato il latino… i chierici devono mostrare la legge. Tradurre dal latino è la soluzione più frequente: più raro è il passaggio da volgare in volgare, eccezionale quello dal volgare in latino. • La traduzione si esercita su entrambi i versanti, gli antichi e la tradizione religiosa. • La stagione dei volgarizzamenti giunse al culmine -in particolare in Italia e in Francia- fra seconda metà del XIII e XIV secolo, con la diffusione della prosa; ma l’uso dei versi rimase vitale fino alla fine del XIII (specie nell’agiografia). • I chierici non elaborarono una riflessione sistematica sulla traduzione; l’auctoritas è Girolamo (Lettere, 57): nella versione degli autori pagani rendere il senso dal senso, ma in quella della Scrittura (in cui anche l’ordine delle parole è un mistero) la resa dev’essere parola per parola. Se la Scrittura è rivelazione di Dio, la sua espressione ha un valore mistico-allegorico pari al contenuto che la rende intoccabile; la traduzione deve quindi rispettare il mistero intrinseco alla significazione. ù In generale, la tensione dialettica fra le due formule (che riguardano meno il piano e di più il significato) si manifesta nel basso Medioevo fra due opzioni, spesso legate alla scelta versi/prosa; la traduzione primaria, vincolata alla pedissequa adesione alla lettera, e la traduzione secondaria, in cui il modello è sottoposto a parafrasi e riscrittura, spesso innestando il commento nel tessuto del testo, con una tendenza all’amplificatio alimentata dal rispetto dei vincoli metrico-ritmici. E si noti che la scelta “prosa (del modello) > prosa (della versione), per quanto viatico all’adesione più stretta, non è automatica garanzia di fedeltà: pure quando la resa letterale è obbiettivo dichiarato, i volgarizzatori potevano riservarsi, magari non intenzionalmente, un margine di autonomia. 3.3.2 La cultura medievale dipese moltissimo dalle traduzioni: permisero agli illitterati l’accesso al sapere autorevole; contribuirono alla formazione della loro coscienza civile e culturale, e al costituirsi di una tradizione letteraria autonoma dagli Antichi; irrobustirono le strutture sintattiche e il patrimonio lessicale dei volgari. Nella volgarizzazione dottrinale, una fortissima spinta venne dai dinamismi socioculturali all’inizio del XIII secolo. Lo sviluppo economico (1180 – 1240 ca.) rese la società urbana più complessa e articolata, e il potenziamento dell’apparato politico-amministrativo si intrecciò alla crescita dell’alfabetizzazione e dell’istruzione superiore; al radicalismo religioso che, dal basso, chiedeva il ritorno alla povertà apostolica e una relazione diretta fra il cristiano e la Parola, la Chiesa reagì in modi diversi: rifocalizzò la sua natura di ordo separato, rivendicando al sacerdozio la titolarità del Sacro (basata sulla purezza: celibato, castità, povertà); accentuò la sua presa sulla vita laica, sacramentalizzandone i riti (per esempio il matrimonio), enfatizzando 27 l’autocoscienza morale, affidando la predicazione agli ordini mendicanti. La volgarizzazione ne ebbe vigoroso sviluppo: le decisioni del 1215 richiesero testi dottrinali che istruissero sia i laici sia il clero poco acculturato, presentando in forma semplificata il sapere toelogico-spirituale della Scolastica. 3.3.3.1 Fonte di ogni scrittura era la Bibbia, secondo la Vulgata di Girolamo, la cui natura di versione dall’ebraico e dal greco passava in secondo piano rispetto alla Parola che trasmetteva. Essa pervadeva di se l’intero spazio sacro. Nello spazio profano era il libro di storia. La manutenzione del testo era nelle mani dei chierici. La lettura diretta della Vulgata (Bibbia di Parigi, 1230/1240) era preclusa agli illitterati, e imponeva la traduzione: integrale o per pericopi funzionali alla liturgia o alla predicazione. Un’operazione necessaria ma rischiosa, specie quando i volgari si rivelarono capaci di assicurare un’adesione letterale al modello, che poteva essere percepita come un sostituto dell’originale e alimentare il desiderio di fare a meno dei chierici per l’interpretazione. Da qui una pluralità di atteggiamenti, che distinguevano fra uso eretico e ortodosso delle traduzioni, senza condannarle per principio: diffidenza per quelle prive di esegesi non certificata, censura quando esse circolavano in comunità testuali ai margini dell’ortodossia. 3.3.3.2 Così, tra l’opposizione del clero locale, un sacerdote di Liegi, Lambert “il balbo” (m.1177), tradusse per una comunità devota diversi libri del Nuovo Testamento. Il concilio di Tolosa (1229) sancì che ai laici fu proibito il possesso della Bibbia in latino (tranne il salterio per la preghiera) e in volgare, stabilendo una volta per tutte che la loro religiosità era di pertinenza esclusiva dei clerici. 3.3.3.3 Le versioni romanze della Scrittura presentano alcuni caratteri comuni. • SPAZIO/TEMPO. Sono attestate in tutte le tradizioni fra XII e XIV secolo: i primi episodi sono francesi (versioni del Salterio), e francese è la maggioranza dei codici; seguono le versioni castigliane e italiane; ai margini il regno catalano d’Aragona, e il Portogallo. • MODELLO. È la Vulgata, con un’eccezione: 10 codici castigliani (su 14 rimasti) trasmettono versioni letterali dell’Antico testamento ebraico. Sono l’esito di una comunità ebraica fiorente in al-Andalus, i cui intellettuali rimasero attivi dopo la Reconquista nella scuola di traduzione di Toledo. • FORME. Gli esercizi su singoli libri o pericopi (tradizioni sparse) si alternarono a versioni complete o progettate come tali (tradizioni organiche). Tutte le soluzioni prevedono versione e commento (glossa) assorbito nel testo; tale modalità ebbe effetti diversi: o Tradizioni sparse: le più antiche sono francesi (XII sec.), in versi, e di committenza aristocratica. L’uso dei versi perdurò nel XIII secolo e oltre, e toccò due fra i libri biblici più letti, il Salterio e l’Apocalisse. Le tradizioni sparse coinvolsero in Italia dal XIII secolo i libri più apprezzati: Genesi, Cantico, Giobbe. o Tradizioni organiche. I primi progetti di versioni complete apparvero in Francia a metà Duecento; la più importante è la versione della Bibbia di Parigi nota (1260/1270): frutto di un’equipe, offriva la Scrittura e il suo commento (dalla Glossa ordinaria e da altre fonti). Ai primi del Trecento il testo fu imbricato con la Bible historiale di Guiard des Moulins (1297) nella Bible historiale completee; per oltre due secoli fu la sola bibbia francese. Se ne contano oltre 110 esemplari. (È difficile capire quale uso se ne facesse: alcuni volumi mostrano i segni di un’attenta lettura personale, per la partecipazione alla liturgia o l’educazione religiosa). Due codici conservano una versione castigliana quasi completa, dall’atelier di Alfonso X, della Bibbia di Parigi. Le traduzioni italiane sono per lo più anonime e, fino a metà XIV secolo, quasi tutte toscane, in codici per le confraternite e la devozione borghese; Bibbie complete apparvero nel XV secolo. Le tradizioni sparse coinvolsero in Italia dal XIII secolo i libri più apprezzati: Genesi, Cantico, Giobbe. o Letteratura parabiblica – ebbero molta fortuna il Romanz de Dieu et de sa mere di Hermann de Valenciennes (1188/1195). • MODALITÀ. Girolamo impose ai traduttori l’obbligo della fedeltà alla Scrittura. L’apparato di glosse (percepito come spazio interpretativo svincolato dalle regole della versione) aveva dimensioni variabili, ed era sottoposto a rimaneggiamenti/attualizzazioni adeguati al lettore virtuale. 3.4 La predicazione e l’exemplum 3.4.1.1 Nel regime medievale di oralità secondaria la predicazione si impose come prassi necessaria all’educazione religiosa degli illitterati, guidata dal modello evangelico. Dopo il Mille gli ordini mendicanti si assunsero l’onere della predicazione nelle città, per disinnescare la potenza del discorso eretico (alimentato dal coinvolgimento diretto di donne e uomini nell’uso della parola) e controllare le esplosioni di una devozione popolare spesso al limite dell’eterodossia (si pensi, in Italia, al movimento dell’Alleluia, 1233). 30 Eulalia). Nel XII secolo la circolazione dei testi si emancipò dai monasteri per spostarsi nello spazio pubblico, grazie ai giullari: della vita di sant’Alessio conosciamo entro quel termine 3 redazioni, aggiornate alle mode del momento: il pentastico di decasyllabes del testo più antico, la lassa generata per farcitura del pentastico in una redazione successiva, il distico di octosyllabes. 3.5.3.1 Fra 1220 e 1290 furono composte 3 collezioni di racconti in versi sui miracoli della Vergine (le 420 Cantigas de Santa Maria in galego di Alfonso X). Le raccolte sono esito di 2 dinamismi, testuale e religioso. • I fatti miracolosi sono attestati nei testi più diversi, latini e volgari, spesso usati per spiegare gli eventi e garantire la veridicità del loro referto. Ma la loro collocazione naturale è nelle legendae, e già nei Libri miraculorum di Gregorio di Tours e nei Dialogi di Gregorio Magno si rintraccia la pratica di isolare i racconti dei miracoli dal tessuto biografico e di raccoglierli in serie (anche in funzione esemplare). • Il dogma della verginità di Maria con-teneva 2 realtà contraddittorie (l’Incarnazione del Figlio, l’estraneità della Madre al peccato della carne), e favoriva una rappresentazione del femminile depurata dalla corporeità; dopo il Mille il suo culto conobbe un forte impulso: si impose, non senza l’opposizione dottrinale di parte del clero, il dogma dell’Immacolata concezione (la festa fu confermata in Inghilterra nel 1129, e fu introdotta in Francia nel 1130-1140); i cisterciensi posero la Vergine al centro della riflessione mistica, e favorirono la translatio della metaforica di Midonz sulla devozione. I miracula enfatizzano il ruolo di Maria come corresponsabile della Redenzione e principale avvocata presso Dio; ma nella loro semplicità i miracula spostano l’attenzione dal santo (essere perfetto) al peccatore (essere perfettibile), il che permette l’identificazione empatica del pubblico, e il loro riuso in altri contesti (la predicazione). 3.5.3.2 Tutte le raccolte volgari (dal Gracial di Adgar, 1175/1180, in poi) dipendono da modelli latini; peraltro è sicura la relazione diretta tra Gautier e Alfonso X. Come i colleghi delle raccolte latine, non intervennero sugli intrecci ricevuti, e lavorarono sull’ornatus: i Miracles – destinati al pubblico signorile che viveva nei pressi del monastero di Vic-cur-Aisne- hanno toni accesi e predicatori, con ampie digressioni dottrinali. Alfonso specifica la qualificazione spaziotemporale e sociale dell’intrigo, e lascia intravvedere un topo prenovellistico che ad alcuni ricorda Boccaccio. 3.5.3.3 I Miracles comprendono 18 liriche, poste intenzionalmente a inizio e fine dei 2 libri; Gautier nega di essere troviero o menestrello, se non per “la mia signora e la mia amica”: anche se le liriche riusano le prove dei trovieri (2310-2311), e la retorica cortese. Esse sono in effetti una sorta di contrafactum, di parodia della lirica profana, da cui dipendono strutture stroficorimiche, notazione musicale e lessico, quest’ultimo curvato alle ragioni religiose. L’approvazione è deliberata, e funzionale ad attrarre gli illitterati che avevano familiarità con il mondo verbale cortese: si qualidica come forma specifica di translatio simbolica, che conduce a interpretare il vincolo fra il fedele e la Vergine nei termini della fin’amors, del desiderio inappagabile di EGO verso un oggetto irraggiungibile. Le liriche di Gautier vanno accostate a quella variante del canto cortese che da fine XII secolo assunse come oggetto la Vergine, trasformando la fin’amors in richiesta di estasi spirituale e di vincolo eterno in Paradiso; gli autori più rilevanti – Jacques le Vinier, Perrot de Nesle, Moniot de Arras – praticavano i registri delle richiesta (qui invocazione d’aiuto) e la lode: della Vergine si celebrano la bellezza fisica morale, la maternità senza peccato, il suo ruolo di corredentrice e di Advocata. La poesia di Gautier è una poesia in contatto, nel punto di sovrapposizione fra 2 esperienze affettive che investono la carne e lo spirito e che possono sfruttare l’anfibologia di un campo lessicale e retorico: in questo simile a un volgarizzamento francese duecentesco del Cantico dei cantici, pensato per la devozione privata di un illitteratus. La lettura simbolica del Cantico dei cisterciensi nel XII secolo contribuì alla diffusione di un lessico anfibologico del desiderio: essa interpretò i canti nuziali del libro proponendo l’equivalenza “Dio = sposo/anima = sposa, e alimentando un linguaggio mistico fortemente intriso di effusione lirica, che penetrò nel circolo volgare grazie ai volgarizzamenti del Cantico o a testi autonomi. 3.5.4.1 Non c’è continuità fra il teatro antico (defunto in età imperiale) e quello medievale: la condanna cristiana dell’azione teatrale condensata nel De spectaculis di Tertulliano (m. 230 ca.), colpì un contesto in cui dominavano il mimo e i ludi circensi: rifiutava il mascheramento e l’esibizione dei corpi (invito alla dissolutezza), la finzione rappresentativa (parodia demoniaca della Creazione), e il ruolo passivo dello spettatore, voyeur privo di misericordia. A fronte della condanna dell’illusione teatrale stanno nella societas christiana i segni di una teatralizzazione diffusa, fatta di azioni prive di struttura (testi, luoghi, apparati scenografici) e statuto specifici, inserite nel tessuto della ritualità civile e religiosa. All’attività dei giullari si può accostare il patrimonio gestuale e musicale di cui si nutrivano i momenti festivi rielaborati nel calendario cristiano – la festa del solstizio d’inverno assorbita dai riti natalizi. 31 Il fatto nuovo fu la trasformazione di elementi liturgici in una drammaturgia dedicata alla storia biblica, controllata dal clero, funzionale a una pedagogia del sacro. 3.5.4.2 L’origine pare essere nella liturgia della Pasqua: l’episodio più antico, il dialogo fra gli angeli e le Marie presso il Sepolcro ormai vuoto, noto come Quem quaeritis, si sviluppò come rito del Mattutino; la recitazione di un dialogo a più ruoli circoscrisse nella chiesa uno spazio destinato ad altro che la liturgia: il dramma liturgico nacque da un doppio ritaglio, nel rito e nel suo spazio, e si risolse in un compromesso per imbrigliare le pulsioni teatrali popolari. Il repertorio si allargò rapidamente. I monasteri benedettini furono il luogo primo di queste produzioni, che spesso ricorrevano a fonti liturgiche e innografiche comuni e aprivano a un linguaggio popolare. Fra X e XI secolo la diffusione. Le tracce italiane non sono molte: fra le altre, il Planctus Mariae di Cividale (XIII secolo: monologo ricco di note di regia). Il passaggio al volgare ebbe, come sempre, ritmi e frequenze differenti: • Della prima metà del XII secolo è l’Auto de los Reyes Magos, un’Azione dei Magi. • La Passiò del Regne de Mallorques (1276-1344) è una delle prime catalane. • A metà del Trecento si data un Mistero occitanico su sant’Agnese, martire. • In Portogallo il teatro inizia con Gil Vincente (m. 1536). In Italia una tradizione urbana di drammaturgia religiosa si agglutinò intorno alle laude, prodotte nelle confraternite di ispirazione francescana dal secondo Duecento, e nutrite dalla devozione empatica per il Cristo patiens sulla croce. Alcune presero forme drammaturgiche, come la Passione di Iacopone da Todi (la più antica); dal nucleo umbro la lauda drammatica si espanse nel Tre-Quattrocento per tutta l’Italia mediana sceneggiando i più diversi temi della Scrittura e della storia cristiana. Celebre è la Passione di Revello (Piemonte) in 3 giorni. La situazione francese è più ricca. Il testo più antico è il Jeu/Mystere d’Adam (1160 ca.): messa in scena in octosyllabes (senza corrispondenti latini) di Genesi, 1-4 (fino al delitto di Caino). Il dialogo ha un tono realistico (Adamo parla e agisce come farebbe uno qualunque del pubblico), e il testo è punteggiato di note di regia in latino che riducono la distanza fra scena e platea e puntano all’abbassamento del mito del quotidiano. Contesto urbano, taglio del legame liturgico, intenzione drammaturgica sono i caratteri emergenti del teatro religioso volgare a inizio XIII secolo. Le confraternite assunsero il controllo delle produzioni, all’inizio con la collaborazione ecclesiastica: azioni di carattere ciclico (il nucleo è la Passione), sceneggiate da chierici/giullari e guidate da registi professionisti, spesso sviluppate su più giorni disseminando nello spazio urbano le mansiones (le scene), che coinvolgevano i confratelli come attori e gi abitanti come comparse, richiedevano macchine teatrali, costumi, testi. La Passion du Palatinus è il testo più natico (inizio Trecento), forse dipendente da una perduta Passion des jongleurs. 3.6 La conoscenza dell’Aldilà Tutte le cultura conoscono narrazioni mitico-religiose o profane in cui i morti appaiono ai vivi, in sogno o in visione, informandoli sulla condizione loro e dello spazio in cui sono collocati, o in cui i vivi visitano quello spazio, e ne raccontano agli altri. In assenza di dati effettuali, tutte le descrizioni da un lato usano schemi simili, stabili nel tempo e connessi agli universali cognitivi che governano l’esperienza umana (schemi epistemici e schemi archetipi); dall’altro elaborano modelli costruttivi specifici (schemi storici). Gli schemi epistemici giocano sull’opposizione “NOI vs GLI ALTRI”; i morti sono gli altri, posti in uno spazio compatto e unitario. Gli schemi archetipi toccano la topologia: quello verticale “ALTO vs BASSO” (cielo/inferi) funziona in molte culture antiche. Gli schemi storici si costruiscono per cristallizzazione/stratificazione di elementi immaginali di etimo diverso, via via rielaborati; quello cristiano si sviluppò sulla proclamazione della resurrezione dei corpi alla fine dei tempi, e sull’assenza di dettagli, nei vangeli, sulle resurrezioni di Lazzaro e di Gesù. Lo schema “ALTO vs BASSO” si fissò in età tardoantica con la dottrina sull’immortalità dell’anima (debitrice al pensiero greco) e il riuso delle immagini pagane dell’Aldilà. Nel XII secolo i mutamenti nella teologia della penitenza portarono all’invenzione del Purgatorio, che modificò la geografia dell’Aldilà; non si trattò solo dell’aggiunta di una nuova partizione: mentre le anime poste nei mondi infernale e celeste sono costrette in una relazione definitiva fra colpa/virtù e pena /premio, la situazione delle anime del Purgatorio è dinamica, tesa alla sede celeste dopo l’espiazione, e in parte dipendente dalla preghiera dei viventi; all’Inferno e in Paradiso vale lo schema “NOI vs gli ALTRI”, i morti del Purgatorio hanno in comune coi viventi le nozioni di prova e pentimento. 3.6.2 Lo schema semiotico di Segre 1990 si basa su testi latini e volgari (letteratura visionaria) accomunati da una fabula nella quale dal VI secolo precipitò la dialettica fra credenze precristiane e il cristianesimo. Il corpus è ricco, si contano 37 testi tardoantichi e 58 medievali, disposti in 3 modelli: 32 • VIAGGI. Si presentano come resoconto di viaggio nell’Aldilà, fra gli altri, alcuni testi eredi della tradizione orale celtica. La Navigatio sancti Brendani si modella sullo schema EST > OVEST; ne adotta uno verticale il celebre, e fortunatissimo, Tractatus de Purgatorio santi Patrici (1179-1185). • VISIONI. Lo schema prevede una narrazione in prima persona, e un intreccio in cui l’anima di EGO visita l’Aldilà. Il modello è l’estasi richiamata da Paolo in 2 Corinzi, 12, 1-5 che diede la materia alla Visio Pauli (IV-VI). • ALLEGORIE. I romanzi allegorici sull’Aldilà combinano in varia misura varii elementi: lo schema del viaggio, e la presenza di vizi e virtù personificate; dal Roman de la Rose viene l’uso della prima persona, in funzione didattica: il viaggio è presentato come pellegrinaggio, in cui i dettagli di ogni tappa sono letti in senso simbolico. Il prototipo è il Songe d’Enfer di Raoul di Houdenc (1214-1215/1221-1230?), resoconto di un viaggio onirico all’Inferno. Gli intrecci di queste opere presentano alcune invarianti: • I personaggi non hanno vera autonomia: i loro movimenti sono determinati dalla volontà divina e non producono modificazioni di carattere; l’intervento di Dio è esplicito, attraverso adiuvanti e antagonisti. • Nel viaggio il fatto decisivo è il superamento dei confini (fra i mondi ultraterreni o al loro interno): quello fra Inferno e Purgatorio/Paradiso terrestre è orizzontale, verticale quello con il Paradiso; nelle visioni il movimento è soprannaturale, negli altri testi prevede prove di tipo iniziatico. • Il viaggio possiede un senso morale, che vale sia per il protagonista che per i destinatari. 3.6.3 La Commedia è il punto più alto di questa tradizione; con essa Dante intrattenne una relazione marcatamente dialettica: la rappresentazione e la topografia dell’oltremondo dantesco utilizza molti elementi tradizionali (la figurazione di Satana, le bolge e i fiumi infernali, il motivo dell’immersione dei dannati, i ponti, le scale; la localizzazione del Purgatorio e del Paradiso terrestre su una montagna; d’altra parte, appartengono a Dante l’originalità della collocazione del Purgatorio fra Inferno e Paradiso; la fusione, nella rappresentazione del Paradiso, di più tradizioni: il giardino dell’Eden, le sfere celesti come dimora delle anime beate (di tradizione giudaico-ellenistica), l’Empireo (la Gerusalemme celeste descritta nell’Apocalisse). La struttura del poema sfrutta schemi diversi. Dalla visione viene la situazione iniziale e l’uso della prima persona, ma lo schema narrativo è quello del viaggio (6 giorni); il viaggio-visione è compiuto dal corpo di Dante (diversamente da quanto accade nelle visioni), soggetto individuale e rappresentante simbolico dell’intera umanità. Caratteristica della Commedia (e distintiva dalla tradizione) è l’attenzione alla complessa varietà sociale del suo tempo: Dante incontra le anime di individui storicamente riconoscibili, della cui biografia da indicazioni dettagliate. Dalla letteratura allegorica, infine, vengono la presenza di virtù non religiose (incarnate in personaggi storici) e di più guide; la forma didattica di molti discorsi; l’uso dell’allegoria in verbis per segnalare la connessione fra i livelli del reale). Il carattere eccezionale della Commedia risiede poi nella tensione universalistica dell’impianto filosofico, e nell’audacia di scelte formali che, con sperimentalismo inusitato, spingono alla polifonia e alla mescidanza dei registri linguistici (a cui contribuisce una varietà di personaggi), e all’elaborazione di una forma – 100 canti in 3 cantiche, 50 terzine ciascuno – nuova rispetto alle misure narrative correnti (il libro del poema latino, la lassa epica, il continuum del romanzo). 35 castigliano adottò il metro scelto da Alexandre de Bernay, evitando la forma-lassa per la strofa (di tradizione colta), al pari dell’anonimo del Libro de Apolonio. 4.2.4 Le traduzioni francesi e castigliani presentano alcune costanti. • SCRITTURA E PASSATO. Per tutti i volgarizzatori è pacifica la superiorità del meter en escripto, della scrittura sul discorso orale, funzionale al dovere dei litterati, salvare i fatti dall’oblio e trasmetterne la memoria. All’intento didattico della volgarizzazione corrisponde la fiducia nella storicità degli eventi narrati dagli auctores. • MANIPOLAZIONE DEI MODELLI. La traduzione letterale è rara; più comuni sono due pratiche. o La riscrittura avviene per modificazione dell’ordine degli episodi, soppressione (detractio), modificazione (immutatio) o aggiunta (adiectio). o È abituale lo slittamento dalla versione all’enarratio: si incorpora nel testo il commento presente nei codici latini, si intarsiano le descrizioni con informazioni compilate da più fonti. In certi casi la compilazione tocca la struttura stessa del testo: l’Alexandreis fornisce al Libro circa due terzi dei materiali: il resto viene dal Roman d’Alexandre (da cui un certo tono cavalleresco) e da fonti scolastiche. • NEGOZIARE CON L’ALTERITÀ. Tradurre l’Antico richiede la negoziazione con la sua alterità culturale. o L’anacronismo consiste nell’adeguazione analogica – innanzitutto lessicale – del paesaggio dell’Antico a quello moderno: gli Antichi pensano e si comportano come guerrieri o dame di corte; le azioni militari si adeguano alla guerra feudale; il lessico istituzionale è acclimatato in quello moderno: il miles è sempre il chevalier, il pontifex è l’evesque, il magister equitum è il connestable. I realia (oggetti, spazi) sono rimodellati su quelli medievali. L’anacronismo si presenta nei testi (in versi e in prosa) con gradi diversi di intensità, e nel tempo in misura decrescente, via via che si accolsero calchi e prestiti, riconoscendo nel neologismo l’alterità dell’Antico. o Il punto più sensibile della negoziazione è il trattamento del politeismo. Il pensiero medievale aveva assorbito la religione antica negandone la potenza numinosa ma senza cancellare gli dei e i miti: la loro sopravvivenza fu garantita al prezzo della loro riduzione o a un etimo umano, o a simbolo: le 2 prospettive permettevano lo scavo nel passato religioso senza rischiare di esserne affascinati. Nei testi volgari l’esito è la razionalizzazione: Thebes sottolinea la natura demoniaca degli dei, Troie giudica inverosimile il loro intervento fra gli uomini; Eneas sopprime l’apparato mitologico, enfatizza il lato umano degli dei. Ambiguo è l’atteggiamento verso la Fortuna: da una parte se ne evidenzia la costante inaffidabilità, il dominio sui beni mondani, la forza dei suoi interventi nell’esaltare o umiliare l’individuo; dall’altra la si assimila alla Provvidenza. 4.3 Essere “moderni”: Marie de France 4.3.1 Il nome “Marie” appare in tre testi in octosyllabes: nell’Espurgatoire saint Patrice; nel lai di Guigemar; nell’epilogo delle Fables esopiche: mi chiamo Marie, e sono di Francia. Per i più le occorrenze vanno ricondotte a una non identificabile litterata francese, attiva presso Enrico II fra 1170 e 1200 ca.; i testi sono, per sua dichiarazione, episodi della translatio studii, ricostruita nell’epilogo delle Fables. Nella serie delle versioni prende corpo l’auctoritas degli Antichi. Il prologo ripete alcuni topoi del volgarizzatore: l’obbligo di esibire il sapere, la necessità per i Moderni di interpretare il dettato oscuro degli Antichi e di evitare l’ozio senza lettere che uccide lo spirito. Marie si propone di dedicarsi ai lais che le è capitato di ascoltare, per ricordare le avventure. 36 4.3.2 Il lai è un testo narrativo dal respiro breve (fino a 1000 octosyllabes ca.), il cui intreccio, controllato da un narratore onnisciente, si svolge compatto in ordo naturalis nel cronotopo arturiano, privilegiando l’azione sulla descrizione e l’analisi psicologica (per ellissi delle motivazioni), intorno a pochi personaggi di estrazione aristocratica. Con il romanzo condivide intrecci e contesti, ma se ne distingue (per la brevitas) per la relazione più stretta con una materia nuova per l’ecriture volgare, estratta dal fondo etnico della cultura tradizionale insulare. Il lemma ha etimo celtico: leich/”canto” pare riferirsi a una melodia destinata all’esecuzione strumentale, e un accenno nel Roman de tristan di Thomas (Isotta compone sull’arpa un lai sul cuore mangiato) suggerisce che alla melodia si accompagnasse un testo. La traslatio di Marie consiste nell’estrarre da testi musicati non francofoni intrecci da narrare a un pubblico francofono. Ci sono tre momenti: i fatti, la composizione del lai, per ricordarli, e la translatio di Marie. 4.3.3 Il fatto moderno è dunque l’emersione nel volgare, senza il filtro del latino, di una tradizione orale antica. 37 La tradizione tristaniana esemplifica bene questo dinamismo. Il lai del Chievrefoil ne offre un episodio tipico – l’incontro degli amanti separati, grazie a un trucco -, come le Folies Tristan di Berna e di Oxford. Nulla sappiamo sull’intreccio dei romanzi di Chretien de Troyes e del giullare La Chievre, e frammentari sono quelli di Beroul (1170 ca.) e di Thomas (1150/1170 ca.). Si pensa che entrambi narrassero l’intera vicenda con una differenza: in Beroul (narratore di gusto arcaico) il filtro è efficace per 3 anni; in Thomas – che inquadra l’intreccio negli schemi della fin’amors e lo sottopone alle finissime analisi del Narratore cognitivo e nei monologhi/dialoghi dei personaggi – il suo effetto non si esaurisce mai. Nel lai di Marie e nelle Folies l’intreccio complessivo è richiamato da allusioni analettiche disseminate nel racconto di un episodio isolato (nelle Folies Tristano si traveste da folle per poter vedere Isotta). I comparatisti hanno snidato dalla tradizione celtica le tracce anteriori al corpus francese: la documentazione (IX-X sec.) suggerisce che il mito si sia sviluppato, muovendo dalla Scozia all’Inghilterra meridionale, per concrezioni successive intorno a nuclei narrativi autonomi (un guerriero ; un aithed, il rapimento della donna di un capo), e all’indicazione di personaggi storici 8il re di Cornovaglia Mark). È diffusa l’idea che l’anello mancante fra preistoria e scritture volgari fosse un romanzo-versione comune anteriore a Beroul e Thomas, a cui alluderebbe Thomas (vv.2261-2277) invocando l’autorità di un Breri, che sapeva i fatti e i racconti sui re dei brittoni, identificato con Bledhericus, fabulator celtico attivo alla corte d’Aquitania. Ma è possibile un’altra ipotesi. • L’intreccio procede per episodi autonomi, specie nella sezione dall’assunzione del filtro al definitivo esilio di tristano, in cui si ripete un modulo ritmato su desiderio di un incontro segreto – costruzione dell’inganno – (mancato) incontro / (mancato) appagamento; • Marie (Chievrefoil) conosceva più versioni, orali e scritte, dell’intreccio, al pari di Thomas. La traduzione tristaniana sarebbe una costellazione più che un tronco ramificato, composta da nuclei narrativi di varia misura (episodio singolo, serie di episodi), capace di riprodursi utilizzando elementi estratti da una matrice più ampia: i testi prodotti dovevano essere numerosi, pure nelle altre lingue parlate sull’isola. 4.3.4 I lais integrarono nell’orizzonte signorile temi e oggetti meravigliosi, recuperati dalla tradizione orale celtica: acclimatarono la sua alterità immaginale, rendendola fruibile al contesto cortese; lo si vede bene nel lai di Lanval: • Il suo nucleo mitico, di tradizione celtica, è l’incontro nello spazio naturale (presso una sorgente, luogo che permette il passaggio nell’oltremondo) fra un uomo e una fata, essere soprannaturale la cui esistenza riemerse nelle pagine dei clerici nell’XI secolo dopo aver attraversato carsicamente l’antichità (le Parche sono i tria Fata) e l’alto Medioevo. Dopo l’incontro la fabula si scandisce in 4 tempi: (1) l’uomo ottiene l’amore della fata, e con 40 L’autore più rilevante del XIV secolo fu Jean Froissart: le Chroniques de France, d’Angleterre et des pais voisins (1370- 1400) si concentrano sui fatti della guerra dei Cent’anni fra 1327 e 1400, utilizzando fonti scritte (cronache, documenti) e resoconti di protagonisti diretti, in un affresco cortese che molto deve ai romanzi la costruzione unitaria del racconto. 4.4.3.2 Nella penisola iberica la storiografia si concentrò nelle corti regie e sulla storia dinastica (senza troppe concessioni alla celebrazione delle radici antiche). • La storiografia catalana tre-quattrocentesca spicca per alcuni testi sui grandi sovrani. Fra 1245 ca. e 1274 Giacomo I (m. 1276) dettò il Llibre dels feyts del Rey En Jaume I (tradotto pure in latino), sorta di autobiografia intesa a costruire l’agiografia di un principe cristiano strumento della volontà divina. • Le Cronicas commissionate da Giovanni I Trastamara dopo il 1385 al Cancelliere Pero Lopez di Ayala narrano cinquant’anni di storia castigliana. • In Portogallo sono documentati dal 1270 i Livros de linhagens, ricostruzioni genealogiche dei lignaggi più importanti per la difesa dei loro diritti patrimoniali contro le rivendicazioni regie; il più rilevante è il Livro de Linhagens (1360/1383 ca.) del conte Pedro de Barcelos. 4.4.3.3 Nelle città italiane l’elite riconobbe il valore della memoria storica come connettivo identitario, e affidò ai suoi litterati la costruzione dell’autobiografia cittadina. La rottura con la tradizione latina è nelle Estoires de Venise di Martin da Canal: storia di Venezia dalle origini al 1275, celebrativa della sua ricchezza e della sua natura christianissima, redatta in francese per calcolo politico (dai francesi Venezia si attendeva l’appoggio per una nuova crociata contro i bizantini, dopo essere stata estromessa nel 1261 dalle rotte del Levante). Negli stessi anni Ricordano Malispini redasse la Storia fiorentina: a Firenze la scelta del volgare ebbe un’immediata valenza politica, come la scelta di collocare la cronaca nel mito della fondazione romana di Fiesole e della città. 4.4.4.1 Con il successo della prosa, molti testi narrativi in versi del XII-XIII secolo furono sottoposti in Francia a prosificazione. La prosificazione (fr. mise en prose) è una forma di traduzione intralinguistica che richiede alcune azioni specifiche: • Depotenziare l’identità del verso, sopprimendone ritmo, rima, figure fonosimboliche. • Ridurre gli stilemi connessi al verso (formule, figure dell’amplificatio). • Modernizzare il lessico, e gli elementi di contesto che qualificano il cronotopo del testo. • Ristrutturare la sintassi del modello. Il processo può avere gradi diversi d’intensità. Una volta prosificati, molti testi confluirono in compilazioni storiografiche posteriori, ma il trasferimento all’oratio soluta comportò la perdita dell’identità formale dei testi e quindi una maggiore enfasi sull’attendibilità storiografica degli intrecci. La debolezza del confine fra fictio e res gestae fece il resto: la prosificazione del ciclo, • IN FRANCA. Il fenomeno ebbe valenza funzionale nei romanzi in prosa: nel Lancelote e nel Tristan si rintracciano octosyllabes estratti dalla Charrette e dal Conte du Graal. I casi più interessanti sono nella storiografia: il Roman de Troie ebbe 5 prosificazione due-trecentesche. • IN CASTIGLIA. Le osservazioni nelle cronache alfonsine su quanto “alcuni dicono nei cantari e nei racconti di gesta” hanno trovato puntualmente riscontro: fra gli altri, il racconto dell’esilio del Cid nella Estoria de Espana (capp. 851-861) presenta somiglianze testuali con il Cid così evidenti e diffuse (anche se non letterali) da suggerire che il redattore avesse sotto mano una sua copia, assai vicina a quella oggi disponibile, utilizzata eliminando l’assonanza e modernizzando il lessico. Il riconoscimento dell’emersione di un cantar nella prosa dipende dalla presenza in questa di assonanze alla fine di unità frastiche riducibili alla misura del verso. L’identificazione di cantares precronachistici ha permesso ai neotradizionalisti di allargare e retrodatare a prima del Mille la produzione epica, non solo castigliana: si sono rintracciate tracce epiche nel Libre di Giacomo I e nelle cronache di d’Esclot e di Muntaner, che potrebbero ovviare al vuoto documentale su una stagione epica catalana. Al proliferare di questa tradizione gli individualisti oppongono argomenti diversi, che in sostanza negano non l’esistenza di una tradizione epica più ampia di quella attestata, ma che sia possibile ricostruirla nelle cronache. Resta un importante dato culturale: una volta ammesse la relazione fra cantares e cronache e l’esistenza di un processo di traduzione intralinguistica, si può osservare che nelle cronache i cantares sono chiamati in causa quando si tratta di criticarli, in quanto fonti di informazioni che contraddicono il racconto proposto: è una prova in negativo del fatto che agli occhi dei compilatori l’indice di credibilità dei cantares, era pari a quella delle cronache latine, e tale da giustificare il loro adattamento all’oratio soluta. 4.5 Traduzioni e cultura volgare XIII e XV secolo 4.5.1 Fra XIII e XV secolo, in tutte le culture volgari, la prosa fu il supporto di un’intensa translatio del sapere antico; promossa su impulso delle elite, alimentò la loro formazione intellettuale, e produsse una sorta di biblioteca comune 41 nelle diverse culture linguistiche; comuni furono pure alcuni caratteri del processo, sviluppatosi secondo ritmi asicroni nella Romania medievale. • La lingua di partenza fu, con una sola eccezione, il latino. L’eccezione riguarda l’arabo, dal quale Alfonso X raccolse l’eredità culturale di al-Andalus. • Il primo impulso si manifestò in Francia per svilupparsi poi in Italia e in Castiglia; francesi e iberici continuarono fino al XV secolo, mentre in Italia il fenomeno si ridusse drasticamente (per quantità e autorevolezza) a metà del trecento, in coincidenza con il sorgere di un’attitudine umanistica verso i classici, della quale fu maestro Petrarca nelle fasi più antiche italiani e iberici giunsero alle fonti latine tramite la traduzione orizzontale dal francese. • L’attività di traduzione fu promossa dovunque dalle elite laiche, conl’obbietttivo di disporre di testi che permettessero il buon uso dei modelli degli Antichi nell’azione pubblica. In Francia e in Castiglia l’impulso venne dalla corona, e nel caso castigliano assunse la forma di un vero e proprio programma; in Italia promotori furono i ceti altoborghesi, quando perfezionarono la loro egemonia economica con la diretta assunzione del governo. • Ovunque l’attività dei traduttori fu tenuta in gran valore: nei suoi ranghi, in Italia, si contano maestri di retorica, notai, giurisperiti; in Francia e in Castiglia si creò un ceto professionale al servizio dei sovrani. Le traduzioni si dispongono dalla versione ad sensum a quella ad verbum, e indulgono con frequenza all’incorporazione di glosse nel testo (la letteralità fu più ricercata nel tardo Medioevo, via via che cresceva la cultura dei destinatari). • La riflessione era alimentata dalla comparazione fra lingua di partenza e lingua d’arrivo, e si focalizzava sulla loro distanza per struttura della frase (ordine delle parole, sintassi) e lessico. Il problema fu posto dai francesi, spesso in difficoltà con il latino classico. Il confronto lessicale con le res ignote, o con i verba che per la povertà del francese non avevano corrispondenti adeguati, fu affrontato con l’analogia o la perifrasi esplicativa; nel Trecento si diffuse la prassi del clero; nei volgarizzamenti italiani duecenteschi Brunetto Latini e Bono Giamboni oscillano fra la perifrasi esplicativa e il calcio. Generale è la semplificazione dell’ipotassi latina, in particolare nelle versioni francesi e iperboliche; le versioni italiane trecentesche mostrano un approccio più consapevole delle potenzialità del volgare nella resa sintattica del modello. In generale il confronto con il latino comportò per i volgari un guadagno in procedimenti sintattico-narrativi più complessi (e l’attenuazione della paratassi tipica dell’oralità) e un arricchimento lessicale (in particolare di quello intellettuale, e astratto); la translatio riconosceva implicitamente ai volgari d’essere espressione degna del confronto col latino, e ai volgarizzamenti il rango di testi non di servizio: in Italia essi si posero fra la prosa d’arte e la scrittura pratica, e nel primo terzo del Trecento il loro valore stilistico fu spesso superiore a quello dei testi letterari. 4.5.2.1 La committenza regia segnò lo sviluppo dei volgarizzamenti francesi in prosa, in continuità di azione fra XIV e parte del XV secolo. Iniziò Filippo IV il Bello (m.1314), per il quale Jean de Meun tradusse il De consolatione Philosophiae di Boezio nel Livres de Confort de Philosophie. Carlo V (m. 1380) investì molto nella committenza di traduzioni; per lui lavorò una dozzina di traduttori, il più importante dei quali fu Nicole Oresme (responsabile della versione dell’Aristotele latino). 4.5.2.2 L’Italia comunale rappresenta un’eccezione culturale fra gli illitterati: da fine XI secolo si creò un’elite intellettuale laica, i notai, fornita di cultura retorica e giuridica acquisita in scuole cittadine. L’insegnamento retorico si concentrò sull’ars dictaminis, tecnica della composizione epistolare; nelle scuole bolognesi create dal magister Irnerio (m. post 1125) e dai successori si studiavano il diritto romano e il canonico. I conflitti fra Impero, Chiesa gregoriana e comuni ampliarono l’azione e la fama delle scuole, e lo sviluppo delle discipline giuridiche alimentò lo studio della retorica e dell’ars dictaminis. Diritto e ars erano necessari per i notai nello svolgimento di funzioni sempre più rilevanti nella società comunale: erano loro affidate la memoria documentale dei negozi privati e dell’amministrazione pubblica. La loro azione si collocava in una società sempre più ricca e complessa (nel XV secolo Firenze è una delle pochissime città europee con più di 100000 abitanti), che richiedeva una literacy volgare per le attività economiche eper la vita pubblica. Nel XIII secolo si formò un pubblico laico, che chiedeva l’accesso ai testi e ai saperi riservati ai chierici, dai quali si attendeva nutrimento, piacere intellettuale e strumenti per l’azione pubblica; gli intellettuali laici risposero su più piani, facendosi spontaneamente mediatori fra gli auctores e la cultura volgare. a) A metà Duecento il Popolo – i ceti non aristocratici -entrò in competizione per il potere con i magnati (cavalieri); i borghesi che si impegnarono in politica dovevano essere capaci di spostare il conflitto allo spazio del discorso, e dunque di usare la retorica. Il magister Guido Faba fu il primo a proporre nella Gemma purpurea e nei Parlamenta et epistole (1242/1243) esempi di lettere e discorsi in volgare. b) La violenta conflittualità intestina nei comuni stimolò la riflessione degli intellettuali. Albertano da Brescia (m. 1253 ca.) distillò la sua esperienza nei trattati all’uso dei laici Liber de amore et dilectione Dei et proximi et aliarum rerum et forma vitae; Liber de consolatione et consiliis (1238/1246); propose un’idea di concordia che rifiutava l’ethos aggressivo dei cavalieri in nome della charitas e del valore morale del lavoro. 42 c) I trattati di Albertano furono molto letti e volgarizzati; la Doctrina loquendi (tradotta nel II libro del Tresor) e Albertano Brunetto (figura centrale nel gruppo guelfo) condivisero la convinzione che la res publica romana potesse essere termine di riferimento per la morale e la politica comunale, ed enfatizzò in Cicerone il suo difensore; da qui negli anni Sessanta, il lavoro di traduzione di suoi testi, utili alla formazione retorica del nuovo ceto dirigente. Secondo studi recenti Brunetto puntava da una parte all’innesto dell’ars dictaminis nel discorso pubblico volgare, dall’altra a un approccio inclusivo verso i milites, e alla loro educazione ai valori del bene comune. d) La generazione di Brunetto è una sorta di spartiacque nella storia dei volgarizzamenti: dopo di loro la produzione dei laici – parallela ai programmi degli ordini mendicanti – si spostò stabilmente in Toscana; i testi da tradurre furono sempre più gli auctores, sempre meno i francesi; il fiorentino divenne la lingua delle versioni: la scelta, motivata dal suo successo letterario, si accompagnò a una maggiore attenzione per la resa degli originali. 4.5.3 Alfonso X di Castiglia (m.1284) fu il primo sovrano a elaborare una politica nazionale di traduzioni in volgare nel quadro della costruzione di uno stato multiculturale e di recente formazione: in tale contesto si collocano la promozione della storiografia e l’elaborazione di un corpus normativo. Storiografia e giurisprudenza sono nell’orizzonte latino. Innovativa fu la scelta di usare il castigliano come lingua d’arrivo per le traduzioni astronomico-astrologiche dall’arabo che impegnarono lo scriptorium fra 1250-1279. Il programma (a) rispondeva al bisogno di decifrare negli astri i segni della volontà divina in funzione dell’azione regia; (b) coinvolse i testi ereditati da al-Andalus, in cui erano confluiti i saperi greco-ellenistici (Aristotele, l’astronomia tolemaica, le dottrine ermetiche). La scelta del castigliano provocò (a) la rottura con la prassi ecclesiastica, fatto notevole visto il ruolo della Chiesa nella Reconquista. Le traduzioni contribuivano alla secolarizzazione del sapere e alla formazione della lingua nazionale. (b) Nel volgare si imposero strutture e lessico semitici che perdurarono fino al XVI secolo; si creò inoltre un pubblico aristocratico di lettori. D’altra parte la scelta del castigliano limitò all’Iberia la ricezione dei testi, poco leggibili per i chierici occidentali. La traduzione degli auctores iniziò nel tardo Trecento, per committenza regia o aristocratica: ricorrendo per i testi più antichi a un intermediario francese. Il ritardo iniziale fu scontato da un’accelerazione nel Quattrocento, e a fine secolo i lettori iberici avevano a disposizione il repertorio condiviso da italiani e francesi; non influenzati dall’Umanesimo italiano, i traduttori iberici (come i francesi) si sforavano di facilitare agli illitterati la lettura ad sensum dei testi (rare sono le traduzioni che imitano la forma originale). 4.6 Il Preumanesimo italiano 4.6.1 All’inizio del Trecento, a Padova, si colgono i segni di una renovatio dello studio dei classici: intellettuali laici come Lovato de Lovati (m.1309) e Albertino Mussato (m.1329) ritrovarono codici (le tragedie di Seneca e Pomposa), si dedicarono alla coppia e allo studio dei testi, alla ricerca antiquaria, usarono gli studi grammaticali per promuovere l’imitatio dello stile antico, giudicato superiore a quello volgare. Il poeta-filologo chiede ai testi antichi, ritrovati e restituiti, non soltanto dei modelli formali, ma un alimento morale adatto per i cristiani laici che vivono nel mondo: la ricerca dei codici, lo studio filologico e erudito dei testi erano funzionali a questa interrogazione. Per oltre un secolo il culto dei classici favorì una nuova prospettiva di gusto: i volgarizzamenti laici subirono un arretramento, mentre si imponeva la traduzione dal greco latino. Il cambio definitivo di attitudine nella relazione fra avvicinamento all’Antico e traduzioni avvenne fra 1380 e 1420 ca. In De interpretatione recta (1420 ca.) Leonardo Bruni (m. 1444) propose che la traduzione rispettasse pure la forma e la fisionomia stilistico-figurale del modello; l’esito si riconosce nella versione fiorentina della Pro Marcello di Cicerone (orazione politica, tradotta pure da Brunetto), attribuita a Bruni ma oggi di paternità anonima (1430 ca.): soluzioni sintattiche aderenti al modello, uso del neologismo/calco latino nelle soluzioni lessicali. 4.6.2 L’ideale estetico di Lovato (la fedeltà stilistica agli auctores) è per lo studioso contrappunto della scelta di Albertano – Brunetto, che usarono i classici per sostenere il loro ideale di civismo repubblicano. Se anche le due linee ebbero radice comune, in breve esse si divisero, nella competizione fra culto della latinitas e bisogni intellettuali degli illitterati. È un dato di fatto che volgarizzare fu una preparazione e insieme un contraddittorio dell’Umanesimo: nutrì l’interesse per l’Antico delle elite urbane senza latino, evitando il vincolo del rispetto della forma dei modelli, ragione dello sprezzo con cui gli Umanisti valutavano i volgarizzamenti. 45 La lirica di Provenza si impose come langue poetica per la sua compattezza di sistema: articolata in generi e metri, in un repertorio di figure retoriche e di motivi, in valori poetici e relazioni intertestuali, esibita in un esercizio formale rivolto intenzionalmente agli illitterati, elitario quanto a valutazione degli esiti ma aperto a chiunque sapesse praticarlo, senza preclusioni di rango. Questa langue innervò la lirica tardomedievale, in una continuità di tradizione. Il magistero formale dei trovatori fornì a Dante la materia per disegnare un’idea di poesia di tono alto, fondata (De vulgari eloquentia, II, 7-8) sulla gerarchia dei valori – i 3 temi grandissimi (il coraggio nelle armi, l’ardore amoroso e la volontà ben diretta) – e sul canone dei poeti (Bertran de Born, Giraut de Bornelh e Arnaut Daniel), assunti come modello di riferimento per chi intendeva emulare coloro che (hanno poetato per la prima volta… nella lingua più perfetta e più dolce); la lirica italiana riconosceva i suoi maggiori nel momento in cui procedeva a rielaborare la tradizione cortese, e a distaccarsene. 5.2.2.1 I caratteri generali (formali-tematici) della lirica trobadorica: • SPAZIO/TEMPO. L’arco temporale è racchiuso fra le 11 liriche di Guglielmo IX (m. 1127) e quelle di Guiraut Riquier, attivo fino al 1292. La sicurezza formale e il gusto parodico che si riconoscono a Guglielmo suggeriscono una tradizione a lui precedente. Guiraut non fu l’ultimo poeta: dal 1323 fu attivo a Tolosa il Consistori del Gai Saber, società poetica di epigoni; ma la decadenza era iniziata con la fine della Crociata. Si riconoscono 3 grandi campiture; alla prima (fine XI sec.-1140 ca.) appartengono Guglielmo IX, Jaufre Rudel e Marcabru; nella stagione aurea (1140-1250 ca.) operarono i trovatori noti a Dante: Bernard de Ventadorn, Arnaut Daniel, Peire Vidal, Folquet di Marsiglia, Raimbaut de Vaqueiras; fra 1250 e fine XIII secolo vissero Sordello, Cerveri de Girona e Guiraut Riquier. Si dedicarono alla poesia re (Riccardo d’Inghilterra) e grandi signori (Guglielmo, Raimbaut) piccoli feudatari (Bertran), cavalieri e non aristocratici (Folquet; Bernart), spesso giullari. La loro circolazione stimolò l’emulazione in lingua d’oc. • UNA POESIA PER IL CANTO. Trobar (da cui trobaire/trobador) è comporre: le parole e la musica: i testi e melodie (forse pure improvvisate, ma per lo più composte per iscritto) erano affidate alla performance di un giullare spesso personale; i testi acquistavano vita di fronte al pubblico di corte: la pagina servì a conservarli, insieme, talvolta, alla notazione melodica (oggi di difficile interpretazione/esecuzione). • LA SOGGETTIVITÀ LIRICA. Nelle liriche EGO canta il suo desiderio per un oggetto irraggiungibile (una donna), secondo il codice della fin’amors. EGO non è il portavoce della biografia sentimentale di un Io empirico. Le liriche nel qui e ora della performance sono percepite come frammenti di un discorso collettivo che creano una comunità testuale, compatta ma attraversata da posizioni formali-ideologiche dialettiche e, talvolta, conflittuali. • LO SPERIMENTALISMO FORMALE. L’esperienza della forma è il cuore della creazione lirica e della sua performance. La maestria di un poeta coincide con la sua abilità nel maneggiare gli strumenti metrico-retorici, musicali e semantici dell’ars poetica. I trovatori elaborarono un sofisticato codice formale basato sui criteri – tradotti dalla metrica mediolatina – della regolarità sillabica del verso e della sequenza degli ictus; posero attenzione alla composizione dell’unità di suono, ritmo e senso (cobla), sperimentandone possibilità di costruzione (con versi di varia misura) e concatenazione; si impegnarono nella tessitura fonica delle rime. Alcune trattati duecenteschi sistemarono in senso normativo la tradizione formale: il Donatz proensals di Uc Faidit (Italia, 1243). • CONSERVAZIONE/TRASMISSIONE. Sparuta è la documentazione diretta sui modi di produzione/trasmissione delle raccolte (antologie) che dovettero confluire negli attuali canzonieri, che sono per tre quarti di produzione extraprovenzale (50 italiani, in area padana), e tutti posteriori al 1250. 46 5.2.2.2 Ai generi elencati nella trattatistica antica non corrispondono forme metriche specifiche, diverse dalla serie di coblas (spesso chiusa dalla tornada); sono minoritarie le forme che prevedono un ritornello affidato al coro (ballata, danza); le forme prive di ritornello si distinguono: • Per il tema erotico: o La canso / canzone fu il genere più importante ed elevato, luogo delle sperimentazioni più impegnate: melodia sempre originale, lingua scelta, metrica sicura. o La lode di Midonz e le figure della fin’amors sono i suoi temi. Sui generis è l’alba, che per il tema (la separazione degli amanti dopo una notte d’amore) prevede l’annullamento della distanza fra l’uomo e Midonz (e il passaggio sottinteso dal desiderio di godimento). o Ai margini sta la pastorela: forma di origine incerta (riuso colto di uno schema popolare?), il cui nucleo narrativo, l’incontro en plein air fra un cavaliere e una pastora (e l’alterno risultato della seduzione) genera una relazione inversa a quella della canso: l’asimmetria fra il cavaliere e la donna, fin troppo avvicinabile (diversamente da Midonz) nello spazio naturale suggerisce una sorta di vacanza del cavaliere dalla Legge cortese. • Perché affrontano temi di altra natura: o Il sirventes è una canso che utilizza melodia e schema metrico esistenti per affrontare temi argomentativi: politica (l’azione militare), polemica letteraria, satira morale e sociale. Le varianti sono di contenuto: il sirventes-canso (che alterna temi amorosi e politico-morali); il gap/vanto. o Il planh/compianto (funebre); Bertran de Born (m. ante 1215) e Peire Cardenal (m. 1278) sono gli autori più rilevanti. I sirventesi sono monodici; ma nella stessa area si dispongono generi a più voci, su questioni relative alla cortesia: la tensio, dibattito a strofe alterne. o Il partimen, in cui la prima voce propone un’alternativa, difendendo poi la soluzione scartata dall’avversario. 5.2.2.3 La natura impersonale di EGO ha sempre colpito l’attenzione dei lettori moderni: Friedrich Diez (1826) ammetteva la possibilità di leggere tutti i testi come opera di un solo autore: i poeti provenzali (e i loro eredi) evitavano riletture individuali della fin’amors, giocando sulla combinazione di elementi formali e tematici noti: “quando più vago, ripetitivo e tradizionale è il messaggio, tanto meglio esso si presta a dare voce a valori comuni”. Questo non significa che non sia possibile evidenziare specifici “nodi”, oggetto di dibattito fra più voci, e figure individuali. • CANTO E CUORE, CUORE E CORPO. Bernard de Ventadorn è considerato il più limpido esecutore della canso “classica”, per la selezione di temi, lessico, figure retoriche; egli insiste sulla condizione bipolare di EGO, fra desiderio e tremore, euforia e sofferenza amorosa, e sulla relazione causale fra cor / cuore, e chans / canto. La connessione fra desiderio e canto implica che la rottura del primo possa portare il poeta al silenzio: in Can vei la lauzeta mover EGO, disperato per una domna priva di merces, rinuncia al servitium e quindi al canto. La canzone è diretta a Tristans, senhal di Raimbaut d’Aurenga, forse come risposta a Non chant per auzel ni per flor, nella quale si propone a Carestia di abbandonare un servitium senza speranze per dedicarsi a una dama che ricambi concretamente l’amore e che, come Isotta, finga con il marito per darsi all’amante. Il più celebre intreccio cortese non è citato per caso: esplicita la relazione privativa che nella fin’amors lega cor /corpo; al marito spetta il godimento (il corpo della moglie), agli amanti il desiderio (del cuore, essendo il corpo innavvicinabile). 47 Ne D’amors, qui m’a tolu a moi, Chretien de Troyes accetta il rischio, invece, di un servitium privo di ricompensa, purché sia l’esito di una libera scelta amorosa (e non di un filtro). • LIBERTINAGGIO E GRANDE FEUDALITÀ. La posizione “libertina” di Raimbaut è spesso correlata alla sua condizione signorile, affine a quella di Guglielmo IX (in cui l’ortodossia cortese convive con la celebrazione del godimento) polemizzarono Jaufre Rudel e Marcabru. Il primo distillò nel sintagma “l’amore di lontano” il paradosso della fin’amors: la distanza dall’oggetto come condizione necessaria all’amore. Il secondo, polemista dagli accenti religiosi, vide nel conte un fautore della fals’amors / amore falso, un molherat marito che si appropria della fin’amors pervertendola al godimento. Uno stile violentemente polemico (che unisce dettato difficile e oscenità) è al servizio di tematizzazioni non interpretabili univocamente: Marcabru è per alcuni poeta di un’idea dell’amore vicina al misticismo cisterciense, per altri il difensore delle ragioni dei soudadiers, gli iuvenes a libro paga dei rics ricchi, che rivendicano la centralità dei loro valori (a cominciare dalla generosità a cui i grandi sono tenuti verso cavalieri e piccoli nobili). • TROBAR CLUS E TROBAR LEU. Nel 1170 ca. Raimbaut e Giraut discussero sula natura dello stile. In Ara-m platz, Giraut de Borneill il primo difese il robar clus, la poesia chiusa, accessibile a pochi; Giraut il trobar leu, uno stile facile, ma non meno impegnativo per il trovatore. In Macabru il discorso oscuro di cui si fa esplicito promotore, investe la dimensione del senso; altra cosa pare il trobar ric (che per esempio caratterizza le liriche di Raimbaut), uno stile fortemente elaborato ma non in funzione della densità semantica; si potrebbe allora pensare che Giraut puntasse a una forma più comunicativa per la sua riflessione. Peraltro, se le sue cansos indicano sul piano tematico il superamento della dimensione sociale della fin’amors, a favore della riduzione della metafora amorosa a puro limite dell’azione del soggetto. La ricerca di densità fonosimbolica e di schemi rimici inusitati fu la lezione recuperata e celebrata da Dante. 5.2.3.1 Dopo Arnaut Daniel, fra 1180 e 1215, la lirica d’oc si assestò in una medietas tematica e stilistica che, insieme all’erraticità dei trovatori, la potenza comunicativa delle performances, l’egemonia dei valori, favorì le sue translationes fuori dalla società signorile del Midi. Nel movimento del centro alle periferie il trapianto si replicò in processi di adattamento/rielaborazione di significati e significanti: • La fin’amors perse la sua valenza sociale, riducendosi alla sfera erotica; • Il repertorio dei generi si semplificò a vantaggio della canzone; • La lirica pura (sganciata dal mondo non scritto) guadagnò terreno sulla poesia di impostazione dottrinale o morale (con alcune importanti eccezioni: i modi di Marcabru riapparve p. es. nella poesia di Guittone); • Le soluzioni metrico-strofiche si fecero meno complesse e varie. Ma la storia della lirica cortese non va ridotta alla mera imitazione del modello occitanico: ogni variante locale presenta caratteri innovativi e individuali. 5.2.3.2 La lirica in francese si sviluppò fra Champagne e la contea di Fiandra nella metà del XII secolo: i trovieri diedero voce a una tradizione vitale fino ai primi del Trecento, fondata diedero voce a una tradizione vitale fino ai primi del Trecento, fondata sul Grand chant courtois / grande canto cortese, la canzone costruita variando un numero limitato di temi convenzionali (spesso vincolati alle figure della sofferenza per l’amore non ricambiato): è una poésie formelle / poesia formale in cui il significante (ritmi, sequenze foniche ecc.) conta più della consistenza semantica del testo. Ebbero una certa fortuna anche la pastorella, e la canzone di crociata (nata con Marcabru, e articolata al Nord intrecciando tema religioso e motivi di fin’amors o tratti dalla chanson de femme): scarso fu l'interesse per i temi da sirventese. La diffusione del jeu-parti è indice di un'interessante mutamento sociologico: nei primi decenni del XIII secolo la poesia inizio a essere oggetto di interesse per il patriziato borghese delle città; ne sono testimonianza la produzione di Colin Muset e la creazione dei Puys (> lat. Podium, società che organizzava concorsi nei quali poeti di estrazione borghese dialogavano a distanza con gli aristocratici). Signori furono alcuni fra i poeti più significativi. Grande feudatario fu Thibaut de Champagne (m. 1253): il poeta più rilevante della seconda generazione, accostato per il gusto sperimentale a Guglielmo IX e Raimbaut d’Aurenga; si dedicò ai generi diversi, canzoni (di impostazione ortodossa: l’abbandono di EGO alla prigionia amorosa per una Belle dame sans merci), jeux-partis, pastorelle, e canzoni di crociata. 5.2.3.3 • IN CATALOGNA. Precocemente (e fino a inizio XV sec.) i poeti catalani utilizzarono la lingua d’oc e il repertorio tematico-formale trobadorico; la scelta può essere giustificata dall’affinità fra le due parlate e da ragioni politiche: nel 1166 Alfonso II d’Aragona divenne conte di Provenza, e per decenni le vicende del regno e del Midi furono una cosa sola. È folta la schiera di poeti registrati nei canzonieri occitanici: Guerau de Cabrera, Cerveri de Girona. 50 • Gli intrecci manipolano materiali tradizionali. Il rapimento di Ginevra richiama un aithed celtico (il rapimento della moglie del capo), e la prova del Ponte della Spada all’ingresso di Gorre, che Lancillotto attraversa per liberarla, ricorda altri ingressi nell’Aldilà. E poi c’è il graal. Non abbiamo certezze sulla protostoria del Conte, ma è la prima apparizione dell’oggetto e del nome: prima del Conte il buio. Il graal è un comune piatto di portata, che l’eremita definisce una “santa cosa” (contiene l’ostia di cui si nutre il padre del Re pescatore), e che peraltro ha un’aria di famiglia con quei recipienti posseduti da dei, semidei ed eroi celtici passati per l’Altro Mondo, generatori di nutrimento e bevande; la lancia che appare nel Castello del graal è un talismano dell’Altro mondo, arma divina e regale; alle spalle del Re pescatore si riconoscono (semi)dei acquatici celtici, come Nuadu (pescatore), o Bran il Benedetto (signore dell’Altro Mondo, possessore di un corno dell’abbondanza e di un calderone inesauribile, costretto a rinunciare al regno per una ferita di lancia al piede). È evidente nel Conte la cristianizzazione degli elementi etnici, condotta in modo da potenziarne l’aura: con calcolata ambiguità, il narratore tiene Perceval e destinatari nella stessa ignoranza, svelando contemporaneamente a entrambi i dettagli, sfruttando così l’effetto di meraviglia. 5.4.2.2 Chretien usò i materiali “tradizionali” e lo schema dell’aventure per una riflessione sui valori cortesi. Lo schema dell’aventure, prova / superamento, mantiene una fisionomia tradizionale ma è giocato in situazioni più articolate e complesse. • In Erec et Enide, Yvain e nel Conte l’intreccio si muove in tre tempi: o Una serie di vicende porta l’eroe al successo mondano. o Egli acquista consapevolezza di un errore o di una colpa, che annulla la sua buona sorte. o Intraprende quindi una nuova queste per correggere l’errore e recuperare la felicità perduta. In Erec e Yvain lo schema è funzionale a problematizzare la relazione fra conquista di una posizione nel mondo, rispetto dei codici sociali e felicità sentimentale: quest’ultima, raggiunta grazie alla stessa aventure, può confliggere con il dover-essere del cavaliere (Erec fa i conti con l’accusa di “ritrarsi” come i vili, che dopo il matrimonio circola fra i cavalieri della masnada), e solo il ritorno all’erranza permette la ricomposizione del confitto e una nuova consapevolezza. Nel Conte il cuore è il senso della formazione del cavaliere: Perceval cerca la sua autorealizzazione nella carriera di cavaliere, e aventure dopo aventure acquista un perfezionamento tutto esteriore, che frana nell’incontro con la Laida damigella; il rinfaccio dell’errore commesso al Castello del graal (la domanda non posta), e della sua radice morale (la mancanza di charitas verso la madre) apre al terzo tempo, costringendo Perceval alla queste di un tot el, un tutt’altro d’ordine spirituale. • La Lancelot e nel Conte 2 linee di intreccio contemporanee si alternano nel discorso narrativo; il dispositivo permette implicitamente di comparare le virtù dei personaggi; e forse non è un caso che Lancillotto e Perceval abbiamo in Gauvain il deuteragonista: esempio di cavaliere provvisto di tutte le virtù, ma incapace di desideri squilibranti, di mancanze e di cadute che gli permettano di raggiungere mete più lontane.
BOX13
I romanzi di Chrétien de Troyes
Erec et Enide — Alla corte di Artù si celebra la con-
suetudine della caccia al cervo bianco, distur-
bata dallo schiaffo del nano di Ydier a Erec, che
insegue il suo padrone, lo sconfigge in duello a
Laluth, e ottiene in premio lo sparviero che toc-
ca pure a colei che è giudicata la più bella, Eni-
de. Erec la conduce come sua fidanzata presso
la corte di Artù, che le dà il bacio che, secondo
la consuetudine del cervo bianco, spetta alla più
bella. Il matrimonio fra i due è sfarzoso, poi la
coppia si trasferisce nel regno del padre di Erec.
Lì il giovane trascura per la moglie i suoi doveri di
cavaliere, cosa che non passa inosservata ai suoi
cavalieri e alla moglie; conosciuta l'accusa di re-
creantise, Erec parte all'avventura, accompagnato
da Enide, che si impegna a tacere di fronte al pe-
ricolo. | due affrontano più avventure, durante le
quali Enide contravviene regolarmente al divieto;
l'ultima è la più pericolosa: nella Joie de la Cour /
Gioia della corte, Erec affronta il gigante Mabo-
agrain, e sconfiggendolo scioglie l'incantesimo
imposto dalla sua amica. Tornati a corte, Erec è in-
formato della morte del padre Lac, e si fa incoro-
nare da Artù a Nantes, fra grandi feste.
Cligés — Alexandre, figlio dell'imperatore di Co-
stantinopoli, raggiunge la corte di Artù per la sua
formazione cavalleresca; durante un viaggio in
Bretagna si innamora di Soredamor, damigella di
Ginevra, che contraccambia; dopo la guerra con-
tro il conte di Windsor, che si è ribellato, i due si
fidanzano e si sposano; nasce Cligès. A Costanti
nopoli muore l'imperatore, e il secondogenito,
Alis, sale sul trono per una falsa notizia sulla mor-
te di Alexandre; quando questi torna a rivendica
re la corona, i fratelli raggiungono un accordo: Alis
regnerà senza sposarsi, e alla sua morte il pote-
re passerà a Cligès. Ma i baroni vogliono altrimen-
ti: hanno scelto per Alis la figlia dell'imperatore di
Germania, Fénice, che si innamora di Cligès, invia-
to per condurla a Bisanzio, senza che nessuno dei
due si dichiari; ma Fénice disprezza il destino, im-
posto a Isotta, di spartizione di corpo e cuore: gra-
zie all'abilità della nutrice Tessala in fatto di filtri,
conserva la sua verginità per Cligès (dando ad Alis
l'illusione del pieno appagamento). Dopo diverse
imprese Cligès si dichiara, lei ricambia, e decido-
no un piano: un filtro di Tessala porterà la giovane
alla catalessi, ci sarà il funerale e poi, al risveglio, i
due saranno liberi. Il piano funziona (nonostante i
dubbi dei medici salernitani, che ne tormentano
le spoglie), e i due possono finalmente amarsi in
una casa appositamente costruita; ma un giorno
vengono scoperti: fuggono da Artù, mentre Alis
‘organizza un esercito e la vendetta, ma muore pri-
ma di passare all'azione. Matrimonio.
Le Chevalier de la Charrette - Durante il giorno
dell'Ascensione Meleagant di Gorre rapisce Gine-
vra; Galvano, partito in cerca, incontra un cava-
liere sconosciuto, disposto a salire sulla carretta
dei delinquenti pur di avere notizie della regina;
la sera egli dorme sul letto proibito del Castello
della Lancia infiammata. Il giorno seguente i due
si dividono: per entrare a Gorre, Galvano attraver-
sa il Ponte sotto l'acqua, il cavaliere il Ponte della
Spada, e trascorre la notte presso una castellana
di cui si proibisce le grazie. Poi affronta il suo pre-
tendente, ma il padre di costui aggiorna il duello;
nel Cimitero futuro apre la sua tomba, e si rivela
l'eletto Salvatore dei prigionieri di Logres a Gor-
re; il quinto giorno taglia la testa all'Orgoglioso, il
sesto è accolto dal re Baudemagu di Gorre; il set-
timo affronta Meleagant, duello interrotto e ag-
giornato da Baudemagu, e dice a Ginevra il suo
nome, Lancillotto; nei due giorni successivi egli
passa dal tentativo di suicidio (teme morta la re-
gina) al piacere più squisito (passa la notte con
lei); il mattino seguente, Meleagant trova del san-
que nelle lenzuola, accusa Keu di adulterio (dor-
miva nel letto accanto alla regina), ha un nuovo
duello con Lancillotto, interrotto da Baudemagu;
Lancillotto, partito alla ricerca di Galvano, è in-
trappolato dal nano di Meleagant. Dopo che tut-
ti i prigionieri sono rientrati a Logres, Lancillotto,
prigioniero del siniscalco di Meleagant, partecipa
in incognito (il Cavaliere Vermiglio) a un torneo;
poi torna in prigione: Meleagant lo mura in una
torre, poi fissa con Artù il termine per il duello;
l'ultimo giorno utile Lancillotto, liberato dalla so-
rella di Meleagant, lo affronta e lo uccide.
Le Chevalier au lion — Pentecoste, alla corte di Ar-
tù. Incuriosito dall'avventura fallimentare del cu-
gino Calogrenant, Yvain la ripete : nella radura di
51
52 5.4.2.3 In tutti i romanzi (un po’ meno nel Conte) l’amore da l’innesco all’azione; la grammatica è quella della fin’amors: il dominio dell’eros è esplorato da più versanti, compreso quello del suo seducente potenziale distruttivo. L’incompiuto Lancelot è costruito su un solo episodio, forse estratto da una biografia nota al pubblico e perduta: il rapimento di Ginevra da parte di Meleagant di Gorre, e la liberazione da parte dell’amante. Nella queste, condotta in uno stato di trance estetica per l’oggetto del suo desiderio, Lancillotto acquista lo stigma del perfetto amante, vincolato al servitium di Midonz fino all’umiliazione. 5.4.2.4 Il discorso di Chretien è, in superficie, quello dell’iniziazione alla cavalleria come professione delle armi e codice etico debolmente intriso di valori religiosi; ma per Perceval la maturazione professionale coincide con la progressiva conquista di un’autonomia morale: dopo aver abbandonato la madre (e averne così causato la morte) egli passa di 55 La saturazione del cronotopo arturiano nella Vulgata non bloccò l’immaginazione narrativa, che procedette sfruttando le possibilità implicite offerte dall’entrelacement, sviluppando le ramificazioni laterali dell’intreccio. Il Tristan e il Guiron hanno un minor respiro ideologico e formale: l’intreccio non si fa leggere a più livelli, e la struttura evita l’entrelacement concatenando capsule narrative all’interno di una narrazione-cornice o di uno schema biografico (Tristan). 5.5.3.1 Le evidenze più antiche di una ricezione arturiana in Iberia sono, a fine Duecento, in alcune cantigas di Alfonso X e di don Dinis. Il codice del Livro e Jose de Arimateria galego (1527/1551) riferisce il nome di un traduttore dal francese, Joam Vivas. Per i più punto di inizio è Joam Vivas, identificato in un monaco galiziano attivo alla corte lisboeta a metà del XIII secolo; altri tendono a considerarlo un castigliano; per tutti, i testi rinviano a una precoce ricezione, nei decenni successivi alla produzione francese. Anche la Vulgata circolò nei regni iberici: Pietro IV d’Aragona fece tradurre in catalano la Queste; il Lancelot conobbe a metà Trecento versioni in galego, catalano e castigliano. 5.5.3.2 Una lettera della Cancelleria di Federico II su una copia del Guiron attesta al 1240 la presenza di codici di romanzi in Italia. Codici esistenti testimoniano una fortuna continua dei testi francesi fino al Quattrocento e oltre, specie nelle corti padane; gli inventari viscontei ed estensi parlano di una decisa predilezione per la materia arturiana (i Gonzaga preferivano l’epica), e spicca il caso degli Este: 25 dei 53 titoli francesi nell’inventario 1436 sono di romanzi, 15 arturiani. I codici conservano in molti casi episodi singoli o in serie: come se copisti e lettori preferissero il frammento. Per Dante (Inferno, V) lo sviluppo narrativo della fin’amors coincideva con il Lancelot; così accade per Petrarca: che ne utilizza qualche motivo nel Canzoniere. Del Tristan in prosa sono note invece 3 versioni: il Tristano riccardiano (Toscana, 1280/1300), il Tristano veneto (Venezia, inizio XIV) e il Tristano corsiniano (Venezia, XIV sec.); i codici che le conservano sono tutti di produzione mercantesca (compreso il frammento nello Zibaldone da Canal). Più ragioni forse rendevano il Tristan “alla portata di una borghesia con nostalgie cavalleresche”: la sua struttura biografica era più maneggiabile del racconto a entrelacement; la fole amor di Tristano è addomesticata dalla sua integrazione nella corte arturiana, mentre in Lancelot è evocata in tutta la sua inquietante potenza. 5.6 Una koiné aristocratica 5.6.1 La letteratura fu lo strumento per la creazione di una koiné cavalleresco-cortese, una grammatica simbolica capce di modellare l’identità e lo stile di vita dei ceti nobili delle corti regie europee; in Italia fu attiva nelle corti feudali padane già a inizio XIII secolo, e dal 1250 nel paesaggio urbano, quando molte città settentrionali si diedero un assetto signorile e nel Centro un nuovo patriziato popolare (i ceti mercantili, gli artigiani) si sostituì ai milites nel governo dei comuni; il fascino dei valori cavalleresco-cortesi colpiva sia i milites sia il populus: per i primi appartenere alla militia vuol dire anche esibire uno stile di vita; e la cortezia non era ignota agli intellettuali usciti dal populus. I dinamismi di fine XIII-metà XIV secolo (la formazione di un patriziato estraneo alla militia, l’ascesa al potere del populus, l’uso di milizie mercenarie) non intaccarono il valore dello status di cavaliere, che rimaneva necessario per accadere alle cariche di governo. Nelle occasioni festive l’ethos signorile poteva manifestarsi compiutamente: era il momento in cui le brigate nobili e cortesi potevano rivestire i panni degli antichi cavalieri, e cavalcare per la città, ribadendo la distinzione che li separava dai semplici borghesi. I temi letterari trovavano spazio nella decorazione di oggetti d’uso quotidiano e nell’illustrazione murale di abitazioni, e di edifici pubblici. 5.6.2 Alla formazione della koiné contribuirono dei testi prescrittivi delle regole della vita in società, dal contegno a tavola fino al governo degli uomini. È possibile riconoscere alcune serie: • SAPER VIVERE. Il De quinquaginta curialitatibus ad mensam di Bonvesin de la Riva è forse il miglior esemplare delle cortesie a tavola galloromanze. • ENSENHAMENS. Sono testi occitanici in versi (in forma dialogica all’interno di una cornice narrativa) che descrivono le regole della cortezia, per vari destinatari: sulle dame si concentra Garin lo Brun. • LE ARTES AMANDI. Nel XIIsecolo testi latini e volgari assunsero come tema la natura dell’amore, condividendo forma (il dibattito) e cornice narrativa: due fanciulle, innamorate l’una di un chierico, l’altra di un cavaliere, discutono in un giardino su chi sia l’amante preferibile (di solito il chierico). Le traduzioni di Chretien de Troyes dei Remedia amoris e dell’Ars amatoria sono la precoce testimonianza della volgarizzazione di Ovidio, che durò per tutto il XIII secolo (pure in Italia). 56 • L’EDUCAZIONE DEI RE E IL GOVERNO EGLI UOMINI. Al potenziamento delle curiae regie corrispose nel XIII secolo la redazione di trattati sul governo. Molto letti e tradotti furono il Secretum Secretorum di origine orientale (tradotto in latino ante 1240). 5.7. Il romanzo nell’autunno della cavalleria 5.7.1 Le manifestazioni italiane della koiné toccarono la cavalleria e la nobiltà nel tardo Medioevo europeo. I punti essenziali: • La superiorità militare dei cavalieri iniziò a declinare nel Trecento, a causa di cocenti sconfitte per opera di reparti di fanteria. • La guerra a cavallo resta cosa di iuvenes, ma si colgono importanti discontinuità con il passato, in particolare nella mitografia dei capitani d’armati della Guerra dei cent’anni (1339-1453 ca.). Bertrand du Guesclin (m. 1380), piccolo nobile bretone, per le vittime e la fedeltà a Carlo V ascese al rango di Connestabile (ruolo riservato ai grandi del regno). Eroi da romanzo, erano servitori della monarchia e del suo potere, che fra Due e Trecento si rafforzò ai danni della nobiltà feudale, usando per le funzioni amministrative i borghesi più ricchi (che puntavano alla nobilitazione), e valorizzò la fedeltà più che l’autonomia signorile. • La cavalleria si dimostrò “struttura simbolica” di riferimento per la nobiltà e per la borghesia, in un continuo scambio fra effettuale e immaginale. Il caso degli Ordini cavallereschi è istruttivo: l’Ordine della Giarrettiera inglese, l’Ordine della Stella francese, l’Ordine del Toson d’Oro borgognone (erano “club” ristretti utilissimi per il sovrano, che gli garantivano relazioni stabili con i nominati e li tenevano sotto il proprio controllo. Edoardo III festeggiò la fondazione del Garter con un torneo in memoria della Tavola rotonda; tutti gli ordini si richiamano direttamente e causalmente alla tradizione cavalleresca. Il passato è chiamato a legittimare il presente, e il presente cerca il proprio senso nell’imitazione del passato. • Sullo sfondo del potere modellizzante della letteratura cortese c’è il fatto che aristocratici e ricchi borghesi potevano accedere a una biblioteca volgare che permetteva di investire di senso il mondo non scritto. o La genealogia poteva fondarsi sull’invenzione narrativa: nel 1329 Edoardo III utilizzò pure una profezia di Merlino per reclamare la reggenza di Francia. o Il cerimoniale pubblico (banchetti e feste, tornei) si conformava a schemi ricavati dai romanzi, descritti nelle cronache. 5.7.2 Nel Livre du Chevalier errant di Tommaso III di Saluzzo. Storiografica e racconto d’invenzione tendevano a sovrapporsi nei modi rappresentativi: si trovarono a fare i conti con un passato che nei testi era tanto vicino per la sua continuità linguistica con il presente ma tanto lontano da non essere immediatamente interpretabile; il suo recupero richiedeva la modernizzazione della forma. • IL DERIMAGE. Il grado 0 della fenomenologia romanzesca è il dérimage/prosificazione, che attualizza una forma (linguistica/metrica) percepita come arcaica. All’inizio del Trecento il Conte de la Charrette inaugura le prosificazioni da Chretien de Troyes (di metà Quattrocento sono il Cligés e l’Erec). Talvolta l’aggiornamento non fu solo formale: alcune delle versioni in prosa dell’Historia Apollonii regis Tyri sono farcite di interpolazioni in cui Apollonio fu quello che nel romanzo latino non fa mai: combatte a cavallo. Le prosificazioni aprirono la via alla fortuna a stampa dei romanzi. • ARTÙ. Nel XV secolo la materia arturiana, ormai priva di vitalità creativa, si ripeté nelle compilazioni. (la Morte Darthur, 1485). • IL ROMANZO CAVALLERESCO. Nello spazio liberato dalla materia arturiana si accampò nel XV secolo il romanzo cavalleresco: la biografia di un cavaliere errante attivo nel cronotopo contemporaneo. Attecchì in Francia meridionale e nordorientale, e determinò la produzione iberica: fra gli esemplari più interessanti si annoverano il Pierre de Provence et la belle Maguelonne. Nella loro struttura genealogica e nei modi di ricezione si individuano alcune costanti. o L’intreccio coincide con la biografia dell’eroe eponimo (personaggio inventato o storico), modellata in una serie di aventures (o nello schema ellenistico della separazione degli amanti) il cui esito è la trasformazione dello iuvenis in casatus, grazie a un’unione ipergamica (spesso fondativa di un lignaggio) che permette la fusione fra valore cavalleresco e felicità amorosa. o La sociosfera resta quella della tradizione romanzesca; lo spazio del cronotopo subisce invece un rimodellamento. Si fa grande attenzione alla precisione corografica, specie quando l’intreccio si sposta nel Mediterraneo orientale; molta cura è posta nella precisazione delle coordinate temporali dell’azione, nella descrizione dei dettagli di vita quotidiana. 57 o Gaucher 1994 e Varvaro 2002 rintracciano le radici storiche del genere nelle narrazioni genealogiche sui lignaggi e i loro antenati; in testi come l’Histoire de Guillaume le Marechal assumono modi e temi del romanzo. Il fratto che la “biografia” di Boucicaut si assimilabile per forma e funzionamento a intrecci d’invenzione come il Pierre de Provence è indica di un continuum cognitivo: la nostra distinzione sul loro statuto non era percepita come significativa, perché non si puntava alla ricostruzione esatta della biografia, ma alla costruzione di un personaggio esemplare. o La più parte dei romanzi cavallereschi fu composta in Borgogna e circolò in copie prodotte su commissione dei vassalli/cortigiani di Filippo il Buono; i loro protagonisti erano spesso figure significative di lignaggi ducali, e i testi erano funzionali alla politica culturale del Duca. L’accoppiamento fra schema tradizionale dell’aventure e realismo descrittivo permetteva ai lettori di “leggere” il reale con le lenti dell’immaginario: nel Tirant lo Blanch Martorell mescolò le aventures arturiane con personaggi modellati su cavalieri contemporanei. o Tutti i testi rinunciano all’entrelacement in favore di uno schema molineare nella costruzione della biografia. 5.7.3 Le novità più interessanti per la forma-romanzo sono nell’Italia padana della seconda metà del XV secolo, fra l’incompiuto Inamoramento de Orlando di Matteo Maria Boiardo (1483-1495) e la giunta dell’Orlando furioso (1516- 1531) di Ludovico Ariosto. È difficile sostenere che l’interesse padano per il mondo di Artù fosse solo di natura nostalgica e in funzione mitizzante; e il versante letterario di quell’interesse si caratterizza per alcune novità. • Boiardo e Ariosto rinunciarono alla prosa a favore dell’ottava narrativa: per entrambi è il segno di una fedeltà alla tradizione più popolare. • L’ottava contemplava la possibilità di mescolare alto e basso, serio e comico. Sono gli eroi epici a installarsi negli schemi del romanzo. • I modi della narrazione: o La rifocalizzazione romanzesca dell’intreccio spinge la geste, il conflitto coi saraceni, su uno sfondo da cui emerge periodicamente, lasciando spazio all’aventures dei singoli. Lo schema tipico è la queste: x insegue Y, senza riduzione della distanza fra loro. Come nel Lancelot, l’intreccio disegna una struttura acentrica, agitata da una forza centrifuga potenzialmente senza limite. o La scelta di un intreccio acentrico impone l’attenzione sul montaggio e sull’orchestrazione temporale delle linee d’azione: da qui il recupero, in Boiardo e Ariosto, dell’entrelacement. Ma l’orchestrazione del tempo ha nel romanzo in ottava funzione ed esiti differenti; nella Vulgata si trattava di governare la temporalità “oggettiva”, nei romanzi italiani lo stacco e l’intreccio fra una linea d’azione e l’altra avviene molto spesso nel momento di massima tensione della prima: il che comporta un gioco illusionistico, che blocca il tempo dei personaggi. Il tempo perde il suo carattere lineare. o Il ritmo dell’azione si fa dominante sulla motivazione interiore: la velocità della narrazione accelera; i personaggi non hanno spessore psicologico. 5.7.4 L’elite feudale insisteva nel culto dei valori cavallereschi, e nella loro teatralizzazione, per reagire alla crisi di potenza economica e politico-militare. Nei dispositivi del manierismo tardocortese troviamo dunque i segni di una negoziazione fra il principe e i nobili: questi si stanno trasformando in cortigiani, strumenti della sua volontà, ma la progressiva perdita di autonomia è compensata dalla vitalità della macchina mitografica, che li mantiene al centro. La potenza mitografica della cavalleria fu messa in crisi nel Cinquecento dall’umanesimo europeo: Cervantes. 60 degli intrecci, dipendenti dalla logica del narrare e da persistenti universali antropologici. Ma qui interessano i tratti formali che accomunano l’ibrida varietà del racconto breve medievale, permettendo di marcarne la differenza dai generi narrativi lunghi. • Sono racconti che in misura diversa rispondono ai principi della brevitas fissati fra Antico e Medioevo: linearità dell’intreccio (un solo evento), in cui si esauriscono le potenzialità implicite nell’inizio; misurabilità della brevitas: il numero limitato di personaggi, l’assenza di digressioni amplificatorie o di sottotrame spingono “naturalmente” l’intreccio verso la conclusione, spesso marcata dalla battuta in cui precipita il suo senso; la dominanza dell’intrattenimento sulle ragioni pedagogiche: anche nelle legendae e negli exempla si riconosce il piacere nel narrare, sempre più forte grazie anche alla laicizzazione delle forme (XII-XIII sec.), e al loro sottrarsi al vincolo della moralità (proprio di exempla, legendae e zooepica). Questi tratti riconducono il racconto breve alla sua dimensione orale. Gli intrecci passano da una forma all’altra (un exemplum si trasforma in un fabliau, e il fabliau in materia per una novella), e in questo passaggio si coglie lo scambio e il “collezionismo dei motivi narrabili”, legati alla conversazione quotidiana, urbana e non solo: la “ripetizione con continue varianti” (e riassestamenti del senso) caratterizza il narrabile in quanto tale, che si presenta sempre “come racconto d’un racconto, udito dal narratore che lo ripete per noi”. • Il racconto breve appartiene al registro humilis, ma è capace di svariare fra il comico e il drammatico (con una propensione per il primo), di riusare materiali di origine diversa, e di muoversi fra varie sociosfere, riuscendo pure a qualificarle linguisticamente, e aderendo alla mutevolezza del “mondo non scritto”. Il racconto breve punta all’individualità delle situazioni: specificazioni di tempi e luoghi, ancoraggio a personaggi reali, attenzione al dettaglio concreto e all’effetto di reale. • La brevità favorisce la seriazione, esterna/interna. Fabliaux, lais e favore animali sono raccolti in codici- collezione, e raccolte unitarie sono i leggendari; una volontà di serie si riconosce nelle collezioni volgari dei miracoli e nel Novellino (per la presenza di interventi metadiegetici); quelle di exempla sono ordinate su base tematica. Nel Roman de Renart la soluzione delle branches da organizzazione intradiegetica a intrecci che conservano una netta individualità: richiamano la dialettica fra episodio e macrostruttura, con la differenza che nel Renart non c’è nessuna tensione e sviluppo d’intreccio fra gli episodi, ma una mera giustapposizione di capsule narrative montabili a piacere. • Il modo di seriazione interno che più manifesta la volontà autoriale di chiudere in un oggetto una pluralità di intrecci è il racconto-cornice: un congegno in cui ogni racconto è l’esito della narrazione di personaggi che agiscono nell’intreccio-contenitore di tutti gli altri. Viktor B. Sklovskij: o Narrare per allontanare un pericolo (Decameron); questo primo tipo produce esiti sofisticati. o Narrare per insegnare (Disciplina clericalis); questa seconda tipologia di narrazione è il meno attraente, ed è attestato in collezioni di exempla o religiose: privo di sostanza narrativa, permette di inanellare gli exempla secondo la formula “domanda dell’allievo - risposta del maestro con exemplum – domanda dell’allievo” fino alla chiusura della serie. o Narrare per intrattenere (Decameron), specie in viaggio (Geoffrey Chaucer, Canterbury Tales). 6.3.2.1 In Francia fra fine XII e metà XIV secolo il racconto breve mantenne l’uso dell’octosyllabe, e ampliò la materia narrabile alla sociosfera non cortese, grazie alla zooepica e ai fabliaux. In ambito cortese, dopo Marie de France, e oltre… • A testi anonimi duecenteschi di materia celtica; • Ai racconti estratti dalle Metamorfosi ovidiane; • Il lemma lai fu applicato a narrazioni estranee al meraviglioso etnico (come il Lai de l’Ombre di jean Renart); • Il lemma lai fu applicato a narrazioni segnate da una riflessione disincantata sulla fin’amors e sull’ethos cortese (il Lai d’Ignauré espone il lato corporeo del tema del cuore mangiato). In area occitanica, vidas dei trovatori e razos delle canzoni sono il primo esempio volgare di narrazione a funzione esplicativa; l’egemonia della tradizione trobadorica sulla narrazione si riconosce pure nelle novas (novum “notizie”), poche e centrate su temi legati alla lirica: le novas drammatizzano i contenuti della fin’amors (con particolare attenzione alla gelosia). 6.3.2.2 Il racconto-cornice migrò dall’India in Al-Andalus per mediazione araba. Le raccolte iberiche di narrazioni brevi (latine o castigliane) sono versioni in prosa di originali arabi, dai quali mutuano la struttura e l’idea che il narrare racchiuda una forma di sapienza a chiave, estraibile dai congegni narrativi. Il prototipo è la Disciplina clericalis di Petrus Alfonsi, più volte tradotta: vi confluirono narrazioni di origine indiana o generate da massime arabe. La raccolta più affascinante è il Sendebar, che il prologo vuole tradotto dall’arabo nel 1253 per committenza di don Fadrique (fratello di Alfonso X, giustiziato per alto tradimento, 1277); il testo arabo, perduto, sarebbe l’ultimo di una 61 trafila “Est > Ovest” che avrebbe il suo capo in un originale sanscrito, o in una raccolta persiana del VI/IX sec., con versioni intermedie in siriaco, greco, ebraico, palhavi, e nelle Mille e una notte: tutte accomunate dall’intenzione di fornire materiali narrativi per l’educazione al buon governo, correlato alla sapienza ermeneutica del sovrano. Il punto di forza della raccolta è il racconto-cornice. • Suo leit-motiv è ritardare la morte, fatto che la apparenta con le Mille e una notte. • La cornice è costruita secondo un principio di mobile polifonia: i 9 narratori sono i portatori di punti di vista / interessi fra loro il conflitto, e il loro successo dipende dalla forza argomentativa degli exempla o cuentos selezionati. 6.3.3.1 La raccolta castigliana Calila e Dimna (1251) traduce la versione araba del Pancatantra sanscrito: il dialogo fra un re e un filosofo introduce alla descrizione degli intrighi di una corte, in cui un leone, il toro Senceba e due sciacalli, Calila e Dimna, si affrontano usando dei cuentos i cui protagonisti sono animali. Il Calila e Dimna rappresenta il canale iberico-orientale della circolazione romanza della favola animale. Il canale occidentale riguarda i testi attribuiti nel tardo Antico a Esopo, e derivati in gran parte dalla raccolta di Fedro (m. 50 ca.): narrazioni di vita quotidiana, che alla finzione animale affidano la valutazione morale sugli universali umani. Per la semplicità della lingua le favole entrarono assai presto nell’insegnamento (I sec. d.C.), e questo ne garantì il radicamento nella scuola carolingia. I più antichi esiti francesi (XII-XIII sec.) sono tutti in octosyllabe, come le 102 Fables di Marie de France (1170/1180) dipendono. Fra XIII e XV secolo si conoscono circa 20 versioni italiane in prosa o in versi, fra Veneto e Toscana: alcune paiono opera di laici membri di confraternite o scuole gravitanti intorno agli ordini mendicanti, che in un vivace stile popolare (e non senza errori di traduzione) ambientano gli intrecci nella vita quotidiana della città, e nelle sezioni morali si rifanno ai valori e alle esperienze confraternali. 6.3.3.2 Gli Esopi furono pure collettori di tradizioni estranee al nucleo greco-latino; spiccano le favole dedicate alla volpe Rainardus e alla sua rivalità con il lupo Ysengrinus nell’Ysengrinus di Nivardus di Gand (1148/1149), poema in distici elegiaci; nel 1175 ca. Pierre de Saint-Cloud ne ricavò un racconto in ca. 1400 octosyllabes, che aprì alla fortuna francese di Renart la volpe e del suo mondo animale (Ysengrin e la moglie Hersent, Noble il re leone, Chantecler il gallo, ecc.). Le sue avventure si organizzano in branches di diversa lunghezza che serializzano intrecci forse in origine autonomi. Il Renart è una costellazione di storie che tiene grazie al gioco combinatorio di un numero fisso di personaggi animali sempre uguali a loro stessi da una branche all’altra, alla ripetizione degli schemi narrativi, al proliferare di allusioni analettiche. Al centro fra il conflitto fra il lupo e la volpe: intorno ruotano le avventure minori, il cui schema tipico consiste negli inganni orditi con vario successo da Renart per impadronirsi degli altri animali e divorarli; pare lo stesso mondo delle favole latine e dell’Ysengrinus, ma il Renart rinvia a un ordine culturale diverso. Nei testi latini il conflitto è di ordine morale-intellettuale, fra uno sciocco e un saggio, e posto in un mondo dominato dal potere di Fortuna; le Fables di Marie de France modernizzano il conflitto, opponendo lealtà a fellonia; il Renart accentua la curvatura, parodizzando le chansons de geste: la volpe e il lupo sono barons, come gli animali alla corte del leone Noble, e i loro scontri sono descritti ricorrendo allo stile epico. Ma la parodia tocca pure i generi letterari, gli istituti laici e religiosi, lo stile aristogratico: motore dell’odio fra i due è la seduzione di Hersent da parte di Renart, che le si dichiara usando il lessico della fin’amors (ma pisciando in spregio sui suoi lupacchiotti, e poi prendendola con la violenza). Renart è provvisto di un nome e di un’intelligenza, ma come volpe (dal manto rosso, indizio demoniaco) ha pulsioni del tutto animali: saccheggia i pollai, si muove di notte nella boscaglia alla perenne ricerca di cibo: come gli altri personaggi è più che un animale antropomorfo, un personaggio zoomorfo. Secondo Bonafin 2006 lo zoomorfismo è – come l’attribuzione di nomi propri agli animali – il segno di un residuo di credenze sugli animali di carattere totemico di lunga durata, in parte di tradizione favolistica, in parte trasmesso dalla tradizione orale attiva nelle campagne francesi del XII secolo. 6.3.4 Una sessantina di racconti francesi in octosyllabes, del XIII secolo, presenta nel testi l’etichetta “fabliaux”: l’autodefinizione indica una consapevole definizione di genere, attestata nel 1190 ca. da Jean Bodel nell’elenco di 8 fabliaux in Des deus chevaus. Fabliau è voce piccarda da fabulellus (< fabula): designa un corpo di circa 130-150 (a seconda delle liste) racconti brevi (meno di 300 octosyllabes), prodotti nel Nord fra fine XII (Bodel) e primi decenni del XIV secolo (Jean de Condé, m. 1345 ca.), trasmessi da codici-antologie per amatori in serie prive di cornice, e composti da giullari. Erano probabilmente destinati a un pubblico urbano, anche se la parodia di temi cortesi suggerisce che dovevano divertire pure gli aristocratici. I fabliaux sono racconti comici i cui intrecci si concentrano, sotto la sottile vernice di un moralismo convenzionale e misogino, sul godimento fisico (sesso, cibo, funzioni corporali) e sulla costruzione dell’inganno (di norma a danno dei 62 maschi sistemati: padri, mariti, ecclesiastici); descrivono un piccolo mondo rurale / urbano e di piccola gente in cui si muovono caratteri stereotipati e di modesto spessore psicologico, agitati da pulsioni elementari: contadini rozzi, borghesi avidamente attaccati al denaro e a giovani mogli pronte all’adulterio. I fabliaux… • Privilegiando lo schema dell’inganno, i loro intrecci sfruttano il cozzo fra apparenza e realtà, giocano sulla simulazione e spesso richiedano un’ambientazione notturna; la brevitas richiede economia di mezzi e un montaggio in cui il ritmo domina sulla psicologia, fino alla perfezione del movimento a orologeria. • Sotto il banale cinismo di molti intrecci si riconosce un’intenzione satirica, per cui la parodia dei costumi sociali è motivata dal puntiglio a descrivere le cose come stanno. Si ride del ricco villano che ha sposato un’aristocratica, o del prete troppo preso dai piaceri carnali, ma si evita l’analisi sociologica e, soprattutto non si cerca la rivoluzione perché nessuno può mutare la propria natura. • L’inganno è una fictio: alla lettera, costruzione di una realtà parallela attraverso dispositivi verbali, sfoggio di rime equivoche, giochi verbali costruiti sul doppio senso. 6.3.5.1 Il termine “novella” indica testi brevi, immersi in un regime orale (il parlar), collocati sotto lo stesso etimo di occ. novas (il racconto di un fatto nuovo). Per Segre la novella è “una narrazione breve generalmente in prosa (a differenza del fabliau, del lai e della nova), con personaggi umani (a differenza della favola esopica) e contenuti verosimili (a differenza della fiaba) ma generalmente non storici (a differenza dell’aneddoto), per lo più senza finalità morali a conclusione moraleggiante (a differenza dell’exemplum); ha il fantaggio di mettere in luce, nelle precisazioni in negativo, un dato storiografico rilevante: la novella prende forma in ritardo, e nel vuoto di narrazioni in versi / prosa “di tenuta letteraria”. Il ritardo permise un genere moderno, fortemente ancorato all’arte della conversazione, di dar voce alla mutabilità delle “cose di questo mondo” (Decameron, Conclusione). A Boccaccio si riconosce il ruolo di fondatore del genere, ma i caratteri costitutivi sono evidenti nel Novellino, che mostra una consapevole rottura con l’exemplum e altre forme brevi: gusti per il fatto nuovo, precisato dall’attenzione ai dettagli descrittivi; selezione della materia in un contesto storico (vicino al contemporaneo); unità dell’intreccio; consapevole rifiuto di una morale univoca ed esplicita. Lo stacco fra tradizione e innovazione si può forse cogliere nel confronto fra il Novellino e i Conti di antichi cavalieri. Questa raccolta (fine XIII sec.), priva di cornice, racchiude 2 serie di prose, concentrate su personaggi antichi (I-X) e moderni (XI-XXI: Enrico d’Inghilterra), estratti da fonti latine e francesi: i Conti praticano l’arte della miniaturizzazione, del ritaglio del singolo episodio da una trama più ampia, per fornire l’elite degli esempi di virtù da seguire. Le 85 novelle del Novellino originale si sottraggono all’imperativo pedagogico, per consegnare l’intreccio al piacere finale del witz. Si colgono però alcuni blocchi tematici di origine letteraria. 6.3.5.2 Il Decameron impose al racconto breve una curvatura decisiva per la sua storia moderna. • Il racconto-cornice è il più complesso nella tradizione medievale e agganciato a un pretesto concreto (la peste a Firenze, nell’estate 1348): 7 ragazze e 3 ragazzi, immersi nella bella vita cortese di una villa, si scambiano per 10 giorni i ruoli di narratori / destinatari / governatori di un narrare organizzato per temi. La polifonia delle voci afferma l’impossibilità di un orientamento univoco sul reale. Boccaccio restituisce, inoltre, il narrare al suo carattere orale. • Boccaccio sfruttò a fondo tutti i depositi narrativi, laici e religiosi, occidentali e orientali. Non è sempre facile individuare modelli specifici, anche perché molti intrecci documentati nella scrittura dovevano avere ampia circolazione orale. Inoltre… o In molti casi la tradizione forniva a Boccaccio degli schemi da cui estrarre singoli intrecci. o La grande abilità di Boccaccio sta nel trapiantare gli intrecci in un’attualità concreta e identificabile dai contemporanei: i personaggi agiscono secondo interessi riconoscibili come immanenti al campo etico- sociale dei destinatari. • Secondo una linea interpretativa aperta da Branca 1956, la struttura del Decameron si sviluppa in un itinerarium ascensionale dell’uomo dal vizio alla virtù, riconoscibile sia nell’onestà quasi monastica con cui i giovani conducono la vita in villa, sia nell’ordine delle novelle, dal diabolico per Ciappelletto (I, 1) alla magnanimità della x giornata e al caso di Griselda. Solo nelle prime 3 novelle della raccolta Boccaccio affronta temi religiosi o teologici. • Ciò che distingue la novella di Boccaccio dalle forme brevi precedenti è la mancanza di una visione stereotipata del mondo, in nome di un a priori morale fatto proprio dall’autore. 6.3.5.3 Il successo del Decameron fu enorme. 65 6.4.2.2 Nel XIV secolo il teatro profano sparì, in favore delle produzioni religiose; nel XV secolo riemerse in una drammaturgia diffusa pure da non professionisti, legata ai ritmi festivi delle città. La sottie è il monologo del sot (lo stolto, il buffone) - talvolta un dialogo con personaggi allegorici – dedicato all’attualità, passata al vaglio di una mordace libertà di parola. La farsa (farce) è un testo breve (500-600 versi) che raccolse l’eredità fabliolistica: numero ristretto di ruoli (mogli/mariti infedeli, dottori e soldati incapaci); intrecci tipici concentrati sulla guerra fra i sessi, le disavventure dell’ingenuo con l’altro sesso; ricorso all’oscenità. Rappresentate nei pomeriggi domenicali, spesso dopo (monologo allegorico) le farse, richiedevano scenografie modeste negli spazi pubblici; fra Quattro e Cinquecento divennero la forma teatrale dominante. Il capolavoro è uno dei testi più antichi, la Farce de Maistre Pierre Pathelin (1456/1469), in 3 episodidi 500 vv. ca., in cui l’avvocato Pathelin inganna l’avido drapier Joceaulme, ma è ingannato a sua volta dal badin, il pastore Thibaut l’Aignelet; al testo – opera di un anonimo – si riconoscono il gusto per l’equivoco, che governa con precisione da orologio l’andatura dell’azione, la naturalezza dei dialoghi che non indulgono sul triviale, l’abilità nel giocare con il linguaggio. 6.5 Fra itinerario e descrizione 6.5.1 Il terragno immaginario della Christianitas non conosce il nomadismo islamico, ma la fortuna di temi come il viaggio nell’Aldilà e la queste cavalleresca indicano una disponibilità ad accogliere il potenziale avventuroso e conoscitivo del viaggio, concretizzato nella forma di vita mercantile e nell’eccezionalità del pellegrinaggio. Ne danno conto testi fra IV e XV secolo, che parlano dell’incontro con il Nuovo e l’Altro e la sua descrizione. • Il loro cronotopo è fissato da 2 eventi. L’occupazione araba della Mezzaluna fertile (VII sec.) precluse ai medievali le coste meridionali del Mediterraneo e l’Asia oltre il Caucaso. Da qui la presenza nei testi di più Asie: una vicina (la Mezzaluna), nota grazie ai pellegrinaggi (Crociate comprese), e una lontana, oltre il Caucaso e fino all’Oceano, percepita come un orizzonte onirico in cui si collocano il Sacro (il Paradiso terrestre) e l’apocalittico (i popoli di Gog e Magog), genti ai limiti dell’umano; lontana, ma tra il 1245 e il 1368 aperta ai mercanti e religiosi europei. I resoconti occidentali si dividono fra i referti dei pellegrini in Terrasanta e i testi sull’Asia mongola. • La funzione referenziale (descrivere la realtà) domina su quella poetica, e la forma è decisa dalla dispositio dell’informazione, e questa dalla corografia. Si riconoscono 2 modelli: itinerario, che trasferisce nella scrittura l’ordine fissato dall’esperienza concreta del movimento; e la descriptio, la disposizione determinata dall’interferenza di più criteri (storiografico, memoriale, devozionale) con quello dell’itinerario. • La preoccupazione è la veridicità del referto: specie nella descrizione dell’Asia lontana i viaggiatori facevano i conti con l’incredulità dei destinatari. Da qui l’elaborazione di una retorica dell’alterità basata sull’uso testimoniale dell’esperienza (si parla di sé come fonte della verità fattuale) su un’enunciazione alla terza persona singolare (sul modello del trattato), sulla registrazione di fatti affidata a formule, sull’suo dell0iperbole per fissare il distante da noi, e dell’analogia per ricondurre il Nuovo al noto. 6.5.2.1 Nell’orizzonte cristiano il pellegrinaggio fu innanzitutto ripetizione di un fatto costitutivo della storia sacra (da Abramo a Mosè): si tende a luoghi e oggetti indicati dalla Scrittura. 66 Il referto di Terrasanta (itinerarium) iniziò a definirsi nel IV secolo (l’Itinerarium a Burdigala Jherusalem del Pellegrino di Bordeaux), in parallelo alle inventiones di reliquie (Elena, madre di Costantino, trovò la vera Croce nel 326) e alla costruzione di luoghi di culto a Betlemme e a Gerusalemme; si cristallizzò fra VII e VIII secolo, mentre il viaggio assunse la forma di una “andata e ritorno” penitenziale, e i testi assunsero pure lo schema della descriptio corografica. Le Crociate diedero nuovo vigore ai pellegrinaggi; la corografia acquistò uno spessore di storia contemporanea, come nella Fazienda de Ultramar – compilazione castigliana in cui si innestarono citazioni bibliche sulla versione del resoconto dell’arcidiacono (1126/1152). 6.5.2.2 I resoconti in volgare si collocano fra XIV e XV secolo: il Libro d’Oltremare dell’agostiniano Niccolò da Poggibosi (1346-1350). Sono il frutto di viaggi lungo rotte e piste consolidate; presentano un andamento diaristico che registra poche avventure e scarsi rischi, descrizioni stereotipe dell’esotico; fondano descrizione e itinerario, memoria della Scrittura. 67 Capitolo 7 Vulgares eloquentes (Figure dell’autore in volgare) 7.1 L’autore fra Modernità e Medioevo 7.1.1 Nel paesaggio culturale contemporaneo l’autore è (con il critico) il principale garante dell’essenza artistica della sua azione, e della conseguente valorizzazione del suo prodotto come opera d’arte. Non è certamente la situazione della testualità del Medioevo volgare, che diede alla Tradizione un valore maggiore che all’originalità individuale: molti indicatori parlano di debolezza della figura autoriale (frequente anonimato) e di fragilità dell’opera (la cui circolazione avviene al prezzo della manipolazione di copisti e revisori). 7.1.2 La circolazione moderna dei testi è protetta dalla Legge. Gli artt. 2575-2577 del Codice civile e la Legge 633/1941 definiscono il diritto d’autore, che concerne le opere dell’ingegno di carattere creativo; alla base sta la creazione dell’opera, quale particolare espressione del lavoro intellettuale. Il diritto d’autore ha un doppio contenuto (art. 2577). Il primo è patrimoniale: il diritto allo sfruttamento economico dell’opera. Il secondo contenuto è morale: pure cedendo i diritti patrimoniali l’autore può rivendicare la paternità dell’opera e può opporsi a qualsiasi deformazione, mutilazione o altra modificazione dell’opera stessa; l’opera diventa un oggetto modificabile solo dall’autore. La stampa, braccio operativo della Modernità nella comunicazione, modificò in modo decisivo le nozioni di scrittura e di letteratura, favorì i processi di alfabetizzazione, stimolò nei professionisti della parola lo sviluppo di una riflessione sugli standard linguistici in nome di un criterio nuovo, la leggibilità. 7.1.3 La nozione di autore con cui facciamo oggi i conti è insomma l’esito moderno di un processo di lungo periodo, innescatosi nel XV-XVI secolo (e acceleratosi nel XIX). Dunque, l’autore non è un’idea medievale? In realtà, nella testualità in volare si riconoscono delle posizioni che suggeriscono lo stato nascente di un’autocoscienza autoriale. Ci sono delle dichiarazioni di poetica: l’Epistola di Dante a Cangrande della Scala offre, per esempio, una definizione consapevole dell’autorialità volgare. 7.2 L’Epistola a Cangrande L’episodio è la più famosa di quelle redatte da Dante negli anni dell’esilio (1302-1321) come segretario al servizio dei signori che gli diedero ospitalità. Un’ipotesi recente la data nei dintorni del settembre 1231, e la considera incompiuta e mai inviata; chi ritiene autentici i soli parr. 1-13 (una sorta di biglietto di accompagnamento), osserva che il commento al testo nei parr. 13-90 presenta a un uso disomogeneo rispetto al biglietto delle regole dell’ars dictaminis, e quindi li attribuisce a un anonimo compilatore, a cui bisognerebbe però riconoscere una finezza di argomentazione pari a quella di Dante. Nel biglietto Dante si sofferma sulla reciproca amicizia con Cangrande, nonostante la disparità del loro rango. L’elenco dei temi è quello dell’accessus ad auctores, e dallo stesso schema viene nell’epistola la trattazione della pluralità dei livelli dell’interpretazione e la dottrina dei generi letterari. Dante proietta l’aura dell’auctoritas sull’uso moderno (Purgatorio, XXVI, 113); la rivendicazione pare riguardare più il versante semantico (filosofico) che lo stile della Commedia; ma uno sguardo su altri luoghi danteschi permette di precisare la potenza di tiro della sua posizione. La disponibilità a riepilogare le ragioni della propria esperienza nel contesto della tradizione volgare è presente nel De vulgari eloquentia. 7.3 Dai canzonieri al Canzoniere 7.3.1 La primazia della poesia occitanica è per Dante fatto genalogico e di valore: i suoi cultori “per la prima volta hanno composto versi, come nella lingua più perfetta e più dolce”. I poeti della Commedia agiscono nell’intreccio come personaggi storicamente dati: Arnaut Daniel e Guinizelli sono tra i Lussuriosi perché, in assenza di altre prove, la lussuria è il peccato inferibile dai loro versi; ma le ragioni della pena di Bertran de Born (il suo ruolo nel conflitto tra Enrico II d’Inghilterra e i figli) dipendono meno dai suoi sirventesi che dalla tradizione storica. Per Dante gli auctores volgari sono i segni di una tradizione con cui fare i conti, intessuta di materiali extraletterari risolti nella varietà della letteratura. Dante attingeva liriche e materiali dai canzonieri occitanici, che non documentano solo l’esistenza degli autori repertoriati, ma anche la loro struttura getta luce sull’idea di poesia condivisa dal pubblico contemporaneo. 7.3.2 Alcuni caratteri tipologici sono comuni ai libri di poesia fra XIII e XIV secolo. 70 • Questa morfologia rinvia a una funzione, non a una forma, autobiografica. I nostri testi evitano regolarmente il tratto proprio del moderno discorso autobiografico: la focalizzazione sul valore in sé di ogni esperienza individuale; il richiamo al personaggio-autore vale a garantire della veridicità del discorso, non a trasmettere un’esperienza soggettiva, emotiva e psicologica. 7.5.4 È nella lirica che si colgono, con maggiore insistenza nel corso del XIII secolo, le prime occorrenze di un’apertura al valore del soggetto storicamente e individualmente determinato: un’apertura radicata in contesti non aristocratici. Il vero punto di frattura in questa direzione consiste nell’esperienza di Petrarca. La sua novità sta nel porre al centro uno spirito autobiografico, informatore di una nuova figura di letterario. Dopo il 1345 (dopo la scoperta del codice delle lettere ad Atticum) l’autobiografismo divenne il filone centrale nella sua produzione. 7.6 L’autenticità del libro: il testo e la sua oggettivazione 7.6.1 Per tutto il basso Medioevo la ricezione scritta dei testi volgari dipese da copie su cui i copisti esercitavano un forte interventismo. È il caso dei 15 codici che trasmettono il Conte du Graal di Chretien de Troyes: due contengono solo il romanzo, e 11 su 13 restanti trascrivono una o più Continuazioni, spesso unendole direttamente all’ultimo verso del Conte; 11 volumi, pensati per committenti che erano interessati più a come “va a finire” che alla scrittura di Chretien. Noi Moderni, rispettiamo l’autorialità più che l’intreccio, per cui le nostre edizioni si chiudono sull’ultimo verso attribuito a Chretien, e trattano le Continuazioni come “a parte”; non ci troviamo nulla di strano, e accettiamo il caso come si fa per antichi e moderni. 7.6.2 La copia autografa è, per ovvie ragioni, quella che garantisce con maggior sicurezza la corrispondenza fra l’intenzione dell’autore e la fisionomia del testo affidato alla scrittura; sotto questo rispetto il paesaggio librario medievale non ci aiuta molto, a causa della rarità di volumi per i quali si possa certificare o ipotizzare che nella confezione l’auctor assunse pure la funzione di scriptor/copista. Gli autografi più antichi, in latino, sono di scrittori monastici. Il cod. Oxford, Magdalen College, 172 del De Gestis pontificum Anglorum di Guglielmo di Malmesbury. 7.6.3 La sempre più frequente presenza, fra seconda metà del XIII e XV secolo, di codici destinati a un solo testo o a un solo autore, autografi o idiografi. Il moltiplicarsi di questi manufatti ha ragioni diverse, materiali e culturali: il diffondersi della carta al posto della pergamena; l’allargamento della base degli alfabetizzati oltre il limite dei clerici; lo sviluppo del mercato librario e di pratiche intellettuali umanistiche. Il ruolo culturale dei notai nell’Italia comunale fu importante, nell’uso della scrittura e della sua percezione. Diversamente dal chierico copista, il notaio era sempre auctor e scriptor dei testi che firmava. Non stupisce quindi che uno dei primi testi che fondono in un libro autografo progettazione autoriale, stesura del testo e sua impaginazione sia opera di un notaio, Francesco da Barberino: i Documenti d’Amore. Il discorso di quest’opera allegorica si articola su due piani: quello litteralis è affidato ai versi volgari (e alla loro traduzione in prosa latina), quello secondo si sviluppa in un autocommento in forma di glossa latina al testo. Gli autografi francesi sono di carattere aristocratico. Alla fine del Trecento le antologie liriche furono sostituite da raccolte individuali, spesso dirette e controllate dagli autori. Tornato in Francia (1449), Charles d’Orleans raccolse le liriche composte in 25 anni di prigionia inglese nel cod. Paris, BnF, fr. 25.458, che continuò ad arricchire fino alla morte (1465) con aggiunte sue o dei suoi ospiti, traendone talvolta una copia da donare. 7.6.4 Il cod. Vaticano Lat. 3195 (V) è il più famoso fra gli autografi antichi: è punto di arrivo di una storia testuale – la strutturazione del Canzoniere come macrotesto – senza eguali nella tradizione medievale, documentabile (nelle sue fasi intermedie) dalla progettazione alla finitura, che testimonia in Petrarca la volontà d’autore (nel senso moderno del termine) di far coincidere testo e libro, sottoponendo la composizione e l’oggettivazione di entrambi al proprio controllo. Probabilmente solo la morte del poeta (1374) mise un termine ai ritocchi del codice (e del libro), iniziato da Giovanni Malpaghini e continuato da Petrarca con la trascrizione dei testi assenti e, all’altezza della canzone CCCLXVI, con la modificazione sul codice dell’ordine dei 31 testi finali. A quanto pare, Petrarca lavorava su fogli sciolti: i testi erano sottoposti a revisioni continue, trasferiti in bella copia e poi in una delle forme della raccolta. Si scopre così che nel 1342 Petrarca pensava a una raccolta aperta dal sonetto ora XXXIV, Apollo, s’ancor vive il bel desio, centrato sul mito di Apollo e Dafne e sulla doppia identificazione “Laura = Dafne / l’alloro poetico”, “ego = Apollo”. V ha una fattura assai elegante: le pagine sono marginose, le liriche ben identificate dagli spazi bianchi; le scritture (di Malpaghini e del poesta) sono una semigotica molto spaziata; tanta eleganza è l’esito del rifiuto maturato da Petrarca – e dichiarato in molte lettere – verso i copisti del suo tempo: egli rivendicava alla scrittura la dignità di atto preliminare 71 all’acquisizione del sapere attraverso la lettura, e quindi la necessità che essa fosse semplice e chiara; polemizzava contro la scorrettezza dei libri in circolazione. Il poeta usava la scrittura corsiva per i primi abbozzi, quella cancelleresca per la trascrizione dei testi più compiuti, precedente al riversamento nella raccolta; la puntuale registrazione della data di ogni intervento suggerisce una volontà di memoria di sé che corrisponde, sul piano documentario, all’intenzione di sparsa anime fragmenta recolligere. Petrarca agisce secondo gli schemi del mondo dei notai (da cui provenivano il padre e il nonno), non solo perché la cancelleresca è la loro scrittura: come i notai egli da riconoscibilità grafica alle stesure dell’atto (poetico, in questo caso) che sta redigendo, dall’abbozzo alla definitiva; registra le fasi cronologiche della redazione; conserva tutte le stesure depennando quelle escluse.