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Diritti Umani: Il Concetto di Giustizia e il Potere, Sintesi del corso di Filosofia Politica

La relazione tra i diritti umani e il potere politico, con un focus sul principio di legalità e la neutralità dei diritti umani. anche la differenza tra diritti umani e diritti fondamentali, e la necessità di considerare il diritto di ogni individuo a vivere in maniera accettabile. Il documento include anche una discussione sulla democrazia e i diritti umani.

Tipologia: Sintesi del corso

2018/2019

Caricato il 16/02/2022

mattostudio
mattostudio 🇮🇹

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Scarica Diritti Umani: Il Concetto di Giustizia e il Potere e più Sintesi del corso in PDF di Filosofia Politica solo su Docsity! INGIUSTIZIA POLITICA – cap.1 – Ingiustizia come diseguaglianza, problemi di giustizia distributiva. 1. Eguaglianza. Verso il teorema di Rawls. In filosofia politica il concetto di eguaglianza è strettamente collegato alla polis, cioè alla società politica. Oggi lo stato non è forse più il luogo politico esclusivo del concetto di eguaglianza, ma dallo Stato bisogna partire per affermare che il concetto di eguaglianza prende le mosse da quello di politica. Il paradigma Aristotelico il concetto di eguaglianza fa riferimento a due caratteristiche importanti: 1. La quantità, per cui gli individui sono eguali quando detengono la stessa quantità di eguaglianza; 2. La qualità, per cui gli individui sono considerati politicamente eguali quando condividono la stessa appartenenza politica. Con appartenenza politica si intende un sistema caratterizzato da processi di formazione di decisioni vincolanti e imperative dirette agli individui che ne fanno parte. Eguaglianza politica può essere considerato un concetto particolare di quello più generale di “eguaglianza giuridica”, cioè eguaglianza davanti alla legge: in questo senso emerge la qualità politica di ogni individuo come appartenente a un contesto dove mette in atto la sua capacit à di instaurare rapporti con tutti gli altri membri della società, capacità che è considerata fungibile (reciproca). Fungibilità significa intercambiabile/sostituibile, quindi questa caratteristica fa si che, davanti alla legge, sia assolutamente ininfluente l’identità di un soggetto rispetto ad un altro e quindi tutti hanno lo stesso peso davanti alla legge. Identità politica non equivale a identità personale. Due cose possono essere identiche, non due persone. Appurato che ciascuno possiede questa appartenenza, comprendiamo che allargare il contesto di questa appartenenza è un problema di ingiustizia politica, un problema di estensione. Se il contesto di appartenenza è parziale , come avviene in un sistema chiuso (uno stato nazionale), l’appartenenza unisce i membri e allo stesso tempo li separa da altri, da altre appartenenze. Ma l’appartenenza ad una determinata sfera (in questo caso quella politica) implica la nascita di disappartenenze ad altri contesti che, in qualche modo, determinano il generarsi di diseguaglianze e di conseguenza di situazioni di ingiustizia. “Eguaglianza politica” e “eguaglianza giuridica” non sono identiche perché l’eguaglianza politica si riferisce alla partecipazione alla vita istituzionale degli appartenenti, cosa che di solito è regolata da norme giuridiche, mentre l’eguaglianza giuridica è l’indifferenza formale di ogni individuo di fronte alla legge. Il problema dell’eguaglianza politica attrae quello della sua giustificazione. Il professore ritiene che oggi non sia sostenibile l’ipotesi hobbesiana secondo cui gli individui cercano la coesistenza in un contesto politico perché eguali, in quanto spinti dalla legge naturale che li porta a percepirsi come simili. Contro Hobbes se ne rese già conto Kant, comprendendo che fra gli uomini esistono diseguaglianze sostanziali e contingenti: prime fra tutte, quelle di tipo economico. E se ne rese conto anche Hegel, affermando che se dal punto di vista giuridico e politico tutti dovrebbero essere considerati persone, l’individuo è sì persona in quanto gode di diritti certi nella società civile, ma non è in questa eguale a nessun’altra sul piano economico e sul piano sociale. Non è affatto detto che l’eguaglianza sia la condizione normale degli individui, e non è affatto detto che quel che permette l’aggregazione tra individui sia il senso di similitudine. Invece è la differenza, è la differenza che rende necessario l’accordo e possibile il fatto del pluralismo. [E ricordiamo, che giustificare le condizioni che rendono possibili il pluralismo rientra le competenze della FILOSOFIA POLITICA]. EGUAGLIANZA/PARITA’= L’eguaglianza non va assimilata alla “parità”. L’eguaglianza ci dice che se x condivide assieme a y e a z un determinato contesto n allora x deve avere diritto allo stesso sistema di libertà di y e di z; il non verificarsi di questa condizione genera ingiustizia. Mentre la prima riguarda e dipende dal contesto preso in considerazione, la seconda si sviluppa in relazione con l’etica e indipendentemente dal contesto preso in considerazione. L’etica ci dice che x, y e z meritano eguale considerazione e rispetto in quanto portatori della stessa dignità. L’etica permette di guardare agli individui come persone, al di la delle appartenenze (contesto), e permette la pensabilità di una distribuzione universale dei diritti. È importante sottolineare il fatto che la politica deve essere sempre collegata all’etica poiché una teoria non può essere considerata giusta se non esiste un collegamento con l’etica. Quando abbiamo a che fare con l’etica, salta fuori la nostra attitudine normativa, cioè il fatto che, non appena facciamo una scelta di rilievo istituzionale, l’averla sottoscritta dipende dal nostro personale giudizio politico su come vorremmo fosse il nostro mondo. Quando si parla di ETICA POLITICA occorre assumere una prospettiva di una TEORIA ORIENTATA ALLA GIUSTIFICAZIONE DELLE ISTITUZIONI. Che tipo di teoria è questa? Una teoria della giustizia. Quando si parla di teorie della “giustizia”, le risposte possono essere tante. Una definizione di politica della giustizia non può prescindere da concetti come “eguaglianza”, “equità” e “parità”. Detto questo, nell’opera “A theory of justice” di John Rawls, si prende in considerazione il concetto di giustizia come equità che prevede il riconoscimento di due principi: - quello della libertà, per cui tutti gli individui devono goderne. - quello della differenza per cui i meno avvantaggiati devono essere aiutati anche effettuando un’azione di ingiustizia all’inverso nei confronti dei più avvantaggiati. [Le parti nella posizione originaria sentono la necessità di optare per i due principi di giustizia perché questi giocano un ruolo di garanzia contro le lotterie naturali e sociali. La posizione originaria, basata sul velo di ignoranza delle parti, fa si che i soggetti della scelta siano dotati corretta in grado di determinare un qualsivoglia risultato equo e corretto. I risultati non sono predeterminati ma l’osservanza delle procedure di per sé determina un risultato equo. Per essere pura, la giustizia procedurale deve essere a stato finale, cioè portata a compimento. In questo tipo di procedura l’obiettivo è assicurare una STRUTTURA FONDAMENTALE cioè un sistema pubblico di regole il quale definisce uno schema di attività che induce gli uomini ad agire insieme in modo da produrre la maggiore quantità di benefici. Questo sistema della giustizia procedurale pura per funzionare sfrutta tutti gli elementi della teoria Rawlsiana (dal velo di ignoranza, all’ordine lessicale dei principi) e adotta un preciso TIPO DI DISTRIBUZIONE di vantaggi: questa distribuzione deve avvenire secondo un sistema pubblico di regole (la basic structure), che stabilisce quel che si produce, come e quanto. Le istituzioni servono a raggiungere questo tipo di distribuzione, e visto che tutti questi elementi per raggiungere questo tipo di distribuzione sono soggetti ai vari problemi della vita, si tratta comunque di una GIUSTIZIA PROCEDURALE IMPERFETTA. Il principio di differenza, enunciato da Rawls, non prevede un calcolo basato sul benessere, cioè non è necessario sapere di quanto una persona preferisce una situazione rispetto ad un’altra, ma secondo tale principio le aspettative di coloro che sono in una situazione migliore sono giuste solo se funzionano come pare di uno schema che MIGLIORA le aspettative dei membri MENO AVVANTAGGIATI della societ à . Rawls, revocando un’opera di George Santayana, afferma che anche una condizione di aristocrazia naturale potrebbe soddisfare il principio di differenza. Santayana infatti aveva sostenuto che anche un regime aristocratico può essere giustificato in termini di distribuzioni di vantaggi, sulla base del fatto che se coloro che stanno meglio ricevessero di meno, ciò produrrebbe un danno anche per i meno avvantaggiati. Il principio di differenza è fortemente egualitario: è da preferirsi una distribuzione eguale a meno che non esista un ’ altra che fa stare meglio entrambi; Questi argomenti mostrano come il senso di ingiustizia politica non si possa definire a priori. Infine, Sciacca prende in considerazione un esempio di ingiustizia distributiva, che è il CONTRARIO del PRINCIPIO DI DIFFERENZA: la cosiddetta pleonexia di Aristotele, cioè la situazione per cui il miglioramento delle condizioni di un individuo determina il peggioramento delle condizioni di un altro. Commette ingiustizia chi distribuisce, chi riceve un di più non commette ingiustizia. 2. Equa distribuzione vs relativismo cognitivo Esistono usi linguistici differenti per manifestare il senso di ingiustizia e Joanne Martin ne individua due cause: 1. Senso di ingiustizia come atteggiamento soggettivo, per cui il senso di ingiustizia dipende da giudizi di valore individuali del tipo: per x è ingiusto p’, che ammette anche per y non è ingiusto p’. 2. Senso di ingiustizia come situazione oggettiva, per cui il senso di ingiustizia deriva da situazioni oggettive. Queste due cause possono essere definite come concause, che possono integrarsi a vicenda, ma l’ingiustizia può non manifestarsi concretamente se chi la subisce come tale non fa nulla per DIMOSTRARLO (tollerando l’ingiustizia). Ma il problema principale è: quando allora si può dire che una DISTRIBUZIONE INIQUA E’ INGIUSTA? Possiamo individuare due posizioni: 1. Posizione universalista (Rawls), per cui il senso di ingiustizia si sviluppa indipendentemente dal contesto preso in considerazione; si ha un sentimento di ingiustizia o giustizia in maniera indipendente dalla posizione del soggetto. 2. Posizione relativista, per cui il senso di ingiustizia si sviluppa a causa delle contingenze. I giudizi di valore nascono da situazioni reali o da contesti che le fanno supporre come tali. (Il senso di ingiustizia si sviluppa in base al contesto). Queste due posizioni presentano però un gap: mentre la posizione universalista non prende in considerazione i sistemi concreti di interazione, nella posizione relativista il senso di giustizia o ingiustizia dipende dalle contingenze. Una possibile via d’uscita può essere la posizione interazionista: è grazie alla STRUTTURA DEL SISTEMA DI INTERAZIONE in cui agiscono gli attori, che ci permette di CAPIRE le ragioni che gli attori sociali hanno di manifestare sentimento di giustizia/ingiustizia. Emerge quindi la necessità di individuare RAGIONI per trovare legittime o illegittime, certe forme di ingiustizia dovute a diseguaglianze. Altra soluzione, offerta da BOUDON per capire le diseguaglianze è la TEORIA FUNZIONALISTA DELLA STRATIFICAZIONE: secondo i funzionalisti, l’insieme dei valori condivisi, e dunque anche il senso di giustizia e ingiustizia, dipendono dal tipo di struttura dei sistemi di interazione; questo fa si che i sentimenti di giustizia e ingiustizia siano universali, ma anche variabili (perché il contesto sociale che li “genera” può variare.) Il senso giustizia/ingiustizia non può nascere in astratto, ma deve fare sempre riferimento a FATTI SPECIFICI, è infatti insensato dire cosa è ingiusto senza far riferimento alla realtà, è lo è anche pensare che la diseguaglianza sia a prescindere sbagliata (e il principio di differenza Rawlsiano fa capire anche anche Rawls la pensa cosi). Rawls, come Boudon, prendono in considerazione l’esempio del gioco d’azzardo e loro non pensano che il gioco d’azzardo crei un senso di ingiustizia: chi gioca accetta che ci sia una distribuzione delle risorse causale, senza alcune legame tra sorte e prestazione (anche il più scarso può vincere se è fortunato) e se perde può essere sicuramente triste, perfino disperato, ma non penserà sia vittima di ingiustizia sociale (Il gioco d’azzardo è per Rawls un esempio di GIUSTIZIA PROCEDURALE PURA). Nozick prende l’esempio (dove non vi è ingiustizia) del cestista Wilt Chamberlaine: un individuo potrebbe pagare di più il biglietto per vedere in una partita un certo giocatore di basket segnare più punti. La questione in sintesi riguarda il fatto che non è possibile individuare perfettamente la genetica del senso di ingiustizia e il senso di ingiustizia non si sviluppa solo se la situazione di diseguaglianza deriva da ragioni non arbitrarie. (Le diseguaglianze possono avere origine da ragioni arbitrarie, da scelte personali). Boudon sostiene che il senso di ingiustizia non si leghi alla struttura distributiva dei beni (detta basic structure): semplicemente è impossibile dire con certezza cosa generi il senso di ingiustizia, non esistono cause oggettive, ma reazioni e valutazioni che ciascuno fa in modo diverso e che possono portare ognuno a ritenere una cosa ingiusta o meno. La soluzione, non essendoci cause oggettive che generino il senso di ingiustizia, sarebbe creare un DIBATTITO POLITICO, visto che è comunque impossibile risolvere i problemi di giustizia sociale “a priori” (Secondo Boudon per il risolvere il problema, prima bisognerebbe avere la certezza delle ragioni, valide e precise, che generano il senso di ingiustizia). Senso di giustizia e equilibrio riflessivo Il senso di giustizia, secondo Rawls, si lega al così detto EQUILIBRIO RIFLESSIVO: sostanzialmente una versione ampliata di un concetto affrontato da Goodman. Ricordiamo che l’equilibrio riflessivo è un modo per giustificare i principi di base di un sistema politico, secondo Goodman questa giustificazione è un procedimento delicato, che consiste in aggiustamenti reciproci tra REGOLE E INTERFERENZE (le regole, dice, sono emendate se producono un’interferenza che non possiamo accettare, le interferenze si respingono se modificano regole che non siamo disposti a emendare). Goodman ha rivisto il problema dell’INDUZIONE ( delle informazione che assumiamo come valide grazie alla nostra esperienza, con un metodo induttivo appunto): si fa l’esempio del blerde, ovvero una situazione in cui, vedendo tanti smeraldi verdi, ci convinciamo che tutti gli smeraldi siano verdi, poi però dopo un certo momento vediamo degli smeraldi blu, allora capiamo che gli smeraldi sono di due colori: verdi quelli che abbiamo osservato, blu quelli ancora da osservare. Allora il predicato ad essi riferito è il BLERDE: ovvero verde prima della nostra osservazione (prima del tempo t), e blu dopo la nostra osservazione (dopo il tempo t). Vedendo uno smeraldo verde però, come facciamo a capire se è un semplice smeraldo verde (quindi verde prima e dopo) o è blerde (quindi blu dopo la nostra osservazione): la verità è che siamo NOI A DECIDERLO. Il dato empirico è lo stesso: abbiamo visto uno smeraldo verde, poi grazie alla nostra decisione, al nostro modo divedere le cose, stabiliamo se tutti gli smeraldi – anche futuri– saranno verdi, oppure se quelli futuri saranno blu, e quindi lo smeraldo è blerde. GOODMAN VUOLE QUINDI FARCI CAPIRE CHE, DAVANTI AD UNO STESSO DATO OGGETTIVO (IN QUESTO IL COLORE VERDE) POSSIAMO DARE DIVERSE INTERPRETAZIONI DELLA REALTA’, IN BASE AD UNA NOSTRA POSIZIONE/INTERPRETAZIONE: DUNQUE SPESSO DI FRONTE AD UN DATO EMPIRICO IDENTICO SI ARRIVA A RISULTATI DIVERSI. 2. Non è vero che il potere si limita a coinvolgere solo due parti (relazione diadica), ma sono presenti soggetti terzi che mediano e rendono possibile l’esercizio del potere istituzionalizzato (un esempio è quello fra magistrato e detenuti, che ha molti intermediari tipo le guardie carcerarie, ecc). Con una logica distributiva del potere non si riuscirebbe a comprendere come è possibile l’esercizio del potere stesso; interpretando il potere diversamente, come potere d’agire, si potrebbe arrivare meglio a capire la natura del dominio e di conseguenza dell’ingiustizia. La Young continua a spiegare la sua idea di giustizia appoggiandosi ad un concetto di Heller (la quale crede che la politica sia poco praticabile se non si lega saldamente all’etica) e ne deduce che la giustizia coincide con la politica, che riguarda innanzitutto le politiche e le azioni del governo e dello Stato, ma può riguardare anche le regole, le pratiche e le azioni di qualunque altro contesto istituzionale: la giustizia coincide con tutto questo e l’ingiustizia, di conseguenza, è la negazione della politica: è violare gli assetti istituzionali, le consuetudini, le tradizioni culturali e qualsiasi forma o pratica o regola del contesto istituzionale. Muoversi contro l’ingiustizia politica significa quindi rivendicare qualcosa come valido all’interno di un contesto di validità. Heller al proposito ha affermato che “solo dove c’è giustizia c’è ingiustizia”. Il professore afferma che l’ingiustizia non è al di là della giustizia, ma si radica la dove esiste giustizia: abita lo spazio della giustizia, usurpandolo. Rivendicare giustizia significa esprimere disagio e denunciare condizioni di ingiustizia. Young sostiene che l’oggetto di rivendicazione non deve necessariamente rientrare nei problemi distributivi, potendo riguardare anche i modi con cui le istituzioni inibiscono o danneggiano le persone, le loro libertà e i loro diritti. [Secondo Sandel (comunitario) bisogna recuperare il problema dell’identificazione del soggetto politico]. Young e Douglas affermano che gli individui non sono identificabili solo come consumatori o possessori di beni, ma innanzitutto come persone caratterizzate dal loro agire, apprendere, partecipare e comunicare (questo toglie centralità al paradigma distributivo di Rawls). Secondo Young, l’agire secondo giustizia non coincide con l’ideale di “vita buona”, ma può aiutare a svilupparlo: questo si può ottenere in due modi: a) esercitando e approfondendo le proprie capacità e dando espressione alla propria esperienza; b) partecipando alla determinazione del proprio agire (scegliendo da sé cosa fare) e delle condizioni di esso; Quali sono, quindi, le condizioni di ingiustizia? Young afferma che l’ingiustizia si sviluppa su due condizioni: a) Il dominio che si basa sulla limitazione istituzionale all’autodeterminazione (l’atto con cui l’uomo si determina mediante le proprie leggi). b) L’oppressione che si basa sulla limitazione dello sviluppo del s é da parte delle istituzioni (sfruttamento, marginalizzazione, mancanza di potere, violenza, imperialismo culturale). [La Young infine afferma che la giustizia deve essere concepita non in base ai giudizi morali dei soggetti in relazione alle concezioni del bene, ma deve garantire lo sviluppo degli individui in quanto persone e necessita di una valutazione delle istituzioni che devono garantire: - La libertà nella coltivazione delle proprie capacità; - La libertà nel determinare il proprio agire -> etica del rispetto; Giustizia politica? Come sappiamo, secondo Rawls la giustizia si lega al concetto di Costituzione (come prima fonte del diritto). Riccardo Guastini afferma che vi sono 4 significati di “costituzione”: a) ogni ordinamento di tipo liberale; b) un certo insieme di norme giuridiche: le norme “fondamentali” di un ordinamento; c) un documento normativo portatore di questo nome; d) un particolare testo normativo dotato di certe caratteristiche formali; Il significato che la filosofia politica utilizza è il 1°: in un ordinamento in cui la libertà dei cittadini è protetta grazie alla divisione del potere politico, la Costituzione è il limite giuridico e politico del potere politico stesso (quello che lo Stato non può fare). Come si limita questo potere politico? Esistono varie ipotesi di limitazione del potere: 1. Ipotesi minima: ogni potere è un potere giuridico, il potere per esistere deve essere autorizzato dal diritto; qui vi è un principio di legalità, solo formale, le norme conferiscono potere al fine del suo esercizio. 2. Ipotesi media: per cui il potere è un potere giuridico, ma è inteso in senso limitativo e negativo, perché impone dei vincoli che non si possono oltrepassare; ogni potere che si spinge oltre la barriera di questi confini è considerato illegittimo. Qui vi è un principio di legalità sostanziale e concreto dell’esercizio del potere. 3. Ipotesi massima: il potere è inteso come struttura normativa costituzionale che consiste nel conferire diritti soggettivi; qui vi è il principio dello Stato costituzionale, inteso come Stato di diritto, il principio di legalità sostanziale è esteso al potere esecutivo. La teoria della giustizia di Rawls è criticata da Hoffe il quale ritiene che la teoria della giustizia di Rawls è METODOLOGICAMENTE INADEGUATA a fondare sè stessa, perché? Perché, tale teoria, non è in grado di LEGITTIMARE la PROSPETTIVA NORMATIVA (della giustizia). Hoffe ha l’esigenza di FONDARE la prospettiva della giustizia. Inoltre, Hoffe afferma che sia Rawls che Kelsen, non hanno preso in considerazione il problema semantico della giustizia. Ma in realtà non è così: Kelsen fa un’accurata analisi semantica del concetto di giustizia e vediamo come il problema della giustizia in Kelsen non né secondario né assente. Egli distingue il DIRITTO DAL VALORE, nonostante non voglia escludere del tutto l’ETICA dal diritto, ma è sicuro che non è compito della scienza giuridica VALUTARE ETICAMENTE IL DIRITTO. Tutto ciò si lega ad un altro aspetto kelseniano, ovvero l’IDENTIFICAZIONE DEL GIURISTA: 1. Operatore giuridico: sceglie in base ai propri valori, quindi c’è di mezzo un’interpretazione, visto che l’operatore giuridico sceglie uno dei tanti significati della norma (interpretazione autentica). 2. Teorico del diritto: “il giurista” di Kelsen invece, non deve scegliere nulla, la scelta non lo riguarda, deve indicare solo TUTTI i SIGNIFICATI possibili di una norma (questo si definisce come un’interpretazione descrittiva). Questo dunque dimostra che KELSEN affronta il problema della giustizia e afferma che la giustizia è una caratteristica del comportamento umano, consistente nel modo di trattare gli uomini. Egli individua due tipologie di norme: 1. Norme di diritto 2. Norme di giustizia Secondo Kelsen queste due tipologie di norme possono entrare in conflitto, un conflitto che deve essere risolto, cioè solo una delle due norme può essere considerata valida: Kelsen parla di “validità oggettiva”: si ha quando il senso soggettivo della norma (l’atto imperativo: il comando verso il singolo soggetto) deve essere inteso anche come senso oggettivo (il comando è vincolante per tutti i destinatari di esso). Il valore di giustizia e il valore giuridico sono perciò due concetti diversi; insomma se una norma è valida giuridicamente non vuol dire che essa sia giusta. Esistono delle leggi/norme ingiuste, che quindi non possono essere conformi al valore di giustizia, ma sono comunque valide giuridicamente. Riassumendo, il diritto positivo (norma) può essere 1. Giusto o ingiusto; 2. Né giusto né ingiusto, ma non si ha giusto ed ingiusto allo stesso tempo. Questo esempio ci fa capire quanto la teoria del diritto e quella politica siano diverse: nel diritto i valori non si possono conoscere né giustificare, il diritto non è un valore, ma assume valore dal sistema da cui nasce. Kelsen oltre che occuparsi di teoria del diritto (non è cognitivista), si occupa di teoria politica, e Kelsen, a differenza di Rawls, è un relativista e non un universalista poiché afferma che i valori sono relativi ed esistono, sono già presupposti e non necessitano di essere giustificati, lo sono già. Bisogna solo capire qual è il valore migliore praticabile e secondo Kelsen l’unico considerato migliore è la democrazia, che realizza i valori di eguaglianza e libertà. Comunque abbiamo detto che Kelsen è un relativista, il che significa che secondo lui x e y possono anche avere valori diversi, senza che l’uno consideri indifferenti i valori dell’altro. (Kelsen ha una concezione relativista della politica, il che non coincide con una concezione pluralista della politica, e quindi con l’idea, tenuta presente da Rawls, del pluralismo dei valori). Ciò significa che anche se abbiamo valori diversi possiamo prendere sul serio quelli principio universalmente valido che ci dica come distribuire i beni, ma esistono diversi principi rilevanti. Spesso esiste una differenza fra rilevanza e operatività delle ragioni su cui i diritti delle persone si fondano: maggiore è il gap fra rilevanza e operatività, maggiore è il tasso di trattamento diseguale in una società (si ha più diseguaglianza). La rilevanza è il compito del legislatore costituzionale, che ha il compito fondamentale di proteggere gli individui dalla violenza arbitraria, dando loro dei diritti. Invece, occuparsi del problema del tasso di trattamento diseguale in una società dovrebbe essere il compito del politico, attraverso la promozione di buone leggi ordinarie attuative dei principi costituzionali ad esempio. Si può concordare sul fatto che certi tipi di bisogno siano la ragione per avere un bene, ma non sempre avere un merito significa che quel bene che meritiamo ci verrà dato (a volte, per diverse ragioni, anche se abbiamo un merito, non avremo il bene che “ci spetta”). Williams fa l'esempio delle scuole private: se queste impartissero un tipo di educazione superiore a quelle pubbliche, solo le persone più ricche potrebbero farvi studiare i figli, meritevoli o meno; e altri altrettanto più meritevoli rimarrebbero privati di un tale bene. Williams sostiene una sorta di principio debole ineliminabile, quello secondo cui occorre sempre cercare di fornire delle ragioni sulle differenze intorno al modo in cui le persone vengono trattate. Il principio delle pari opportunità di accesso ad un bene è un principio fortemente egualitario, ma non comporta che i beni a cui si aspira siano alla nostra portata, dato che essi dipendono dalle capacità e dai meriti di ognuno, oltre che dalla scarsità di quel bene (es. concorsi pubblici rigidi, in cui il concorso è aperto a tutti, ma bisogna possedere dei requisiti giusti ed oggettivi, rimanendo un metodo selettivo). Si può dire che l’EGUAGLIANZA DI OPPORTUNITA’ l’eguaglianza di opportunità garantisce che un bene limitato vada allocato utilizzando criteri che non escludono nessuno a priori, quindi criteri razionali e appropriati al bene in questione, compatibili col desiderio di accesso da parte di persone appartenenti a PIU’ SETTORI DELLA SOCIETA’ (Rawls la pensa così). (L’esclusione è l’opposto dell’egu., di opportunità). I settori della società sono identificati da caratteristiche (ricchi, poveri) legate alle ragioni dell'esclusione (i settori della società hanno delle caratteristiche attraverso cui viene giustificata una possibile esclusione). Si pensi all'esempio proposto da Williams della classe dei guerrieri: in una certa società che per tradizione è caratteristica delle famiglie più ricche o benestanti. Essere guerrieri implica essere prestante fisicamente. Essere prestante fisicamente implica essere ben nutriti. Essere ben nutriti implica avere i soldi per potersi permettere un'adeguata alimentazione. Una riforma che possa permettere dell'accesso di tutti a questa classe di guerrieri, sarebbe una riforma egualitaria e che rispetti il principio di pari opportunità, ma per forza di cose non comporterebbe effetti egualitari, poiché i poveri o i molto poveri, a causa della malnutrizione, difficilmente arriverebbero a raggiungere una tale prestanza fisica da potere avere la capacità richiesta per una pubblica e imparziale selezione. Quindi: "Eguaglianza di opportunità" significa adottare dei criteri di selezione o di distribuzione che tengano conto dell'esistenza di diseguaglianze ambientali. Eguaglianza di opportunità, quindi, significa fare riferimento al contesto di partenza. C’è una soluzione? Williams non riesce a darla, ma ci diche che è rischiosa l’eguaglianza assoluta. Un' assoluta eguaglianza di opportunità è qualcosa di cinico, poco umano e profondamente ingiusto, e non tiene conto delle differenze e dei valori presenti in diversi mondi di vita. Umberto Eco lo ribadisce, dicendo che essa comporta rischi quali la legittimazione della superiorità di chi ha particolari caratteristiche (di una cultura). Se è vero che i valori occidentali contemporanei più rispettabili sono libertà e pluralismo, è altrettanto vero che essi implicano contraddizioni nella promozione di certe concezioni del bene, e forse anche giustizia. Umberto Eco propone l'esempio del valore della durata della vita: l'inquinamento atmosferico nuoce alla vita, ma è anche un effetto dei laboratori in cui si studia l'allungamento della vita. È importante per noi, aprirci al pluralismo, che è forse la soluzione, ma senza cadere nell’Eguaglianza assoluta di cui parlavamo prima. (Quando le diseguaglianze sono giuste? Ci possono essere diseguaglianze giuste ed altre ingiuste). Scelte meno ingiuste? (Cercando di individuare il valore intrinseco dell'eguaglianza, Nagel introduce il principio di utilità marginale decrescente, in presenza di molti beni, un particolare incremento ulteriore abbia meno valore per chi già possiede una quota considerevole del bene rispetto a chi ne ha meno. per cui la ricerca dell'eguaglianza ad un certo punto determina il sacrificio dell'utilità totale o comunque del benessere di ciascuno nella società, poiché ogni nuovo incremento ha minore valore rispetto a quello precedente). Anche Thomas Nagel si occupa di eguaglianze: osserva vari tipi di eguaglianza (politica, legale, sociale ed economica), ma sottolinea che solo quella economica può essere definita formalmente (misurata) e influenza le altre, che invece non si possono ottenere con provvedimenti prescrittivi (come le cose dovrebbero essere). Questo significa che, nonostante ci siano più tipi di eguaglianza, quella politica, sociale e legale possono essere oggetto di leggi, ma questo non garantisce che si raggiungano realmente, e sicuramente quella economica risulta avere la prevalenza in quanto misurabile, visto che, praticamente, è la più grande minaccia delle altre forme di eguaglianza considerate. [Es: Il suffragio universale non garantisce l'eguaglianza politica; un giusto processo non mi garantisce l'eguaglianza legale; l’abolizione di titoli e la barriera fra classi non garantisce l'eguaglianza sociale]. Siamo sicuri che l’eguaglianza sia buona in s é ? Nagel ci pone due risposte affermative: a) La tesi comunitaria che sostiene l'argomento secondo cui l'eguaglianza sia un bene per la società, considerata come un tutto (virtù, simpatia e fratellanza). b) La tesi individualista che sostiene l'argomento secondo cui l'eguaglianza sia un bene per l'individuo, cioè sostiene l'aspetto distributivo della eguaglianza, che può soddisfare interessi e bisogni di persone diverse fra loro. Ciò può realizzare o meno simpatia e fratellanza sociale, ma non è un ingrediente necessario come nella tesi comunitaria. Nagel sostiene la tesi sull’eguaglianza proposta dagli individualisti, perché gli sembra la più plausibile: egli riprende il pensiero rawlsiano e condivide la sua posizione in merito all ’eguale protezione delle libertà politiche e personali degli individui, in secondo luogo, quindi, la possibilità di giustificare le diseguaglianze solo quando queste vanno a vantaggio dei meno avvantaggiati (principio di differenza). Da ciò Nagel deduce l'utilità del principio di differenza (anche se è stare meglio è una cosa buona per chiunque, lo stare meglio di chi sta peggio, ha più valore dello stare meglio di chi già sta meglio). Tutte le teorie della giustizia guardano all’eguaglianza, considerando fondamentale un qualche tipo di eguaglianza morale: a) per l’utilitarismo gli interessi sono eguali; b) per il libertarismo l’eguaglianza morale si esprime con la libertà negativa; c) per il contrattualismo rawlsiano l’eguaglianza degli individui si esprime con i due principi di giustizia; Ognuna delle tre ha oltretutto una considerazione diversa sui “meno avvantaggiati”: per Rawls sono da preferire i vantaggi dati ai più svantaggiati, il libertarismo crede che trasferire beni ad essi violerebbe i diritti di chi deteneva legittimamente questi beni, e l’utilitarismo non accorda (attraverso una tecnica/calcolo) questa priorità (indifferente). Il risultato è comunque lo stesso: sia utilitaristi, che libertaristi, non procedono alla redistribuzione dei beni ai meno avvantaggiati. La teoria egualitaria è l’unica tra le tre ad ammettere la diseguaglianza distributiva in favore di chi è meno avvantaggiato] ma che vuol dire essere meno avvantaggiati? Vuol dire avere carenze in beni primari. Quali sono questi beni primari? Sia Rawls, che Nagel, dicono che sono i beni vitali, necessari per una vita dignitosa. A tal proposito Rawls individua cinque tipi di beni primari: 1. diritti e libertà di base (fondamentali); 2. libertà di movimento e libertà di scelta dell’occupazione; 3. poteri legati alle cariche di responsabilità e autorità; 4. reddito e ricchezza per raggiungere i propri, legittimi scopi; 5. il rispetto di sé (base sociale, in reciproco rapporto di fiducia con le istituzioni); Nagel ha un punto di vista simile a questo, di Rawls, ma con delle differenze: Rawls sostiene che la lotteria naturale non ha giustificazioni, è ingiusta e ne derivano privilegi non meritati (per questo ritiene importante il principio di differenza); Nagel non capisce perché dovrebbe Vendetta e sanzione condividono: a) l’esistenza di un bene leso; b) l’urgenza (chi punisce vuole che la giustizia sia fatta in tempi certi e rapidi); c) proporzione (compensazione del torto subito in modo proporzionale o non inferiore al danno ricevuto); Si potrebbe dire che il sistema penale è una forma di vendetta pubblica (perché non esiste un principio di giustizia che differisca dal principio di vendetta). La differenza sarebbe da un punto di vista sociale: perché mentre la c.d. vendetta pubblica (sanzione) porta ad una chiusura, in quanto una sanzione espletata non è più ripetibile perché il processo si chiude, la vendetta, invece, implica il pericolo di una forma di escaletion (che porterebbe all’innescarsi di faide). L’antropologo René Girard sostiene che il sistema giudiziario è una forma di razionalizzazione della vendetta, più efficace. [Dal punto di vista fenomenologico costituisce un’arma a doppio taglio, una forma di oppressione e anche di liberazione. Un esempio è dato dalle società primitive, che sono esposte alla spirale della vendetta proprio in assenza del sistema giudiziario, basandosi quindi sul meccanismo della vendetta. Un altro punto da rilevare è che la vendetta al pari della sanzione non è violenza indifferenziata. Anche il filosofo e giuridico Kelsen concordava su questo punto, sostenendo che fin quando i tribunali stessi non accertano che l’uso della forza è vietata, l’individuo che si sente danneggiato si sentirà altrettanto legittimato ad usare la forza, e quindi la vendetta, come reazione all’ingiustizia subita]. La violenza, così come la sanzione, non è violenza indifferenziata, ma è mirata. Alla vendetta definita solo in termini negativi (violenza che chiama altra violenza), Girard contrappone la violenza del SACRIFICIO, a dimostrazione che ci sono altre forme di violenza che non comportano la vendetta (nel sacrificio manca l’elemento della vendetta). Per Girard infatti, mentre la vendetta è disordine (spontanea, reciproca e annullatrice) che crea escalation, il sacrificio ha una funzione di ordine (rituale, unanime e catartico) (perché tagli quel meccanismo a spirale, questa funzione risiede nel rapporto tra ciò che viene chiesto e ciò che viene elargito). Nell’atto del sacrificio dev’esservi una corrispondenza tra categoria sacrificabile e quella non sacrificabile. Chi è quindi la vittima? I sacrificabili elencati da Girard sono: gli schiavi, i minorati, i prigionieri, i celibi, gli emarginati e i rifugiati, a volte può essere anche il sovrano. Il sacrificabile dev’essere colui che sfugge alla società, che non è eguale. La vittima sacrificale dev’essere pura (causalità primitiva). [La vendetta è anti- coesistenziale, perché mette in gioco l'esistenza stessa della società; la si trova in contesti di validità politica e giuridica: ed è dove questa validità viene rifiutata, che l'azione della vendetta viene percepita come doverosa. Il sistema penale è così una specie di vendetta pubblica, una razionalizzazione della vendetta, secondo Girard, in termini di maggiore efficacia]. -> il prof.re non concorda. Dice Erik Froam ha scritto che tanto la vendetta quanto il codice penale hanno una certa utilità nel conservare la stabilità sociale. Qual è allora il fondamento della vendetta? pare non esista una risposta esaustiva e universale, se nelle società primitive può essere una sorta di base metafisico magica dell’atto di vendetta, basate su una coscienza di tipo collettivo; allora nelle società moderne individualiste, vi è l’idea per cui è presente il desiderio personale e razionale di giustizia (e di distribuzione della giustizia). Un punto significativo è il fatto che la vendetta è rilevante sul piano politico, perché la vendetta comporta una comunicazione sociale che si basa sullo scambio bilaterale di restituzione della lesione (con un’inversione tra offensore ed offeso). Per l’occhio occidentale moderno, la vendetta è un meccanismo reattivo personale, cioè reazione al desiderio di infliggere una sofferenza a chi ha causato un torto. Nelle società moderne il fenomeno della vendetta ha un significato politicamente destabilizzante, così com’è altrettanto probabile che la vendetta venga scelta ed intesa come una forma alternativa di retribuzione di giustizia, rispetto al sistema istituzionale (manca l’elemento della fiducia). In questo senso, la vendetta può essere vista come uno strumento di esercizio di potere politico (in grado di opporre e confrontare diversi gruppi sociali). Questa forma alternativa è basata su una sorta di rapporto comunitario, sorretto da una forma di solidarietà tra coloro che stabiliscono questo tipo di rapporto di fiducia con queste agenzie alternative di controllo della violenza. Si crea una sorta di “vita del gruppo” che viene protetta contro le aggressioni esterne. La solidarietà tra i membri permette il reciproco riconoscimento di identità e micro- cittadinanza, in questo senso ha anche una sorta di pretesa etica, ovvero restituire dignità ed onore alle persone offese. [Un altro elemento a favore della solidarietà nel rapporto vendicatorio è il fatto che, al contrario, la sanzione pubblica è impersonale e quindi non crea solidarietà proprio perché mira ad isolare il soggetto destinatario, alla reclusione attraverso la pena. Al contrario, la vendetta attuata genera un’integrazione del destinatario all’interno di un dato gruppo sociale]. Bisogna considerare queste argomentazioni:  • la vendetta non è ammessa perch é è proibita : la vendetta è una pratica strutturalmente vietata, quindi non è ammessa perché è proibita in quanto aprioristicamente contro un qualcosa (norme del diritto o regole della politica). Tuttavia, quest’argomentazione non spiega perché esistono argomenti a favore della vendetta in realtà sociali dove questa pratica viene istituzionalmente accettata, come ad esempio in alcuni paesi islamici. • dato che la vendetta non è ammessa, essa è proibita : la vendetta è riconosciuta come strutturalmente contraria al diritto, viene quindi affermato che esiste un insieme di leggi e di regole che vietano l'uso di una pratica non familiare ai modelli culturali occidentali e di tipo liberale, ma non esclude che altri in modelli culturali tale pratica sia ammessa. Nella vendetta proibita vengono meno i suoi elementi fondamentali: il desiderio di giustizia e la doverosit à della vendetta (significa che non è possibile far a meno del dovere di vendicarsi). Il filosofo Nietzsche immagina la vendetta come una sorta di contratto privato (un comportamento egoistico riguardo alle ragioni di azione). Nella sua concezione, giustizia e vendetta traggono origine, oltre che da una forma di contratto privato, anche da un comportamento egoistico riguardo alle ragioni di azione. Nel testo “Sull’origine della giustizia” scrive che la giustizia (equità) trae origine tra uomini di forza uguale, e dunque non essendoci una prevalenza, una probabile lotta porterebbe ad un rispettivo nuocersi a vicenda. È in questo contesto che tra le parti sorge la necessità di trovare un accordo (grazie all’elemento della consapevolezza di sé), negoziando uno scambio (momento originario della giustizia, la giustizia è così compensazione e scambio). Nietzsche individua due tipologie di vendetta: 1. la vendetta di tipo conservativo: lo assimila al momento originario della giustizia, lo scopo è prevenire un secondo colpo dell’avversario, l’intenzione è quella di voler uscire dallo stato di paura per un istinto di conservazione (ha un qualcosa di fenomenico). 2. la vendetta di tipo retributivo: è volto al ristabilimento di un ordine violato, qui l’intendo è quello di infliggere sofferenza a prescindere da ciò che l’avversario potrebbe fare; in questo senso è compiuta in nome dell’onore e della dignità (ha un senso noumenico). Nel caso in cui viene leso l’onore, che viene percepito in modo comune agli occhi degli altri, la vendetta, da privata, diventerà pubblica (al contrario sarà segreta). Il discorso verte sul fatto che nello spazio personale di amministrazione della giustizia, giocano un ruolo significativo anche i sentimenti (ruolo, invece, negato al giudice in quanto terza parte) come il perdono, il disprezzo, l’amore, ecc. Per Nietzsche questa è l'unica differenza fra sanzione e vendetta. (atto sovversivo in sé antigiuridico) e come fatto (determinato dalle contingenze storiche e ben compiuto, che arriva a costituire un nuovo Stato), capiamo qui la differenza tra un atto singolo e la creazione di una nuova Costituzione. Quando avviene la creazione di una Costituzione, qualsiasi sia il modo in cui questo cambiamento è nato, il suddito dovrà obbedire all’autorità; come aggiunge Kelsen, le norme dell’usurpatore saranno ormai efficaci e si dovrà rispettare quelle che sono le nuove norme costituzioni. Tutto ciò vale per la rivoluzione in senso stretto, non per l’atto terroristico perché questo non produce alcun cambiamento dell’ordine politico. [Certo, è innegabile che il partigiano abbia sempre una sorta di doppia entità: è "parte" per qualcosa, e "terrorista" per qualcos'altro. È parte di un gruppo che spesso esprime un silenzioso consenso su azioni che si ritengono compiute contro Stati di ingiustizia e il nome della liberazione da forme di oppressione; ma è sempre qualificato come terrorista, per forza di cose, da parte della legittima autorità politica]. Caso WTC: ciò che avvenuto l’11/09 non può essere considerato simile al terrorismo classico, perché è stato commesso qualcosa senza una ben precisa rivendicazione e senza un obiettivo politico ben preciso. Quindi, questo tipo di terrorismo non può rivendicare nessun tipo d’ingiustizia. La distruzione delle torri gemelle appare come più simile a una guerra offensiva che a una forma di resistenza difensiva. Il tecno-terrorismo non dipende da una sola persona/gruppo/paese, ma si potrebbe dire che esso dipende da qualcosa che non è spazialmente localizzabile. Quindi identifichiamo un nuovo terrorismo, tecno- terrorismo o terrorismo globale che rientra nel sistema a rete in cui è ormai entrato il mondo; questo nuovo sistema azzera il concetto di tempo e spazio rispetto a com’era prima, non esiste più un centro ed una periferia del mondo ed in questo scenario il “nemico” che agisce diventa una rete mondiale di organizzazione terroristica e gli Stati che la aiutano. In questo contesto, la propagazione della violenza funziona come per i virus, propagandosi nella rete in cui non esistono distanze da coprire perché in tempo reale [haker]. Questo sistema tende ad annullare la sovranità dello Stato, che come sappiamo ormai, perde sempre più terreno a favore di sistemi sovra-statali ed internazionali. Un'altra questione filosoficamente rilevante è se le reti tecno-terroristiche siano definibili come "entità politiche". Sarebbe rischioso considerare questi fenomeni estranei alla politica, nonostante siano caratterizzati dall’invisibilità, la non identità, e indeterminatezza. Il discorso di Bush alla nazione la sera dell'11 settembre è caratterizzato da un linguaggio politico tipico di uno Stato in guerra, intriso di giustificazioni di tipo etico. Così com’è probabile che se gli USA non avessero potuto fare leva sulla loro posizione egemonica di superpotenza mondiale, non avrebbero violato le norme del diritto internazionale Ciò che invece di questo esempio può essere utile è che contro fenomeni così estesi occorrerebbe intervenire sulle cause, non sulle conseguenze; e per intervenire sulle cause, occorre domandarsi chi è il nemico. Se è uno Stato/popolo/paese preciso, allora la guerra potrebbe essere un rimedio rapido ed efficace contro un obiettivo ben mirato. Ma se il nemico non è ben identificato [è un concetto e non un’identità], non serve rispondere al fuoco con il fuoco perché sarebbe come sparare a caso, con la conseguenza di produrre ancora nuove ingiustizie. [A ciò occorre aggiungere che la lotta al terrorismo degli USA ha rapidamente trasformato la strategia americana delle relazioni internazionali: da un arrogante isolazionismo a un'altrettanto arrogante strategia dell'inclusività (che non implica l'apertura), cercando alleanze e consensi come paesi come Russia e Cina. Dopo l'11 settembre Putin consente a Bush di utilizzare lo spazio aereo russo facilitando alle flotte aeree americane l'accesso in Afghanistan e aprendo soprattutto la strada verso una conclusione positiva della missione USA. A Putin interessava tanto quanto a Bush a sconfiggere al-Qaida, ma per una ragione decisiva differente da quella ufficiale americana (l'attacco al Wtc): il finanziamento è l'armamento della ribellione cecena da parte del terrorismo islamico. Tuttavia, gli USA hanno parzialmente fallito il loro obiettivo dichiarato. Hanno bombardato basi militari afghane, ma non hanno catturato Osama Bin Laden, né arrestato il terrorismo]. Gli scopi ufficialmente dichiarati dei vari terroristi consistono tutti in rivendicazioni variamente nazionalistiche, rivendicazione di diritti di popoli oppressi da Stati che non hanno permesso loro il diritto di autodeterminarsi. In ogni caso si tratta di una situazione da cui non si esce più: l'ingiustizia del terrore viene ripagata dall’ingiustizia della guerra. È chiaro che non è più un problema morale, ma di sensato realismo: non serve più rispondere al terrore con gli eserciti. In riferimento all’attacco delle torri gemelle, per Chomsky è la maggior perdita umana dopo i fatti di guerra, oltre ad essere un evento ripetibile. Si fa poi un excursus più preciso sui fatti accaduti prima e dopo l’attacco, che coinvolgono Afghanistan, Pakistan ed USA; si ribadiscono altre azioni militari Int., (Nicaragua) americane, arrivando alla conclusione che qualunque politica egemonica tutela il preservare del proprio territorio interno facendo leva sulla propria forza, ed è in casi come questi che il diritto Int., mostra la sua debolezza. Il prof.re delinea che non può esserci dubbio sul fatto che l'idea di un mondo dominato con la forza e dalla violenza sia una forma di ingiustizia contraria a qualunque buona filosofia politica. Ma questo mostra anche che il terrorismo funziona, da qualunque parte esso provenga. E funziona solo a uno scopo: quello di generare violenza da violenza. Questa è la tesi di Chomsky. Se la violenza è l'arma del dominio, il terrorismo è l'arma dei potenti.  Quando si sostiene il contrario, ciò avviene unicamente perché i potenti controllano anche gli apparati ideologici e culturali che consentono di far passare il terrore per qualcosa di diverso. Per Sciacca per combattere il terrorismo è necessario ridurre e non aumentare il livello di terrore. È quindi possibile che il fatto del terrorismo, rispetto ai decenni passati, presenti delle novità e dei cambiamenti: per cui crede sia più sensato parlare di metamorfosi che di rottura. Il terrorismo è cambiato insieme alla società, soprattutto insieme alla sovranità, che non è più statale ma va verso un modello non ancora chiaro ma sicuramente non locale, trans-nazionale e reticolare. Danilo Zolo sostiene che il mondo sia cambiato dopo l’11/09, soprattutto vista la guerra in Afghanistan e la pretesa di una guerra legittimata con il “male” assoluto, a prescindere dalle norme dei trattati di diritto Int. Il prof.re condivide l'atteggiamento realistico di Zolo, secondo cui i mezzi bellici e antiterroristici adottati dagli USA vanno aldilà di una lotta contro il c.d. terrorismo globale, mostrando anzi come non sia questo l'obiettivo degli americani, ma piuttosto il consolidamento di un primato e di un’egemonia politica mondiale fondata sul "diritto unilaterale di usare la forza" (e non solo, quindi, per portare libertà e diritti umani come dicono). Zolo attesta il fallimento del progetto politico pacifista tanto auspicato da Kant, mentre l'indebolimento delle istituzioni Int., pare confermare questo punto, aprendo lo scenario verso nuove forme di ingiustizia politica: prima fra tutte, quella del dominio. La formula "pace attraverso la legge" si rivela sempre più una sorta un'utopia destinata a sottostare sul piano dell'effettività, spesso brutale, delle relazioni internazionali; è certo, però, che la guerra generi altra guerra. La non-violenza è un'utopia ma potrebbe essere una buona soluzione per ridurre il problema del terrorismo. Zolo invoca la tolleranza, il rispetto per le differe e eper l’altro, ma sicuramente questo è difficile da realizzare. Terrorismo e morale C’è un rapporto tra terrorismo e morale? Nel terrorismo classico forse era ancora presente, mentre è da escludere nel terrorismo globale. Baudrillard ne sostiene, infatti, l’immoralità, aggiungendo che ormai il bene ed il male crescono contemporaneamente e dunque è inutile reagire alla violenza con altra violenza. Siamo arrivati al punto in cui bene e male si confondono quasi ed anche i confini tra giustizia ed ingiustizia diventano più sottili. I terroristi utilizzano un’arma nuova cui lo Stato non può rispondere: la propria morte, essi agiscono come se facessero un patto sacrificale vero e proprio che si inquadra bene nella nostra società tecnologica e rete. Baudrillard parla di “nuovo terrorismo” ma Sciacca non condivide, in quanto le sue caratteristiche non sono poi del tutto diverse: l'unica cosa nuova del terrorismo è che esso non rappresenta più una singola entità, ma agisce per conto di una rete, perciò si stacca dal legame col soggetto (è de-soggettivato); però, la sfida con il nemico è concreta, reale, e c’è anche una sorta di patto con l’avversario. La violenza di questi attacchi diventa più simbolica che reale, perde ogni moralità e ci spinge verso un mondo sempre meno libero, sempre più controllato da polizia ed in nome della sicurezza. In questa estrusione della morale, i media giocano un ruolo importante: essi contribuiscono a uccidere la realtà. La realtà e la sua immagine tendono così tanto ad assomigliarsi da risultare indistinte. L'unica vera risposta è la morte: l'unica arma contro cui il sistema politico non può reagire. La morale del terrorismo viene ancor meno col bio-terrorismo, per un motivo principale: l'impossibile identificazione del soggetto passivo e del soggetto attivo, l’impersonalità morale (l'inapplicabilità del principio morale dell'imputazione) della vittima e del carnefice. Per quanto riguarda il soggetto passivo (chi subisce) non è un uomo politico, un rappresentante del potere forte, ma chi subisce sono gli innocenti. Si tratta si un annientamento senza morale, in quanto l’atto terroristico non è rivolto a coloro contro i quali si lamenta ingiustizia (non rientra più nell'ordine della sfida simbolica). Chi è il bioterrorista? Il soggetto attivo non è identificabile. Le vittime non riescono a vedere da dove deriva l’attacco e soprattutto sono coinvolte più parti: da colui che prepara i microrganismi alle agenzie che mettono questi in contatto con gli esecutori, ma chi è allora veramente il responsabile? Ciascuno riesce a mantenere l’anonimato, quindi ecco che nuovamente si afferma la totale spersonalizzazione di questi attacchi, rimanendo impossibile attribuire a qualcuno la responsabilità degli atti. Le armi biologiche rappresentano una rivoluzione militare riguardo all'uso di deterrenti strategici, con implicazioni importanti nella politica internazionale. Il fatto che esistano virus modificati geneticamente, in grado di generare organismi super- resistenti agli antibiotici e alle terapie farmacologiche, amplifica la portata di un fenomeno in grado di provocare terrore. Il terrorismo genetico è dunque un rischio politico consistente e potrebbe essere usato per scopi di sterminio etnico; si pensi che le armi batteriologiche sono molto più facili da realizzare di quelle nucleari (alcuni paesi stanno studiando la produzione di armi biologiche con obiettivi difensivi). Proprio perché alcuni paesi possiedono armi biologiche, si è cercato di intervenire assicurando Convenzioni come quella di Ginevra del 1925 che proibisce l’uso di gas asfissianti o armi biologiche, seguita da altri interventi dell’ONU o dell’OMS, per finire con la Biological Weapons Convention del 1972. Essa proibisce produzioni di germi patogeni e tossine, la liberazione di agenti nell’ambiente ed impone la distruzione di depositi ed attrezzature di questo tipo. Ogni violazione va riferita al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che può intervenire con ispezioni e controlli. Per alcuni Stati il disarmo è stato lungo e complesso, molti non hanno ancora firmato la BWC, mentre gli USA si sono ritrovati ad ostacolarla con leggi interne contrastanti. Analoga Convenzione è nata contro l’uso di armi chimiche, concesse solo ed in modo limitato alla difesa. Rilevante dal punto di vista morale, è che con questo tipo di armi (biologiche e chimiche) è difficile applicare il principio d’imputazione e quindi capire chi è il soggetto attivo, cioè chi ha causato ingiustizia ed ha la responsabilità giuridica e morale di queste azioni. Tra queste tipologie di armi abbiamo quelle atomiche: l'uranio su Hiroshima ed il plutonio su Nagasaki sono un esempio indelebile nella storia dell'ingiustizia umana. Anche in questo caso non è Sciacca conclude con il problema dell’estradizione: ad esempio dopo l’11 Settembre gli USA hanno fatto molte pressioni per avere estradizioni (da parte di paesi Europei) di accusati di terrorismo; il Parlamento Europeo ha deciso che non si sarebbe proceduto senza precise garanzie che escludessero la pena di morte. (prendendo sul serio l’inscindibilità del rapporto tra il diritto alla vita e rispetto della dignità dell’uomo ed individuando con fermezza il primo principio di quella che Hoffe chiama MORALE GIURIDICA EUROPEA: I DIRITTI-UMANI). Bisogna ricordare che dopo l'istituzione dei tribunali internazionali per i crimini in ex- Jugoslavia e in Ruanda e l'entrata in vigore del tribunale permanente per i crimini di guerra e contro l'umanità, la pena di morte è formalmente abolita dal diritto internazionale. Sciacca ritiene che la lotta contro la pena di morte in campo internazionale non sia più tanto un problema giuridico, quanto politico. È una lotta contro una forma di ingiustizia politica presente in paesi (come USA e Cina) che sono membri del consiglio di sicurezza, nonché membri istituenti di tali tribunali: paesi che non prevedono la morte per reati come genocidio, stupro etnico e stermini di massa ma che l'applicano nei confronti dei reati spesso non circoscritti all'omicidio, quando commessi entro i confini territoriali, talora eseguendo condanna di morte in violazione dei doveri di assistenza consolare previsti dalla Convenzione di Vienna. Excursus. Agire etico vs agire politico Nessuno Stato dovrebbe usare mezzi ingiusti per affermare la propria autorità politica, altrimenti finirebbe per affermare il proprio dominio. E per la morale giuridica e politica europea sicuramente la pena di morte è un’ingiustizia politica, un mezzo inumano per arrivare al proprio scopo. La politica non dovrebbe mai fare a meno dell’etica, perché si farebbe posto all’ingiustizia. A tal proposito ci è utile ricorda Kant, che, nell’opera per la pace perpetua, faceva la differenza tra il politico morale e il moralista politico 1. Il politico morale, cioè colui che intenda la politica legata alla morale; 2. Il moralista politico, cioè colui che forgia la morale come un vantaggio dell’uomo di Stato, cioè colui che usa la morale come gli conviene di più; Così sappiamo che in politica bisognerebbe che ci fosse, appunto, il politico morale, che usa la moralità in maniera disinteressata, pensando solo alla dignità della persona, consolidando – come Kant suggerisce- il legame tra ETICA E AZIONE, agendo in maniera morale al di là della prospettiva utilitaristica dell’interesse. CAPITOLO V NON-DIRITTI? - Globalizzare l’ingiustizia Si parla ovunque di "guerra globale". Sciacca ha adoperato questa espressione per analizzare alcuni problemi sorti in relazione al fenomeno del terrorismo post-Wtc. Stiglitz afferma che la globalizzazione è l'eliminazione delle barriere al libero commercio e la maggiore integrazione fra le economie nazionali. Inoltre, afferma che la globalizzazione potrebbe essere una buona possibilità per potenziare l'economia dei paesi deboli, ma si è rivelata sinora un'idea fallimentare, producendo effetti devastanti sui poveri del mondo. La buona politica e la buona economia non erano principi tenuti in conto nelle decisioni prese dal Fondo Monetario Int.; le scelte politiche in campo internazionale venivano fatte sulla base di una curiosa miscela di ideologia e cattiva economia. Entità come il FMI hanno favorito una cattiva economia, cercando trasparenza dagli altri paesi del mondo ma peccando di trasparenza. Si sono create nuove ingiustizie globali, trascurando l’importanza dei cittadini. Si è spesso detto che il processo innescato dalla "globalizzazione" sia irreversibile: qualcosa da cui non si può uscire, né tornare indietro. Come far funzionare la globalizzazione? devono esistere delle istituzioni pubbliche e globali che stabiliscano le regole. Innanzitutto, a livello finanziario: adottando tutte le misure possibili per evitare che il divario tra ricchi e poveri aumenti ancora, visto che si prevede che accadrà. Tabb afferma che l'insoddisfazione generata dall'irruzione del globalismo è legata al fatto che il denaro controlla oggi tutti gli aspetti della vita sociale; disparità economiche e diseguaglianze aumentano sempre di più a vantaggio dei grandi azionisti di società multinazionali. Il globalismo economico ha determinato un aumento del divario fra ricchi e poveri, mentre il sentimento di insoddisfazione non nasce, secondo Tabb, dallo scambio in sé ma dal capitalismo inteso come monstruum divoratore, un elefante amorale che è difficile da contrastare. Abbiamo un tipo di commercio che si distacca dalla dimensione statale e territoriale (soprattutto grazie alla rete) e che ha creato una sorta di feticismo dei beni, per cui le aziende sfruttano manodopera a bassissimo costo per poi rivendere i prodotti a prezzi altissimi. Tutto ciò degenera perché manca un potere regolatore, visto che le varie organizzazioni non riescono ad avere un reale controllo della situazione. Una soluzione dovrebbe essere il rafforzamento giuridico, imponendo delle regole che devono essere rispettate; un esempio emblematico in questo senso è la dichiarazione universale dei diritti dell'uomo (1948) che ha forte valenza morale e normativa ma non ha cogenza giuridica. Infatti, la sua natura non è quella di un trattato di diritto internazionale, ma di un documento giuridico contenente una dichiarazione di principi; come è precisato nel preambolo, si tratta di un ideale comune verso cui Stati e popoli devono tendere, e un modello che ha ispirato importanti documenti normativi. Questa dichiarazione seppur non sia una norma cogente, ha un grande valore morale ed ha ispirato numerose istituzioni statali, essa contiene valori irrinunciabili e purtroppo i diritti che contiene vengono costantemente violati dal commercio Int. Per far fronte a questa forma di ingiustizia bisognerebbe ricreare una nuova regolamentazione globale, orientata al controllo sociale, ad ora reso impossibile dal prevalere delle esigenze degli interessi economici (diritti dell’uomo in quanto uomo che trascendono lo status di cittadino). Tabb propone due soluzioni, che Sciacca ritiene poco praticabili: - la riforma del codice che regolamenta l’attività delle aziende: rivedere la bozza del codice di condotta per le aziende multinazionali (stilata dall’ONU e contenente l’elenco dei diritti ed obblighi delle società e dei governi), facendo in modo che essa possa essere letta dai cittadini che potrebbero deliberare sulla scelta. Si dovrebbe riformare l’attuale stato di cose che legittima lo sfruttamento, la povertà, questa forma di feticismo del consumo di cui parlavamo prima. Una soluzione democratica di questo tipo, anche secondo Tabb, è difficile. - La rivoluzione, con il passaggio dalla regola dell’oro (chi ha l'oro fissa le regole) alla regola d’oro (non facciamo agli altri ciò che non vogliamo fosse fatto a noi). Per fare ciò, sarebbe sufficiente attenersi ai principi della Dichiarazione, in particolare agli articoli 23 e 26, che sanciscono il diritto di ogni individuo che lavora a una equa e soddisfacente remunerazione e il diritto a un tenore di vita sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia. Questo perché i diritti delle persone hanno certamente priorità sul capitale. Ma questa soluzione è irrealizzabile, perché innanzitutto bisognerebbe attuare una rivoluzione delle coscienze. - Un’ alternativa potrebbe essere quella di una sorta di ‘Tobin Tax’ o di un’applicazione della legge di Okun sulle transazioni finanziarie Int, quindi, tassazione progressiva e redistribuzione della ricchezza (considerando che pochissime persone nel mondo sono talmente ricche da superare il benessere anche di grandi Stati, basterebbe racimolare 40 miliardi di dollari per garantire alla popolazione mondiale un benessere sufficiente, cosa ce lo impedisce? Sicuramente la logica della proprietà della detenzione dei beni. [Il sistema attuale non assomiglia tanto a un elefante, ma a una creatura mostruosa: ancora una volta, sembra che il progetto kantiano di appellarsi ai principi della dichiarazione di diritti debba essere messo in discussione di fronte a quella mostruosità politica della monarchia universalis, cioè dinanzi alla logica cieca del possesso e del dominio delineato dallo stesso Kant nello scritto sulla regione]. Nel sistema attuale la ricchezza, il possesso ed il dominio sono alla base del sistema, mentre i diritti passano in secondo piano. Secondo Sean la globalizzazione ha del buono in sé, degli aspetti positivi: come se i secolari scambi tra i popoli, le emigrazioni ed il commercio, si siano ora raffinati e si presentino nella loro forma moderna e tecnologicamente avanzata. Un problema da prendere più sul serio è l'ingiustizia politica, intesa come diseguaglianza. Le diseguaglianze riguardano le sperequazioni fra povertà e ricchezza e anche le asimmetrie nel potere politico, sociale e economico. A ciò si collega il fatto che in alcuni fra i paesi più poveri del mondo si sia abbassato lo standard of living Sostanzialmente le due prospettive (lo dice Veca) hanno un modo diverso di scegliere i principi di giustizia da un contesto limitato, sapendo che dovranno valere in maniera universale anche al di fuori di quel contesto. È opportuno parlare di un concetto di diritti umani inclusivo: compatibile in parte con l’idea di Habermas (tutela dell’autonomia politica), ma allo stesso tempo compatibile con l’idea (suggerita da Veca) di giustizia procedurale minima: ovvero che mira a fondare delle norme che includano tutti gli interessati al problema e in cui ci sia principi di giustizia capaci di garantire eguali libertà e diritti a tutti (la giustizia procedurale minima è un tipo di giustizia che vale a prescindere dai contesti storici che mutano, adottando delle interpretazioni di giustizia sempre valide). DIRITTI UMANI/ DIRITTI FONDAMENTALI: spesso quando si parla di “diritti umani” si tende a identificarli ai "diritti fondamentali". Habermas invece esprime la differenza tra questi due tipi di diritti: “diritti giuridici fondamentali” che sono norme costituzionali statutite e azionabili in vigore all’interno di una comunità politica, invece i “diritti umani” sono diritti di libertà, riguardano tutti gli individui in generale e non guarda alla nazionalità. - I diritti umani sono universali, si sviluppano in un contesto internazionale (sono diritti tourt court); - I diritti fondamentali sono relativi al contesto "nazionale"; Gianluigi Palombella osserva che i diritti umani non coincidono con i diritti fondamentali: perché i diritti fondamentali si iscrivono in una dimensione aperta e relativa, cioè possono riferirsi al singolo individuo o all’intera società, quindi potrebbero non necessariamente essere universali (“fondamentale” si riferisce a “norma prioritaria” in un ordinamento). I diritti umani si riferiscono ad uno spazio globale, mentre i diritti fondamentali si iscrivono in una dimensione locale (espressione di valori, cultura, concezioni in un determinato ordinamento giuridico). I DIRITTI UMANI SONO TALI PERCHE’ SONO RIVOLTI A TUTTI GLI INDIVIDUI E PROTEGGONO L’UOMO IN QUANTO TALE, mentre I DIRITTI FONDAMENTALI CONTENUTI IN UNA COSTITUZIONE SONO RIVOLTI AI SOLI CITTADINI DI UN PRECISO ORDINAMENTO GIURIDICO. [I DIRITTI HANNO GARANZIE? Palombella dice che i diritti soggettivi sono obbligatori e azionabili, considerando che le garanzie sono già insite nella norma (e non esterne ad essa), quando manca la norma il diritto non viene privato di efficacia]. I "diritti umani" riguardano l'uomo tolto da ogni contesto e da ogni specificazione. Il principio dell'universalità è il cardine dei diritti umani e l'elemento caratterizzante di quella che Alexy chiama “kantische Grundposition”: secondo questo principio, tutti gli uomini hanno determinati diritti. Alexy distingue “diritti umani assoluti” e “diritti umani relativi”: i primi sono i diritti che tutti possono opporre verso tutti, i secondi sono i diritti degli individui in quanto membri di comunità politiche, validi all'interno di esse. Nell'individuazione dei diritti umani e diritti fondamentali entra in gioco quella che viene definito da Kant il “duplice atteggiamento della politica” nei confronti della morale (ZWEIZUNGIGKEIT), a seconda cha la morale venga intesa come “etica” o come “dottrina del diritto” [Saggio Libertà vs. Dovere]. Kant parla della politica in rapporto alla morale e osserva che la politica assume una "duplicità di atteggiamento" nei confronti della morale, a seconda se viene intesa come etica o come dottrina del diritto. Nel primo caso (la morale è intesa come etica): la morale come etica raggiunge facilmente un accordo con la politica; nel secondo caso (la morale è intesa come diritto): la morale ha una supremazia sulla politica. Alla morale come etica corrisponde il dovere dell'amore degli uomini, mentre alla morale come diritto corrisponde il dovere del rispetto dei loro diritti. Per assolvere a questi doveri kantiani, si presuppone che gli individui siano dotati di poteri morali. Per Rawls una persona morale è una persona dotata di: A) capacità per una concezione del bene e B) capacità per un senso del diritto e della giustizia; Ciò che cambia fra diritti fondamentali e diritti umani è proprio la cornice di sfondo: cioè la dimensione statale nei primi, e quella trans-nazionale e globale nei secondi. Questo concetto era già stato enunciato da Del Vecchio quando parlava di principi generali, dicendo che è difficile pensare che essi si riferiscono ad un singolo Stato con la conseguente esistenza di tanti insiemi di principi generali, quanti sono gli Stati, ma al contrario i diritti sono universali quando si riferiscono alla generalità dell’idea del diritto, fondamentale nell’etica che ci fa considerare l’uomo come persona. Quindi possiamo definire i diritti umani: Sen afferma che i diritti umani sono legati al concetto di “umanità condivisa”, sono quindi staccati dalla cittadinanza e sono proprio di ogni essere umani, per cui il problema “diritti umani” è stato analizzato sia nella sua dimensione locale, che globale. Considerare i diritti umani come diritti giuridici con un contenuto morale non è però sufficiente, perché il nostro senso di "umanità condivisa" potrebbe non essere condiviso da altri, e il senso di umanità di altri potrebbe non essere condiviso da noi; dunque i diritti umani dovrebbero essere dotati di eticità e universalità, non in quanto diritti naturali, ma come diritti giuridici soggettivi. La denaturalizzazione (modifica) dei diritti umani pone il problema della loro giustificazione: ogni pretesa individuale fa i conti con un'altra, occorre perciò giustificare le pretese attraverso buone ragioni di carattere etico. Bisognerebbe evitare che la selezione dei diritti umani dipendesse da cose come modus vivendi, gruppi di interesse o forme di vita. Ciò proprio perché le forme di vita possono contenere pratiche sociali assai diverse, la scelta dei diritti dovrebbe mostrarsi neutrale, nel rispetto del fatto del pluralismo e delle differenze culturali. Sebastiano Maffettone afferma che in corrispondenza dei diritti umani esistono obblighi morali universali, che tutta la comunità Int., deve implementazione. Maffettone cerca quindi di superare il dilemma tra la non interferenza assoluta con le forme di vita ed una manipolazione unilaterale delle stesse: si tratta del problema dell’INGERENZA UMANITARIA -> è l'interferenza coercitiva in uno Stato sovrano, da parte di un altro Stato o di una coalizione, giustificata dalla necessità di prevenire o porre fine a una grave violazione dei diritti umani. Individuare una violazione dei diritti umani è delicato, perché chiama in gioco equilibri politici. Ma anche rimanere neutrale di fronte a cose come queste è difficile. Questo problema dell’ingerenza, si ripercuote sull’ingiustizia perché se si pensa di autorizzare l’intera comunità Int., all’ingerenza, allora si dà a tutti il diritto/dovere di far valere i diritti umani, non considerando la validità degli organismi Int. Il problema dell'ingerenza riguarda il piano dei valori ma anche il piano dei diritti. I punti in questo problema sono tre: 1. I diritti umani non equivalgono ai valori fondamentali (intesi come "valori culturali"), si tratta di una specificazione ulteriore, un corollario alla tesi della non coincidenza fra diritti umani e diritti fondamentali. 2. Non tutti i valori fondamentali diventano diritti umani, alcuni valori possono essere condivisi in una certa cultura, apparirebbe ingiusto imporli a culture in cui tali valori sono assenti o estranei per tradizione. 3. Se solo alcuni valori fondamentali possono diventare diritti umani, individuarli è appunto il problema che dovrebbe portare alla legittimazione (e all'obbligatorietà) dell'ingerenza. Questo schema fa capire che l’ingerenza è accettata in maniera restrittiva, per cui solo alcuni valori fondamentali diventano diritti umani e di conseguenza possono essere imposti (cioè essere oggetto di ingerenza). Crediamo ciò perché nella nostra cultura vogliamo tutelare il pluralismo senza imporre stili di vita a nessuno (lo dice Maffettone). Per questo non tutti i valori si trasformano in diritti ed è giusto che alcuni ideali permangano nella loro diversità, che sia condiviso solo un nucleo ristretto di diritti. Ed è per questo motivo che la teoria della giustizia internazionale presentata da Rawls ne "il diritto dei popoli" può rivelarsi un modello utile per prendere sul serio il fatto del pluralismo ragionevole e soprattutto la premessa secondo cui un diritto dei popoli dovrebbe essere in grado di accettare in via preliminare la diversità dei contesti cui si rivolge, costituiti da popoli ragionevoli e razionali (auto-interessati). Ma come far valere i casi di violazione dei diritti umani? Maffettone suggerisce che occorre mantenere due punti fermi: • Il primo punto è di carattere pragmatico: una condizione necessaria e sufficiente per l'ingerenza umanitaria è la sistematicità di gravi violazioni dei diritti della persona, che per Maffettone costituisce un'ipotesi continuista. • Il secondo punto è di carattere metodologico: il problema riguarda l'individuazione delle tecniche di ingerenza (più che l'intervento armato occorrerebbe ricorrere a strumenti di tipo commerciale, come il congelamento delle transazioni, o diplomatico come le negoziazioni). Tutto ciò (diritti umani e violazione di questi) dev’essere considerato alla luce della libertà (in senso kantiano): ovvero come libertà fondamentale di essere indipendenti dall’arbitrio altrui. A tal proposito Kant parla di indipendenza e precisamente di