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Riassunto di Letteratura latina manuale G.B. CONTE, Appunti di Letteratura latina

Per esame di letteratura latina, riassunto di tutta la letteratura

Tipologia: Appunti

2016/2017

Caricato il 15/09/2017

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Scarica Riassunto di Letteratura latina manuale G.B. CONTE e più Appunti in PDF di Letteratura latina solo su Docsity! LETTERATURA LATINA NEVIO Vita: Gneo Nevio, cittadino romano di origine campana, sembra che fosse di origine plebea: pochi nella Roma arcaica i letterati di tale origine. Morì, forse in esilio, nel 204 o nel 201, lasciando un diffusa fama letteraria. Opere: Numerose tragedie (fra cui almeno due praetextate, il Romulus e il Clastidium) e commedie. La sua opera principale è il Bellum Poenicum ,in saturni: il poema doveva contenere 4000/5000 versi, ne restano appena una sessantina. Il poema narrava la storia di Enea che da Troia giunge nel Lazio e, nella sua parte principale, la storia della guerra punica, che Nevio aveva vissuto. Fonti: Notizie occasionali ci vengono da Cicerone e da San Girolamo. Un indizio ci viene fornita da Plauto: nel Miles Gloriosus si parla di un poeta incarcerato e costretto al silenzio: Nevio?! Tra mito e storia Nevio è il primo letterato latino di cittadinanza romana, e ci appare come letterato vivacemente inserito nelle vicende contemporanee. Il forte impegno di Nevio della vita politica di Roma traspare dai caratteri originali della sua opera: il Bellum Poenicum è il primo testo epico latino che abbia un tema romano: ha caratteri di originalità molto marcati, non solo la scelta di un tema storico quasi contemporaneo. Il suo racconto con un salto temporale, affondava nella preistoria di Roma: la fondazione di Roma si ricollegava alla caduta di Troia, e i viaggi per mare di Enea erano in qualche modo paralleli alle peregrinazioni di Odisseo. In questo fase Nevio doveva dare notevole spazio all’intervento divino: gli dei dell’Olimpo erano importantissimi nell’epica omerica, ma ora – nel nuovo poema nazionale romano – il tradizionale apparato divino assumeva anche una missione storica, e 2 0 1 Fsanzionava la fondazione di Roma. Questa saldatura tra mito e storia innestava l ascesa di Roma in una specie di visuale cosmica, nutrita di cultura greca. Non conviene staccare troppo Nevio dalla tradizione letteraria greca: il Bellum Poenicum presuppone Omero, e presuppone anche la tradizione ellenistica del poema storico-celebrativo. L’idea di intrecciare una storia di viaggi e una storia di guerra (il viaggio di Enea, la guerra romano-cartaginese) sembra indicare un “incrocio” fra Iliade (la guerra di Troia) e Odissea (i viaggi di un eroe). Certi aspetti di stile rivelano un’originale mescolanza di cultura poetica ellenistica e ispirazione nazionale. L’importanza delle figure di suono: ripetizioni, allitterazioni, assonanze tendono a formare la struttura portante del verso, in particolare il saturnio trovava una sua armatura formale proprio nelle ripetizioni foniche. La sperimentazione si sviluppò in due direzioni principali: • la sezione “mitica” del poema imponeva a Nevio una sfida del linguaggio poetico greco, con la sua inesauribile riserva di epiteti preziosi, Nevio sperimenta nuovi composti e nuove combinazioni sintattiche. • la sezione “storica” imponeva altri problemi. Nevio adatta lo stile poetico a una lunga narrazione continua. Nel complesso, il Bellum Poenicum appare come un’opera di forte sperimentalismo, in cui forse le diverse componenti stilistiche non trovano uno stabile equilibrio. Dopo il tramonto del saturnio, la fama del poema sarà sempre oscurata dagli Annales di Ennio. Quell’ideologia eroica che nella storia di Roma verrà spesso rievocata, anche in forma distorta o insincera, trova nell’opera di Nevio una delle espressioni più autentiche. Di gran lunga più importante la produzione comica, che fa di Nevio il più autorevole predecessore di Plauto, e che suggerisce un talento letterario molto versatile. PLAUTO Vita: Plauto, come del resto quasi tutti i letterati latini di età repubblicana, non era di origine romana: certamente cittadino libero. La data di morte, il 184 a.C., è sicura; la data di nascita da una notizia di Cicerone: probabile una nascita tra il 255 e 250 a.C.. Opere: Plauto fu autore di enorme successo, immediato e postumo. Di Plauto furono fonti condotte vere “edizioni” ispirate ai criteri di filologia alessandrina: le commedie furono dotate di didascalie, di singoli personaggi; i versi scenici furono impaginati da competenti, in modo che ne fosse riconducibile la natura. La fase critica nella trasmissione del corpus dell’opera pluatina fu segnata dall’intervento di Varrone, il quale, nel De comoediis Plautinis, ritagliò nell’imponente corpus un certo numero di commedie (21, quelle giunte fino a noi), sulla cui autenticità c’era generale consenso. Queste sono opere da Varrone accettate totalmente e sicuramente genuine. La cronologia: alcune presuppongono vicende storiche: Casina allude chiaramente alla repressione dei Baccanali del 186. Tipologia degli intrecci e dei personaggi Per unanime riconoscimento, la grande forza di Plauto sta nel comico che nasce dalle singole situazioni, prese a sé una dopo l’altra, e dalla creatività verbale che ogni nuova situazione fa sprigionare. Una costante, come dato di fondo, la fortissima prevedibilità degli intrecci e dei “tipi umani” incarnati dai personaggi. Plauto desidera proprio questa prevedibilità: non vuole porre interrogativi problematici sul carattere dei suoi personaggi. I personaggi si possono ridurre a un numero limitato di “tipi”: il servo astuto, il vecchio, il giovane amatore, il lenone, il parassita, il soldato vantone. Questi tipi sono inquadrati fin dai prologhi e il pubblico ha così fin dall’inizio una traccia su cui far scorrere la propria comprensione degli eventi scenici. Ma ancora più caratterizzante in Plauto è la prevedibilità degli intrecci. Praticamente tutte le pieces si possono ridurre a una lotta fra due antagonisti per il possesso di “bene”: generalmente una donna e/o una somma di denaro necessaria per accaparrarsela. La lotta si decide, naturalmente, con il successo di una parte e il danneggiamento di un’altra. È buona norma che il vincitore sia il giovane, e che il perdente abbia in sé le giustificazioni della sconfitta (è un vecchio, un uomo sposato, un ricco trafficante di schiave...): così la vittoria finale trova piena corrispondenza nei codici culturali che il pubblico già possiede, confermandone le aspettative. Adottando questo schema generativo dalle convenzioni della Commedia Nuova, Plauto può puntare il suo prevalente interesse su certe particolari forme di intreccio. Quella di gran lunga preferita è quella definita “commedia del servo”, la cui ricetta: l’azione di conquista del bene messo in gioco è relegata dal giovane ad un servo ingegnoso; progressivamente, però, i suoi servi crescono di statura intellettuale e di libertà fantastica: creano inganni e persino li teorizzano. Al centro dell’azione sta nelle opere più mature un vero e proprio demiurgo: un artista della frode, un poeta che sotto gli occhi di tutti sceneggia la vicenda. 2 letterario che ha fondamenti quotidiani e realistici i Romani imparano da Plauto a riconoscere le inesauribili ambiguità della finzione poetica. Fortuna del teatro plautino Le “venti commedie” che risalivano alla scelta canonica di Varrone continuarono ad essere ricopiate per tutto il Medioevo, ma la lettura diretta di Plauto rimase per tutto questo periodo un fatto eccezionale. A partire dalla generazione di Petrarca una parte delle commedie cominciarono ad avere una buona diffusione. A partire dal 1429 tornano in circolazione tutte la commedie “varroniane”: rinasce la passione per questo autore intesa come fatto puramente teatrale. La commedia umanistica vive appunto di adattamenti e libere interpretazioni dei modelli plautini: si sviluppo un teatro in latino e poi, nel Cinquecento, un teatro italiano che vuole liberamente inserirsi nel codice scenico costituito dalla palliata romana: non solo il teatro comico dell’Ariosto, ma anche un’opera come la Mandragola vanno comprese in questa tendenza, e devono molto all’assimilazione del teatro plautino. Tra Cinquecento e Settecento la fortuna di Plauto è sempre intrecciata con lo sviluppo del teatro comico europeo: Ariosto, Shakespeare, Moliere, Ruzante, Goldoni…sono tutti collegati dalla traccia della tradizione plautina. È certamente, anche oggi, il più rappresentato di tutti i poeti latini. A differenza di Terenzio, Plauto rimase lungamente estraneo alla tradizione dell’insegnamento. Le ragioni: lingua, stile, metrica, risultano troppo difficili; inoltre l’insegnamento normativo della grammatica si basava su altri autori; per di più, i temi e le trame delle commedie si prestavano male a un insegnamento rivolto a fornire esempi di moralità e di serietà. CECILIO STAZIO Vita: Stazio era un libero di origine straniera. Veniva, pare da Milano, ed era perciò un Gallo Insubre. La data di nascita potrebbe essere tra il 230 e il 220. Morì nel 168. Opere: Ci restano una quarantina di titoli, tutti di commedie palliate, e frammenti per quasi trecento versi. La commedia di gran lunga meglio conosciuta è il Plocium. Fonti: Informazioni del Chronicon di S. Girolamo, che risalgono dal De Poetis di Varrone. Tra i giudizi: Cicerone; Orazio ; Gellio. Un grande commediografo Le ragioni per cui Cecilio Stazio è tratta o come un minore sono del tutto accidentali e dipendono dalla perdita dei suoi testi. Grandi intellettuali e letterati valutano Cecilio come un autore di primo rango, per niente inferiore a Plauto o Terenzio. La posizione storica di Cecilio suggerisce una sorta di intermediazione fra Plauto e Terenzio. Qualche indizio conferma questa posizione mediana. Gran parte dei frammenti che abbiamo si iscrive perfettamente nell’atmosfera del teatro plautino: grande ricchezza di metri, vivace fantasia comica, sanguigno gusto per il farsesco. Rispetto a Plauto, però, Cecilio sembra in un certo senso più vincolato al modello della Commedia Nuova ateniese. Interesse per Menandro, più sorvegliata adesione al modello greco sono tratti che accostano Cecilio a Terenzio e lo staccano di Plauto. Non abbiamo invece prova alcuna che Cecilio anticipasse aspetti fondamentali tipici della nuova maniera terenziana, quali la rinuncia a certe varietà metriche, la riduzione degli effetti farseschi, l’approfondimento psicologico. Del resto, sappiamo che Terenzio rimase un isolato nella tradizione della palliata. ENNIO Vita: Quinto Ennio nacque nel 239 a.C. a Rudiae (presso Lecce). Svetonio definisce Ennio semigraecus, il 2 0 1 Fpoeta stesso amava sottolineare la sua natura “trilngue”, divisa tra il Latino, il Greco, e l Osco. 2 0 1 FNel 189 accompagna il generale Marco Fulvio Nobiliore in Grecia, con l incombenza di illustrare con i suoi 2 0 1 Fversi la campagna militare: l operazione propagandistica sarà duramente criticata da Catone. Sarà favorito dalla famiglia di Nobiliore e dagli Scipioni; riceverà tra l’altro la cittadinanza romana. Nell’ultima parte della sua vita si dedicò alla fatica degli Annales, il poema epico che gli darà fama perpetua a Roma. Opere: Di tutti i suoi testi abbiamo solo frammenti di tradizione indiretta. Delle sue tragedie ci restano 200 frammenti, circa 400 versi. Ma il capolavoro di Ennio sono gli Annales, poema epico in esametri che, in 18 libri, narrava la storia di Roma: ce ne restano 437 frammenti per un totale di 600 versi. Fonti: Per gran parte della storia letteraria romana Ennio è il più citato, ammirato, criticato e riesumato. Il 2 0 1 Fdato più interessante è la probabilità che molte notizie riprese da autori più tardi siano autobiografiche. E significativo che di lui esista una tradizione figurativa: statue e pitture che lo effigiavano. Il teatro Ennio fu, nella produzione drammatica, essenzialmente poeta tragico: non a caso il modello preferito è Euripide, il più moderno dei grandi tragici ateniesi, il più aperto all’introspezione psicologica e alle situazioni di maggiore passionalità. Da Euripide, Ennio tradusse molte tragedie, soprattutto del ciclo troiano. Il rapporto con i modelli greci non sembra puramente emulativo: il poeta non cerca il confronto con gli originali per mostrare la sua bravura, piuttosto il progetto stesso della traduzione, così come Ennio la pratica (ampliamento e intensificazione patetica, libera contaminazione di modelli diversi) è l’impegno di un teatro “vivo”. Gli originali più famosi e più spesso rappresentati vennero così in gran parte riscritti, contaminati con nuovi brani o tratti da altre tragedie. La stessa nozione di “autentico” ancora non esisteva. Quell’intensificazione patetica che sembra propria del vertere enniano non va attribuita al passionale gusto latino. Una retorica della commozione grandiosa che, e spesso non è nelle parole del modello, entra insistente nel testo enniano almeno come tratto di una langue drammatica greca: che riconosciamo soprattutto in espressioni ridondanti - più esternazione stilizzata di sentimenti che vero contenuto informativo - . Tutto un vocabolario della teatralità greca di cui la scena enniana si appropria. Tale scelta risponde ad un’esigenza teatrale ben precisa: quella di produrre interesse nel pubblico, di coinvolgerlo emotivamente, di suscitare processi psicologici di identificazione. Per questo in Ennio poteva comparire ancora il coro: la ricerca di un’identificazione tra pubblico e personaggi, quel processo che ha nell’essere anonimo e comune del coro il suo tramite più forte e convincente. Nasce di qui l’effetto per cui gli spettatori possono vedere i quell’assemblea lo specchio di se stessi, e così riconoscere l’immagine di sé e dei propri capi nei personaggi rappresentati sulla scena. Gli Annales: struttura e composizione Gli Annales sono il più famoso testo epico romano sino all’età di Augusto, e una delle pochissime opere 2 0 1 Fpoetiche di età medio-repubblicana di cui possiamo farci un idea, frammentaria, ma ricca e articolata. Una funzione celebrativa doveva essere fondamentale in tutta l’opera di Ennio: la pretesta Ambracia è dedicata alla campagna conto gli Etoli di Nobiliore. Poesia e panegirico si erano dunque saldati. Catone protestò contro questa iniziativa, vista come un atto di propaganda personale. 6 Ennio vedeva la sua poesia come celebrazione di gesta eroiche: si rifaceva da un lato ad Omero, dall’altro alla recente tradizione dell’epica ellenistica, di argomento storico e di contenuto celebrativo. Nella parte tarda della sua carriera, Ennio si avvicinò al grandioso progetto di una celebrazione di tutta la storia di Roma, svolta in un unico poema epico. Il piano si sviluppò in 18 libri, molte migliaia di esametri: i frammenti che ci restano assommano a qualche centinaio di versi. Per ricchezza di struttura, il precedente più vicino era certamente il Bellum Poenicum neviano. Ennio decise di narrare senza stacchi e in ordine cronologico, anche se è chiaro che certe fasi storiche ebbero molto più risalto di altre. Un’innovazione importante fu l’articolazione del racconto in libri, concepiti come unità narrative accostate in un’architettura complessiva: la poesia epica alessandrina era così strutturata, e lo stesso Omero, a partire dal III secolo a.C., circolava diviso in libri. Ennio recepì questa strategia poetica, che restò una dominante in tutto lo sviluppo della poesia latina, e poi nella tradizione europea. I-III dopo un proemio, si narrava la venuta di Enea in Italia, la storia della fondazione di Roma, e il periodo dei re. IV-VI le guerre con i popoli italici e la grande guerra contro Pirro. VII-X le guerre puniche. X-XII le campagne in Grecia, successive alla vittoria su Annibale. XIII-XVI le guerre in Siria, e nel XV, il trionfo di Nobiliore. XVI- XVIII le campagne militari più recenti, forse alla data della morte del poeta. Il titolo Annales fa riferimento agli Annales Maximi, le pubbliche registrazioni di eventi condotte anno per anno. Ennio è molto più selettivo di uno storico, e si occupa quasi esclusivamente di avvenimenti bellici: molto poco di politica interna. Gli Annales utilizzano ampiamente fonti storiografiche, ma di natura incerta, l’unica deduzione sicura è che Ennio abbia conosciuto l’opera storica di Fabio Pittore. Tra le fonti poetiche primeggia Omero. Ennio e le muse: la poetica L’opera rimane contraddistinta da due grandi proemi, al libro I e libro VII: sono i momenti in cui il poeta prende più direttamente la parola e svela l’ispirazione e le ragioni del suo fare poesia. Nel primo proemio il poeta raccontava di un suo sogno – il motivo è di derivazione greca – : era consuetudine che il poeta derivasse il suo canto da un incontro con le Muse. Tuttavia Ennio immaginò che 2 0 1 Fnel sogno appariva l ombra di Omero, e non solo gli faceva delle rivelazioni, ma addirittura gli garantiva di essersi reincarnato – secondo la dottrina pitagorica della metempsicosi, la reincarnazione ciclica e perpetua delle anime – proprio lui, nel poeta Ennio. Non si potrebbe indicare un simbolo più impressionante della volontà con cu i poeti romani si appropriano dei modelli greci, facendosi “incarnare” da essi! Nel proemio al libro VII, Ennio dava più spazio alle divinità simboliche di tutta la sua poesia, le Muse che con lui prendevano cittadinanza a Roma. Ennio è raffigurato come il primo poeta dicti studiosus, cioè il primo poeta filologo, cultore della parola; il primo che può stare alla pari con la raffinata cultura alessandrina e con la poesia contemporanea di lingua greca. Sicuramente Ennio poteva riferirsi all’importanza di essere stato il primo ad adottare l’esametro dattilico, il verso regolare della grande poesia greca. Lo sperimentalismo enniano: lingua, stile e metrica I frammenti che abbiamo documentano la fisionomia di un poeta profondamente e audacemente “sperimentale”: accolse nel suo testo numerosi grecismi, non solo parole, ma persino desinenze greche. stato modello anche per Plauto. Ma per Plauto la verosimiglianza non era un valore assoluto: nella palliata plautina il gioco scenico finisce facilmente per rispecchiare se stesso, mettendo in crisi l’effetto di realtà dell’intreccio scenico. Terenzio curò molto di più la coerenza e l’impermeabilità dell’illusione scenica. Lo sviluppo dell’azione non prevede mai sviluppi “metateatrali”: in pratica, la palliata di Terenzio non apre al suo interno nessuno spazio di autocoscienza. Questi momenti di riflessione vengono tutti concentrati nello spazio del prologo. L’importanza data al prologo come istituzione letteraria è la principale innovazione tecnica di Terenzio rispetto alla tradizione plautina. Nella tradizione risalente alla Commedia Nuova, il prologo era generalmente concepito come spazio espositivo, di informazione preliminare alla comprensione della trama (antefatti, anticipi dello sviluppo dello scioglimento della scena). Questo metteva il pubblico in posizione più attenta allo sviluppo dell’azione. Terenzio rifiuta questa funzione informativa dei prologhi, anche a costo di qualche oscurità nella conduzione dell’intreccio, Adopera, invece, i suoi prologhi come personali prese di posizione dell’autore: chiarisce il rapporto con i modelli greci utilizzati, e risponde alle critiche dei suoi avversari su questioni di poetica. È evidente che questo presuppone un pubblico più avanzato, attento a problemi di gusto e dei tecnica: senz’altro più ristretto e selezionato. Il principale avversario, che Terenzio cita direttamente, ci è noto come poeta comico minore, Luscio di Lanuvio. Nel prologo dell’Andria, ribatte l’accusa di contaminare fabulas; e sottolinea che anche i rispettati Nevio, Plauto, Ennio non fecero diversamente con i loro modelli greci. Le affermazioni programmatiche di Terenzio sull’uso dei modelli (adattamenti, contaminazioni…) sono per noi difficili da riscontrare, perché dei suoi originali non ci sono pervenuti che scarsi e casuali frammenti. Ciò che si riesce a distinguere, è che Terenzio se attiene piuttosto fedelmente alla linee degli intrecci menandrei, senza mai rinunciare ad approfondire gli interessi che più lo toccano: cioè, i caratteri ed i problemi di 2 0 1 Fun umanità “borghese”. Temi e fortuna dalle commedie di Terenzio Terenzio sacrificò, rispetto alla tradizione della palliata, la ricchezza dell’inventiva verbale e delle trovate comiche estemporanee. La palliata latina era sempre stata, per sua natura, fortemente ancorata alle situazioni familiari: i suoi tipi fissi erano il giovane innamorato, e il vecchio padre ingannato ; ma in Terenzio questi rapporti diventano veramente rapporti umani, sentiti con maggiore serietà problematica. Questo approfondimento risente di una sincera adesione al modello di Menandro, e della circolazione di ideali “umanistici” di origine greca. A questo si deve l’apparizione di un concetto-chiave come humanitas - influenzato dal greco philantropìa - che è in piena sintonia con la cultura dell’età scipionica. Nel concetto (“riconoscere e rispettare l’uomo in ogni uomo” A. Traina) confluiscono vari filoni di pensieri greci, ma tipicamente romana è la sintesi, ispirato da pragmatismo attivo. Non è certamente un caso che la commedia terenziana di maggior successo immediato (l’Eunuchus) sia quella in cui meno si affacciano temi psicologici e umanistici. Si tratta del più riuscito tentativo di Terenzio in direzione della comicità plautina: la commedia inscena un romanzesca travestimento (un giovane si traveste da eunuco per avere in consegna l’amata) e un burlesco personaggio di soldato fanfarone. Ma Terenzio continuò a tener la scena anche dopo la sua morte, ed ebbe sempre il favore dei critici più colti e sensibili, che apprezzarono la purezza della lingua e la raffinatezza dello stile. Cicerone attribuisce Terenzio un linguaggio scelto (lecto sermone) insieme a urbanità (come loquens) e a dolcezza del dire (omnia dulia dicens). Moderazione dei sentimenti, valori etici apprezzati anche dai cristiani (S. Agostino), purezza di lingua che facevano di Terenzio un modello di stile: sono le cause che introdussero le sue commedie nella scuola. 10 LUCILIO Vita: La data di morte 102 a.C. è sicura. Nato presumibilmente tra il167/168. Era i un distinta famiglia originaria della Campania settentrionale: la sua biografia giovanile è legata al “circolo scipionico”. È il primo letterato di buona famiglia che conduce una vita da scrittore, volontariamente appartata dalla vita politica. Opere: Trenta libri di satire, di cui abbiamo i frammenti per circa 1300 versi. L’ordine era dato da un criterio metrico e non coincideva con quello cronologico di composizione. Così Lucilio si orientò progressivamente verso l’esametro (segno di provocazione ironica, vista che era il “verso eroico”); e l’esametro diventerà da Orazio in poi l’unico verso prescritto per la satira. Non è affatto sicura che il termine Saturae risalga a Lucilio stesso, ma Orazio usa il termine per designare quel genere di poesia inaugurata da Lucilio. Fonti: Numero citazioni di grammatici e commentatori tardi. Cospicue allusioni nelle opere di Orazio. Fu letto con interesse in età imperiale; l’abbondanza di parole rarissime e difficili nella sua opera offrì molto materiale ai grammatici tra il II e il V sec. d.C. Lucilio e la satira Le origini del termine del termine satura sono piuttosto incerte. Sicuro che la satura lanx indicasse un piatto misto di primizie che venivano offerta agli dei; di qui anche una specialità gastronomica, e un tipo di procedimento giuridico lex per saturam, quando si riunivano stralci di vari argomenti in un singolo provvedimento legislativo. Dunque, è probabile che il valore di “mescolanza e varietà” fosse quello originario. Per quanti apporti greci la satira abbia accolto, l’impulso originario è specificamente romano. Questo impulso si può riconoscere come la ricerca di un genere letterario disponibile ad esprimere una voce personale del poeta. Se consideriamo come riferimento l’epoca di Ennio si nota che nessun dei generi canonici della poesia prevede uno spazio di espressione “diretta”, in cui il poeta possa rispecchiare il suon rapporto con se stesso e con la realtà contemporanea. Varietà, voce personale, impulso realistico, sono caratteri che in qualche modo discerniamo anche dai frammenti delle satire enniane. È verosimile che i vari punti della tradizione biografica su Ennio derivino proprio dagli accenni autobiografici contenute nelle stesse sue satire. Anche per questo aspetto, Ennio ha un posto importante nello sviluppo di un’“autocoscienza” del poeta. Comunque sia, questa forma di poesia varia si offrì a Lucilio come ideale mezzo espressivo da perfezionare: la sua grande importanza storica sta nell’essersi concentrato esclusivamente sul genere della satira. Lo sviluppo della satira significa anche la crescita di un nuovo pubblico, culturalmente avvertito, e desideroso di letteratura più aderente alla realtà contemporanea. Trenta libri: per quanto ne sappiamo Lucilio affrontò uno spettro molto ampio di argomenti. Il libro I conteneva un’ampia composizione nota come Concilium deorum; attraverso una grande parodia dei concili divini, scena tipica dell’epos, Lucilio riprendeva un certo tipo inviso agli Scipioni: gli dei lo facevano morire di indigestione. In più di una satira si fornivano precetti culinari (come nella satira 2,4 di Orazio). Nel XXX si descriveva un sordido banchetto; più in generale, accenni alla gastronomia connessi con il tema polemico del lusso a tavola ricorrono più libri. Nel libro XX era narrato un banchetto organizzato da un parvenu, antenato letterario dei più famosi Nasidieno (Orazio, Satire 2,8) e Trimalcione. Il libro XVI pare fosse dedicato alla donna amata: quindi Lucilio è anche un antesignano della poesia personale d’amore, tendenza che ritroveremo sempre più centrale negli epigrammi catulliani e nell’elegia augustea. È chiara l’esistenza di un programma letterario decisamente unitario e innovativo, sostenuto da una personalità di vivace anticonformismo. La sua poesia rifiuta un unico livello di stile, e si apre in tutte le direzioni: amalgama il linguaggio elevato dell’epica, rivissuto come parodia, e i linguaggi specializzati che finora restavano esclusi dalla poesia latina: e forme di linguaggio di tutti i giorni, attinte ai diversi strati sociali. In questa prospettiva Lucilio è - con Petronio - quanto di più vicino al realismo moderno offre la letteratura latina. La disarmonia dello stile di Lucilio è certamente una scelta meditata, rivolta a un preciso programma espressivo, che fonde insieme vita e arte. Come voce personale del genere satirico, Lucilio resterà un modello per tutti i poeti satirici latini, da Varrone in poi. CATULLO Vita: Gaio Valerio Catullo nasce a Verona da un famiglia agiata. La data di nascita, Svetonio, è nell’87 a.C. A Roma conobbe e frequentò personaggi di spicco nell’ambiente politico e letterario ed ebbe una relazione d’amore con Clodia (la Lesbia dei suoi versi), quasi certamente sorella del tribuno P. Clodio Pulcro e moglie di Q. Cecilio Metello, console nel 60. Morì sui trent’anni. Opere: Di Catullo abbiamo 116 carmi (2300 versi) raccolti in un liber, diviso sommariamente su base metrica. Il gruppo primo (1-60) è costituito da componimenti di carattere leggero (le nugae “bagattelle”). Il secondo gruppo (61-68) abbraccia una seria di carmi di maggiore estensione e impegno stilistico: i cosiddetti carmina docta. La terza sezione (69-116) comprende carmi generalmente brevi in distici elegiaci, i cosiddetti “epigrammi”. I più credono che l’ordinamento della raccolta (secondo un criterio, non cronologico, ma metrico: un criterio da filologi) sia opera di altri, dopo la morte del poeta, quando sarà approntata un’edizione postuma dei suoi carmi (alcuni devono essere rimasti esclusi). Quindi, forse, il libellus dedicato a Catullo da Cornelio Nepote non corrisponde esattamente al liber rimastoci, ma ne costituisce solo una parte. Fonti: Le notizie biografiche ci vengono soprattutto dai suoi carmi; sulle relazioni della famiglia con Cesare ci informa Svetonio. Che Lesbia fosse uno pseudonimo per Clodia la sappiamo da Apulieo; e sulla Clodia con cui abitualmente la si identifica molto ci dice Cicerone, che ne traccia un ritratto nella Pro Caelio, l’orazione in difesa di Celio Rufo, ex amante della donna e da lei tardi tratto in giudizio per veneficio. I carmi brevi Il nome e la poesia di Catullo sono tradizionalmente associati alla rivoluzione neoterica; ne sono anzi il documento più importante. Rivoluzione del gusto letterario, ma anche rivolta dei carattere etico: mentre si sgretolano, nell’età della crisi della repubblica, gli antichi valori morali e politici della civitas, l’otium individuale diventa alternativa seducente alla vita collettiva, lo spazio in cui dedicarsi alla cultura, alla poesia, alle amicizie, all’amore. L’attività letteraria non si rivolge più all’epos o alla tragedia, bensì alla lirica, alla poesia individuale, introversa, adatta ad accogliere ed esprimere le piccole vicende della vita personale. A questo progetto risponde quella parte della produzione di Catullo che si suole indicare come “carmi brevi”: l’insieme dei polimetri e degli epigrammi, in cui l’esiguità dell’estensione rivela già essa stessa la modestia dei contenuti, occasioni e avvenimenti della vita quotidiana e favorisce il paziente lavoro di cesello, la ricerca della perfezione formale. Affetti, amicizie, odi, aspetti minori o minimi dell’esistenza, passioni, sono l’oggetto della poesia di Catullo. Ne risulta un’impressione di immediatezza, di vita riflessa, che ha dato luogo nella critica a un equivoco tenace,quello di una poesia ingenua e spontanea. In realtà è un’apparenza ricercata e ottenuta grazie a un ricco patrimonio di dottrina. 12 Catullo ebbe un successo vasto ed immediato: esercitò un influsso profondo sui più grandi poeti dell’età augustea e di quella imperiale (Marziale). Fu invece pochissimo noto in Medioevo: nel secolo XI a Verona, il vescovo Raterio recuperò un codice contenente i carmi di Catullo. Dal secolo XII la sua fama fu sempre altissima: Petrarca, gli umanisti; più tardi Foscolo e il poemetto latino Catullo calvos con cui Pascoli gli rendeva omaggio. LUCREZIO Vita: La notizia biografica più ampia su Lucrezio compare nella traduzione del Testimonianze Chronicon di Eusebio fatta da S. Girolamo: Titus Lucretius poeta nascitur: qui postea amatorio poculo in furorem versus, cum aliquot libros per intervalla insaniae conscripsisset, quos postea Cicero emendavit, propria se manu interfecit anno aetatis XLIV. Non è facile datare questa notizia, e neppure accordarla con quella fornita da Donato: si può affermare con certezza solo che il poeta nacque negli anni 90, morì verso la metà degli anni 50. Oggi 98 e 55 sono generalmente ritenute le date pi verosimili, ma permangono notevoli incertezze. Va respinta la notizia geronimiana sulla follia di Lucrezio: l’accusa dovrebbe essere nata in ambiente cristiano nel IV secolo al fine di screditare la polemica di Lucrezio. L’unico riferimento a Lucrezio nell’opera di Cicerone è una lettera al fratello Quinto del 54. Opere: Il poema in esametri De rerum natura, in 6 libri (un totale di 7415 esametri); dedicato a Memmio, verosimilmente Caio Memmio, amico e patrono di Cinna e Catullo. Il testo del De rerum natura è conservato integralmente da due codici del secolo IX (ora conservati a Leida). La prima edizione a stampa fu eseguita nel 1473 da Ferrando da Brescia. Lucrezio e l’epicureismo romano La via scelta dalla classe dirigente romana nei confronti della cultura greca era stata quella di un filtraggio attento: fu la via battuta dall’elìte scipionica e poi da Cicerone. Proprio quest’ultimo erigerà in muro insormontabile nei confronti dell’epicureismo; visto come dissolutore della morale tradizionale soprattutto perché, predicando il piacere come sommo bene e suggerendo la ricerca della tranquillità, tende a distogliere i cittadini dall’impegno politico in difesa delle istituzioni. Non minori pericoli presentava la posizione epicurea sulle divinità: negando il loro intervento negli affari umani, tendeva a creare impicci a una classe dirigente che usava la religione ufficiale come strumento di potere. Nel I secolo l’epicureismo era riuscito a effettuare una discreta diffusione negli strati elevati della società romana: un personaggio di rango consolare come Calpurnio Pisone Cesonino si presentava come protettore dei filosofi epicurei. Meno sappiamo della penetrazione delle dottrine epicuree nelle classi inferiori. In effetti, lo stesso Epicureo raccomandava l’estrema chiarezza e semplicità dell’espressione: senza cedere ad antistoriche forzature in senso “democratico”, va ricordato che l’universalismo del messaggio epicureo, che intendeva rivolgersi a persone di ogni rango sociale, e anche – cosa inaudita nell’antichità – alle donne. Lucrezio per divulgare la dottrina epicurea in Roma scelse la forma del poema didascalico. Nella sua scelta fu probabilmente guidato dal desiderio di raggiungere gli strati superiori della società con un messaggio che non avesse nulla da invidiare alla “bella forma” di cui talora si ammantavano le altre filosofie. Quasi all’inizio del poema, Lucrezio afferma che suo proposito è “cospargere col miele delle muse” una dottrina apparentemente amara. L’eccezionalità della forma poetica, che faceva della sua opera un unicum nella letteratura epicurea, spingeva Cicerone a non tenere conto di Lucrezio (preferiva rifarsi direttamente alla fonti greche dell’epicureismo), ma il motivo determinante di tale silenzio si dovrà riconoscere nella volontà di non concedere spazio e credibilità di interlocutore a chi aveva scritto un’opera con forti valenze disgregatrici per la società aristocratica cui Cicerone si rivolgeva. Il poema didascalico Il titolo del poema lucreziano, De rerum natura, traduce fedelmente quella dell’opera più importante di Epicuro, il perduto Perì physeos. La data di composizione non è sicura. Il De rerum natura è articolato in 3 gruppi di 2 libri (diadi). Nel I libro, dopo l’ouverture con l’inno a Venere, personificazione della forza generatrice della Natura, sono esposti i principi della fisica epicurea: gli atomi (parti minime della materia, indistruttibili, immutabili) movendosi nel vuoto infinito si aggregano modi diversi e danno origine a tutte le realtà esistenti; successivamente avviene la disgregazione. Nascita e morte sono costituite da questo processo di continua aggregazione e disgregazione. Nel II libro è illustrata la teoria del clinamen: nel moto degli atomi interviene una “inclinazione” minima che permette una grande varietà di aggregazioni (e rende ragione della libertà del volere umano). I mondi possibili sono molti, e sono oggetti al ciclo della vita e della morte. Il libro III e IV costituiscono una seconda coppia, che espone l’antropologia epicurea. Il libro III spiega come il corpo e l’anima siano entrambi costituiti da atomi aggregati, ma di forma diversa; l’anima non può perciò sottrarsi al processo di disgregazione, di conseguenza essa muore con il corpo e non c’è da attendersi un destino ultraterreno di premio o di punizione. Il libro IV prende in esame il procedimento della conoscenza, trattando la teoria dei simulacra: una specie di membrane, composte dagli atomi, che si staccano dai corpi di cui mantengono la forma e arrivano agli organi di senso. La testimonianza dei sensi è sempre veritiera, e l’errore può derivare solo da una sua errata interpretazione. Poi Lucrezio introduce una celebre digressione sulla passione d’amore e in versi carichi di sarcasmo indica la causa do questa passione nella attrazione fisica. La terza coppia ha per oggetto la cosmologia: il libro V dimostra la mortalità del nostro mondo - uno degli innumerevoli mondi esistenti - ; viene quindi trattato il problema del moto degli astri e delle sue cause: una sezione famosa tratta delle origini ferine dell’umanità. Il libro Vi si sforza di fornire spiegazioni naturali di fenomeni fisici, quali fulmini e terremoti, estromettendone la volontà divina. Con la narrazione della pesta di Atene del 430 l’opera si conclude bruscamente. Lucrezio potrebbe aver voluto contrapporre l’ouverture e il finale come una sorta di “trionfo della vita” e di “trionfo della morte”, per mostrare come non esista alcuna conciliazione del contrasto eterno di queste due potenze. Prima del De rerum natura la letteratura latina non aveva mai prodotto opere di poesia didascalica di grande impegno. La tradizione latina non offriva dunque esempi di poesia didascalica di grande respiro; d’altra parte, Lucrezio ambisce a descrivere, ma soprattutto a spiegare, ogni aspetto importante della vita del mondo e dell’uomo, e di convincere il lettore della validità della dottrina epicurea. La tradizione ellenistica, che rivive nelle Georgiche di Virgilio, ricerca invece una sua ispirazione in argomenti tecnici e in gran parte sprovvisti di implicazioni filosofiche. La consapevolezza dell’importanza della materia determina il tipo di rapporto che Lucrezio instaura con il lettore-discepolo, il quale viene esortato, affinché segua con diligenza il percorso formativo che l’autore propone. L’ethos del genere didattico ellenistico era stato un ethos puramente encomiastico: rendeva lode alle cose. Al contrario, in Lucrezio, non est mirandum e nec mirum sono le formule che spesso articolano l’argomentazione: non c’è da meravigliarsi davanti a questo o a quel fenomeno perché esso è connesso necessariamente con questa o quella regola oggettiva, e non può trarre stupore che abbia capito i principi delle cose. Alla “retorica del mirabile”, Lucrezio sostituisce la “retorica del necessario”; e così necesset est sarà un’altra formula usata di frequente nelle argomentazione lucreziane. Il destinatario, fatto direttamente 16 responsabile, con le sue reazioni all’insegnamento, diventa consapevole della propria grandezza intellettuale: è questa la radice del sublime lucreziano. Il sublime diventa non solo una forma stilistica che rispecchia una forma di interpretazione del mondo; ma , anche, una forma di percezione delle cose. Il sublime coinvolgendo il lettore, gli suggerisce un bisogno morale. Il sublime funziona come un invito all’azione: attraverso la rappresentazione del sublime il poeta esprime con ansia un’esortazione al lettore: che scelga per sé, un modello di vita, anche forte. Nel progetto didascalico lucreziano il genere stesso diventa una forma problematica: il testo prevede un lettore antagonistico capace di fare di se stesso e delle proprie reazioni emotive un contenuto del poema. La nuova forma, che il genere didascalico assume in Lucrezio, trova il suo necessario corrispettivo nella creazione di un destinatario che sappia adeguarsi alla forza sublime di un’esperienza sconvolgente. Forma sublime del testo e forma sublime del destinatario (l’immagine che il testo si fa del suo lettore ideale) sono i segni della trasformazione che il genere didascalico ha dovuto accettare quando ha scelto di farsi mezzo per comunicare un iter morale. Quel che nel genere didascalico tradizionale è una cornice - rapporto docente- allievo – diventa nel De rerum natura un centro di tensione e un tema problematico. La traduzione del genere in discorso didascalico è continuamente inseguita dal dubbio della propria irrealizzabilità. Da questo discendono alcune caratteristiche del poema, prima fra tutte la rigorosa struttura argomentativi. Tra i procedimenti adottati il sillogismo, strumento principe dell’argomentazione filosofica; l’analogia, grazie alla quale si tende a ricondurre al noto, al visibile, ciò che è troppo lontano e piccolo per essere osservato direttamente. Il libro che più di ogni altro testimonia la perizia argomentativi di Lucrezio è il III, dedicato alla confutazione del timore della morte. La parte centrale divisa in due sezioni: prima si dimostra che l’anima è materiale, composta di atomi e vuoto (vv. 94-416); si affronta poi il problema-chiave: se materiale, l’anima dev’essere anche mortale, come tutti corpi (vv. 417-829). In questi 400 versi Lucrezio propone ben 29 diverse prove per sostenere il suo assunto: il loro accumularsi, il dispiego di strumenti retorici, creano un insieme di innegabile forza persuasiva. Ma Lucrezio si rende conto che questo non è sufficiente a distogliere l’uomo dal dolore di dovere abbandonare la vita. Per convincerlo dà la parola, nel finale (vv. 830-1094) alla Natura stessa, che si rivolge direttamente all’uomo: se la vita trascorse è stata colme di gioie questi può starsene come un convitato sazio dopo un banchetto; se, al contrario, è stata segnata da dolori e tristezze, perché desiderare che essa prosegua? Solo gli stolti vogliono continuare a vivere, anche se nulla nuovo li può attendere. Studio della natura e serenità dell’uomo Lucrezio si rivolge al lettore invitandolo a riflettere su quanto crudele e veramente empia fosse la religio tradizionale. La religione è in grado di opprimere sotto il suo peso la vita degli uomini, turbare ogni loro gioia con la paura: ma se gli uomini sapessero che dopo la morte non c’è che il nulla, se diventassero perciò insensibili alle minacce di pene eterne, smetterebbero di essere succubi della superstizione religiosa. A tal fine è necessaria una conoscenza sicura delle leggi che regolano l’universo, e rivelano la natura materiale e mortale del mondo, dell’uomo e dell’anima stessa. Superstizione religiosa, timore della morte e necessità di speculazione scientifica: il suo messaggio sarà di fatto ignorato non solo per l’intrinseca difficoltà dell’opera, ma anche perché potenzialmente in grado di mettere in discussione i fondamenti culturali - e, indirettamente sociali e politici - dello stato romano, che della religio aveva fatto un essenziale elemento di coesione. Lucrezio resta fedele alle teorie di Epicuro in materia di religione. Il filosofo greco era stato il primo uomo che “osò levare gli occhi contro la religione che incombeva minacciosa dal cielo” (I 66); per questo egli può essere venerato quasi come un dio: tranne il II e il IV tutti libri si aprono con una appassionata celebrazione dell’immaginario: effetti obbligati da una mancanza di un linguaggio astratto già pronto. Ma le immagini così evocate per spiegare pensieri ed idee, non restano solo mezzi atti ad illustrare l’argomentazione astratta: diventano il risvolto emozionale di un discorso intellettuale che sceglie di farsi soprattutto descrizione di grande efficacia. Anche se i livelli di stile sono molto diversi, il registro che li unifica è uno solo e continuo: è il registro dell’enthusiasmòs poetico al servizio di una missione didattica vissuta con ardore eccezionale. La fortuna di Lucrezio È sicuramente strana la completa assenza del poeta dalle opere filosofiche di Cicerone, dove pure la confutazione dell’epicureismo ha larga parte: forse volontà di ignorare il De rerum natura e sminuirne così il valore? Gli autori cristiani leggono Lucrezio e ne criticano apertamente le posizioni. Nel 1418 Poggio Bracciolini scopre in Alsazia un manoscritto nel De rerum natura e lo invia a Firenze perché sia copiato: è l’inizio della rinnovata fortuna dell’opera in epoca moderna; prima edizione a stampa a Brescia 1473. Nel 500 compaiono le prime “confutazioni di Lucrezio”, opere che riprendono da vicino la lingua e lo stile latino dell’autore per propugnare però tesi opposte. La prima traduzione italiana dell’opera è di Alessandro Manzoni, pubblicata a Londra nel 1717 dopo il divieto ricevuto in patria. Non certa una lettura integrale di Lucrezio da parte di Giacomo Leopardi, ma citazioni dirette ( i vv. 111-114 della Ginestra: “Nobil natura è quella/ che a solevar s’ardisce/ gli occhi mortali al comun fato”, riprendono forse I, 65-66 Graius homo mortali tollere contra/ est oculo ausus primusque obsistere contra). Nel 1850 l’edizione critica del De rerum natura di Karl Lachmann, banco di prova del moderno metodo filologico. CICERONE Vita: Marco Tullio Cicerone nasce ad Arpino nel 106 a. C. da agiata famiglia equestre; compie ottimi studi di retorica e filosofia a Roma. Nell’89 presta servizio militare nella guerra sociale, agli ordini di Pompeo Strabone, padre del Grande. Nel 81 debutta come avvocato. Nel 69 è edile; nel 66 pretore; nel 70 sostiene trionfalmente l’accusa dei siciliani contro l’ex governatore Verre, e si conquista la fama di oratore principe. Nel 63 è console, e reprime la congiura di Catilina. Dopo la formazione del I triumvirato, il suo astro inizia a declinare; nel 58 deve recarsi in esilio, con l’accusa di avere mandato a morte senza processo i complici di Catilina. Allo scoppio della guerra civile, nel 49, aderisce con lentezza alla causa di Pompeo; dopo la sua sconfitta , ottiene il perdono di Cesare. Nel 44, dopo l’uccisione di Cesare, torna alla vita politica; inizia la lotta contro Antonio (Filippiche). Dopo il voltafaccia di Ottaviano, che, abbandona la causa del senato, e stringe in triumvirato Antonio e Lepido, il nome di Cicerone finisce nella liste di proscrizione. Viene ucciso dai sicari di Antonio nel dicembre del 43. Opere Orazioni: De imperio Cn. Pompei o pro lege Manilia (66); Catilinarie (63); Pro Milone (52);Philippicae (44-43). Opere retoriche: De oratore (55); Brutus (46); Orator(46). Opere politiche: De re publica (54-51); De legibus(52-?). Opere filosofiche: Cato maior di senectute (44); Laelio de amicitia (44); De Officiis. Epistolario: Ad Quintum fratrem; Ad Atticum; Ad Familiarem. 20 Fonti: Per la conoscenza della vita e delle opere, le fonti principali sono rappresentate dalle sue stesse opere, soprattutto l’epistolario, dal Brutus, da diverse orazioni. Importante anche la biografia di Cicerone scritta da Plutarco. Tradizione e innovazione nella cultura romana Cicerone è protagonista e testimone della crisi che porta al tramonto della repubblica; egli elabora un progetto nel vano tentativo di porvi rimedio. La sua rimane un’ottica di parte, legata la progetto di egemonia di un blocco sociale (sostanzialmente i ceti possidenti): un’ottica che, per rendersi accetta, deve saper profittare anche degli artifici che possono offrire le tecniche di comunicazione. Cicerone mette a frutto tali artifici nelle orazioni e li teorizza nei trattati retorici: ricollocata nel proprio tempo la sua ars dicendi si spoglia dei tratti di vana ampollosità di cui l’ha rivestita il ciceronianesimo scolastico, per rivelarsi una tecnica produttiva e sapiente, funzionale al dominio dell’uditorio e alla regìa delle sue passioni. Procedendo negli anni ha progressivamente sentito sempre più forte la necessità di riflettere, rifacendosi al pensiero ellenistico sui fondamenti della politica e della morale. Il fine delle sue opere filosofiche è lo stesso che ispira alcune delle orazioni più significative: dare una solida base ideale, etica, politica ad una classe dominante il cui bisogno di ordine non si traduca in ottuse chiusure, il cui rispetto per il mos maiorum non impedisca l’assorbimento della cultura greca; una classe dominante che l’assolvimento dei doveri verso lo stato non renda insensibile ai piaceri di un otium nutrito di arti e letteratura, né, in generale, di quello stile di vita garbatamente raffinato che si riassume nel termine humanitas. L’egemonia della parola: carriera politica e pratica oratoria L’attività oratoria di Cicerone si intreccia indissolubilmente con le vicende politiche di Roma nell’ultimo cinquantennio della repubblica. Rientrato a Roma dopo la morte di Silla, ricoprì la questura in Sicilia nel 75. Si conquistò fama di governatore onesto e scrupoloso, tanto che, nel 70, i siciliani gli proposero di sostenere l’accusa nel processo da essi intentato contro l’ex governatore Verre, il quale aveva sfruttato la provincia con incredibile rapacità. Dopo solo pochi giorni dal dibattimento, Verre schiacciato dalle accuse , fuggì dall’Italia e venne condannato in contumacia. Cicerone successivamente pubblicò la cosiddetta Actio secunda in Verrem, che rappresenta fra l’altro un documento storico di grande importanza per conoscere i metodi di ciu si serviva l’amministrazione romana nelle province. Gli aristocratici romani avevano bisogno di ingenti quantità di denaro per finanziare le forme di “liberalità” (cioè corruzione) necessarie a promuovere la loro carriera politica. Lo stile delle Verriane è già pienamente maturo; Cicerone ha eliminato alcune esuberanze e ridondanze. Il periodare è per lo più armonioso, ma complesso; la sintassi è estremamente duttile, e non rifugge, quando è il caso ad un fraseggio conciso e martellante. La gamma dei registri è dominata con piena sicurezza , dalla narrazione semplice e piana al racconto ricco di colore, dall’ironia arguta al pathos tragico. Entrato in senato dopo la questura, Cicerone nel 66, l’anno della pretura, parlò del favore progetto di legge del tribuno Manilio che prevedeva la concessione a Pompeo di poteri straordinari su tutto l’Oriente: un provvedimento reso necessario dall’urgenza di affrontare Mitridate, Re del Ponto. Cicerone insisté soprattutto sull’importanza dei vectigalia (tributi) che affluivano dalle province orientali: di tale beneficio la popolazione di Roma sarebbe stata privata se Mitridate avesse continuato nella sua azione. Nella De imperio Cn. Pompei, poi ripudiata dallo stesso Cicerone, si è voluto vedere il suo punto massimo di avvicinamento alla politica dei populares. In realtà più che agli interessi del popolo, Cicerone difendeva tuttavia quelli dei pubblicani, i titolari delle compagnie di appalto delle imposte. I pubblicani costituivano un gruppo laeder all’interno dell’ordine equestre, dal quale proveniva Cicerone. Ma è vero piuttosto che egli aveva bisogno del loro sostegno per cementare quella concordia dei ceti abbiente nella quale incominciava a scorgere la via d’uscita dalla crisi che minacciava la repubblica. Ma le più celebri tra le orazioni consolari sono le quattro Catilinarie, con le quali Cicerone, durante il suo consolato nel 63, svelò le trame sovversive che il nobile decaduto Catilina aveva ordito una volta vistosi sconfitto nella competizione elettorale, lo costrinse a fuggire da Roma e giustificò la propria decisione di far giustiziare i suoi complici senza processo. Sul piano letterario, spicca la I Catilinaria, nella quale Cicerone attacca Catilina di fronte al senato; fece ricorso a un artificio retorico che in precedenza non aveva mai impiegato: l’introduzione di una “prosopopea” (“personificazione”) della Patria, che è immaginata rivolgersi a Catilina con parole di aspro biasimo. Da allora in poi, sarebbe stato il teorizzatore di quella concordia ordinum che lo aveva portato al potere. Negli anni successivi Cicerone non cessò di esaltare la funzione storica del proprio consolato e della lotta contro Catilina. Il I triumvirato segnò tuttavia un declino delle sue fortune politiche. Un tribuno Clodio, presentò nel 58 una legge in base alla quale doveva essere condannato all’esilio chi avesse fatto mettere a morte dei civis romani senza processo. La legge mirava a colpire l’operato di Cicerone. Non più sostenuto dalla nobiltà e da Pompeo, Cicerone dovette abbandonare Roma. Richiamato dall’esilio nel 57, trovò la città in preda all’anarchia: si fronteggiavano, in continui scontri di strada, le opposte bande di Clodio e di Milone (difensore della causa degli ottimati e amico di Cicerone). In questo contesto elaborò una nuova versione della propria teoria sulla concordia dei ceti abbienti. In quanto la semplice intesa fra il ceto senatorio ed equestre, la concordia ordinum, si era rivelata fallimentare: Cicerone ne dilata ora il concetto in quello di consensus omnuim bonorum, cioè la concordia attiva di tutte le persone agiate e possidenti, amanti dell’ordine politico e sociale, pronte all’adempimento dei propri dei doveri nei confronti della patria e della famiglia. Dovere dei boni sarà non rifugiarsi egoisticamente nel perseguimento dei proprio interessi provati, ma fornire sostegno attivo agli uomini politici che rappresentano la loro causa. L’esigenza largamente avvertita in Roma di un governo più autorevole, spinge tuttavia Cicerone a desiderare che il senato e i boni, per superare le loro discordie si affidino alla guida di personaggi eminenti, di grande autorevolezza: una teoria che verrà approfondita nel De re publica. In quest’ottica si spiega probabilmente l’avvicinamento ai triumviri che Cicerone compie in questi anni, nella speranza di condizionare l’operato, e di far si che il loro potere non prevarichi su quello del senato ma si mantenga nei limiti delle istituzioni repubblicane. Gli scontri fra le bande di Clodio e di Milone si protrassero a lungo: nel 52 Clodio rimane ucciso. Cicerone si assunse la difesa di Milone (Pro Milone). L’orazione è considerato uno dei suoi capolavori, per l’equilibrio delle parti e l’abilità delle argomentazioni, basate sulla tesi della legittima difesa e sulla esaltazione del “tirannicidio”. Ma, nella forma in cui ci è conservata, si tratta di un radicale rielaborazione compiuta successivamente. Dopo l’uccisione di Cesare, che salutò con giubilo, Cicerone tornò ad essere un uomo politico di primo piano. I pericoli per la repubblica non erano finiti: ma la manovra politica di Cesare tendeva a staccare Ottaviano da Antonio e a riportare il primo sotto le ali protettrici del senato; per indurre il senato a dichiarare guerra ad Antonio e a dichiararlo nemico pubblico cicerone pronunciò contro di lui, dal 44, le orazioni Filippiche, forse in numero di 18. La manovra politica di Cicerone era destinata al fallimento. Con un brusco voltafaccia, Ottaviano si sottrasse alla tutela del senato, e strinse un accordo con Antonio e un altro capo cesariano, Lepido (II triumvirato). Antonio pretese e ottenne la testa di Cicerone. Nonostante le molte oscillazioni, la carriera politica di Cicerone seguì un filo coerente. L’homo novus si accostò alla nobilitas nel contesto di un generale avvicinamento fra senato ed equites, ed anche in seguito, rimase fedele all’ideale della concordia e alla causa del senato; il tentativo di collaborazione con i triumviri fu una risposta al diffuso bisogno di un governo autorevole, e anche in questo caso Cicerone si preoccupò da salvaguardare il prestigio e le prerogative del senato. L’egemonia della parola: le opere retoriche 22 Il suo metodo: esporre le diverse opinioni possibili e metterle a confronto per vedere se alcune siano più coerenti e probabili di altre. L’eclettismo filosofico di Cicerone obbedisce alle esigenze di metodo rigoroso, che si sforza di stabilire fra le diverse dottrine un dialogo dal quale sia bandito ogni spirito polemico. La stessa ideologia della humanitas, alla cui elaborazione Cicerone dette un contributo notevolissimo, invitava a un atteggiamento intellettuale di aperta tolleranza. Lo spuntarsi della vis polemica, la rinuncia a qualsiasi asprezza nel contraddittorio , la tendenza a presentare le proprie tesi solo come opinioni personali, l’uso insistito di formule di cortesia: sono tutti tratti rivelatori dei costumi di una cerchia sociale elitaria, preoccupata di elaborare un proprio codice di “buone maniere”. Ma l’eclettismo ciceroniano mostra una chiusura radicale verso l’epicureismo. I motivi dell’avversione sono soprattutto due, fra loro connessi:la filosofia epicurea conduce al disinteresse per la politica, mentre dovere dei boni è l’attiva partecipazione alla vita pubblica; inoltre, l’epicureismo esclude la funzione provvidenziale della divinità e indebolisce così i legami della religione tradizionale, che per Cicerone rimane la base fondamentale dell’etica. Il confronto tra i diversi sistemi filosofici trova uno particolarmente esteso nel De finibus bonorum et malorum. Cicerone riconosceva che lo stoicismo forniva la base morale più solida all’impegno dei cittadini verso la collettività; ma da uno stoico intransigente come Catone, o da un accademico della morale rigorosa come Bruto, si sentiva lontano per cultura e per gusti: il loro rigore etico gli appariva anacronistico. L’eclettismo ciceroniano significa anche apertura e simpatia verso filosofie moderatamente aperte al piacere; e il probabilismo accademico forniva la base teoretica al suo tentativo di conciliare tendenze diverse. Un posto particolare occupano i due brevi dialoghi Cato maior de senectute e Laelius de amicizia, composti nel 44. Nel primo, nel personaggio di Catone, che sceglie come portavoce, Cicerone trasfigura l’amarezza per una vecchiaia la quale sembra soprattutto temere la perdita della possibilità di intervento politico. Nella sua vecchiaia si armonizzano in maniera perfetta il gusto per l’otium e la tenacia dell’impegno politico, due opposte esigenze che Cicerone ha invano cercato di conciliare nell’arco della vita. Nel secondo, Lelio ha modo di intrattenere i propri interlocutori sulla natura e sul valore dell’amicizia stessa. Amicitia, per i romani, era soprattutto la creazione di legami personali a scopo politico. La novità consiste nello sforzo di allargare la base sociale delle amicizie al di là della cerchia ristretta della noblitas. La fiducia in un rinnovato sistema di valori, in cui l’amicizia occupi un ruolo centrale, deve servire a cementare la coesione dei boni; ma l’amicizia propagandata dal Lelius non è solo politica: si avverte, in tutta l’opera, un disperato bisogno di rapporti sinceri, quali Cicerone, preso nel vortice delle convenienze della prassi politica, poté provare solo con poche persone. Rimane aperto, tuttavia, uno iato fra una concezione elevata della morale e della virtù e l’imprescindibile realtà della prassi politica: l’amicitia rivela alcune ambiguità, nel mostrarsi insieme come ideale di vita allietata da affetti fraterni, e come proposta di forme più o meno velate di convivenza fra sostenitori dell’ordine sociale. La virtù fondamentale era costituita, per Panezio, dalla socialità, in cui alla tradizionale virtù cardinale della giustizia si affiancava la beneficenza. La beneficenza teorizzata di Panezio corrispondeva perfettamente allo stile di vita degli aristocratici romani, che - attraverso gli officia e l’elargizione nei confronti dei concittadini - sapevano procurarsi un seguito politico capace di innalzarli alle più alte cariche dello stato; naturalmente ciò, gia per Panezio, poneva seri problemi, e di maggiori al tempo di Cicerone: troppe volte si era visto come la largitio, o in generale la corruzione della masse mediante proposte demagogiche, potesse essere un mezzo pericolosissimo nelle mani di individui senza scrupoli, decisi a fare dello stato un loro possesso privato. Perciò Cicerone sottolinea chela beneficenza non deve essere posta al servizio delle ambizioni personali. Alla virtù cardinale della fortezza Panezio aveva sostituito la magnanimità (“grandezza 2 0 1 Fd animo”), una virtù signorile che scaturisce da un naturale istinto a primeggiare sugli altri, e risplende nella capacità di imporre il proprio dominio di cui da tempo il popolo romano ha dato prova di fronte al mondo. A fondamento della magnitudo animi il De offciis pone un disprezzo quasi ascetico per tutti i beni terreni, come gli onori, la ricchezza, il potere; il conquistare vantaggi agli amici o allo stato ha come presupposto, in chi li conquista, un energico controllo del desiderio personale. In ciò è evidente la volontà di sottoporre a forti vincoli una virtù che, può divenire la passione specifica della tirannide: mentre Cicerone scriveva, l’esempio di Cesare era ancora sotto gli occhi. Compito della ragione è di controllare gli istinti, di trasformarli in virtù, svuotandoli di quanto essi c’è di egoistico e prevaricatorio; una volta trasformato in virtù, l’istinto può mettersi al servizio dello stato e della collettività; se la trasformazione non avviene, è aperta la strada all’anarchia e alla tirannide. Nel sistema etico del De offciis, il regolatore generale degli istinti e delle virtù è costituito dall’ultima virtù , la temperanza: all’esterno, agli occhi degli altri, essa si manifesta come in un apparenza di appropriata armonia dei pensieri, dei gesti, delle parole, che assume il nome di decorum. Ciò significa un ideale di aequabilitas, quasi uniformità, possibile solo per chi abbia saputo sottomettere i propri istinti al saldo controllo della ragione. Una delle novità interessanti nel modello etico proposto nel De officiis è il fatto che il concetto di decorum permette di fondare anche la possibilità di una pluralità di scelte di vita. L’appropriatezza delle azioni e dei comportamenti che si pretende dell’individuo, ha infatti le sue radici nelle qualità personali, nelle disposizioni intellettuali di ognuno. Come gli attori del teatro, ognuno dovrà recitare nella vita la parte che meglio si addice al proprio talento: di qui la legittimazione di scelte di vita anche diverse da quelle tradizionale del perseguimento delle cariche pubbliche, purché chi le intraprenda non dimentichi i suoi doveri verso la collettività. Si fa trasparente l’improponibilità ormai consolidata del modello aristocratico arcaico, che vedeva nel politica e nel servizio verso lo stato l’unica vera attività veramente degna di un Romano. Cicerone prosatore: lingua e stile Come quella di Lucrezio, l’opzione di Cicerone era fondamentalmente “puristica”: evitare il grecismo. Di qui una costante e accanita sperimentazione lessicale nella traduzione dei termini greci. Risultato fu l’introduzione di molte nuove parole; Cicerone gettò in tal modo le basi di quel lessico astratto destinato a divenire patrimonio della tradizione culturale europea: per esempio qualitas, essentia e così via. Il contributo più notevole all’evoluzione della prosa europea fu nella creazione di un tipo di periodo complesso e armonioso, fondato sul perfetto equilibrio e rispondenza delle parti, il cui modello egli trovò in Demostene. La creazione di un simile periodo comportava l’eliminazione delle incoerenze nella costruzione, degli anacoluti, delle “costruzioni a senso” e delle altre forme di incongruenze che la prosa arcaica latina aveva ereditato dal linguaggio colloquiale. Veniva poi l’organizzazione delle frasi in ampie unità che manifestassero un’accurata ed esplicita subordinazione delle varie parti rispetto al concetto principale: sostituzione della paratassi (coordinazione) con quella l’ipotassi (subordinazione). L’aspetto che più colpisce il lettore è sicuramente la varietà dei toni e dei registri stilistici che entrano in gioco con grande mobilità di effetti. Ad ogni livello di stile (vedi par. 3), ad ogni diverso registro espressivo corrisponde una collocazione della parole adeguata. Va detto che la disposizione verbale è sempre accuratamente tale da realizzare il numerus. Nella pratica, il numerus agisce da sistema di regole metriche adatte alla prosa, in modo che i pensieri gravi trovino un andamento solenne e sostenuto e invece il discorso piano un’intonazione famigliare. La sede specializzata per questi effetti metrico-ritmici è la clausola, parte finale del periodo in cui l’orecchio dell’ascoltatore deve sentirsi impressionato dagli effetti suggeriti dalla successione di piedi. Le opere poetiche L’opera poetica più fortunata di Cicerone furono gli Aratea, una traduzione in esametri dei Fenomeni di Arato. I poemi epici: il Marius, che cantava le gesta dell’altro grande arpinate (opera giovanile). 26 Per quel che appare dai resti della sua produzione giovanile in versi, le prime prove poetiche di Cicerone la farebbero definire un precursore dei neoterici, incline ad un certo sperimentalismo: poeta di tipo ellenisitico, ma non molto lontano da quella che era stata la poetica di Lucilio. Ben presto i suoi gusti dovettero farsi più tradizionalisti (vincolandosi al modello arcaico di Ennio) fino all’ostilità verso i “poeti moderni”. La sua influenza di versificatore fu significante almeno per gli aspetti tecnico-artistici: egli contribuì non poco a regolarizzare l’esametro latino (posizione delle cesure nel verso e specializzarsi di certe forme metrico-verbali in clausola); echi si avvertono in Lucrezio, in Virgilio georgico, finanche in Orazio e Ovidio. Il maestro dell’ampio e articolato periodare prosastico favorì in poesia lo sviluppo dell’enjambement e della tecnica dell’ “incastro verbale”. Grazie all’enjabement il compimento logico-sintattico del pensiero è rinviato la verso successivo, con l’anticipare o ritardare ad arte alcune parole e col risultato di allargare il “respiro” della frase: superata la statica coincidenza tra unità metrica (i 6 piedi dell’esametro) e unita di senso, la sequenza dei pensieri sa efficacemente debordare dalla chiusa misura del verso invadendo, per così dire, lo spazio del verso successivo. Un altro affetto di intensificazione artistica è realizzato dallo “incastro verbale”, in cui due parole strettamente legate tra loro sono separate per l’interposizione di altre parole; in versi come “aestiferos validis ermpit flatibus ignes” o “ extremis medio contingens corpore terras”, in cui la disposizione dell’aggettivo ed inizio verso ed sostantivo realizza una sensibile divaricazione espressiva e chiude “in cornice” l’intero verso. L’epistolario Si è conservata una cospicua quantità delle lettere che egli scrisse ad amici e conoscenti. L’epistolario ciceroniano si compone,nella forma in ci è arrivato, di 16 libri Ad familiare, 16 libri Ad Atticum (il miglior amico), 3 libri Ad Quintum fratrem e 2 libri Ad Marcum Brutum, per un totale di 900 lettere. La varietà dei contenuti, delle occasioni e dei destinatari si rispecchia in quella dei toni: Cicerone è a volte scherzoso, a volte preoccupato fino all’angoscia per le vicende politiche e personali, a volte sostenuto e impegnato. Si tratta di lettere “vere”: quando le scrisse non pensava a una loro pubblicazione; perciò ci mostrano un Cicerone “non ufficiale”, che nelle confidenze private rivela apertamente i retroscena della sua azione politica, i dubbi, le incertezze, gli alti e bassi di umore. Il carattere di “epistolario reale” ha i suoi riflessi anche sullo stile, che è molto diverso da quello delle opere destinate alla pubblicazione: Cicerone non rifugge da un periodare spesso ellittico, gergale, denso di allusioni, abbondante di grecismi e di colloquialismi; la sintassi denuncia molte paratassi e parentesi,il lessico è costellato di parole pittoresche e ibridi greca-latini. È una lingua che rispecchia piuttosto fedelmente il sermo cotidianus delle classi elevate di Roma. Non va dimenticato l’eccezionale valore storico dell’epistolario, che a volte permette di seguire giorno per giorno l’evolversi degli avvenimenti politici. Grazie all’epistolario di Cicerone, l’epoca in cui egli visse è quella di tutta la storia antica che ci è nota nella maniera dettagliata. Cornelio Nipote poté parlare dei quell’epistolario come di una historia contexta eorum temporum. La fortuna Già i contemporanei si divisero fa estimatori e detrattori di Cicerone: fra i secondi vanno ricordati Asinio Pollione e , soprattutto per i gusti stilistici, Sallustio. Per il Medioevo cristiano Cicerone è uno dei massimi mediatori delle idee e dei valori della civiltà antica, maestro di filosofia e di arte retorica. Dante ne ricorda soprattutto le opere filosofiche. Col primo umanesimo, l’interesse – spesso critico – per la figura umana e storica va ad aggiungersi all’ammirazione per lo scrittore. In personaggi come Petrarca (che scoprirà parte dell’epistolario), la riflessione sull’esperienza con Pompeo e Crasso l’accordo segreto cosiddetto “I triumviato”, in vista ella spartizione del potere. Nel 59 2 0 1 Frivestì il consolato. Dall’anno successivo intraprese l opera di sottomissione dell’intero mondo celtico; la conquista delle Gallie si protrasse per 7 anni e con essa Cesare si procurò la essa di un vastissimo potere personale. Cesare invase l’Italia alla testa delle sue legioni (gennaio 49), dando inizio alla guerra civile. Nel 48 sconfisse a Farsalo l’esercito senatorio di Pompeo. Divenuto padrone assoluto di Roma, aveva ricoperto. talora contemporaneamente, la dittatura e il consolato. Il 15 marzo del 44 veniva assassinato da un gruppo di aristocratici di salda fede repubblicana. Opere conservate: Commentarii de bello Gallico, in 7 libri; Commentarii de bello civili, in 3 libri; De analogia, frammenti. Opere spurie: oltre al libro ottavo del De bello Gallico; le ultime 3 opere del cosiddetto Corpus Caesarianum, e cioè Bellum Alexandrinum; Bellum Africanum, Bellum Hispaniense. Fonti: Le opere autentiche e spurie dello stesso Cesare; la Vita di Cesare di Svetonio e quella di Plutarco; orazioni e lettere di Cicerone; Appiano Bellum Civile; Cassio Dione. Il commentarius come genere storiografico Il termine commentarius, un calco greco, indicava un tipo di narrazione a mezzo fra la raccolta dei materiali grezzi (appunti personali, rapporti al senato, e così via) e la loro rielaborazione nella forma artistica – cioè arricchita degli ornamenti stilistici e retorici - tipica della vera e propria storiografia. Uomini politici importanti, come Scauro o Silla; ed anche Cicerone composero commentarii. Cesare intendeva senza dubbio inserirsi in questa tradizione: opere composte per offrire ad altri storici il materiale sul quale impiantare la propria narrazione. In realtà sotto la veste dimessa, il commentarius, come Cesare lo concepiva e lo praticava, andava probabilmente avvicinandosi alla historia. Cesare usa una ammirabile sobrietà nel conferire al proprio racconto efficacia drammatica, evitando effetti grossolani e plateali e soprattutto i pesanti fronzoli retorici: in questa direzione va anche l’uso della terza persona che distacca il protagonista dall’emozionalità dell’ego e lo pone come personaggio autonomo nel teatro della storia. La veridicità di Cesare e il problema della “deformazione storica” Lo stile scarno dei Commentarii cesariani, il rifiuto degli abbellimenti retorici tipici della historia, la forte riduzione del linguaggio valutativo, contribuiscono al tono apparentemente oggettivo della narrazione cesariana. Ma la critica moderna ha creduto di scoprire interpretazioni tendenziose e deformazioni degli avvenimenti a fini di propaganda politica; indubbia è la connessione dei Commentarii con la lotta politica. La presenza di procedimenti di deformazione è innegabile: non si tratta mai di falsificazioni vistose; ma di omissioni più o meno rilevanti, di un certo modo di presentare i rapporti tra i fatti. Cesare insinua, ricorre ad anticipazioni o posticipazioni, dispone le argomentazioni in modo da giustificare i propri insuccessi. Coerentemente con queste tendenze della narrazione, nel De bello Gallico Cesare mette in rilievo le esigenze difensive che lo hanno spinto a intraprendere una guerra; era del resto consuetudine consolidata dell’imperialismo romano presentare le guerre di conquista come necessarie a proteggere la stato romano e i suoi alleati da pericoli provenienti da oltre il confine. Nel De bello civili Cesare sottolinea come la sua azione si sia sempre mossa nel solco delle leggi, si presenta come un politico moderato. In ambedue le opere, egli mette in luce le proprie capacità di azione militare e politica, ma non alimenta l’alone carismatico intorno alla propria figura. La fortuna non viene presentata come una divinità protettrice, piuttosto serve a spiegare cambiamenti repentini di situazioni. Cesare cerca infatti di spiegare gli 30 avvenimenti secondo cause umane e naturali. di coglierne la logica interna; e non fa praticamente mai ricorso all’intervento divino. Teorie linguistiche di Cesare La perdita delle orazioni di Cesare è uno dei più gravi danni subiti dalla letteratura latina, così dai giudizi di quelli che poterono leggerle, come Quintilliano, Tacito, ecc. Probabilmente lo stile oratorio di Cesare avrà evitato i “gonfiori” (livores) e in colori troppo sgargianti, ma l’uso accorto degli ornamenta lo avrà salvato degli estremismi di uno stile scarno caro agli atticisti più spinti. Lo stesso Cicerone comunque è pronto a riconoscere che Cesare agì da purificatore della lingua latina. Espose le proprie teorie linguistiche nei 3 libri De analogia; i pochi frammenti rimasti mostrano come Cesare ponesse a base dell’eloquenza l’accorta scelta delle parole, per la quale il criterio fondamentale è la “analogia”, la selezione razionale e sistematica, contrapposta all’ “anomalia”, l’accettazione di ciò che diviene man mano consueto nel sermo cotidianus. La selezione deve limitarsi ai verba usitata, le parole già nell’uso; Cesare consigliava di fuggire le parole strane e inusitate. L’analogismo di Cesare è cura della semplicità, dell’ordine, soprattutto della chiarezza alla quale talora egli arriva a sacrificare la grazia. Fortuna di Cesare scrittore Cicerone (Brutus 262): “Ha scritto dei commentari veramente degni di elogio…”. Lo scrittore più asciutto 2 0 1 Fdella latinità, lo stilista cui l’economia espressiva e l essenzialità della scrittura parevano gli unici mezzi di parlare oggettivamente. Già Quintilliano lodava il Cesare oratore, non lo scrittore di storia. Cartesio, Manzoni daranno un giudizio di elogio. SALLUSTIO Vita: Gaio Sallustio Crispo nacque in Sabina, nell’86 a. C. da una famiglia facoltosa. Una volta sconfitti i pompeiani in Africa, Cesare lo nominò governatore della provincia di Africa Nova, ma Sallustio diede prova malgoverno e rapacità; per evitargli il processo Cesare lo consigliò di ritirarsi dalla vita politica. Fu da questo momento in poi che si dedicò alla storiografia. Morì nel 35 o nel 34, facendo sì che restasse incompiuta la sua opera maggiore, le Historiae. Opere: Due monografie storiche: Bellum Catilinae e Bellum Iugurthinum, composte e pubblicate nel 44-43. Un’opera di più vasto respiro, le Historiae, iniziate nel 39 e rimasta incompiuta al libro V: l’opera comprendeva il periodo fra il 78 e il 67 (dalla morte di Silla alla guerra di Pompeo contro i pirati), ne restano numerosi frammenti anche di vaste dimensioni. Fonti: La nascita si basa sulla Cronaca di Girolamo. Cenni sparsi sulla vita politica in Cassio Dione. Per il ritiro dalla vita politica lo stesso Sallustio in Bellum Catilinae. La monografia come genere letterario Ad ambedue le monografie Sallustio antepone proemi di una certa estensione che rispondono all’esigenza profonda di dare conto della propria attività intellettuale di fronte ad un pubblico come quello romano, fedele alla tradizione per cui fare storia è compito più importante che scriverne. Per Sallustio la storiografia resta infatti strettamente legata alla prassi politica e la sua maggiore funzione è individuata nel contributo alla formazione dell’uomo politico. Sallustio - e in ciò è evidente il contrasto fra la pagina scritta e quanto sappiamo della sua vita - denuncia l’avidità di ricchezza e di potere come i mali che avvelenano la vita politica romana. La cosa più importante è chela stessa storiografia sallustiana tende a configurarsi come indagine sulla crisi. Così il Bellum Catilinae illumina il punto più acuto della crisi, il delinearsi di un pericolo sovversivo di tipo finora ignoto allo stato romano; il Bellum Iugurthinum affronta direttamente, attraverso una vicenda paradigmatica, il nodo costituito dall’incapacità della nobilitas corrotta a difendere lo stato. La scelta della monografia portò Sallustio ad elaborare un nuovo stile storiografico. La congiura di Catilina e il timore dei ceti subalterni Dopo il proemio, Sallustio fa un ritratto di Catilina: la personalità di questo aristocratico corrotto è messa a fuoco sullo sfondo generale della decadenza dei costumi romani. Insieme a Manlio, suo complice, raduna Fiesole un esercito. Catilina sconfitto alle elezioni consolari, attenta alla vita di Cicerone, il quale ottiene dal senato pieni poteri per soffocare la ribellione. Il senato dichiara Catilina e Manlio nemici pubblici. Sallustio introduce un excursus sui motivi della degenerazione della vita politica e sulle condizioni che hanno favorito l’attività di Catilina. Oltre Sallustio introduce un parallelo tra Catone e Cesare, due personaggi dalle virtù opposte e complementari, i soli due grandi uomini del tempo. Si conclude con la resa dei conti presso Pistoia dove Catilina trova la morte. Alla malattia di cui soffriva la società romana Sallustio, interrompendo la narrazione, dedica un ampio excursus. Si tratta della cosiddetta “archeologia”, che traccia una rapida storia dell’ascesa e della decadenza di Roma. Il punto di svolta è individuato nella distruzione di Cartagine, a partire dalla quale - con la cessazione del metus hostilis - Sallustio fa cominciare il deterioramento della moralità romana. Un secondo excursus denuncia la degenerazione della vita politica nel periodo che va dalla dominazione di Silla alla guerra civile fra cesare e Pompeo: la condanna coinvolge in pari modo le due parti in lotta, i populares e i fautori del senato. La condanna del “regime dei partiti” è coerente con le aspettative che Sallustio ripone in Cesare; da parte di quest’ultimo, lo storico auspicava forse l’attuazione di una politica per certi aspetti non diversa da quella che Cicerone si riprometteva nel suo princeps: un regime autoritario che sapesse porre fine alla crisi dello stato ristabilendo l’ordine della res publica, rinsaldando la concordia fra i ceti possidenti, restituendo prestigio e dignità a un senato ampliato con uomini provenienti dalla elite di tutta Italia. Questa impostazione generale spiega la parziale deformazione che Sallustio ha compiuto del personaggio di Cesare, “purificandolo” da ogni legame con i catilinari ed evitando la sua condanna esplicita della sua politica come capo dei populares. Sallustio delinea i ritratti di Cesare e Catone. Il ritratto del primo si sofferma da un lato sulla sua liberalità, munificentia, misericordia, e dall’altro sull’infaticabile energia che sorregge la sua brama di gloria. Le virtù tipiche di Catone sono invece quelle, radicate nella tradizione, di integritas, severitas, innocentia, ecc. Differenziando i mores dei due personaggi, Sallustio voleva affermare che entrambi erano positivi per lo stato romano, per la complementarietà delle loro virtù. Con tale scelta Sallustio non perseguiva certo l’intento di denigrare Cicerone; ma è un fatto che dalla narrazione del Bellum Catilinae, la figura del console appare alquanto ridimensionata. Attinge invece una sua grandezza, sia pur malefica, il personaggio di Catilina, del quale Sallustio delinea un ritratto a tinte forti e contrastanti, ma dominato dall’esigenza moralistica: mentre tratteggia il suo personaggio, lo giudica. Il Bellum Iugurthinum: Sallustio e l’opposizione antinobiliare All’inizio, Sallustio spiega che la guerra contro Giugurta (111-105), fu la prima occasione in cui “osò andare contro l’insolenza della nobiltà”. Il Bellum Iugurthinum è largamente indirizzato a mettere in luce le responsabilità della classe dirigente aristocratica nella crisi dello stato. 32 personaggi influenti: Asinio Pollione. Intorno a questo nucleo, che sembra accettabile, si sviluppò poi tutta una ricostruzione storica, una sorta di romanzo allegorico: dietro a tutte le figure del mondo pastorale, interpreti antichi e moderni, hanno visto una ridda di allusioni storiche. Ma ciò che importa, è cogliere l’originalità di ispirazione con cui Virgilio “legge” attraverso il linguaggio bucolico l’epoca delle guerre civili. Come nella celebre IX egloga. Come annuncia l’esordio (paulo malora canamus) il poeta si solleva oltre la sfera pastorale per cantare un grande evento. Chi e il puer che con il suo avvento riporta l’età dell’oro sul mondo in crisi? L’identificazione tardoantica del puer con Gesù Cristo è solo la più coraggiosa delle tante congetture avanzate. L’egloga si inserisce nelle aspettative di rigenerazione tipiche dell’età di crisi fra Filippi e Azio, ed ha un chiaro parallelo nell’epodo XVI di Orazio. Due sono i filoni culturali che nutrono questa poesia visionaria: le poesie in onore di nozze e di nascite; Virgilio poi ha attinto anche da fonti non poetiche, dove si mescolano influssi filosofici e presenza di dottrine messianiche, aspettative di una salvatore. L’egloga è datata al consolato di Asinio Pollione, 40 a. C. L’ipotesi migliore è che il bambino fosse atteso in quell’anno, ma non sia mai nato. In quell’anno molte speranze seguivano il patto di potere fra Ottaviano e Antonio; Antonio prendeva in moglie la sorella del primo. Il matrimonio durò poco e non vi furono figli maschi. Nella Egloga X Cornelio Gallo è presentato come poeta d’amore, ma si tratta di un componimento bucolico. Tipicamente bucolico è lo scenario dell’Arcadia, così come l’idea che la poesia possa medicare le ferite d’amore avvicinando l’uomo alla natura. Ma Virgilio non rinuncia ad allargare l’orizzonte; Gallo è rappresentato come l’incarnazione di un’altra poesia: il canto elegiaco, che è anche una scelta di vita. Gallo provato dall’amore infelice cerca rifugio nella poesia dell’amico. Nel complesso, le Bucoliche rivelano il maturare delle scelte di vita dell’autore. La poesia è vissuta come un rifugio contro i drammi dell’esistenza; la vita ritirata dei pastori accoglie stemperate tonalità epicuree. Le Georgiche Nel 38 le Bucoliche sono ormai completate, e già Virgilio ha un nuovo influente protettore: Mecenate. Quest’ultimo non chiede nessuna partecipazione diretta alle fortune del partito di Ottaviano, ma la sua influenza è evidente in una nuova generazione di opere poetiche, come le Georgiche di Virgilio. La composizione gli costò quasi 10 anni di lavoro; nel 29 a.C. il poema era giunto ad uno stadio definitivo. L’opera presuppone una straordinaria ricchezza di letture: grande poesia greca (Omero, gli alessandrini, i tragici), e romana (Lucrezio, Catullo…), anche fonti tecniche in prosa, e trattati filosofici d’ogni tipo. Un lungo processo compositivo denunciato anche dalla scalatura delle allusioni storiche disseminate nell’opera. Il finale del I libro evoca un’Italia in preda alle guerre civili, in cui l’ascesa di Ottaviano è solo una speranza insidiata da molti pericoli; in molti altri luoghi del libro il poema mostra già il principe trionfatore dell’universo pacificato. Virgilio ha voluto inglobare nel suo poema, accanto alla vittoria del nuovo ordine, anche le lacerazioni che lo hanno preparato. Come già per le Bucoliche (ma in maniera meno intensa), Virgilio parte da un aggancio immediato con la poesia greca ellenistica, di autori (Arato) vissuti fra III e II secolo, che avevano compiuto una svolta di gusto e di poetica entro la tradizione del genere didascalico. Spesso questi poeti usano come falsariga dei trattatici scientifici in prosa: chi fosse interessato ai contenuti, teorici o pratici, poteva rivolgersi direttamente a queste fonti tecniche. Questi poeti non pretendono di insegnare a un destinatario; anzi la figura stessa dal destinatario è più che altro una sopravvivenza formale. Prevalente è ormai la passione di scrivere. La raffinatezza della ricerca formale, il virtuosismo del fare versi, sbilanciano queste opere sul versante della forma: operazioni svolte quasi contro i contenuti stessi dell’opera. Il rigore formale di questa poesia è per Virgilio una lezione da meditare. Ma le Georgiche risulteranno ben altro che la “messa in poesia epica” di trattazioni tecniche. La tradizione della poesia didascalica si era spezzata, e nuovamente rivoluzionata, in ambito romano, sotto il forte impulso di Lucrezio. Nella sua stessa epoca, la tradizione didascalica “aratea” aveva trovato interpreti come Cicerone giovane; ma Lucrezio se ne era distaccato decisamente, ritrovando per un’altra via il filone di Parmenide, di Empedocle, veicolo di espressione per un messaggio individuale rivolta ad una larga comunità, orientato a ben precisi scope di trasformazione della vita, di liberazione della vita, di liberazione, di rifondazione della saggezza. Più alessandrino (e neoterico) di Lucrezio, Virgilio si sente più vicino a Lucrezio che agli alessandrini. Certamente non gli è estraneo il gusto delle cose tenui, lo sforzo per trasformare in poesia dettegli fisici e realtà minute, in apparenza refrattarie alla dizione poetica. Le Georgiche, non a caso, devono parte del loro fascino a immagini come queste: il comportamento delle api ammalate, la consistenza della terra sbriciolata fra le dita. In tenui labor è un programma poetico che deve molto alla ricerca formale alessandrina e alla poetica di Callimaco. Tuttavia, l’impulso di fondo delle Georgiche è partito da un dialogo con Lucrezio. “…nulla sa delle leggi del ferro, dei deliri del foro, dei pubblici archivi” ( II 490-502). Un nuovo messaggio di salvazione e di saggezza: non coincide, né si oppone direttamente, con la dottrina di Lucrezio, ma si misura rispetto ad essa; vi sono chiare analogie: la saggezza del contadino, che media la fatica del lavoro e la spontaneità della terra, conduce ad una forma di autosufficienza, materiale e spirituale. Un’autarchia che risponde all’incombere della crisi sociale e culturale della repubblica. Vi sono delle nette differenze. Lo spazio georgico di Virgilio accoglie più largamente la religiosità tradizionale, fa corpo con essa. Si ha l’impressione che Lucrezio guardi alle cause naturali con retroscena della cultura umana; Virgilio sembra appigliarsi pazientemente a tutto ciò che incivilisce e umanizza la natura. Lo spazio georgico del poema ha una sua cintura protettiva. Il giovane Ottaviano si profila come l’unico che può salvare il mondo civilizzato dalla decadenza e dalla guerra civile (I 500 segg.): siamo prima di Azio, nell’incertezza che nasce dalla morte di Cesare e da Filippi. Altrove appare già come vincitore e portatore di pace. Il nuovo principe assicura le condizioni di sicurezza e prosperità entro cui il mondo dei contadini può ritrovare la sua continuità di vita. Per questo tipo di cornice ideologica, le Georgiche si possono considerare il primo vero documento della letteratura latina nell’età del principato. Il principe Augusto, e accanto a lui il suo consigliere Mecenate, sono accolti nell’opera non solo come illustri dedicatari, ma anche come veri e propri ispiratori. Il ruolo di destinatari della comunicazione didattica è assegnato invece alla figura collettiva dell’agricola. Dietro a questo destinatario ideale, si profila invece il destinatario reale dell’opera: un pubblico che conosce la vita della città e la sua crisi. È abbastanza difficile credere che le Georgiche siano direttamente ispirate da un “programma augusteo” di risanamento del mondo agricolo. L’immagine dell’economia rurale che traspare dal poema è una idealizzata costruzione regressiva, inadeguata alla realtà dell’epoca. L’“eroe” del poema è il piccolo proprietario agricolo, il coltivatore diretto: Virgilio ha al massimo pallidi accenni per le grandi trasformazioni in corso. Più notevole ancora è la mancanza di un qualsiasi accenno al lavoro schiavile, vero cardine dell’economia agricola. L’idealizzazione del colonus, ha evidentemente un puro significato morale. Più facile è cogliere, a questo livello, precise convergenze tra Virgilio e la propaganda ideologica augustea. Come l’esaltazione delle tradizioni dell’Italia contadina e guerriera, ha come sfondo il clima di guerra contro Antonio. I temi dei quattro libri sono, rispettivamente, il lavoro dei campi, l’arbicultura, l’allevamento del bestiame, l’apicultura: sono quattro delle attività fondamentali del contadino. L’ordine con cui questi lavori sono collocati descrive una curva, per cui l’apporto della fatica umana diviene sempre meno accentuato, e la natura è sempre più protagonista; la struttura del libro, inoltre sembra orientata dal grande al piccolo. 36 Ogni libro delle Georgiche è dotato di una “digressione” conclusiva, di estensione piuttosto regolare: le guerre civili; la lode della vita agreste; la peste animale nel Norico, la storia di Aristeo e delle sue api. Hanno chiaro valore di cerniera i proemi: due volte lunghi ed esorbitanti rispetto al tema dei libri (I,III); due volte brevi e strettamente introduttivi (II, IV). Il I e il III libro sono così accoppiati, e lo sono anche nelle grandi digressioni finali: guerre civili e pestilenza degli animali si richiamano quasi a specchio, e gli orrori della storia corrispondono ai disastri della natura. Rispetto a questi finali, rasserenante è l’effetto delle altre digressioni: l’elogio della vita campestre si oppone alla minacci della guerra,e la rinascita delle api replica allo sterminio della peste. Queste grandi polarità fra i temi della vita e della morte danno un senso all’architettura formale. La digressione finale del IV libro, a differenza delle altre, ha carattere narrativo. È introdotta come àition alla maniera alessandrina: “origine”, e spiegazione, di un fatto mirabolante, la bugonia: proprietà delle api che possono nascere dalla corruzione di una carcassa bovina. Aristeo – personaggio mitico, grande civilizzatore e scopritore di tecniche – ha perso la sue api per una epidemia. Senza volerlo aveva causato la morte di Euridice, la sposa di Orfeo. Con un sacrificio di buoi viene placata la maledizione; e dalle vittime del sacrificio, miracolosamente, si sviluppa la vita di nuove api. Virgilio ha collegato due miti abbastanza diversi tra loro, ripensandoli entrambi e disponendoli in una struttura a cornice. In questo pesa molto la tradizione della poesia alessandrina e neoterica, quella dei racconti ad incastro. Alcuni temi fondamentali del poema si ritrovano ora sotto mutata veste, cioè sotto specie non più didattica ma narrativa. La figura di Orfeo fonde insieme le grandi possibilità dell’uomo, che col suo canto arriva persino a dominare la natura, e il suo sacco, l’impossibilità di vincere le leggi naturale della morte. Aristeo, invece, indica una diversa strada: la paziente lotta contro la natura è sostenuta da una tenace obbedienza ai precetti divini e conduce fino alla rigenerazione delle api. L’Eneide L’aspettativa di un nuovo epos era forte nella cultura augustea. Il poeta che nelle Bucoliche rifiutava di cantare reges et proelia accetta ora di affrontare questo peso. La tradizione “enniana” avversata dai neoterici non si era mai estinta del tutto, ma l’epica serviva per lo più alla celebrazione di imprese contemporanee. In realtà la nuova epica non si proponeva di continuare Ennio ma di “sostituirlo”: perciò era inevitabile un confronto diretto con Omero. Secondo i grammatici antichi l’intenzione dell’Eneide sarebbe duplice: imitare Omero e lodare Augusto “partendo dai suoi antenati”. Un primo sguardo mostra che si tratta di una semplificazione: i 12 libri sono concepiti come una risposta ai 48 dei due poemi omerici. Eneide I-VI racconta il travagliato viaggio di Enea da Cartagine alle sponde del Lazio, con una retrospettiva sulle vicende che avevano portato Enea da Troia a Cartagine. Dal VII comincia la narrazione di una guerra 2 0 1 Fche si concluderà solo con la morte di Turno all ultimo verso del libro XII. Perciò si usa parlare di una metà “odissiaca” dell’Enedie (I-VI) e di una metà “iliadica” (VII-XII). L’Iliade narra le vicende che portano alla distruzione di una città; l’Odissea narra, facendo seguito a questa guerra, il ritorno a casa di uno dei distruttori. Queste due storie epiche, queste fabulae, si presentano in Virgilio in sequenza rovesciata: prima i viaggi, poi la guerra; ma questo comporta anche un’inversione dei contenuti. Il viaggio di Enea non è un ritorno a casa come quella di Odisseo; è fondamentalmente un viaggio verso l’ignoto. La guerra di Enea non serve a distruggere una città, ma a costruirne un nuova (l’antenata di Roma). Questa complessa trasformazione non ha precedenti nella poesia antica. Si potrebbero distinguere i diversi livelli nel rapporto di trasformazione. L’Eneide è innanzitutto una particolare contaminazione dei due poemi omerici. In secondo luogo, vi è anche una continuazione di d’ira. Così, nell’ultima scena dal racconto, il pio Enea assomiglia al terribile Achille che fa vendetta su Ettore. L’Iliade termina, invece, con un Achille pietoso, che si ritrova uguale a Priamo. I lettori devono insieme apprezzare la necessità fatale della vittoria, e ricordare le ragioni degli sconfitti; guardare il mondo da una prospettiva superiore e partecipare alle sofferenze degli individui; accettare insieme l’oggettività epica, che contempla dall’alto il grande ciclo provvidenziale della storia, e la soggettività tragica, disputa di ragioni individuali e di relative verità. Fortuna di Virgilio Virgilio era già in vita un personaggio popolare; ma l’Eneide doveva, per volontà del suo autore, essere distrutta quasi fosse un testo appena abbozzato. Intervenne direttamente Augusto e affidala cura del manoscritto a Vario, poeta e amico di Virgilio. L’Eneide cominciò ha esercitare la sua influenza ; ed ebbe in sorte due chiari contrassegni di classicità: l’adozione come libro di scuola, e l’attività dei suoi accaniti detrattori o “fruste”. I detrattori si dedicarono a raccogliere i furta di Virgilio, frasi e concetti “rubati” ai predecessori tanto greci che latini. Con una rapidità senza precedenti Virgilio divenne il classico di Roma. L’emergere a Roma di una cultura cristiana segnò un passaggio decisivo nella fortuna di Virgilio. L’alta considerazione di figure come Girolamo e Agostino è solo la punta di un fenomeno più vasto: lo sforzo di assimilare la letteratura pagana alla nuova cultura trova in Virgilio il suo migliore punto d’attacco. Basta 2 0 1 Fcitare l interpretazione cristiana della IV egloga. È superfluo rilevare la continuità di ispirazione in autori come Dante, Tasso; Milton. ORAZIO Vita: Quinto Orazio Flacco nacque il dicembre del 65 a. C. a Venosa, una colonia romana al confine tra Apulia e Lucania. La sua famiglia era di modeste condizioni, il padre era liberto.Ma ottiene comunque una istruzione di primo livello, attorno ai vent’anni Orazio si recò in Grecia a perfezionare gli studi. Lì si arruolò nell’armata di Bruto, come tribuno militare. Dopo Filippi poté tornare a Roma grazie ad un’amnistia. Intorno al 38 Virgilio e Vario lo presentarono a Mecenate che lo ammise nel suo circolo letterario. Muore nell’8 a.C. due mesi dopo Mecenate. Opere: • Epodi - 17 componimenti. Il nome rimanda alla forma metrica: epodo è il verso più corto che segue a un verso più lungo, formando con esso un distico. Orazio li chiama iambi facendo riferimento al ritmo che prevale negli Epodi, e insieme, alludendo al recupero di quel tono aggressivo tradizionalmente associato alla poesia giambica greca. La raccolta è caratterizzata da una varietà di argomenti: i carmi di invettiva (3,4,5,6,8,10,12 e 17) ; gli epodi erotici (11,14,15); gli epodi civili (7,9,16); isolati il 13 e il 2. • Satire – Un primo libro di 10 componimenti, pubblicato nel 35. Nel 30, insieme agli Epodi, appare il secondo libro di 8 satire. In totale contano più di 2000 versi. Gli argomenti sono vari: 1,1 tratta 2 0 1 Fdell’incontentabilità e dell avarizia umana; 1,6 è una riflessione sulla propria condizione sociale e sui rapporti con Mecenate; 1,9 è una specie di vivacissimo mimo: il poeta mette in scena se stesso alle prese con un seccatore per la strade di Roma; in 2,8 Fundanio racconta ad Orazio una cena a casa del ricco Nasidieno, che ha pretese di gastronomo (da questa satira trarrà spunto Petronio per la Cena Trimalchionis). • Odi (i Carmina) – Una raccolta di tre libri (88 carmi in tutto), Orazio vi aveva lavorato per 7 anni. Alla poesia lirica doveva tornare 6 anni più tardi per comporre, su incarico di Augusto, l’inno per le celebrazione dei ludi saeculares, in metro saffico. Poi si dedicò ancora alla poesia e vi aggiunse un VI libro di Odi (15). La lirica oraziana sperimenta metri vari. 40 Merita attenzione la disposizione dei componimenti. Le odi di apertura e di chiusura sono indirizzate a personaggi di riguardo e spesso, secondo una tradizione consolidata, trattano questioni di “poetica”. Anche il secondo posto, il penultimo, nonché la posizione centrale, sono sedi privilegiate. A differenza della lirica moderna, le odi di Orazio raramente danno voce a libere meditazioni o introspezioni: quasi sempre hanno un’impostazione dialogica, sono rivolte ad un “tu” che può essere un personaggio reale, immaginario, un dio o la Musa, persino un oggetto inanimato. • Epistole. Fonti: Fonte principale Orazio stesso, le cui opere sono disseminate di notizie autobiografiche. Alcuni importanti manoscritti orazioni riportano una Vita Horati, dedotta dal De Viris Illustribus di Svetonio. Gli Epodi come poesia dell’eccesso La produzione giambica di Orazio sembra legata alla fase “giovanile” della sua poetica e alle particolari condizioni di vita che caratterizzano il periodo immediatamente successivo all’esperienza di Filippi. A questa situazione di disagio è quasi naturale collegare asprezze, polemiche, toni carichi, linguaggio poetico violento. Ciò ci consegna un’immagine del poeta molto diversa da quello stereotipo (buon gusto, affabilità, senso della misura, distacco dalle passioni) cui è sempre stata collegata la fortuna di Orazio nella cultura europea. Orazio rivendica il merito di aver trasferito in poesia latina i metri di Archiloco; ma rivendica anche esplicitamente i diritti dell’originalità: agli afferma di aver mutuato da Archiloco i metri (numeri) e l’ispirazione aggressiva (animi), ma non i contenuti (res). Archiloco dava voce a gli odi e ai rancori, alle passioni civili e alla tristezze di un aristocratico greco del VII secolo a. C. Orazio scriveva nella Roma dominata dai triumviri e sarebbe entrato presto nell’entourage di Ottaviano; era figlio di un liberto, era appena uscito da una difficile esperienza politica. L’aggressività di Orazio non può rivolgersi che contro “bersagli minori”:personaggi scoloriti, anonimi o fittizi. Anche per influsso dei Giambi di Callimaco (un altro dei modelli greci per gli Epodi) Orazio, in ogni modo, doveva sentire connaturata a una raccolta giambica l’esigenza della varietà. Le Satire Secondo Quinitliano, satura tota nostra est, egli non riusciva cioè ad indicare autori greci che fossero serviti come punto di riferimento agli autori di questo genere letterario. E anche Orazio, nei componimenti programmatici che forniscono le coordinate della sua poesia satirica, indica in Lucilio l’inventore del genere. Il che non era affatto scontato. Lasciando pure da parte l’antica satura drammatica, su cui siamo poco informati (forse un’azione scenica rudimentale, accompagnata dal flauto,con mimica e danza), aveva scritto satire Ennio. Anche qui manchiamo di notizie sufficienti: si ritiene in genere che le sue Satire fossero caratterizzate dalla varietà (di metro, stile, contenuto). Ma Orazio non nomina Ennio e Quintiliano lo escluderà dalla linea Lucilio-Orazio-Giovenale. Lucilio era quindi identificato come colui che aveva fissato i tratti costitutivi della poesia satirica. A lui risaliva un elemento fondante: la scelta dell’esametro come forma di metrica della satira. Ma soprattutto Lucilio aveva praticato questo genere letterario come strumento dell’aggressione personale, della critica mordace. Lucilio organizzava dunque la rappresentazione della società contemporanea, soprattutto del ceto dirigente. Nella sua poesia aveva però posto una grande varietà di temi e di interessi; più importante di tutti era però l’elemento autobiografico: la satira luculliana conteneva fatti, personaggi e osservazioni connesse alla vita personale. Anche in questo Orazio sarà consapevole di raccogliere l’eredità del maestro. Orazio stesso non sottovalutava le differenze che lo separavano dall’inventor del genere: egli però sottolineava principalmente quelle relative allo stile, criticando in Lucilio la sciatta e abbondante facilità. Al piacere gratuito dell’aggressione (un tratto “aristofanesco” vivace in Lucilio) Orazio sostituisce l’esigenza di analizzare i vizi mediante l’osservazione critica e la rappresentazione comica delle persone. Lucilio attaccava con virulenza i cittadini eminenti, avversari di cui condivideva la condizione. Ciò non sarebbe stato possibile al figlio di un liberto:ma, quel che più conta, per trarre insegnamento dalla condotta dei propri simili criticandone gli errori non era necessario scegliere bersagli di elevato livello sociale. Come gli aveva insegnato suo padre, impara da chi gli sta vicino, da quelli che incontra per strada. La morale oraziana ha radici nell’educazione, nel buon senso tradizionale, ma è costruita con elaborati dalle filosofie ellenistiche, che giungono ad Orazio anche attraverso il filtro della diàtriba (la tradizione di letteratura filosofica popolare, illustrata da dialoghi ed aneddoti). 2 0 1 FGli obiettivi fondamentali della ricerca di Orazio sono l’autàrkeia (l autosufficienza interiore) e la metriòtes (la moderazione, il giusto mezzo). Nessuno di questi concetti appartiene ad una setta specifica, ma l’epicureismo è la tradizione filosofica che ha un peso maggiore nella satira di Orazio. L’affinità intellettuale, l’indulgenza, la dedizione, la comunanza di vita, la compattezza nei confronti dell’esterno: tutto ciò risente delle teorie epicuree. La ricerca morale non caratterizza soltanto le satire che si potrebbero chiamare “diatribiche”, quelle cioè in cui si è sviluppata, alla maniera della diàriba , una discussione (con argomenti, obiezioni, esempi) su uno specifico problema (come 1,1; 1,2; 1,3), ma anche quelle in cui il poeta –sul modello del Lucilio “autobiografico” – rappresenta una scena, racconta un episodio. In questi casi, l’interesse morale non è separabile dalla rappresentazione stessa: è come una lente attraverso cui il poeta osserva gatti e personaggi. Il meccanismo fondamentale del genere satirico nella prima raccolta consisteva nel confronto fra un modello positivo (l’obiettivo della ricerca morale) e tanti modelli negativi (i “tipi” della società romana). Nel libro II, invece, registriamo innanzitutto un regresso della componente rappresentativo-autobiografica; nelle satire argomentative risulta poi dominante la forma di dialogo e per di più il ruolo dominante non spetta al poeta, bensì all’interlocutore. La coincidenza tra il poeta e la “voce satirica” (quella che argomenta e confuta) aveva assicurato un punto di riferimento alla ricerca morale del I libro. Ora che il poeta si ritira in secondo piano non c’è più la possibilità di estrarre un senso unitario dalle contraddizioni della società: tutti gli interlocutori sono depositari di una loro verità, anche se non tutte equivalenti. La satira, dice Orazio, non è vera poesia: per essere poeta ci vuole ispirazione divina e una voce capace di trasmettere suoni sublimi (1,4). La satira è dunque letteratura più vicina alla prosa, distinta da questa solo per il vincolo del metro. Ma non va preso troppo alla lettera e soprattutto non se ne deve dedurre che lo stile delle Satire sia frutto di facile improvvisazione. Il linguaggio della conversazione colta che egli si propone di riprodurre richiede cure raffinate e pazienti, non meno faticose di più apprezzati livelli della produzione letteraria. Mobilità e varietà sono le caratteristiche prime dello stile delle Satire, che di volta in volta si modella docilmente sui soggetti. Le Odi La lirica oraziana non può essere intesa a prescindere dal rapporto organico con la tradizione greca. Se negli Epodi Orazio si dichiarava erede di Archiloco, per quel che riguarda la produzione lirica egli rivendica orgogliosamente il titolo di Alceo romano (Carmina 1). Ma simili dichiarazioni possono essere fraintese facilmente dal lettore moderno: esse rimandano in realtà a un rapporto di imitatio che significa soprattutto obbedienza alla lex operis (le regole che organizzano il genere letterario in cui il poeta vuole operare) e quindi del decorum letterario. L’imitazione, com’è intesa da un poeta latino, è una componente del linguaggio poetico e non un ostacolo all’originalità della creazione. 42 La massima economia di inventiva per avere il massimo di espressività. Le Epistole: progetto culturale e anacoresi filosofica Orazio ritorna all’esametro della conversazione. Dovette essere difficile per gli antichi commentatori orazioni inventare una formula critica che sapesse distinguere le Epistole dalle due raccolte di Satire. Non era forse il poeta, in fondo, a chiamare sermones entrambe le opere, accomunate così da una stesso registro stilistico? Il giudizio antico, mentre riconosce, sapientemente anche la vocazione mimico-drammatica delle Satire, sottolinea la specifica configurazione epistolare dell’opera più tarda. Del carattere di queste epistole nessuno crede naturalmente a una vera funzione privata. Ad ogni modo, la componente epistolare assicura al sermo oraziano una intonazione più personale, nonché la varietà di modi e atteggiamenti che è richiesta dall’attenzione nei confronti del destinatario. Dal punto di vista formale le Epistole erano quasi certamente una novità. Erano ben note trattazioni filosofiche sotto forma di epistole in prosa. Ma una raccolta sistematica di lettere in versi come quella di Orazio è probabilmente sperimentazione originale. La satira era appartenuta essenzialmente ad un ambiente cittadino, che corrispondeva ai bisogni sociali del genere in quanto apriva all’opera spazi di circolazione fra ceti colti. Tutte le orazioni, al contrario, presuppongono lo spostamento verso una periferia rustica che risuona di memorie filosofiche. Ripropone il traguardo del De rerum natura lucreziano: l’angulus trascrive nel lessico oraziano l’esperienza dei sapientum templa serena proposta da Lucrezio ai suoi lettori. La raccolta elabora un discorso didascalico che rinnova il poema lucreziano mutuandone tratti significativi. Il rapporto autore-lettore, vivo e drammatico nel De rerum natura, viene imposto dall’evidenza di un impianto educativo tutto rivolto verso l’ingiunzione e l’esortazione. Ecco che così il rapporto autore-lettore diventa esso stesso tema del discorso fino ad assumere le forme della consapevolezza metaletteraria. Le differenze dalle Satire: manca ad esempio alle Epistole quell’aggressività comica che, ancora per Orazio, era la marca evidente del genere satirico. La riflessione morale non procede ora attraverso una osservazione critica della società contemporanea, ma anzi sembra prendere coscienza sempre più netta delle proprie debolezze e contraddizioni: l’equilibrio fra autàrkeia e metriòtes appare ormai irrecuperabile. Al tempo stesso, Orazio non sembra più in grado di costruire un modello di vita soddisfacente. La rinuncia alla vita sociale e all’ottimismo etico è simboleggiata dalla fuga da Roma verso il raccoglimento della campagna sabina. Alle aporie della ricerca morale sembra da collegare lo spazio notevole ora raccordato al tema diatribico dell’insoddisfazione di sé , dell’incostanza, della noi angosciosa e impaziente. L’inquietudine è presentata come una specie di male del secolo (Epistole 1,11,27 segg.): caelum non animu mutant qui trans mare currunt. Strenua nos exercent inertia : navibus atque Quadrigis petimus bene vivere. Quod petis, hic est, Est Ulubris, animus si te non deficit aequus. (“cambia cielo, non animo, chi corre di là dal mare. Un torpore smanioso ci logora, noi che cerchiamo con navi e quadrighe la vita felice. Quello che cerchi è qui, è ad Ulubre, se non ti manca l’equilibrio dell’animo”). Alla esibita debolezza della propria posizione etico-filosofica fa riscontro – quasi paradossalmente – una accresciuta impostazione didascalica del discorso oraziano. La forma epistolare stessa corrisponde in qualche modo alla posizione di un intellettuale eminente e rispettato, che è interlocutore e anche punto di riferimento della élite sociale augustea. Questo aspetto didascalico si accenta nelle epistole del II libro e soprattutto nell’Ars Poetica. La società augustea è anche una società di letterati e di amanti della letteratura: i problemi di critica letteraria, di poetica e politica culturale sono fra quelli di più viva attualità. Augusto è l’interlocutore primario (implicito ed esplicito) di questi discorsi sull’arte e sulla letteratura. Restava aperta (ed urgente agli occhi del principe) la questione del teatro latino. Tale questione è centrale nelle epistole letterarie di Orazio: nella 2,1, in un specie di disputa “degli antichi e dei moderni”, Orazio si schiera decisamente dalla parte di questi ultimi, in nome del principio callimacheo dell’arte colta e raffinata. L’Ars poetica sembra tuttavia orientare la sua analisi dell’arte e della poesia sui problemi della letteratura drammatica. Egli comunque resta fedele nell’Ars ai suoi principi, predicando un’arte raffinata (v.291: si raccomanda dei perfezionare con il labor limae), colta (leggere e rileggere i grandi modelli greci), attenta (i principi fondamentali: coerenza e decorum). Nel quadro di queste riflessioni Orazio ha occasione di disegnare preziosi tracciati di storia della cultura e della letteratura sia greca che romana, nonché di aprire interessanti squarci sulla “vita quotidiana” del letterato romano. La fortuna Già il pubblico dei contemporanei riconobbe in Orazio uno dei grandi della letteratura romana. Nel Medioevo, Orazio fu ben conosciuto, anche se in maniera minore rispetto a Virgilio. Si apprezzava il poeta moraleggiante, da cui era possibile estrarre massime di saggezza per i florilegi, e si leggevano soprattutto le Epistole e le Satire. Orazio lirico invece, già imitato da Petrarca, venne esaltato a partire dall’età rinascimentale: divenne il modello incontrastato della letteratura di stampo classicista; l’Ars poetica restava un punto di riferimento nelle discussioni di poetica. Il 700 fu un vero e proprio secolo oraziano: la cultura illuminista e arcadica apprezzava, il poeta elegante e raffinato, il razionalista e il moralista pungente. In età romantica subì una svalutazione, ma restò sempre caro ai poeti di formazione classica, come Leopardi. Carducci poi, con le Odi barbare, inaugurerà un nuova stagione della fortuna oraziana. TIBULLO Vita: Con buona approssimazione datiamo la suo morte poco dopo quella di Virgilio, fine 19 e inizi 18 a. C. La nascita fra il 55 e il 50 a.C., nel Lazio centrale; la famiglia agiata, apparteneva al ceto equestre. Il punto di riferimento centrale della sua biografia è il rapporto di amicizia e protezione che lo legò a Messalla Corvino, nobile repubblicano che conservò una posizione di prestigio anche sotto Augusto. Tibullo seguì il suo patrono in alcune delle spedizioni militari affidategli: come quella vittoriosa in Aquitania che valse Messalla l’onore del trionfo, celebrato nell’elegia 17 dal poeta. Opere: Sotto il nome di Tibullo l’antichità ci ha trasmesso una raccolta eterogenea di elegie - il cosiddetto Corpus Tibullianum - in 3 libri, di cui solo i primi due sono attribuiti al poeta. Il I libro è dominato soprattutto dalla figura di Delia alla quale sono dedicate 5 elegie: ci descrivono - conformemente alla topica del genere - una donna volubile, capricciosa ,amante del lusso e dei piaceri mondani, e una relazione tormentata, sempre insediata dai rischi del tradimento. Alle elegie per Delia si 46 alternano quelle per un giovinetto, Màrato, dal tono meno sofferto. Completa il libro l’ultima elegia che celebra la pace e la vita agreste. 3 delle 6 elegie del II libro, forse incompiuto, sono invece dedicate alla donna che ne è nuova protagonista, Nèmesi (“Vendetta”, cioè colei che ha scalzato Delia dal cuore del poeta), una figura dai tratti più aspri, una cortigiana avida e spregiudicata.Tibullo è comunemente noto come poeta dei campi, della serena vita agreste. Eppure non manca, nemmeno in lui, lo scenario abituale della poesia elegiaca, la vita cittadina, sfondo degli amori e degli intrighi, degli incontri furtivi e dei tradimenti. Una tendenza, una spinta tipica della poesia elegiaca, è quella di costruirsi un modo ideale, uno spazio di evasione, di rifugio dalle amarezze di un’esistenza tormentata. Questa lacerante tensione trova il suo sfogo nel mondo del mito, dove il poeta proietta la propria esperienza, assimilandola ai grandi paradigmi eroici. In Tibullo però il mondo del mito è assente e la sua funzione è svolta dal mondo agreste. È forte in lui questo bisogno del rifugio, di uno spazio intimo e tranquillo, in cui proteggere e coltivare gli affetti dalle insidie e dalle tempeste della vita. Dietro i tratti di idillio bucolico (si avverte l’influenza di Virgilio), la campagna di Tibullo rivela il suo carattere italico, col patrimonio di antichi valori agresti celebrati dall’ideologia arcaizzante del principato: in ciò, nell’atteggiamento antimodernista, Tibullo rappresenta forse il caso più vistoso di quella contraddizione che la poesia elegiaca, dichiaratamente anticonformista e ribelle, cova in se stessa. Le nostre conoscenze della poesia alessandrina sono oggi tali che ci consentono di ritrovare nell’opera di Tibullo molti dei tratti distintivi della poesia ellenistica; e nonostante che in lui manchino tracce dell’erudizione sottile esibita dagli Alessandrini e sia quasi assente l’evocazione di miti preziosi che decorino la composizione, senza anche a Tibullo compete l’etichetta di poeta doctus. Il suo stile rivela in ogni punto, e con regolarità, la sforzo di una scrittura attentissima, dove la semplicità è il risultato di una scelta artistica. “Terso ed elegante” così lo definisce Quintilliano. La sua fortuna fu superiore a quella di chi (probabilmente Properzio) appare al lettore odierno più meritevole e pregnante. Il dibattito fu precoce, l’inizio di una storia della critica: si intravede il partito “classico” pronto ad ammirare l’equilibrio di Tibullo, e quello opposto, sensibile alla costruzione ruvida improvvisa ma infallibile di Properzio. Episodio significativo di tale fortuna, il Goethe delle Elegie romane. Il Corpus Tibullianum I due codici più importanti di Tibullo ci hanno trasmesso un raccolta di componimenti poetici di cui solo una parte sono da attribuire al poeta: il cosiddetto Corpus Tibullianum, diviso in 3 libri nei codici, ma il III libro fu diviso dagli umanisti in due, quindi oggi si parla di quattro libri. I primi 6 componimenti del III libro del Corpus sono opera di un poeta che si denomina Lygdamo. Si era creduto che fosse Tibullo stesso. Fu il dotto tedesco Voss a rendersi conto che Lygdamo fissa il suo anno di nascita con questo verso: cum cecidit fato consul uterque pari (III 5,18), lo usa allo stesso scopo anche Ovidio (Tristia IV 10,6); quando nella battaglia di Modena morirono ambedue i consoli (43 a. C.). Ma chi è allora questo poeta? L’ipotesi più ovvia è che Lygdamo sia il giovane Ovidio, ma si scontra con ragioni di tipo soprattutto linguistico-stilistico. Probabilmente sarà un poeta della cerchi di Messalla. Alle 6 elegie di Lygadmo fanno seguito un lungo carme in esametri, il Panegyricus Messallae . il mediocre componimento costituisce un elogio dell’uomo politico. L’autore ignoto sarà stato un altro poeta del suo circolo. Delle cosiddette “opere dell’esilio”, tutte in distici elegiaci, i Tristia comprendono 5 libri. Una poesia “moderna” Nell’accostarsi ad Ovidio si resta colpiti dalla vastità della sua produzione e dalla varietà dei generi poetici trattati. È un indizio di un diverso atteggiamento di fronte a scelte letterarie che riflettono anche scelte esistenziali. L’adesione a un genere come l’elegia erotica non significa per Ovidio, al contrario che per i suoi predecessori, una scelta di vita assoluta, incentrata sull’amore; e soprattutto non vuole delimitare un orizzonte poetico. Il tratto più significativo della sua poesia, soprattutto giovanile, è l’accettazione convinta, spesso entusiastica, delle nuove forme di vita nella Roma dei suoi tempi. Ultimo dei grandi poeti Augustei, Ovidio resta sostanzialmente estraneo alla sanguinosa stagione delle guerre civili: quando entra nella scena letteraria quello spettro è ormai lontano, la pace consolidata e cresce l’aspirazione a forme di vita più rilassate, agli agi e alle raffinatezze del mondo orientale. Di queste aspirazioni Ovidio si fa interprete ed elabora un tipo di poesia che corrisponde in maniera sensibile al gusto, allo stile di vita dominato dal cultus. Ciò avviene non solo sul piano dei contenuti ma anche, e non di meno, su quello formale. Anzitutto la concezione che Ovidio ripetutamente manifesta si caratterizza come essenzialmente antimimetica, antinaturalistica, fortemente innovatrice rispetto alla tradizione classica, alla linea aristotelico-oraziana (la poesia ovidiana si dice autonoma dalla realtà e dichiara piuttosto la sua natura letteraria, allude ai suoi modelli). Il compiaciuto estetismo, la scettica eleganza dei questa poesia sono anche l’espressione di un gusto che fa della letteratura un ornamento della vita. Gli Amores L’esordio poetico di Ovidio è costituito da una raccolta di elegie di soggetto amoroso, gli Amores, che mostra ancora ben visibili le tracce dei grandi modelli e maestri dell’elegia erotica, Tibullo e soprattutto Properzio. Da voce, in prima persona, ai temi tradizionali del genere elegiaco: soprattutto avventure d’amore, incontri fugaci, serenate notturne baruffe con l’amata, scenate di gelosia. Ma già si avvertono i tratti nuovi dell’elegia ovidiana. Anzitutto manca una figura femminile attorno a cui si raccolgono le varie esperienze amorose, che costituisca il centro unificante dell’opera e insieme della vita del poeta: Corinna, la donna evocata qua e là da Ovidio, è una figura tenue, dalla presenza intermittente e limitata; il poeta stesso dichiara a più riprese di non sapersi accontentare di un unico amore, di preferire due donne. Anche il pathos che aveva caratterizzato le voci della grande poesia d’amore latina con Ovidio si stempera e si banalizza: diventa poco più di un lusus, e l’esperienza dell’eros è analizzata dal poeta con il filtro dell’ironia e del distacco intellettuale. Acquista anche peso, rispetto alla poesia elegiaca precedente, la coscienza letteraria del poeta, che si manifesta nell’insistenza sulla poesia come strumento di immortalità e come autonoma creazione, svincolata dall’obbligo di rispecchiare il reale. La poesia erotico-didascalica La concezione, il progetto di scrivere un’opera come l’Ars amatoria (e i suoi corollari) in cui impartire una precettistica sull’amore, sembra l’esito naturale, e insieme estremo, della concezione dell’eros delineata negli Amores. 50 Un aggancio importante fra le due opere è costituito dall’elegia I,8 degli Amores, dove il poeta rielabora un motivo già tradizionale nella poesia elegiaca, quello della vecchia lena, l’astuta ed esperta mezzana che impartisce consigli di seduzione a una giovane donna. Quella figura tanto deprecata dalla tradizione elegiaca appare sotto una luce sostanzialmente positiva; la lena è progenitrice del poeta didascalico, del maestro d’amore, perché analoga è la concezione dell’eros che le due opere presuppongono. La relazione d’amore, perduto agli occhi di Ovidio il suo carattere di passione devastante, costituisce ormai un gioco intellettuale, divertimento galante, soggetto ad un corpus di regole sue proprie, a un codice estetico che è ricavabile dall’elegia erotica latina. L’Ars amatoria è un’opera in 3 libri, in metro elegiaco, che impartisce consigli sui modi di conquistare le donne (I), ed conservarne l’amore (II); il III libro, aggiunto più tardi per risarcire scherzosamente le donne dal danno procurato coi primi due, fornisce viceversa insegnamenti su come sedurre gli uomini. La figura del perfetto amante delineata da Ovidio si caratterizza ovviamente per i suoi tratti di disinvolta spregiudicatezza, di insofferenza e impertinente aggressività nei confronti della morale tradizionale. In realtà il carattere libertino e spregiudicato dell’Ars non ne costituisce più che la sua veste scintillante: l’eros ovidiano perde ogni impegno etico, ogni velleità di ribellione contro la morale dominante. L’elegia ovidiana coltiva piuttosto ambizioni di segno contrario: nel negare l’impegno totalizzante della precedente poesia d’amore,nel neutralizzarne le spinte aggressive, Ovidio cerca una riconciliazione della poesia elegiaca con la società, e suo modo cerca di sciogliere, una vistosa contraddizione dell’elegia, che nel suo orgoglioso contrapporsi al sistema tradizionale dei valori sociali e culturali non aveva saputo elaborare modelli etici alternativi. A questo atteggiamento contraddittorio, e tendenzialmente arcaizzante, della poesia elegiaca Ovidio contrappone i valori della modernità, un’accettazione entusiastica dello stile di vita della scintillante Roma augustea. All’esalazione del cultus , degli agi e delle raffinatezze, risponde anche il poemetto Medicamina faciei femineae che si oppone la tradizionale rifiuto della cosmesi e illustra la tecnica di preparazione di alcune ricette di bellezza. Il ciclo didascalico è concluso dai Remedia amoris, l’opera che insegna come liberarsi dall’amore. Le Heroides Se l’eros è il tema unificante della produzione giovanile ovidiana, l’altra grande fonte della sua poesia è il mito; l’opera che più di esso si alimenta sono le Heroides. Con questo titolo si designa una raccolta di lettere poetiche: la prima serie è scritta da donne famose, eroine del mito greco ai loro amanti o mariti lontani: Penelope a Ulisse, Fedra a Ippolito, Arianna a Teseo, Medea a Giasone, ecc. La seconda è costituita dalle lettere di tre innamorati accompagnate dalla risposta delle rispettive donne: tra cui Paride ad Elena. Dell’originalità di quest’opera, con cui crea un nuovo genere letterario, Ovidio si dice orgoglioso se personaggi e situazione appartengono al grande patrimonio del mito, molti elementi sono mutuati dalla tradizione elegiaca latina, dove sono ricorrenti motivi come la sofferenza per la lontananza della persona amata, recriminazioni,lamenti, suppliche, sospetti di infedeltà. Tra le epistole che risentono di più del modello elegiaco, c’è quella di Fedra e Ippolito, in cui l’eroina euripidea perde i suoi tratti di nobile dignità tragica per assimilarsi a una dama spregiudicata della società galante, tesa a sedurre il figliastro con le lusinghe di un facile furtivs amor. Nelle Heroides il modello elegiaco fa da filtro attraverso cui passano i materiali narrativi dell’epos, della tragedia, del mito. È un’ottica ristretta, convenzionale, che porta le eroine ovidiane ad imporre tagli “elegiaci” sul materiale narrativo dell’epos, della tragedia, del mito; è un processo di deformazione, di sistematica reinterpretazione, di riscrittura coerente. Così, nella epistola 7, Didone seleziona nel modello virgiliano gli elementi funzionali alla sua interpretazione persuasiva; così si spiega l’insistenza su un’ipotesi come quella della gravidanza, che rovescia la formulazione nell’Eneide, dove si trattava di una speranza delusa. Ovidio introduce il lettore in un universo letterario nuovo, né epico o mitico né elegiaco, ma fondato sulla compresenza di codici e valori, sulla loro interazione. Certo la scelta della forma epistolare imponeva vincoli precisi al poeta, soprattutto la I serie, che si configurano come monologhi costruiti prevalentemente su una situazione-modello, il “lamento della donna abbandonata”. La struttura della lettera non permetteva molte variazione: data per nota la lettore colto la situazione di partenza, l’andamento fonologico è solo interrotto qua e là da qualche flash-back. C’è ancora un aspetto da sottolineare. Le Heroides propriamente sono poesia del lamento, sono l’espressione della condizione infelice della donna, lasciata sola o abbandonata dallo sposo-amante lontano. Ma se a causare la sofferenza è per lo più questo ritrovarsi abbandonate dall’amato, non mancano altre cause di infelicità per le figure femminili delle: le eroine soffrono in quanto donne. Nelle Heroides il genere elegiaco sembra così tornare alla proprie origini di poesia del dolore e del lamento. Nell’operazione di “riscrittura” messa in atto, Ovidio rielabora i testi della tradizione spostando la prospettiva e dando voce alla donna e alle sue ragioni. Nell’approfondimento della psicologia femminile (forte l’influsso del modello euripideo) è anzi proprio uno degli aspetti più notevoli delle Heroides. Le Metamorfosi Dopo Virgilio, che con l’Eneide aveva realizzato il grandioso progetto di un poema epico di tipo omerico, di un epos nazionale, Ovidio segue un’altra direzione. La veste formale sarà quella dell’epos (l’esametro sarà il marchio distintivo), e così le grandi dimensioni (15 libri), ma il modello è quello dei un “poema collettivo”, che raggruppi cioè una serie di storie indipendenti accomunate da uno stesso tema. Al tempo stesso però proprio mentre opera questa scelta di poetica alessandrina (nei contenuti e nella forma), Ovidio rivela anche l’intenzione di comporre un poema epico, che la poetica callimachea aveva notoriamente messo al bando. Ne dà conferma lo stesso impianto cronologico del poema, illimitato (dalle origini del mondo ai giorni di Ovidio). Ciò riavvicinava il poeta agli orientamenti del principato e di rispondere, anzi, alle esigenze nazionali ed augustee. Le circa 250 vicende mitico-storiche narrate nel corso del poema sono ordinate secondo un filo cronologico che subito dopo gli inizi si attenua fino a rendersi quasi impercettibile per lasciar spazio ad altri criteri di associazione. Le varie storie possono essere collegate, ad esempio, per contiguità geografica, o per analogie tematiche, o invece per contrasto, o per semplice rapporto genealogico fra i personaggi, o ancora per analogia di metamorfosi, e così via. Dopo il brevissimo proemio inizia la narrazione della nascita del mondo dall’informe caos originario e della creazione dell’uomo: il diluvio universale e rigenerazione del genere umano grazie a Deucallione e Pirra segnano il passaggio dal tempo primordiale al tempo del mito, degli dei e semidei, delle loro passioni e dei loro capricci. Fino ai personaggi della guerra troiana che ci introducono nella storia per arrivare fino all’età di Augusto. Alla fluidità della struttura corrisponde la varietà dei contenuti. Molto variabili sono già le dimensioni delle storie narrate, oscillanti dal semplice cenno allusivo, allo spazio di qualche centinaio di versi, che fa di molti episodi dei veri e propri epilli. Ovidio non tende all’unità e all’omogeneità dei contenuti e delle forme, quanto piuttosto alla loro calcolata varietà; tende soprattutto alla continuità della narrazione, al suo armonioso fluire e dipanarsi. 52 compromessi. Viene coinvolto nella celebre “congiura di Pisone”: condannato a morte da Nerone, si suicidò nello stesso 65 d.C. Opere: Della vasta produzione senecana, quelle di carattere filosofico occupano lo spazio maggiore. Alcune di queste raccolte, dopo la morte, in 12 libri di Dialogi: sono trattati, per lo più brevi, su questioni etiche e psicologiche. Altre opere filosofiche tramandateci autonomamente, sono i 7 libri De beneficiis, il De clementia, indirizzato a Nerone e 20 libri comprendenti le 124 Epistulae morales ad Lucilium. Di carattere propriamente scientifico la Naturales Quaestiones, in 7 libri. Abbiamo 9 tragedie cothurnatae, cioè di argomento greco e il Ludus de morte Claudii (o Apokolokyntosis), una satira menippea sulla singolare apoteosi dell’imperatore Claudio. Fonti: Molte notizie da Seneca stesso; importanti i libri XII-XV degli Annales di Tacito; Cassio Dione; Svetonio. I Dialogi e la saggezza stoica Consolatio ad Marciam indirizzata alla figlia dello storico Cremuzio Sordo per consolarla della perdita del figlio. Il genere della consolazione, già coltivato nella tradizione filosofica greca, si costituisce attorno a un repertorio di temi morali (la fugacità del tempo, la precarietà della vita, la morte come destino ineluttabile… ) che saranno parte della riflessione filosofica di Seneca. Le singole opere dei Dialogi costituiscono trattazioni autonome di aspetti o problemi particolari dell’etica stoica, il quadro generale in cui l’intera produzione filosofica senecana si iscrive (uno stoicismo, comunque, che ha stemperato l’antico rigore dottrinale). Il De vita beata affronta il problema della felicità e del ruolo che nel perseguimento di essa possono svolgere gli agi e le ricchezze. In realtà, dietro il problema generale, Seneca sembra voler fronteggiare le accuse di incoerenza tra i principi professati e la concreta condotta di vita che lo aveva portato ad accumulare un patrimonio sterminato. Saggezza e ricchezza non sono necessariamente antitetiche (nemo sapientiam paupertate damnavit, 23); Seneca resta generalmente estraneo al fascino del modello cinico, avvertito come pericolosamente asociale: che aspira alla sapientia dovrà saper “sopportare” gli agi e il benessere che le circostanze delle vita gli hanno procurato, senza lasciare invischiarsene. La “trilogia” dedicata all’amico Sereno, che abbandona le sue convinzioni epicuree per accostarsi all’etica stoica, è composta da: De constantia sapientis, De otio, De tranquillitate animi. Il primo esalta le qualità del saggio stoico, forte della sua interiore fermezza. Il terzo affronta il tema della partecipazione del saggio alla vita politica: Seneca cerca una mediazione fra i due estremi dell’otium contemplativo e dell’impegno proprio del civis romano. La scelta di una vita appartata è invece chiara nel De otio: una scelta forzata, resa necessaria dalla situazione politica difficile. Nel De providentia affronta il problema della contraddizione fra il progetto provvidenziale che secondo la dottrina stoica presiede alle vicende umane (in polemica con la tesi epicurea dell’indifferenza divina) e la sconcertante constatazione di una sorte che sembra spesso premiare i malvagi e punire gli onesti. La risposta 2 0 1 Fdi Seneca è che l avversità che colpiscono chi non li merita non contraddicono tale disegno provvidenziale, ma attestano la volontà divina di mettere alla prova gli onesti. Filosofia e potere I 7 libri De beneficiis: vi si tratta della natura e delle varie modalità degli atti di beneficenza, del legame benefattore-beneficato. L’opera che analizza il beneficio come elemento coesivo dei rapporti sociali, sembra trasferire sul piano morale individuale il progetto di una società equilibrata e concorde utopica. L’appello, rivolto soprattutto alle classi privilegiate, ai dovere di filantropia e di liberalità,è nell’intento di instaurare rapporti sociali più umani. L’opera in cui Seneca aveva esposto più compiutamente la sua concezione del potere è il De clementia, dedicato al giovane imperatore Nerone. Non mette in discussione la legittimità costituzionale del principato: il potere unico era il più conforme alla concezione stoica di un ordine cosmico governato dal logos, dalla ragione universale, il più idoneo a rappresentare l’ideale di un universo cosmopolita; vincolo e simbolo unificante dell’impero. Il problema, piuttosto, è quello di avere un sovrano assoluto, privo di forme di controllo esterno, l’unico freno sul sovrano sarà la sua stessa coscienza. La clemenza è la virtù che dovrà informare i suoi rapporti coi sudditi: con essa potrà ottenere il consenso. È evidente in questa concezione l’importanza che acquista l’educazione del princeps e più in generale la funzione della filosofia come garante e ispiratrice della direzione politica dello stato. La pratica quotidiana della filosofia: le Epistole a Lucillio L’opera principale della sua produzione tarda, e la più celebre in assoluto, sono le Epistulae ad Lucilium, una raccolta di lettere di vario argomento. Se si tratti di un epistolario reale o fittizio è questione di cui si continua a discutere. L’opera ci è giunta incompleta; costituisce, comunque, un unicum nel panorama letterario e filosofico antico. Lo spunto a comporre lettere a carattere filosofico sarà venuta da Platone, e soprattutto Epicuro; egli mostra piena consapevolezza di introdurre un genere nuovo, distinto dalla comune pratica epistolare. Il modello è appunto Epicuro, colui che nelle lettere agli amici ha saputo perfettamente realizzare quel rapporto di formazione e di educazione spirituale che Seneca istituisce con Lucilio. Le sue lettere vogliono essere uno strumento di crescita morale. Riprendendo un topos comune nella epistolografia antica , Seneca insiste sul fatto che lo scambio di lettere permette di istituire un colloquium con l’amico, di creare con lui un’intimità quotidiana. Più degli altri generi di letteratura filosofica, la lettera, vicina alla realtà della vita vissuta, si 2 0 1 Fpresta perfettamente alla pratica quotidiana della filosofia. Non meno importante dell aspetto teorico è nella lettera quello parenetico: essa tende non solo e non tanto a dimostrare una verità quanto ad esortare, ad invitare al bene. Oltre a essere funzionale a una fase specifica del processo di direzione spirituale, il genere epistolare si rivela anche appropriato ad accogliere un tipo di filosofia, come quella senecana, priva di sistematicità e inclina a trattare aspetti parziali o singoli temi etici. Gli argomenti delle lettere, sono svariati, ma vengono generalmente ricondotti alla tematiche della tradizione diatribica: vertono sulle norme cui saggio informa la sua vita, sulla sua autàrkeyas, sul suo disprezzo per le opinioni correnti. La considerazione della condizione umana che accomuna tutti i viventi ha fatto pensare al sentimento di carità cristiana: in realtà l’etica senecana resta profondamente aristocratica, e il sapiens stoico che esprime la sua simpatia per gli schiavi maltrattati manifesta apertamente anche il suo irrevocabile disprezzo per le masse popolari abbruttite dagli spettacoli del circo. La conquista della libertà interiore (resasi necessaria la rinuncia alle rivendicazioni sul terreno politico) è l’estremo obbiettivo che il saggio stoico si pone. Lo stile “drammatico” La prosa filosofica senecana è divenuta quasi l’emblema di uno stile elaborato, teso e complesso, caratterizzato dalla ricerca dell’effetto e dell’espressione concisamente epigrammatica. Seneca rifiuta la compatta architettura classica del periodo ciceroniano e da vita ad un genere eminentemente paratattico, che frantuma l’impianto del pensiero in un susseguirsi di frasi aguzze e sentenziose, il ci collegamento è affidato all’antitese e alla ripetizione. Questa prosa affonda le sue radici nella retorica asiana e nella predicazione dei filosofi cinici. Uno stile aguzzo e penetrante che riflette emblematicamente le spinte che animano la filosofia senecana, tesa fra la ricerca della libertà dell’io e la liberazione dell’umanità. 56 Le tragedie Un posto importante nella produzione letteraria di Seneca è occupata dalle tragedie: sono 9 quelle ritenute autentiche, tutte di soggetto mitologico greco. L’Hercules furens, costruita sul modello dell’Eracle di Euripide, tratta il tema della follia di Ercole provocata da Giunone, che induce l’eroe a uccidere moglie e figli. Le Phoenisse, improntata sulla Fenice di Euripide e sull’Edipo a Colono di Sofocle, che ruota attorno al destino di Edipo e all’odio che divide i suoi figli. Poi Medea, che si rifà ancora a Euripide, ecc. Sono le sole tragedie latine a noi pervenute in forma non frammentaria. Sono importanti anche come documento della ripresa del teatro latino greco. In età giuglio-claudia e nella prima età flavia l’elìte intellettuale senatoria sembra in effetti ricorrere al teatro tragico come alla forma letteraria più idonea ad esprimere la propria opposizione al regime (nella tragedia latina, che riprende un aspetto già fondamentale in quella classica, era sempre stata forte l’ispirazione repubblicana e l’esecrazione della tirannide). La scarsità di notizie esterne non ci permette di saper nulla di certo sulle modalità della loro rappresentazione. Ciò che sappiamo sulla destinazione della letteratura tragica in età anteriore a Seneca - e cioè che si continuava sì a rappresentare normalmente in scena le tragedie, ma che ci si poteva anche limitare a leggerle nelle sale di recitazione - ha indotto studiosi a ritenere che quelle di Seneca fossero tragedie destinate soprattutto, ma non solo, alla lettura. Le varie vicende tragiche si configurano come conflitti di forze contrastanti, come opposizione tra mens e furor, fra ragione e passione:la ripresa di temi e motivi rilevanti delle opere filosofiche rende evidente una consonanza di fondo fra i due settori della produzione senecana, e ha alimentato la convinzione che il teatro senecano non sia che una illustrazione, sotto forma di exempla forniti dal mito, della dottrina stoica. L’analogia non va troppo accentuata, perché nell’universo tragico, il logos, il principio razionale cui la dottrina stoica affida il governo del mondo, si rivela incapace di frenare le passioni e arginare il dilagare del male. Un rilievo particolare ha la figura del tiranno sanguinario e bramoso di potere. L’atteggiamento che tiene nei confronti dei modelli greci denota, da un lato maggiore autonomia, e al tempo stesso però presuppone un rapporto continuo col modello, sul quale l’autore opera interventi di contaminazione, di ristrutturazione, di razionalizzazione dell’impianto drammatico. Il rapporto con gli originale è mediato comunque dal filtro del gusto e della tradizione latina; il linguaggio poetico ha la sua base costitutiva nella poesia augustea - Ovidio -. Le tracce della tragedia latina arcaica si avvertono nel gusto del pathos esasperato, nella tendenza al cumulo espressivo, ecc. Spesso l’esasperazione della tensione drammatica è ottenuta mediante l’introduzione di lunghe digressioni (ekphràseis), esorbitanti rispetto alla consuetudine epica e soprattutto tragica. L’Apokolokyntosis Un’opera davvero singolare è il Ludus de morte Claudii; ma il nome sotto cui l’opera è più comunemente nota è quello greco di Apokolokyntosis, che ci fornisce Cassio Dione. Parola che implicherebbe un riferimento a kolkynta, cioè la zucca, forse un emblema della stupidità e, secondo Dione sarebbe una parodia della divinizzazione di Claudio decretato dal senato alla sua morte. Nel testo non c’è accenno a una zucca e l’apoteosi di fatto non ha avuto luogo; ma il curioso termine va inteso non come “trasformazione in zucca”, ma piuttosto come “deificazione di una zucca, di uno zuccone”, con riferimento alla fama non proprio lusinghiera di cui Claudio godeva. Altri dubbi sono stati suscitati dal fatto che, a quanto sappiamo da Tacito, lo stesso Seneca aveva scritto la laudatio funebris dell’imperatore morto. Resta il fatto che, all’interno della Pharsalia, l’elogio a Nerone suona come una nota stridente: nel progetto stesso del poema era insita la contraddizione fra la visione pessimistica dell’ultimo secolo di storia romana, che Lucano andava maturando, e la aspettative suscitate dal uovo principe. Lucano e l’anti-mito di Roma Nel seguito del poema il pessimismo di Lucano si fa più radicale, e approda a una concezione coerentemente priva di luci: un vero e proprio “anti-mito” di Roma, il mito del suo tracollo, della inarrestabile decadenza, che si contrappone a quello virgiliano dell’ascesa della città da umili origini. Come l’Eneide, la Pharsalia si articola intorno a una serie di profezie che rivelano non le future glorie di Roma, ma la rovina che l’attende. La più importante è costituita senza dubbio dalla nekyomantèia (“negromanzia”) del libro VI. Introducendo il mondo dell’oltretomba, Lucano mostra l’evidente volontà di creare un pezzo che posa fare da pendant alla catabasi (“discesa agli Inferi”) di Enea. Lucano rovescia il modello virgiliano fin nei minimi particolari. La scelta di Pompeo a destinatario della rivelazione si spiega col fatto che Luciano ha inteso collegare la stirpe di Pompeo al mito della rovina di Roma, come Virgilio aveva collegato la gens Iulia a quello della sua ascesa gloriosa. Per di più sesto Pompeo, figlio degenere ed empio, rappresenta per molti aspetti un rovesciamento del pio Enea. I personaggi del poema La Pharsalia non ha, come l’Eneide, un personaggio principale: l’azione del poema ruota attorno soprattutto a Cesare e Pompeo e Catone. Cesare domina a lungo la scena con la sua malefica grandezza: egli assurge a incarnazione del furor che un’entità ostile, la Fortuna, scatena contro l’antica potenza di Roma. Il furor, l’ira, l’impatientia sono le passioni che agitano il suo personaggio; sono anche i tratti tipici della rappresentazione del tiranno. Alla frenetica energia di Cesare si contrappone una relativa passività da parte di Pompeo: un personaggio in declino, affetto da una sorta di senilità politica e militare. L’intento di Lucano è quello di farne una sorta di Enea cui il destino si mostra avverso: così egli diviene una figura “tragica”, l’unica che, all’interno dell’opera, subisca una evoluzione psicologica. Alla progressiva perdita di autorevolezza in campo politico fa riscontro, in Pompeo, un ripiegamento nella sfera del privato; va incontro ad una sorta di “purificazione”: diviene consapevole della malvagità dei fati, comprende che la morte in nome di una causa giusta costituisce l’unica via di riscatto morale. Questa consapevolezza costituisce invece per Catone un solido possesso fino dalla sua prima apparizione nel poema. Lo sfondo filosofico della Pharsalia è indubbiamente di tipo stoico: ma nel personaggio di Catone si consuma la crisi dello stoicismo di stampo tradizionale, che garantiva il dominio della ragione nel cosmo e, quindi, la provvidenza divina nella storia. Di fronte alla consapevolezza della malvagità di un fato che cerca unicamente la distruzione di Roma, diviene impossibile, per Catone, l’adesione volontaria alla volontà del destino (o degli dei) che lo stoicismo pretendeva dal saggio. Matura così la convinzione che il criterio della giustizia è ormai da ricercarsi altrove che nel volere del cielo. Catone si impegna nella guerra civile, con piena consapevolezza della sconfitta alla quale va incontro, e della conseguente necessità di darsi la morte, l’unico modo che gli resta per continuare ad affermare il diritto e la libertà. Lo stile Ardens et concitatus : così Quintilliano ebbe a definire Lucano e voleva probabilmente riferirsi anche all’incalzante ritmo narrativo dei periodi, che si susseguono senza freno e lasciano debordare parti della frasi oltre i confini dello schema esametrico. Per la spinta continua al pathos e al sublime, lo stile di Lucano ha molti punti di contatto con quello delle tragedie di Seneca: si è potuto parlare di “Barocco” e di “manierismo”. 60 È uno stile che di rado conosce dominio e misura, ma è anche uno stile che non è solo il frutto dell’adesione alle mode letterarie del tempo, né intende solo compiacere il gusto delle sale di declamazione; la tensione espressiva dell’epica lucanea si alimenta dell’impegno e della passione con le quali il giovane poeta ha vissuto la crisi della sua cultura. La rappresentazione di una catastrofe come la guerra civile poteva ancora a nutrirsi di una forma tradizionale qual era quella che il genere epico offriva? Nell’immaginario dell’epica eroica la coscienza e l’orgoglio di un popolo avevano trovato forme adeguate a “trasfigurare” gli eventi del proprio passato. Ma a questo compito l’epos non può far fronte ora che lo sviluppo degli eventi ha tradito quel mondo ideale e ha tolto credito alle forme letterarie che lo raccontavano. Lucano non ha la forza di sbarazzarsi di una forma letteraria che pure senti insufficiente ai suoi bisogni, così egli cerca un rimedio di compenso nell’ardore ideologico con cui denuncia la crisi. Ma così la presenza di un’ideologia politico-moralistica si fa in lui ossessiva, invade il suo linguaggio e si riduce a retorica. La fortuna Dante la colloca quarto fra gli “spiriti magni” dopo Omero, Orazio e Ovidio (Inf. IV); al Catone lucaneo è largamente ispirato quello che Dante incontra nel Purgatorio. Goethe, nel Faust, prese spunto dalla descrizione dei riti della maga Erìttone. Foscolo derivò da Lucano alcuni accenni dei Sepolcri. Gli spunti “titanistici” e “antiteistici” della Pharsalia alimenteranno anche la poesia di G. Leopardi: il Bruto Minore è sotto certi aspetti la poesia più “lucanea” che sia stata scritta. PETRONIO Vita: Se l’autore è il personaggio rappresentato da Tacito negli Annales XVI (cosa che oggi appare altamente probabile) si tratta di T. Petronius Niger, console verso il 62, suicida per volontà di Nerone nel 66. Il cognome Arbiter, attestato nella tradizione manoscritta del Satyricon sarà da collegarsi alla definizione riportata da Tacito, elegantiae arbiter, anche se la connessione tra questi dati è discussa. Nominato pochissime volte e a partire dal III secolo; oltre Tacito qualche menzione in Plinio. Opere: Un lunghissimo frammento in prosa; titolo Satyrica, che sembra formato da due grecismi: Satyri ( i Satiri) più il suffisso di derivazione greca -icus (-ikòs), lo stesso che serve alla formazione di titoli come Georgica (neutro plurale). Secondo altri il titolo risente della parola latina satura. (Si noti che il titolo usuale Satyricon non è esatto; si tratta di un genitivo plurale neutro, retto da libri). La parte che abbiamo copre parte dei libri 14 e 16 e la totalità del libro 15; è verosimile che quest’ultimo coincidesse in gran parte con la “Cena di Trimalcione”. Non sappiamo di quanti libri fosse composto il romanzo. Il testo ebbe un destino capriccioso e complesso; fu mutilato e antologizzato in età tardo-antica. Di questa riduzione una sezione - la Cena Trimalchionis - ricompare soltanto nel XVII secolo, in un codice ritrovato in Dalmazia. Pregiudizi moralistici inibirono a lungo la diffusione di Petronio, soprattutto nelle scuole. Ma lo sviluppo del romanzo europeo fu profondamente influenzato dal Satyricon. Flaubert e Joyce sono debitori di questo esperimento narrativo. Il Satyricon Del Satyricon sono incerti l’autore, la date di composizione, il titolo e il suo significato, l’estensione originaria, oltre a questioni quali il genere letterario in cui si inserisce e le motivazioni per cui quest’opera venne concepita e pubblicata. Nessun autore antico ci dice chi fosse il misterioso Petronius Niger Arbiter, autore secondo la tradizione manoscritta del Satyricon. Tacito non parla dell’opera, ma ci presenta nel XVI libro degli Annali uno straordinario ritratto di un cortigiano di Nerone, di nome Petronio, e considerato da Nerone il giudice per eccellenza dello chic e della raffinatezza: il suo elgantiae arbiter. L’identità di questo Petronio con l’autore del Satyricon è oggi accettata dalla stragrande maggioranza degli interpreti, anche se non poggia su nessuna testimonianza. Tacito delinea un personaggio paradossale: valido uomo di potere; proconsole di Bitinia; ma la qualità che lo rendeva prezioso a Nerone era la raffinatezza, il gusto estetico. Fu spinto al suicidio nel 66: nessuna ostentazione di severità stoica, anzi il suo suicida sembra essere stato concepito come una parodia del teatrale suicidio tipico di certi oppositori politici. Incidendosi le vene, e poi rallentando ad arte il momento della fine, Petronio passò le ultime ore a banchetto, occupandosi di poesia. È chiaro che il ritratto deve molto all’arte di Tacito; tuttavia, a molti lettori le somiglianze con l’atmosfera del romanzo sono apparse troppo belle per essere false. Spregiudicatezza, acuto sguardo critico, disillusione, senso della mistificazione, cultura letteraria sono tutte qualità che l’autore del Satyricon divide con il Petronio letterario. È legittimo interrogarsi su certi aspetti del testo, cercando dei punti di contatto con l’atmosfera della corte neroniana. Si è pensato che il gusto di Petronio per i bassi fondi abbia una sottile complicità con i gusti dell’imperatore; gli storici anitneroniani attribuiscono a Nerone un’intensa vita notturna, condotta in incognito, frequentando bettole e postriboli, mescolandosi a risse. Tutti gli elementi di datazione interni, cioè desunti dal testo stesso, concordano con una datazione non oltre il principato di Nerone. Lo stile del romanzo ha dato più lavoro ai critici: il linguaggio parlato da alcune figure del romanzo - i liberti del convito in casa di Trimalcione - è profondamente diverso dal latino letterario che ci è familiare. Abbiamo qui una preziosa fonte di informazione sulla lingua d’uso popolare, che si può combinare con attestazioni di tipo sub-letterario, come i graffiti di Pompei, glosse e con quelle tracce di lingua d’uso che recuperiamo, spesso a fatica, da poeti quali Plauto o Catullo. Ma in sintesi, diremo che i volgarismi sono spie non di uno stato “tardo”, storicamente tardo, della lingua, ma di uno strato “basso”. Il modo in cui si è formato il testo è assai problematico. Siamo di fronte a un frammento di narrazione che deve aver subito qua e là dei tagli, forse anche delle interpolazioni e degli spostamenti di sezioni narrative. La parte più integra è il famoso episodio della Cena di Trimalcione. Di sicuro, questi era preceduto da un lunghissimo antefatto (14 libri ?!) e seguito da una parte di lunghezza per noi imprecisabile. La storia è narrata in prima persona dal protagonista Encolpio, che compare in tutti gli episodi. Encolpio attraversa un successione indiavolata di peripezie. Da principio il protagonista, un giovane di buona cultura, che ha a che fare con un maestro di retorica. Apprendiamo poi che viaggia in compagnia di un avventuriero dal passato burrascoso, Ascilto, e di un bel giovinetto, Gitone; fra questi personaggi corre un triangolo amoroso. Entra in sena una matrona, Quartilla, che coinvolge i tre in un rito in onore del dio Priàpo: si rivela un pretesto per abusare sessualmente dei giovani. Poi i tre vengono scritturati per un banchetto in casa di Trimalcione, un ricchissimo liberto di sconvolgente rozzezza. Descrizione minuziosa della cena, una teatrale esibizione di lusso e kitsch; la scena è dominata dagli amici liberti di Trimalcione e dalla loro rozzezza. Seguono altre avventure di Encolpio. Nessuno dei termini che usiamo per definire la narrativa di invenzione (novella, romanzo,ecc.) ha una tradizione classica, ne reali corrispettivi nel mondo antico. Gli antichi applicavano a queste opere narrative termini molto generici (historia, fabula). Per questa classe di testi non abbiamo trattazioni teoriche; 62 Il suo spirito polemico, e l’entusiastica aspirazione alla verità, trovavano nella satira lo strumento più idoneo ad esprimere il sarcasmo i l’invettiva, nonché l’esortazione morale. La sua poesia è innanzi tutto ispirata da un’esigenza etica, dalla necessità di mascherare e combattere la corruzione e il vizio, e si contrappone perciò polemicamente alle mode letterarie del tempo. Agli occhi di Persio la poesia contemporanea è viziata da una degenerazione del gusto che è anche segno di indegnità morale. Nella descrizione delle molteplici forme in cui il vizio e la corruzione si manifestano, Persio ricorre con frequenza a un campo lessicale, quello del corpo e del sesso, sfruttandone il ricco patrimonio metaforico. L’immagine ossessiva del ventre diventa il centro attorno a cui ruota l’esistenza dell’uomo, e l’emblema stesso della sua abiezione (l’assimilazione tra vizio morale e malattia fisica era un presupposto comune della filosofia stoica e della sua terapia delle passioni). Nella denuncia del vizio, e nella aspra descrizione delle sue manifestazioni, Persio si riallaccia alla tradizione della satira e della diatriba (ciò spiega la sua tendenza a delineare tipi fissi), ma ne accentua i toni forzandoli verso un barocchismo macabro. La fenomenologia del vizio diventa così l’aspetto prevalente, relegando in uno spazio marginale la fase “positiva” del processo di liberazione morale: cioè sono poche le indicazioni sul recte vivere. Lo stoicismo di Persio non assume apertamente i carattere dell’impegno civile; inclina piuttosto verso un raccoglimento interiore, condizione per praticare il culto della virtù. Allo storico della letteratura il libro delle Satire offre l’occasione di una verifica importante; bisogna prima riconoscere, sotto la specie dei forti echi intertestuali che lo animano, la presenza reale di modelli e autori esemplari, voci diverse e lontane della tradizione letteraria romana chiamate a dialogare e contrastare fra loro. Prima presenza, costante e unanime, è quella del sermo oraziano, una forma discorsiva che aveva saputo adattarsi sia all’intenzione satirica che alla pensosità epistolare. Ma risultano coinvolte questioni di portata più generale. Anche per suggestione lucreziana, erano stati importanti nella letteratura augustea ambizioni genericamente educative, istanze pragmatiche e allocutorie: cioè, pur al di fuori delle forme proprie del genere didascalico, il poeta cercava il contatto intenso col destinatario, lo provocava lo coinvolgeva. Persio raccoglie questo “modello lucreziano” e lo sviluppa nel suo rovescio, di Lucrezio anzi ne fa praticamente un antimodello. Era stato Orazio che aveva mediato alla classicità augustea istanze e atteggiamenti lucreziani. Un suo tratto caratterizzante è nel rapporto paritetico fra il poeta e il destinatario: Orazio non si atteggia a maestro che insegna, ma percorre, insieme all’amico cui si rivolge un cammino comune. Questo il modello depositato dalla tradizione. Il liber poetico di Persio vale come riflessione su di esso e insieme come apostasia. Trasformando radicalmente quella che era la figura cordiale dell’autore-filosofo proteso amichevolmente verso il lettore, le Satire descrivono l’iter predicatorio di un maestro perennemente inascoltato. Il discorso didascalico in Persio si nega statutariamente la possibilità di una risposta positiva del destinatario. Il sermo oraziano, pacato nella sua bonomia, viene sostituito da un atteggiamento aspro e 2 0 1 Faggressivo., necessario per superare l indifferenza dei miseri in preda la vizio. Indebolito il contatto con l’altro polo della comunicazione, si guadagna spazio per una letteratura dell’interiorità, per il monologo confessionale: quella dell’esame di coscienza è la cifra culturale che sigla tutto il libro. A questa intenzione di aggredire salutarmene il lettore, di scuoterlo, va ricondotta principalmente anche la peculiarità dello stile di Persio, la sua ben nota oscurità. Un linguaggio scabro sarà la maniera migliore per esprimere sentimenti autentici, la realtà naturale delle cose. A tale scopo Persio (laddove Orazio aveva raccomandato la scelta accurata della callida iunctura) ricorre abitualmente alla tecnica della iunctura acris, del nesso urtante per asprezza, sia dal punto di vista fonico che soprattutto semantico; l’uso dell’aprosdòketon. La lingua quindi è quella della quotidianità, ma lo stile si incarica di deformarla ad esprimere una verità non banale, a istituire relazioni insospettate fra le cose. GIOVENALE Vita: Poche e incerte le notizia sulla vita di Giovenale, ricavabili in parte dai rari accenni autobiografici presenti nelle sue satire. Decimo Giunio Giovenale sarebbe nato nel Lazio, ad Aquino, tra il 50 e il 60, da famiglia benestante. All’attività poetica arrivò in età matura; visse, come l’amico Marziale, all’ombra dei potenti, nella disagiata condizione di cliente, privo di autonomia economica. Morì sicuramente dopo il 127. Opere: La sua produzione poetica è costituita da 16 satire, in esametri (per 3869 versi), suddivise in 5 libri forse dall’autore stesso. Tra il 100 e il 127 la loro pubblicazione. La letteratura del tempo, col suo dilettarsi dei trite leggende mitologiche, è ridicolmente lontana, agli occhi di Giovenale, dal clima morale corrotto, dalla profonda abiezione in cui versa la società romana. Di fronte all’inarrestabile dilagare del vizio sarà l’indignazione la musa del poeta, e la satira il genere obbligato. Così nella I satira, Giovenale enuncia le ragioni della sua poetica e la centralità che in essa occupa la indignatio. Al contrario di Orazio, non crede che la poesia possa influire sul comportamento degli uomini, giudicati prede irrimediabili della corruzione. Giovenale rifiuta di uniformarsi alla tradizione satirica precedente, razionalistica e riflessiva, ma il suo rifiuto investe le forme stesse del ragionamento e del giudizio morale, gli schemi del pensiero moralistico romano. Questo, com’è noto, si costituisce grazie a un’operazione di adattamento alla società romana del grande patrimonio di topoi della diatriba cinico-stoica, e informa nelle maniere più varie la riflessione sui problemi di etica personale e di morale sociale, fornendone gli schemi di impostazione e i tipi di soluzione. Sono appunto le risposte della morale diatribica che Giovenale rifiuta, di quella morale che insegna a restare indifferenti di fronte al mondo delle cose concrete, esteriori, e a coltivare l’apàtheia e l’autarkeia del saggio. Rigetta e demistifica col rancore dell’emarginato, di chi si vede escluso dai benefici che la società elargisce ai corrotti e costretto all’umiliante condizione del cliente. L’astio sociale, il risentimento per la mancata integrazione,è una componente importante della satira “indignata” di Giovenale; al suo sguardo deformato di moralista, la società romana appare irrimediabilmente perversa. La sua furia aggressiva non risparmia nessuno, accanendosi soprattutto sulle figure più emblematiche della società e del costume della capitale. Bersaglio privilegiato sono le donne, le donne emancipate e libere, che per il loro disinvolto muoversi nella vita sociale personificano agli occhi del poeta lo scempio stesso del pudore. Questa radicale avversione al suo tempo, e la rabbiosa protesta conto l’oppressione la miseria in cui versano gli umili e i reietti, hanno fatto parlare di un atteggiamento “democratico” di Giovenale, ma è una prospettiva illusoria: il suo atteggiamento verso il volgo, gli indotti, è di profondo e irrevocabile disprezzo. Un marcato cambiamento di toni si avverte nella seconda parte dell’opera di Giovenale, negli ultimi due libri, in cui il poeta rinuncia alla violenta ripulsa dell’indignatio assume un atteggiamento più distaccato, mirante all’apàtheia degli stoici, riavvicinandosi a quella tradizione diatribica della satira da cui si era distaccato bruscamente. Mentre, nella tradizione precedente, proprio l’avere come oggetto la realtà quotidiana aveva fatto sì che la satira adottasse un livello stilistico umile, un tono familiare e senza pretese (il sermo), adesso che questa realtà ha assunto caratteri eccezionali, che il vizio l’ha popolata di mostri, anche la satira dovrà farvi corrispondere caratteri grandiosi. Non più stile dimesso, ma simile a quello dell’epica e soprattutto della tragedia. 66 Giovenale trasforma quindi profondamente il codice formale del genere satirico, recidendo il legame con la commedia e accostando la satira alla tragedia, sul terreno dei contenuti e dello stile, analogamente “sublime”. Un procedimento usuale è il ricorso alla solenni movenze epico-tragiche proprio in coincidenza con i contenuti più bassi e volgari. Il suo realismo ha naturalmente una forte spinta deformante, che si esplica soprattutto nel tratteggiare figure e quadri di violenta crudezza. La fama di Giovenale fiorisce nel IV secolo. Conosciuto da Dante e Petrarca e dagli umanisti, conoscerà grande fortuna soprattutto nella tradizione satirico-moralistica europea, da Ariosto a Parini, da Alfieri a Hugo a Carducci. STAZIO Vita: Publio Papirio Stazio nasce a Napoli fra il 40 e il 50. A Roma ebbe il giovane poeta successi nelle gare poetiche. Protetto da Domiziano; rientrò a Napoli, morì nel 96. Opere: Silvae, 5 libri in versi in vario metro, editi a partire dal 92. Due testi epici in esametri. Thèbais, in 12 libri (oltre 10000 versi), pubblicata nel 92; Achillèis, lasciato incompiuto: rimane solo il libro I e l’inizio del II. Le Silvae Da una trattazione che guardi insieme a tutti i poemi epici di età flavia, esorbitano le Silvae, opera non epica con caratteri legati al gusto contemporaneo. Stazio è un letterato professionale, che vive della sua opera. Il titolo dell’opera vuole indicare forse una raccolta di “schizzi”, ma queste poesie sono un preziosissimo documento sulla società dell’epoca. I “committenti” delle varie poesie si rispecchiano in molte di esse, rivelandoci mentalità e atteggiamenti di ceto colto e benestante. I valori che guidano questo sistema sociale: il ripiegamento sulla vita privata e l’ideologia del “pubblico servizio” nelle strutture dell’impero. Altrettanto importanti storicamente le poesie cortigiane rivolte a Domiziano, che ci illustrano lo sviluppo del culto imperiale, i cerimoniali, le manifestazioni pubbliche. Gli artifici della poesia si adattano bene a mimare l’artificiosa architettura delle ville e dei giardini, dove le realtà naturale è amabilmente trasformata in spettacolo. Il poeta si mostra perfettamente inserito in una società gerarchica, entro una rete di autorevoli protettori che ha il suo centro immobile nel simulacro divinizzato del principe. Il poeta delle Silvae si atteggia a cantore orfico integrato nella comunità; la poesia funge ora da ornamentazione, costruisce una ovattatura su cui si sono deposti, come preziosi, gli oggetti, e i gesti del quotidiano. Questa futilità “leggera” è però l’erede di una poesia grande e vigorosa; ne eredita i modi e giunture espressive, valori ed elaborazione formale. Ma la nuova funzione di questa poesia si può definire estetizzante, nel senso che deve rendere belli e gradevoli oggetti, uomini e gesti, ma solo a patto di distanziarsene: le ekphràseis (cioè le digressioni) di Stazio più che descrizioni sono encomi,più che mostrare qualcosa al lettore vogliono lasciarlo contento e soddisfatto. Per il loro carattere d poesia colta, tradizionale e riflessa, hanno spesso faticato a trovare estimatori. La sua capacità di “improvvisare”, la sua velocità nel comporre è il gesto retorico di una poetica dell’opera “minore” o “minima”, che raccoglie l’originaria spinta proveniente dalla tradizione epigrammistica. La tenera poesia “sentimentale” di Stazio, benpensante e conciliativa, aspira a essere il ritratto della buona società imperiale. Ma il gusto e la poetica del sentimento rispondono ad un’ampia politica di direzione e controllo della pubblica emotività. L’età neroniana aveva inaugurato la moda di pubbliche gare di poesia: consolidatasi, ora serve piuttosto a un programma di restaurazione civile e morale, all’esaltazione dei valori e delle forme letterarie tradizionali. Il carattere spettacolare che ispira gli agoni poetici destinati a compiacere Vita: Tiberio Cazio Asconio Silio Italico, nato attorno al 26. Avvocato, politicamente legato a Nerone. Ritirato a vita privata, si dedicò ad un ampio poema storico. Muore nel 101. Opere: Punica i 17 libri di esametri (oltre 12000 versi); secondo una parte della critica è incompiuto. I Punica Sappiamo del suo estetismo quasi maniacale, del suo culto museografico di Virgilio. Silio Italico amava raccogliere i cimeli del poeta e ne aveva addirittura comprato il sepolcro. In questa mentalità c’è molto dello spirito con cui si accinge a produrre letteratura: la sua opera è una fredda galleria di busti storici e curiosità antiquarie. I Punica sono il più lungo epos storico latino a noi giunto. I 17 libri raccontano la II guerra punica dalla spedizione di Annibale in Spagna al trionfo di Scipione dopo Zama. L’argomento stesso del poema subito pone il problema delle fonti storiografiche. La linea “annalistica” testimonia la volontà del poeta di collegarsi alla più imponente trattazione monografica in latino dagli eventi che vanno dal 218 al 201 a. C.: la terza deca di Livio. Nello sviluppo della narrazione l’uso dell’opera dello storico augusteo è sempre piuttosto ampia; in alcuni passi ne segue la traccia con notevole aderenza. Il parallelo più ovvio dei Punica sono gli Annales di Ennio, che forniva un esempio canonico per la composizione di un’epica “anno per anno”. Un altro precedente arcaico, più distante e certamente meno diretto, era Nevio l’autore del Bellum Poenicum. L’impulso fondamentale dell’opera venne dell’Eneide. La guerra di Annibale è presentata come una diretta continuazione di Virgilio: è originata dalla maledizione di Didone ed i suoi discendenti. Silio Italico restaura, all’interno dell’epica storica, la funzione strutturale dell’apparato mitico. Per una meccanica estensione, Giunone fino alla vittoria di Canne asseconda le iniziative di Annibale. Nei Punica la volontà di Giove è quella di imporre ai Romani una durissima prova: fornendo prove di valore deve dimostrare di essere degna di aspirare al dominio su altri popoli. L’intento di elaborare una “teoria” non allontana il fastidio provocato dall’inverosimiglianza delle intrusioni divine nel corso dell’azione storica. I lettori sono chiamati ad accettare non solo le convenzioni dell’epos virgiliano, ma addirittura di quello omerico. Manca il protagonista assoluto: più volte è stato sottolineato che Annibale, l’unico personaggio presente con una certa continuità dell’inizio alla fine, merita a buon diritto questo titolo. La caratterizzazione dell’eroe negativo tradisce ora l’influsso del Turno virgiliano, ora, negli spunti più demoniaci, quello del Cesare di Lucano. Contro si erge un nutrito gruppo di eroi romani, degni rappresentanti di valori ideologici, quali fides, pietas, constantia, fortitudo. Tra questi eroi spiccano Scipione e Fabio Massimo. L’opera nel suo complesso si innesta, senza aggiungere molto nel ricco filone della letteratura patriottica romana. Le disgressioni mitologiche ed eziologiche e la ricerca di esattezza antiquaria tutta rivolta al mondo dell’Italia arcaica denunciano attenzione e sensibilità al fascino della poikilìa (varietà) alessandrina. MARZIALE Vita: Marco Valerio Marziale, nacque nella Spagna Tarragonese tra il 38 e il 41. Venne a Roma trovando appoggio dalla famiglia spagnola più in vista nella capitale, quella di Seneca, che lo introdusse nella buona società: conobbe Calpurnio Pisone e gli ambienti dell’opposizione senatoria a Nerone. Dall’ 84, comincia a pubblicare regolarmente i suoi componimenti: il successo gli arrise, e sotto Domiziano ricoprì cariche onorifiche (ottenne il rango equestre), venendo a contatto con personalità eminenti (il futuro imperatore 70 Nerva, scrittori quali Silio Italico, Quinilliano, Giovenale), ma non ne conseguirono consistenti benefici economici. Nel 98 torna definitivamente in patria dove morirà verso il 104. Opere: Di Marziale ci resta una raccolta di Epigrammi distribuiti in 12 libri. Tale corpo centrale è preceduto da un altro libro a sé di 30 epigrammi (Epigrammaton liber),e seguito da altri due libri (noti come XIII e XIV) dal titolo Xenia e Apophoreta: brevissime iscrizioni, ognuna di un solo distico, per accompagnare doni di varia natura in occasione della festa dei Saturnali, e omaggi offerti nei banchetti ai convitati. I metri sono vari, ma prevalente è il distico elegiaco. Varie anche le dimensioni dei componimenti: dall’epigramma di un solo distico a quelli di 10 versi e più, fino ad alcune decine. Gli epigrammi sono in totale più di 1500. L’epigramma come poesia realistica Un aspetto importante della cultura letteraria dell’età dei Flavi, nel clima di restaurazione morale che la caratterizza, è la tendenza al recupero del genere poetico più alto, l’epica, ma si assiste anche alla diffusione e al cospicuo successo di genere come l’epigramma che è considerato il più umile di tutti. A Roma l’epigramma non aveva una grande tradizione, su tutti Catullo. L’origine dell’epigramma risale all’età greca arcaica, dove la sua funzione (come il nome stesso attesta: “iscrizione”) era essenzialmente commemorativo: inciso su pietre tombali, o su offerte votive. In età ellenistica però l’epigramma, per conservando la sua caratteristica brevità, mostra di essersi emancipato dalla forma epigrafica e dalla destinazione pratica: è un tipo di componimento adatto alla poesia d’occasione, a fissare l’impressione di un momento, di un piccolo avvenimento. I temi sono di tipo leggero: erotico, simposiaco, satirico-parodistico, accanto a quelli tradizionali di carattere funebre. Nell’ambito della poesia latina, l’epigramma non aveva una grande tradizione, e di essa ci è rimasto poco: con l’eccezione di Catullo, quasi nulla sappiamo dei poeti che Marziale indicava come suoi auctores. Di fatto è solo con lui che l’epigramma trova riconoscimento artistico. A Roma, Catullo valorizza la forma breve (già in sé privilegiata dalla poesia callimachea) come la più idonea a esprimere sentimenti, gusti, passioni, nonché a farsi strumento di vivace aggressione polemica. Marziale farà dell’epigramma il suo genere esclusivo, apprezzandone la duttilità, la facilità ad aderire ai molteplici aspetti del reale: pregi che Marziale polemicamente contrappone ai generi illustri (epica, e tragedia). È proprio il realismo, l’aderenza alla vita concreta, che Marziale rivendica come tratto qualificante della propria poesia. Nei suoi epigrammi il pubblico poteva trovare la concisa rievocazione di un evento spettacolare, o lo spunto per accompagnare con un bon mot un dono agli amici o ai convitati, oppure la commemorazione di fatti concreti, ecc. Marziale osserva lo spettacolo della realtà e dei vari personaggi che ne occupano la scena con uno sguardo deformante che ne accentua i tratti grotteschi e li riconduce a tipologie ricorrenti: deformazione e grottesco sono il frutto di una tecnica di rappresentazione molto ravvicinata, un effetto ottico che focalizza i singoli personaggi e tratti isolati negando uno sfondo, un contorno. L’atteggiamento del poeta è però quello di osservatore attento ma per lo più distaccato, che raramente si impegna nel giudizio morale e nella condanna: una satira sociale priva di asprezza, che preferisce il sorriso all’indignazione risentita. Il meccanismo dell’arguzia I temi degli epigrammi di Marziale sono vari, e investono l’intera esperienza umana: accanto a quelli più radicati nella tradizione, altri riguardano più da vicino le vicende personali del poeta o il costume sociale dell’epoca. In generale l’epigramma di Marziale sviluppa fortemente l’aspetto comico-satirico: in ciò prosegue un processo avviato già da un precedente autore di epigrammi, il poeta greco di età neroniana Lucilio, che si inserisce nella tradizione satirica romana, attenta all’analisi del costume sociale e pronta a tratteggiare i tipi più rappresentativi. Ma da Lucilio Marziale mutua anche alcuni procedimenti formali, ad esempio la tecnica della trovata finale, della battuta che chiude in maniera brillante il breve giro di pensiero. Così l’epigramma acquista una fisionomia e una forma tipica, diventa un meccanismo comico costruito appunto in funzione del fulmen in clausola, della stoccato finale. Le forme compositive generalmente si riconducono ad una modalità ricorrente che ha indotto i critici a fissare uno schema-tipo: una prima parte, che descrive la situazione, l’oggetto, il personaggio, suscitando nel lettore una tensione di attesa, e la parte finale che - con effetto sorprendete (aprosdòketon) - scarica quella tensione in un paradosso. Una tale scelta poetica comporta naturalmente un linguaggio e uno stile conformi, aperti alla vivacità dei modi colloquiali e alla ricchezza del lessico quotidiano. Accanto ai termini che designano una realtà umile e ordinaria, Marziale si compiace di introdurre altri drasticamente osceni. Ma un poeta duttile come lui sa alternare forma espressive molto varie: notevole il ricorso in funzione parodistica di moduli solenni della poesia illustre. Una ricchezza di modalità espressive che corrisponde alla molteplicità dei temi e alla varietà del reale di cui l’epigramma intende farsi interprete. QUINTILIANO Vita: Marco Fabio Quintiliano nacque in Spagna intorno al 35: suo padre era maestro di retorica. Fu richiamato a Roma, da Galba, nel 68, ed incominciò la sua attività di maestro di retorica, senza interrompere l’avvocatura. La sua attività di insegnamento ebbe grande successo (fra i suoi allievi Plinio il Giovane e probabilmente Tacito), tanto che nel 78 Vespasiano gli affidò la prima cattedra statale. Domiziano lo incaricò dell’educazione dei suoi nipoti, cosa che fece ottenere a Quintiliano gli ornamenta consularia. Morì nel 95. Opere: È andato perduto un trattato De causis corruptae eloquentiae. Pure perduti i due libri Artis rethoricae, sorta di dispense che gli allievi di Quinitiliano trassero dalle sue lezioni e che pubblicarono contro la sua volontà. Si è conservata l’opera principale, in 12 libri, la Institutio oratoria, pubblicata nel 96. Sotto il nome di Quintiliano i manoscritti ci tramandano due raccolte di declamazioni, è ormai accettato dalla critica di considerare spuri questi libri. Fonti: Alcune notizie autobiografiche nel suo Insitutio oratoria; altre dalla Cronaca di Girolamo; cenni in Marziale e Giovenale. I rimedi alla corruzione dell’eloquenza Il problema della corruzione dell’eloquenza investiva contemporaneamente questioni morali e di gusto letterario: il primo aspetto era evidente nel diffuso malcostume della delazione, che spesso asserviva l’eloquenza ai fini del ricatto materiale e morale; inoltre nelle scuole erano diffuse figure di insegnanti corrotti e a loro volta corruttori della moralità degli allievi. Un secondo risvolto del problema era quello relativo alle scelte letterarie: nei vizi e nelle virtù dello stile taluni vedevano vizi e virtù del carattere. In epoca flavia fu particolarmente acceso il dibattito fra i diversi orientamenti dell’oratoria: l’arcaizzante, il modernizzante, il ciceroniano. Quintiliano fu il vessillifero dei una reazione classicistica nei confronti dello stile corrotto e degenerato di cui egli vedeva in Seneca il principale esponente e insieme il maggior responsabile. Quintiliano vede in termini moralistici il problema della degenerazione dell’eloquenza, ma ai suoi occhi ha anche cause tecniche, che egli ravvisa nel decadimento delle scuole. A una rinnovata serietà dell’insegnamento egli affida il compito di ovviare al problema. L’Institutio oratoria delinea pertanto un programma complessivo di formazione culturale e morale, che il futuro oratore deve seguire scrupolosamente. 72 È stato sottolineato come le notizie contenute nella Germania non derivino da osservazione diretta, ma quasi esclusivamente da fonti scritte: la maggior parte della documentazione è tratta dai Bella Germaniae di Plinio il Vecchio. Gli intenti: probabilmente un’esaltazione di una civiltà ingenua e primordiale, non ancora corrotta dai vizi raffinati di una civiltà decadente, in filigrana, la Germania sembra percorsa da una vena di implicita contrapposizione dei barbari, ricchi di energie ancora sane e fresche, ai Romani. La debolezza e la frivolezza della società romana dovevano allarmare lo storico senatore: i Germani, forti, liberi e numerosi potevano rappresentare una seria minaccia per un sistema politico basato sul servilismo e la corruzione. Non stupisce, tuttavia, che Tacito si addentri anche in una lunga enumerazione dei difetti di un popolo che gli appare essenzialmente barbarico, l’indolenza, la passione per il giuoco, la tendenza all’ubriachezza e alle risse, l’innata crudeltà. I parallelismi della storia La parte che ci è rimasta delle Historiae contiene la narrazione degli eventi degli anni 69-70. Dal regno di Galba fino alla rivolta giudaica, l’opera nel suo insieme doveva estendersi fino al 96, l’anno della morte di Domiziano; nel proemio, Tacito afferma di riservare invece per la vecchiaia la trattazione dei principati di Nerva e Traiano. Le Historiae affrontavano perciò un periodo cupo, sconvolto da varie guerre civili, e concluso da una lunga tirannide. L’anno col quale si apre la narrazione, il 69, aveva visto succedersi 4 imperatori (Galba, Otone, Vitellio, Vespasiano); era anche stato divulgato un “arcano” dell’impero: l’imperatore poteva essere eletto altrove che a Roma, poiché la sua forza si basava principalmente sull’appoggio delle legioni di stanza in paesi anche lontani. È stato notato un certo parallelismo fra l’ascesa al potere di Traiano e gli avvenimenti del 69: il predecessore di Traiano, Nerva, si era trovato come Galba ad affrontare una rivolta dei pretoriani che faceva traballare le basi del suo potere; come Galba, aveva designato per adozione un successore. L’analogia si ferma a questo punto: Galba si era scelto come successore Pisone, un mobile di antico stampo, poco adatto, per il suo rigore “arcaizzante”, a conciliarsi la benevolenza delle truppe. Nerva, invece, aveva consolidato il proprio potere associandosi al governo Traiano, un capo militare autorevole. Probabilmente Tacito aveva preso parte al consiglio imperiale nel quale venne decisa l’adozione di Traiano: in esso saranno riemerse, da parte di membri tradizionalisti dell’aristocrazia senatoria, posizioni di anacronismo non dissimile da quello di Galba. Tacito ha voluto mostrare in Galba il divorzio ormai consumato fra il modello di comportamento rigorosamente ispirato al mos maiorum e la reale capacità di dominare e controllare gli avvenimenti. Tacito è convito che solo il principato è in grado di garantire la pace, la fedeltà agli eserciti e la coesione dell’Impero; naturalmente il principe non dovrà essere uno scellerato tiranno come Domiziano, né un inetto come Galba. Addita come unica soluzione praticabile nel principato “moderato” degli imperatori d’adozione. Lo stile narrativo delle Historiae ha un ritmo vario e veloce, ciò ha implicato, da parte di Tacito, un lavoro di condensazione rispetto ai dati forniti dalle fonti: a volte qualcosa è omesso, ma più spesso sa conferire alla propria narrazione efficacia drammatica suddividendo il racconto in singole scene. Tacito è un maestro nella descrizione delle masse, spesso incalzante e spaventosa: dalla descrizione traspare in genere il timore misto a disprezzo per le turbolenze dei soldati e della feccia della capitale. Ma un disprezzo quasi analogo lo storico aristocratico lo ostenta anche per i suoi pari, i componenti del senato: l’adulazione manifesta verso il principe che cela l’odio segretamente covato nei suoi confronti. Le Historiae raccontano per la maggior parte fatti di violenza, di prevaricazione e di ingiustizia: di conseguenza la natura umana è dipinta in toni costantemente cupi. Ciò non toglie che Tacito non sappia tratteggiare in modo abile e vario i caratteri dei propri personaggi, alternando notazioni brevi e incisive a ritratti compiuti. La tecnica del ritratto mostra numerose affinità con Sallustio: Tacito si affida alla incocinnitas, alla sintassi disarticolata, alla strutture stilistiche slegate per incidere nel profondo dei personaggi. Ma lo stile “abrupto” di Sallustio esercita il suo influsso su tutta la narrazione di Tacito, che tuttavia ha saputo svilupparlo fino a determinare un vero e proprio salto di qualità. Tacito ama le ellissi di verbi e di congiunzioni; ricorre a costrutti irregolari e a frequenti cambi di soggetto per conferire varietà e movimento alla narrazione. Quando una frase sembra terminata, spesso la prolunga con una “coda” a sorpresa, la quale aggiunge o modifica quanto affermato poco prima. Le radici del principato Nemmeno nell’ultima fase della sua attività Tacito mantenne il proposito di narrare la storia dei principati di Nerva e Traiano. Terminate le Historiae, negli Annales, la sua indagine si rivolse ancora più indietro,intraprese il racconto della più antica storia del principato , dalla morte di Augusto a quella di Nerone. I libri I-V seguono in parallelo le vicende interne ed esterne di Roma: nella capitale il manifestarsi del carattere chiuso, sospettoso di Tiberio, il dilagare dei processi di lesa maestà, il degenerare del regime, fino alla morte di Tiberio. All’esterno i successi di Germanico, i suoi contrasti con Pisone, la morte in Oriente, per avvelenamento. I libri XI-XII narrano gli anni dal 47 al 54, la seconda metà del principato di Claudio, presentato come un imbelle in balia dei liberti e della seconda moglie Agrippina, che lo fa avvelenare per mettere sul trono il figlio di primo letto Nerone. Nei libri XIII-XVI è narrato il regno di Nerone. Negli Annales, Tacito mantiene al tesi della necessità del principato; ma il suo orizzonte sembra essersi incupito: mentre ribadisce che Augusto ha garantito la pace dopo lunghi anni di guerre civili, lo storico sottolinea anche come da allora i vincoli si siano fatti più duri. La storia del principato è anche la storia del tramonto della libertà politica dell’aristocrazia senatoria, del resto coinvolta in un processo di corruzione che la rende vogliosa di un servile compenso nei confronti del principe. Scarsa simpatia dimostra anche verso coloro che scelgono la via del martirio, sostanzialmente inutile allo stato. Si è detto che Tacito è soprattutto un grande artista drammatico, sottovalutando le sue specifiche doti di storico. Ma è vero che la storiografia tragica - una storiografia ricca di elementi drammatici, che si rifaceva a Sisenna - giuoca negli Annales un ruolo di primo piano. La tragedie di Tacito, i drammi di anime che mette in scena non sono tuttavia tanto stimolati dal desiderio di attizzare le emozioni, quanto nutriti dalla riflessione pessimistica che ha radici importanti nella tradizione storiografica latina, soprattutto in Sallustio. Alla forte componente tragica Tacito assegna la funzione di scavare nelle pieghe dei personaggi per sondarli in profondità e portare alla luce le ambiguità. Negli Annales si perfeziona ulteriormente l’arte del ritratto, già sapientemente messa a frutto nelle Historiae. Il vertice è stato individuato nel ritratto di Tiberio, del tipo cosiddetto “indiretto”: lo storico non dà cioè il ritratto una volte per tutte, ma fa sì che esso si delinei progressivamente; il ritratto dell’imperatore è dipinto in tutta la gamma delle gradazioni. Un certo spazio ha anche il ritratto del tipo “paradossale”: l’esempio più notevole è Petronio (XVI 18). Il fascino del personaggio sta proprio nei suoi aspetti contraddittori: Petronio si è assicurato con la ignavia la fama che gli altri hanno conquistato con infaticabile operosità; ma la mollezza della sua vita contrasta con l’energia e la competenza dimostrate quando ha ricoperto importanti cariche pubbliche. Su tutta la sua esistenza spira un’aria di sovrana nonchalanche, una negligentia che ne esalta la raffinatezza. Lo stile degli Annales è per certi aspetti mutato rispetto a quello delle Historiae: si registra una evoluzione che va in direzione del crescente allontanamento dalla norma e dalla convenzione. Una ricerca di “straniamento” che si esprime nella predilezione per forme inusitate, per un lessico arcaico e solenne. Si 76 accentua il gusto per la incoccinnitas, ottenuto soprattutto attraverso la variatio, cioè allineando a un’espressione un’altra che ci si attenderebbe parallela, ed è invece diversamente strutturata. Le fonti di Tacito Il problema delle fonti delle quali si è avvalso Tacito è stato a lungo dibattuto; coinvolge la questione di rapporti con il resto della tradizione storiografica (Svetonio, Cassio Dione, Plutarco) che ci ha trasmesso la narrazione degli eventi dello stesso periodo. Tacito poté consultare la documentazione ufficiale: gli acta senatus, e gli acta diurna populi Romani (contenevano gli atti del governo e notizie su quanto avveniva a corte e a Roma). Inoltre aveva a disposizione raccolte di discorsi di alcuni imperatori, come Tiberio e Claudio. L’accuratezza degli storici antiche nell’uso dei documenti non era in genere pari a quella dei moderni: ma Tacito fu senz’altro fra i più scrupolosi. Menziona del resto alcune fra le proprie fonti: Plinio il Vecchio, che aveva scritto Bella Germaniae. Tacito poté inoltre servirsi di letteratura epistolografia e memorialistica, e certo attinse a quel vasto genere letterario che va sotto il nome di Exitus illustrium virorum: una libellistica di opposizione che narrava il sacrificio dei martiri della libertà, soprattutto di coloro che avevano affrontato il suicidio ispirandosi alla dottrine stoiche. Di questa letteratura Tacito si servì per esempio per narrare la morte di Seneca: soprattutto per conferire colorito drammatico al proprio racconto, non perché approvasse questo genere di suicidio il quale gli appariva viziato da una forma di ambiziosa ostentazione. La fortuna Nel primo Rinascimento a Tacito venne spesso preferito a Livio; ma già Guicciardini indicò in lui il maestro che insegnava fondare le tirannidi. Su questa, nell’epoca della Controriforma e delle monarche assolute prese piede il fenomeno del “tacitismo”, che vide nell’opera di Tacito un complesso di regole e di principi direttivi dell’agire politico di tutti tempi. Così Tacito venne talora usato, dai teorici della ragione di stato, come pretesto alla formulazione di una teoria dell’ideale imperiale. Ma le generazioni dell’Illuminsimo sentirono Tacito soprattutto come l’oppositore della tirannide. In campo letterario, alcuni tragici, come Corbeille, Racine e l’Alfieri, trassero da “drammi” tacitiani materia e ispirazione per i loro tormentati personaggi. SVETONIO Vita: Di Gaio Svetonio Tranquillo non conosciamo esattamente la data di nascita né quella di morte. Per un po’ dovette svolgere l’attività forense, poi entrò a corte in qualità di funzionario: fu prima preposto, da Traiano, alla cura delle biblioteche pubbliche; poi, sotto Adriano, fu addetto all’archivio imperiale e alla corrispondenza dello stesso principe. La sua carriera si interrompe bruscamente nel 122, quando cadde in disgrazia presso l’imperatore; dopodiché si perdono le tracce. Opere: Di una copiosa produzione,in greco e in latino, di opere erudite abbiamo solo notizie, e miseri frammenti. De viris illustribus si intitolava una raccolta di biografie di letterati suddivisa per “generi”. A noi ne resta solo una sezione, De grammaticis et rhetoribus; delle altre sezioni abbiamo solo materiale sparso giuntoci per tradizione indiretta. Il De vita Ceasarum, una raccolta di 12 biografie (dei primi Cesari) in 8 libri, ci resta invece completo. La biografia di Svetonio Quello biografico era un genere letterario di tradizione greca che, a Roma, era stato coltivato e collaudato soprattutto da Varrone e Cornelio Nepote: avevano tracciato i profili di personaggi famosi sulla base dello steso schema che inspirerà il De viris illustribus svetoniano. Brevi informazioni su origini e luogo di nascita, Apuleio fu contestato il reato di magia: evidentemente sosteneva l’accusa, solo grazie la ricorso a pratiche magiche, egli aveva potuto piegare al matrimonio una vedova facoltosa e non più giovane. L’abilità di avvocato che Apuleio rivela nell’Apologia ha spesso favorito l’accostamento a Cicerone (quello della Pro Celio); da lui oltre a mutare il tipo di periodare, egli utilizza più di una volta interi passi. Ma certo non ciceroniano è il “colore” del discorso teso alla mescolanza dei volgarismi, neologismi, arcaismi, pietismi. Quanto al contenuto, non si può fare a meno di ammirare la disinvoltura con cui l’oratore mette in ridicolo le ragioni dell’accusa: Apuleio parla infatti dall’alto della sua cultura enciclopedica, che egli ostenta di continuo. Apuleio e il romanzo Insieme col Satyricon di Petronio, l’opera di Apuleio rappresenta per noi l’unica testimonianza del romanzo antico in lingua latina: l’unica, dunque, pervenuta per intera. Il titolo conservato concordemente dai codici, quello di Metamorphoseon libri, conobbe presto la concorrenza di quello con cui l’opera è stata indicata da Agostino: Asinus aureus, dove è incerto se l’aggettivo vada riferito a un apprezzamento della qualità del testo o piuttosto al colore fulvo dell’animale. Degli 11 libri, i primi 3 sono occupati dalle avventure del protagonista, il giovane Lucio, prima e dopo il suo arrivo in Tessaglia (tradizionalmente terra di maghi). Ospite di un ricco del posto, e della sua sposa Panfila, in odore di magia, riesce a conquistarsi i favori della servetta Fetide, e la convince a farlo assistere di nascosto a una delle trasformazioni cui si sottopone la padrona. Alla vista di Panfila, che grazie ad un unguento, si tramuta in gufo, Lucio non sa però resistere, e prega Fetide che lo aiuti a sperimentare su di sé tale metamorfosi. La serva accetta, ma sbaglia unguento, e Lucio diventa asino, pur mantenendo facoltà raziocinanti umane. I libri successivi, tranne l’ultimo, ripercorrono le tragicomiche peripezie dell’asino. La lettura dell’opera pone qualche questione preliminare. La prima riguarda il genere cui il testo rimanda, e che si suole definire “romanzo”. In realtà , all’interno del sistema dei generi tramandatoci dall’antichità, il romanzo sembra mancare di un fisionomia definita, e appare piuttosto come il risultato di un’intersezione dei generi diversi. A ciò si aggiunge la difficoltà di tracciare un vero e proprio quadro del genere romanzo, data la penuria di testimonianze, almeno per la letteratura latina: mancava nella società romana un vasto ceto di lettori di media cultura, quello che sembra essere il presupposto ineliminabile per il nascere ed il mantenersi di un genere per definizione così popolare. Bisogna poi considerare il rapporta con le fabulae Milesiae, a cui lo stesso autore riconduce la sostanza dell’opera. Ma il naufragio pressoché totale della traduzione che Cornelio Sisenna fece delle originali fabulae Milesiae rende irrimediabilmente oscure le origini di questo genere di narrativa. Resta un unico dato certo, quello del carattere erotico di queste novelle, comune anche al romanzo. Anche la storia dell’asino-uomo sembra essere stata una fabula Milesia; ma si deve probabilmente ad Apuleio l’aggiunto dell’elemento magico: ed egli si mostra conscio dell’innovazione, quando proprio nei primi libri inserisce una serie di racconti a carattere spiccatamente magico. Sono racconti i cui personaggi apprestano tipiche figure di mercanti viaggiatori o di studenti scioperati: personaggi che dovevano essere molto comuni nella Milesia se li ritroviamo, col loro costante repertorio di gesti e atteggiamenti, nel Satyricon di Petronio. Qui, nel romanzo di Apuleio, la loro logico di vita appare frustrata, se non addirittura ribaltata, nell’urto con lo spietato mondo della magia. Un’altra importante questione riguarda un delicato problema di fonti. È noto che un romanzo a noi pervenuto nel corpus della opera di Luciano di Samòsata, ma sicuramente spurio, sviluppa lo stesso intreccio del romanzo latino, col titolo di Lucio o l’Asino, in lingua greca e in forma nettamente più concisa. Abbiamo la testimonianza del patriarca bizantino Fozio (IX secolo) che dichiara di aver letto racconti di trasformazioni nell’opera di un altrimenti ignoto Lucio di Patre, in vari libri: di questi i primi due Luciano li avrebbe ripresi 80 da Lucio. L’interpretazione della notizia ha dato origine a un dibattito ancora in corso fra gli studiosi sui rapporti relativi e la priorità dell’uno o dell’altro dei due scritti pervenuti. Più interessante appare la divergenza nel significato complessivo, e nel tono del racconto, che il testo di Apuleio presenta rispetto a quello pseudo-lucianeo. La lettura di Lucio rivela infatti l’intenzione di una narrativa di puro intrattenimento; diverso il caso delle Metamorfosi. L’intera vicenda, pur sotto l’apparenza di voler offrire una lettura di semplice svago, intessuta di episodi lubrici e licenziosi, assume in realtà i caratteri del racconto esemplare. Per questo motivo Apuleio non calca mai la mano su quanto di scabroso è nel suo romanzo, tanto che utilizza parcamente e a distanza quegli elementi osceni che il Lucio riunisce in quadri dalle forti tinte. Prova della serietà moralistica dell’opera è la funzione di elemento strutturante svolto dalla curiositas di Lucio che, subito in primo piano dall’inizio, conduce il personaggio alla rovinosa trasformazione, dalla quale sarà liberato solo in seguito a una lunga espiazione. Emblematico il caso della favole di Cupido e Psiche che, grazie al rilievo dato dalla posizione centrale e dall’estensione, assume valore fondamentale: da essa deriva il significato del romanzo. La trama: la figlia minore di un re suscita le invidie di Venere a causa della sua bellezza e, per suo volere viene data in preda ad un mostro (l’oracolo che sembra ordinare le nozze di Psiche con un mostro nella figura dell’orribile sposo si adombra Cupido, il dio dell’amore, che si è innamorato della fanciulla). Del suo sposo ignora l’identità e le è sempre negata la vista: se vedrà il suo amante - questa è la condizione - sarà immediatamente separata da lui. Tuttavia Psiche, istigata, trasgredisce il divieto e spia Cupido mentre dorme: all’inevitabile distacco porterà rimedio la dolorosa espiazione cui Psiche si sottomette, attraverso varie prove. La novella si conclude con le nozze e gli onori tributati a Psiche, assunta a dea. La più antica interpretazione della fabella pervenutaci è quella di Fulgenzio: interpretò cristianamente la favola, come mito dell’incontro tra l’Anima e il Desiderio. Non troppo discordante da questa, l’interpretazione più recente che fa della favola un racconto di iniziazione al culto isiaco. Ma, al di là dei dubbi sulla serietà del platonismo e sull’effettiva religiosità di Apuleio, il contesto della favola non sembra autorizzare interpretazioni troppo recise, anche perché in essa forme e spiriti platonici ed isiaci appaiono indissolubilmente legati, anzi confusi tra loro. L’interpretazione in senso filosofico, non può dimenticare che il Platone della Repubblica avrebbe condannato un mito in cui così apertamente sono derise la divinità olimpiche. D’altronde, se si legge la favola calandola nel contesto del romanzo, difficilmente si potrebbe attribuire un valore semplicisticamente positivo, quale dovrebbe essere quello di un racconto portatore di una esplicita rivelazione, isiaca o platonica. La favola di Cupido e Psiche riproduce come un modello in scala ridotta l’intero percorso narrativo e ne offre la corretta decodificazione. Infatti come leggeremmo il romanzo se non disponessimo del racconto (contenuto nei libri centrali)? Lo leggeremmo certamente come abbiamo letto i libri I, II e III, cioè una specie di romanzo d’avventure in cui il meraviglioso e lo scabroso hanno grande parte, non certo come romanzo mistagogico - come il racconto, cioè, di un’iniziazione ai riti misterici. Tocca appunto al racconto secondario, contenuto nel corpo del romanzo, di rendere più complessa la prima lettura attivando una seconda linea tematica (quella religiosa), che non solo prefigura l’epifania della dea Iside che chiuderà nel XI l’intera narrazione, ma si sovrappone anche alla prima per piegarla verso un senso iniziatico. Appena sono contaminate dall’esperienza parallela di Psiche,le metamorfosi di Lucio non possono più essere lette se non come prove cui è sottoposto un essere promesso alla salvezza voluta dalla dea signora delle trasformazioni. Ma nel contesto in cui è collocata, la favola appare isolato dal contesto narrativo, e destinata momentaneamente a fallire: la sua struttura di storia di salvazione sarà riattivata e compiuta col chiudersi della narrazione. L’evidente significato allegorico nulla toglie alla leggerezza del racconto. Ma i numerosi motivi letterari di origine diversa si ordinano in un disegno che sembra denso di significato. Tutto il romanzo si struttura come un itinerario attraverso un mondo fatto di segni e di simboli letterari. La 2 0 1 Fcontinua compenetrazione tra l elemento mistico-religioso (che apre in direzione simbolica) e il tessuto originario della favola milesia, costituisce la qualità originaria dell’opera. Lingua e stile La lingua apuleiana è un originalissimo impasto di tratti diversi: vissuto in un epoca di fervori arcaizzanti, Apuleio conosce la predilezione dei suoi contemporanei per la parola obsoleta e per gli autori arcaici (amò Plauto), ma fa rientrare tale predilezione in un generale ricerca di letterarietà. Alla “lingua letteraria” si riconosce l’intento primario di Apuleio, in quanto richiama continuamente 2 0 1 Fl attenzione del lettore sulla forma espressiva, prima che sul contenuto del messaggio. Si ha spesso l’impressione che in Apuleio sia particolarmente avvertibile la tendenza, comune in tutta la letteratura latina seppure a vari livelli, di condizionare la forma della espressione per mezzo del suono, di lasciare cioè che il pensiero e la lingua siano modellati secondo le esigenze dell’orecchio. Grande conoscitore di letteratura, egli sembra avere a disposizione una sorta di lessico letterario specializzato, raccolto e organizzato attorno ad alcune situazioni-tipo, formatosi sui classici. È come se conoscesse dei formulari, repertori di iuncturae consolidate, per descrivere scene di lutto, quadri di eroismo, effusioni di passioni e stati d’animo, ricombinando in modo nuovo e personale il materiale desunto dalla tradizione. La fortuna Taumaturgo, filosofo, mago, Apuleio esercitò un comprensibile fascino sui fermenti dell’ultimo paganesimo e sulla cultura medioevale. Ma la fortuna e l’influenza, davvero notevole, dell’autore sulla letteratura europea sono legate al romanzo, la cui diffusione si deve la ritrovamento del codice, da parte di Bocaccio, il quale ne fece pure una trascrizione (il Laurenziano 54,32). Da allora il romanzo fu ovunque letto e apprezzato e, con l’invenzione della stampa,ne apparvero edizioni in tutti i paesi europei, fu tradotto in Italia dal Boiardo. Fornì temi e spunti per la novellistica (anche per il genere picaresco), dal Boccaccia a Calderon, a La Fontaine, ecc. I grandi romanzieri moderni hanno provato, dinanzi all’inesuaribile ricchezza dei linguaggi e dei registri narrativi delle Metamorfosi, in cui si mescolano il serio ed il frivolo più irriverente, in cui la scurrilità si associa alla devozione mistica, profonda ammirazione. Ma uno dei critici letterari più grandi del 900, E. Auerbach, autore di Mimesis, opera in cui studia le origini e la storia del realismo nella letteratura, ha visto nell’ambiguità delle Metamorfosi il segno di “una tendenza alla deformazione spettrale e orrida della realtà […].” Il critico è rimasto sconcertato nei suoi principi di realismo: il barocco di uno stile narrativo inquietante, forse anche angosciante, si distaccava da una rappresentazione obiettiva del mondo. Qui, la letteratura vinceva, anzi stravinceva sulle “cose”. AMBROGIO Vita: Sant’Ambrogio nasce a Treviri nel 335 circa. Di famiglia senatoria cristiana, studia a Roma e diventa governatore dell’Emilia e della Liguria, con sede a Milano. Nel 374 diviene vescovo di Milano. Uomo d’azione, conduce una decisiva lotta contro gli ariani, si occupa dell’attività pastorale e politica, influenzando gli imperatori della sua epoca. Muore a Milano ne, 397. 82 dell'illuminazione) porterà Agostino alla formula del credo ut intelligam. Agostino andò sempre maggiormente prendendo coscienza di questa novità del suo pensiero, così come della “novità” del cristianesimo attraverso l'approfondimento della problematica religiosa che la partecipazione alla vita attiva della Chiesa gli impose. In Africa egli si trovò di fronte allo scisma dei donatisti, che legavano la validità dei sacramenti alla purezza della vita di colui che li amministrava e negavano ogni gerarchia ecclesiastica: li combatté con una serie di opere (Psalmus contra partem Donati, De Baptismo, Contra epistulam Petiliani, De unitate Ecclesiae) e con interventi ai concili di Cartagine del 403 e 411, affermò la validità dei sacramenti indipendentemente dalla persona che li amministrava e ribadì i diritti della Chiesa di Roma. La terza polemica, contro i pelagiani, fu la più importante e quella che impegnò Agostino nel problema più arduo della morale cristiana: il rapporto fra grazia e libero arbitrio. Contro la negazione di Pelagio che il peccato originale avesse intaccato radicalmente la libertà originaria dell'uomo e quindi la sua capacità di fare il bene, Agostino sottolineò energicamente la necessità della grazia divina per la salvazione: la natura umana, di per sé corrotta, non merita che la dannazione e solo la misericordia divina in Cristo, che liberamente concede al di là di ogni calcolo umano la grazia santificante, può restaurarla. Le tesi dibattute nella polemica antipelagiana, in cui Agostino fu portato talora ad accentuare un aspetto del problema, daranno luogo a discussioni teologiche che ancor oggi non sono esaurite: “La concezione pessimistica della condizione umana, che già prima di Agostino aveva alimentato tutto un filone del pensiero cristiano d'Africa (Tertulliano, Arnobio) e che in Agostino era stata rinforzata dall'esperienza manichea, lo ha portato al di là delle posizioni paoline interpretate nel senso più rigido, fino a un punto in cui l'insegnamento della Chiesa non lo ha potuto più seguire” (M. Simonetti). Tra le opere in proposito del “dottore della grazia” ricordiamo De peccatorum meritis et remissione et de baptismo parvulorum, De spiritu et littera, De natura et gratia, Contra Iulianum. L'intervento più alto di Agostino nella dogmatica cattolica è costituito peraltro dal trattato De Trinitate, in 15 libri, degli anni 400-416. Dimostrata dapprima l'unità e l'uguaglianza delle tre Persone sulla base della Scrittura e sostenuta l'identità della loro sostanza, Agostino, dopo un approfondito discorso teologico, conclude nell'ultimo libro che quaggiù si può soltanto adombrare debolmente il mistero: la Trinità divina ci sarà veramente chiara dalla futura visione “faccia a faccia”. Fra le opere esegetiche di Agostino primeggiano, anche per mole, le Enarrationes in Psalmos; degli scritti pastorali numerosi sono i Sermones. Da ultimo citiamo i suoi due scritti più famosi: Confessiones e De Civitate Dei. Il primo, scritto in 13 libri, dal 397 al 400, è un ripensamento della vita di Agostino dalla nascita alla conversione, sotto la luce del rapporto fra uomo e Dio, e risulta un libro di intima emozione, in cui si alternano in modo a volte sconcertante i fatti con le discussioni psicologiche, filosofiche, esegetiche (sul tempo, la memoria, l'interpretazione delle Scritture, ecc.); si mescolano stili raffinati e invenzioni letterarie a espressioni immediate del sentimento riuscendo così una delle opere più sconvolgenti e moderne dell'antichità, che non ha mai cessato di attrarre i lettori in ogni tempo. Nel De Civitate Dei si dibatte invece la storia di tutto il mondo. L'opera fu composta negli ultimi lustri della vita di Agostino per difendere il cristianesimo dall'accusa dei pagani di essere la causa della rovina dell'impero, accusa rinnovata con particolare vigore dopo il sacco di Roma a opera di Alarico (410). L'autore stesso ne riassume in questo modo i 22 libri nelle Retractationes: “I primi 5 libri tendono a confutare quei tali che sostengono necessarie alla prosperità del mondo la venerazione di molti dei..., e che le presenti calamità derivano dall'abbandono di questo culto. I 5 seguenti sono rivolti contro coloro che riconoscono come questi mali non mancarono mai..., ma che il culto di molti dei e il far loro sacrifici sono utili per la vita futura... I 4 libri seguenti contengono l'origine delle due città, delle quali l'una è il Regno di Dio, l'altra il regno di questo mondo; i 4 seguenti descrivono il progresso e lo sviluppo delle due città..., mentre gli ultimi 4 descrivono il loro destino finale ”. L'opera è dunque una vera e propria teologia della storia. La storia umana è la storia della lotta tra la Terra e il Cielo: l'amor sui che portato sino al disprezzo di Dio genera la città terrena e l'amor Dei che portato sino al disprezzo di sé genera la città di Dio. Le due città coesistono sulla Terra mescolate insieme sin dall'inizio della storia umana e saranno divise solo dal giudizio finale. § Oltre alle opere filosofiche, le esigenze della liturgia indussero il solerte vescovo d'Ippona a dedicare alla musica un trattato (De musica, in 6 libri), compiuto nel 389 e riguardante la musica liturgica antica (specie da un punto di vista ritmico e metrico), con accenni alla pratica musicale del tempo. Pedagogia: La posizione pedagogica di Agostino si ricava essenzialmente dal De magistro, dal De catechizandis rudibus e, in tono minore, dalle Confessiones e dalle Epistole. Il principio della “verità interiore”, tema fondamentale della sua speculazione filosofica, resta valido anche nell'educazione. Il compito dell'educatore è di portare alla luce la verità che esiste nell'animo umano ed è segno della presenza divina nell'uomo. Quindi il vero Maestro, il solo Maestro, è Cristo. L'opera dell'educatore, del maestro esteriore, ha solamente il compito di preparare l'ambiente all'azione del “Maestro interiore”, del Verbo (audiam quid loquatur in me Dominus Deus), e di disporre il campo per l'irrorazione della grazia. Se per Agostino la conoscenza delle discipline liberali (grammatica, dialettica, retorica, ecc.) è necessaria come processo purificatore e formativo per l'anima, la conoscenza delle verità religiose è invece indispensabile e deve essere attuata anche nelle menti più umili. A questo punto viene analizzata l'opera educativa che deve essere vitale e lontana dai formalismi delle istituzioni: il maestro deve accostarsi all'educando con amore e umiltà e così facendo realizza e perfeziona se stesso, vivificando anche gli aspetti più semplici e consueti del compito educativo. A. MARCELLINO Vita: Ammiano Marcellino nacque ad Antiochia in Siria intorno al 330 da una benestante famiglia pagana di lingua e di cultura greca. Intraprese la carriera militare sotto l'imperatore Costanzo e partecipò come ufficiale agli ordini del magister equitum (comandante della cavalleria) Ursicino, alle campagne in Germania, nelle Gallie e in Oriente. Nel 359 si salvò a fatica quando la città di Amida fu conquistata dai parti, contro i quali combatté nel 363 al seguito dell'imperatore Giuliano. Fallita la spedizione, si ritirò a vita privata nella città natale. Dopo i viaggi in Egitto, dove studiò i geroglifici, e in Grecia, nel 378 si stabilì definitivamente a Roma, dove approfondì la conoscenza della lingua latina, che aveva imparato nell'esercito. Nell'ultimo quindicennio della vita si dedicò alla stesura della sua opera storica. Morì probabilmente a Roma nel 400 circa. Opere: Rerum gestarum libri XXXI La sua opera storica in 31 libri, Rerum gestarum libri, proseguiva le Storie di Tacito e narrava gli avvenimenti dell'impero romano da Nerva (96) alla morte di Valente (378). I primi 13 libri sono andati perduti; i 18 pervenutici trattano il periodo 353-378: l'uccisione di Gallo e la persecuzione dei suoi seguaci, le azioni militari di Ursicino in Oriente e il suo richiamo, i principati di Giuliano e le sue campagne di Gallia, di Gioviano, di Valentiniano I e di Valente, fino alla sua morte nella battaglia di Adrianopoli contro i Goti. Il fatto che nei primi 13 libri siano esposte le vicende di più di 250 anni e nei rimanenti 18 gli avvenimenti di solo 25 anni, indica chiaramente che Ammiano Marcellino volle narrare approfonditamente soprattutto i fatti contemporanei, dei quali era stato testimone se non partecipe. Stile: La lingua presenta irregolarità sintattiche e grecismi lessicali, che indicano la doppia cultura dell'autore, cosicché talvolta sembra che lo storico pensi in greco e traduca in latino. La sua narrazione è però efficace e viva, anche se risente di un insegnamento scolastico; non si deve dimenticare che Ammiano Marcellino era un militare e non un uomo di cultura. Lo storico: Ammiano Marcellino è l'ultimo grande storico della letteratura latina, l'unico che si possa in qualche modo associare ai grandi narratori romani. Egli si riallaccia a Tacito, non solo cronologicamente, ma anche per metodologia. "La storia dice è solita correre sulle alte vette degli avvenimenti e non a indagare le minuzie delle umili cose": su questa premessa egli tratta sia le vicende politiche e la vita interna dello stato sia gli intrighi di corte sia le guerre esterne. Lo legano al grande predecessore, inoltre, la narrazione di tipo annalistico, l'introduzione di discorsi, le riflessioni filosofico-morali, il senso fatalistico della storia e il cupo pessimismo sull'età contemporanea, che riserva solo amarezze e delusioni. Come lo storico greco Polibio, Ammiano inserisce nella narrazione acuti profili di popoli, descrizioni geografiche, tecniche e scientifiche; molto efficaci sono le descrizioni delle battaglie e della vita militare. Lo storico mostra libertà e imparzialità di giudizio: "Non ho mai osato corrompere sia col silenzio sia con la falsificazione la mia opera che fa 86 professione di verità". Egli è infatti un interprete obiettivo del suo tempo, lontano da ogni eccesso e da ogni intolleranza. Acceso assertore della grandezza di Roma, "che sarà vittoriosa finché avrà uomini", ne denunzia senza remore la decadenza; è ammiratore, da fedele soldato, dell'imperatore Giuliano, cui dedica i libri dal 21 al 25, ma ne rileva puntualmente i difetti, disapprova il suo editto con cui si allontanavano dall'insegnamento i retori e grammatici cristiani e stigmatizza la sua avversione nei confronti del cristianesimo. La tolleranza religiosa è per Ammiano Marcellino indice di umanità, come per gli intellettuali antichi. CLAUDIANO Vita: Claudio Claudiano nacque ad Alessandria d'Egitto, intorno al 370 da una famiglia di lingua e di cultura greca e imparò il latino studiando i classici. Trasferitosi a Roma nel 395, divenne l'elemento di maggior spicco del circolo di Simmaco; passò quindi a Milano alla corte dell'imperatore Onorio, dove godette dell'amicizia e della protezione del generale vandalo Stilicone, del quale celebrò le vittorie contro i goti. Ottenne onori anche dagli imperatori Arcadio e Onorio, che gli fecero erigere una statua di bronzo nel Foro Traiano. Le ultime sue notizie risalgono al 404 ed è probabile che morisse non molto tempo dopo. Opere: Le numerose opere di Claudiano risalgono tutte al periodo 395-404 e si possono dividere, secondo l'argomento, in encomiastiche, satiriche, epiche e mitologiche. Al primo gruppo appartengono 6 panegirici in onore di tre consolati di Onorio, di quelli di Olibrio e Provino, di Manlio Teodoro e di Stilicone; quest'ultimo, in 3 libri di 1215 versi, è il più lungo; tutti questi, nonostante l'intento encomiastico, mostrano la sincerità del poeta e la verità storica non viene mai travisata. Gli scritti satirici sono rappresentati da due invettive, ciascuna di due libri, contro Rufino (In Rufinum) e contro Eutropio (In Eutropium), due potenti funzionari di Arcadio, imperatore d'Oriente, che erano nemici di Stilicone. Compose due poemi epici: il De bello Gildonico (La guerra gildonica), scritto nel 398 in 526 esametri, celebra la campagna militare condotta da Stilicone contro Gildone, re di Mauretania; il De bello Gothico (La guerra gotica) esalta le vittorie di Stilicone su Alarico, re dei goti, nel 402 a Pollenzo e Verona. Di argomento mitologico sono un frammento di un centinaio di versi di una Gigantomachia e quella che è considerato, forse, il suo capolavoro, il De raptu Proserpinae (Il rapimento di Proserpina), in 3 libri, scritto tra il 395 e il 398. L'opera appare incompiuta perché il terzo libro finisce nel momento in cui Cerere inizia la ricerca della figlia Proserpina. La fonte è un episodio delle Metamorfosi di Ovidio. Ci sono pervenute anche opere minori di Claudiano, quali la Laus Serenae, lode in onore di Serena, moglie di Stilicone, il De nuptiis Honorii et Mariae, per le nozze di Onorio con Maria, figlia di Stilicone, alcune lettere in versi, idilli e brevi liriche. Abile versificatore, dotato di fertile e potente fantasia e di senso del ritmo, Claudiano scrive in un latino non dissimile da quello dei classici.