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Riassunto di Manuale di Storia Romana Geraci, Marcone, Sintesi del corso di Storia Romana

Riassunto di 94 pagine sul manuale di Storia Romana

Tipologia: Sintesi del corso

2023/2024

Caricato il 29/10/2024

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Scarica Riassunto di Manuale di Storia Romana Geraci, Marcone e più Sintesi del corso in PDF di Storia Romana solo su Docsity! Geraci, Marcone – Storia romana Parte prima – I popoli dell’Italia antica e le origini di Roma Capitolo 1 – L’Italia preromana 1. L’Italia dell’età del bronzo e dell’età del ferro Tra l'età del bronzo medio e la prima età del ferro si passa da una situazione caratterizzata dalla presenza di una miriade di gruppi umani di piccole dimensioni al sorgere di forme complesse di organizzazione protostatale. L'Italia nell'età del bronzo si contraddistingue per la sua uniformità: la cultura che si sviluppa lungo la dorsale montuosa viene denominata appenninica, poi vi è il fenomeno della cultura terramaricola. Il nome di terramare è il termine col quale si definiscono i grossi tumuli di terra grassa e scura formati dai depositi dei primi insediamenti. Nel corso dell'età del bronzo recente viene documentata una intensa circolazione di prodotti e anche di persone. Con l'inizio dell'età del ferro l'Italia presenta un quadro differenziato di culture locali; un primo criterio di differenziazione concerne le modalità di sepoltura, che sono o cremazione o inumazione. In Etruria ed Emilia emerge la cultura villanoviana, e molti importanti siti villanoviani si svilupperanno nelle città-stato etrusche. Questo tipo di cultura presenta caratteri vicini a quelli di altre culture sviluppatesi nello stesso periodo in diverse parti d’Europa; alcuni studiosi considerano i villanoviani come i diretti antenati degli etruschi. Il quadro linguistico dell'epoca risulta assai variegato, e ciò è riconducibile all'arrivo nella penisola di gruppi etnici di varia provenienza. Essenzialmente le lingue si possono ricondurre alla famiglia indoeuropea e a quella non indoeuropea: indoeuropee sono in primo luogo il latino e il falisco; all'interno del gruppo generalmente indicato come lingua italica si distinguono poi l'umbro-sabino, l’osco, e quello degli Enotri e Siculi. Indoeuropei erano anche celtico e massapico. La principale lingua non indoeuropea è l’etrusco, ma vi erano anche ligure, retico e sardo. Un posto di rilievo viene rivestito dalle colonie della Magna Grecia fondata nell’Italia meridionale a partire dalla metà dell’VIII secolo: qui sorsero molte città importanti. Discorso a parte va fatto per la civiltà dei Sardi, nota come nuragica, che si sviluppò in Sardegna tra l'età del bronzo e quella del ferro. 2. I primi frequentatori dell'Italia meridionale Le fonti letterarie e storiografiche ci forniscono alcune notizie sulle origini dei popoli italici; le notizie contengono elementi leggendari e si devono soprattutto a storici greci, come Dionigi di Alicarnasso: secondo la sua testimonianza gli Arcadi, condotti da Enotro, varcarono l'Adriatico e si stanziarono in Italia, dove scacciarono alcuni barbari. Il territorio venne rinominato Enotria. Il racconto di Dionigi è strutturato secondo gli schemi tipici dell'etnografia antica; l’archeologia mostra come il periodo indicato dallo storico fosse effettivamente un momento di importante svolta demografica, poiché è il passaggio tra bronzo antico e bronzo medio. I dati archeologici lasciano presupporre una cultura del meridione della penisola italica dai tratti decisamente indigeni. Il racconto però testimonia anche la frequentazione commerciale delle coste del meridione italico da parte di genti di provenienza orientale. Dopo una interruzione di oltre quattro secoli legata alla crisi del mondo miceneo, le importazioni di ceramiche prodotte in Grecia riprendono sulle coste calabresi nella prima età del ferro, quando inizia la grande impresa di colonizzazione. Nel frattempo, la società indigena si è trasformata, creando le condizioni per forme embrionali di mercato che attirano i greci. 3. Le trasformazioni dell'Italia centrale Tra l’VIII e il V secolo si assiste a una grande fenomeno espansivo delle popolazioni dell'Appennino centro-meridionale, che riguarda genti latine e non latine. Di rilievo è la cultura picena, che si sviluppa lungo il versante Adriatico. Capitolo 2 – Gli Etruschi 1. Origine ed espansione degli Etruschi Gli Etruschi sono la più importante popolazione dell'Italia preromana; noti ai Greci con il nome di Tirreni sembra che chiamassero a sé stessi Rasenna. Per Erodoto furono Lidi che navigarono alla volta dell'Italia, secondo Dionigi genti autoctone. La scienza moderna spiega gli Etruschi come il punto di incontro di due tipi di processi: da un lato evoluzione della struttura interna delle società e delle economie locali, dall'altro l'importanza che su queste esercitarono influenze esterne. L'origine della civiltà etrusca sembra dunque riconducibile a uno sviluppo autonomo realizzatosi nella regione compresa tra i corsi dell’Arno e del Tevere. Tale sviluppo risentì di apporti importanti di gruppi etnici extra-italici, portatori anche di elementi propri delle civiltà orientali. Gli Etruschi controllavano gran parte dell'Italia centro- occidentale e competevano con Greci e Cartaginesi per il controllo delle principali rotte marittime. politico-religiose del Lazio antico, quella dei Populi Albanes, riuniti sotto la guida di Albalonga. 3. I sette re di Roma La tradizione fissa in modo preciso anche il periodo monarchico della storia di Roma, dal 754 al 509, anno dell’instaurazione della Repubblica: in questo periodo su Roma avrebbero regnato sette re: Romolo, Numa Pompilio, Tullo Ostilio, Anco Marcio, Tarquinio Prisco, Servio Tullio e Tarquinio il Superbo. A Romolo viene attribuita la creazione delle prime istituzioni politiche, tra cui il Senato; a Numa Pompilio si assegnano i primi istituti religiosi; a Tullo Ostilio le campagne militari di conquista; ad Anco Marcio la fondazione della colonia di Ostia. Nella tradizione il regno di Tarquinio Prisco segna una seconda fase della monarchia romana, nella quale gioca un ruolo importante la componente etrusca. A Prisco sono attribuite opere pubbliche, mentre a Servio Tullio si fa risalire la costruzione delle prime mura della città e soprattutto l'istituzione dei comizi centuriati. Tarquinio il Superbo, ultimo sovrano della serie, assume i tratti tipici del tiranno che infligge ai cittadini ogni tipo di vessazione. Le fonti degli storici romani erano: 1- altre opere storiche per noi perdute, soprattutto quelle degli annalisti, che organizzavano il materiale in ordine cronologico, secondo una successione anno per anno. Il primo a narrare la storia di Roma è stato Fabio Pittore, il quale scrisse in greco, mentre il primo storico romano a scrivere in latino fu Marco Porcio Catone. 2- la tradizione familiare: la struttura della società romana in età repubblicana era dominata dalla competizione tra le principali famiglie dell'aristocrazia di governo. Ciascuna di esse cercava di accreditare il proprio titolo di superiorità sulle altre celebrando le glorie degli antenati, spesso attraverso gli elogi funebri. Gli storici, membri della aristocrazia senatoria, potevano attingere come fonte anche alle tradizioni preservate all'interno delle varie famiglie. 3- la tradizione orale, soggetta però a forti distorsioni. Come canale possibile di trasmissione sono stati indicati i canti celebrativi delle imprese dei personaggi illustri o le rappresentazioni durante le feste. 4- documenti di archivio: i primi storici di Roma hanno in comune una medesima struttura narrativa. Essa consiste nel menzionare per ogni anno i nomi dei magistrati principali e degli eventi ritenuti degni di nota. La fonte con maggior credito sono gli annali dei pontefici, ovvero la registrazione sommaria degli avvenimenti fondamentali, tenuta, anno per anno, dalla suprema autorità religiosa di Roma, il pontefice massimo. Attorno al 130 gli annali furono pubblicati in 80 libri da Mucio Scevola con il nome di Annales maximi. Sono poi importanti le informazioni fornite dagli antiquari, studiosi che si dedicarono a dotte ricerche su vari aspetti del passato romano, su tutti Varrone. 4. La storiografia moderna Sembra oggi accertato che nel racconto tradizionale debbano essere state fuse due versioni di diverso tipo sulle origini di Roma: una greca che ricollegava alla fondazione della città alla leggenda di Enea e una indigena nella quale Romolo rappresentava un mitico re fondatore autoctono. Il sostrato è tuttavia caratterizzato da elementi storici: la compresenza di popolazioni diverse, come Latini e Sabini, all'origine della storia di Roma, e la fase di predominio etrusco nel periodo finale della monarchia. 5. La fondazione di Roma e il muro di Romolo I dati più problematici della tradizione riguardano proprio l'episodio leggendario della fondazione e la figura del fondatore. La nascita della città dovette essere il risultato di un processo formativo lento e graduale, per il quale si deve presupporre una sorta di federazione di comunità separate che già vivevano sparse sui singoli colli. Alcuni villaggi situati sullo stesso colle Palatino possono essere considerati come il nucleo originario della futura Roma; la storia in senso stretto iniziò attorno all’VIII secolo. In origine il Palatino era articolato in tre alture separate tra loro da avvallamenti: il Palatium, il Germalo, la Velia. Le vicende delle origini di Roma si comprendono meglio se si tiene conto che essa sorgeva a ridosso del basso corso del Tevere, in una posizione di confine tra due aree etnicamente differenti. La zona etrusca e il Lazio antico formavano allora una regione molto più piccola di quella del Lazio attuale. Sembra improbabile che Roma abbia preso nome da un fondatore Romolo: è più probabile il contrario, cioè che l'esistenza di una città chiamata Roma fece immaginare che fosse stata fondata da Romolo, l'eroe eponimo. Nel 1988 scavi sulle pendici del Palatino hanno portato alla luce i resti di una palizzata e di un muro databile all’VIII secolo a.C. Secondo l'intuizione di Carandini nella palizzata si deve vedere la linea dell’originario solco di confine, detto pomerio, e nel muro arcaico in scaglie di tufo il muro di Romolo. Il racconto tradizionale risulterebbe allora sostanzialmente confermato: verso la metà del 700 un re sacerdote eponimo avrebbe celebrato un vero e proprio rito di fondazione tracciando con l'aratro i limiti della città. Esso diviene quindi origine a una realtà insediativa radicalmente diversa dai primi villaggi. 6. Il pomerio e i riti di fondazione Dal racconto di Varrone si desume che nella fondazione di una città un'importanza fondamentale dal punto di vista religioso era rivestita dal pomerio: esso era in origine la linea sacra che ne delimitava il perimetro in corrispondenza con le mura. In un secondo tempo il nome servì a designare anche una zona di rispetto che separava le case dalle mura stesse. Il pomerio però non sempre coincideva con le mura, in quanto esso era tracciato secondo la procedura religiosa, cioè secondo gli auspici degli auguri; di conseguenza l'ampliamento del pomerio poteva avvenire solo in circostanze molto particolari. L'area del pomerio era limitata da cippi infissi nel terreno a seguito di una cerimonia religiosa presieduta dal pontefice massimo. Per estendere l'area del pomerio era necessario aumentare la superficie dello Stato romano con un nuovo territorio tolto al nemico. Il pomerio in realtà non fu accresciuto sino a Silla, e poi crebbe nuovamente in età imperiale. 7. Lo Stato romano arcaico Alla base dell'organizzazione sociale dei latini ci fu una struttura in famiglie alla cui testa stava il pater, la figura depositaria di un potere assoluto su tutti i suoi componenti, ivi compresi schiavi e clienti. Tutte le famiglie che riconoscevano di avere un antenato comune costituivano la gens, un gruppo organizzato politicamente e religiosamente. La popolazione dello Stato romano arcaico era divisa in gruppi religiosi e militari detti curie: le curie comprendevano tutti gli abitanti del territorio a esclusione degli schiavi. Molto incerta risulta l'origine delle curie: si sa che praticavano propri riti religiosi; non conosciamo la loro funzione in età arcaica e neppure sappiamo se fossero organizzate su base territoriale o su base gentilizia. In epoca più tarda ai comizi curiati rimasero attribuite determinate funzioni inerenti al diritto civile, per esempio in relazione a adozioni e testamenti; ai comizi spettava inoltre il compito di votare la lex de imperio, che conferiva il potere al magistrato eletto. Eguale incertezza regna a proposito delle tribù, la cui creazione fu attribuita a Romolo. Esse erano originariamente tre: Tities, Ramnes e Luceres, forse di origine Già in questo periodo la comunità civica era probabilmente organizzata secondo raggruppamenti non più basati su fattori gentilizi o locali ma stabiliti sulla base del censo, che fu anche il criterio con cui si arruolavano i componenti del nuovo esercito serviano, che prese il nome di classis ed era formato da cittadini in grado di procurarsi un armamento pesante. Anche l'istituzione di quattro tribù territoriali, in sostituzione delle antiche tribù romulee, a base gentilizia, rispecchia l'evoluzione della società romana: le nuove ripartizioni corrispondono infatti alle regioni nelle quali Servio Tullio suddivise la città. Roma avverti anche la necessità di dotarsi di una prima cerchia di mura, dette serviane. 13. Tradizione orale e storiografica La tradizione orale pone una serie di questioni. Le tradizioni orali variano a seconda degli usi e della ambientazione sociale che le conserva, elabora e trasmette. Un buon numero di dati relativi a eventi storici deve essere stato trasmesso nell'ambito delle famiglie nobili, il che pone rischi di falsificazione, ridotti dal controllo del gruppo sociale. A Roma la letteratura, la storiografia e il dramma ebbero origine nella seconda metà del III secolo. Solo a partire da allora ci furono testi scritti che poterono sopravvivere per essere consultati molto tempo dopo l'occasione che era stata alla base della loro redazione. Tuttavia, i romani non possono non aver riflettuto anche in precedenza sulle origini e sulla natura della loro comunità. Per definizione le fonti scritte non possono fornire elementi di prova per una cultura preletteraria. Ma non per questo siamo condannati a una ignoranza totale: per quanto problematica sia la cosa, la natura dell'oralità in Roma arcaica non è del tutto al di fuori dell'ambito della congettura razionale. Il fondatore della moderna storiografia su Roma arcaica, Niebuhr, elaborò una nota teoria secondo la quale le leggende e le tradizioni di Roma arcaica erano state create nei canti recitate ai banchetti, i cosiddetti carmina convivalia. È dunque ipotizzabile l'esistenza di una sorta di corpus di poesia eroica tradizionale che successivamente sarebbe andato perduto; la teoria di Niebuhr è stata in verità per lo più respinta. Il problema che si impone sembra riguardare l'anello di congiunzione mancante tra la fase favolistica, mitologica del pensiero romano e quella compiutamente storiografica. Secondo Wiseman nel formarsi di una tradizione, all'atto degno di memoria di un personaggio seguiva la celebrazione del suo successo attraverso pubblici onori e nel trionfo. Quindi questo episodio veniva recepito ulteriormente tramandato su due piani distinti: per il pubblico colto attraverso la rielaborazione nei carmina, e per la massa degli illetterati tramite le ballate di cantastorie itinerari. 14. Un esempio di elaborazione storiografica: Servio Tullio La figura di Servio Tullio ha un risalto del tutto particolare nella tradizione sui re di Roma. Questo sovrano opera tali trasformazioni nella città, sia a livello monumentale sia a livello politico-istituzionale, da poter essere considerato quasi un rifondatore. Le origini di Servio sono avvolte nell'incertezza, ma è bene osservare che nella tradizione non si nasconde l'illegalità che è alla base della sua presa del potere. Il mito delle fiamme lo segnala come predestinato a una sorte fuori dal comune e il modo in cui si impossessa del potere è certo rocambolesco. Sulla base favolistica si innesta l'azione politica di Servio. È per noi ovvio che l'organizzazione politica e istituzionale romana si è andata formando e strutturando nel tempo, cosa che non lo era per le fonti. Di questa strutturazione nel tempo si deve tener conto quando si prendono in esame le versioni degli storici tardi, che presuppongono l'esistenza di una statualità romana sin dalle origini. La ricostruzione del passato istituzionale va quindi letta alla luce degli interessi politici contingenti. L'organizzazione centuriata poneva Servio in stretto rapporto con la moneta che di tale valutazione era alla base. Questa operazione viene descritta con abbondanza di particolari nella storiografia perché era decisiva per introdurre la diversità tra i cittadini: segnava quindi la fine della parità caratteristica dei comizi curiati voluta da Romolo. Il meccanismo di amplificazione opera anche in altri ambiti: a Servio una traduzione unanime attribuisce una serie di misure relative all'assetto territoriale e amministrativo di Roma: egli creò le tribù territoriali. Quest'istituzione serve per giustificare una serie di ulteriori innovazioni di tipo culturale e istituzionale che avevano a che fare con l'organizzazione del territorio. Era automatico che al sovrano che aveva riorganizzato il territorio romano si attribuisse la creazione delle feste religiose che competevano alle sue nuove componenti. 15. La famiglia La prima forma di aggregazione che si sostituisce al primitivo legame basato sui vincoli di sangue è l'organizzazione familiare. La nozione di famiglia romana comprendeva un raggruppamento sociale assai più ampio di quello che siamo abituati a intendere oggi: mancava nel vocabolario romano antico un termine adatto a definire la famiglia nucleare tipica delle società moderne. A Roma facevano parte di una medesima familia tutti coloro che ricadevano sotto l'autorità di uno stesso capofamiglia, il pater familias, al quale spettava anche il controllo sui beni. Il vincolo di fondo della famiglia romana era la potestas esercitata dal pater sulle persone che rispettavano la sua autorità. Di una stessa famiglia facevano parte non solo i figli generati dal matrimonio del capofamiglia ma anche tutti quelli che sceglievano di sottoporsi alla sua potestas. Nella sua forma più antica la famiglia romana presentava i caratteri tipici di una società prestatale, come unità economica, religiosa e politica. Il fine principale di questa struttura era quello della propria perpetuazione: questi aspetti originari ebbero dei riflessi anche sull'evoluzione delle norme giuridiche. In età arcaica il primo diritto di un padre rispetto ai figli era quello di rifiutarli al momento della nascita. Tra i vincoli fondamentali della famiglia romana primitiva vi era quello religioso: i riti familiari si trasmettevano originariamente di padre in figlio e la loro osservanza era ritenuta assolutamente doverosa. Gli antenati del ramo paterno furono i primi Manes, oggetto di culto all'interno alla famiglia romana. Il capofamiglia si preoccupava che le cerimonie prescritte venissero eseguite puntualmente e in modo corretto da parte di quanti erano sottoposti alla sua potestà. Il figlio rimaneva sotto l'autorità del padre sino a quando questi era in vita e tra i diritti del pater vi era anche quello di diseredare i figli. 16. La donna Il ruolo della donna aristocratica, che riceveva una educazione intellettuale, non si esauriva nella sola vita domestica con la sorveglianza del lavoro delle schiave e lo svolgimento dei lavori più fini. La moglie accompagnava il marito nella vita pubblica e condivideva con lui il compito dell'educazione dei figli, per quanto l'autorità nella casa rimase sempre e soltanto quella del marito. Almeno in epoca arcaica e per buona parte dell'età repubblicana il carattere patriarcale della famiglia si riflette nella netta supremazia dell'uomo sulla donna: la manus non conosce i limiti. Lo scopo di norme così austere è legato a un concetto di matrimonio finalizzato al solo scopo di avere dei figli legittimi. I Romani si sposavano presto e toccava al padre cercare uno sposo per le figlie, spesso promesse in matrimonio ancora bambine. forse la tomba di Romolo. Al di sotto del pavimento fu scoperto un complesso monumentale arcaico, comprendente una piattaforma sulla quale sorgeva un altare. Il sito è prova dell'antichità della tradizione che faceva di Romolo il fondatore della città. 20. Le origini di Roma secondo un imperatore romano e la grande Roma dei Tarquini La tradizione sulle origini di Roma poneva delle difficoltà agli stessi antichi: Cicerone riconosceva l'oscurità della storia romana più arcaica. Nel 48 d.C. Claudio pronunciò un discorso nel Senato a favore della missione nell'assemblea di alcuni illustri rappresentanti della provincia della Gallia Comata. Per dimostrare la tradizionale apertura di Roma nei confronti degli stranieri egli prende spunto dalle vicende delle origini della città. Fornisce così delle informazioni desunte dalla tradizione antiquaria romana ed etrusca. Il testo del discorso fu inciso su una tavola di bronzo collocata nel santuario dedicato al culto imperiale nei pressi di Lione e il suo contenuto ci è noto anche da Tacito che lo espone negli Annali. Nella ricostruzione degli storici antichi il quadro politico della Lazio appare al momento dell'avvento dei Tarquini ormai decisamente condizionato dal l'espansionismo romano. Le diverse conquiste avevano portato al possesso delle saline nei pressi della costa. Il controllo strategicamente decisivo di Roma sul fiume appare suggellato da un evento destinato ad avere esiti importanti, la costruzione di un ponte stabile in legno a valle dell'isola Tiberina. Polibio afferma di aver visto nell'archivio pubblico di Roma un documento del 508 che rappresenta il testo del primo trattato tra Roma e Cartagine. Da esso si deduce che la crescita della potenza romana nel secolo dei Tarquini sarebbe stata molto rilevante: Roma è senza dubbio già in questo periodo la città più estesa del Lazio. Anche se il ruolo prevalente esercitato da Roma è indiscutibile, è significativo come ciascun centro continui a preservare una sua identità specifica, con capacità di ricezione di influenze esterne. Parte seconda – La Repubblica di Roma dalle origini ai Gracchi Capitolo 1 – La nascita della Repubblica 1. La tradizione storiografica sulla nascita della Repubblica La storiografia antica sulla nascita della Repubblica, rappresentato da Livio e Dionigi, presenta un quadro chiaro: Sesto Tarquinio, figlio dell'ultimo re etrusco di Roma, respinto dalla aristocratica Lucrezia, violenta la giovane, che prima di suicidarsi narra il misfatto al padre, al marito Collatino e ai loro amici Bruto e Publio Valerio Publicola. Guidata da questi aristocratici scoppia una rivolta che porta alla caduta della monarchia, evento canonicamente fissato al 510. Nell'anno successivo i poteri del re passano due magistrati eletti dal popolo, i consoli, uno dei quali è lo stesso Bruto. Il tentativo intrapreso da Porsenna di restaurare il potere di Tarquinio su Roma viene frustrato dall'eroismo della neonata Repubblica. Il fatto che i racconti vennero scritti solo diversi secoli dopo gli avvenimenti e le numerose incertezze hanno ovviamente portato gli storici moderni e sottoporre la tradizione sulla fine della monarchia e la nascita della Repubblica a una critica più o meno radicale. I pur notevoli rinvenimenti archeologici forniscono solo in misura limitata elementi di riscontro. Tra i dati a disposizione vale la pena di soffermarsi sulle liste dei supremi magistrati della Repubblica, dalla cui credibilità dipendono essenzialmente le soluzioni che si sono date ai molti interrogativi. 2. I Fasti I Fasti sono sostanzialmente liste dei magistrati eponimi della Repubblica, di quei magistrati cioè che davano il nome all'anno in corso, secondo il computo cronologico dei romani, che solo raramente ricorsero a una datazione assoluta. Essi ci sono giunti sia attraverso la tradizione letteraria sia attraverso alcuni documenti epigrafici: i più importanti sono i Fasti capitolini. In essi trova riflesso una cronologia elaborata negli ultimi anni della Repubblica, in particolare da Varrone, che fissava la fondazione di Roma al 753 e il primo anno della Repubblica al 509. Le datazioni varroniane assunsero nell'antichità un valore quasi canonico e generalmente forniscono anche l'ossatura cronologica degli studi moderni sul primo periodo repubblicano. Sono stati però suscitati diversi dubbi sull'attendibilità delle liste dei magistrati, ma, ciò nonostante, nessun elemento consente di rigettare in blocco la credibilità dei fasti. 3. La fine della monarchia e la creazione della Repubblica: evento traumatico o passaggio graduale La storia della violenza subita da Lucrezia contiene elementi di drammatizzazione che ricordano le vicende della caduta di diverse tirannidi greche e minano fortemente la credibilità. Il ruolo preminente che un ristretto gruppo di aristocratici ebbe nella cacciata dei Tarquini e il dominio che il patriziato sembra aver esercitato sulla prima Repubblica inducono a pensare che la fine della monarchia sia da attribuire a una rivolta del patriziato romano contro un regime che aveva accentuato notevolmente i suoi caratteri autocratici. L'evento sarebbe stato una vera e propria rivoluzione, ma questo non significa che alla caduta della monarchia si sia immediatamente stabilito un regime repubblicano nelle forme che appaiono canoniche nella tradizione storiografica. Probabilmente ci fu un breve ma confuso periodo in cui Roma appare in balia di re e condottieri, come Porsenna di Chiusi o come Mastarna e i fratelli Vibenna. La dura sconfitta inflitta dai Latini agli Etruschi fu l’evento che permise a Roma di dare sviluppo alle sue nuove istituzioni repubblicane al riparo dalle velleità di egemonia etrusca. 4. La data della creazione della Repubblica Già gli antichi avevano fissato una curiosa coincidenza cronologica tra la storia di Roma e quella di Atene: il 510 era l'anno in cui il tiranno Ippia era stato cacciato. Il sospetto che la cronologia della caduta del Superbo sia stata adattata per creare un parallelismo con le vicende della polis non è dunque illegittimo. Vi sono però elementi a sostegno della datazione tradizionale, il primo dei quali è desumibile da una singolare cerimonia ricordata da Livio: secondo lo storico una legge scritta in caratteri arcaici prescriveva che il massimo magistrato della Repubblica infligge un chiodo nel tempio di Giove Capitolino ogni anno alle idi di settembre, anniversario della consacrazione del tempio. La notizia interessa per il fatto che il tempio di Giove sul Campidoglio era stato solennemente inaugurato nel primo anno della Repubblica. Un secondo elemento viene dalla documentazione archeologica: l'edificio della regia nel foro presenta verso la fine del VI secolo una pianta caratteristica di un edificio templare e non di una residenza reale; essa sarebbe dunque divenuta la sede del rex sacrorum. 5. I supremi magistrati della Repubblica, i loro poteri e i loro limiti La tradizione storiografica antica è concorde nell'affermare che i poteri un tempo propri del re sarebbero passati immediatamente e in blocco a due consules, o meglio praetores. Eletti dai comizi centuriati, ai consoli spettava dunque il comando dell'esercito, il mantenimento dell'ordine all'interno della città, l'esercizio della giurisdizione civile e criminale, il potere di convocare il Senato e le assemblee popolari, la cura del censimento e della compilazione delle liste dei senatori. Solo alcune delle competenze religiose dei precedenti monarchi non sarebbero state trasferite ai consoli, ma a un sacerdote di nuova istituzione, il rex sacrorum. Ben presto a questa figura vennero affiancandosi altri sacerdozi di maggior peso politico, aprendo. La espressione bellum iustum ha il senso di guerra dichiarata secondo le corrette formalità. 9. Il Senato Il vecchio consiglio regio sopravvisse alla caduta della monarchia, anzi divenne il perno della nuova Repubblica. Nel corso dell'età repubblicana la composizione del consiglio era sostanzialmente decisa dai consoli prima, dai censori poi. Il principale strumento istituzionale in possesso del Senato per influire sulla vita politica della Repubblica era costituito dalla auctoritas patrum, quel diritto di sanzione che i senatori avrebbero posseduto in età regia ma che vediamo applicarsi a partire dal V secolo. La carica di senatore era vitalizia. Dal momento che il Senato era composto di ex-magistrati non vi erano problemi di contrasto. Nel Senato si concentrò l'esperienza politica della Repubblica e trovò espressione continuativa e compiuta la leadership politica dell’élite sociale ed economica di Roma, costituita prima dal patriziato in un secondo momento dalla nobiltà patrizio- plebea. 10. La cittadinanza e le assemblee popolari Il terzo pilastro, oltre alle magistrature e al Senato, sul quale si resse l'edificio istituzionale della repubblica è costituito dalle assemblee popolari. Non tutta la popolazione dello Stato romano poteva far parte di questi organismi, che erano riservati ai maschi adulti di libera condizione e in possesso del diritto di cittadinanza. Si diveniva cittadini romani essenzialmente per diritto di nascita, ma sulla questione dei diritti civici Roma manifestò sempre notevole apertura. L'accoglienza nel corpo civico di elementi provenienti dalle città latine o da altre comunità dell'Italia centrale non doveva essere affatto eccezionale; il caso più clamoroso è rappresentato dalla migrazione dalla Sabina del clan dei Claudi. Significativo è anche il fatto che gli schiavi liberati già nei primi anni della Repubblica avrebbero ricevuto la pienezza dei diritti civici. Durante l'età repubblicana, parallelamente all’accrescersi delle competenze delle altre assemblee popolari, i comitia curiata persero progressivamente di significato. La loro funzione più importante, quella di conferire ufficialmente i poteri ai nuovi magistrati (lex de imperio), si ridusse a una mera formalità. Nella prima età repubblicana l'assemblea più importante di Roma è costituita dai comizi centuriati, fondati su ripartizione della cittadinanza in classi di censo. Il meccanismo dei comizi centuriati prevede che le risoluzioni siano prese non a maggioranza dei voti individuali ma a maggioranza delle unità di voto costituite dalle centurie, assicurando così una consistente vantaggio all'elemento più facoltoso e più anziano. Le centurie, infatti, non avevano tutte un'eguale numero di componenti. La funzione più importante dell'assemblea centuriata era quella elettorale: spettava infatti ai comitia centuriati l'elezione dei consoli e degli altri magistrati superiori. Ultimi per data di creazione tra le assemblee in cui si riunivano i cittadini sono i comizi tributi, ricordati per la prima volta nel 447 quando venne affidata loro l'elezione dei questori. In questa assemblea il popolo votava per tribù, cioè a seconda dell'iscrizione in una di quelle tribù territoriali già istituite da Servio. A un primo sguardo il meccanismo di voto dell'assemblea tributa potrebbe apparire più democratico rispetto a quello vigente dei comizi centuriati; di fatto, tuttavia, anche nei comitia tributa venne creandosi una forma di disuguaglianza: il numero delle tribù urbane rimase sempre fissato al numero di quattro, mentre quello delle rustiche si accrebbe dalle 16 di età regia fino alle 31. In tal modo la popolazione delle campagne si trovò ad avere nei comizi tributi un peso maggiore rispetto alla popolazione urbana. Anche l'assemblea tributa aveva funzione elettorale, scegliendo i magistrati minori, e soprattutto legislativa, tranne per quelle poche materie che erano competenza dei centuriati. I poteri delle assemblee popolari a Roma soggiacevano a diverse importanti limitazioni. Da un lato esse non potevano autoconvocarsi né assumere alcuna iniziativa autonoma. Spettava ai magistrati che le presiedevano indire l'adunanza, stabilire l'ordine del giorno e sottoporre al voto le proposte di legge che l'assemblea poteva accettare o respingere, ma non modificare. La comparsa di un qualche presagio infausto consentiva poi ai consoli, su avviso degli auguri, di interrompere a propria discrezione i lavori delle assemblee; dall'altro lato ogni decisione dei comizi doveva ricevere la sanzione del Senato. Capitolo 2 – Il conflitto tra patrizi e plebei È difficile definire la plebe: i non patrizi è la definizione più calzante. Si trattava di un elemento composito per origine, sostanze, attività esercitata e prestigio sociale, le cui rivendicazioni erano molteplici. Esse avevano una duplice natura, economica e politica. 1. Il problema economico La caduta dei Tarquini e i mutamenti nel quadro internazionale della prima metà del V secolo ebbero pesanti ripercussioni nella situazione economica di Roma. La sconfitta subita dagli Etruschi a opera di Ierone di Siracusa nella battaglia navale combattuta nelle acque davanti a Cuma portò al definitivo crollo del dominio etrusco in Campania, causando indirettamente una grave danno per la stessa Roma. Lo stato quasi permanente di guerra tra Roma e i suoi vicini provocò continue razzie e devastazioni dei campi. Al mutato quadro esterno fanno riscontro crescenti difficoltà interne, in particolare le annate di cattivo raccolto. La crisi economica viene dimostrata da prove archeologiche, ma il problema economico è soprattutto evidente nella tradizione letteraria, nella quale la crisi è provocata dal progressivo indebitamento di ampi strati della popolazione ha un ruolo centrale nella lotta tra patrizi e plebei. Gli effetti dei cattivi raccolti e delle malattie colpivano in particolare i piccoli agricoltori, che spesso per sopravvivere si trovavano costretti a indebitarsi nei confronti dei più ricchi proprietari terrieri. Accadeva di frequente che il debitore, incapace di estinguere il proprio debito, fosse costretto a porsi al servizio del creditore per ripagarlo del prestito e dei forti interessi maturati: è l'istituto del nexum, che riduceva coloro che ne erano vincolati a una condizione non dissimile a quella di uno schiavo. 2. Il problema politico Gli strati più ricchi della plebe erano meno interessati dalla crisi economica; ciò che essi soprattutto rivendicavano era una parificazione dei diritti politici tra i due ordini. Una seconda rivendicazione di ordine politico era quella di un codice scritto di leggi che ponesse i cittadini al riparo delle arbitrarie applicazioni delle norme. 3. Le strutture militari e la coscienza della plebe I problemi politici ed economici non furono gli unici fattori che portarono al confronto tra i due ordini: dietro di esso vi è anche la progressiva presa di coscienza della propria importanza da parte della plebe. Le centurie, infatti, non furono solamente unità di voto all'interno dell'assemblea popolare, ma rimasero anche unità di reclutamento dell'esercito. Ciascuna centuria doveva fornire il medesimo numero di reclute per l'esercito. In considerazione della strettissima correlazione esistente tra ordinamento politico e ordinamento militare è del tutto ovvio, dunque, che anche la presa di coscienza della plebe fosse il risultato di un mutamento nella struttura dell'esercito. Nel V secolo si afferma un nuovo modello tattico secondo il quale fanti con armatura pesante combattono l'uno a fianco dell'altro in una formazione chiusa, la falange. L'ordinamento oplitico-falangitico, che Roma eredita dal mondo greco attraverso rivoluzionando completamente l'assetto costituzionale dello Stato. Il tentativo si scontrò con l'opposizione della plebe e degli elementi più moderati del patriziato. Le insidie portate da Appio Claudio a Virginia, figlia di un valoroso centurione, portarono a una seconda secessione, a seguito della quale i decemviri furono costretti a deporre i loro poteri; il consolato fu ripristinato e i massimi magistrati del 449 ribadirono l'inviolabilità dei rappresentanti della plebe, proibirono la creazione di magistratura che non prevedessero la provocatio e resero i plebisciti vincolanti per l'intera cittadinanza. La norma che proibiva i matrimoni misti viene abrogata. Questa versione delle drammatiche vicende del secondo anno del decemvirato non ha grande credibilità e le stesse leggi Valerie Orazie, in particolare il provvedimento che equiparava i plebisciti alle leggi votate dall'intera cittadinanza, sembrano la semplice anticipazione di provvedimenti posteriori. 6. Tribuni militari con poteri consolari Il plebiscito fatto votare da Canuleio, riconoscendo la legittimità dei matrimoni misti tra patrizi e plebei, ebbe come conseguenza di rimuovere la principale obiezione che il patriziato aveva opposto all'accesso dei plebei al consolato: solo i patrizi si ritenevano titolari del diritto di prendere gli auspici per accertare la volontà degli dèi. A seguito del plebiscito, tuttavia, il sangue delle famiglie plebee poteva mescolarsi con quello delle stirpi patrizie. Il patriziato minacciato ricorse a un espediente: a partire dal 444 di anno in anno il Senato decide se la testa dello Stato vi debbano essere due consoli oppure un certo numero di tribuni militari con poteri consolari, inizialmente tre poi sei, che possono anche essere plebei, ma non hanno il potere di trarre gli auspici. Il nuovo ordinamento rimane in vigore fino al 367. Tuttavia, creando il tribunato consolare accessibile alla plebe, i patrizi di fatto perdevano comunque il controllo sulla massima magistratura repubblicana. Tra le teorie avanzate su questo istituto c’è quella che ritiene che nel periodo tra 444 e 367 i consoli non siano stati sostituiti ma affiancati dai tribuni consolari: i due consoli, col diritto agli auspicia e patrizi, sarebbero stati assistiti da tribuni militari, i comandanti dei reparti che imponevano le legioni, carica accessibile ai plebei. Ad ogni modo nessuna riforma istituzionale poteva porre rimedio alle difficoltà economiche della plebe. 7. Le leggi Licinie Sestie Rimanevano comunque aperti il nodo politico ed economico del confronto tra patrizi e plebei; la crisi si accelerò dopo che la minaccia dei Galli si era allontanata da Roma. Quando fu proposta una riduzione o la totale cancellazione dei debiti e una nuova legge agraria, il patrizio Capitolino fu accusato di voler inaugurare un regime personale e venne liquidato. Nel 376 l'iniziativa tornò ai riformisti, in particolare Licinio e Sestio, esponenti di due ricche e influenti famiglie plebee, che già potevano contare su qualche appoggio fra gli esponenti più moderati del patriziato. Essi presentarono un ambizioso pacchetto di proposte concernenti il problema dei debiti, la distribuzione delle terre di proprietà statale e l'accesso dei plebei al consolato. I patrizi resistettero, riuscendo a guadagnarsi l'appoggio di un qualche tribuno della plebe per più anni. Nel 367 il vecchio Marco Furio Camillo venne chiamato alla dittatura per sciogliere una situazione diventata insostenibile: le proposte dei due plebei assunsero valore di legge. Le leges Licinie Sestie prevedevano che gli interessi che i debitori avevano già pagato sulle somme avute in prestito potessero essere detratti dal totale del capitale dovuto e che il debito residuo fosse estinguibile in tre rate annuali; stabilivano inoltre la massima estensione di terreno di proprietà statale che poteva essere occupato da un privato. Infine, sancivano l'abolizione del tribunato militare con potestà consolare e la completa reintegrazione alla testa dello Stato dei consoli, uno dei quali avrebbe dovuto essere sempre plebeo. Il compromesso raggiunto fornì anche l'occasione di precisare il quadro delle magistrature repubblicane. Nel 366 vennero create due nuove cariche, inizialmente riservate ai soli patrizi: 1- il pretore, col compito di amministrare la giustizia fra i cittadini; dotato di imperium, poteva essere messo alla testa di un esercito. Vennero eletti anche 2- due edili curuli, col compito di organizzare i ludi maximi. 8. Verso un nuovo equilibrio Le leggi del 367 segnarono la fine della fase più acuta della contrapposizione tra patrizi e plebei. Compaiono regolarmente nei Fasti un console patrizio e uno plebeo e crescono progressivamente anche gli accessi a tutte le altre cariche dello Stato, compresa dittatura e censura. 9. La censura di Appio Claudio Cieco Un tentativo di imprimere una decisa accelerazione al processo di riforme venne dalla censura di Appio Claudio Cieco, 312-311, che incluse nelle liste dei senatori abbienti che non avevano ricoperto magistrature e ridisegnò le tribù: il suo scopo era quello di favorire i membri della plebe urbana, consentendo loro di iscriversi in una qualsiasi delle unità esistenti. Entrambe le sue riforme caddero nel vuoto. Tuttavia, da quel momento il censo dei singoli cittadini fu valutato a partire anche in base al capitale mobile, dunque consentendo anche a coloro che non erano impegnati nelle tradizionali attività agricole e dell'allevamento di vedere il proprio peso economico e quindi politico riconosciuto. Negli stessi anni fu pubblicato lo Ius civile flaviano, la raccolta delle formule giuridiche che era necessario impiegare nei processi. 10. La legge Ortensia Già nell'antichità il 287 venne considerato il punto di arrivo della lunga lotta tra patrizi e plebei. In quell'anno una legge Ortensia stabilì che i plebisciti votati dall'assemblea della plebe avessero valore per tutta la cittadinanza di Roma. Solo la lex Hortensia equiparò completamente i plebiscita alle leggi votate dai comizi centuriati e dai comizi tributi, respingendo i due provvedimenti anteriori come una totale invenzione. A partire dal 287 i comizi tributi e l'assemblea della plebe erano accomunati da un'uguale sistema di voto per tribù e da uguali poteri; sostanzialmente identica era anche la loro composizione. Tutto questo spiega per quale motivo comitia tributa e concilia plebis siano talvolta confusi. Le due assemblee peraltro rimasero distinte dai magistrati che avevano il diritto di convocarle e presiederle: i consoli o i pretori per quanto concerne i comizi tributi, i tribuni o gli edili della plebe per quanto riguarda i concili plebei. 11. La nobilitas patrizio-plebea Al posto del patriziato si venne formando progressivamente una nuova aristocrazia, formata dalle famiglie plebee più ricche e influenti e dalle stirpi patrizie che meglio avevano saputo adattarsi alla nuova situazione e unita da vincoli familiari, ideali e interessi comuni. A questa nuova élite si è soliti dare il nome di nobilitas, termine che aveva il significato originario di noto, illustre, e che venne a designare tutti coloro che avevano raggiunto il consolato o che discendevano in linea diretta da un console. Si è conservato una sorta di manifesto degli ideali della nobilitas nell'elogio funebre di Lucio Cecilio Metello. La nobiltà patrizio-plebea si rivelò progressivamente non meno gelosa delle proprie prerogative del vecchio patriziato. Tanto esclusiva divenne la nobilitas che per i pochi personaggi che raggiunsero i vertici della carriera L'esercito romano frettolosamente arruolato per affrontare i Senoni si dissolse al primo contatto avvenuto sull’Allia; Roma, rimasta priva di difese, venne presa e saccheggiata, poi i Galli scomparvero. 6. La ripresa Il disastro gallico fu un evento traumatico ma non tragico, e ciò lo testimonia la rapidità con la quale Roma si riprese. A lungo termine gli effetti della conquista e della distribuzione ai cittadini romani del vasto e fertile territorio di Veio si rivelò decisivo. Negli stessi anni iniziò probabilmente la costruzione delle cosiddette mura serviane. In politica estera l'atteggiamento di Roma è decisamente improntato a una azione offensiva che trova il suo esecutore in Camillo: gli Equi vengono annientati, poi Tuscolo viene annessa al territorio romano. La città conservò le sue strutture di governo e la sua autonomia interna, ma ai suoi abitanti vennero assegnati i medesimi diritti e doveri dei cittadini romani. Tuscolo divenne così il primo municipium; progressivamente furono costretti a cedere ai territori anche Volsci, Ernici, Tivoli, Preneste e gli Etruschi siglarono una lunga tregua. Tra le principali interpretazioni dell'espansione romana: 1- imperialismo difensivo. Ha tenuto il campo molto a lungo la teoria che l'espansione di Roma sia avvenuta senza nessun piano preordinato e che Roma sia stata portata in varie direzioni in risposta a singole e spesso casuali emergenze difensive necessarie per mantenere in sicurezza il territorio dell'urbe e quello degli alleati. Questa visione è stata ovviamente condizionata dall'impostazione stessa delle fonti romane e dal concetto di bellum iustum. Per essere tale, il nemico non avrebbe dovuto compiere per primo atti oltraggiosi o aggressivi o non avrebbe dovuto ricevere una formale dichiarazione di guerra. 2- la seconda teoria è quella che vede all'origine delle guerre che portarono all'espansione di Roma non una serie di risposte difensive ma una consapevole e meditata volontà espansionistica, basata sull’accentuato militarismo della società romana e il connesso perseguimento di ampi benefici economici. Tutto questo sarebbe dovuto a fattori intrinseci alla città antica, come le aspettative, il nuovo ethos sociale dei romani e i desideri e le tradizioni della aristocrazia guerriera, fattori politici, fattori economici e demografici. Resta sullo sfondo di questa visione in tutta la sua rilevanza la questione a chi vada ascritta la regia delle varie operazioni, se ai singoli magistrati forniti di imperium o al Senato. 3- anarchia interstatale multipolare. La premessa è che tutti gli Stati antichi siano stati naturalmente bellicosi e andrebbero dunque riviste le asserzioni che soltanto Roma fosse uno stato eccezionalmente amante delle guerre ed espansionistico. Bisogna quindi entrare nel più vasto panorama di una endemica anarchia interstatale multipolare mediterranea, entro cui gli Stati lottavano per il potere soprattutto tramite la guerra, in un sistema di rapporti internazionali assai poco sviluppati o rudimentali. Su questo sfondo la capacità di Roma sarebbe stata quella della costruzione di un sistema di relazioni a formula multipla rivelatosi vincente rispetto a quelli messi in atto dalle altre potenze. L'Urbe sarebbe stata superiore nel creare e gestire un'ampia rete di alleati e capace di coinvolgere numerosi stranieri nella sua stessa politica. 7. Il primo confronto con i Sanniti La prima posizione di potere raggiunta da Roma nel Lazio meridionale trova espressione nel trattato che venne concluso con i Sanniti nel 354. Nel corso del 400 i Sanniti avevano occupato le ricche regioni costiere della Campania, arrivando a un inevitabile scontro con alcune città greche ed etrusche, che si erano riunite nella Lega campana. Le tensioni sfociarono nel 343 quando i Sanniti attaccarono la città di Teano, occupata dai Sidicini. Questi chiesero aiuto alla Lega campana, in particolare a Capua, che richiese l'intervento romano: Roma giudicava imperdibile l'occasione che si offriva di impadronirsi della regione più ricca e fertile d'Italia, anche a costo di calpestare il trattato del 354. La Prima guerra Sannitica, 343-341, si risolse rapidamente con un parziale successo dei romani che già nel primo anno di guerra sconfissero il nemico a Capua, costringendolo a togliere l'assedio alla città. Il trattato del 341 rinnovava l'alleanza del 354, riconoscendo a Roma la Campania e ai Sanniti Teano. 8. La Grande guerra latina L'accordo del 341 portò a un sorprendente ribaltamento delle alleanze, costringendo Roma a fronteggiare i suoi vecchi alleati Latini, Campani e Sidicini, cui si aggiunsero Volsci e Aurunci. Il conflitto combattuto tra 341 e 338, noto come Grande guerra latina, fu durissimo. L'andamento delle operazioni nelle fonti appare incerto, ma alla fine il successo arrise ai Romani; la Lega Latina venne disciolta. Alcune delle città che ne avevano fatto parte vennero semplicemente incorporate nello Stato romano, in qualità di municipi; altre conservarono la loro indipendenza formale e i consueti diritti, ma non poterono più intrattenere alcuna relazione tra di loro. Alle vecchie città latine ben presto si vennero ad aggiungere le nuove colonie latine. Da questo momento lo status di latino perde la sua connotazione etnica e avviene semplicemente a designare una condizione giuridica in rapporto con i cittadini romani. Latini vecchi e nuovi furono obbligati a fornire truppe a Roma in caso di necessità e i Latini ottennero peraltro il diritto di voto nelle assemblee popolari di Roma se lì si fossero trovati. La nuova concezione dello status latino è chiaramente dimostrata nel caso di due tra le città che si erano ribellate a Roma, Tivoli e Preneste. Esse divennero semplici alleati di Roma, socii, una categoria giuridica che si rivelò di particolare importanza nei decenni successivi. Il rapporto veniva creato da trattati che legavano strettamente alla potenza egemone per quanto concerneva la politica estera e le obbligavano a fornire un certo contingente di truppe in caso di guerra. Questi trattati consentirono a Roma di ampliare la propria egemonia e il proprio potenziale militare senza per questo costringerla ad assumersi i compiti di governo locale che le sue strutture politiche non erano in grado di reggere. Dal momento che i socii dovevano impegnarsi a mantenere a proprie spese i contingenti di truppe che fornivano, Roma poté ridurre il proprio impegno finanziario. Al di fuori del Lazio fu concessa una parziale forma di cittadinanza, la civitas sine suffragio. I titolari erano tenuti agli stessi obblighi dei cittadini romani, in particolare il servizio di leva e pagare il tributum, ma non avevano diritto di voto né potevano essere eletti alle magistrature. Ad Anzio infine venne creata una piccola colonia in cui gli abitanti conservarono la piena cittadinanza romana (colonia romana). 9. La Seconda guerra sannitica La fondazione di colonie di diritto latino a Cales e Fregelle, che i Sanniti consideravano di propria pertinenza, provocò una nuova crisi nel rapporto tra le due potenze. La causa concreta della Seconda guerra sannitica, combattuta tra 326 e 304, è da ricercare nelle divisioni interne di Napoli, dove si fronteggiavano le masse popolari e le classi più agiate, filoromane; il tentativo di penetrare a fondo nel Sannio si risorse in un fallimento. Gli eserciti romani nel 321 vennero circondati al passo delle Forche Caudine e costretti alla resa. Dopo il disastro per qualche anno vi fu un'interruzione nelle operazioni militari. Le ostilità si riaccesero nel 316, ad opera dei romani; Roma negli anni successivi inizio a recuperare il terreno perduto, anche grazie alla costruzione della via Appia e iniziò a cingere il Sannio in una sorta di assedio. Il compatto schieramento a falange romano si era rivelato incapace di manovrare su di un terreno accidentato come quello del Sannio, e allora la legione fu suddivisa in dalla questione dei Mamertini, mercenari di origine italica che si erano impadroniti con la forza di Messina. Questo comportamento provocò la reazione dei Siracusani, guidati dal generale Ierone, che inflisse ai Mamertini una severa sconfitta; questi accolsero dunque l'offerta di aiuto di una flotta cartaginese che incrociava nelle acque di Messina. Una guarnigione cartaginese si installò in Messina e Ierone fu costretto a fare ritorno a Siracusa. I Mamertini, tuttavia, si stancarono ben presto della tutela cartaginese e decisero di fare appello a Roma, dove iniziò un salotto dibattito a favore o contro l’intervento a Messina: nessuno poteva illudersi che l'intervento non avrebbe causato un grave incidente con Cartagine e Siracusa. La prima, colonia dei Fenici di Tiro, era al centro di un vasto impero, formato da comunità alleate e da popolazioni soggette. Saldamente guidata da un regime oligarchico, poteva mettere in campo grandi eserciti e potenti flotte. Non siamo in grado di valutare se l'intervento in Sicilia abbia potuto costituire una palese violazione degli accordi che Roma aveva concluso con Cartagine; è possibile che tra le due potenze esistesse una qualche accordo per una delimitazione delle rispettive sfere di interesse. Far cadere nel vuoto l'appello dei Mamertini significava lasciare ai Cartaginesi il controllo della zona strategica dello Stretto e perdere la migliore delle occasioni per mettere piede nella ricchissima Sicilia. Secondo Polibio, sarebbe stata proprio quella economica la motivazione dirimente. Anche se formalmente Roma non aveva dichiarato guerra a Cartagine, questa decisione aprì la lunghissima Prima guerra punica, conclusasi nel 241. I primi anni del conflitto furono decisivi: i Romani riuscirono a respingere da Messina Cartaginesi e Siracusani. Già nel 263 Ierone comprese che l'innaturale alleanza con Cartagine era pericolosa per Siracusa: decise quindi di concludere una pace, che lo lasciò in possesso di un ampio territorio nella Sicilia orientale, di schierarsi dalla parte di Roma. Cartagine conservava un saldo controllo su molte località costiere e Roma decise quindi la creazione di una grande flotta di quinqueremi, contando anche sull'aiuto dei socii navales. Lo sforzo fu premiato nel 260 da una clamorosa vittoria di Caio Duilio sulla flotta cartaginese nelle acque di Milazzo. A questo punto a Roma si pensò di poter assestare un colpo mortale a Cartagine, attaccandola direttamente nei suoi possedimenti africani. L'invasione iniziò nel 256 con la importante vittoria al largo di Capo Ecnomo e le prime operazioni furono favorevoli al console Marco Attilio Regolo, che tuttavia non seppe sfruttare i successi. Nel 255 Regolo venne duramente battuto da un esercito cartaginese comandato da un mercenario spartano; la flotta incappò poi in una tempesta e perse buona parte delle navi. Le posizioni che i Cartaginesi tenevano ancora sulle coste della Sicilia potevano essere prese solo se bloccate anche dal lato del mare, ma l’imperizia dei comandanti romani aveva provocato la perdita delle flotte che erano state allestite con grande sforzo finanziario. L'Urbe si trovava dunque priva di forze navali dei mezzi necessari per approntare una nuova flotta. D’altro canto, neppure i Cartaginesi seppero sfruttare la loro superiorità sui mari, mentre sulla terra gli unici sparuti successi furono quelli riportati da Amilcare Barca. Solo dopo qualche anno Roma fu in grado di costruire una nuova flotta, ricorrendo a un prestito di guerra dai cittadini più facoltosi; con una flotta di 200 quinqueremi i Cartaginesi vennero sconfitti alle Egadi nel 241. La pace prevedeva lo sgombero dell'intera Sicilia e delle isole che si trovavano tra Sicilia e Italia e il pagamento di un indennizzo di guerra. 2. La prima provincia romana A seguito del conflitto a Roma per la prima volta era venuta in possesso di un ampio territorio al di fuori della penisola italiana. Il sistema col quale l'Urbe integrò questi nuovi possedimenti segnò una svolta nella sua storia istituzionale. In Sicilia alle comunità un tempo soggette a Cartagine venne imposto il pagamento di un tributo annuale, consistente in una parte della raccolta di cereali. L'amministrazione della giustizia, il mantenimento dell'ordine interno e la difesa dalle aggressioni esterne nei nuovi possedimenti siciliani vennero affidati a un magistrato romano inviato annualmente nell'isola, nei primi anni probabilmente uno dei quattro questori della flotta. In seguito, vennero eletti due nuovi pretori, uno per la Sicilia e uno per la Sardegna. Da quell'anno, il 227, il termine provincia, che originariamente indicava semplicemente la sfera di competenza di un magistrato, viene ad assumere progressivamente il significato di territorio soggetto all'autorità di un magistrato romano. È importante notare che la prima provincia romana di Sicilia non si estendeva sull'intera isola. 3. Tra le due guerre Il periodo tra le due guerre vide un consolidamento delle posizioni dei due grandi avversari in vista dello scontro decisivo. Per Cartagine i primi anni dopo la sconfitta furono per la verità drammatici. La città era spossata economicamente e i mercenari si ribellarono; la rivolta fu soffocata a caro prezzo da Amilcare. Quando però i Cartaginesi allestirono una spedizione per recuperare la Sardegna si dovettero scontrare con l'opposizione di Roma e accettarono di pagare un indennizzo supplementare: la Sardegna fu ceduta e insieme alla Corsica andò a formare la seconda provincia. Pochi anni dopo Roma intervenne direttamente anche nell'Adriatico, dove il Regno di Illiria aveva esteso la sua influenza. Le scorrerie dei pirati illiri arrecavano danni considerevoli alle città greche adriatiche e ai mercanti italici. Roma quindi decise nel 229 di dichiarare guerra: la Prima guerra illirica si risolse rapidamente a favore dell'Urbe, con gli illiri costretti a rinunciare a ogni pretesa sulle città greche della costa adriatica, che divennero una sorta di protettorato romano. A Demetrio, ex- collaboratore della regina Teuta, fu concessa a titolo personale l'isola di Faro. Anche la Seconda guerra illirica dal punto di vista militare fu impresa di poco conto: Demetrio fuggì presso Filippo V e Faro entrò nel protettorato romano nel 219. Maggiori sforzi richiese la conquista dell'Italia settentrionale, avviata negli anni tra le due guerre puniche ma portata a conclusione solo nel II secolo. Negli anni ‘30 fu proposto di distribuire a singoli cittadini romani l’ager gallicus, provvedimento che avrebbe consentito di sorvegliare meglio il corridoio adriatico: la legge Flaminia destò l'allarme dei Galli Boi. Galli Boi e Insubri ottennero l'appoggio di truppe provenienti dalla Transalpina, i Gesati, mentre i Cenomani del territorio bresciano e i Veneti preferirono schierarsi con Roma. I Galli riuscirono a penetrare in Etruria e a ottenere qualche successo ma vennero annientati nel 225. Roma riuscì poi a conquistare Mediolanum e procedette a fondare le colonie di Piacenza e Cremona; la sottomissione definitiva della Pianura padana fu possibile soprattutto grazie alla fondazione di numerose colonie, come Aquileia, la costruzione di strade quali la via Flaminia, la via Emilia e la via Postumia. Nel frattempo, Cartagine cercava di costruire una nuova base per la sua potenza in Spagna: la conquista della Spagna potrebbe apparire quasi un affare privato della famiglia Barca poiché le operazioni furono condotte prima da Amilcare, poi dal genero Asdrubale, infine da Annibale, figlio di Amilcare. L'avanzata dei Barca dette l'allarme alla città greca di Marsiglia, alleata romana. Nel 226 un'ambasceria del Senato concluse con Asdrubale un trattato secondo il quale gli eserciti cartaginesi non potevano oltrepassare a nord il fiume Ebro. Un potenziale elemento di contrasto era però dato dal trattato di alleanza stretto da Roma con la città iberica di Sagunto, che si trovava a sud dell'Ebro. 4. La Seconda guerra punica immediata della guerra soprattutto l'attivismo di Filippo V nell'area dell'Egeo e sulle coste dell'Asia minore, che lo portarono a scontrarsi con le due maggiori potenze dell'area, il Regno di Pergamo e la Repubblica di Rodi. Le tensioni sfociarono nel 201 in guerra aperta. Il re di Siria Antioco III aveva stabilito una sorta di intesa con Filippo, mentre l'Egitto era impegnato nel tentativo di arginare l'ostilità della Siria e si rivolse quindi a Roma, con la quale il re di Pergamo Attalo I aveva da tempo relazioni di amicizia. Le motivazioni della guerra da parte romana erano state i timori di una nuova invasione dell'Italia; il desiderio di alcuni membri della classe dirigente di trovare in Macedonia terreno di gloria e di trionfi militari; la volontà di vendetta contro il sovrano. Fu deciso di inviare un ultimatum a Filippo, che ebbe prevalentemente il ruolo propagandistico di presentare Roma come protettrice della Grecia. Il re macedone ignorò l’ultimatum, che portò invece alcuni appoggi a Roma, come quello di Atene. I primi anni di guerra trascorsa o senza che vi fossero azioni decisive. Nel 198 il giovane console Tito Quinzio Flaminino impresse una svolta ai combattimenti. Nelle trattative egli chiese la liberazione della Tessaglia, respinta da Filippo: a uno a uno gli Stati della Grecia si schierarono dalla parte dei liberatori, compresa la Lega Achea. Alla fine del 198 Filippo decise quindi di intavolare serie trattative di pace, cinicamente interrotte da Flaminino e dai suoi alleati politici: egli voleva ottenere il successo sul campo, e, dopo essersi assicurato la proroga del comando in Grecia, a Cinocefale nel 197 annientò l'esercito macedone. Filippo fu costretto ad accettare le condizioni della pace, che prevedevano il ritiro delle guarnigioni ancora presenti in Grecia, il pagamento di una indennità e la consegna della flotta. Filippo poté conservare il proprio regno e Roma rivelò la propria posizione nei confronti della Grecia in occasione dei giochi istmici del 196, quando Flaminino proclamò l'autonomia e la libertà, anche dall'obbligo di versare tributi e di ospitare guarnigioni, degli Stati un tempo soggetti a Filippo. Roma, dunque, non intendeva assumere una diretta responsabilità di governo in Grecia. 6. La Guerra siriaca Negli stessi anni erano iniziate le trattative diplomatiche con Antioco, che stava progressivamente estendendo la sua egemonia sulle città greche della costa occidentale dell'Asia minore. Le iniziali proteste di Roma furono sostanzialmente respinte. Presso la corte di Siria aveva poi trovato rifugio Annibale. Flaminino riuscì a imporre il rispetto dell'impegno preso ai giochi istmici, malgrado le proteste che venivano dal Senato. La lunga presenza romana alimentava la propaganda ostile della Lega Etolica, che sosteneva che la Grecia aveva semplicemente cambiato padrone. Nel 192 gli Etoli invitarono espressamente Antioco a liberare la Grecia dai suoi falsi liberatori. In grave inferiorità numerica, egli venne duramente battuto nel 191 alle Termopili, e dovette fuggire in Asia minore. Nel 190 Lucio Cornelio Scipione Asiatico si preparò a invadere l'Asia minore per la lunga via terrestre; lo scontro decisivo avvenne a Magnesia al Sipilo, dove l'esercito di Siria fu distrutto. La pace di Apamea del 188 costrinse Antioco a pagare una enorme indennità di guerra, ad affondare la propria flotta, a consegnare a Roma alcuni inveterati nemici e a sgombrare tutti i territori a ovest e a nord del massiccio montuoso del Tauro. I vasti territori strappati ad Antioco non vennero tuttavia inglobati nello Stato romano come provincia, ma spartiti tra il re di Pergamo Eumene II e la Repubblica di Rodi. 7. Le trasformazioni politiche e sociali Il repentino ampliamento degli orizzonti di Roma non poteva che portare una ventata di cambiamento anche nell'assetto politico e sociale interno, come si vede da alcune vicende, la prima delle quali è il processo degli Scipioni: essa mostra in modo evidente l'acuirsi del contrasto all'interno della classe dirigente romana e i nuovi scenari di lotta politica che si andavano aprendo. Nel 187 alcuni tribuni della plebe accusarono Scipione l'Asiatico di essersi impadronito di parte dell'indennità di guerra versata dal re di Siria, ed egli fu costretto a pagare una pesantissima multa. Nel 184 l'attacco venne rinnovato contro l'Africano, forse per aver condotto trattative di carattere personale con Antioco: Scipione rifiutò di rispondere alle accuse e si ritirò in esilio volontario. Il processo agli Scipioni, certamente ispirato da Marco Porcio Catone, era soprattutto un attacco contro una personalità eccezionale per le cariche che aveva rivestito e per il suo carisma personale. Colpendo l'Africano Catone colpiva soprattutto una spinta verso l'individualismo che rischiava di mettere in pericolo la gestione collettiva della politica da parte della nobilitas, sebbene nella vicenda potrebbero aver giocato un ruolo anche fattori personali e contingenti. In questa temperie politica trova spiegazione la legge Villia, che introdusse un obbligo di età minima per rivestire le diverse magistrature e un intervallo di un biennio tra una carica e l'altra. Nei medesimi anni la straordinaria diffusione in tutta l'Italia del culto di Bacco è segno di una tensione in primo luogo religiosa e culturale, ma anche sociale, dal momento che i devoti di Bacco provenivano in buona parte dalle classi sociali inferiori. La reazione a questo movimento fu durissima: nel 186 il Senato diede mandato ai consoli di condurre una severissima inchiesta, a seguito del Senatus consultum de Bacchanalibus. I Baccanali dovevano essere stroncati in ogni modo, anche a costo di calpestare l'autonomia giurisdizionale delle comunità alleate dell'Italia. Ciò che aveva indotto il Senato a adottare misure drastiche non era tanto la necessità di reprimere le pratiche orgiastiche i supposti crimini: a preoccupare era il fatto che i devoti di Bacco si fossero dati un'organizzazione interna che poteva configurarsi come una sorta di Stato contro lo Stato romano. 8. La Terza guerra macedonica La pace di Apamea aveva espulso il Regno di Siria dallo scacchiere dell'Egeo. Nell'area vi era tuttavia ancora uno Stato abbastanza potente da coltivare qualche ambizione di riscossa contro Roma, la Macedonia di Filippo V. La posizione di Roma in Grecia si faceva sempre più delicata: giungevano in Senato ambascerie a sostenere le rispettive ragioni le infinite controversie che opponevano le une alle altre città greche; Roma adottò sempre nella soluzione di questi contrasti una linea che privilegiava i gruppi aristocratici. Nel 179 Perseo salì al trono di Macedonia, e seppe guadagnarsi l'appoggio dell'elemento democratico e nazionalista all'interno di molte polis. Agli occhi di Roma questo fatto fu sufficiente per fare del re una minaccia per il sistema egemonico sul mondo greco, e ogni sua mossa veniva interpretata come un gesto di sfida. Nel 172 Eumene di Pergamo si presentò a Roma con un lunghissimo elenco di accuse contro Perseo. I preparativi di guerra iniziarono in quello stesso anno, ma le prime operazioni sarebbero avvenute solo nel 171, dopo che le trattative per raggiungere un accordo fallirono. I primi anni di guerra furono caratterizzati da una sostanziale inazione; la svolta si ebbe nel 168, quando il console Lucio Emilio Paolo costrinse Perseo ad accettare battaglia campale a Pidna, dove il suo esercito fu distrutto. Il re fu portato prigioniero in Italia e la monarchia abolita in Macedonia. La regione venne suddivisa in quattro repubbliche, che non potevano intrattenere rapporti tra di loro. I quattro stati dovevano versare un tributo a Roma; simile fu la sorte dell'Illiria, divisa in tre Stati tributari. Negli altri Stati greci la moderazione di cui Roma aveva dato prova venne accantonata: la Lega Achea crea fu costretta a consegnare mille persone di lealtà sospetta, che furono deportate in Italia: tra di loro anche Polibio. I Molossi furono puniti con la totale devastazione del loro territorio e la riduzione in schiavitù di occasioni di sfruttamento e di mercato, un'enorme massa di schiavi, una massiccia penetrazione di schemi e di idee greche a Roma e in Italia: tutto ciò aveva progressivamente modificato una struttura sociale ed economica rimasta fino ad allora essenzialmente agricola. I Romani e gli italici si erano introdotti nel grande commercio: i negotiatores avevano iniziato a installarsi nelle province di recente acquisite. Questi romaioi esercitavano anche professioni bancarie, che avevano permesso di fare fortuna a molti senatori e avevano favorito l'ascesa degli equites, la cui ricchezza era a un tempo fondiaria, finanziaria e mobiliare. Essi comprendevano ricchi proprietari terrieri, publicani, uomini d'affari; esclusi dalle cariche pubbliche, erano comunque interessati a difendere i propri interessi e a entrare a far parte del tribunale permanente che perseguiva le estorsioni che i magistrati delle province avessero perpetrato ai danni delle comunità o dei singoli. Tutti questi ambienti avevano contribuito alla diffusione in Italia e a Roma dell'ellenismo: i rampolli dei romani più ricchi erano cresciuti e istruiti da precettori di cultura greca e sempre più di frequente schiavi greci colti rivestivano ruoli di grande importanza. 3. Crisi della piccola proprietà fondiaria e inurbamento Lo sviluppo degli scambi commerciali aveva modificato progressivamente e in modo diverso secondo le regioni la fisionomia dell'agricoltura italica: il massiccio ricorso alla manodopera servile, l'importazione di grandi quantità di grano e di materie prime, la spinta verso colture più speculative costituirono una concorrenza sempre più rovinosa per la tradizionale agricoltura di sussistenza. I piccoli proprietari si erano spesso trovati nella necessità di vendere le loro proprietà; la concentrazione fondiaria che ne era derivata aveva accelerato ancor più la tendenza verso una agricoltura incentrata su prodotti destinati alla commercializzazione più che all'autoconsumo: il modello di proprietà tendeva a diventare la grande azienda agricola, la villa rustica, basata sullo sfruttamento intensivo di personale schiavile e diretta da schiavi-manager, i villici, che facevano lavorare schiavi operai e artigiani e schiavi-agricoltori. I piccoli proprietari potevano tentare la riconversione delle colture, ma ciò richiedeva forti spese di impianto e la creazione o il supporto di strutture per la trasformazione e la commercializzazione dei prodotti agricoli: chi era costretto a vendere spesso affluiva a Roma in cerca di una occupazione o attirato dalla possibilità che la città offriva. Roma divenne sempre più una metropoli, con una massa urbana consistente. Il moltiplicarsi delle grandi tenute a personale schiavile e il dilatarsi delle zone destinate a pascolo, in cui il bestiame era difeso e vegliato da schiavi pastori armati, crearono i presupposti per il ripetuto esplodere di rivolte servili, laddove questi fenomeni si presentavano in forma più intensa. La Sicilia fu il territorio più colpito e Roma fu costretta a inviare a più riprese magistrati. 4. Due fazioni dell'aristocrazia: optimates e populares L'accendersi dei mutamenti nella compagine sociale non mancò di ripercuotersi sugli ambienti che avevano regolato la stabilità della classe dirigente romana. Cominciarono a delinearsi due fazioni, entrambe scaturite dalla nobilitas, denominate optimates e populares dall’atteggiamento assunto da ciascuna di esse nei confronti delle nuove istanze che si venivano consolidando. Gli optimates si richiamavano alla tradizione degli avi, si autodefinivano boni e sostenevano l'autorità e le prerogative del Senato. I populares, ugualmente scaturiti dai quadri dell'aristocrazia, si consideravano difensori dei diritti del popolo, che gli optimates descrivevano come padrone del mondo ma che in realtà conduceva un'esistenza miserevole, e propugnavano la necessità di ampie riforme in campo politico e sociale. Un esempio di questa tendenza è l'approvazione di leggi tabellari, cioè concernenti l'espressione scritta del voto. 5. La questione dell’ager publicus e il tentativo di riforma agraria di Caio Lelio Le guerre di conquista avevano fatto crescere a dismisura l’ager publicus, terreno demaniale di proprietà collettiva dello Stato romano. Parti di esso erano abitualmente concesse in uso a privati a titolo di occupatio: la proprietà restava sempre dello Stato, che si riservava la facoltà di revocare il possesso a sua discrezione. L'utilizzo era garantito ai detentori dietro pagamento di un canone, vectigal. La crisi favoriva la concentrazione della maggior parte dell'agro pubblico nelle mani dei proprietari terrieri più ricchi e potenti; di qui la necessità di una serie di norme che mirassero a restringere l'estensione di agro pubblico che poteva essere legittimamente occupata da ciascuno. L'ultima proposta era stata fatta intorno agli anni ‘40 da un vecchio nobile, Caio Lelio. 6. Tiberio Gracco Egli pure membro della nobilitas, figlio maggiore dell'omonimo Tiberio Sempronio Gracco, Tiberio Gracco volle riprendere nell'anno del suo tribunato della plebe, il 133, il tentativo di operare una riforma agraria tramite norme che limitassero la quantità di agro pubblico posseduto. Il progetto di legge agraria che Tiberio propose ai comizi tributi fissava all'occupazione di agro pubblico un limite di 500 iugeri, con l'aggiunta di 250 iugeri per ogni figlio fino a forse un massimo di 1000 iugeri per famiglia. Un collegio di triumviri eletto dal popolo e composto da Tiberio, dal fratello Caio e dal suocero, avrebbe poi avuto il compito di ripartire i lotti e recuperare i terreni in eccesso. Questi ultimi sarebbero stati distribuiti ai cittadini più poveri in piccoli lotti. I fondi necessari all'applicazione della riforma sarebbero stati ricavati utilizzando il tesoro del re di Pergamo Attalo III. Scopo principale della legge, oltre all'intento di ispiratori e proponenti di farne una base di consenso personale il più possibile ampia, pare essere stata l'esigenza di ricostituire e conservare un ceto di piccoli proprietari, anche per garantire una base stabile al reclutamento dell'esercito. La riforma di Gracco toccava prerogative che abitualmente erano del Senato e dal punto di vista pratico i grandi proprietari terrieri si ritennero espropriati di risorse che per abitudine consideravano proprie: l'oligarchia dominante ritenne dunque di opporsi. Un altro tribuno della plebe, Marco Ottavio, probabilmente a ciò indotto dagli ambienti più conservatori, pose il suo veto; Gracco propose all'assemblea di destituirlo poiché era venuto meno al mandato che il popolo gli aveva affidato. Dichiarato decaduto Ottavio, la legge Sempronia agraria fu approvata; ma l'opposizione conservatrice non si placò e Tiberio, nel timore di perdere l'inviolabilità personale, pensò di presentare la sua candidatura al tribunato anche per l'anno successivo. Fu allora facile per gli avversari insinuare che egli intendesse aspirare al potere personale: un gruppo di senatori e di avversari lo assalì e lo uccise nel corso dei comizi elettorali. 7. Da Tiberio a Caio Gracco: la commissione agraria, Scipione Emiliano e gli alleati latini e italici La morte di Tiberio non pose fine all'attività della commissione triumvirale, continuamente rinnovata; fu però ben presto chiaro il malcontento degli alleati latini e italici, che non volevano restituire le parti di agro pubblico loro concesse: interprete delle loro lamentele si fece Scipione Emiliano, che morì in circostanze misteriose. Il triumviro Fulvio Flacco propose nel 125 che tutti gli alleati che avessero fatto richiesta potessero ottenere la cittadinanza romana o, se avessero preferito comando non fu posto Quinto Cecilio Metello, del cui seguito faceva parte Caio Mario. Metello riprese le redini del conflitto e sconfisse ripetutamente Giugurta, ma non riuscì a concludere la campagna. Nel 107 Mario venne eletto console e con un plebiscito votato dai comizi su proposta di un tribuno della plebe gli venne affidato il comando della guerra contro Giugurta. Mario era un homo novus originario del territorio di Arpino: incarnava uno nuovo tipo di politico, uscito dall'ambiente dei ricchi possidenti equestri e della carriera militare. Già al tempo delle campagne spagnole si erano riscontrate gravi difficoltà nel reclutamento legionario, che era limitato ai soli cittadini iscritti nelle cinque classi censitarie. Per ovviare al problema si era via via diminuito il censo minimo per l’attribuzione dei cittadini alla quinta classe fino a cifre pressoché irrisorie. Mario, bisognoso di nuove truppe a lui fedeli e per far fronte ai gravi vuoti determinati dalla guerra contro Giugurta e dai massacri subiti a opera dei Cimbri e dei Teutoni, aprì l'arruolamento volontario ai capite censi, cioè a coloro che erano iscritti sui registri del censo per la loro sola persona. Con il suo nuovo esercito Mario tornò in Africa, ma la guerra fu comunque ardua; a valere infine furono le trattative diplomatiche. Il re di Mauritania Bocco tradì Giugurta e lo consegnò ai romani nel 105. Il re numida fu trascinato prigioniero a Roma e Mario, rieletto console per il 104 dopo aver rivestito per due anni il proconsolato, celebrò il trionfo su di lui, che venne in seguito giustiziato. 10. Cimbri e Teutoni; ulteriori trasformazioni dell'esercito Nel frattempo, due popolazioni germaniche, Cimbri e Teutoni, avevano iniziato un movimento migratorio verso sud. Furono affrontati al di là delle Alpi dal console Papirio Carbone; i romani subirono una disastrosa sconfitta a Noreia. Nel 110 i barbari comparvero in Gallia, minacciando la nuova provincia Narbonese: gli scontri culminarono nella disfatta di Arausio. Mentre a Roma cresceva la polemica verso l'incapacità dei generali di origine nobiliare, Mario venne rieletto console e gli fu affidato il comando della guerra. Egli provvide a riorganizzare l'esercito, portando a compimento trasformazioni già sperimentate, per cui ogni legione risultò articolata non più in 30 piccole unità ma in 10 coorti di circa 600 uomini. Il suo lavoro di riorganizzazione toccò quasi tutti gli aspetti dell'attività militare, dall'addestramento, all'equipaggiamento, alle insegne. Quando i germani ricomparvero nel 103 i romani si rivelarono in grado di sostenere l'urto. I Teutoni furono sterminati nel 102 ad Aquae Sextiae, i Cimbri ai Campi Raudii nel 101. 11. Eclissi politica di Mario, Saturnino e Glaucia; pirati e Cirenaica Mario aveva creduto utile appoggiarsi a Lucio Apuleio Saturnino, nobile entrato in rotta con le fazioni conservatrici del Senato, che aveva ottenuto la carica di soprintendente frumentario degli approdi alle foci del Tevere. Saturnino divenne tribuno della plebe, e approvò una distribuzione di terre in Africa a ciascuno dei veterani delle campagne di Mario. Grande importanza ebbe poi la sua lex de maiestate, che puniva il reato di lesione dell'autorità del popolo romano, compiuto dai magistrati travalicando i poteri loro conferiti. Nel 100 Mario venne eletto al suo sesto consolato, Saturnino al tribuno della plebe e Glaucia, suo compagno di parte popolare, pretore. Saturnino presentò una legge agraria che prevedeva assegnazioni di terra nella Gallia meridionale e la fondazione di colonie. Saturnino venne rieletto tribuno anche l'anno successivo, mentre Glaucia si candidava al consolato: durante le votazioni scoppiarono tumulti. Il Senato proclamò il senatus consultum ultimum e Mario lo fece applicare: Saturnino e Glaucia furono uccisi ma il prestigio di Mario uscì fortemente compromesso, tanto che si dovette allontanare da Roma. L’installarsi di Roma in Anatolia l'aveva condotta a stretto contatto con un problema endemico di quelle zone: la pirateria. Il controllo delle zone interne aveva impegnato Seleucidi e Attalidi, mentre sui mari funzioni di contenimento avevano svolto soprattutto i Rodii. Nessuna delle potenze dell'epoca fu tuttavia esente da complicità o connivenze. Mentre Roma si accingeva a concludere le guerre cimbriche, l'azione dei pirati fu avvertita come particolarmente virulenta e pericolosa per la sicurezza e per gli affari dei negotiatores romani nei mari greci e nell'Egeo orientale. Nel 102 fu inviato Antonio con il compito di distruggere le principali base anatoliche dei pirati e di impadronirsene. Fu creata una provincia costiera di Cilicia. Il gravoso impegno militare richiesto dalle guerre cilindriche indusse Mario a domandare contingenti di soldati agli alleati italici e a quelli d'oltremare: scoppiarono numerose rivolte servili, tra cui quelle delle miniere del Laurion in attica. Nel 96 la Cirenaica venne lasciata a Roma; sarebbe diventata provincia solo nel 75. 12. Marco Livio Druso e la concessione della cittadinanza agli italici Il decennio successivo al 100 si aprì tra forti tensioni politiche e sociali, processi e rese dei conti tra le parti che si erano contrapposte durante le guerre giugurtina e germaniche e ripetuti consolati di Mario. Un provvedimento del 98 rese obbligatorio un intervallo di tre nundinae tra l’affissione di una proposta di legge e la sua votazione. Veniva inoltre vietata la formulazione di una lex satura, cioè di una disposizione che includesse più argomenti non connessi tra loro. Continuava frattanto il conflitto fra senatori e cavalieri per impadronirsi in esclusiva dei tribunali permanenti per i processi di concussione. In questa atmosfera fu eletto tra i tribuni della plebe del 91 Marco Livio Druso: egli tentò di destreggiarsi tra le varie parti con una politica di reciproca compensazione. Da un lato promulgò provvedimenti di evidente contenuto popolare, come una legge agraria volta alla distribuzione di nuovi apprezzamenti e alla deduzione di nuove colonie e una legge frumentaria che abbassava ulteriormente il prezzo politico delle distribuzioni granarie; dall'altro restituì ai senatori i tribunali per le cause di concussione. Infine, volle proporre la concessione della cittadinanza romana agli alleati italici. In seguito, Druso venne assassinato ma il sentimento di ribellione degli italici aveva raggiunto un punto da cui non era più possibile tornare indietro. 13. La Guerra sociale La differenza di stato giuridico e sociale tra cittadini di Roma e alleati latini e italici non aveva suscitato grandi contestazioni agli inizi del II secolo. Essa aveva perso molta della sua ragion d'essere via via che l'Italia era penetrata in uno spazio Mediterraneo, che le conquiste e gli scambi commerciali avevano sempre più unificato e nel quale le aristocrazie sia romane sia italiche tendevano a perdere molte delle loro ancestrali particolarità e tutto il modo di vivere della gente di rango veniva stemperandosi in un fondo comune fortemente impregnato di ellenismo. Essa diveniva ancor meno accettabile quando serviva a giustificare una diseguaglianza di trattamento che si manifestava in tutti gli aspetti della vita civica. La condizione di cittadino romano era divenuta sempre più vantaggiosa e ciò aumentava l'irritazione e le rivendicazioni degli italici. Delle distribuzioni agrarie beneficiavano i soli cittadini romani; gli italici partecipavano allo sfruttamento economico delle province ma sempre in funzione subalterna. Non avevano parte alcuna nelle decisioni politiche, economiche, militari, che pur vedevano largamente coinvolti anche loro interessi. Perfino nell'esercito tutta la struttura era concepita a favore dei cittadini romani. L'assassinio di Druso fu per gli alleati italici il segnale che non vi era altra possibilità di difendere le proprie rivendicazioni che la rivolta armata, comunemente definita Guerra sociale. D’altro canto, a Roma non si comprese affatto la gravità della situazione, tanto che si approvò un provvedimento che perseguiva peraltro tradimento i capi della cospirazione italica e i cittadini romani loro complici. Il segnale delle ostilità partì da Ascoli dove un pretore e tutti i romani residenti nella città vennero massacrati nel 90; l'insurrezione si estese sul versante Adriatico, dovuto essere approvata dal Senato prima di essere sottoposta al voto popolare; i comizi centuriati dovevano divenire la sola assemblea legislativa legittima. Silla si recò poi in Oriente, dove nell'86 sconfisse in Beozia Mitridate, ponendo fine al predominio del re del Ponto in Grecia. 3. Cinna e l'ultimo consolato di Mario; fine della Guerra mitridatica Uno dei consoli dell'87, Cinna, aveva nel frattempo ripreso la proposta di iscrivere i neocittadini in tutte e 35 le tribù; venne raggiunto da Mario e i due marciarono su Roma. La città fu presa con la forza e Silla venne dichiarato nemico pubblico. Mario fu eletto console ma morì poco dopo. Cinna fu rieletto console di anno in anno fino all'84, promuovendo una ampia opera legislativa. Fu definitivamente risolta la questione della cittadinanza con l'immissione dei neocittadini in tutte le 35 tribù e fu affrontato il problema dei debiti riducendone l'ammontare; Cinna attento poi di anticipare il ritorno di Silla ma venne ucciso dai propri soldati. Nell’86 due armate romane di opposte fazioni si trovavano dunque in Grecia, una capeggiata da Silla e l'altra inviata da Cinna: esse però non si scontrarono mai ma agirono parallelamente. La posizione di Mitridate si fece via via più precaria e molti dei suoi alleati defezionarono. Si giunse così a trattative di pace che furono stipulate a Dardano nell’85, a condizioni relativamente miti. Mitridate conservava il Regno ma doveva evacuare il resto dell'Asia. La pace di Dardano non ne pose fine alle ostilità in Anatolia, dove Murena non cessò di effettuare incursioni in territorio pontico; combattimenti si prolungarono fino all'81 in quella che viene definita talora Seconda guerra mitridatica. 4. Le proscrizioni; Silla dittatore per la riforma dello Stato Silla riusciva a riprendere Apulia, Campania e Piceno, poi grazie all'aiuto del giovane Marco Licinio Crasso distrusse le ultime resistenze avversarie, le cui file erano rinforzate da forti contingenti sanniti, nella battaglia di Porta collina del 82; nelle operazioni importante fu anche il ruolo di Cneo Pompeo, gratificato con il titolo di Magno. Per rendere definitiva la vittoria Silla introdusse le liste di proscrizione, elenchi di avversari politici i cui nomi venivano notificati al pubblico: chiunque poteva ucciderli impunemente, i loro beni erano confiscati e venduti all'asta, i loro figli e discendenti esclusi da ogni carica. Gli obiettivi principali erano naturalmente senatori e cavalieri più in vista, ma furono eliminati anche molti ricchi. Un certo numero di famiglie scomparve e altre si arricchirono: i beneficiari di questo passaggio di fortuna si trovarono così ad ascendere a posizioni dominanti; le proscrizioni continuarono fino a tutto l’81. Poiché entrambi i consoli dell’82 erano morti nel conflitto, Il Senato nominò un interrex, il princeps senatus Valerio Flacco, che con la sua lex Valeria nominava Silla dictator legibus scribundis et rei publicae constituendae. Diversamente da quella tradizionale, tale dittatura costituente non era a tempo determinato ma illimitato; essa non era inoltre incompatibile col consolato. Una parte dell'opera riformatrice di Silla era già stata anticipata da alcune norme da lui fatte approvare nell’88, prima di partire per la Guerra mitridatica. Ogni proposta di legge avrebbe dovuto ottenere il consenso del Senato prima di essere sottoposta al voto popolare e i comizi centuriati dovevano divenire la sola assemblea legislativa legittima. Il Senato fu portato da Silla a 600 membri, con l'immissione dei suoi numerosi partigiani, nonché di 300 cavalieri ed esponenti dei ceti superiori dei municipi italici. La sua integrazione annuale venne sottratta ai censori. Fu innalzato a otto il numero dei pretori, in modo tale da poter far fronte alle necessità derivanti dalla moltiplicazione dei tribunali permanenti, riservati in esclusiva al Senato. Le loro competenze furono suddivise in modo che a ciascuno di essi spettasse in esclusiva uno solo dei principali reati. Vennero regolamentati l'ordine di successione alle magistrature e le età minime per accedervi, furono ridimensionati i poteri dei tribuni della plebe, limitato il loro diritto di veto e annullato quello di proporre leggi; fu fatto divieto a chi avesse ricoperto il tribunato di poter accedere a qualunque altra carica; vennero abolite le distribuzioni frumentarie; il pomoerium fu esteso lungo una linea virtuale tra Arno e Rubicone. Compiuta la riorganizzazione dello Stato, Silla abdicò dalla dittatura e si ritirò a vita nel 79. 5. Il tentativo di reazione anti-sillana di Marco Emilio Lepido; Sertorio, Spartaco Marco Emilio Lepido tentò di ridimensionare l'ordinamento, proponendo il richiamo dei proscritti in esilio, il ripristino delle distribuzioni frumentarie a prezzo politico e la restituzione agli antichi proprietari delle terre confiscate a favore dei coloni insediati da Silla. L'opposizione incontrata dai suoi progetti ebbe l'effetto di scatenare una rivolta in Etruria e il Senato utilizzò contro di lui l'arma del senatus consultum ultimum. L’imperium venne conferito eccezionalmente a Pompeo, senza che egli avesse ancora rivestito alcuna magistratura superiore, e la rivolta venne rapidamente stroncata. Sertorio era stato un'importante veterano di Mario, in seguito divenuto governatore della Spagna Citeriore, dove aveva creato uno Stato mariano in esilio, coagulando altri esuli della sua fazione, e tutti i tentativi di abbatterlo si erano rivelati vani. Verso la fine del 77 si erano congiunte a Sertorio anche le truppe superstiti di Lepido. A questo punto il Senato decise di ricorrere un'altra volta a Pompeo, che ancora non aveva congedato l'esercito con cui aveva combattuto Lepido, affidandogli la Spagna Citeriore con un'attribuzione di imperium straordinario. Pompeo subì alcune sconfitte da Sertorio, ma lo fece assassinare a tradimento nel 72. Nel 73 era frattanto scoppiata la terza grande rivolta di schiavi: la scintilla era scoccata a Capua in una scuola per gladiatori. La furono raggiunti da altri gladiatori e schiavi confluenti da ogni parte dell'Italia. A capo della rivolta vi furono Spartaco e Crisso, ed essa si estese rapidamente a tutto il Sud Italia dove gli insorti riuscirono a tenere in scacco alcuni pretori e i due consoli del 72. Mancava tuttavia tra i ribelli un piano preciso e unitario: Spartaco intendeva condurli rapidamente al di là delle Alpi, altri preferivano abbandonarsi alla razzia e al saccheggio. Il Senato inviò Marco Licinio Crasso, che riuscì a isolare Spartaco in Calabria e lo sconfisse nel 71 in Lucania. Migliaia di prigionieri furono fatti crocifiggere da Crasso lungo la via Appia. 6. Il consolato di Pompeo e Crasso e lo smantellamento dell'ordinamento sillano Pompeo ottenne il trionfo e presentò la candidatura al consolato per il 70, pur non avendo tutti i requisiti necessari; anche Crasso si presentò e fu eletto. Fu allora portato a compimento lo smantellamento dell'ordinamento sillano: erano già state ripristinate le distribuzioni a prezzo politico del grano, e Pompeo e Crasso restaurarono nella loro pienezza i poteri dei tribuni della plebe. Cotta fece modificare la composizione delle giurie dei tribunali permanenti, togliendone l'esclusiva ai senatori. Negli anni tra l'80 e il 70 in Oriente erano riemerse e si erano consolidate due gravi minacce, i pirati e Mitridate: i romani avevano tollerato la pirateria in oriente perché trovavano un forte tornaconto nel mantenimento di un'attività che alimentava i traffici di manodopera schiavile verso la penisola. Tuttavia, il trasporto delle merci era divenuto sempre più difficile e costoso. Furono quindi mandati una serie di comandanti per combattere i pirati, concentrandosi soprattutto su Cilicia e Creta, che fu ridotta a provincia romana. Nel frattempo, era divenuta inevitabile una nuova guerra contro Mitridate: egli aveva continuato a covare propositi di rivincita e l'occasione gli si era presentata nel 74 quando la Bitinia era stata lasciata in eredità ai romani. Mitridate la invase e 2. Cesare console L'accordo diede immediatamente i suoi frutti e Cesare fu eletto console per il 59. Egli fece votare in successione due leggi agrarie che prevedevano una distribuzione ai veterani di Pompeo di tutto l'agro pubblico rimanente in Italia e di altre terre acquistate da privati: per i fondi necessari sarebbero stati utilizzati i bottini di guerra di Pompeo. Furono poi fatte ratificare tutte le decisioni assunte da Pompeo in Oriente. Fu in seguito approvata una lex Iulia de repetundis, per i procedimenti di concussione. Sul finire del consolato fu votato un provvedimento che attribuiva a Cesare per cinque anni il proconsolato della Gallia Cisalpina e dell'Illirico con tre legioni e il diritto di nominare i propri legati e fondare colonie. Essendosi poco dopo reso vacante il governo della Gallia Narbonese, fu affidata alla competenza di Cesare anche questa provincia, con una quarta legione. 3. Il tribunato di Publio Clodio Pulcro I triumviri nel 58 appoggiarono la candidatura al tribunato della plebe di Publio Clodio Pulcro, ex-patrizio coinvolto in uno scandalo, e quindi senza speranze di poter proseguire la carriera politica riservata al suo rango, che si era fatto adottare da una famiglia plebea per potersi presentare al tribunato della plebe. Eletto tribuno, Clodio fece approvare una nutrita serie di leggi. Nessun magistrato avrebbe più potuto interrompere le assemblee pubbliche adducendo l'osservazione di auspici sfavorevoli. Vennero di nuovo legalizzati i collegia, associazioni private con fini religiosi e di mutuo soccorso, soppresse dal Senato perché divenute pericoloso strumento di mobilitazione delle masse urbane. Fu abilità di Clodio sfruttare le funzioni iniziali di queste associazioni per farne prima dei gruppi di pressione, poi delle bande armate organizzate dal suo servizio. Le distribuzioni frumentarie ai cittadini romani residenti a Roma dovevano divenire completamente gratuite. Infine, con un provvedimento si combinava a chiunque condannasse o avesse condannato a morte un cittadino romano senza concedergli di appellarsi al popolo: Cicerone n’era il bersaglio evidente. Anche Catone Uticense fu fatto allontanare da Roma con l'incarico di rivendicare il possesso dell'isola di Cipro. 4. Cesare in Gallia Quando Cesare arrivò nelle sue province era in atto una migrazione di Elvezi che minacciava le terre degli Edui e forse la stessa provincia romana. Cesare attaccò e sconfisse gli Elvezi a Bibracte nel 58. Nel frattempo, un forte gruppo di Svevi condotto da Ariovisto era passato sulla sinistra del Reno, chiamato in aiuto dai Sequani, confinanti e rivali degli Edui. Su richiesta di quest'ultimi Roma era intervenuta e aveva indotto Ariovisto a ritirare le sue genti; egli aveva ritenuto il titolo di re amico e alleato del popolo romano. Cesare poi rientro in Cisalpina, lasciando le sue truppe accampate nei quartieri invernali. La presenza romana della Gallia centrale suscitò le reazioni delle tribù dei Belgi: Cesare si impadronì delle loro piazzeforti. I successi di Cesare erano dovuti in massima parte alla completa disunione delle tribù galliche ma anche alla grande capacità sua di adattare la tattica al tipo di combattimento che la situazione di volta in volta esigeva, nonché alla abitudine di condividere tutte le fatiche della vita militare e i pericoli della battaglia con i suoi soldati. Alla fine del 57 comunicò al Senato che la Gallia poteva ritenersi pacificata. 5. Gli accordi di Lucca e la prosecuzione della conquista della Gallia Terminato l'anno del suo tribunato, Clodio era tornato privato cittadino, ma non aveva smesso di utilizzare le sue bande come strumento di pressione rapidamente mobilitabile. Uno dei bersagli preferiti di Clodio divenne presto Pompeo; nel 57 Cicerone era riuscito a rientrare a Roma proprio grazie a Pompeo. La difficile situazione di Pompeo era tale che non osava impegnarsi direttamente nei conflitti con Clodio: venire allo scoperto significava esporsi al pericolo di fallire e di veder diminuita la propria autorità. D’altra parte, il non far nulla rischiava di usurarsi un capitale di prestigio che nessun nuovo incarico veniva ad arricchire, mentre quello di Cesare era in rapida ascesa. Accettò quindi l'incarico che gli conferiva poteri straordinari per provvedere all'approvvigionamento della città, la cura annonae. Pompeo svolse la sua incombenza con efficienza, procurandosi larga popolarità. Contro Cesare veniva chiesto che si revocasse la legge sull’agro campano, e si ventilava la possibilità di rimuovere il suo proconsolato. Cesare nel 56 si riunì con Pompeo e Crasso a Lucca, dove i tre si accordarono su tale progetto: 1- prolungamento del comando di Cesare in Gallia per altri 5 anni, con un totale di 10 legioni; 2- elezione di Pompeo e Crasso a consoli per il 55; 3- Crasso per 5 anni In Siria e Pompeo nelle Spagne. Tutto si svolse esattamente come i tre avevano programmato. Cesare tornato in Gallia trovo la Britannia in aperta rivolta, e la riuscì a domare; allora rivolgere la propria attenzione sul fronte del Reno. Nel 55 annientò alcune tribù germaniche anche grazie a un ponte di barche. Nel 54 ebbe luogo in Britannia una vera campagna militare che consentì di raggiungere il Tamigi. Il 53 trascorse nella repressione di rivolte scoppiate nelle regioni settentrionali della Gallia. La grande crisi si verificò nel 52, a causa dell'azione di Vercingetorige, re degli Arverni: cominciata con lo sterminio di romani e italici residenti a Cenabum, la sollevazione si estese rapidamente. Cesare mise d'assedio il grande centro di Gergovia ma non riuscì a prenderla; gli alleati iniziarono a defezionare e Cesare si mise all'inseguimento di Vercingetorige, che si rinchiuse nella piazzaforte di Alesia. Dopo un durissimo assedio la piazzaforte capitolò: Vercingetorige si arrese e fu portato a Roma, dove nel 46 fu fatto sfilare dinanzi al carro trionfale di Cesare e poi decapitato in Campidoglio. Nel 51 Cesare diede un primo ordinamento alla provincia della Gallia Comata. 6. Crasso e i Parti Giunto in Siria Crasso aveva cercato di inserirsi nella contesa dinastica nel Regno dei Parti sia per i tradizionali problemi confinari sia per potersi distinguere in una campagna militare. Nel 54 cercò di entrare attraverso le steppe della Mesopotamia; venuto a contatto con i Parti a Carre, il contingente romano fu massacrato dagli arcieri a cavallo e lo stesso Crasso cadde. Fu una delle sconfitte più gravi mai patite da Roma: le aquile di sette legioni furono catturate e la stessa provincia di Siria si trovò minacciata. 7. Pompeo console unico; guerra civile tra Cesare e Pompeo Trascorso l'anno del loro consolato comune, mentre Crasso era partito per la Siria, Pompeo era rimasto nei dintorni di Roma, adducendo le necessità e gli obblighi connessi al suo incarico di curatore del rifornimento granaio di Roma e amministrando le sue province tramite luogotenenti. Nel 54 cominciarono a venir meno i vincoli politici e familiari che univano Pompeo e Cesare: era morta di parto Giulia, e l'anno seguente era scomparso Crasso. Pompeo iniziò ad accostarsi in misura sempre più accentuata alla fazione ottimata. Nel 53 tra veti e contro-veti non si era riusciti a eleggere i consoli e fu proposto di nominare Pompeo dittatore. All'inizio del 52 l'anarchia giunse al colmo: si affrontarono sulla via Appia le bande di Clodio e Milone; Clodio rimase ucciso e i suoi fautori ne celebrarono i funerali tra tumulti. Per evitare la disgregazione dell'ordine costituito Pompeo fu nominato console senza collega; egli fece votare immediatamente leggi repressive in materia di violenza e di broglio elettorale che consentirono la condanna di Milone. infine offerti gli onori del primo posto in Senato, del titolo di imperator a vita e di quello di padre della patria. Già dal 49 aveva messo mano a un insieme vastissimo di riforme: erano stati concessi il perdono e il richiamo in patria a tutti gli esuli e condannati politici, il diritto di ottenere la cittadinanza romana era stato esteso agli abitanti della Transpadana, il Senato portato a 900 membri, con l'immissione di un grande numero di seguaci di Cesare, ricchi cavalieri ed elementi provenienti dalle borghesie di tutte le regioni dell'impero. Venivano così garantite maggiori di possibilità di carriera politica ai sostenitori di Cesare, una ampia integrazione annuale del Senato e si abbozzava un contingente di quadri direttivi addetti alla amministrazione dello Stato. Vennero disciolte le associazioni popolari che avevano turbato la quiete pubblica, con i collegia che tornarono alla propria funzione originale. Furono confermate le distribuzioni gratuite di grano ma il numero dei beneficiari ridotto a 150.000. Per decongestionare Roma e l'Italia fu realizzato un vasto programma di colonizzazione e di distribuzione di terre per i numerosissimi veterani e per i cittadini meno abbienti. Una considerevole attività di ristrutturazione urbanistica edilizia e un'ambiziosa serie di lavori pubblici migliorarono l'aspetto di Roma. 9. Le idi di marzo L'eccessiva concentrazione di poteri, il moltiplicarsi di onori senza precedenti, il fatto che ogni carica politica potesse ormai svolgersi solo con l'appoggio e il consenso di Cesare, taluni atteggiamenti suoi e di alcuni dei suoi più stretti collaboratori che parvero rivelare un'inclinazione verso la regalità, finirono per creare allarme non solo tra gli ex-pompeiani e tra quanti tra senatori e cavalieri venivano colpiti nei loro interessi, ma anche tra alcuni suoi sostenitori. Nei primi mesi del 44 Cesare aveva preparato una grande campagna militare contro i Parti, e il responso di un oracolo aveva fatto aumentare le voci e i sospetti di ispirazioni monarchiche. Fu allora ordita una congiura guidata da Marco Giunio Bruto, Decimo Bruto e Caio Cassio Longino prima della partenza di Cesare per l'impresa partica. Alle idi di marzo del 44 egli cadde trafitto dai pugnali dei cospiratori nella curia di Pompeo, dove doveva presiedere una seduta del Senato. Capitolo 4 – Agonia della Repubblica 1. L’eredità di Cesare; la Guerra di Modena Abbattuto Cesare, i cesaricidi non si erano preoccupati ed eliminare anche i suoi principali collaboratori, Marco Emilio Lepido e il collega di consolato di Cesare Marco Antonio. Dopo un primo sbandamento, questi ultimi cominciarono a riorganizzarsi mentre i cesaricidi dimostrarono la totale mancanza di un programma che andasse al di là dell'assassinio di Cesare e di una generica proclamazione di aver restaurato la libertà repubblicana da lui minacciata. I congiurati trovarono a Roma un'accoglienza fredda e preferirono ritirarsi sul Campidoglio. Antonio riuscì a imporre una politica di compromesso che venne ratificata dal Senato: da un lato amnistia per i congiurati, dall'altro la convalida degli atti del defunto dittatore e il consenso ai suoi funerali di Stato. Dolabella sarebbe stato console insieme ad Antonio e le province già attribuite sarebbero state confermate agli assegnatari, congiurati compresi. Fu stabilito che dopo il consolato ad Antonio sarebbe toccata la Macedonia, e a Dolabella la Siria; Antonio seppe trasformare le esequie in una grandiosa manifestazione di furore popolare tanto che i cesaricidi preferirono mettersi in salvo abbandonando Roma. Antonio approfittò del possesso delle carte private di Cesare per far passare nel corso dell'anno tutta una serie di progetti di legge che egli sostenne di avervi trovato e che gli assicurarono una grande popolarità. Alla lettura del testamento si scoprì che il dittatore aveva nominato erede effettivo suo figlio adottivo, un giovane di non ancora 19 anni, Caio Ottavio, suo pronipote. Alle idi di Marzo il giovane Ottavio si trovava ad Apollonia, e si diresse subito verso Roma, accompagnato da manifestazioni di simpatia dei veterani del padre adottivo. Poi reclamò ufficialmente l'eredità. Egli pose come principale caposaldo del suo impegno politico la tutela e la celebrazione della memoria del padre adottivo e la vendetta a ogni costo della sua uccisione. In tal modo concentro su di sé l'appoggio dei cesariani più accesi e dei veterani, mentre buona parte del Senato comincio a scorgere in lui un mezzo per arginare lo strapotere di Antonio. Questi si era fatto assegnare dai comizi al posto della Macedonia le due province della Gallia. Quando però Antonio mosse verso la Cisalpina Decimo Bruto rifiutò di concedergliela e si rinchiuse a Modena, dove venne assediato. Ebbe così inizio la Guerra di Modena del 43. Mentre Cicerone attaccava Antonio, il Senato ordinò ai due consoli di muovere in soccorso di Decimo Bruto. Ad essi venne associato con un imperium propretorio anche Ottavio, che aveva reclutato un'armata privata in Campania e a cui erano passate due delle legioni che Antonio aveva fatto venire dalla Macedonia. Vicino a Modena Antonio fu battuto e fu costretto a ritirarsi verso la Narbonese, dove contava di unire le forze a quella di Lepido. 2. Il triumvirato costituente; le proscrizioni e Filippi Poiché entrambi i consoli erano morti, Ottavio chiese al Senato il consolato per sé; al rifiuto non esitò a marciare su Roma: il 43 venne eletto console e istituì un tribunale speciale per perseguire gli assassini di Cesare. Egli fece anche ratificare la sua adozione dai comizi curiati, fregiandosi allora del nome di Caio Giulio Cesare. In Gallia Antonio si era congiunto con Lepido; Decimo Bruto fu ucciso mentre cercava di passare le Alpi. Annullato il provvedimento senatorio che aveva dichiarato Antonio nemico pubblico, nel 43 Ottaviano, Antonio e Lepido si incontrarono nei pressi di Bologna, dove stipularono un accordo poi fatto sancire da una legge votata dai comizi tributi, la lex Titia. Ciò in base ad essa veniva istituito un triumvirato per la riorganizzazione dello Stato, che diveniva una magistratura ordinaria per la durata di cinque anni: essa conferiva il diritto di convocare il Senato e il popolo, di promulgare editti e di designare i candidati alle magistrature. I tre si spartirono diverse aree di competenza: Ottaviano ebbe anche Sicilia e Sardegna, minacciate da Sesto Pompeo. Vennero resuscitate le liste di proscrizione, con i nomi degli assassini di Cesare e dei nemici dei triumviri. Centinaia di senatori e cavalieri furono uccisi e i loro beni confiscati; Cicerone fu una delle vittime. Rimesse in sesto le loro finanze, i triumviri poterono rivolgere le armi verso oriente, dove Bruto e Cassio si erano costituiti una solida base di potere e un consistente esercito. Nel 42 Cesare fu divinizzato e il suo culto istituzionalizzato: Ottaviano divenne così divi filius. Lo scontro decisivo con i cesaricidi si ebbe a Filippi in Macedonia, nel 42. Le proscrizioni, le guerre intestine e Filippi avevano decimato spaventosamente l'opposizione senatoria più conservatrice. Il posto di molte antiche famiglie fu preso da una nuova aristocrazia, largamente composta da membri delle classi dirigenti municipali italiche e da persone di fiducia dei triumviri. Si realizzò così un mutamento radicale nella composizione e nella mentalità delle élite di governo, assai più inclini ai rapporti di dipendenza politica e personale. 3. Consolidamento di Ottaviano in Occidente, Guerra di Perugia, Sesto Pompeo, accordi, Nauloco Dallo scontro con i cesaricidi uscivano nettamente rafforzati il prestigio militare di Antonio, che si trovò a trattare con gli altri triumviri da una posizione di forza. Egli si riservò il comando su tutto l'oriente, da cui intendeva intraprendere un piano di preparando un'ultima resistenza, ma quando Ottaviano penetrò in Egitto con le sue truppe e prese Alessandria, i due si suicidarono. L'Egitto fu dichiarato provincia romana e Tolemeo Cesare era stato eliminato. Parte quarta – L’Impero da Augusto alla crisi del III secolo Capitolo 1 – Augusto 1. Azio e la cesura tra storia repubblicana e storia del Principato Nel 31 a.C. Ottaviano si trovò a essere padrone assoluto dello Stato romano. La conclusione delle guerre civili lasciava tuttavia aperta la difficile questione della veste legale da dare al potere personale del vincitore. L'ipotesi di un regime apertamente monarchico che sostituisse e rinnovasse completamente le istituzioni repubblicane era forse stata progettata da Cesare. Le soluzioni via via adottate da Ottaviano furono dunque complessivamente restauratrici nella forma anche se innovative nella sostanza e progressivamente finirono per segnare una cesura fondamentale nella storia romana. Uno dei più comuni errori di prospettiva è spesso stato quello di ritenere che il disegno che alla fine emerse dal lungo periodo sia stato fin dall'inizio frutto di un suo chiaro e compiuto progetto politico, di una risoluzione tracciata a tavolino messa poi in atto freddamente e sistematicamente. Non è corretto neanche pensare l'esatto contrario, cioè che il risultato finale sia stato frutto di isolati tentativi non rapportabili a un piano complessivo. Ciò che viene chiamato impero non è stato fondato e concepito unitariamente in un solo momento, ma si è definito e consolidato per tappe successive. Convenzionalmente, tuttavia, con il 31 si suole far iniziare il Principato, vale a dire il regime istituzionale incentrato sulla figura di un reggitore unico del potere, il princeps. Arrivava così a compimento il processo di personalizzazione della politica che aveva visto come effetto della crisi sociale e della spinta espansionistica l'emergere di figure di politici e generali che avevano affermato il proprio potere personale grazie alla disponibilità di eserciti fedeli, alle guerre di espansione e allo sfruttamento economico delle province. 2. Il rapporto con gli organismi repubblicani e il potere del principe: la translatio dello Stato al volere decisionale del Senato e del popolo romano nel 27 Il ritorno in Italia di Ottaviano nel 29 fu segnato dalla celebrazione di tre trionfi; gli anni dal 30 al 27 furono determinanti per l'impostazione del progetto di ritorno alla normalità senza rinunciare alla acquisita posizione di preminenza. Dall'anno 31 al 23 Ottaviano Augusto venne ininterrottamente eletto console e condividendo sempre la carica con membri fidati della sua fazione. Essere console significava ricoprire la più alta carica dello Stato quanto a completezza di imperium. Il processo di riconoscimento giuridico della nuova forma istituzionale inizio in realtà solamente nel 27, quando aveva come collega di consolato Agrippa. Ottaviano rinunciò formalmente a tutti i suoi poteri straordinari, accettando solo un imperium proconsolare per dieci anni sulle province non pacificate. Qualche giorno dopo il Senato lo proclamò Augusto, un epiteto che lo sottraeva alla sfera propriamente politica per proiettarlo in una dimensione sacrale e religiosa. Per comprendere meglio i fondamenti del suo potere bisogna analizzare le Res gestae, vero testamento politico che Augusto redasse verso la fine della sua esistenza e fece affiggere in varie città dell'impero: “Successivamente fui superiore a tutti per autorità pur non possedendo un potere superiore a quello degli altri che mi furono colleghi nelle magistrature”. È evidente la sottolineatura dell'alone carismatico che circondava la sua persona e che ne faceva davvero il principe, ovvero il primo uomo dello Stato. Non si deve dimenticare che l'architettura istituzionale traeva origine dalla drammatica esperienza delle guerre civili e che non era più immaginabile che si ponesse in discussione l'opportunità che il potere venisse detenuto da un solo individuo. La nuova organizzazione dello Stato rappresentava il definitivo superamento delle istituzioni della città-Stato. 3. La crisi del 23 Dal 26 al 23 Augusto continuo a essere in interrottamente eletto console. Egli viaggiò molto, e così dimostrava di provvedere con solerzia alla pacificazione dei territori provinciali che gli erano stati assegnati dal Senato e rafforzava il contatto con l'esercito e con i veterani insediati nelle province. Anche negli anni successivi Augusto alternerà periodi di permanenza nelle province a periodi di permanenza a Roma, in modo che l'assestamento del nuovo ordine potesse compiersi gradualmente e in modo tale da rispettare l'usuale prassi. Nel 23 però si verificò una grave crisi: in Spagna Augusto si era seriamente ammalato e si sentì in fin di vita. In linea di principio il problema della successione non esisteva in quanto i poteri conferiti ad Augusto erano individuali e non trasmissibili ad altri. Con la sua morte la gestione della cosa pubblica sarebbe tornata agli organismi istituzionali dello Stato e la sua scomparsa avrebbe potuto quindi riaprire il flagello delle guerre civili. In assenza di figli maschi Giulia era divenuta il fulcro delle sue strategie politiche: i progetti del princeps si appuntarono dapprima sul genero Marcello, ma morì e Giulia fu data in moglie ad Agrippa, che divenne così aspirante a succedergli. Per tali motivazioni Augusto introdusse correzioni per definire la sostanza dei poteri imperiali. Egli depose il consolato e ottenne un imperium proconsolare che gli consentiva di agire con il potere di un promagistrato su tutte le province. Questo potere, imperium maius, non consentiva però ad Augusto di agire nella vita politica; per ovviare a tale impedimento il principe ricevette dal Senato il potere di un tribuno della plebe. In virtù di esso Augusto diveniva protettore della plebe di Roma, poteva convocare i comizi, porre il veto e godere della sacrosantitas. A tale potestà tribunizia il Senato aggiunse il diritto di convocare il Senato. In questo modo Augusto continuava a detenere dei poteri che erano compatibili con la tradizione repubblicana; come contropartita, la rinuncia alla carica di console lasciava piena disponibilità della carica alla aristocrazia senatoria. Inoltre, con l'introduzione di consoli suffetti si aumentò il numero dei posti da ricoprire. Quanto alle elezioni stesse, erano state ristabilite in forma più o meno regolare sin dal 27; in realtà esse erano controllate da Augusto attraverso la nominatio, cioè la accettazione della candidatura da parte del magistrato che sovraintendeva l'elezione, e la commendatio, la raccomandazione da parte dell'imperatore stesso. 4. Il perfezionamento della posizione di preminenza Nel 22 in seguito a una carestia Augusto rifiutò la dittatura e assunse la cura annonae; esercitò poi i poteri del censore. Anche Agrippa ricevette nel 23 imperium proconsolare di 5 anni. Alla fine degli anni 20 Augusto si portò sul confine orientale, per sistemare la questione partitica e armena: un negoziato permise di riportare a Roma le insegne delle legioni di Crasso e Marco Antonio. Dopo il rinnovo dell'imperium proconsolare, Agrippa ottenne anche la tribunicia potestas, così da rendere la sua posizione sempre più vicina a quella del principe. Augusto nel 12, dopo la morte di Lepido, rivestì la carica anche di pontefice massimo, che lo poneva alla guida della vita religiosa di Roma: l'ultima espressione di riconoscimento ufficiale alla sua posizione di preminenza fu il conferimento di titolo di pater patriae. 5. I ceti dirigenti (senatori ed equites) L'attribuzione dell'imperium proconsolare e del potere tribunizio crearono un potere personale non riconducibile alla somma delle magistrature repubblicane da cui esso era costituito. Il Senato negli ultimi anni della Repubblica aveva visto una sorte tra i magistrati che avevano ricoperto pretura o consolato. Restavano in carica un solo anno, comandavano le forze militari presenti nella loro provincia ed erano assistiti dai questori. Un'eccezione a questo ordinamento era costituita dall’Egitto, che era stato assegnato a un prefetto di rango equestre nominato da Augusto. Si trattò probabilmente di una soluzione dettata dalle particolari circostanze in cui la provincia venne creata e dalla sua importanza per l'approvvigionamento granaio di Roma. Fu necessario inoltre creare un sistema razionale per l'esazione di imposte e tasse che mitigasse lo sfruttamento brutale delle requisizioni adottate per le guerre civili ed esterne. Per superare i limiti dimostrati da governatori appaltatori nella tarda Repubblica, Augusto stabilì nuovi criteri per determinare l'ammontare dei tributi meglio commisurati alle capacità contributive dei provinciali. Il nuovo sistema aveva come presupposto la tassa fondiaria, il tributum soli, e il censimento della popolazione, con cui si determinava il numero dei provinciali non cittadini romani. 7. L'esercito, la pacificazione e l'espansione All'indomani di Azio gli uomini impegnati nell'esercito superavano di gran lunga le necessità e i mezzi dell'impero: la paga dei soldati gravava sulla cassa dello Stato, in cui confluivano le imposte regolari delle province, ma i costi della liquidazione dei veterani rappresentavano un peso straordinariamente alto e in un primo tempo furono sostenuti con il bottino di guerra e con il patrimonio personale di Augusto. In un primo tempo i veterani ricevettero soprattutto terre in Italia e in alcune province, poi perlopiù denaro. Con Augusto il servizio militare nelle legioni fu riservato in linea di principio a volontari, che erano maggiormente italici, anche se incominciava a essere apprezzabile il contributo dei provinciali. L’esercito, dunque, era formato da professionisti e la forza permanente effettiva fu composta da 25 legioni. Un'altra innovazione importante fu l'istituzione di una guardia pretoriana permanente affidata al comando di un prefetto di rango equestre. Si trattava di un corpo militare di élite composto da nove coorti reclutato prevalentemente tra cittadini romani residenti in Italia. Augusto costituì inoltre dei contingenti regolari di truppe ausiliarie di fanteria e cavalleria, reclutate tra i popoli soggetti all'impero e comandate da ufficiali romani ma anche da capi di tribù locali. Innegabili furono i successi di Augusto anche in politica estera: durante il suo regno le acquisizioni territoriali vere e proprie dell'impero furono limitate, malgrado guerre lunghe e impegnative, ma egli compì in tre occasioni un atto di grande valore simboli, la chiusura del tempio di Giano, una sorta di gesto propagandistico per indicare che iniziava una stagione di pace. Augusto preferì affidare alla diplomazia piuttosto che alle armi le questioni orientali. Con molti sovrani furono stretti trattati di amicizia che li ponevano in un rapporto di patronato-clientela con l'imperatore, tanto che sono spesso definiti i regni clienti di Roma. Si creavano in questo modo alcuni Stati cuscinetto nell'ambito dell'egemonia romana. Il vero teatro degli scontri militari del principato fu in occidente; nei primi anni di regno gli interventi si concentrarono nella penisola iberica e nell'area alpina occidentale. La conquista della Rezia, della Vindelicia e del Norico fu realizzata dai figliastri Tiberio e Druso, poi furono occupate Pannonia e Mesia. La propaganda augustea ha però mascherato la mancata sottomissione della Germania: l'obiettivo da conseguire doveva essere la linea del fiume Elba, dove i Romani arrivarono nel 9 a.C. con Druso, ma il territorio a oriente del Reno non fu mai stabilmente sottomesso. Nel 6 d.C. scoppiò una grande rivolta delle tribù germaniche che riuscirono a far fronte comune contro l'invasore; nel 9 si ebbe un episodio decisivo: nella foresta di Teutoburgo Quintilio Varo fu sconfitto da Arminio e tre legioni risultarono annientate. Anche se negli anni successivi vi saranno altre spedizioni in Germania ormai si trattava solo di operazioni di carattere limitato e la frontiera doveva rimanere il Reno. 8. La successione I particolari poteri di Augusto non costituivano una vera e propria carica qui dopo la sua morte qualcuno potesse succedere, né potevano essere trasmessi secondo un principio dinastico proprio delle monarchie ellenistiche con un singolo atto a una persona della sua famiglia o del suo entourage senza ledere le prerogative dell'ordinamento repubblicano. Augusto doveva trovare dunque il modo di far sì che la sua posizione di potere non andasse perduta con la morte ma rimanesse nella famiglia, senza tuttavia imporre una svolta apertamente monarchica alle istituzioni. La prima preoccupazione del princeps fu quella di integrare la propria famiglia nel nuovo sistema politico e nella propaganda ideologica, celebrandone l'ascendenza divina e riprendendo così in forma estrema la consuetudine di nobilitazione degli antenati già propria degli aristocratici romani. Nella sua veste di pater familias sottolineava inoltre il carattere romano tradizionale della propria e la ampliava con i successivi matrimoni della figlia Giulia e le adozioni. Il ruolo di primo piano assunto dalla domus principis gli consentiva di trasferire al proprio avere anche le clientele e il prestigio che secondo la tradizione romana appartenevano al patrimonio di una famiglia della nobiltà gentilizia. La posizione del princeps nello stato veniva dall'altra parte rafforzata dai meriti e dalle distinzioni via via acquisiti dai suoi figli adottivi e dalle persone della sua cerchia come Agrippa; l'erede scelto avrebbe ricevuto non solo il patrimonio privato ma anche una sorta di prestigio che gli garantiva un accesso privilegiato alla carriera politico-militare e un ruolo singolare nella res publica. Fu attraverso il matrimonio di Giulia con il nipote Marcello che Augusto cercò per la prima volta di inserire un discendente maschio nella famiglia, dotandolo inoltre già da giovanissimo di prerogative; Marcello morì però nel 23. La seconda personalità a cui Augusto fece attribuire gradualmente poteri analoghi a quelli da lui cumulati fu Agrippa, i cui figli furono adottati dal princeps, ma Agrippa morì nel 12. Augusto si rivolse allora ai figli della terza moglie Livia, nati dal primo matrimonio di questa con Tiberio Claudio Nerone: Tiberio e Druso. Tiberio dovette divorziare e sposare Giulia; egli ricoprì due volte il consolato, celebrò un trionfo e ricevette la potestà tribunizia. In seguito, tornò a Roma dopo un periodo di autoesilio, sciolse il matrimonio con Giulia colpita da scandalo, e Augusto pretese che egli adottasse Germanico, figlio del fratello Druso e di Antonia. Tiberio adottò Germanico e Augusto adottò Tiberio. Successivamente a Tiberio furono attribuiti la potestà tribunizia e l'imperium proconsolare: nel 13 celebrò il trionfo sui Germani e gli venne conferito un imperium pari a quello di Augusto. Alla morte del princeps esisteva già una personalità con pari poteri in campo civile e militare che poteva in un certo modo ereditare l'influsso e il carisma che Augusto aveva reso una prerogativa della propria casa. 9. L'organizzazione della cultura Augusto mirava a completare i progetti di Cesare e a celebrare propagandisticamente il ritorno della tradizione repubblicana. Uno specifico programma figurativo esaltava la pacificazione e una fittizia discendente da una progenitrice divina come Venere e da un mitico progenitore come Enea. Nelle Res gestae Augusto ripercorre tutte le tappe del proprio operato, sia costituzionale sia militare, illustrando in che modo abbia reso soggetto il mondo al potere del popolo romano e abbia portato pace e prosperità estendendo i confini del potere romano. cadde vittima di una congiura organizzata dai pretoriani; la sua morte evitò che scoppiasse il conflitto in Giudea e pose fine ai dissidi nelle città orientali. Il suo breve principato costituisce un episodio premonitore dei rischi inerenti alla struttura stessa del Principato. 4. Claudio Neppure il successore di Caligola, suo zio Claudio, ebbe dalla sua il favore delle fonti antiche. Malgrado il rispetto per il Senato, la necessità di una razionalizzazione del governo dell'Impero indusse Claudio a una significativa riforma: l'amministrazione centrale fu divisa in quattro grandi uffici, un segretariato generale e altri per finanze, suppliche e processi. Egli si avvalse molto del ricorso ai liberti. La sua linea politica di razionalizzazione lo portò anche a cercare nuove soluzioni ai problemi di approvvigionamento granario e idrico che affliggevano Roma; costruì il porto di Ostia. L'orazione tenuta da Claudio per la concessione ai notabili della Gallia Comata del diritto di accesso al Senato mostra il suo interesse per le province. La sua politica di integrazione è stata attestata inoltre da altri provvedimenti, come l'intensa opera di fondazione di colonie. Nella prima parte del principato dovette affrontare le questioni lasciate aperte da Caligola: ristabilì i privilegi delle comunità ebraiche orientali, tutelando allo stesso tempo le istituzioni delle polis greche. L'impresa militare più rilevante fu la conquista della Britannia meridionale che fu ridotta a provincia. Il regno di Claudio è caratterizzato da intrighi di corte: egli aveva sposato in terze nozze la dissoluta Messalina da cui ebbe un figlio, Britannico; Messalina fu messa a morte e Claudio sposò la nipote Agrippina, la quale riuscì a far adottare all'imperatore il figlio avuto dal precedente matrimonio, Nerone. Ella poi nel 54 avvelenò Claudio. 5. La società imperiale Alla base della concezione antica della società vi era l'assunto che vi dovesse essere una articolazione e una differenza formalmente riconosciuta dello status giuridico delle persone. Augusto introdusse elementi di distinzione anche per i ceti dirigenti dei municipi e si occupò allo stesso tempo di regolare i privilegi, lo statuto e l'articolazione di altri gruppi della società. La schiavitù era diventata un fenomeno caratteristico della società e dell'economia a partire dalla tarda Repubblica. Grandi quantità di schiavi erano impiegate nell'agricoltura dai proprietari di vaste tenute, anche se il fenomeno in età imperiale si andò riducendo in favore dell'impiego di coloni liberi, ma vi era anche una notevole presenza di schiavi domestici e schiavi di origine greca istruiti nell'ambito dei servizi. Categoria a sé stante erano gli schiavi imperiali, la familia Caesaris, impiegati nella gestione finanziaria e amministrativa del patrimonio imperiale e organizzati secondo vere e proprie gerarchie. Lo schiavo che riusciva ad acquistare la libertà con il patrimonio personale che il padrone gli lasciava acquistare nell'esercizio della sua attività oppure grazie a disposizioni testamentarie rimaneva legato al proprio ex- padrone da un rapporto di clientela e spesso anche di prestazioni di lavoro. I liberti rappresentarono il ceto economicamente più attivo in vari settori dell'economia e potevano raggiungere forme di promozione sociale ricoprendo cariche all'interno delle associazioni professionali. Un altro gruppo rilevante all'interno della società romana era costituito dai provinciali liberi, una categoria molto articolata che comprendeva gli abitanti delle polis greche così come quelli dei villaggi dei Britanni o i nomadi del deserto. L'imperatore poteva intervenire nelle questioni relative allo status e ai privilegi dei diversi gruppi cittadini e vegliare sulla tutela del corpo civico della polis. Il princeps inoltre poteva promuovere i ceti dirigenti cittadini o intere città concedendo la cittadinanza romana a singoli individui o a città o a categorie. Una volta ottenuta la cittadinanza anche per i provinciali il passo successivo di promozione sociale era l'accesso ai due ceti dirigenti, l’ordo senatorius e il ceto equestre. I cittadini romani delle province potevano raggiungere posizioni importanti nella carriera equestre grazie al patronato e alle raccomandazioni di ufficiali superiori che segnalavano all'imperatore i meriti e i talenti dei loro sottoposti. L'esercito accanto al denaro fu dunque uno dei fattori più importanti di promozione sociale nel corso dell'età imperiale. 6. Nerone Il principato di Nerone fu impostato su premesse diverse da quelle augustee: il consolidamento dei poteri del princeps e l'istituzionalizzazione della sua figura avevano mostrato la debolezza dei residui della tradizione repubblicana nel governo dello Stato. Il mutamento nella concezione del potere del princeps risulta evidente già nel De clementia di Seneca: l'ideologia augustea che sottolineava il permanere della responsabilità di governo al popolo e Senato appare completamente superata. Ora la res pubblica sta nelle mani di una sola personalità, il potere e la ricchezza sono assoluti e dono dagli dèi: implicano per il principe la responsabilità di porre virtus e clementia alla base delle proprie azioni. In un primo tempo Nerone assecondò l'autorevole influenza che esercitavano su di lui Seneca e il prefetto del pretorio Afranio Burro cercando una forma di collaborazione con il Senato, ma se ne distaccò per inclinare verso una idea teocratica e assoluta del potere imperiale. Grande ammiratore della Grecia e dell'oriente, Nerone trasformò in senso assolutistico e monarchico il potere imperiale, provocando l'opposizione senatoria dei gruppi tradizionalisti e delle antiche famiglie repubblicane. Egli si macchiò anche di gravi delitti. Il dispotismo di Nerone culminò nell’incendio di Roma del 64, di cui furono incolpati i cristiani e che fece vittime anche tra i senatori. I costi per la ricostruzione furono tanto alti da esacerbare alcune situazioni di tensione sia con il Senato che la plebe di Roma sia nelle province e da provocare una forte perdita di consenso. Nerone cercò di rimediare alla crisi finanziaria con una importante riforma monetale, riducendo di peso e di fino la moneta d'argento, il denario. Nelle province, in particolare in Britannia, vi era stata una grave ribellione delle popolazioni locali, e parimenti in Giudea, a causa della requisizione di parte del tesoro del Tempio di Gerusalemme, nel 66 scoppiò una violenta ribellione. Il potere di Nerone fu poi minacciato nel 65 da una grave congiura, la congiura dei Pisoni, che coinvolse vari strati dell’élite dirigente, sia tra i senatori che tra i cavalieri. Nel 66 il Nerone partì per la Grecia dove intendeva compiere una tournée artistica e agonistica partecipando ai festival e ai tradizionali agoni periodici delle polis greche. In Giudea era però scoppiata una gravissima ribellione, che Vespasiano era stato incaricato di domare. Nel 68 giunse a Roma la notizia della ribellione delegato della Gallia Lugdunensis Giulio Vindice: fu rapidamente domata ma era all'inizio di una catena di sollevazioni. Anche i pretoriani abbandonarono Nerone, il Senato lo dichiarò nemico pubblico e Galba fu riconosciuto nuovo princeps. Nerone si suicidò. Capitolo 3 – L’anno dei quattro imperatori e i Flavi 1. L’anno dei quattro imperatori: il 68-69 Si erano così create le condizioni per una nuova guerra civile, che vide contrapposti senatori, governatori di provincia o comandanti militari che, forti del sostegno dei loro eserciti, assunsero il titolo di imperatore. Tacito definì quest'anno come il longus et unus annus, che svelo un arcanum imperii, cioè che la proclamazione di un imperatore poteva avvenire anche fuori da Roma ed essere appannaggio dell'esercito. La fama di Domiziano risente dell'ostilità della tradizione storiografica. Egli si preoccupò dell'amministrazione delle province, di reprimere gli abusi dei governatori e di promuovere i compiti burocratici del ceto equestre. La scelta di rinunciare a ulteriori vaste conquiste militari a favore di operazioni di consolidamento della frontiera risultò realistica e lungimirante. Il territorio conquistato fu controllato attraverso l'impianto di accampamenti fortificati, collegati tra loro da una rete di strade e con forti presidiati da soldati ausiliari sul limes. Si inaugurò così un sistema di difesa dei confini che fu adattato e impiegato in tutto l’impero. La parola limes passò ad assumere il significato di frontiera artificiale, in cui le strade limite servivano a collegare tra loro gli accampamenti e di fatto a disegnare la linea di separazione tra l'Impero e i territori esteri. Si andava poi profilando il problema della Dacia, la regione nella quale il re Decebalo era riuscito a unificare le varie tribù e a guidarle in varie incursioni contro il territorio romano. Altro evento importante fu la rivolta di Saturnino in Germania, che ebbe pesanti ripercussioni sulla politica di Domiziano, il quale, sentendosi minacciato, inaugurò un periodo di persecuzione ed eliminazione di persone sospette. Lo stile autocratico costò caro a Domiziano che nel 96 cadde vittima di una congiura; dopo la morte il Senato ne decretò la damnatio memoriae. 6. Il sorgere del cristianesimo Il cristianesimo, che nasce dall'ebraismo, viene formandosi come religione strutturata nel corso del primo e secondo, con Cristo che nasce al tempo di Augusto e muore sotto Tiberio. Il cristianesimo primitivo iniziò come un movimento all'interno del giudaismo, in un periodo in cui gli ebrei già da tempo si trovavano sotto la dominazione straniera e si distribuivano gli aristocratici e conservatori, i sadducei, e i più popolari e liberali, i farisei. A queste sette venne poi ad aggiungersi la singolare comunità degli esseni, un gruppo che conduceva un'esistenza rigorosa e isolata. Le condizioni sociali e politiche dell'epoca non potevano riservare un grande futuro alle prospettive religiose dei sadducei e alle aspirazioni politiche degli zeloti, un partito di aggressivi rivoluzionari che cercavano l'indipendenza da Roma, i cui tentativi di autonomia e di realizzazione di sogni apocalittici non fecero altro che accelerare l'annientamento della Giudea. Per la maggior parte degli ebrei si trattava dunque di scegliere tra farisei e cristianesimo; mentre i primi si dedicavano alla meticolosa osservanza della legge di Mosè, il secondo proponeva la religione che aveva il suo fondamento nella fede in Cristo. Nel primo secolo d.C. la figura che si impone sulle altre nel mondo cristiano è quella dell'apostolo Paolo di Tarso; Saulo era stato uno zelante fariseo molto impegnato nella persecuzione della primitiva ecclesia. Paolo si convertì repentinamente alla fede cristiana proprio mentre stava intraprendendo una di queste missioni di persecuzione. Dalle sue lettere pastorali inviate alle comunità di varie città orientali e di Roma emerge la consapevolezza che l'idea di una missione universale della Chiesa rivolta all'umanità intera implicava di fatto una rottura radicale con il conservatorismo giudaico, chiuso nella difesa delle idee e dei costumi delle diverse sette. Dall'inizio del secondo secolo prevalse la struttura di comunità guidate da un singolo responsabile detto episcopus. L'autorità romana imperiale aveva affrontato la questione giudaica senza distinguere tra i vari movimenti, considerandola un problema di nazionalità piuttosto che di religione. Le comunità giudaiche nelle città dell'Impero non erano assimilate al resto della cittadinanza ma avevano un profilo ben distinto; in diverse occasioni le comunità ebraiche furono avvertite come elemento estraneo, in contrasto con il mos maiorum. Claudio espulse gli ebrei da Roma nel 49; in quell'occasione secondo la causa furono dei disordini fomentati da un certo Chrestus. Si pensa dunque che si tratti del primo provvedimento in cui gli ebrei e i cristiani furono per la prima volta accumunati. A partire da Nerone diviene evidente il contrasto tra l'autorità imperiale e la nuova religione cristiana. Quest'ultima veniva considerata come sovversiva e pericolosa, in quanto non poteva integrarsi in nessun modo con la religione tradizionale e con il culto imperiale. Anche l'opinione pubblica riteneva che i seguaci della nuova setta fossero dediti a pratiche mostruose e riprovevoli. Nerone approfittò di questo clima di sospetto per incolpare i cristiani del grande incendio di Roma del 64, dando inizio a una cruenta persecuzione. Dopo che Vespasiano e Tito ebbero stroncato la rivolta in Palestina, distrutto il tempio di Gerusalemme e annientato gli ultimi focolai di resistenza, non furono poste limitazioni al culto, che continuò sia in Palestina che nella diaspora. Ebrei e cristiani subirono invece l'ostilità di Domiziano, che per attuare una politica di legittimazione religiosa volle promuovere la figura del principe come rappresentazione di Giove sulla terra e legarla a una idea di elezione divina. Secondo alcuni studiosi Domiziano si sarebbe accanito contro i circoli vicini alla corte che manifestavano interesse per i nuovi fermenti giudaico-cristiani proprio per acquistare il favore della parte più tradizionale del Senato. In una delle lettere che Plinio il Giovane inviò a Traiano mentre era governatore della Bitinia egli chiese al principe come dovesse comportarsi nei confronti delle comunità cristiane che all'epoca risultavano molto diffuse sia nelle città che nelle campagne e con adepti tra tutti i ceti sociali. La risposta di Traiano, espressione di un atteggiamento moderato dell'autorità imperiale, prescriveva che i cristiani non dovessero essere ricercati ma che dovevano essere puniti solo se espressamente denunciati. Dispose inoltre che le denunce anonime non fossero prese in considerazione e chi, pur denunciato, affermava di non essere cristiano e ne dava prova sacrificando agli dèi non doveva essere perseguitato. Nel corso del secondo secolo il cristianesimo mise radici salde in tutto l'Impero, diventando un fenomeno che non poteva essere ignorato dall'autorità. Capitolo 4 – Il II secolo 1. Nerva Il breve principato di Nerva vide la restaurazione delle prerogative del Senato e un tentativo di riassetto degli equilibri istituzionali interni. Per questo periodo le fonti sono molto limitate: Cassio Dione e Plinio il Giovane. La prima preoccupazione di Nerva fu quella di controllare le reazioni all'uccisione di Domiziano e di scongiurare il pericolo dell'anarchia. Garantito l'ordine interno, Nerva si volse a un'opera costruttiva di politica finanziaria e sociale a favore di Roma e dell'Italia: fu votata una legge agraria per assegnare lotti di terreno ai cittadini nullatenenti. Sotto Nerva fu varato il programma delle istituzioni alimentari, prestiti concessi dallo Stato agli agricoltori che ne beneficiavano accettando di ipotecare i propri terreni. Si realizzava così un incentivo al miglioramento della produttività dei fondi sia un sostegno alle famiglie per contrastare la tendenza in atto al calo demografico. Nerva trasferì alla cassa imperiale il costo del cursus publicus, cioè del mantenimento delle strade e delle stazioni di cambio per i messaggeri imperiali. Sul versante politico i pretoriani chiesero la punizione degli assassini di Domiziano. L'unico sistema per impedire una nuova disgregazione dell'Impero era designare un successore che fosse in grado di affermarsi anche militarmente contro i pretoriani. Fu così che Nerva associò immediatamente al potere il senatore di origine spagnola Ulpio Traiano, governatore della Germania Superiore, uomo di grande esperienza politica e militare. Traiano gli succedette come imperatore e la sua nomina fu ratificata dal Senato, insieme al giuramento di fedeltà degli eserciti. 2. Il governo dell'Impero affidato al migliore: Traiano All'insegna della continuità con quello del suo predecessore fu il regno di Antonino Pio. A differenza di Adriano, tuttavia, quest'ultimo rinunciò ai grandi viaggi attraverso l'Impero. Si tratta di un periodo sostanzialmente privo di grandi avvenimenti; egli fu coscienzioso e parsimonioso amministratore. Per sua volontà il Vallo di Adriano in Britannia fu avanzato nella Scozia meridionale. 5. Lo statuto delle città Nell'età di Antonino Pio l'Impero giunse all'apogeo del proprio sviluppo e del consenso presso le élite delle province e delle città. Il processo di integrazione dei ceti dirigenti provinciali attraverso il conferimento della cittadinanza romana e il valore attribuito alla vita cittadina nella quale la cultura greca trovava la sua più compiuta espressione. La città rappresentava nel mondo antico il segno distintivo della civiltà rispetto alla rozzezza e alla barbarie. Nell’Impero Romano vi era dunque una grande varietà di tipologie cittadine e soprattutto una grande diversità di statuti. Civitates in Occidente e poleis in Oriente erano organizzate secondo tre tipologie fondamentali: 1- città peregrine, cioè quelle preesistenti alla conquista e alla loro riorganizzazione all'interno dell'Impero, suddivise in città stipendiare, città libere e città libere federate; 2- municipi: un municipio è una città cui Roma ha concesso di elevare il suo status precedente di città peregrina e ai cui abitanti viene accordato o il diritto latino o quello romano; 3- colonie: in origine città di nuova fondazione con apporto di coloni che godono della cittadinanza romana su terre sottratte. La colonia adotta il pieno diritto romano ed è organizzata a immagine di Roma. Si realizzava così una gerarchia tra le città tale da favorire lo spirito di emulazione, dato che le città peregrine aspiravano a diventare municipi di diritto latino e questi ultimi desideravano ottenere il diritto romano. Le città costituivano inoltre il punto di riferimento delle attività economiche e i nuclei della vita culturale. Nell'oriente ellenistico l'esperienza cittadina si basava sulla lunga tradizione della polis, mentre in altre zone le tradizioni greche si mescolavano a quelle fenicie e puniche. Nell'Europa continentale alcune zone potevano vantare tradizioni e celtiche ma altrove non vi era alcuna cultura di tipo urbano. Le città fungevano da raccordo tra Roma e le disperse realtà locali dell'Impero, dove esisteva una varietà di tradizioni, attività economiche e produttive, istituzioni, strutture indigene e sistemi di relazione tra il centro urbano e il suo territorio. Roma, diffondendo la cultura urbana e promuovendo la collaborazione e l'ascesa economica e sociale delle élites, perno della struttura cittadina, si assicurava in primo luogo il controllo dell'ordine e della stabilità su tutto l'Impero e sulle popolazioni comprese nel suo sistema di potere. 6. Marco Aurelio Marco Aurelio, insieme al fratello adottivo Lucio Vero, succedette ad Antonino secondo quanto era stato preordinato. All'inizio del regno di Marco si riaprì la questione orientale con il potente vicino partico; la guerra fu vittoriosa ma nel 166 l'esercito tornato dall'oriente portò con sé la peste. Inoltre, lo sguarnimento della frontiera creò le condizioni perché i barbari del nord si facessero pericolosi: Marco Aurelio e Lucio Vero furono allora prevalentemente impegnati nella difesa della frontiera danubiana. Seguace della dottrina stoica e autore di un'opera di riflessione morale, Marco è passato alla storia come l'immagine stessa dell'imperatore filosofo, con un'alta concezione del proprio dovere verso i sudditi. Durante il suo regno si registra a Lione un episodio di cruenta persecuzione contro i cristiani. 7. Commodo Commodo divenne imperatore a 19 anni e si dimostrò la perfetta antitesi del padre e un segno di come il potere imperiale fosse esposto al rischio di ogni sorta di degenerazione. Il suo primo atto fu quello di concludere definitivamente la pace con le popolazioni che premevano sul Danubio. Le sue inclinazioni dispotiche e le sue stesse innovazioni in campo religioso determinarono una rottura con il Senato. Egli non governò mai direttamente ma si servì di potenti liberti, che approfittarono del disinteresse per le istituzioni da parte del principe e dell'arbitrio con cui potevano esercitare il potere per vendere titoli di console e altre magistrature. Commodo cadde in una congiura del 192. Egli non dimostrò cura assidua per le province come i suoi predecessori, né per i soldati degli eserciti stanziati nell'Impero, che diedero segni di inquietudine e rivolta a causa dei mancati pagamenti. Il consenso interno era fondato sulla plebe e sui pretoriani piuttosto che sull’aristocrazia e sul Senato. Sotto il suo principato vi furono importanti fenomeni di integrazione della cultura provinciale con l'accoglimento di molte divinità straniere che entrarono alla pari nel Pantheon romano. Il suo atteggiamento contrario alla tradizione augustea e romana fu un ulteriore elemento di dissenso del Senato nei suoi confronti, tanto che la tradizione lo dipinge come il peggiore dei tiranni. 8. L'economia romana in età imperiale Uno dei fattori economici fondamentali dell'età imperiale è costituito dal fabbisogno alimentare di Roma: il milione di abitanti che vi era concentrato rappresenta un dato numerico smisuratamente alto. La gestione del complesso dei servizi finalizzati al vettovagliamento di Roma era affidata a una magistratura apposita, la prefettura dell'annona. Il servizio annonario coinvolgeva nelle sue disposizioni varie province e comportava un regolare afflusso di merci dal mare. Per il fabbisogno di grano di Roma stime accreditate e credibili ipotizzano un consumo di cereali pro capite annuo di circa 200 kg: questo dato implica che Roma doveva importare circa 300.000 tonnellate di grano ogni anno. Una domanda molto forte era alla base di un commercio su larga scala che necessariamente doveva sollecitare la produzione provinciale. Date le note difficoltà e l'alto costo del trasporto per terra le rotte marittime erano particolarmente utilizzate. Lo stesso apparato statale rappresentò un incentivo importante per la produzione e la circolazione di beni. In particolare, l'esercito permanente assorbiva gran parte del bilancio dell'impero e ne condizionava l'economia. A partire dalla seconda metà del primo secolo la forte presenza delle province sul mercato italico appare fuori discussione. Il problema che si pone è quello di stabilire se tale presenza può aver determinato una crisi dell'agricoltura nella penisola: le risposte in proposito sono diverse; per alcuni più scettici non vi fu nessuna crisi o addirittura la produzione vinaria conobbe un vero e proprio boom. La questione del mercato per una società precapitalista è delicata, ma ormai non sembra potersi più mettere in dubbio l'esistenza in età imperiale di circuiti regolari di scambi soprattutto nel bacino del Mediterraneo. Essi sono il risultato della raggiunta unità politica che favorisce l'integrazione economica in ragione di un sistema fiscale basato in larga misura sulla moneta. Il grado di sviluppo dell'economia romana all'inizio dell'età imperiale appare di tali proporzioni da richiedere una categorizzazione a sé stante, tanto che si parla di una peculiare economia preindustriale. Il mancato sviluppo tecnologico del mondo antico tende oggi a essere ridimensionato. Parte quinta – Crisi e rinnovamento (III-IV secolo d.C.) Capitolo 1 – La crisi del III secolo e le riforme di Diocleziano 1. La crisi del III secolo e riforme di Diocleziano imperatore a non recarsi a Roma; dopo di lui si ricordano Filippo l'Arabo e Messo Decio. Il regno di quest'ultimo è caratterizzato dalla volontà di rafforzare l'osservanza dei culti tradizionali, il che comportava una forte discriminazione per i cristiani. La sua morte avvenne mentre l'Impero si trovava minacciato su più fronti, soprattutto da Alamanni e Franchi. Il successore Valeriano ebbe l'accortezza di associare immediatamente il potere il figlio Gallieno e di accentrare il governo dell'Impero. Gallieno dovette tollerare che all'interno dell'impero si formassero regni separatisti. Segue poi il periodo degli imperatori illirici, iniziato nel 268. Aureliano riuscì ad avere definitivamente ragione delle popolazioni barbariche che erano penetrate nella Pianura padana e fece circondare Roma da una imponente cinta muraria; durante il suo regno avvenne la distruzione di Palmira dopo aver sconfitto le forze della regina Zenobia. Aureliano ebbe anche il merito di restituire un certo prestigio alla figura del sovrano: promosse una decisa riorganizzazione dello Stato in tutti i settori essenziali della vita economica e diede impulso al processo di divinizzazione del monarca, con l'introduzione del culto ufficiale di sol invictus. Nel 285, dopo un periodo di convulsa anarchia, solo detentore del potere si trovò a essere l’illirico Diocleziano. 5. Diocleziano e il Dominato L'avvento al trono di Diocleziano segna una delle cesure più nette in tutta la storia dell'Impero. Con il suo regno si chiude definitivamente l’età buia che va sotto il nome di crisi del III secolo. Si tratta di un'età di riforme e di novità, a cominciare da quella che dava una diversa organizzazione al potere imperiale centrale; a partire da questo momento si fa tradizionalmente iniziare la fase del Dominato, rispetto a quella precedente del Principato. Il regno di Diocleziano è contraddistinto da una forte volontà restauratrice dello Stato a tutti i livelli. L'ideologia fondamentalmente conservatrice che ispirò le sue riforme ebbe come esito una serie di misure che nel lungo periodo riorganizzarono la compagine imperiale su basi diverse rispetto a quelle originarie. Diocleziano concepì un sistema in base al quale al vertice dell'impero c'era un collegio imperiale composto da quattro monarchi, detti tetrarchi, due dei quali (Augusti) erano di rango superiore ai secondi (Cesari). Il principio che veniva così introdotto era quello della cooptazione al collegio stesso: i due augusti cooptavano i due Cesari e così era previsto che facessero a loro volta quest'ultimi una volta divenuti Augusti. La riforma fu realizzata attraverso tappe graduali: Massimiano fu nominato Cesare e poi elevato al rango di Augusto; i Cesari Costanzo Cloro per Massimiano e Galerio per Diocleziano furono proclamati tali solo in seguito. Diocleziano andò a risiedere a Nicomedia, mentre Massimiano a Milano. Lo sforzo profuso da Diocleziano nel riordino dell'amministrazione fece crescere la burocrazia statale, consistente in uomini al diretto servizio del sovrano, le cui funzioni erano rigorosamente distinte da quelle militari. L'esercito fu ulteriormente potenziato e le truppe migliori messe a disposizione dei tetrarchi. Diocleziano si impegnò a fondo anche nella riorganizzazione del sistema economico e nel riordino del sistema fiscale, con l'introduzione di una nuova forma di tassazione. L'impero fu suddiviso in dodici unità dette diocesi e anche l'Italia perse il suo antico privilegio di non far parte del sistema provinciale e quindi venne equiparata alle altre regioni dell'impero. Nel 305 Diocleziano e Massimiano abdicarono e al loro posto subentrarono i due Cesari. Il sistema tetrarchico entrò però subito in crisi, poiché nel 306, alla morte di Costanzo Cloro, l'esercito proclamò l'imperatore il figlio Costantino. Era la rivincita del principio dinastico su quello di una successione che privilegiasse considerazioni diverse dai legami di sangue. Anche il figlio di Massimiano Massenzio rivendicò per sé il potere imperiale. Diocleziano si ricorda anche per una violenta persecuzione contro i cristiani, le cui motivazioni profonde sembrano riconducibili alla volontà di rafforzare l'unità dell'Impero anche sul piano religioso. Capitolo 2 – Da Costantino a Teodosio Magno: la Tarda Antichità e la cristianizzazione dell’Impero 1. Un’età di rinnovamento e non di decadenza Due concetti valgono a esemplificare gli aspetti che più di altri sembravano caratterizzare in senso negativo la tarda antichità, quelli di Dominato con riferimento alla posizione dell'imperatore rispetto al sistema, e quello di Stato coercitivo con riferimento a una società in cui la dimensione è tra poche categorie privilegiate e la grande massa dei deboli è sempre più netta. Le implicazioni di queste definizioni, che tengono conto solo di alcune componenti della riorganizzazione dello Stato imperiale, sono eccessive soprattutto se vengono impiegate meccanicamente e ne sottintendono altre, quali quelle di dirigismo e assolutismo. Oggi il pregiudizio negativo sulla tarda antichità può considerarsi superato. L'impero uscito dalle riforme di Diocleziano e Costantino è tuttavia effettivamente diverso rispetto al passato: le esigenze dello Stato per il mantenimento della sua burocrazia e di un esercito imponente sono tali da imporre una più forte pressione sulla società. L'irrigidimento che ne scaturisce investe ogni settore, a cominciare dalla corte, che si organizza secondo un preciso cerimoniale. Il governo dello Stato è diretto da detentori delle più alte cariche civili e militari, secondo rapporti gerarchici che con il tempo si definiscono sempre più precisamente. C'è poi il fatto che l'imperatore non risiede più a Roma, il che comporta il distacco dell'aristocrazia senatoria dagli organismi del potere. L'ordine dei cavalieri scompare e viene assorbito da quello senatorio. Il Senato non ha più un potere reale: le tappe fondamentali della carriera senatoria rimangono, ma si tratta ormai di magistrature che non implicano alcuna capacità decisionale, tanto che il consolato è solo un titolo onorifico. La legislazione è un monumento importante della lotta sostenuta dall'impero per garantire la propria sopravvivenza ed è ancora vitale nelle sue articolazioni fondamentali. La pressione fiscale è certamente un fattore negativo, cui è in parte da ricondursi l’affermarsi del colonato come forma di immobilizzazione della forza lavoro agricola: la risposta si ha nel patrocinium, il patronato rurale dei grandi proprietari sui lavoratori alle loro dipendenze. La società che si viene così formando non è però immobile, perché possibilità di ascesa sociale sono fornite proprio dalle necessità dello Stato, nell'amministrazione come nell'esercito. 2. Costantino Costantino condusse per alcuni anni una politica prudente, che conosce una svolta nel 310 quando abbandona ogni legame con i presupposti ideologici della tetrarchia: egli da questo momento mostra di propendere per una religione di tipo solare e monoteistica. Costantino ebbe la meglio su Massenzio nel 312 nella battaglia del Ponte Milvio sul Tevere alle porte di Roma e poté impadronirsi della città. La conversione di Costantino fu un evento di portata rivoluzionaria, perché significò l'inserimento delle strutture della Chiesa in quelle dello Stato con l'imperatore che si sente abilitato a intervenire nelle questioni dottrinali. La sua conversione al cristianesimo ebbe luogo probabilmente subito dopo la vittoria su Massenzio. Il cinico Costantino non è mai esistito, ma nemmeno il Costantino cristiano quasi da sempre che aspetta solo l'occasione per poter manifestare i suoi veri sentimenti. Ciò che viene definito editto di Milano, in realtà un accordo, è di fondamentale