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Diritto Romano Progredito
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1 RIASSUNTO del libro: “Storia di Roma tra diritto e potere ” di Luigi Capogrossi Colognesi 2014, il Mulino INDICE Cap. 1 LA GENESI della COMUNITA’ POLITICA ................................................................................................ 5 1. Le condizioni materiali nel Lazio arcaico ....................................................................................... 5 2. Villaggi, distretti rurali e leghe religiose ........................................................................................ 5 3. La fondazione di Roma ...................................................................................................................... 6 4. Le strutture familiari e le più ampie aggregazioni sociali ........................................................... 6 5. La città delle origini come sistema aperto ..................................................................................... 7 Cap. 2 LE STRUTTURE della CITTA’ ..................................................................................................................... 9 1. La chiave di volta delle istituzioni cittadine: il “rex”” ..................................................................... 9 2. I “patres” (=padri) ................................................................................................................................ 9 3. Il “populus” (=persone) ..................................................................................................................... 10 4. I consigli sacerdotali ........................................................................................................................ 11 5. I Pontefici ........................................................................................................................................... 12 6. Le radici arcaiche del diritto cittadino ........................................................................................... 13 Cap. 3 I RE Etruschi ............................................................................................................................................... 14 1. Le basi sociali delle riforme del VI secolo.................................................................................... 14 2. La fisionomia della nuova città ....................................................................................................... 14 3. Le prima riforme ............................................................................................................................... 15 4. L’ordinamento centuriato ................................................................................................................ 15 5. Le tribù territoriali e il censimento dei cittadini .......................................................................... 16 6. Controllo sociale e repressione penale ........................................................................................ 17 Cap. 4 Dalla MONARCHIA alla REPUBBLICA ................................................................................................ 19 1. La cacciata dei TARQUINI e la genesi della Costituzione Repubblicana .................................. 19 2. Patrizi e Plebei .................................................................................................................................. 20 3. Le XII Tavole....................................................................................................................................... 21 4. La conclusione di un percorso ....................................................................................................... 23 Cap. 5 Il compiuto disegno delle ISTITUZIONI REPUBBLICANE ............................................................. 25 1. Il Consolato e il Governo della città ............................................................................................... 25 2. Il Pretore e le altre Magistrature ................................................................................................... 27 3. Il Senato ............................................................................................................................................. 29 4. Il popolo e le Leggi ........................................................................................................................... 30 5. La sovranità del legislatore e i suoi limiti .................................................................................... 32 4 1. Il “ius respondendi” e il nuovo ruolo della giurisprudenza ...................................................... 108 2. Giudici e giuristi nella prima età del Principato ......................................................................... 109 3. La matura stagione della scienza giuridica ................................................................................ 110 4. Una lacuna dei giuristi romani? .................................................................................................... 111 5. Memoria e continuità del sapere giuridico ................................................................................. 112 Cap. 18 CRISI e TRASFORMAZIONE ................................................................................................................. 114 1. Diocleziano ...................................................................................................................................... 114 2. Epitomi, antologie e codificazioni ................................................................................................. 115 3. L’opera di Giustiniano..................................................................................................................... 116 4. L’eredità salvata.............................................................................................................................. 117 5 Cap. 1 LA GENESI della COMUNITA’ POLITICA 1. Le condizioni materiali nel Lazio arcaico Il paesaggio in cui si situavano insediamenti di umani, all’inizio dell’ultimo millennio a.C., che poi avrebbe dato origine a Roma ed a altre città latine del Latium ventus, non doveva essere molto diverso da quello odierno, solo più ripido e con maggiori dislivelli. Il territorio si caratterizzava da presenza di boschi e paludi con vasti acquitrini, negli avvallamenti, contribuendo all’isolamento delle comunità umane stabilite. La primitiva economia allevamento di pecore e maiali, delle popolazioni laziali si fondava soprattutto sull’ ma veniva praticata anche una forma primitiva di agricoltura, legata alla coltivazione di farro e orzo; e ad alcuni alberi da frutto come il fico e l’ulivo, mentre la vite assunse rilevanza in età successiva. Le prime forme di circolazione e di uomini si registrano in qsto periodo. Le principali rotte commerciali erano qlle che univano l’Etruria alla Campania, la zona ai piedi del Campidoglio e del Palatino e le vie di comunicazione dal mare verso l’interno. Infatti, il Tirreno era già coperto da una fitta rete di traffici che contribuivano all’intenso flusso di beni tra la zone costiera e l’entroterra: basti pensare alla Via Salaria (a Roma) la via del sale. – Quest’area già dal 1000 a.C. si caratterizzava dalla presenza di numerosi villaggi vicini gli uni agli altri e costituiti da poche capanne. L’aggregazione degli abitanti si fondava su relazioni familiari o pseudo parentali, legate da più o meno leggendarie discendenze comuni. Queste comunità non sempre e non tutte erano disposte a evolversi verso forme cittadine essendo piccole ma numerose e presentando infatti ed difficoltà di 2 tipi: Interne governare la natura (operazione ai temi assai difficile) Esterne difendersi dai nemici 2. Villaggi, distretti rurali e leghe religiose I primi insediamenti arcaici presenti nelle varie località laziali, fonti di informazioni sono le tombe d’epoca arcaica presenti, dove i defunti venivano sepolti con cibo, ornamenti, suppellettili, armi (uomini) e strumenti per tessere (donne). Qsto dimostra, come fosse già diffusa la credenza di una vita ultraterrena. Qste comunità erano unite da vincoli parentali o pseudo parentali, rafforzate dal culto degli antenati e dalla presenza di più o meno circoscritte unità sepolcrali che, non dovevano necessariamente coincidere con le singole unità familiari. Le funzioni di guida della comunità venivano attribuite in base all’età e alla capacità militare. La posizione dominante era attribuita al patres, i più anziani del gruppo e detentori di saggezza e con capacità di guidare la comunità; prendevano le decisioni importanti per la vita della comunità e alcuni di loro assolvevano anche a funzioni religiose. In momenti di pericolo o di crisi, i poteri decisionali e di comando venivano rimandati ad alcuni guerrieri di particolare valore e capacità. Questi piccoli villaggi situavano in un’area molto circoscritta e giacevano pochi centinaia di metri gli un dagli altri, avendo così un fitto e ininterrotto sistema di relazioni tra di essi. La cultura è di tipo comune, con la stessa lingua e cioè il latino. Vi era un interesse economico comune, qllo della gestione e o spartizione dei pascoli e delle terre agricole. Le varie comunità si incontravano anche in occasione di particolari riti religiosi p.es. triginta populi Albenses e attorno a particolari figure come il rex Nemorenis – da notare però che, siamo in un’epoca in cui il “sacro” si identifica con la natura e non con la religione. Verso la metà dell’8 sec. – precisamente nel 753 a.C. vi fu la fondazione di Roma probabilmente ci furono – profonde trasformazioni nell’organizzazione economico-sociale del Lazio primitivo. 6 In questo periodo, si dimostra il sorgere di una classe economica più ricca e con connotati (=segnare) aristocratici, reso possibile da un processo di incremento della popolazione e di uno sviluppo economico. La guerra favorì una distribuzione della ricchezza iniqua, infatti attorno ai guerrieri e ai gruppi familiari più forti si concentrò un numero crescente di seguaci, qsto portò ad accentuare le differenze gerarchiche in termini di forza militare e di ricchezza. Probabilmente fi fu un primo sviluppo tecnologico, passando da una produzione “domestica” dei principali manufatti, a una produzione specializzata; mentre si moltiplicano gli oggetti metallici, la cui realizzazione implicava la presenza di un’elevata tecnologia e di adeguate risorse. Qsto deve aver determinato la nascita di un primo “mercato” di scambio tra prodotti agro-pastorali e manufatti. Quasi certamente vi fu anche un primo sviluppo delle attività agricole. Probabilmente esistevano già dei modi per appropriarsi di beni mobili, animali e forse anche della terra ai singoli soggetti o alle singole comunità e si vengono così a determinare i primi squilibri. Qsti con il passare del tempo, determineranno fenomeni di “sinecismo” dal greco = “abitare insieme”; termine usato per indicare la formazione della città, dall’aggregazione di abitanti sparsi delle minori comunità. 3. La fondazione di Roma In questo contesto appaiono i primi centri insediativi unitari di un certo rilievo che potremmo definire, “città in formazione”, poiché alcuni insediamenti laziali assunsero una fisionomia diversa e più incisiva di qlla dei villaggi dell’età precedente. Il nucleo originario di Roma è da identificarsi sul PLATINO (lo sapevano già di Romani) e infatti è da qsto colle che si ricollegano le leggende più antiche (coppia di gemelli salvati dalle acque del Tevere e la “casa di Romolo”). La storia leggendaria della “fondazione di Roma” – 21 aprile 753 a.C. – comunica l’idea di una “nascita” quasi improvvisa, una nascita come rottura. Infatti, l’espansione cittadina non seguì gli schemi territoriali costituti dai preesistenti collegamenti religiosi. In qsto modo si andò verso la forma della polis e il nucleo politico delle aggregazioni perse progressivamente potere. In qsto modo si determinarono spazi per la vita della comunità, per l’assemblea cittadina, per i luoghi di culto e per la sede del REX: nasce così la politica. A ROMOLO risale la novità organizzativa della città: una “costituzione”, come descrizione di qualcosa che non esisteva prima. Confermato re dal consenso degli dei e dei concittadini, il fondatore definisce la forma sociale e istituzionale della città dividendo il popolo nelle 3 tribù dei Ramnes Tities Luceres; ciascuna suddivisa in 10 curie, suddivise a loro volta ognuna in 10 decurie. Distribuzione finalizzata alla guerra, giacché ciascuna curia avrebbe dovuto fornire alla città 100 uomini armati e 10 cavalieri, dando così vita alla prima legione di fanti e cavalieri. Sebbene la tradizione parli della “nascita” come rottura, in realtà essa raccolse e organizzò, fondendole, le due realtà preesistenti, cioè i villaggi preistorici del PALATINO e del QUIRINALE. Con essi si fusero tradizioni, pratiche sociali, identità preesistenti già in uso e non introdotti dal nuovo Re. Ciò dimostra l’esistenza di una storia tortuosa piena di tensioni e conflitti. Importante, nel sistema territoriale della città primitiva sono la contrapposizione tra: Montes (di carattere urbano) e Pagi (le strutture periferiche). 4. Le strutture familiari e le più ampie aggregazioni sociali Come indica la storia antica e come era l’idea dei greci, la città è il punto di arrivo di un processo di crescita della società umana, dove il suo inizio è da identificarsi nella famiglia naturale: il padre e i suoi diretti discendenti (il nucleo originario); come anche la forma politicamente più compiuta, che è la città. 9 Cap. 2 LE STRUTTURE della CITTA’ 1. La chiave di volta delle istituzioni cittadine: il “rex”” La tradizione antica attesta la presenza di un “rex” (=re), il quale stava al vertice della città primitiva e ne fu anche un fattore dinamico nel processo di unificazione politica. Il suo potere presenta tratti arcaici, fondandosi su un carattere carismatico con una forte accentuazione religiosa. Vi era però, la mancanza del principio dinastico, per cui il figlio non succede al padre. Per cui: da un lato vi era la volontà divina che disegnava il nuovo re –rex innaguratus secondo la tradizione Romolo consultava direttamente gli dei, interpretando i segni favorevoli, mentre il suo successore, anch’egli forse una figura convenzionale, NUMA POMPILIO, ascese alla carica attraverso la solenne cerimonia dell’inauguratio (destinata a persistere nei rituali romani sino a età Imperiale. Dall’altro lato, per designare il nuovo re, c’era un percorso preciso. Il Senato designava un membro che aveva la funzione di interrex e questo designava il nuovo re, successivamente vi era l’inauguratio del nuovo re, e alla fine il nuovo si presentava al popolo riunito nella forma dei comizi curati da lui stesso rex convocati, al fine di assumere di fronte a loro il supremo comando. In questo modo i suoi sudditi e il suo esercito, partecipavano alla nomina con un atto solenne, ma non è chiaro quale fosse il reale ruolo del populus (=con qsto termine si indica in origine l’esercito, solo più tardi verrà utilizzato per indicare la comunità dei cittadini). Il rex era quindi: sacerdote, comandante dell’esercito e garante dell’esistenza e della sicurezza della comunità. Egli era colui che “sapeva” e “diceva” le norme della città e le applicava nei conflitti interindividuali e nelle repressioni delle condotte criminali. Il re era coadiuvato (=appoggiato/affiancato) da una serie di collaboratori istituzionali per cui, difficilmente era solo nella sua azione di governo, in particolare vi era: Magister populi (= comandante militare) che lo poteva sostituire nel comando dell’esercito e a un magister equitum, al comando della cavalleria; Un praefectus urbi (=Prefetto) che lo assisteva nel governo civile della città, questa figura, nel corso del tempo avrebbe aumentato il suo potere, soprattutto nel delicato settore dei giudizi civili e della repressione criminale; il collegio pontificale di cui il re quasi certamente ne faceva parte, che lo assisteva nel ruolo di garante e custode dei mores (=comportamenti), il fondamento consuetudinario del diritto cittadino, e di tutore dell’ordine legale della città. I duoviri perduellionis (=magistrati delitto contro lo stato) e i quaestores parricidi (=Questori con poteri – giudiziali) erano competenti per la repressione di alcuni reati di particolare gravità. Vi sono precisi riferimenti circa l’esistenza di leges regiae (=leggi del re), addirittura riferibili ai singoli re che si successero a Roma. In origine è improbabile che il rex, analogamente al Magistrato repubblicano, sottoponesse formalmente all’approvazione dell’assemblea del popolo una sua proposta, mentre è più probabile che la regola applicata per risolvere un litigio tra cives divenisse statuizione (=introduzione di un ordine) destinata a vincolare tutti i membri della comunità cittadina. Si trattava di solenni pronunce del rex di fronte all’assemblea cittadina, unica garanzia di pubblicità in un’epoca in cui la scrittura era quasi inesistente e non c’era altro che la memoria individuale e collettiva. Ultimo ruolo del re era quello di che, gli permetteva di scandire la vita cittadina. Infatti, i custode del tempo Romani non conoscevano ancora un calendario fisso per cui, i periodi e le “date” del calendario erano definite secondo un sistema mobile e variante di divisione dell’anno, che serviva a stabilire tutte le scadenza della vita cittadina. Ciò avveniva agli inizi di ogni mese, dinanzi ai comizi convocati dal Pontefice (in appositi giorni predeterminati), dove il re indicava le scadenze del mese, con i giorni fasti e nefasti (=giorni in cui era possibile/non possibile trattare gli affari pubblici e privati nell’antica Roma). 2. I “patres” (=padri) Un ristretto consiglio di anziani aiutava il rex e dall’assemblea del popolo. Con la morte del re – auspicia ad patres redeunt (=gli auspici sacerdote - tornano al padre)– , ciò significa che il potere tornava ai patres. Alla morte del re, si apriva una fase di interregnum che, era esercitato da 10 membri del Senato (=senatus da senes, anziano), per 5 giorni ciascuno, dopo i primi 50 giorni si deve supporre che il comando passasse a un altro collegio di 10 patres, se anc ora non c’era la designazione di un nuovo re. Quel redeunt (=ritorno), si può spiegare considerando l’antico potere dei patres della gente e quindi la legittimazione stessa di quel Senato che, ci fa capire il suo ruolo e la sua legittimazione per tutta l’età monarchica e repubblicana, se non oltre. Il termine patres e il nuovo (recente) termine senatus (senes = anziano) evocano l’idea i rispettivi ruoli che questi due termini rappresentano e cioè il carattere patriarcale della società romana. Sono dunque, l’assemblea degli anziani “patriarchi” delle varie gentes, che oltre al potere dell’interregum (=interregno = 10 La condizione politico-amministrativa corrispondente all'intervallo fra due successivi governi monarchici) che questi collaborano con il rex. L’appartenenza a questo collegio. I gruppi, dai quali vengono eletti i patres godono di una superiorità sociale. Ma, non si deve parlare di forme di “rappresentanza politica”, in quanto questa categoria è estranea all’esperienza romana e per le età seguenti. Vi è la tesi, sostenuta anche da diversi studiosi che, i Senatori non si identificassero nei capi della gentes. Questo perché, il numero dei patres era artificiale prima 100, poi 150, poi 200 e alla fine 300 membri – – e difficilmente alle origini di Roma vi era questo numero di gentes. Inoltre, non vi sono le prove che, ogni gentes fosse sottoposta al potere di un pater o princeps gentis. Invece, fonti antiche attestano che, la preminenza, nel corso di ogni generazione di alcuni personaggi particolari che magari emergevano, in ogni generazione, all’interno delle varie gentes; per linguaggio o ricchezza o per le proprie azioni. Il rex sceglieva più o meno liberamente i membri del Senato. I paters e probabilmente le varie gentes esprimevano un numero maggiore o minore di Senatori a seconda del loro peso all’interno della civitas. Il rex aveva un forte ruolo di mediazione ed è probabile che, la scelta dei Senatori contribuisse a definire un nuovo gruppo familiare emergente. 3. Il “populus” (=persone) La divisione fondamentale della popolazione prevedeva 3 tribù, formate da 10 curie e ognuna composta da 10 decurie. GALLI sec. d.C., citando un autore repubblicano, spiega la differenza tra questa divisione e il successivo – 2 sistema centuriato, in particolare: sistema curiato fondato sui “genera hominus” e cioè, sulla discendenza e sui lignaggi (=Stirpe o discendenza, per lo più considerata in relazione all'appartenenza a un ceto sociale, spec. se elevato). Si è di una curia perché vi appartenevano i propri antenati; ordinamento centuriato era fondato sul censo (=Nella Roma antica, censimento dei cittadini, dei loro beni e redditi) e sull’età dei suoi membri. Vi era l’idea, di appartenenza alle curie sulla base dei vincoli di discendenza che, si accorda con la possibilità di un passaggio diretto in esso di strutture preciviche. In epoca storica, le cure mostravano una loro fisonomia, (non erano semplicemente gruppi di popolazione) particolarmente in ambito religioso. Vi erano culti privati delle singole curie, con appositi sacerdoti; come anche i sacra gentilicia: (=comunità) anche se i sacra publica pro curiis (=il Senato dello Stato) con il tempo divennero parte della religione cittadina. Nella prima costituzione romulea l’organico dell’esercito romano era dato dalla somma dei contingenti che ciascuna curia doveva fornire. Proprio la rilevanza di queste curie e attraverso di esse, le strutture gentilizie, hanno favorito l’idea che, il primitivo esercito romano si organizzasse secondo forme tipiche aristocratiche in un sistema “cavalleresco”. Il popolo riunito nel comizio curiato, cioè tutti e solo i maschi adulti, partecipavano all’investitura del nuovo rex inauguratus e, secondo DIONIGI di ALICARNASSO 60 a.C., alla designazione dei Magistrati ausiliari del rex. Appare che, il popolo sia più atto a ricevere la notizia di delibere, che non ad approvare con voto i provvedimenti proposti. Davanti ai comizi si compiva una serie di atti “privati”, che incidevano sulla composizione interna delle organizzazioni familiari e gentilizie. Basti a pensare che, per tutta l’età Repubblicana, l’opinione degli antichi comizi era fondamentale, in quanto questi si riunivano a presenziare e ad approvare l’adrogatio , con il quale un pater familias si assoggettava volontariamente alla potestas di un altro padre assumendo a tutti gli effetti la condizione di figlio, Nello stesso modo si effettuava la forma più arcaica di testamento, come anche tutti quelli atti che modificavano la condizione delle gentes o quelli relativi all’ammissione di uno straniero o di un gruppo interno. Altresì, tutte le attività che incidevano sulla vita delle cure o che le riguardavano, venivano eseguite mediante l’inauguratio dei sacerdoti maggiori, il rapporto del populus Romanus e con la divinità della presenza solenne del comizio. Ciò determinata una forma di controllo importante ma limitato perché: da un lato queste assemblee non dovevano avevano il potere di esprimere la volontà della città, di modificare le decisioni prese dagli organi del governo cittadino: rex e patres. Anche se, in merito alle delibere di interesse generale, come per la pace e la guerra, il parere dell’assemblea doveva rafforzarsi. Dall’altro alto l’assemblea poteva esprimere la sua approvazione o dissenso, senza mai arrivare a un foto formale. Ivi per cui era la sede d’espressione e di verifica di quel consenso, sulla quale si fondava la legittimità del rex. Si ricava dunque, che, sin dall’inizio vi era una comunità politica e non un insieme di sudditi, soggetti a un volere superiore ed estraneo. Infatti, verso la fine della Monarchia è possibile che, i comizi curati siano 11 giunti a esprimere formalmente il loro voto, almeno per alcuni aspetti specifici. In tal coso, la decisione era presa dalla maggioranza delle 30 curie. 4. I consigli sacerdotali I tre organi costituitivi della città erano: rex patres e populus. Vi è una continuità con il mondo pre-civico e questo si osserva maggiormente nella sfera religiosa, in quanto la struttura portante era costituita da diversi collegi sacerdotali, già presenti in età monarchica. Molti sono i filoni religiosi, presenti nella società romana arcaica, i quali sono confluiti in essi (consigli sacerdotali). La sfera religiosa della società romana arcaica era ampia e comprendeva: i culti dei PENATI e dei LARI propri di ogni famiglia e di competenza del pater familias ; i culti delle gentes, delle curiae o di aggregazioni più ampie, anche della città stessa e i culti della città. In età preistorica, vi erano una notevole serie di divinità che accompagnavano i Romani in ogni aspetto della vita e in ogni periodo, e a ciò si collegava tutta una serie di collegi e consorterie religiose. Tra i più antichi di questi collegi vi sono: i Luperci Quinctiani e i Fabini che presiedevano all’importante rito dei lupercali che, era evocativo degli arcaici legami territoriali di alcune comunità pre-civiche. Il collegio dei Salii una specie di sacerdoti-guerrieri, impiegati in singolari rituali di tipo magico- animistico; Il collegio dei Fratres Arvales che, sovrintendevano al culto dell’antichissima dea Dia. In una fase successiva acquisterà notevole rilevanza il collegio dei Flamines anche questo antichissimo, con una particolare fisionomia. Ciò è particolarmente evidente nei 3 flamines maiores: DIALIS, MARTIALIS e QUIRINALIS, legati al culto della divinità e che solo in parte furono inseriti nel Pantheon cittadino. Tutte queste realtà erano estranee al rex e che la città stenta a farle proprie ed erano poste ai margini della città. Infatti, il nucleo centrale della religione cittadina si costituì da una fusione di elementi arcaici e nuovi. Questo processo, porterà alla sostituzione delle 3 supreme divinità arcaiche quali: GIOVE, MARTE e QUIRINO, GIOVE, GIUNONE e MINERVA, con quelle della religione olimpica costituita dalla triadi di: il cui culto si svolge sulla “roccaforte” della città: il CAMPIDOGLIO, in un grande tempio appositamente costruito. Un altro culto dalle radici antichissime, ma centrale nella vita della città era il culto di Vesta affidato a delle sacerdotesse che godevano, già in età tardo repubblicana e imperiale, di condizioni sociali elevatissime. Queste avevano il compito, oltre che a partecipare a importanti festività, di custodire il fuoco sacro, che deve rimanere accesso continuamente e dell’acqua. Questo culto rappresenta: da un lato si fonda su un simbolismo che rinvia all’età precivica (infatti la REA SILVIA, la madre di ROMOLO e REMO era consacrata a VESTA); dall’altra l’integrazione di questo culto è attestata dalla dipendenza delle VESTALI dal rex: in un rapporto di dipendenza di tipo familiare, sostituito poi in epoca repubblicana, dal legame con il Pontefice. Altro collegio religioso che assolse un ruolo di grande rilievo, anche oltre l’età regia, e cioè quello del Collegio dei Feziali, i cui compiti erano circoscritti alle relazioni internazionali. Era un sacerdozio che, costituiva il sistema di comunicazione formale tra Roma e le altre comunità. A capo, vi era un collegio di 20 membri nominati a vita, dove al suo interno un pater patratus doveva tradurre le decisioni politiche prese, rispettando la forma dell’ordinamento romano, rispettando la validità degli atti internazionali. Ogni richiesta rivolta a popoli stranieri o da questi a Roma, doveva avvenire a mezzo di questi canale. Solo attraverso i Feziali cluderla con una pace legittima. Tale si poteva dichiarare una guerra “giusta” e al suo termine, con sistema non andava a incidere direttamente sulla sostanza dei rapporti internazionali di pertinenza del rex e dei rispettivi detentori del potere di guerra e di pace, ma ci si limitava a tradurre le decisioni politiche nella forma richiesta dall’ordinamento romano per validità degli atti internazionali. Attraverso il loro rigido formalismo la pretesa diventava giusta in quanto legittima. In questo modo: si costituì un primo nucleo di diritto internazionale e anche privato (rapporti tra cittadini di diverse città) e si comprese che, il diritto non era limitato alla sola città. Gli antichi Romani, così come molti altri popoli, cercavano di interpretare la volontà degli Dei per regolare la vita sociale e prendere decisioni, per cui è probabile che, il Collegio degli Auguri, avessero già delle origini antichissime. Il Collegio degli Auguri, era molto potente e prestigioso, composto da 3 membri (successivamente divennero 9), che venivano scelti e per molto tempo, furono solo patrizi. 14 Cap. 3 I RE Etruschi 1. Le basi sociali delle riforme del VI secolo Numerose sono le narrazioni storiche che, nei primi secoli, salirono al potere una serie di Re di origini etrusche. Questi esercitarono una forte modernizzazione sull’apparato politico-istituzionale, anticipando così alcuni tratti di quello che poi diventò il sistema repubblicano. Tali trasformazioni furono possibili a causa della crescita politica e sociale di Roma, diventando poi alla fine del 7 sec. una delle principali città del Lazio, sia per dimensione che per abitanti (popolazione). Parallelamente agli sviluppi politico-militari che hanno permesso a Roma di espandersi, si devono considerare altri fattori: L’accresciuta importanza delle forme di proprietà individuale Espansione delle attività artigianali e mercantili; permettendo gli scambi di beni e la circolazione del bronzo come unità di misura e valore di pagamento. Infatti, proprio sotto il re si arriverà alla certificazione pubblica del peso della qualità del bronzo - SERVIO l’aes signatum (= il bronzo marcato). Sotto i re di stirpe etrusca, si ebbe uno sviluppo della città che rese possibile un incremento delle grandi opere pubbliche p.es. bonifica dei Fori, costruzione della Cloaca Massima, Tempio dedicato alla de tria Capitalina. Tali opere richiesero un accresciuto fabbisogno di manodopera urbana, così come una massa crescente di popolazione, composta anche da stranieri, che si concentrarono in città. Queste nuove popolazioni si trovarono a doversi inserire in un sistema chiuso delle curie, si vennero così a creare nuovi gruppi sociali e nuovi ceti, organizzandosi in nuove forme di gentes; caratterizzati da tratti di fisionomia individuale e in piccoli nuclei di familia proprio iure. Si verificò dunque: da un lato una crescita di stati sociali estranei al sistema gentilizio costituiti da piccole unità ai margini dell’economia cittadina, sia da strutture familiari importanti per consistenza economica, in grado di prendersi uno spazio autonomo della città. Dall’altra si verificò un processo di disgregazione delle gentes, dovuto alle tendenze di singole famiglie o lignaggi (=casata/stirpe) e alla rottura dei vincoli di dipendenza dei clienti arcaici, sia per la loro emancipazione economica, sia per l’estinzione di alcuni gentes. Tutti questi elementi portarono ad un avvicinamento al sistema gentilizio da parte di questi cittadini estranei. La famiglia romana, con il pater che aveva la potestas sui suoi discendenti, si prestava benissimo a trasmettere le conoscenze tecniche necessarie per imparare un mestiere, questo dovuto anche dal fatto che, alla morte del pater, i discendenti maschi avrebbero formato ognuno una propria famiglia. Ciò contribuì a separare il mondo aristocratico (= gentes) dalla restante cittadinanza. Tale distinzione porterà nella prima età Repubblicana a distinguere tra: patrizi e plebei. Il clan dei patrizi presentavano un carattere “più aggregato” e meglio evidenziato, rispetto ai gruppi sociali che poi avrebbero dato origine alla plebe. Questi ultimi (plebe), in un primo mento, erano privi di una loro specifica identità, potendosi definire in termini negativi come “non patrizi”. La crescita economica del 6 sec. a.C., come spesso è avvenuto nella storia, accentuò i dislivelli sociali. 2. La fisionomia della nuova città Roma si vide protagonista di profonde trasformazioni politiche e istituzionali nel corso del 6 sec. a.C. I protagonisti ne furono una serie di re d’origine etrusca, portatori di un diverso e più elevato livello culturale rispetto alle società del Lazio primitivo, portandola a una grande crescita economica e a uno splendore culturale della loro civiltà. Questi cambiamenti (mutamenti) coincidono con un avvicinamento di Roma alle potenti città etrusche, senza una subordinazione politica. L’alleanza con Roma, da parte degli Etruschi era vista come una cosa “preziosa”, i quanto questi ultimi volevano spandersi verso la Campania, facendone un punto d’appoggio importante strategico per le diverse città latine ostili. Stando a fonti unanime, il potere dei nuovi re si accentuò sia nella sostanza che nella sua rappresentazione simbolica. Questo potere era: Irregolare naugurato (=inaugurato) perché, secondo i vecchi canoni, era difettoso per l’assenza dell’i o della procedura dell’interregum (=governo transitorio) o della presentazione ai comizi curati; basato sulla spinta militare e consenso popolare con un carattere autoritario del loro comando, compensato però, da un appoggio del popolo; 15 simbolico riferito alla sovranità e comando, derivante (quasi tutte) dal mondo etrusco, come p.es. la corona d’oro o di alloro, la toga purpurea, le calzature rosse, il trono e lo scettro d’avorio e la guardia dei littori armati dei fasci e della scure. Simboli solenni che riappaiono nel corso di tutta l’età Repubblicana in occasione della cerimonia del trionfo, con l’esaltazione del ruolo militare. Essi evidenziano quel potere supremo di Governo che, la Repubblica erediterà dai re Etruschi, indicando con il termine imperium, termine estraneo ai primi re latino-sabini. I fondamento popolare dei re Etruschi, fu a la condizione per la realizzazione di una prolungata e incisiva politica di riforme. I vecchi rapporti tra res e ordinamento gentilizio e curato furono sostituiti dalla centralità della ricchezza individuale e dalla proprietà privata. A riguardo è bene ricordare che, la proprietà, nel Diritto Romano era attribuita soltanto ai pater familias con il paradosso che, il filius familia poteva anche assumere rilevanti cariche politiche (sfera pubblicistica), ma i beni rimanevano comunque al pater (sfera privatistica). 3. Le prima riforme In riferimento ai processi sopra descritti, 2 sono le riforma avviate da : TARQUINIO PRISCO L’ampliamento del Senato l’incremento del numero dei patres da 200 a 300 fu necessario per poter avere un consenso forte e leale. I nuovi Sentori, secondo LIVIO, sarebbero stati un partito sicuro del re, per il favore del quale erano entrati nella curia. E’ comunque certo che, una riforma del genere porti al rafforzamento quantitativo dei gruppi al vertice della società romana. A rendere memorabile la vicenda non fu il fatto della nomina di nuovi membri del Senato tratti da lignaggi o da gentes di recente formazione o migrazione, ma la quantità: un blocco di 100 casi insieme. Tant’è che, esso no si fuse con i patres preesistenti, ma diede origine a un nuovo gruppo sociale, probabilmente anch’esso annoverato tra i patrizi, ma di minor rango e indicato come minores gentes – “genti minori”. Per capire questa riforma occorre considerare che, la differenza tra una gens di una famiglia numerosa e magari anche ricca e potente, era data dall’inserimento ad opera del res, di un suo membro nei ranghi del Senato (il punto di non ritorno). Per cui con TARQUINIO PRISCO, si ha il riconoscimento in blocco di un centinaio di gentes (anche se minori). L’ampliamento della Cavalleria l’idea era quella di aggiunger una nuova centuria di celeres (=veloci) alle 3 già esistenti, in questo modo: si allargava l’esercito e la cavalleria la vecchia aristocrazia gentilizia rischiava di perdere il suo ruolo preminente nell’esercito a favore di altri gruppi. Per questo ci fu l’opposizione dell’aristocrazie rappresentante, in questo caso dell’augure ATTO NAVIO. Questo indusse il re ad aggira (=100 soldati) di re l’ostacolo raddoppiando le 3 antiche centurie celeres. Questi interventi da una parte rispondevano a esigenze tattiche, dall’altra avevano una portata più ampia, mirando al superamento delle stesse tribù romulee con l’inserimento al vertice dell’esercito di gruppi non appartenenti alla vecchia aristocrazia gentilizia. Il successore di , con la sua grande riforma, riuscì a potenziare TARQUINIO PRISCO SERVIO TULLIO l’esercito sia nel numero dei fanti, sia dal punto di vista dell’equipaggiamento (da considerare che, i cittadini dovevano armarsi a proprie spese). Ciò fu possibile grazie all’espansione economica della città e alle ricchezze accumulate dalla popolazione. Una parte della dottrina dubita però di questo ruolo istituzionale. 4. L’ordinamento centuriato La riforma di , determinò il passaggio da un soldato dotato soltanto di armi offensive al SERVIO TULLIO modello dell’opites (dal greco), cioè uno schieramento compatto di soldati dotati di armi offensive e difensive (scudi e armature), questo comporta: maggiori livelli di ricchezza individuale maggiore tecnologia soprattutto nella lavorazione dei metalli. La guerra non era più riservata alle singole gens come p.es. nel 477 a.C. i partirono contro FABI VEJO e persero sul fiume Cremera. Nasce così il “cittadino” in quanto guerriero, dovuto dalla nuova organizzazione militare, in quanto tutti gli individui vennero suddivisi in un certo numero di distretti detti “centurie” (=unità della legione romana composta di cento soldati; denominazione accolta in seguito anche per gli organici di alcuni eserciti o formazioni paramilitari), che avrebbero sostituito le antiche curie, centurie furono a loro volta dovendo anch’essi fornire 100 fanti alla legione. Le raggruppate in 5 classi, sulla base dei diversi livelli di ricchezza della cittadinanza. Dopo un lungo e complesso processo organizzativo, che si è completato solo in età repubblicana, lo schema classico dell’ordinamento centuriato era composto da 193 centurie. 16 Se da prima la distribuzione dei cittadini avveniva per classi basate solo sul calcolo della ricchezza fondiaria, successivamente, si fece riferimento al valore definito della moneta romana di base: l’asse. La ricchezza andava da 100.000 assi per la 1 classe a 10.000 per la 5. La 1 classe doveva fornire all’esercito 18 centurie di cavalli, 40 centurie di iuniores (cittadini tra i 18 e i 46 anni) e 40 centurie di seniores (soldati più anziani che facevano da riserva); la 2 ,3 e 4 classe fornivano all’esercito 10 centurie di iuniores e seniores; la 5 classe forniva all’esercito 15 centurie di iuniores e seniores. A queste 188 centurie si devono aggiungere ancor 5 centurie: - parati, ai fini del voto, alle centurie di 1 classe; 2 di soldati del “genio”, di tecnici equi - 2 centurie di musici equiparate, ai fini del voto, alle centurie di 4 classe e - 1 centuria di capite censi, nel quale erano inclusi tutti i cittadini rivi di qualsiasi capitale e senza specializzazione. Certamente, l’antico patriziato in origini doveva essere ben presente anche nelle classi più elevate delle centurie di fanteria, infatti molte famiglie delle gentes patrizie disponevano della ricchezza fondiaria richiesta per l’appartenenza ari ranghi più alti dell’esercito centuriato. Tuttavia, alle prime classi di centurie dovevano far parte anche molti esponenti di famiglie non patrizie. Il dominio dei patrizia, in questa nuova organizzazione restava forte, ma non era più assoluta. La città serviana non esprimeva una società più democratica o paritaria, ma un nuovo tipo di gerarchia. Successivamente l’ordinamento centuriato si estese dall’originaria sfera militare alla dimensione politica, il voto dei membri delle prime classi di centurie era ben più “pesante” e importante di quello degli altri cittadini. E’ probabile che, anche dopo l’età di SERVIO, la svolta ebbe come finalità unicamente aspetti propriamente militari e che fosse una mera introduzione delle sole centurie di juniores, cioè l’organico dell’esercito. In tal caso, diventa evidente la logica seguita da , il quale avrebbe mirato a un semplice raddoppiamento SERVIO della legione ordinaria di 3000 fanti. Solo gli appartenenti alle prime 3 classi erano forniti di un armamento pesante, adeguato alla fanteria oplitica (da fonti di ). Gli armati delle centurie inferiori s presentavano semplicemente come LIVIO e DIONIGI ausiliari dei primi. In effetti queste 60 centurie, corrispondono ai 6000 armati, cui era pervenuta quell’antica legione romana c he, ai tempi della monarchia etrusca, costituiva tutto l’esercito della città. Questa ricostruzione coincide con la distinzione, che era fatta all’interno della popolazione e cioè: tra “classis”, come l’esercito era allora chiamato e l’”infra classem”, categoria costituita da color che erano ai margini dell’esercito, con funzioni ausiliari. Solo in seguito, nell’epoca dei Consoli, questa legione originaria sarà sdoppiata, senza però che ciò comportasse un ascuna legione avrebbe, infatti, continuato a l’ulteriore raddoppio dell’organico militare. Ci comporsi di 60 centurie, ridotte peraltro dai 100 uomini originari a 60 o anche a 30, a seconda della qualità degli armati e della diminuita consistenza numerica delle legioni stesse; si privilegiava però unità militari più numerose e agili. La popolazione romana alla fine dell’età monarchica poteva assicurare un esercito di 6000 fanti, perché l’estensione del territorio di Roma raggiungeva dimensioni notevoli, contando ca. 80.000 cittadini. Non sapendo, quand ropria o l’organizzazione centuriata dell’esercito si sia tradotta anche in una vera e p assemblea politica, anche se non si può escludere che, questa innovazione sia avvenuta sotto i re Etruschi, ma è più probabile che sia avvenuta all’inizio della Repubblica, quando il popolo riunito per centurie e comizi centuriati, furono chiamati a eleggere i Magistrati cittadini. 5. Le tribù territoriali e il censimento dei cittadini La riforma dell’esercito implica la conoscenza della ricchezza per determinare la classe di appartenenza dei singoli cittadini, per fare ciò era necessario di uno strumento adeguato e non a caso risale a SERVIO l’introduzione del censimento. La conoscenza della struttura e relativa consistenza patrimoniale della cittadinanza permetteva così di la distribuzione dei cittadini in varie classi di centurie. Egli suddivise la cittadinanza in tribù territoriali in sostituzione delle vecchie tribù dei: Ramnes Tities Luceres con proprie divisioni amministrative, le quali dovevano fornire alle varie centurie i contingenti militari, come anche il mantenimento necessario. Sulle tribù gravava così un onere di un tributo tassazione – – tributum a tribus (=primitiva forma di tassazione), la quale veniva comparata alla grandezza delle proprietà dei singoli cives e avente scopi bellici. 19 Cap. 4 Dalla MONARCHIA alla REPUBBLICA 1. La cacciata dei TARQUINI e la genesi della Costituzione Repubblicana Incisivo fu l’appoggio di Roma nei confronti della politica di espansione degli etruschi verso la Campania, la quale ebbe un arresto nel 6 sec. a.C., dovuto a delle sconfitte da parte dei Latini alleati dei Greci (i Cartaginesi alleati degli Etruschi combattevano contro i greci per il controllo del Tirreno). Questo contesto internazionale provocò forti squilibri interni a Roma e permise un vero e proprio “colpo di Stato” da parte dell’aristocrazia romana che, non solo estromise dal trono TARQUINIO il Superbo, ma cancellò anche la monarchia. Svolta che si colloca nel 509 a.C. Anche l’inizio della crisi economica e l’indebolimento delle forze produttive del 5 sec. pesarono su Roma. Tra l’altro, ci fu una stagnazione numerica dei cittadini romani, come anche una diminuzione dei territori già acquisiti e rientranti nell’ambito d’influenza; per cui è facile immaginare che riprendessero forza le forme sociali ed economiche più arretrate le gentes barricate nei loro possessi territoriali. I primi anni della REPUBBLICA furono caratterizzati da una fisionomia incerta e da gravi difficoltà internazionali, infatti Roma: dovette fronteggiare la reazione etrusca, a favore dei TARQUINI. Con certezza, il capo degli etruschi CHIUSI, PORSENNA, conquistò militarmente Roma, però questo successo non portò al ripristino di TARQUINIO. Anche dopo la caduta dei TARQUINI, Roma rimase per lungo tempo ancora legata alla sfera d’influenza degli etruschi. Infatti, per un periodo Roma si trovò isolata, dato che anche le altre città latine erano nemiche degli Etruschi. Ma proprio l’alleanza con gli Etruschi permise a Roma di difendere la sua precedente preminenza e ora contestata dai LATINI. La solidità di Roma, era una cosa già acquisita, questo ne dette prova il fatto con cui reagì militarmente all’ostilità latina, pervenendo positivamente e rinnovando un’antica alleanza con il Foedus Cassianum (=fu un trattato di pace stipulato nel 493 a.C. tra Romani e Latini) prendendo il nome da , il quale nel 493 a.C., SPURIO CASSIO dopo aver guidato gli eserciti romani nella guerra contro i Latini riuscì a concludere con essi una pace duratura. L’aristocrazia aveva cacciato il rex, riconquistando così una supremazia. Già dopo i primi anni della nuova forma di , le REPUBBLICANA gentes patrizie cercarono di tirare a proprio vantaggio canali sociali e di ascesa politica, quelli che, avevano funzionato nell’età precedente e che gli permisero la presenza in Senato (forse già in età monarchica), di un gruppo di conscripti 1(=gli arruolati, non per diritto di nascita), accanto ai patres. Tale chiusura segnò nel tempo l’inizio di una crisi lenta e inevitabile a danno dei momentanei vincitori. Per altro i vincitori, già dall’inizio, trovarono un limite nella loro reazione e cioè l’impossibilità di un semplice ripristino della situazione anteriore all’età serviana, la quale avrebbe causato un pericolosissimo indebolimento della città. Infatti, un ritorno alla situazione originaria avrebbe comportato un vero e proprio collasso dell’apparato militare in un momento di massima necessità di difesa. Allo stesso modo, non si poteva neanche ripristinare l’originaria figura del “re sacerdote”, invalidando il rafforzato imperium dei re etruschi. L’aristocrazia gentilizia puntò quindi, a indebolire le riforme serviane, andando a circoscrivere, senza però depotenziare, il vertice del Governo cittadino e cioè la soppressione del vitalizio della carica suprema di Governo, sdoppiandolo con 2 Consoli eletti annualmente, realizzando così un perfetto equilibrio, salvaguardando anche il forte carattere militare assunto dal comando supremo in età etrusca. Con questa operazione si realizzarono le promesse per un permanente spostamento del baricentro politico a favore dell’altro organo di Governo cittadino il SENATO. I primi 50 anni del nuovo sistema repubblicano sono forse quelli più oscuri e ricchi (pieni) di interrogativi di tutta la storia di Roma, perché le notizie di questo periodo sono lacunose e contradditorie. Incerti sono anche le liste di magistrati eponimi , chiamati 2 “Fasti”3 dai Romani (compaiono fino al 486 a.C. ca.), accanto a nomi di Consoli patrizi, vi sono elencati anche quelli di Magistrati plebei. Poi, questi ultimi 1 I conscripti, stando ai significati del latino storico, sono effettivamente gli 'iscritti, arruolati', in genere in un gruppo, in un esercito, tanto è vero che il termine è arrivato fino a noi col significato di 'soldato di leva appena arruolati (www.terremarsicane.it) 2 L'eponimo è un personaggio, sia esso reale o fittizio, che dà il suo nome a una città, un luogo geografico, una dinastia, un periodo storico, un movimento artistico, un oggetto o altro (www.treccani.it) 3 Nell’antico calendario romano, i giorni dell’anno in cui la trattazione degli affari non era vietata da impedimenti di carattere religioso. Per estensione, il termine passò a indicare lo stesso calendario ufficiale romano (nel quale erano distinti i giorni «fasti» e quelli «nefasti»), e, poiché il calendario era di solito accompagnato dalla lista dei magistrati eponimi, si dissero “ consolari” le liste dei consoli (poi anche, per analogia, “trionfali”, le liste dei trionfi dei generali (www.treccani.it) 6. Le radici arcaiche del diritto cittadino I 2 concetti: Ius inteso in modo diverso rispetto a come viene concepito oggi Fas inteso come norma religiosa si ricollegano a quel processo che da una pluralità di fonti, pratiche, idee delle singole comunità, ha portato alla nascita del blocco culturale-giuridico-religioso della città. Questo processo è stato agevolato dall’assomiglianza delle istituzioni delle varie comunità.(in esso coinvolte) e dal patrimonio culturale delle gentes, presenti ancora in età storica, come p.es. l’antichissimo culto solare degli AURELI o quello a VENERE delal gens Iulia, così come sembra che i FABI e i QUINCTII fossero i titolari originali della cerimonia dei LUPERCALIA. Tutte le tradizioni erano sicuramente un punto di collegamento tra il mondo cittadino e le antiche tradizioni laziali, anche perché, la sfera religiosa è quella che, per sua natura, resiste meglio alla forza devastante del tempo. E’ anche ovvio, che il gruppo sopravvissuto osservi la propria cultura e i rituali della gentes. Informazioni in merito alle altre forme culturali e rituali proprie delle gentes sono poche e frammentarie, ma testimoniano il passaggio di gran parte del contenuto culturale dei vari gruppi minori nelle nuove istituzioni cittadine. In questo modo si venne a costituire un corpo omogeneo e condiviso da tutta la città di istituzioni che, regolavano la vita della comunica, come: il Governo lo sfruttamento della terra e degli altri beni essenziali i criteri che regolavano il matrimonio e i sistemi familiari la divisione del lavoro collegata da una parte alle classi di età, dall’altra al sesso 13 la successione ereditaria il disciplinamento dei rapporti di dipendenza il controllo sociale dei comportamenti individuali pericolosi per il gruppo. Trattasi dunque, di una totalità di pratiche sociali, dove il legame di sangue, la presenza di norme giuridiche, si presenta come qualche cosa di inseparabile. Tutto questo, come un antico patrimonio, diventato importante (e istituzionale) per la citivas e ne definì anche la loro identità politico-culturale, come p.es. la lingua le sue rappresentazioni ideali i sistemi di organizzazione sociale le sue gerarchie sociali, la sua religione e il suo diritto. Le tradizioni, rimaste all’interno di ciascun gruppo della comunità, riuscirono a sopravvivere solo e nella misura in cui non violavano, contraddicessero o minacciassero il sistema unificato dei valori condivisi. Certamente che, già prima che Roma avesse origine, gli uomini che la costituirono sapevano già come si nasceva, ci si accoppiava e si allevavano i figli, si godeva dei frutti del proprio lavoro e infine, si moriva. Nessuno di questi fatti era un verificare materiale, ma ciascuno di essi e tanti altri, comportavano un insieme di conseguenze, all’interno di un sistema che era anche culturale; essendo essi stessi subordinati a pratiche e riti. Tali fatti rituali, con il tempo divennero elementi con carattere “giuridico”. Per cui il primo ordinamento aveva questi contenuti, anche se altri ne rimasero fuori e non si conosceva le motivazioni. A questo punto, bisogna immaginarsi uno Stato, dove il diritto è concepito come qualche cosa di preesistente e il legislatore interviene solo a apporre modifiche o innovare singoli punti. Come fondamento vi sono i Mores punto di partenza di tutta la storia del diritto romano, mentre l’importanza dei Pontefici e il ruolo rivoluzionario del rex stanno nell’aver segnato il passaggio dalla pluralità di istituzioni “locali”, a un corpo unitario, non immaginando che l’esistenza di questo potesse dipendere dall’atto normativo del Sovrano, concepito invece, come il depositario e garante di un patrimonio antichissimo. simbolico riferito alla sovranità e comando, derivante (quasi tutte) dal mondo etrusco, come p.es. la corona d’oro o di alloro, la toga purpurea, le calzature rosse, il trono e lo scettro d’avorio e la guardia dei littori armati dei fasci e della scure. Simboli solenni che riappaiono nel corso di tutta l’età Repubblicana in occasione della cerimonia del trionfo, con l’esaltazione del ruolo militare. Essi evidenziano quel potere supremo di Governo che, la Repubblica erediterà dai re Etruschi, indicando con il termine imperium, termine estraneo ai primi re latino-sabini. I fondamento popolare dei re Etruschi, fu a la condizione per la realizzazione di una prolungata e incisiva politica di riforme. I vecchi rapporti tra res e ordinamento gentilizio e curato furono sostituiti dalla centralità della ricchezza individuale e dalla proprietà privata. A riguardo è bene ricordare che, la proprietà, nel Diritto Romano era attribuita soltanto ai pater familias con il paradosso che, il filius familia poteva anche assumere rilevanti cariche politiche (sfera pubblicistica), ma i beni rimanevano comunque al pater (sfera privatistica). 3. Le prima riforme In riferimento ai processi sopra descritti, 2 sono le riforma avviate da : TARQUINIO PRISCO L’ampliamento del Senato l’incremento del numero dei patres da 200 a 300 fu necessario per poter avere un consenso forte e leale. I nuovi Sentori, secondo LIVIO, sarebbero stati un partito sicuro del re, per il favore del quale erano entrati nella curia. E’ comunque certo che, una riforma del genere porti al rafforzamento quantitativo dei gruppi al vertice della società romana. A rendere memorabile la vicenda non fu il fatto della nomina di nuovi membri del Senato tratti da lignaggi o da gentes di recente formazione o migrazione, ma la quantità: un blocco di 100 casi insieme. Tant’è che, esso no si fuse con i patres preesistenti, ma diede origine a un nuovo gruppo sociale, probabilmente anch’esso annoverato tra i patrizi, ma di minor rango e indicato come minores gentes – “genti minori”. Per capire questa riforma occorre considerare che, la differenza tra una gens di una famiglia numerosa e magari anche ricca e potente, era data dall’inserimento ad opera del res, di un suo membro nei ranghi del Senato (il punto di non ritorno). Per cui con TARQUINIO PRISCO, si ha il riconoscimento in blocco di un centinaio di gentes (anche se minori). L’ampliamento della Cavalleria l’idea era quella di aggiunger una nuova centuria di celeres (=veloci) alle 3 già esistenti, in questo modo: si allargava l’esercito e la cavalleria la vecchia aristocrazia gentilizia rischiava di perdere il suo ruolo preminente nell’esercito a favore di altri gruppi. Per questo ci fu l’opposizione dell’aristocrazie rappresentante, in questo caso dell’augure ATTO NAVIO. Questo indusse il re ad aggira (=100 soldati) di re l’ostacolo raddoppiando le 3 antiche centurie celeres. Questi interventi da una parte rispondevano a esigenze tattiche, dall’altra avevano una portata più ampia, mirando al superamento delle stesse tribù romulee con l’inserimento al vertice dell’esercito di gruppi non appartenenti alla vecchia aristocrazia gentilizia. Il successore di , con la sua grande riforma, riuscì a potenziare TARQUINIO PRISCO SERVIO TULLIO l’esercito sia nel numero dei fanti, sia dal punto di vista dell’equipaggiamento (da considerare che, i cittadini dovevano armarsi a proprie spese). Ciò fu possibile grazie all’espansione economica della città e alle ricchezze accumulate dalla popolazione. Una parte della dottrina dubita però di questo ruolo istituzionale. 4. L’ordinamento centuriato La riforma di , determinò il passaggio da un soldato dotato soltanto di armi offensive al SERVIO TULLIO modello dell’opites (dal greco), cioè uno schieramento compatto di soldati dotati di armi offensive e difensive (scudi e armature), questo comporta: maggiori livelli di ricchezza individuale maggiore tecnologia soprattutto nella lavorazione dei metalli. La guerra non era più riservata alle singole gens come p.es. nel 477 a.C. i partirono contro FABI VEJO e persero sul fiume Cremera. Nasce così il “cittadino” in quanto guerriero, dovuto dalla nuova organizzazione militare, in quanto tutti gli individui vennero suddivisi in un certo numero di distretti detti “centurie” (=unità della legione romana composta di cento soldati; denominazione accolta in seguito anche per gli organici di alcuni eserciti o formazioni paramilitari), che avrebbero sostituito le antiche curie, centurie furono a loro volta dovendo anch’essi fornire 100 fanti alla legione. Le raggruppate in 5 classi, sulla base dei diversi livelli di ricchezza della cittadinanza. Dopo un lungo e l i ti h i è l t t l i tà bbli l h l i 15 complesso processo organizzativo, che si è completato solo in età repubblicana, lo schema classico dell’ordinamento centuriato era composto da 193 centurie. Se da prima la distribuzione dei cittadini avveniva per classi basate solo sul calcolo della ricchezza fondiaria, successivamente, si fece riferimento al valore definito della moneta romana di base: l’asse. La ricchezza andava da 100.000 assi per la 1 classe a 10.000 per la 5. La 1 classe doveva fornire all’esercito 18 centurie di cavalli, 40 centurie di iuniores (cittadini tra i 18 e i 46 anni) e 40 centurie di seniores (soldati più anziani che facevano da riserva); la 2 ,3 e 4 classe fornivano all’esercito 10 centurie di iuniores e seniores; la 5 classe forniva all’esercito 15 centurie di iuniores e seniores. A queste 188 centurie si devono aggiungere ancor 5 centurie: - parati, ai fini del voto, alle centurie di 1 classe; 2 di soldati del “genio”, di tecnici equi - 2 centurie di musici equiparate, ai fini del voto, alle centurie di 4 classe e - 1 centuria di capite censi, nel quale erano inclusi tutti i cittadini rivi di qualsiasi capitale e senza specializzazione. 16 Certamente, l’antico patriziato in origini doveva essere ben presente anche nelle classi più elevate delle centurie di fanteria, infatti molte famiglie delle gentes patrizie disponevano della ricchezza fondiaria richiesta per l’appartenenza ari ranghi più alti dell’esercito centuriato. Tuttavia, alle prime classi di centurie dovevano far parte anche molti esponenti di famiglie non patrizie. Il dominio dei patrizia, in questa nuova organizzazione restava forte, ma non era più assoluta. La città serviana non esprimeva una società più democratica o paritaria, ma un nuovo tipo di gerarchia. Successivamente l’ordinamento centuriato si estese dall’originaria sfera militare alla dimensione politica, il voto dei membri delle prime classi di centurie era ben più “pesante” e importante di quello degli altri cittadini. E’ probabile che, anche dopo l’età di SERVIO, la svolta ebbe come finalità unicamente aspetti propriamente militari e che fosse una mera introduzione delle sole centurie di juniores, cioè l’organico dell’esercito. In tal caso, diventa evidente la logica seguita da , il quale avrebbe mirato a un semplice raddoppiamento SERVIO della legione ordinaria di 3000 fanti. Solo gli appartenenti alle prime 3 classi erano forniti di un armamento pesante, adeguato alla fanteria oplitica (da fonti di ). Gli armati delle centurie inferiori s presentavano semplicemente come LIVIO e DIONIGI ausiliari dei primi. In effetti queste 60 centurie, corrispondono ai 6000 armati, cui era pervenuta quell’antica legione romana c he, ai tempi della monarchia etrusca, costituiva tutto l’esercito della città. Questa ricostruzione coincide con la distinzione, che era fatta all’interno della popolazione e cioè: tra “classis”, come l’esercito era allora chiamato e l’”infra classem”, categoria costituita da color che erano ai margini dell’esercito, con funzioni ausiliari. Solo in seguito, nell’epoca dei Consoli, questa legione originaria sarà sdoppiata, senza però che ciò comportasse un ascuna legione avrebbe, infatti, continuato a l’ulteriore raddoppio dell’organico militare. Ci comporsi di 60 centurie, ridotte peraltro dai 100 uomini originari a 60 o anche a 30, a seconda della qualità degli armati e della diminuita consistenza numerica delle legioni stesse; si privilegiava però unità militari più numerose e agili. La popolazione romana alla fine dell’età monarchica poteva assicurare un esercito di 6000 fanti, perché l’estensione del territorio di Roma raggiungeva dimensioni notevoli, contando ca. 80.000 cittadini. Non sapendo, quand ropria o l’organizzazione centuriata dell’esercito si sia tradotta anche in una vera e p assemblea politica, anche se non si può escludere che, questa innovazione sia avvenuta sotto i re Etruschi, ma è più probabile che sia avvenuta all’inizio della Repubblica, quando il popolo riunito per centurie e comizi centuriati, furono chiamati a eleggere i Magistrati cittadini. 5. Le tribù territoriali e il censimento dei cittadini La riforma dell’esercito implica la conoscenza della ricchezza per determinare la classe di appartenenza dei singoli cittadini, per fare ciò era necessario di uno strumento adeguato e non a caso risale a SERVIO l’introduzione del censimento. La conoscenza della struttura e relativa consistenza patrimoniale della cittadinanza permetteva così di la distribuzione dei cittadini in varie classi di centurie. Egli suddivise la cittadinanza in tribù territoriali in sostituzione delle vecchie tribù dei: Ramnes Tities Luceres con proprie divisioni amministrative, le quali dovevano fornire alle varie centurie i contingenti militari, come anche il mantenimento necessario. Sulle tribù gravava così un onere di un tributo tassazione – – tributum a tribus (=primitiva forma di tassazione), la quale veniva comparata alla grandezza delle proprietà dei singoli cives e avente scopi bellici. In questi casi la sanzione prevista, consisteva quasi sempre nella morte del colpevole, avveniva a mezzo di riti religiosi arcaici (situazioni più antiche di quelle del proditio e perduellio). Comunque, anche in questi casi, doveva esserci una reazione da parte del danneggiato e la denuncia del colpevole (malfattore). Vi erano poi anche comportamenti lesivi ed effettuati ingiustamente nei confronti di singoli cittadini, come p.es. il furto, il danneggiamento di un bene e le lesioni fisiche arrecate a un individuo. In questi casi la comunità interveniva a proteggere il danneggiato contro l’autore (colpevole), ma lo faceva solo se la vittima si faceva parte attiva per difendersi e l’eventuale condanna aveva il duplice obiettivo di: risarcire il danno e di punire l’autore della condotta illegittima. Tali comportamenti, mostrano un leggero equilibrio tra il ruolo di giudizio (arbitrale) da parte della comunità politica e l’autonomia dei singoli gruppi. 18 Cap. 4 Dalla MONARCHIA alla REPUBBLICA 1 La cacciata dei TARQUINI e la genesi della Costituzione Repubblicana 19 1. La cacciata dei TARQUINI e la genesi della Costituzione Repubblicana Incisivo fu l’appoggio di Roma nei confronti della politica di espansione degli etruschi verso la Campania, la quale ebbe un arresto nel 6 sec. a.C., dovuto a delle sconfitte da parte dei Latini alleati dei Greci (i Cartaginesi alleati degli Etruschi combattevano contro i greci per il controllo del Tirreno). Questo contesto internazionale provocò forti squilibri interni a Roma e permise un vero e proprio “colpo di Stato” da parte dell’aristocrazia romana che, non solo estromise dal trono TARQUINIO il Superbo, ma cancellò anche la monarchia. Svolta che si colloca nel 509 a.C. Anche l’inizio della crisi economica e l’indebolimento delle forze produttive del 5 sec. pesarono su Roma. Tra l’altro, ci fu una stagnazione numerica dei cittadini romani, come anche una diminuzione dei territori già acquisiti e rientranti nell’ambito d’influenza; per cui è facile immaginare che riprendessero forza le forme sociali ed economiche più arretrate le gentes barricate nei loro possessi territoriali. I primi anni della REPUBBLICA furono caratterizzati da una fisionomia incerta e da gravi difficoltà internazionali, infatti Roma: dovette fronteggiare la reazione etrusca, a favore dei TARQUINI. Con certezza, il capo degli etruschi CHIUSI, PORSENNA, conquistò militarmente Roma, però questo successo non portò al ripristino di TARQUINIO. Anche dopo la caduta dei TARQUINI, Roma rimase per lungo tempo ancora legata alla sfera d’influenza degli etruschi. Infatti, per un periodo Roma si trovò isolata, dato che anche le altre città latine erano nemiche degli Etruschi. Ma proprio l’alleanza con gli Etruschi permise a Roma di difendere la sua precedente preminenza e ora contestata dai LATINI. La solidità di Roma, era una cosa già acquisita, questo ne dette prova il fatto con cui reagì militarmente all’ostilità latina, pervenendo positivamente e rinnovando un’antica alleanza con il Foedus Cassianum (=fu un trattato di pace stipulato nel 493 a.C. tra Romani e Latini) prendendo il nome da , il quale nel 493 a.C., SPURIO CASSIO dopo aver guidato gli eserciti romani nella guerra contro i Latini riuscì a concludere con essi una pace duratura. L’aristocrazia aveva cacciato il rex, riconquistando così una supremazia. Già dopo i primi anni della nuova forma di , le REPUBBLICANA gentes patrizie cercarono di tirare a proprio vantaggio canali sociali e di ascesa politica, quelli che, avevano funzionato nell’età precedente e che gli permisero la presenza in Senato (forse già in età monarchica), di un gruppo di conscripti 1(=gli arruolati, non per diritto di nascita), accanto ai patres. Tale chiusura segnò nel tempo l’inizio di una crisi lenta e inevitabile a danno dei momentanei vincitori. Per altro i vincitori, già dall’inizio, trovarono un limite nella loro reazione e cioè l’impossibilità di un semplice ripristino della situazione anteriore all’età serviana, la quale avrebbe causato un pericolosissimo indebolimento della città. Infatti, un ritorno alla situazione originaria avrebbe comportato un vero e proprio collasso dell’apparato militare in un momento di massima necessità di difesa. Allo stesso modo, non si poteva neanche ripristinare l’originaria figura del “re sacerdote”, invalidando il rafforzato imperium dei re etruschi. L’aristocrazia gentilizia puntò quindi, a indebolire le riforme serviane, andando a circoscrivere, senza però depotenziare, il vertice del Governo cittadino e cioè la soppressione del vitalizio della carica suprema di Governo, sdoppiandolo con 2 Consoli eletti annualmente, realizzando così un perfetto equilibrio, salvaguardando anche il forte carattere militare assunto dal comando supremo in età etrusca. Con questa operazione si realizzarono le promesse per un permanente spostamento del baricentro politico a favore dell’altro organo di Governo cittadino il SENATO. I primi 50 anni del nuovo sistema repubblicano sono forse quelli più oscuri e ricchi (pieni) di interrogativi di tutta la storia di Roma, perché le notizie di questo periodo sono lacunose e contradditorie. Incerti sono anche le liste di magistrati eponimi , chiamati 2 “Fasti”3 dai Romani (compaiono fino al 486 a.C. ca.), accanto a nomi di Consoli patrizi, vi sono elencati anche quelli di Magistrati plebei. Poi, questi ultimi 1 I conscripti, stando ai significati del latino storico, sono effettivamente gli 'iscritti, arruolati', in genere in un gruppo, in un esercito, tanto è vero che il termine è arrivato fino a noi col significato di 'soldato di leva appena arruolati (www.terremarsicane.it) 2 L'eponimo è un personaggio, sia esso reale o fittizio, che dà il suo nome a una città, un luogo geografico, una dinastia, un periodo storico, un movimento artistico, un oggetto o altro (www.treccani.it) 3 Nell’antico calendario romano, i giorni dell’anno in cui la trattazione degli affari non era vietata da impedimenti di carattere religioso. Per estensione, il termine passò a indicare lo stesso calendario ufficiale romano (nel quale erano distinti i giorni «fasti» e quelli «nefasti»), e, poiché il calendario era di solito accompagnato dalla lista dei magistrati eponimi, si dissero “ consolari” le liste dei consoli (poi anche, per analogia, “trionfali”, le liste dei trionfi dei generali (www.treccani.it) La persistente e violente forza, da parte della plebe verso questo sistema, minacciò la sopravvivenza della comunità politica e tale crisi fu superata con il riconoscimento alla plebe di diversi strumenti protettivi rispetto all’abuso di potere delle magistrature patrizie. Alla guida della separazione plebea, si erano posti dei magistrati, stimolati dalla figura dei tribuni militum (=comandanti militari) o da tribuni militum dall’esercito centuriato schieratisi con la plebe, che presero il nome di tribuni della plebe. Ne conseguì un compromesso politico con il loro riconoscimento come organi della città, fissando dunque, il loro “diritto d’aiuto – ius auxilii” a favore della plebe, ciò significò: una loro esclusione per molto tempo dall’effettivo Governo della città, un’attribuzione generalizzata e sempre più penetrante funzione di controllo nei riguardi dell’azione degli altri magistrati repubblicani. Il loro potere “negativo”, con il tempo si estese all’intera vita politica cittadina, rendendo possibile e a loro riconosciuta la possibilità d’interrompere l’intercessio (=veto) un veto contro qualsiasi atto o delibera dei magistrati o dello stesso Sento. Le autorità dei tribuni non era sottoposta alle strutture cittadine, potendo così (in questo modo) giungere ad arrestare la vita stessa di tutta la comunità. La posizione di questi magistrati, gli permetteva un rinforzamento sacro della loro persona – lex sacrata (=legge accettata) giuramento assunto collettivamente dalla plebe, ma vincolante, per il suo fondamento religioso, per l’intera comunità – e successivamente confermato. Gli organi decisionali e di forza della plebe erano: l’assemblea il concilium plebis organizzata sulla base della distribuzione delle tribù territoriali, le quali votavano proprie delibere: i plebisciti (=norma votata dalla plebe su proposta dei tribuni) ed eleggeva propri magistrati: i tribuni e in seguito gli edili. Anche se questo fu un primo passo vero un processo di equiparazione, l’aristocrazia deteneva ancora il monopolio delle cariche magistratuali. Le altre richieste (pretese) da parte dei plebei e cioè, di riequilibrare i rapporti di carattere economico-sociali tra i due ordini, non era state ancora accolte. Per il momento, il mondo plebeo costituiva ancora una realtà sociale autonoma e antagonista (=avversario/contrapposizione). Per questo, con i suoi magistrati, la plebe volle mantenere un’identità separata, con proprie tradizioni religiose, divinità e templi propri; sino a identificarsi con una propria sfera territoriale fuori del recinto sacrale della città l’Aventino. Verso la metà del 5 sec. aC., con un progressivo rafforzamento, vi furono i primi passi in avanti verso la parificazione politica sociale dei due ordini, e con essa, un mutamento complessivo dell’assetto cittadino. Tale mutamento istituzionale, portò a una maggiore libertas (aspetto ideologico). L’espressione di tale libertas, è il diritto riconosciuto a ogni cittadino di potersi appellare al popolo di fronte al potere di repressione criminale da parte del magistrato, per le quali questo era l’ultima istanza di giudizio nelle questioni di vita o di morte. E’ probabile che, una prima legge in tal senso sia stata approvata già all’inizio della Repubblica, sicuramente fu riaffermata e meglio formulata (se non introdotta allora per la prima 21 volta) nel 449 a.C., subito dopo le XII TAVOLE, con una legge di VALERIA ORAZIA. Tale normativa vietava ai magistrati di disporre la morte (uccisione) di un cittadino romano, colpevole di una colpa capitale, senza previa consultazione del popolo riunito nei comizi. 3. Le XII Tavole Nel 5 sec. a.C. i plebei ottennero la redazione scritta delle regole che regolava la vita della città. In tal modo, infatti, veniva meno la supremazia di conoscenza e interpretazione del diritto cittadino sinora esercitato dal gruppo degli aristocratici dei pontefici. Questa grande innovazione, alla quale i patrizi si opposero, fu possibile perché il capo dell’autorevole gens Claudia, APPIO (patrizio), appoggiava tale costituzione (della redazione scritta di regole), e assunse una funzione centrale nel nuovo processo legislativo. Nell’anno 451-450 a.C., si deliberò quindi, di istituire un collegio di 10 membri al posto della (normale) copia di consoli. Il collegio aveva il compito, oltre a governare la città, di redigere per iscritto – leges scribere - le leggi della comunità cittadina e fu chiamato a presiederlo. APPIO CLUDIO Le regole in questo senso diedero una svolta, volendo dare più certezze, che solo la norma scritta può dare, rispetto a quelle che possono essere le formule consuetudinarie. Venne così da doversi ridefinire anche la concezione romana del diritto, in quanto il valore incontrastabile del testo scritto e di una legge “equale” per tutti i cittadini era di per sé, una nozione nuova nell’esperienza romana. Questa svolta fu importantissima e forse andò oltre alla questione del controllo della vita giuridica. Infatti il collegio era: composto da 10 membri, tra cui plebei, realizzando così una parificazione politica dei 2 ordini; potere avendo poteri assoluti e sottratti alla provocatio (= sfida), che limitava invece l’Imperium dei magistrati ordinari. Ciò permette a immaginare che il decemvirato, pur all’origine con finalità di redazione delle leggi, avesse un significato più ampio, che quello di (solo) un organo generale di Governo della città e delle sue leggi. Esso: sostituiva i 2 Consoli comportava la sospensione di ogni altra Magistratura, compresi ii tribuni della plebe. La tradizione è chiara circa la redazione delle XII TAVOLE, ma non si conosce bene le vicende successive. Il Collegio, rieletto per il secondo anno, per poter completare la redazione delle tavole della legge e sempre presieduto da APPIO CLAUDIO, fu integrato da alcuni plebei. La figura di APPIO CLAUDIO, si presenta come una figura con contraddizioni. Il concetto di libertas repubblicana, che non ha caratteristiche democratiche, in quanto non è una libertas di tutti, ma delle congregazioni aristocratiche e fondata sull’eguaglianza di pochi. Chi non rispettava, più o meno consapevolmente, questo sistema era additato come tiranno, come colui che aspirava a un potere assoluto – l’adfectatio regni (=regno di affettazione7). Questo era uno strumento usato dall’aristocrazia che, era sempre mutevole nella sua composizione interna, ma guidata da una logica sempre uguale: quella di colpire tutti color che in qualche modo tendano a indebolire i suoi interessi a favore di una visione diversa degli equilibri politici della città. Con la concentrazione delle funzioni di Governo e legislative nei Decemviri 8 e nell’assemblea popolare, sembrò che tutto il “diritto” fosse riportato all’interno della “politica” e subordinato alla volontà del popolo. Questa era la strada che avrebbe potuto portare l’aristocrazia di Roma verso un tipo di democrazia di matrice greca, ma ciò non si realizzò, perché la fine die CLAUDIO fece rapidamente rientrare il sistema giuridico al suo fondo tradizione, salvandosi quindi solo il programma originario. Dal 449 a.C. le rappresentarono la nuova realtà istituzionale alla quale i Romani si sarebbero XII TAVOLE rivolti per secoli come il punto iniziale della loro storia giuridica. Le TAVOLE rappresentavano il fondamento dello ius civile, ma non esaurivano l’intero sistema giuridico e di ciò i Romani ne erano consapevoli. La maggior parte delle norme contenute nelle XII TAVOLE si riferiscono e spesso modificano i mores (= morale) ancestrali (=radicati) già preesistenti. Per questo motivo non si può utilizzare il termine “codice” per riferirsi alle TAVOLE. Molto importante è, l’ideologia di tale legislazione, in quanto anche nei secoli successivi si continuerà a fare riferimento, proprio per le sue norme specifiche, come per il valore generale, riferito all’ordinamento giuridico romano. Certo è, che con il 449 a.C., limiti e vincoli più precisi furono posti ad antiche pratiche, infatti: la libertà dei pontefici di conservare o di modificare le antiche tradizioni secondo una sapienza esoterica sottratta a ogni controllo esterno, aveva ora un limite evidente. Almeno formalmente, ogni cittadino era in grado di sapere quale fosse il diritto della città. Le capacità di modificare e d’innovare, a mezzo provvedimenti legislativi, i quali trovano un punto di partenza e di condizionamento. La legislazione delle XII TAVOLE, riguarda in particolar modo Il processo civile e Il sistema dei diritti “privati” relativi ai rapporti tra i cittadini, mentre il “diritto pubblico” e l’organizzazione della primitiva macchina statale romana rimasero al margine. Tale raccolta ha un valore intrinseco e funge da una divisoria tra “vecchio e nuovo”, tra ciò che è stato raccolto e conservato dai decemviri degli antichi mores e le nuove regole che introdussero. Da qui, una coesistenza di molte regole arcaiche e di principi innovativi che sembrino apparire per la prima volta nell’esperienza giuridica romana, di cui: Il primo aspetto che porta a un’epoca antica antecedente le XII TAVOLE. Questo lo si può trovare nel sistema che regola le obbligazioni legali, contratte liberamente tra privati. Tali rapporti di dipendenza personale e cioè, il debitore è “legato” e sottoposto al potere personale del creditore. La figura principale (più importante) è quella del nexum (il debitore che da in garanzia se stesso al debitore). La stesa logica arcaica la si può trovare dall’insieme di vincoli personali derivanti dalle conseguenze di azioni dannose e illegittime; dove le prime forme primitive delle obbligazioni si fondono su forme semiprivate delle sanzioni. In questo campo però, si viene a introdurre un elemento nuovo, il quale da la possibilità alle parti di un accordo privato e tra loro vincolante, un pacisci9, da cui poi il pactum ( tt / d ) f t di bbli i h l d tt ( lt l t it ll XII Cronologia: 442 a.C. Venne istituita la importante magistratura, preposta alla funzione di censura, effettuare il censimento della città. Già dalla sua istituzione, si definì la separazione tra le funzioni del Censore e il ruolo di Governo dei magistrati cum imperio. 400 a.C. Progressi permisero di arrivare ad una quasi equiparazione politica tra patrizi e plebei, ma sul piano economico restava sempre primario il monopolio patrizio sulle terre, con un accrescimento dell’indebitamento delle fasce più povere – la plebe. 396 a.C. Roma vinse sulla potente città di Veio, che bloccava l’espansione verso Nord, conquistò territori intermedi e si espanse verso il Lazio meridionale, vincendo sui Volsci. Questa vittoria portò ad un arricchimento di patrimonio fondiario, portandolo a raddoppiare il precedente ager Romanus . Questo permise la distribuzione a tutti i cittadini romani di un apprezzamento di 7 iugeri (ca. 2 ettari); portando a una riduzione d’interesse, da parte dei plebei, di ridistribuire l’antico ager publicus (=campo pubblico). La redistribuzione portò anche ad una riduzione della questione dei debiti (altro punto centrale delle rivendicazioni plebee). 396 a.C. La sequenza politico-sociale che si innesta a partire dal 396 è impressionante: 5 sec. Ristagno della popolazione e si era fermi a 17 tribù rustiche 387 332 a.C. – Si aggiunsero 8 nuove tribù 241 a.C. Si arrivò al numero definitivo di ben 31 tribù rustiche. 367 a.C. Furono approvate 3 distinte proposte di legge che, dai magistrati proponenti sono ricordate come le Leggi Licine Sestie. Per i romani queste rappresentarono una svolta nella lotta patrizio-plebea, con una “vittoria” degli obiettivi principali che si era prefissata, sia sul piano politico che economico sociale 24 economico-sociale. Questa legislazione, accelerò il processo di trasformazione delle strutture politico- istituzionali e sociali di Roma, rendendo possibile una unione tra i due ordini sociali. I patrizi e i plebei restarono distinti per tutta l’età repubblicane e oltre, ma a livello politico si venne a creare un nuovo ceto di governo patrizio-plebeo. In particolare: la prima delle Leggi Licinie Sestie prevedeva che, uno dei 2 consoli potesse essere plebeo. Si aprì così, la strada per la piena partecipazione della plebe a tutte le cariche politiche e religiose romane. La seconda legge introduceva il limite al possesso di terre pubbliche da parte di ciascun cittadino, in questo modo vennero definitivamente suddivise le terre dei patrizi, portando così, a un possesso di minori lotti di terre pubbliche e diventando così accessibili a un maggior numero di cittadini, compresi i plebei. La terza prevedeva una serie di provvedimenti a limitare i debiti, prevedendo che, gli interessi già pagati dovessero computarsi come parte del capitale da restituire. Molte norme di grande rilevanza sociale, limitò e soppresse definitivamente la dominazione nei confronti del debitore, rompendo le forme di dipendenza arcaiche, portando quindi, il cittadino indebitato vincolato solo sul piano giuridico ed economico. Inoltre, l’unica forma vera di lavoro dipendente divenne la “moderna” schiavitù; rappresentando un elemento fondante dell’economia romana per tutta la storia successiva. Dopo il 367 a.C. Vi fu un completamento architettonico della città, in particolare: I censori assunsero una fisionomia più netta, furono precisate le loro competenze, nei ranghi del senato, degli ex magistrati, sia patrizi che plebei. Essi diventavano così i garanti della costruzione di una nuova aristocrazia politica, la nobilitas patrizio- plebea, selezionata sulla base delle cariche magistratuali e della sua appartenenza al senato, che si sostituì, nel Governo della res publica, all’antica nobiltà di nascita, costituita da patrizi. Venne istituito il pretore, un magistratura che, aveva il compito di amministrare la giustizia e a regolare le controversie tra i privati: il pretore. Cap. 5 Il compiuto disegno delle ISTITUZIONI REPUBBLICANE 1. Il Consolato e il Governo della città Il quadro istituzionale della città dell’epoca, era molto distante dagli ordinamenti attuali e moderni, per diverse ragioni: assenza di una costituzione scritta presenza di singole leggi che avevano introdotto nuove figure di Governo e nuovi compiti per le Magistrature già esistenti. Da qui deriva l’enorme importanza della successiva interpretazione e delle prassi che regolavano l’apparato politico, senza ed oltre la norma. Questo sistema permetteva di allontanarsi, in certe circostanze, dalle pratiche e dalle regole senza che scattasse una impossibilità assoluta che solo un’inesistente e per i Romani inconcepibile superiore istanza, (p.es. nel mondo moderno – un giudizio di costituzionalità o di legittimità) avrebbe potuto rendere effettiva. I Consoli, sono stati probabilmente introdotti all’inizio della Repubblica, ma riaffermati a regime definitivamente solo nel 267 a.C. Erano una coppia di Magistrati, al vertice dell’intero assetto di Governo della città e avevano il supremo poter di comando (imperium superiore a quello di ogni altro Magistrato). Erano Magistrati eponimi che, – 12 rimanevano in carica un anno (per individuare l’anno, i Romani richiamano il nome dei due Consoli in carica). L’antica figura del rex presentava fusi in sé 2 aspetti fondamentali: un ruolo politico-militare e uno religioso, che si esprimeva nella sua inauguratio, e nella legittimazione a interrogare la volontà degli dei, mediante gli auspicia . 13 Sparito il rex, rimase soltanto la sua connotazione religiosa che venne attribuita al “rex sacrorum”, un membro eminente ma formale del collegio pontificale. Ciò significa che, le nuove cariche repubblicane erano prive della dimensione religiosa, salvo che per il potere/dovere di interrogare gli dei prima di compiere un’azione pubblica (aspicia) si completava quel processo di “laicizzazione” del Governo cittadino che, secondo l’autore, si era già avviato sotto i re Etruschi. Con la sua scomparsa i Romani ne preservarono alcuni aspetti meramente religiosi in capo a quello che potremmo indicare come un “fossile istituzionale”: il rex sacrorum. L’imperium consolare si distingueva: imperium domi era esercitato all’interno del confine della città e serviva per governare la comunità politica e la vita dei suoi membri, nel tempo venne litato, in particolare, con il diritto dei cittadini di appellarsi al popolo contro la repressione esercitata dai Magistrati, ma anche al poter di veto esercitato dai tribuni della plebe. Imperium militiae si sostanziava in un comando militare, fuori dalla città. Conobbe limitazioni di scarso numero e poco significative. I comizi centuriati decidevano della guerra, ma i Consoli avevano il potere di: Provvedere all’arruolamento dei cittadini, previa decisione del Senato, e successivamente, dirigere la ilit l i i d l S t i d l di i li d ll’ it 2. Il Pretore e le altre Magistrature Subito dopo i la figura più rilevante è quella del che: Consoli Pretore aveva la giurisdizione sui processi tra i privati (funzione primaria) e veniva indicata con il termine specifico: iurisdictio, da ius dicere = “dire il diritto” era titolare, come i del supremo potere di comando, Consoli, l’imperium, ma era gerarchicamente inferiore a essi: esposto quindi alla loro interessio, incapace però di interporre contro di loro la propria. era legittimato, se necessario, a esercitare il comando militare, guidando gli eserciti romani fuori del confine sacro della città, cioè che avvenne abbastanza di frequente, dati i crescenti impegni militari di Roma e il moltiplicarsi degli scenari di guerra. La iurisdictio (= dire il diritto) del si sostanziava nel controllo delle procedure e della legittimità Pretore delle pretese in conformità a quello che era il diritto vigente. Nell’esercizio di questa sua competenza si dovette precocemente verificare un fenomeno che avrebbe reso possibile una straordinaria evoluzione delle forme processuali e giuridiche romane: la separazione tra il ruolo del magistrato e la valutazione della verità dei fatti materiali oggetto della controversia a lui sottoposta dai privati. Infatti, il sistema processuale distingueva due fasi: ) 27 1) l’accertamento dei fatti materiali addotti dalle parti e il loro inquadramento all’interno del sistema di regole proprie del diritto romano era affidato al Pretore 2) la sentenza che decideva della causa era lasciata ad un giudice privato. Questa scissione permetteva una più semplice elaborazione delle categorie giuridiche di riferimento da parte del magistrato giudicante ma rendeva necessario un superamento del sistema delle “legis actiones” (= azioni della legge) troppo rigido ed estremamente rigoroso. Il suo formalismo circa il comportamento dei litiganti, la rigida predeterminazione delle pretese adducibili in giudizio e la fissità delle formule (e dei contenuti legali cui essi si riferivano) che le parti e il magistrato dovevano recitare, lasciavano poco spazio al suo ruolo giurisdizionale. Per cui a partire dalla seconda metà del III sec., il pretore estese la forza del suo imperium (= governo) all’interno del processo fino a creare un sistema processuale più elastico. Il disegno istituzionale del 367 a.C. prevedeva anche una serie di magistrature minori, con funzioni più circoscritte e munite di una semplice potestas ,che ne legittimava l’azione. La differenza si coglieva anche per quanto riguardava gli auspicia : 16 i Magistrati cum imperio (=magistrati con governo) erano titolari degli auspicia maiora (=migliori auspici) e si avvalevano, nell’espletamento delle loro funzioni, di un consilium (=politica) di carattere privato, composto da amici e cittadini autorevoli, che contribuivano comunque a rafforzare l’autorità e l’efficacia della loro azione. I Magistrati cum erano titolari degli auspicia minora. Tra questi magistrati minori vi erano: i quaestores (=Questori) i duoviri perduellionis (= Magistrati) 17 i questores parricidii (= Questori con poteri giudiziari), competenti per la repressione dei maggiori crimini. I questores vennero istituiti alla fine del IV sec. a.C. ed erano due magistrati che collaboravano direttamente con i consoli. Nel tempo furono raddoppiati e, infine, nel 267 a.C. durante la Prima guerra punica, divennero 8. Questi si occupavano: la competenza principale riguardava l’amministrazione delle finanze statali, in collaborazione con i censori, e sotto le direttive del senato. di affari civili e avevano tutta una serie di ulteriori incombenze. I tribuni militum 18 avevano un ruolo importante nel governo dell’eserctio: alcuni di diretta nomina dei consoli, altri eletti anch’essi dai comizi. Il loro numero aumentò, insieme alle dimensioni dell’esercito, e arrivarono a essere 24 anche se non tutti, tutti gli anni, prestavano effettivamente servizio nelle legioni. , Le nuove esigenze intervenute con il primo scontro con Cartagine, sono inoltre all’origine dei duoviri 16 Sacerdote o dignitario che traeva gli auspici, presso gli antichi Romani. 17 Erano magistrati dell’Antica Roma, eletti in coppie per ragioni di reciproco controllo e consiglio, allo scopo di sopraintendere a pubblici uffici o delicati incarichi politici e amministrativi 18 Il tribunus militum (ovvero tribuno dei soldati, era sinonimo di capo della tribus fin dai tempi di Romolo) era un ufficiale dell'esercito romano. Il nome deriva dall'essere stato a capo di una delle antiche tribù, fin dall'epoca regia. navales (= equipaggiamento)19, preposti al comando della flotta allora creata. Si tratta però di una magistratura che non divenne permanente nel sistema romano. Una delle prime e più importanti acquisizioni dei plebei fu il riconoscimento e nell’assetto repubblicano di una loro magistratura: i tribuni della plebe. La loro fisionomia può essere definita in termini di un “contropotere” nei riguardi dello stesso sistema istituzionale, in funzione della difesa degli interessi dei plebei (auxilium praestare = prestare aiuto). Essi avevano: il potere d’intervento e di sanzionare gli autori di condotte dannose a carico dei plebei (multae irrogatio = molte proposte/richieste al popolo ), il potere di imporre l’intercessio20 contro qualsiasi iniziativa magistratuale. il potere consistente nella summa coercendi potestas, con cui il tribuno, pur privo di imperium, poteva giungere a uccidere il trasgressore delle leggi sacrate, compreso qualsiasi magistrato repubblicano senza l’ostacolo della provocatio, o comminargli la consacrazione dei beni. il potere di convocare la plebe in assemblea, organizzata per tribù territoriali, proponendo l’approvazione di delibere comuni (plebei scita). L’originaria natura rivoluzionaria della lotta da cui era scaturita l’istituzione dei tribuni, , si rifletteva sulla persistente loro estraneità al sistema dei magistrati preposti al governo della città e, conseguentemente, alla logica del cursus honorum21. D’altra parte la stessa funzione di difesa della plebe a essi affidata precludeva loro la possibilità di allontanarsi da Roma, anche solo per una notte. Altri magistrati plebei erano gli edili della plebe con compiti organizzativi all’interno della città. Accanto a essi, in seguito, saranno introdotti gli edili curuli (dal particolare tipo di sedile, la “sella curule” di spettanza dei magistrati romani), appartenenti invece alle magistrature cittadine con i compiti di sovrintendere: alla vita materiale ed economica della città, dai mercati (controllo prezzi) alla viabilità, all’igiene, alle cerimonie pubbliche e, in seguito, ai giochi pubblici. Un’altra innovazione importante era stata, nel 442 a.C., l’introduzione dei censori (retaggio dei re etruschi). La redazione del censimento della popolazione era un compito delicato che permetteva di fotografare la cittadinanza romana ma i censori oltre al controllo potevano anche modificare situazioni date. Così le si distinguevano i cittadini dagli stranieri e dagli schiavi e, tra i cittadini, gli “ingenui”, dagli schiavi manomessi: i “liberti”. Ciascun cittadino era quindi collocato nella sua famiglia, associato alla proprietà fondiaria di cui era titolare, radicato nelle varie tribù territoriali, e inserito nelle classi di censo cui lo legittimava la sua ricchezza familiare. Con la lectio senatus (la redazione della lista dei vecchi e nuovi senatori) si inserivano nuovi nomi tra i 29 ( ) g g , , , q all'organizzazione della plebe e alla legge Valeria-Orazia del 440, e, secondo un'altra versione, sarebbe stato introdotto fra il 242 e il 227 a. 29 =I campi di assegnazione di terre, bisogni e assegnazione di un numero di colonie 30 Decemviri agris dandis adsignandis e coloniae deducendae - Commissioni, ordinate collegialmente, che avevano il compito di . assegnare le terre pubbliche ai privati, soprattutto in occasione della fondazione di colonie. Queste commissioni compaiono a cominciare dal sec. II a. 31 = letteralmente “uno pezzo di due”per 32 patres conscripti. con cui erano indicati nella Roma antica i senatori, interpretata da alcuni come «senatori iscritti (nella lista del senato)», da altri come una contrazione di patres et conscripti, cioè «patrizî e [plebei] aggiunti». 3) aveva il potere strategico di approvare la selezione dei candidati alle varie cariche magistratuali effettuate dai magistrati in carica. 4) aveva un potere di controllo sulla gestione delle risorse finanziare (l’aerarium33 populi Romani) Questa specie di monopolio nell’impostazione e indirizzo delle linee di governo era, a ben considerare, la necessaria risposta al carattere strettamente temporaneo delle cariche magistratuali. Nel corso di un anno (la loro durata ordinaria) una politica di lungo respiro interna o estera non poteva certo essere 30 anno (la loro durata ordinaria), una politica di lungo respiro interna o estera non poteva certo essere realizzata anche se sovente, gli stessi personaggi venivano nuovamente eletti ad altre cariche nel corso di un periodo di tempo relativamente ristretto. Per cui, il luogo di dibattito e di orientamento oltre che la memoria storica delle scelte già intraprese e la stanza di regia delle strategie di lungo periodo della politica romana doveva essere inevitabilmente il senato, che garantiva, anche una sorta di coordinamento della coppia consolare. Inoltre è necessario aggiungere che i magistrati romani, scaduto l’anno di carica, venivano a far parte, per tutto il resto della loro vita attiva dei ranghi del senato, per cui il loro comportamento era condizionato dal senato. Ecco, della magistratura romana con la politica e gli spiegata l’omogeneità dell’organizzazione interessi dei rantiva a senatori. Peraltro la carica a vita, unita all’assenza di elezioni senatoriali ga quest’organo una notevolissima autonomia e indipendenza. Quanto agli aspetti concreti del suo funzionamento, il senato non si poteva autoconvocare, essendo questo compito affidato ai titolari del ius agendi cum patribus34 (=con il diritto di azione). La sua organizzazione interna funzionava secondo una logica gerarchica legata al rango degli ex magistrati, infatti la sua presidenza era affidata all’ex. censore più anziano. Con il consolidarsi delle sue competenze nella politica estera, il senato si arrogò il diritto d’inviare ambascerie presso i popoli stranieri per trattare accordi e ogni questione di rilevanza internazionale. I personaggi prescelti per compiere tali missioni erano indicati come legati, i cui compiti erano predeterminati da un apposito senatoconsulto. Nella tarda repubblica essi erano scelti esclusivamente tra i membri di questo consesso. In questa prospettiva si coglie un carattere di fondo delle istituzioni politiche repubblicane presente agli inizi e fino alla crisi del II sec. a.C. che avvierà il tramonto della libera res publica35. Si tratta di quello che potremmo definire il loro carattere “consociativo”. Infatti questo potere non procedeva secondo la “divisione dei poteri” o meccanismi posti a tutela della maggioranza o della minoranza. Al contrario, il governo della comunità richiedeva la compartecipazione di tutti i soggetti politici nella gestione dei singoli centri del potere politico. Si seguiva il principio della maggioranza (es. per le delibere senatoriali) ma all’interno di ogni azione di governo, di ogni scelta assunta secondo tali logiche c’era comunque un minimo consenso comune. Quando questo non c’era scattava il meccanismo dei poteri di veto. il potere di veto e di paralisi insito nella struttura istituzionale repubblicana. E’ rilevante il fatto che il sistema di governo della repubblica, malgrado questo singolare carattere, abbia funzionato a lungo e, nel complesso, in modo molto efficace. Infatti esso ha mostrato spesso notevoli capacità in senso “decisionista”, come tempestività di scelte e di interventi, tali da non risentire, in apparenza, delle potenzialità negative. 4. Il popolo e le Leggi L’avvento della repubblica portò il problema dell’elezione annuale dei vari magistrati: questa funzione fu affidata alla versi , in questa one civile dell’antica organizzazione militare dei comizi centuriati. Ma assemblea il peso dei cittadini era disuguale, sia in r elazione al censo che all’età. Infatti, à di voto ma: le centurie si deliberava a maggioranza delle centurie che costituivano ciascuna un’unit delle prime classi e, all’interno di ciascuna classe, quelle dei seniores, erano meno affollate rispetto a quelle delle classi inferiori e a quelle degli juniores e pertanto i loro membri avevano un peso politico maggiore. Per ciascuna classe sussisteva infatti un eguale numero di centurie comprensive di cittadini più giovani (dai 18 ai 45 anni d’età) e di seniores (dai 46 ai 60 anni). E’ ovvio che, data la durata media della vita, minore che ai nostri giorni e dato il numero inferiore di anni in essi ricomprese, il numero di seniores all’interno della stessa classe di centurie fosse minore che quello dei corrispondenti juniores. Di qui , il peso ponderato maggiore dell’anziano rispetto al giovane, oltre che del ricco, rispetto al povero. Le centurie votavano secondo un ordine progressivo. In un primo momento il voto era orale ed era raccolto da appositi funzionari, poi si passò alla votazione scritta. Il numero complessivo delle centurie era 193 per cui se le 18 centurie dei cavalieri e le 80 centurie della prima classe, votavano in modo uniforme, realizzavano da sole la maggioranza, la decisione era presa e si poteva chiudere la votazione, infatti le 33 Aerarium = tesoro del popolo romano = riserva di monete 34 Ius agendi (cum patribus, cum populo, cum plebe), diritto di convocare il senato, i comizi, i concili della plebe 35 Significa letteralmente “cosa del popolo”, ma può talvolta significare “Stato” ultime centurie del comizio raramente riuscivano a esprimere il loro voto. Fin dall’inizio della repubblica, non solo la nomina dei magistrati superiori, ma anche le delibere che riguardavano la vita della comunità dovettero essere assunte da tali comizi, queste erano concepite come “leggi” della città. Il Magistrato legittimato a convocare i comizi individuava una data consentita dal calendario religioso e politico della città, con un certo anticipo annunciava la convocazione, rendendo pubblica la sua proposta di legge. I comizi: approvazione delle leggi discutevano la proposta e passavano alla votazione (eventualmente in una data successiva). L’assemblea poteva accettala o respingerla ma non poteva apportare cambiamenti. elezione dei nuovi magistrati sceglievano i magistrati solo all’interno di una ristrettissima rosa di nomi preselezionati dai magistrati uscenti col consenso del senato. Nella lotta politica e nelle secessioni la plebe si era organizzata in assemblee (concilia plebis) 36 che erano convocate secondo il criterio territoriale delle tribù. Queste divennero i distretti elettorali dei magistrati plebei (tribuni ed edili) e quando si superò la fase più dura del conflitto tra patrizi e plebei, soprattutto dopo la piena parificazione dei due ordini, quest’ultimo strumento, assai più agile dei comizi centuriati, fu utilizzato, per quanto possibile, al posto di quelli. Nacquero così i , definiti secondo la logica comizi tributi degli antichi concilia plebis37 ma integrati con la presenza anche dei patrizi, questi: eleggevano i magistrati minori, sine imperio, assunsero un ruolo sempre più importante nel processo legislativo romano a partire dal III sec. a.C. In pratica il superamento del conflitto patrizio-plebeo, rese possibile il riconoscimento del valore generale dei plebisciti. La tradizione fa risalire alla leggi Valerie ORAZIE38 (449a.C.) la parificazione dei plebisciti alle leggi comiziali ma probabilmente questo processo si realizzò in un momento 32 a essa, consistendo nell originario patrimonio ancestrale dei mores. Infatti, nel CICERONE De Republica individua nel “consenso fondato sul diritto” la base stessa della comunità politica. Dall’altra, è però certo che è la città a produrre il suo diritto e la sua forma istituzionale. Infatti, con la repubblica una nuova idea di legalità si impose rispetto all’immagine primitiva del governo semi-dispotico di un rex. Quest’idea si lega: o all’idea di un’eguaglianza dei cittadini di fronte alle norme della città: idea già dominante all’epoca delle XII TAVOLE e certo non esclusiva dei Romani, o alla consapevolezza che l’esistenza della res publica poneva limiti a ogni titolare dei segmenti di sovranità ripartiti tra gli organi della città. Infatti, oltre alle regole scritte vi erano dei principi, non sempre scritti, ma legati al concetto di Repubblica, uno di questi era il riconoscimento della libertà personale (sancita dalle Leggi Valerie ORAZIE). Ciò produceva delle conseguenza altrettanto giuridiche. Ad esempio un principio generale che regolava la legislazione romana riguardava il divieto di adottare norme di carattere “singolare” ma volte a colpire 40 Che riguarda le spese, nell'espressione (più raram. leggi suntuario norme suntuario), in storia del diritto, le intese a limitare le leggi spese voluttuarie e di lusso 41 Lex perfecta: quella che vietando un atto ne elimina gli effetti 42 Lex minus quam perfecta: quella che vieta l'atto ma irroga una pena a colui che vieta il divieto. Lex imperfecta: quella che vieta l'atto, ma non ne sancisce l'inefficacia, ne irroga pena. specificatamente una posizione individuale. A tale principio si legava il divieto di introdurre privilegia negativi. In linea con quanto detto si svilupperà nella tarda repubblica un riflessione giuridica (che conosciamo grazie a Cicerone) circa un nucleo di principi e di reciproche garanzie, all’interno della comunità politica, legato alla esistenza di questa e immodificabile, o difficilmente e limitatamente modificabile, senza minacciare l’essenza stessa della comunità politica. Questa idea riaffiorava con forza nei momenti “negativi”: quando ad esempio un tribuno della plebe, senza scandalo dei consociati e senza sembrar sovvertire l’ordine costituito, chiama in giudizio un ex magistrato per una condotta, non illegittima dal punto di vista delle norme scritte, eppur lesiva di un diritto dei cittadini, sentito come acquisito e vitale da parte dell’intera comunità. In questa prospettiva si colloca l’altro assunto posto a salvaguardia della repubblica ma mai formulato esplicitamente da una norma positiva: il divieto di attentare all’esistenza della res publica. Ora questi stessi principi (che oggi sarebbero espressi in una costituzione), non necessariamente scritti, non erano neppure predeterminati e conoscibili ex ante, ma sono incorporati nella stessa costruzione repubblicana. Per questo alcuni punti non potevano essere messi in discussione in quanto sono fondamento da tutti condiviso, ad esempio: il ruolo dei tribuni della plebe l’esistenza della coppia consolare il diritto alla provocatio (=sfida). Si tratta di pochi e fondamentali meccanismi che possiamo considerare come il nucleo della costituzione reale della repubblica. Esso è integrato in un sistema più fluido e poco determinato di regole che ne integrano il contenuto rendendone possibile il funzionamento concreto. La loro efficacia e le relazioni tra di esse varierà nel tempo, sia a seguito di leggi positive, come sarà per la funzione dell’auctoritas senatoria , sia per gli equilibri concreti tra gli organi, come ad esempio nel sovrapporsi di un potere dei comizi e del senato in molte decisioni assunte alternativamente dall’uno o dall’altro organismo. Sovente si tratta di principi incorporati nel complesso edificio istituzionale e privi di una loro formale evidenza, finché un comportamento o una norma di diritto positivo sembri intaccarne l’esistenza: solo allora se ne coglie l’esistenza. Insomma la violazione evidenzia e quindi sembrerebbe “creare” per reazione, la norma stessa. Peraltro non esistendo una “carta” o un disegno definito di queste regole fondanti, non era concepibile l’esistenza di un organo apposito che valutasse la possibile violazione. A ben vedere, questo aspetto “indeterminato” è un carattere di fondo dell’esperienza giuridica romana. La stessa costruzione del sistema dei diritti privati, il lascito più importante del sapere giuridico romano, presenta una tendenza al “non compiuto”, al mai definitivamente stabilito, una volta per tutte. La portata effettiva delle norme e delle regole consuetudinarie, il funzionamento dei singoli istituti e il sistema di relazioni tra di essi, insomma il quadro prodotto dall’incessante lavoro di generazioni di giuristi, non trovano mai una rigida definizione. Al contrario, essi costituiscono il risultato di un processo dialettico in continuo divenire, caratterizzato quindi da quel margine di variabilità e di incertezza che esprime anche la creatività e l’elasticità del sistema. Per concludere questo discorso su quelli che oggi chiameremo i “fondamenti costituzionali“ dell’ordinamento romano, è ovvio che la sua stessa indeterminatezza si prestò a varie interpretazioni e sollecitazioni in senso diverso e opposto. Così come è ancora più ovvio che la colossale avventura in termini di potere e di conquista che caratterizza la storia di Roma dal IV sec. sino al I sec. a.C. comportasse trasformazioni profonde e radicali riletture di questo patto sociale, inespresso e tuttavia sempre presente nella coscienza collettiva. Trasformazioni che, appunto permisero a Roma di far fronte a situazioni assolutamente nuove, anzitutto modificando la sua stessa fisionomia istituzionale, rispetto alla logica propria della città come unità politica. Grandissimo fu il percorso effettuato e relativamente rapido, ma sempre con un qualcosa di provvisorio. Si trattò di un continuo ritorno sulle soluzioni già acquisite perfezionando e correggendo il disegno istituzionale romano: mai definitivamente compiuto, sempre in divenire. Altra differenza, continentale. rispetto alla storia degli stati moderni dell’Europa 33 Cap. 6 La STRADA per l’egemonia (=dominio) ITALICA 1. Cittadini e stranieri Indipendentemente dalla discussione tuttora viva circa la verità storica delle conquiste attribuite dagli storici antichi a Roma in età monarchica, va ricordato come il territorio di Roma, in origine di circa 100 kmq, verso la fine del VI sec. a.C. fosse aumentato di circa popolazione cittadina, accelerato dall’assorbimento delle minori comunità vicine. Ciò determinò un accentuarsi della distinzione tra la comunità cittadina e ciò che “ne è fuori” cioè: tra Romani e gli stranieri. A eccezione dei diritti politici, riservati soltanto ai propri cittadini, vige, negli stati moderni, il c.d. principio della “territorialità del diritto”. Il diritto dello stato si applica cioè a tutti coloro che a qualsiasi titolo si trovano nel suo territorio, indipendentemente dalla loro cittadinanza. Costoro dovranno rispettare le leggi civili e penali dello stato ospitante e automaticamente riceveranno una tutela analoga a quella dei suoi cittadini, in una condizione di sostanziale eguaglianza. Al contrario, nel mondo antico, sia in Grecia che nella penisola italica tendeva a prevalere il criterio opposto per cui ogni individuo era legato alla sua patria 35 Altro contenuto di questo trattato era dato dalla possibilità prevista che l’insieme delle città della Lega fondasse nuove colonie che sarebbero divenute esse stesse nuovi membri dell’alleanza. Si trattava di una pratica comune a tutto il mondo delle poleis greco-italiche che permetteva la loro espansione. In questo contesto il termine colonia piccole comunità semi-urbane, create ex novo dalla città-madre e indicava situate in punti strategicamente importanti, anche se sovente assai distanti dalla fondatrice. Le singole città della Lega, e in particolare Roma, aderendo a questa politica coloniaria comune, non avevano comunque rinunciato al potere di fondare proprie colonie. Così Roma continuò a costituire, come già era avvenuto all’età dei re, accanto alle colonie latine, anche sue proprie colonie di cittadini romani. Nel corso d el tempo questa pratica avrebbe assunto un’importanza crescente e sotto più profili. Le colonie romane erano spesso insediamenti relativamente ristretti, con un organico non superiore a 300 coloni, che rispondevano a esigenze di carattere strategico. Sovente fondate in prossimità della costa marina, esse erano anzitutto dei presidi militari con il compito di controllare le vie di comunicazione soprattutto in territori ostili. Ciò spiega perché i cittadini fossero esentati dal servizio nelle legioni romane. A differenza della colonizzazione greca in Italia, i vincoli tra le colonie e Roma restarono sempre strettissimi ed energico e costante il controllo esercitato da questa su tutte le varie colonie, moltiplicatesi nel corso degli anni. Tuttavia, a partire inizi del ., con il crescente predominio di Roma, essa di fatto si appropriò dall’ IV sec. a.C del potere di fondare autonomamente nuove colonie latine, ciò divenne, anche formalmente, una sua esclusiva facoltà con lo scioglimento della Lega nel 338 a.C. Ciò permise a Roma di: assicurarsi il controllo di nuovi territori e realizzare una nuova redistribuzione delle terra a vantaggio soprattutto dei ceti meno abbienti di Roma e delle città a questa più strettamente collegate. crescere demograficamente ed economicamente Ma tra le colonie romane e quelle latine c’erano delle fondamentali differenze la principale riguardava la condizione giuridica: la colonia romana era un segmento organizzativo di Roma composto da un certo numero di suoi cittadini che mantenevano lo statuto personale preesistente. la colonia latina era formalmente una comunità separata ed estranea a Roma, tantoché i cittadini romani che avessero partecipato alla sua fondazione, divenendone membri, perdevano la loro cittadinanza d’origine, acquistando la condizione giuridica di Latini. La fondazione di una nuova colonia avveniva sulla base di una delibera del Senato e dell’approvazione di comizi che stabilivano anche i magistrati incaricati delle procedure necessarie per la sua istituzione, dando istruzioni per l’emanazione dello statuto che avrebbe regolato, con una lex (=legge) data, la vita e l’organizzazione interna. Si trattava in genere di uno schema relativamente uniforme con cui si definivano i magistrati di governo, quelli preposti alla giu Senato (con risdizione cittadina, l’assemblea cittadina e il poteri locali ma più potente di quello di Roma). Un importante elemento connesso alla fondazione della colonia è costituito dal particolare assetto del territorio a essa assegnato. Sin dal IV sec. a.C. venne infatti adottato dai Romani un sistema di divisione dell’area della colonia in parcelle regolari e tutte della stessa misura indicato come limitatio (=limite). Sotto la guida dei magistrati incaricati delle operazioni di fondazione della colonia alcuni tecnici detti agrimensori determinavano un punto centrale, tracciavano due linee perpendicolari (assi centrali, chiamati cardo e decumano maggiore) e in parallelo e a distanza regolare venivano tracciate altre linee rette (cardini e decumani o semplicemente limites) che si incrociavano ad angolo retto, costituendo al loro interno tanti quadrangoli regolari: le centurie43. Secondo lo schema tipico la centuria consisterebbe in un’area di 200 iugeri (circa 50 ettari): equivalente appunto ai 100 heredia romulei44 . Da questo numero ideale deriverebbe quindi il suo nome. Questa pratica ha un fondamento nelle più antiche tradizioni religiose del mondo romano- italico, collegandosi alle autoctone concezioni dello spazio come elemento di un universo religioso. Essa fu ampiamente sviluppata nei suoi aspetti tecnici, dando luogo a una vera e propria scienza in cui nozioni geometriche, conoscenze astronomiche e geologiche, elementi giuridici confluirono, lasciando importanti testimonianze anche nelle fonti antiche. Ma, il documento più importante è dato dalla persistenza, in tutto l’ambito dell’impero, delle tracce di questa colossale manipolazione territoriale. Basti pensare che ancor oggi in vari territori europei e nordafricani gli archeologi, rilevano spesso numerose sopravvivenze delle antiche forme di divisione del territorio agrario. 3. La svolta del 338 a.C. e i nuovi Statuti giuridici di Roma L’espansionismo romano, presente già nel corso del IV sec. a.C. fu in parte il frutto di fattori meramente militari, e in parte il risultato di un’articolata politica di cui la regia restò essenzialmente nelle mani del senato. Quest’ultima dette luogo ad una formidabile sperimentazione istituzionale, dove appaiono saldarsi logiche politiche e innovazione istituzione: “diritto e potere” insomma. L’espansionismo ci fu perché Roma, dopo ogni guerra vinta, solitamente “multava” le popolazioni sconfitte e sottomesse sottraendo a esse una parte del loro antico territorio. Era l’applicazione di una idea diffusa in tutto il mondo antico per cui il vincitore aveva ogni potere sui vinti e quindi anche sui loro beni. I nuovi territori così acquisiti: diventavano agger pubblicus45 restando nella disponibilità dello Stato cittadino che poteva concedere lo sfruttamento ai privati dietro e pagamento di un canone, venivano distribuiti in proprietà privata ai cittadini romani, sia nelle forme di terre assegnate individualmente (viritim), sia mediante la fondazione di colonie. Ciò determinò l’aumento numerico delle tribù territoriali e della popolazione ma nulla più. Infatti diversamente che alle origini, le popolazioni delle città vinte non erano state assorbite all’interno della civitas Romana: erano restate piuttosto come entità più o meno subalterne e spesso vincolate formalmente da trattati di alleanza diseguale imposti da Roma. I limiti di questa politica si erano visti proprio in 36 g p q p p p occasione della conquista di Di una città così importante e forte, Roma non aveva saputo far altro, una VEIO. volta sconfitta, che distruggerla, disperdendone la popolazione, in parte sterminandola o riducendola in schiavitù (solo in seguito riassorbendone alcuni frammenti al suo interno). Si trattava, in fondo, di una politica abbastanza generalizzata propria anche delle poleis46 greche (es. Atene e Sparta) ma limitata e abbastanza rozza come fu rozza la drastica soluzione adottata da Roma per VEIO, se pur giustifica dalla 43 Unità della legione romana composta di cento soldati; denominazione accolta in seguito anche per gli organici di alcuni eserciti o formazioni paramilitari 44 Un centesimo di centuria/e 45 Nel diritto romano, l'ager publicus, letteralmente "agro pubblico", era l'insieme ed il carattere giuridico di porzioni di territorio (terreni, fondi, latifondi, e per impropria estensione talvolta anche gli altri immobili) di proprietà dello stato. 46 Tipo di città-stato greche durata e dalla violenza dello scontro. Questa “inesperienza o impreparazione” fu presto colmata: pochi anni dopo Roma avrebbe mostrato una i ità di d ll lt li i ità i i bb t l i 38 p p A partire dal questa reciprocità venne meno e nei rapporti tra i cittadini di colonie antiche, colonie 338 a.C. romane, municipes optimo iure55 e sine suffragio56 e i Romani si cominciò a usare solamente il diritto romano che divenne, insieme al latino, il fattore determinante nel processo di romanizzazione dell’Italia. Contestualmente divenne gradualmente omogeneo anche l’organizzazione di governo e l’assetto istituzionale di questi nuovi municipi grazie: a magistrature uniformi e di senati locali (l’ordine dei ”decurioni”) all’introduzione dei prefetti questi erano dei magistrati delegati dal pretore preposti alla giurisdizione in ambito territoriale soprattutto nei riguardi dei cittadini romani. Questo meccanismo fu sperimentato con i praefecti Capuam Cumas, competenti per le città campane, gratificate dalla civitas sine suffragio, e fu poi sistematicamente applicato con i praefecti iure dicundo. Circa la persistenza, anche parziale, di forme giuridiche locali bisogna dire che, considerato lo stato delle fonti, non è chiaro per l’autore, come queste potessero coesistere con l’area di applicazione del diritto romano. Probabilmente si tratta di una realtà quanto mai fluttuante priva di una rigida “teoria dello stato” o “dell’amministrazione”. Un vincolo che contribuì a limitare un’espansione accelerata del diritto romano era la sua connessione con l’uso della lingua latina. Infatti il carattere formalistico e orale del diritto romano, l’uso di parole e frasi predeterminate per porre in essere una serie di atti giuridicamente rilevanti (dalla trasmissione della proprietà alle forme primitive di contratto sino ai litigi processuali) escludeva che chi non sapesse parlare latino potesse accedere al diritto romano. Ora, i Romani, non solo non imponevano la loro lingua ai popoli sottoposti, ma escludevano addirittura che essi potessero usarla negli atti ufficiali, senza loro autorizzazioni. Così, i municipi sine suffragio continuarono per secoli a usare i loro diritti e le lingue autoctone, dall’osco all’umbro, pur subendo un processo di romanizzazione, peraltro inarrestabile (anche perché queste autorizzazioni a usare il latino nella vita ufficiale delle varie comunità vennero comunque gradualmente rilasciate). Probabilmente furono soprattutto le elites locali a interessarsi maggiormente ai rapporti esterni, fruendo costantemente del diritto romano e portando avanti così, in forma semi spontanea, il processo di romanizzazione delle loro istituzioni. D’altra parte questi municipes potevano ben imitare i Romani nei loro usi, parlare la loro lingua, adottare anche, per quanto possibile, le loro istituzioni giuridiche. Ma questa era decisione unilaterale e, per molto tempo, più atta a introdurre dal basso, in forma disordinata e semi casuale, pezzi di ordinamento romano, che l’intero sistema del diritto civile romano e la sua integrazione costituita dallo ius honorarium. 54 Ius Latii = legge italiana 55 Municipes optimo iure cittadini in possesso dei pieni diritti= 56 Optimo iure = con pieno diritto Nei territori in cui si estese questa cittadinanza senza diritti politici (Lazio e territori confinanti) questo statuto fu trasformò rapidamente nella piena cittadinanza romana, comprensiva dei diritti politici. Infatti laddove, sin dall’inizio sussisteva una forte omogeneità culturale, linguistica e, verosimilmente giuridica, fu possibile l’acquisizione rapida della piena cittadinanza romana senza gravi scosse. Mentre per le popolazioni e per le culture più lontane questo status intermedio durò più a lungo. La misura del successo di tali processi è data dal fatto che, alla fine della repubblica, le tradizioni, le culture e i linguaggi italici erano ormai tramontati, di fronte all’espansione dei modelli romano-latini. Di qui la relativa facilità con cui s’ebbe la definitiva espansione del diritto romano in tutta la penisola, almeno a partire dalla fine della guerra sociale, dopo la concessione della piena cittadinanza romana a tutti gli Italici. Ciò spiega anche come, della precedente fase di incubazione, non restasse traccia ne ricordo. 5. Città, “fora”, “consiliabula”, “pagi” e “vici” La società romana aveva un carattere cittadino che manifestava soprattutto con la fondazione delle colonie. Così, nella progressiva penetrazione politico-istituzionale di Roma in tutto il territorio della penisola e nelle forme organizzative adottate per le popolazioni sottoposte, costante fu il riferimento al modello cittadino. Anche quando la Roma si arrogava elementi essenziali della “sovranità” (il diritto di pace e di guerra, il batter moneta, il diritto di vita e di morte sui cittadini) comunque favorì la persistenza di una circoscritta individualità politica nei vari municipi e colonie. Ciò è evidente anche al negativo, infatti per i Romani la massima sanzione al nemico era la cancellazione totale della sua città (Cartagine). Anche dove, come nel mondo sannita, le forme di insediamento prevalenti erano dei villaggi, i Romani cercarono sempre di identificare un elemento, magari il villaggio potenzialmente più “promettente” da trasformare in una piccola città e quindi in centro municipale a cui agganciare in forma subalterna le altre strutture territoriali (villaggi, mercati rurali, piccoli santuari circondati da abitati ecc.). La centralità del modello cittadino ci deve far riflettere sul fatto che l’ampia estensione territoriale pienamente romanizzata presupponesse anche nuclei minori soprattutto nelle aree dove i processi di urbanizzazione erano più lenti o addirittura inconsistenti. Ecco quindi: i fora, i , i e gli stessi villaggi ( ), quali località in cui popolazioni rurali conciliabula pagi vici venivano a incontrarsi in mercati stagionali, si saldavano in comuni luoghi di culto e in distretti rurali aventi una loro identità amministrativa. Si tratta di strutture con una loro più o meno accentuata autonomia, situate all’interno e in funzione dell’ager Romanus , controllate e coordinate comunque dai magistrati romani. La giurisdizione sui loro abitanti, quasi tutti cittadini romani, fu proprio dei Preaefecti iure dicendo. In particolare i Fora e i Conciliabula s’identificano sovente con quei minori insediamenti di cives romani beneficiari di distribuzioni di terre in piena proprietà quiritaria. L’autore non sa spiegare perché i Romani abbiano preferito questo sistema nella loro espansione delle aree interne della penisola, circoscrivendo in genere le colonie romane alle sole aeree costiere, anche se precisa che queste non dovevano essere à 39 considerate come realtà residuali dinanzi alla fioritura cittadina favorita dai romani. Mentre i suoi antichi alleati venivano assorbiti all’interno dell’ordinamento politico romano e regolati dal suo potere sovrano, una miriade di nuovi rapporti di alleanza venivano stretti dai Romani con le varie popolazioni e comunità italiche, nel corso della loro rapida espansione: il foedus57, il trattato d’alleanza, era stipulato tra soggetti sovrani e poteva sancire: una formale subalternità politica, a favore di Roma (foedus iniquum58), una formale alleanza tra pari (foedus aequum59). Il fatto che tra gli impegni reciproci assunti tra le parti vi fosse l’obbligo di aiutare l’alleato in caso di guerra è la vera chiave di lettura di questi trattati. Infatti, difficilmente queste comunità minori, molte volte interamente circondate da territori romani, sarebbero state in grado di dichiarare guerre, mentre Roma, al contrario, era continuamente in guerra. Ecco quindi che gli innumerevoli alleati italici soci (dal termine societas, utilizzato a indicare l’alleanza internazionale, prendevano) dovevano quindi fornire supporto in termini di risorse materiali e di uomini. Così si moltiplicava la forza militare di Roma. Coerentemente del resto con logiche che avevano ispirato politica internazionale delle più importanti le la 57 Foedus = Nella Roma antica, il trattato in base al quale si costituiva un accordo internazionale, e quindi la societas o alleanza con altri popoli. 58 Foedus aequum: nel caso di legami con città con cui non si era entrati in guerra, o che la guerra non avesse prodotto una vittoria.foedus iniquum: nel caso di alleanza dovuta a sconfitta, nel qual caso dovevano accordare ogni richiesta venisse da Roma. 59 foedus iniquum: nel caso di alleanza dovuta a sconfitta, nel qual caso dovevano accordare ogni richiesta venisse da Roma. 41 p p , cittadino che fosse nato da padre libero, ingenuus61 , poteva aspirare ad una carica magistratuale. Ma nei fatti questa carriera era aperta principalmente agli individui appartenenti a un ristretto gruppo sociale composto dall’aristocrazia di sangue (i patrizi) e ai figli della nobilitas. Era aperta anche ad altri ma in che modo? Nell’antichità, e soprattutto a Roma, il buon cittadino che dà il suo contributo alla vita della città è anzitutto un soldato ed è una persona che partecipa attivamente alla vita politica cittadina: il suo tempo non è dedicato all’attività economica: il sostentamento suo e della famiglia è ricavato in genere da una proprietà fondiaria lavorata da altri soggetti: gli schiavi, i contadini pagati a giornata o, come coloni, con parte del prodotto del fondo. Per cui automaticamente si escludevano tutti coloro che dovevano vivere del proprio. Quindi solo il giovane appartenente a una famiglia di buoni proprietari fondiari poteva pensare a una sua ascesa politica, condizione per il suo inserimento nella nobilitas patrizio-plebea. Ma servivano anche amicizie e protezioni altolocate: il primo fattore per il suo successo. Altra condizione essenziale per il successo era distinguersi durante i 10 anni di servizio militare. Al termine egli poteva presentare la sua candidatura ai comizi ma era importante anche il modo con cui tale impegno era stato assolto. Chiaramente essere scelto a servire direttamente nello stato maggiore del generale impegnato in una campagna militare agevolava notevolmente il giovane ufficiale, che avrebbe avuto modo così di distinguersi per abilità e coraggio, addestrarsi nel comando e imparare le strategie e le tecniche militari, elemento molto importante anche nelle successive tappe della sua carriera. Solo dopo questa esperienza, in cui magari si era messo in mostra capacità e coraggio, egli avrebbe potuto presentarsi alle elezioni per le cariche minori: questore o edile. Anche qui servivano, di nuovo, amicizie, protezioni e alleanze poiché occorreva, essere prescelti in una rosa di candidati, ciò tagliava fuori chi non avesse appoggi in senato o tra i magistrati proponenti, e occorreva impegnarsi una campagna elettorale che, nel tempo, sarebbe divenuta sempre più poi in dispendiosa, sino a costringere gli aspiranti, che non fossero molto ricchi, a indebitarsi, sperando poi di saldare i creditori con i guadagni ricavati dalle campagne militari vittoriose o dall’amministrazione (e spoliazione) delle province. É chiaro quindi che chi riusciva apparteneva sempre allo stesso gruppo sociale compresi “gli uomini nuovi” che pure vi furono. Essi infatti, quasi sempre provenivano dal gruppo immediatamente al di sotto della nobilitas senatoria cioè: la classe equestre. Così indicati in base alla classificazione propria dell’ordinamento centuriato. Questa categoria comprendeva: i grandi proprietari fondiari una serie di soggetti con fisionomia imprenditoriale e commerciale, in particolare quegli appaltatori cui furono affidate la costruzione di opere pubbliche, la gestione del patrimonio immobiliare e il prelievo fiscale. Malgrado i privilegi che la nascita assicurava in partenza ad alcuni, giocavano in genere anche le qualità personali garantendo un’adeguata mobilità nella forte gerarchia sociale e politica romana. Il collaudo così effettuato di questo insieme di competenze e di storie personali trovava il suo esito finale nel senato, dove infine essi si riversavano, assicurando la qualità di governo della repubblica. Sempre più, poi, man mano che aumentavano gli impegni militari di Roma, i quadri di governo, proprio attraverso il loro lungo curriculum militare precedente, erano sempre più competenti e abili. Tanto che mentre per i secoli le legioni romane furono costituite dai cittadini-proprietari, ispirati a un immediato patriottismo, i loro comandi assunsero nel tempo un carattere semi-professionale che li mise in grado di sostenere il confronto con le tecniche e le competenze delle armate di mestiere, da quella macedone e cartaginese, a quelle dei regni d’Oriente. 60 Con il termine Nobilitas si definisce la classe dirigente di Roma dai primi secoli della media e tarda repubblica romana e del principato, che si stabilì dopo la fine del conflitto degli ordini 61 Ingenui o ingenuitas (singolare ingenuus), era il termine legale dell'antica Roma che indicava coloro che erano nati liberi, per distinguerli dai liberti, che erano liberi ma che erano stati schiavi. Ulteriore prova dell’enorme rilevanza dell’aspetto militare nella storia individuale era testimoniato con il trionfo. Questo era una cerimonia, decretata dal senato, con cui il magistrato, sfilava solennemente nella città, seguito dalle sue legioni, esibendo il bottino della vittoria, e i prigionieri, dove il grande fasto pubblico si associava alle arcaiche forme simboliche del potere. Era un riconoscimento ambitissimo che consacrava il particolare e durevole prestigio personale e politico di chi lo avesse ottenuto. 2. Il “cursus honorum” Col tempo si definì un preciso insieme di regole volte a disciplinare la carriera pubblica dei cittadini romani: il loro cursus honorum62. Questo aveva inizio con l’elezione alle magistrature minori, presupposto per aspirare alle cariche superiori, dopo un regolare intervallo di tempo tra l’una elezione e l’altra, giungendo infine al vertice della repubblica, con l’elezione a console e a censore. Era esclusa un’immediata rielezione alla stessa carica, sempre al fine di evitare un’eccessiva concentrazione di potere in singoli individui. Malgrado il costante, anche se controllato e circoscritto, rinnovamento del ceto dirigente romano di cui s’è detto, tutta la vita politica continuò a essere controllata dalle consorterie nobiliari. La lotta di potere e le alterne vicende della politica passarono anzitutto attraverso la storia delle gentes. Pur non avendo più il monopolio delle cariche pubbliche e del senato, le gentes costituivano ancora un potente legame sociale tanto che, ben presto, anche gli strati superiori della plebe si organizzarono per gentes , accanto alle antiche stirpi patrizie. Ciò contribuì a conservare la rilevanza pubblica e sociale delle gentes stesse. Non esistevano dunque le condizioni perché si formassero alleanze o raggruppamenti politici su progetti e programmi (esperienza attuale del partito politico). Ovviamene esistevano divergenze anche molto profonde, all’interno dell’oligarchia romana in ordine alle scelte politiche, sia interne che internazionali; esistevano strategie consolidate e contrapposte. Ma tutto ciò era “letto” e vissuto in base alla propria specifica tradizione e si tendeva a ripercorrere, in contesti politici nuovi, antiche strade, richiamandosi ognuno ai propri e specifici valori. Rapporti di parentela e appartenenza gentilizia, legami di amicizia individuali e di gruppo e, soprattutto, vincoli clientelari costituivano in effetti, nel corso di tutta la storia romana quei collanti su cui si fondava la politica, e con cui si costruivano il consenso sociale e le fortune individuali. Di qui le tradizioni politiche a tutti note, come l’orientamento conservatore dei Fabi, sin dai tempi più antichi legato ai valori agrari e cauto verso le nuove politiche imperialistiche di contro il carattere 42 più antichi, legato ai valori agrari e cauto verso le nuove politiche imperialistiche, di contro il carattere avventuroso e capace di grandi aperture innovative dei Claudi. L’eccezionale durata nei secoli di tanti illustri lignaggi gentilizi fu possibile attraverso le diffuse pratiche di adozione. Questo era l’unico meccanismo che permettesse di limitare gli effetti dell’alta mortalità e della bassa vita media. In effetti, malgrado l’estinzione di molte genti e lignaggi familiari nella vita politica di Roma, per molti secoli riappariranno i nomi delle grandi stirpi nobiliari portati dagli innumerevoli magistrati che si successero al governo della repubblica. Un altro strumento fondamentale di questa persistente forma gerarchica è rappresentato dalla clientela che costituisce un tipo di relazione straordinariamente diffuso nell’antichità, anche fuori di Roma. Non si tratta più della dipendente dalle grandi signorie patrizie ormai scomparse, ma di un clientela arcaica, reticolo di alleanze e di rapporti di dipendenza di natura più complessa volta a riaffermare il concetto di “largir protezione” in tutte le forme ai ceti socialmente più deboli (anche per ottenere giustizia, si pensi alla difficoltà del singolo e povero cittadino nel rivolgersi al pretore). Così intorno alle grandi famiglie e con riferimento alle personalità più eminenti tra i vari patres, vi era un reticolo di forme di lealtà subalterna destinate a riflettersi anche nel momento elettorale. E’ in questo quadro di relazioni reciproche che, si inseriscono anche le carriere degli “uomini nuovi”. Molti di essi infatti, lungi dal “farsi da soli” fruirono dei legami di protezione forniti loro dai vari gruppi nobiliari per muovere i primi passi della loro carriera. Quanto fosse importante lo schema clientelare in Roma, lo prova il fatto che questo sistema di relazioni squilibrate non restò circoscritto solo ai rapporti sociali e politici cittadini, perché su una logica simile si basò la costruzione dell’egemonia di Roma: ad esempio quando un magistrato romano, con la sua vittoria militare, aveva ottenuto la resa di una città o di una popolazione egli ne assumeva la protezione. Anzitutto facendosi intermediario tra gli interessi di questa comunità e il supremo volere del senato, cercando di ottenere da questo la sanzione definitiva dei provvedimenti da lui assunti nell’affermare la signoria romana e divenendo poi, lui e i suoi discendenti, il referente constante per ogni richiesta che tale popolazione dovesse fare ai Romani. Protezione politica, dunque, a fronte di un continuo supporto materiale, di ogni tipo, a favore del patrono. In seguito ciò varrà per intere province. 62 Nell'antica Roma , la serie progressiva delle cariche pubbliche (e l'ordine nel quale si succedevano) che potevano essere ricoperte dai varî cittadini, ciascuno nell'ambito della propria condizione: il cursus honorum dell'ordine senatorio, dell'ordine equestre. 44 modalità e regimi abbastanza differenziati, ma in genere a fronte del pagamento di un canone periodico (talvolta però con un pagamento iniziale “d’acquisto” più elevato). Ma a causa della debolezza organizzativa dei magistrati responsabili della loro gestione, gran parte di tali terre non veniva direttamente assegnata alla miriade di coltivatori e di allevatori interessati al loro sfruttamento, ma concessa a grandi mediatori, in grado di pagare le elevate somme richieste dai magistrati romani per aree assai ampie. Questi poi suddividevano tali estensioni di ager publicus, tra tutti i piccoli agricoltori interessati, lucrando la differenza, spesso molto elevata, tra la cifra globale del lavoro versata alle casse di Roma e i canoni percepito dai sub conduttori. Il guadagno di Roma era minore, ma si evitava tutto il lavoro che la ripartizione delle terre pubbliche tra una molteplicità di coltivatori e allevatori avrebbe comportato e i costi connessi. Analogo meccanismo riguardava anche: le > gli appaltatori privati si facevano carico di tale incombenza riscossioni tributarie nelle province per conto di Roma, lucrando anche qui la differenza tra il percepito e quanto dovuto. la come la grande rete stradale che ebbe inizio con la via Appia, costruzione delle opere pubbliche alla fine del IV sec., i primi acquedotti pubblici, gli edifici pubblici, i templi e le terme pubbliche > Ciò determinò un crescente livello di investimenti. l’organizzazione del vettovagliamento e delle strutture logistiche a sostegno dell’esercito impegnato sempre più a lungo e in territori sempre più lontani da Roma. Tutto ciò fu possibile grazie alla precoce affermazione di un gruppo sociale relativamente articolato, distinto dalla nobiltà delle cariche, tutta orientata al governo della politica e agli impegni militari. Si trattava di individui provenienti dagli strati più ricchi della popolazione: quelli che fornivano all’esercito i cavalieri, gli equites, in grado di provvedere a loro spese alla costosa cavalcatura. Questi: - avevano i capitali necessari a supportare le imprese appena viste che richiedevano forti anticipazioni finanziarie e delle garanzie patrimoniali da fornire alle pubbliche autorità. - avevano anche acquisito quelle competenze e quelle capacità finanziarie e imprenditoriali richieste per far fronte a questi compiti. Si tratta insomma di una specializzazione e anche di una peculiare destinazione di flussi di ricchezza che identificava e circoscriveva i suoi titolari dando ad essi un ruolo sempre più importante nella società romana, ma, insieme segnava la separatezza dalla nobilitas patrizio-plebea, proposta alla politica e in grado di monopolizzare il governo cittadino. Un sottogruppo particolare di questo ceto di “cavalieri” e di appaltatori (redemptores64) è rappresentato dagli appaltatori (e riscossori) delle imposte, , così i publicani odiosamente richiamati in tante testimonianze antiche e addirittura nei Vangeli, per il loro ruolo negativo e insostituibile nello sfruttamento dei popoli provinciali. In genere la formazione di questi nuovi gruppi sociali e l’affermarsi delle connesse attività economiche viene collocato in un periodo successivo a quello qui considerato. Ma se questo sistema non si fosse già avviato sin dalla fine del IV sec., come sarebbe stata in grado Roma di affrontare l’imponente quantità di opere pubbliche che, a partire dalla censura di Appio Claudio, nel venne realizzata e, poi, di 312 a.C., riconvertire in pochissimi anni la sua forza militare, attrezzando una potente flotta, nel corso della Prima guerra punica? Senza poi considerare i prolungati e pesanti sforzi organizzativi necessari al sostentamento delle stesse sue armate nella drammatica guerra contro Annibale e di cui abbiamo precise testimonianze in . Livio 4. Le regole di un’oligarchia65 Parallelamente allo sviluppo in ambito internazionale ci fu un processo di modificazione del quadro istituzionale e riassestamento interno tra i gruppi dominanti. Circa il quadro istituzionale le di dell’equilibrio modifiche riguardavano gli aspetti più politici come: o divieto di duplicare le cariche magistratuali la disciplina delle cariche o le regole del cursus honorum Ma ci fu un continuo e incisivo intervento legislativo anche in materia di comizi. Nel tempo si modificò, infatti, la composizione delle unità di voto, intervenendo sul numero delle centurie, mentre nuove norme modificarono ripetutamente l’ordine che presiedeva alla loro consultazione nei comizi (sappiamo infatti come le votazioni non fossero contemporanee per tutti i distretti di voto). Altre leggi furono poi votate a ridefinire il rapporto tra le centurie stesse e il fondamentale sistema di distribuzione della popolazione per tribù territoriali. 64 Redemptores = redentori =Liberatore da uno stato di schiavitù 65 Regime politico o amministrativo caratterizzato dalla concentrazione del potere effettivo nelle mani di una minoranza, per lo più operante a proprio vantaggio e contro gli interessi della maggioranza. Le innovazioni circa i poteri delle magistrature e le regole del cursus honorum appaiono costantemente ispirate: alla salvaguardia della natura oligarchica della repubblica e alla compattezza dell’aristocrazia di governo, a evitare la possibile prevaricazione di singole personalità politiche troppo forti, che avrebbero potuto aprire la strada ad un potere personale. Per questo si mantennero due principi fondamentali quello della non duplicabilità delle cariche, almeno negli anni immediatamente successivi a quello in cui si è gestita la magistratura stessa, e quello di far passare degli intervalli di tempo tra la scadenza da una magistratura e la possibilità di presentarsi alle elezioni per una magistratura superiore erano entrambi finalizzati a evitare il concentrarsi di troppo potere, e in un periodo troppo ristretto, nella stessa persona. E proprio nel momento in cui il massimo sforzo militare romano nella seconda metà del III sec. aveva impedito il rispetto di queste regole, maturò la preoccupazione di riaffermarle: la lex Villia annalis, del 180 a.C. ribadì: l’età minima per l’accesso alle cariche pubbliche, derivata dall’obbligo dei preliminari 10 anni di servizio militare, l’intervallo di 2 anni tra l’una carica e la successiva. Per cui in curule era dietà ciceroniana dopo gli ulteriori interventi normativi l’età per accedere all’edilità 45 Per cui, in curule era di età ciceroniana, dopo gli ulteriori interventi normativi, l età per accedere all edilità 37 anni, 40 per la pretura, 43 per il consolato, mentre derivava verosimilmente dall’intervento di Silla il criterio dei 31 anni per la nomina questore. Certo, tutta la storia della repubblica, a ben vedere, è stata caratterizzata dalla presenza di fortissime personalità politiche che sembrano dare una fisionomia particolare a certe fasi storiche. Ma esse, anche se qualche volta andarono oltre alle regole del cursus honorum o in ordine alla gestione dei vari poteri, appaiono sempre rientrare all’interno di un sistema, e non giunsero mai a creare squilibri permanenti tra i poteri e gli organi della repubblica. 5. Appio Claudio Cieco: un ardito riformatore Un esempio significativo della fedeltà alle tradizioni gentilizie e della conseguente continuità politica all’interno del ceto dirigente romano lo troviamo in Appio Claudio, discendente del famoso decemviro. Egli divenne censore nel e fu rieletto al consolato nel e nel e cercò, nella sua azione di 312 a.C. 307 296 a.C. governo, di svolgere un ruolo di innovazione e di “modernizzazione”, del tutto in linea con le tradizioni familiari. Ciò che colpisce è l’amplissimo spettro dei suoi interventi che vanno dalle strutture materiali della città sino al cuore dei suoi processi culturali e tecnici. Roma in quel periodo era di fronte ad una scelta fondamentale: o continuare a espandersi a nord cioè rimanere fedele alla tradizione politica di crescita territoriale e della ricchezza fondiaria o espandersi a sud andando verso la Magna Grecia e Cartagine determinando dei vantaggi per i gruppi mercantili e marinari. Per questo la via Appia, che prende il suo nome perché costruita sotto la sua censura, considerata la “regine delle vie”, aveva un valore anche simbolico poiché univa Roma, la Campania, andava poi verso l’Apulia, sino al grande porto di Brindisi: la porta verso la Grecia e il Mediterraneo orientale. L’attenzione di Appio Claudio verso gli aspetti mercantili e finanziari e i ceti a essi collegati è anche alla base della riforma della composizione delle tribù che comportava la valutazione, accanto ai beni immobili, anche della ricchezza mobiliare per la distribuzione della cittadinanza (si tenga presente che da pochi anni era iniziata la coniazione delle prime monete d’argento). Ciò si sarebbe riflesso sull’assetto dei comizi centuriati. Sotto la sua censura ci fu un’altra novità e cioè l’iscrizione tra i nuovi senatori di alcuni liberti. Fu un atto inaudito agli occhi dei Romani, sulla cui veridicità si può nutrire qualche dubbio, ma che esprime la tipica arditezza, sino all’arroganza, dei Claudi. Furono riforme troppo radicali destinate ad avere vita breve e infatti, negli anni successivi ci fu la revoca sia dell’iscrizione nelle tribù rustiche della turba dei non proprietari, ricondotti così all’interno delle sole quattro tribù urbane, sia la revoca della nomina a senatore degli ex schiavi. Quest’ultima vicenda comunque fa pensare a una crescente importanza dei liberti nell’economia mercantile romana. Malgrado ciò, profonda e duratura appare l’azione di rinnovamento realizzata da Appio, infatti, come il suo avo, anche Appio Claudio Cieco si ritrovò a lottare contro il monopolio del collegio pontificale, che riuscirà ad erodere in modo meno radicale ma più efficace rispetto al suo avo. A lui risale, infatti, un’iniziativa gravida di Cap. 8 ROMANO e gli sviluppi della SCIENZA GIURIDICA L’evoluzone del DIRITTO 1. I Giuristi e il Diritto Privato In età imperiale, i giuristi teorizzarono la complessa fisionomia di quel diritto da essi studiato e straordinariamente sviluppato. Così Gaio, un giurista del ., afferII sec. d.C mò che il “diritto del popolo Romano consiste nelle leggi, nei plebisciti, nei senatoconsulti, nelle costituzioni imperiali, negli editti di coloro che hanno il ius edicendi, e, infine, nei pareri degli esperti: i responsa prudentium66. Alla sua epoca, in effetti, il substrato consuetudinario del diritto romano, gli antichi mores, era già da secoli totalmente assorbito all’interno del valore fondante delle XII Tavole, per eccellenza le “leggi” della città, e dell’interpretatio dei giuristi. In effetti è attraverso il lavoro di riflessione e delle opere della giurisprudenza che si trasmetterà la conoscenza del diritto cittadino, il ius civile. Molto significativo è il passaggio, avvenuto tra la fine del III sec. e l’inizio del II sec., da un sapere proprio e limitato di un numero chiuso di persone “i pontefici” ad una prima generazione di giuristi laici (nuovi cultori del diritto estranei al collegio pontificale). Quest’ultimi, grazie anche ad una maggiore razionalità furono in grado, non solo di estendere a dismisura gli spazi e i tipi di relazioni governati dal diritto, ma soprattutto di elaborare un insieme di procedimenti logici, di verifiche pratiche e di astrazioni concettuali che costituiscono il sostrato di quella vera e propria “scienza” del diritto, sviluppatasi in Roma, per la prima volta nella storia del mondo antico. A riguardo particolarmente significativo fu il pontificato di Tiberio Coruncanio (fu il primo pontefice plebeo - nel 330 la lex Ogulnia aveva completato il processo di parificazione dei due ordini, ammettendo i plebei ai collegi sacerdotali). Egli infatti, nel 254 a. C., rendendo pubbliche le sedute dei pontefici, permise che anche altri acquisissero la conoscenza dei contenuti e la comprensione dei metodi applicati dagli stessi pontefici. Divenne allora possibile anche per altri cittadini dedicarsi allo studio e all’interpretazione della tradizione giuridica romana. Così a partire dal II sec. si affermarono le prime grandi personalità di giuristi (che solo in alcuni casi rivestirono anche la carica di pontefice), iniziando una riflessione sistematica sulle norme, sugli istituti e sulle forme processuali. Si trattava di un lavoro a metà teorico e a metà pratico, che si aggiunse e poi si sostituì a quello dei pontefici nell’assistere e orientare i propri concittadini: o consigliandoli sugli atti giuridici da stipulare (cavere), o aiutandoli nell’interpretare situazioni legali oscure e incerte (rispondere) assistendoli negli eventuali litigi (agere). I giuristi ricevevano nelle proprie abitazioni amici, clienti, ma anche estranei che necessitavano di un parere legale, dando consigli e assistenza. Gli incontri erano un aspetto della vita sociale e ovviamente, pubblici: pubblici i consigli e le spiegazioni. Così intorno ai più brillanti e autorevoli tra questi specialisti, da cui si andava per un parere, ma anche per istruirsi, si costituì un pubblico di auditores. E tra costoro, nascevano interessi e vocazioni, si formavano allievi che imparavano il modo di ragionare del giurista già affermato, comprendevano il procedimento utilizzato per giungere a certi risultati, acquisivano la conoscenza di tradizioni legali consolidate e di leggi. Diventavano insomma, essi stessi, nuovi giuristi. Inoltre al tramonto della scienza pontificale contribuì in modo non marginale la progressiva diffusione della scrittura. Questa risaliva già al . e infatti è pacifica la redazione scritta delle ma elementi VI sec XII Tavole come l’accentuato ritualismo, la presenza dei testimoni e la formulazione dei precetti strumentali alla memorizzazione sembravano far prevalere l’oralità sulla memoria. Tra il III e il II sec. a.C. ci fu un notevole ampliamento delle forme scritte e, in questo nuovo contesto, la nobilitas laica iniziò a produrre testi scritti in cui si conservava memoria dei casi e delle soluzioni già discusse e delle proposte avanzate dall’uno o dall’altro giurista. La raccolta di questi testi iniziò così a circolare, contribuendo all’accumulazione di un sapere trasmesso nel corso delle generazioni, con le inevitabili selezioni, consolidamenti, e ulteriori innovazioni. Inoltre, lo scritto rispetto alla memoria favoriva anche una nuova articolazione del pensiero, la stesura di ragionamenti più complessi. É necessario ora capire quale fosse l’attività interpretativa dei pontefici prima e dei giuristi poi. Circa i pontefici, la loro attività interpretativa aveva lo scopo di chiarire il significato letterale dei precetti contenuti nelle XII Tavole (operazione non semplice data l’oscurità della lingua arcaica utilizzata). Sotto questo aspetto il controllo pontificale si spinse più in là di quest’ambito allorché, molto liberamente e con 47 intelligenza creativa, innovò il contenuto ed estese o mutò l’ambito di applicazione dei singoli negozi e dei vari istituti giuridici. Non vi è praticamente norma nelle XII Tavole che non richiedesse e non rendesse possibile un insieme di interpretazioni sempre più complesse e innovative man mano che le arcaiche forme del diritto antico si rivelavano di per sé insufficienti a disciplinare una realtà sociale ed economica in rapido 66 Secondo la definizione di Gaio, i responsi dei giurisperiti sono "i pareri e le opinioni di coloro ai quali è data licenza di produzione del diritto". Sin dall'età repubblicana, i responsa prudentium furono una delle fonti di produzione di ius civile. sviluppo. i principali strumenti dell’interpretazione dei pontefici furono: le finzioni giuridiche e l’analogia. Mentre nuovi risultati si realizzarono modificando consapevolmente il significato e la portata di un istituto per giungere a conseguenze del tutto diverse da quelle ordinarie. Questo permetteva di giungere, attraverso la reinterpretazione di vecchi istituti, a risultati totalmente nuovi e poter far fronte alla nuove esigenze che si presentavano. Ad esempio: si utilizzò il divieto di abusare del potere di vendita del figlio sancito dalle XII Tavole (che stabilivano 48 p g ( un limite al numero di vendite effettuate da parte del pater, superato il quale costui perdeva la sua potestas sul figlio), per creare il nuovo istituto dell’emancipazione: una serie di vendite fittizie con cui il padre liberava volontariamente il figlio dalla sua potestà. Si utilizzarono i falsi processi, sicuramente gestiti dai pontefici e concordati tra le parti, per giungere a conseguire una pluralità di risultati: dal trasferimento della proprietà, all’adozione di un figlio o alla liberazione di uno schiavo. Probabilmente il collegio pontificale intervenne a progettare la norma decemvirale che ammetteva la temporanea assenza della moglie dalla casa maritale, in modo da scindere un legittimo matrimonio, valido secondo il diritto civile, dal pesante potere patriarcale del marito, in origine indissolubile dal matrimonio stesso. Un’altra finzione era quella di “vendere” un patrimonio, quando in verità si voleva lasciare il medesimo, dopo la propria morte, ovviamente a titolo gratuito, a un successore: l’erede. In altri casi invece si trattava di utilizzare uno schema già esistente nell’esperienza giuridica romana per estendere l’efficacia rispetto a situazioni simili, anche se non originariamente previste. Con la “laicizzazione” della scienza giuridica venne meno l’originaria forza cogente del sapere pontificale che scioglieva difficoltà e dubbi, esprimendosi con soluzioni univoche e in forma definitiva. I pareri, infatti, non provenivano più da un’autorità unica ma da una molteplicità d’individui, nascerà così: lo ius controversum. Un diritto in cui l’effettiva portata e significato stesso delle regole, il suo modo di funzionamento, derivavano da un continuo e sempre nuovo dibattito tra gli specialisti. Prevalevano di volta in volta le idee e interpretazioni più convincenti e le soluzioni proposte dalle personalità più autorevoli. Autorevolezza, del resto, determinata essenzialmente dal consenso degli altri giuristi e dall’opinione pubblica, secondo una logica che resterà per tutta la repubblica e fino al principato. Certo così rimanevano dei margini relativamente ampi d’incertezza circa le soluzioni di ciascun caso pratico o, circa i criteri di comportamento che doveva assumere il cittadino circa possibili accordi o nuovi affari giuridici, o circa la legittimità di una pretesa avanzata da lui o contro di lui, o circa i poteri che i vari diritti di sua pertinenza gli potevano assicurare. Il magistrato doveva quindi orientarsi tra una moltitudine di opinioni anche molto diverse sostenute dai giuristi in relazione alle varie questioni loro sottoposte. Ma questo è appunto il carattere “controverso” del diritto romano identificabile in un corpo di soluzioni adottate dai vari giuristi, in relazione a un’infinità di casi. Certo in parte si sacrificava la “certezza” del diritto ma al tempo stesso si favoriva lo sviluppo della dialettica. Questo, lungi dall’indebolire, accentuò il prestigio dei giureconsulti, fondato sulla loro continua attenzione alla coerenza logica delle soluzioni adottate rispetto alle premesse, sul rigoroso rapporto tra la “regola” astratta e la portata precisa del caso da risolvere e soprattutto sull’ininterrotta verifica dei risultati di volta in volta conseguiti. Un meccanismo del genere sorse e si sviluppò essenzialmente sotto lo stimolo di nuovi casi continuamente sottoposti all’attenzione e alla valutazione dei giuristi. Ciò ne rappresentò anche il limite poiché questo modo di lavorare riguardava essenzialmente problemi specifici, impegnandosi raramente in enunciazioni di carattere generale sulla base di presupposti teorici esplicitamente individuati. Questo sviluppo della cultura giuridica determinò nuovi istituti del diritto civile, nuove categorie di diritti e nuove relazioni, completamente al di fuori di ogni normativa legale e assolutamente estranei all’insieme di regole introdotte dalle XII Tavole. In questo modo verranno riconosciute quelle situazioni giuridiche destinate a limitare l’antico diritto di proprietà e il cui contenuto consisteva in un insieme di facoltà per l’appunto inerenti a questa stessa proprietà come l’usufrutto e le , che saranno introdotte servitù prediali tra la fine del III sec. e la prima metà del II sec. a.C. e tutelate mediante strumenti analoghi a quelli previsti per la difesa della proprietà in rem. Ma ancor più innovativo appare il riconoscimento della netta distinzione tra la nozione di possesso e quella del diritto di proprietà. Un’operazione che molte altre esperienze giuridiche non hanno mai realizzato appieno e che, giù nel . era chiara ai giuristi romani. Si pensi infine al ruolo che questi giuristi III sec. a.C dovettero giocare, insieme al pretore: nell’elaborare il nuovo sistema processuale destinato a cancellare le antiche e rigide legis actiones nel sistema dei contratti dove si passò dallo schematismo della stipulatio o fini della decisione, a elementi di fatto, rilevanti sotto il profilo della giustizia sostanziale, che l’astrattezza delle legis actiones impediva di prendere in considerazione del dibattito processuale. La nuova libertà del pretore in campo processuale rese possibile l’integrazione e in parte il superamento del patrimonio giuridico ancestrale: i mores e le fondamento dello XII tavole, ius civile. In questo nuovo contesto assunse un valore molto forte, a indicare insieme un valore di riferimento del pretore e un criterio guida per la giurisprudenza il termine aequitas (intraducibile con la formula equità). Esso evocava l’idea di un’esigenza di eguaglianza tra le parti che la soluzione adottata doveva rispettar e. 3. L’editto del Pretore, il “ius gentium” e il “ius honorarium” Nel tempo, i criteri sostanziali cui il pretore si atteneva in questa sua nuova attività giurisdizionale, pur derivando dalla soluzione di casi concreti e di situazioni nuove, diventarono regole e prescrizioni generali. In effetti una delle facoltà proprie dei magistrati superiori, cum imperio, era quella di emanare degli editti contenuti delle prescrizioni da rendere note a tutta la popolazione. Così avvenne per le nuove forme di protezione giuridica: il pretore unico, prima, e poi i due pretori separatamente, ciascuno con un proprio editto, all’inizio del loro anno di carica, rendevano noto quali situazioni, non rientranti nella disciplina del ius civile, avrebbero trovato tutela da parte loro, e in che modo. Le regole elaborate dal pretore peregrino, che costituivano un vero e proprio corpus di istituti e diritti nuovi e diversi da quelli riconosciuti dal diritto civile, furono considerate come proprie di un “diritto di tutti gli uomini”ius gentium”. I vantaggi assicurati dall’elaborazione di queste nuove e più flessibili regole di condotta e delle correlate situazioni giuridiche vennero estese a tutti i cittadini. In tal modo la specifica esperienza del praetor peregrinus contribuì ad arricchire lo stesso patrimonio giuridico romano, di cui il ius gentium venne a far parte a tutti gli effetti. Solo più tardi alcuni giuristi romani identificheranno questo ius gentium con la parte comune ai diritti positivi delle varie società. Ma questa specie di comparazione giuridica ante litteram è sicuramente una costruzione tardiva e posticcia, giacché la genesi di questo settore del diritto romano è interna all’esperienza romana. Allo stesso modo ebbe un forte impatto sulla storia del diritto romano l’introduzione del processo formulare che esaltava l’imperium/iurisdictio del pretore. Dove egli era veramente il “sovrano” (solo soggetto a un controllo equitativo o politico dei suoi consociati, eventualmente paralizzabile nella sua azione dall’intercessio di un console, di un collega o di un tribuno, oppure chiamato a rispondere delle sue azioni successivamente alla fine della sua carica). Il pretore, non era il “servo della legge”, e pertanto poteva evitare di applicarla o poteva intervenire a condannare o ad assolvere anche in casi che la legge non prevedeva, se il senso comune di equità e le esigenze materiali di fronte a cui si fosse trovato avessero consigliato tali soluzioni. Di fatto, seppure sul piano strettamente processuale, era un nuovo diritto che si sovrapponeva e correggeva, integrandolo, l’antico ius civile. Anche attraverso nuovi strumenti che il pretore veniva forgiando ad esempio: un tipo di litigio che, già prima del processo formulare a partire dal III sec. a.C., venne introdotto mediante una scommessa che i litiganti erano costretti a stipulare tra loro dal pretore onde accertare la verità di una loro pretesa giudiziale (ager per sponsionem), superando così i vincoli e le rigidità delle stesse legis actiones. gli ordini del pretore contenuti negli interdetti (una specie di procedimento sommario e di urgenza, anch’esso già definito nel II sec. a.C. e volto a tutelare situazioni non configurabili come diritti individuali), 50 diritti individuali), le stipulationes e le cautiones con cui il pretore poteva costringere i litiganti, in via pregiudiziale, a fornire garanzie e ad assumere specifiche obbligazioni processuali per conseguire risultati lontani dal diritto civile, ma conformi a criteri di giustizia sostanziale. il potere di non ammettere una pretesa processuale pur legittima secondo lo stretto diritto civile ove ostassero motivi d’equità sostanziale o, addirittura di imporre al giudice di utilizzare, come se fossero intervenuti, di fatti non veramente esistenti (actiones ficticiae) o di giudicare a favore dell’attore sulla base di fatti di per sé irrilevanti per il diritto civile (actiones in factum). Questa vasta gamma d’interventi derivava dalla sovranità del magistrato ma non esprimeva certo un suo arbitrio personale, una sua privata alzata d’ingegno. Era qualcosa che, dopo i primi tempi, era previsto e atteso. Il successore di un pretore che aveva bene amministrato la giustizia, ricevendo consenso dalla comunità, non aveva interesse ad azzerare il già fatto: lo recepiva integralmente, modificando qualcosa che non andava, introducendo qualche altra novità utile e necessaria. Così l’editto del pretore di anno in anno, veniva ripubblicato dal nuovo magistrato, conservandosi e completandosi nel tempo. Certo potevano, porsi al pretore, nel corso del suo anno di carica, nuovi problemi non preventivamente previsti nel suo stesso editto e non regolati dall’antico ius civile. In tal caso egli poteva assumere qualche nuovo provvedimento con un decreto appositamente assunto. Questo, a sua volta, se si fosse rivelato efficace, poteva successivamente essere inglobato organicamente nel nuovo editto emanato dal suo successore. La rivoluzione introdotta dalla giurisdizione del pretore urbano come di quello peregrino, non avvenne seguendo la logica di una giustizia “caso per caso”, al contrario proprio la conoscibilità ex ante, la razionalità e la pubblicità di questa condotta diedero luogo, nel tempo, ad un corpo normativo. Romani e stranieri sapevano che, anche rispetto al diritto civile, l’editto del pretore innovava nella sostanza e prevaleva, giacché, senza protezione processuale, il diritto, in sé, valeva poco. Così si formò un nuovo sistema di regole che coesistevano in modo autonomo con lo ius civile, senza abrogarlo: il “diritto pretorio”, lo ius honorarium (e del resto, nella logica romana, neppure la sovranità della legge abrogava formalmente il vecchio ius ). Questa singolare articolazione dei processi normativi rese possibile l’enorme e relativamente rapido sviluppo del sistema del diritto romano in funzione delle grandi trasformazioni economico-sociale iniziate all’epoca delle guerre puniche. Va ricordato che, oltre al pretore, anche altri magistrati aventi competenze giurisdizionali emanavano editti di un certo rilievo, anche se minori rispetto a quello pretorio: o gli edili curuli, che erano preposti al controllo dei mercati cittadini e, in quell’ambito, erano titolari di una limitata giurisdizione. o i governatori provinciali, chiamati ad amministrare la giustizia nelle loro province, e che nel loro editto fissavano i criteri cui si sarebbero attenuti nel corso della loro carica. A partire dal II sec. a.C. sono ormai evidenti due logiche parallele su cui si struttura l’intero ordinamento giuridico romano: da una parte il “diritto” in senso stretto: le norme del diritto civile, esclusive dei cittadini romani, dall’altra il “diritto onorario”, non meno efficace, ai fini pratici, delle regole del diritto civile, ma fondato esclusivamente sul potere magistratuale e illustrato dall’editto pretorio. Questa dicotomia resterà, seppure in condizioni profondamente mutate, per tutto il corso della vita del diritto romano, sia nella tarda repubblica che nell’età del principato. Queste sicuramente avrebbe potuto determinare più di una difficoltà se, in concreto, tali processi non fossero stati governati in modo profondamente unitario dalla cooperazione tra magistratura giusdicente e scienza giuridica laica. Infatti in questa oggettiva convergenza di funzioni apparentemente molto diverse si realizzò il punto di sutura tra i due sistemi del ius civile e del ius honorarium . Infatti senza la sanzione processuale assicurata dal pretore l’interpretazione giurisprudenziale delle regole del ius civile, elaborata dai giuristi difficilmente avrebbe portato alle profonde innovazioni effettivamente verificatesi. A lui infatti, incombeva l’onere di concedere una formula processuale atta a recepire la soluzione del problema giuridico proposta dai giuristi. D’altra parte, non solo nella stessa elaborazione del contenuto dell’editto e nella concreta condotta processuale, l’azione dei magistrati, talora del tutto incompetenti in materia legale, fu assistita dai giuristi. Questi operarono sul corpo normativo costituito dalle previsioni edittali, relative alle fattispecie previste, lo stesso insieme d’interpretazioni che già in relazione al ius civile era divenuto il medium tra la domand romano. a di giustizia della società e “il” diritto Questo complesso intreccio contribuisce a spiegare un carattere di fondo di tutto la scienza giuridica romana e cioè il suo netto orientamento verso gli aspetti processuali. 4. La scienza giuridica romana come sapere aristocratico. Sull’evoluzione del sistema del diritto privato romano il diretto intervento della comunità politica è stato relativamente secondario. Infatti le norme che regolavano la vita dei cittadini (diritto privato) quasi mai dipendevano da una legge votata dall’assemblea cittadina. Ciò spiega uno dei caratteri della società romana e cioè questa , mai messa in discussione, prima a un collegio religioso poi a una comunità di sapienti. delega A Roma (non come oggi) il diritto della città non coincideva con la legge. La legge, sia quella generale e fondante identificata nelle XII Tavole, sia la singola norma particolare era certamente fonte del diritto vincolante per tutta la comunità ma quasi “sopra” si poneva l’interpretatio dei giuristi senza la quale la norma: sarebbe rimasta inapplicata poteva essere applicata ad una pluralità di casi Per cui il cittadino romano, di fronte l’oscurità e la genericità delle XII Tavole e di fronte allo schematismo delle leggi votate dai comizi, dipendeva quasi completamene dalla mediazione autoritaria di un sapere specialistico: quello dei pontefici prima e dei giuristi poi. L’interpretatio era fonte autonoma diritto e di un potere enorme era riservato parte ai magistrati elettivi e delegato, per il resto, ai in prudentes (sapienti, esperti) selezionati all’interno della nobilitas. L’esercizio di questa attività era: gratuito > in quanto gli esperti non ricevevano alcun compenso onorevole > permetteva al singolo cittadino di eccellere tra i suoi pari affiorare in Servio il tentativo di riorganizzare l’intera materia giuridica all’interno di un quadro logico sistematico nuovo, ispirato a una coerenza “dogmatica” che non sarà dato di ritrovare poi neppure nei più grandi giuristi imperiali: da e che solo nelle grandi sistemazioni Labeone a Giuliano dell’ultima stagione della scienza giuridica “classica“ riemergerà, secondo logiche tuttavia assai meno innovative. Di Servio non esistono frammenti della sue opere (ma sappiamo che egli scrisse un libello polemico nei confronti di Quinto Mucio): sarà la numerosa schiera degli allievi diretti e indiretti di Servio, gli auditores Servii, che ci lascerà raccolta dei suoi pareri, i responsa, relativi soprattutto alla soluzione di casi pratici. Egli fu il primo giurista del cui pensiero resti consistente documentazione attraverso le numerose citazioni fate dai giuristi successivi, a testimoniare la grande influenza da lui esercitata su più di una generazione. Marco Antistio Labeone > fu legato a valori dell’antica nobilitas rinunciò sia a diventare collaboratore o amico di Augusto sia a intraprendere un cursus honorum ormai possibile solo con l’avallo del Princeps. Egli fu autore di un numero elevatissimo di opere nelle quali miste la sua autonomia e la sua creatività. 53
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Cap.9 I nuovi ORIZZONTI del III Secolo a.C. e l’egemonia romana nel MEDITTERANEO 1. Le guerre Puniche e l’eredità di ANNIBALE La presa di Roma dei grandi centri mercantili e marittimi della , conclusasi con la conquista di Magna Grecia Taranto portò Roma a scoprire una realtà fino ad allora in parte ignorata: il mare. Il primo urto tra Roma e Cartagine riguardò la città di Messina e iniziò così una nuova drammatica stagione che si concluderà soltanto nel 202 a.C. vittoria di Roma sui Cartaginesi con la e sul loro condottiero: Annibale. Gli aspetti militari ed economici in questa sede interessano relativamente ma i principali eventi furono: 264 a.C. - 241 a.C. > Prima guerra punica; 238 237 > – Roma occupa la Sardegna e della Corsica sottraendole ai Cartaginesi; 238 a.C. > Roma conquista la Liguria e la Gallia Cisalpina 231 a.C. > Roma si allea con la città di Sagunto per limitare l’espansione cartaginese in Spagna 218 202 > – si svolse la Seconda guerra punica. All’interno della classe dirigente romana si poteva distinguere tra coloro che sostenevano un più cauto e tradizionale espansionismo territoriale e coloro che invece avevano forti interessi a valorizzare il recente dominio romano sulla Magna Grecia. Nonostante le alterne vicende alla prova dei fatti prevalsero gli elementi più radicali che vollero condurre la vicenda sino alla sua estrema conclusione. Ciò non impedì che, in quello stesso lasso di tempo, il partito conservatore con i suoi interessi agrari ottenesse un parziale successo, imponendo anche un’espansione territoriale verso il Nord. In questo senso vanno ricordate le campagne militari nell’Italia centro settentrionale che avrebbero portato all’acquisizione delle ricche terre - del Piceno e della pianura padana sotto la guida del grande dirigente plebeo Gaio Flaminio. Emblematica fu in tal senso la costruzione della via Flaminia nel 220 a.C., sotto la censura dello stesso Flaminio. Diretta a Nord verso l’Adriatico essa andava in direzione opposta a quella, più antica, della via Appia quasi a simboleggiare una alternativa nella politica espansionista romana, legata ai tradizionali aspetti agrari di cui il naturale. Piceno costituiva l’esito quasi Una conseguenza di grande rilievo dello scontro con Cartagine fu il formidabile collaudo della costruzione politica romana in Italia. Se, infatti già nel corso della Prima guerra punica la società romana aveva mostrato una grande capacità di mobilitazione di risorse, trasformandosi in una potenza marinara, fu la seconda guerra punica, con la discesa di Annibale in Italia a dare la misura della compattezza del blocco politico costruito da Roma. In effetti, Annibale, portando il suo esercito in Italia, perseguiva un disegno strategico che andava oltre il mero confronto militare con i Romani, mirando alla disgregazione di quel sistema con cui si era venuto costruendo, tra ., il blocco politico-militare dei popoli italici sotto il IV e III sec diretto controllo di Roma. Sebbene il suo genio militare gli facesse vincere tutti gli scontri diretti contro i Romani, Annibale non sarebbe riuscito a realizzare appieno il suo progetto. Infatti, solo le popolazioni più recentemente sottomesse dai Romani come i Galli città e gli Etruschi, alcune della Magna Grecia, anzitutto tradirono la loro fedeltà ai Romani. La persistenza del blocco di Capua, alleanze romano-italico riuscì a impedire che un disastro militare come Canne (216 a.C.) segnasse la fine politica di Roma. Il messaggio della classe dirigente romana, anzitutto del senato allora fu quello di mobilitare ulteriormente una cittadinanza stremata e impaurita, mandando l’inequivocabile segnale, ad amici e nemici, di una lotta a oltranza. Anche se, con il consueto complesso gioco di equilibri, la direzione delle operazioni militari passò dalle mani del partito “oltranzista” che le aveva guidate sino ad allora, ostinandosi in disastrosi scontri diretti con i Cartaginesi, a quelle del capo della fazione più prudente e meno entusiasta della guerra con indolore conquista del mondo ellenistico. Ma, fu l’ultima stagione in cui esso assolse con piena efficacia al ruolo di protagonista della politica romana. Il germe dei poteri personali, di un crescente squilibrio ingenerato dalla gloria militare era stato seminato e si accingeva ormai a dare frutti velenosi: s’era aperta l’”eredità di Annibale”, appunto In seguito, si introdussero ulteriori cautele e restrizioni nella carriera politica: la lex Villia annalis, del 180 a.C. , regolò l’età necessaria divieto di iterazione delle per presentarsi alle varie cariche, e rafforzò il cariche e di continuazione per più anni di seguito della medesima magistratura: dopo il terzo consolato di seguito di Marcello nel 152 a.C., non vi furono più casi in cui non si rispettasse l’intervallo decennale tra un consolato e il successivo, sino a cinque consecutivi consolati di Mario: ma, con essi, siamo già in piena crisi della repubblica. 3. Il Governo provinciale Negli anni immediatamente successivi alla Prima guerra punica cambiarono gli equilibri nel Mediterraneo occidentale e Roma subentrò ai Cartaginesi nel controllo di buona parte della Sicilia e della Sardegna. Queste acquisizioni territoriali d’oltremare furono indicate con il termine : vocabolo usato a provincia designare la sfera di competenza specifica riconosciuta a un magistrato cum imperio ed ora esteso a indicare materiale: l’oggetto il territorio conquistato e le sue popolazioni. Soprattutto nel caso della Sicilia i Romani la concepirono per molto tempo come un territorio e una popolazione da sfruttare e non da assorbire. Questa regione aveva già conosciuto un significativo sviluppo con la dominazione greca e per questo i romani delinearono un modello organizzativo fondato su modelli ll i ti i i t ti 56 ellenistici preesistenti. In particolare quelli adottati da Siracusa, la più splendida e importante delle città greche in Sicilia, il cui tiranno, Gerone, dette il nome allo statuto generale applicato dai Romani: la cosiddetta lex Hironica. In sostanza si assunse l’idea, dei regni dell’Oriente ellenistico, che il monarca fosse anche il proprietario dell’intero territorio. Conseguentemente tutti coloro che avessero in qualche modo acquisito e sfruttato le terre coltivabili furono considerati come affittuari che dovevano pagare al sovrano come canone annuo una quota parte del prodotto: in teoria la “decima” parte di questo. Nel caso siciliano i Romani (ma così fu in linea generale anche per le province successive) stabilirono che tutti gli agricoltori dovessero iscriversi in appositi registri, indicando la quantità di terra coltivata (professio iugerum), insieme al proprio nome (subscriptio aratorum) mentre alla percezione della decima si sarebbe dovuto provvedere con il consueto sistema degli appalti. La popolazione conquistata fu considerata costituita di “stranieri senza un proprio ordinamento” (peregrini nullius civitatis) alla merce del popolo romano per il diritto di conquista. Essa era considerata come “straniera”, ma non più appartenete a una comunità sovrana e priva ormai di un suo autonomo statuto giuridico. Nel tempo i Romani avrebbero individuato diresse categorie di terre nel l’ambito provinciale: o le terre stipendiare > per queste si pagava una tassa (stipendium67) originariamente destinata al mantenimento delle truppe romane. o le terre decumane > erano regolate dalla lex Hieronica o le terre genericamente denominate “pubbliche del popolo romano” > queste furono gestite direttamente da Roma attraverso intermediari che pagavano un canone (vectigal68) per affittarne grandi apprezzamenti Anche nella realtà provinciale i Romani si regolarono in modo diverso a seconda dei casi, nel caso di conquista di una città sviluppata i Romani la potevano riconoscere come: • civitates foderate > città alleate • civitates sine foedere libera > città libere non in base ad un trattato che godevano di un’autonomia semisovrana. Spesso queste città erano costruite a: pagare dei tributi a Roma (stipendium) adempiere a specifici obblighi (es. quello delle città siciliane di vendere frumento ad un prezzo politico)oppure erano esonerate da oneri tributari (civitates liberae et immunes). In generale le città provinciali conservarono, nell’ambito di una più o meno ampia autonomia, le loro istituzioni e le loro leggi. Anche su queste il governatore provinciale aveva una funzione di supervisione, 67 Stipendium - Nuovi Dizionari Online Simone - Dizionario Storico-Giuridico Romano Indice S. Era così definito in diritto romano il tributo pagato dai privati cui era concesso il godimento dei fundi stipendiàrii [vedi] (siti nelle province senatorie). 68 Secondo il diritto romano, un'entrata statale d'ordine tributario. Il diritto romano la distingue in due tipi: vectigal e agri vectigales. trovandosi quindi al vertice di un sistema composito in cui, ancora una volta, una molteplicità di statuti giuridici, sia personali che territoriali veniva a coesistere all’interno di un potere politico spesso esercitato troppo duramente. Dalla serie di orazioni di Cicerone contro Verre, il corrotto e devastante governatore della Sicilia, risulta chiaro come codesto sistema potesse sfociare facilmente in una forma di sistematica oppressione per gli abitanti locali. L’alleanza l’avidità tra dei governatori romani e gli appaltatori delle imposte, i pubblicani69 (che nel caso siciliano presero il nome particolare di decumani, da “decima”) comportò una pressione fiscale eccessiva che incise negativamente sulle condizioni economiche di tali territori, soprattutto delle aree meno redditizie. I pubblicani infatti tendevano aumentare a dismisura la percentuale dei tributi commisurata ad alla produzione agricola, andando molto al di là di quelli che erano i criteri generali stabiliti da Roma e a cui, in teoria, gli stessi governatori avrebbero dovuto far riferimento. Costoro però, invece di controllare il comportamento fraudolento e illegale di questi intermediari, si associarono sovente a essi nel taglieggiare le popolazioni sottoposte. Per le due prime province, la Sicilia e la Sardegna, era necessaria la presenza di un presidio militare che consolidasse le acquisizioni romane e per questo, richiedendosi l’esercizio dell’imperium , si affidò il governo di queste province a due nuovi pretori appositamente creati. In seguito con il moltiplicarsi dei territori conquistati e delle provincie i Romani, anziché moltiplicare il numero dei magistrati ordinari sfruttarono il precedente meccanismo e l’istituto della prorogato imperii. Al termine del suo anno di carica, ciascun console e ciascun pretore veniva inviato ad assumere il comando di una provincia, conservando l’imperium non più come magistrato ancora in carica, ma come pro-console o pro-pretore, sino a che lui stesso sarebbe stato rilevato da tale condizione dal suo successore inviato dal senato. La determinazione dei diversi magistrati destinati al governo delle varie province divenne uno degli oggetti di maggior contesa e competizione tra gli interessi e uno strumento di ulteriore potere nelle mani del senato. V’erano infatti province ricche e meno ricche, aree dove erano più facili le occasioni di arricchimento o di ulteriori glorie militari, magari a buon mercato, e zone difficili da controllare e in cui l’impegno militare avrebbe sicuramente superato i vantaggi di facili vittorie e buoni bottini. Di qui la necessità di stabilire le destinazioni dei vari magistrati in modo relativamente imparziale: il che avvenne con l’assegnazione di queste già al momento dell’assunzione della carica magistratuale, mediante sortitio70, un sistema che s ottraeva al senato l’arbitrio e il potere di favorire gli amici e svantaggiare i nemici. In linea di massima ogni provincia era retta da un particolare statuto, elaborato, su incarico del senato e in base alle sue istruzioni, da 10 cittadini (decem legati) a ciò preposti all’atto di costituzione della provincia stesa. Una volta ratificato il loro operato dal senato, il governatore provinciale emanava il suddetto statuto come lex data in virtù del suo imperium. Con questo statuto si provvedeva a sopprimere le preesistenti istituzioni politiche e a dividere il territorio provinciale in diversi distretti. Uno schema di amministrazione provinciale si delineò nel tempo e alla fine comprendeva: governatore gruppo di legati di rango senatorio inviati dal senato con funzioni di ausilio e di controllo del governatore” questore con funzioni militari e finanziarie ma svolgeva anche altri incarichi