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Riassunto diritto privato comparato istituti e problemi alpa, Sintesi del corso di Diritto Comparato

diritto privato comparato

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Scarica Riassunto diritto privato comparato istituti e problemi alpa e più Sintesi del corso in PDF di Diritto Comparato solo su Docsity! Indice 1. Comparazione giuridica e unificazione del diritto di Michael Joachim Bonell - 2. Il modello inglese di proprietà di Luigi Moccia - 3. Lineamenti di diritto contrattuale di Guido Alpa - 4. La responsabilità civile di Vincenzo Zeno-Zencovich - 5. Le successioni nel diritto comparato (note introduttive) di Andrea Zoppini - 6. Le società per azioni di Diego Corapi DIRITTO PRIVATO COMPARATO Istituti e problemi Guido Alpa Seconda edizione 2008 CAPITOLO I COMPARAZIONE GIURIDICA E UNIFICAZIONE DEL DIRITTO - M.J.BONELL INTRODUZIONE Il crescente fenomeno della internazionalizzazione e della globalizzazione rendono di particolare interesse, soprattutto sul versante pratico, discipline, quali il diritto uniforme e quello comparato. Il diritto privato comparato in particolare si propone di individuare e spiegare sia le concordanze che le divergenze formali e sostanziali riscontrabili tra i vari diritti nazionali, e crea inoltre le premesse per un linguaggio e un sistema di comunicazione transnazionali tra i giuristi di tutto il mondo. Il diritto uniforme, o l’unificazione o armonizzazione del diritto, propone una normativa comune al fine di superare i contrasti esistenti tra le varie esperienze giuridiche nazionali. Tra l’unificazione (diritto uniforme) e la comparazione giuridica (diritto privato comparato) vi è indubbiamente un legame indissolubile: alcune autori sostengono che l’unificazione del diritto sarebbe il vero obiettivo della comparazione, mentre altri autori ritengono che l’unificazione del diritto sarebbe la negazione stessa del diritto comparato poiché la prima renderebbe inutile e priva d’oggetto la seconda. 1.CENNI STORICI SUL MOVIMENTO DI UNIFICAZIONE INTERNAZIONALE DEL DIRITTO Il movimento di unificazione internazionale del diritto prende l’avvio sul finire dell’800, in concomitanza con la conclusione delle grandi codificazioni nazionali che avevano definito l’dea del diritto quale emanazione della volontà dei singoli stati. In questo contesto si registra il passaggio definitivo da un’economia agricola ad una industriale, si intensificano gli scambi commerciali al di là delle frontiere nazionali, e i singoli diritti nazionali si presentano tra di loro in conflitto, non solo formalmente, ma anche nei contenuti ponendo così un notevole ostacolo allo svolgimento degli affari. In ragione di una simile situazione si tenta di tornare ad una uniformità a livello internazionale: i primi tentativi furono attuati nel settore delle creazioni intellettuali, a tutela della proprietà industriale e sulla protezione delle opere letterarie e artistiche; in questi settori era particolarmente avvertita infatti l’esigenza di evitare che a causa delle differenze esistenti tra le varie discipline nazionali il titolare di un diritto di esclusiva restasse senza protezione al di fuori del confine del paese di origine. A queste susseguirono iniziative riguardanti svariate materie: trasporto ferroviario, navigazione marittima, diritto di famiglia, tutela degli incapaci, assistenza giudiziaria internazionale. Nel quadro di entusiasta ottimismo della belle epoque si profilò in alcuni persino l’idea di un codice universale: ma simili proposte sin troppo utopistiche furono travolte dallo scoppio delle guerre mondiali. L’idea dell’unificazione del diritto, alla fine della guerra, tornò nuovamente in auge, grazie anche alla ripresa dell’attività di alcuni importanti organismi, quali la Conferenza dell’Aja di diritti internazionale privato, l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL ) (1929) o l’ Istituto Internazionale per l’Unificazione del Diritto Privato (UNIDROIT) (1926). Il secondo conflitto mondiale aiutò ben poco l’idea dell’unificazione del diritto: sussistevano profonde diversità tra diritti continentali-europei e la common law inglese, tra paesi dell’Est e paesi dell’Ovest, e tra i paesi industrializzati del Nord e quelli ancora in via di sviluppo del Sud; le differenze tra i paesi occidentali e quelli socialisti circa la regolamentazione interna dei rapporti economici e sociali fecero si che il tentativo di unificazione in tali materie fosse circoscritto ai confini nazionali; inoltre l’acquisizione da parte dei paesi del Terzo mondo di un maggiore potere contrattuale in seno alla comunità internazionale portò ad una accresciuta attenzione verso le esigenze e gli interessi di questi paesi, cominciando a delinearsi un nuovo ordine economico internazionale, adeguato al nuovo contesto storico e capace di rispondere a valori ed esigenze del mutato equilibrio storico- politico. Un esempio può essere dato dalle vicende che hanno caratterizzato la regolamentazione della vendita internazionale di cose mobili. Nel 1929 Ernst Rabel propose al consiglio di direzione dell’UNIDROIT di intraprendere i necessari studi preparatori in vista dell’elaborazione di una legge uniforme riguardante la vendita di beni mobili. Le scelte di fondo della normativa uniforme, quali la delimitazione del suo oggetto alla sola vendita cd internazionale erano dettate da ragioni di carattere tecnico: vi erano profonde differenze strutturali tra le operazioni di importazione e esportazione di merci da un paese all’altro e le normali compravendite. I diritti nazionali concepiti in funzione delle compravendite locali si mostravano inadeguati rispetto ai problemi sollevati in caso di scambi internazionali. Persino nella conferenza dell’Aja del ‘64 si discusse sul come riuscire a superare le divergenze che in ordine a tutta una serie di aspetti particolari dividevano i paesi di tradizione continentale-europea da quelli anglosassoni. La conferenza si concluse con l’approvazione da parte di una trentina di stati di due leggi uniformi in materia. Il quadro mutò nel ‘68: le due leggi riportarono un limitato successo, si optò dunque per una revisione delle stesse ad opera della Commisione delle Nazioni Unite per il diritto del commercio internazionale (UNCITRAL), con attiva partecipazione anche dei paesi socialisti e di quelli del terzo mondo. In quella sede, al di là dei problemi di civil law e common law, si tentò di sciogliere anche una serie di nodi politici quali il principio della libertà di forma o la necessità di determinazione del prezzo ai fini della valida conclusione del contratto, la rilevanza degli usi, i termini per la denuncia della cosa. “Rileva l’attenzione della Conferenza ad aver affrontato l’argomento.” Agli inizi del XXI secolo il quadro appare differente a seguito degli eventi registratisi: il crollo dei regimi socialisti, il tramonto nella stessa Cina del monopolio e il dirigismo statale nell’economia sono fattori che hanno sicuramente attutito il divario tra i paesi socialisti dell’Est e l’Occidente. I paesi dell’Est vivono un cambiamento socio-politico, in una fase di transizione da un economia rurale ad un economia di mercato, che li costringe ad adeguare i propri ordinamenti giuridici alla realtà mutata, ispirandosi ai principi di diritto uniforme contenuti nelle UNIDROIT e nella Convenzione di Vienna. In questo senso può dirsi che sia in atto un processo di unificazione del diritto, un’armonizzazione spontanea. A tutto ciò si aggiunge il continuo aumento del divario tra i paesi industrializzati occidentali e quelli del Terzo mondo, e il dilagante fenomeno del fondamentalismo religioso contrario a qualsiasi cambiamento in campo giuridico non meno in altri settori: questo rappresenterebbe un ostacolo alla modernizzazione giuridica. 2.LE DIVERSE FORME O <<TECNICHE>> DI UNIFICAZIONE L’unificazione del diritto può essere attuata attraverso differenti tecniche: • Unificazione legislativa; • Unificazione giurisprudenziale; • Unificazione contrattuale; • Unificazione dottrinale Unificazione legislativa L’unificazione avviene sul piano legislativo, attraverso convenzioni e leggi uniformi. La ragione è da ricercare nel giuspositivismo e n statalismo che hanno dominato il pensiero giuridico europeo fin dalla seconda metà dell’800 e buona parte del ‘900: il diritto era la sola espressione dei singoli stati. L’unificazione legislativa è ancora oggi la forma più diffusa. Accanto al diritto uniforme cd. convenzionale assume importanza rilevante il cd. diritto uniforme sovranazionale: il primo è approvato con un vero e proprio trattato di diritto internazionale e successivamente incorporato dagli stati aderenti a seconda dei casi con legge ordinaria o semplice ordine di esecuzione; il secondo invece promana da un’autorità sovranazionale cui gli Stati hanno trasferito parte delle proprie prerogative sovrane ivi compreso il potere normative in quanto tale ha efficacia diretta nei singoli stati o comunque vincoli questi ultimi negli obiettivi, lasciandoli libero soltanto nella scelta delle forme e dei mezzi idonei al raggiungimento degli stessi. Esempio tipico è il diritto comunitario nelle sue due fonti del regolamento e della direttiva: il primo ha portata generale, è direttamente applicabile agli stati membri edè obbligatorio in tutti i suoi elementi, la direttiva vincola lo stato cui è rivolta per quanto riguarda l’obiettivo da raggiungere, salvi i mezzi e la forma da adottare. Unificazione giurisprudenziale L’unificazione legislativa rappresenta solo la prima fase del procedimento di unificazione: per la completa realizzazione di questo occorre che la disciplina uniforme, una volta introdotta nei singoli ordinamenti riceva interpretazione e applicazione uniforme ad opera dei giudici o degli arbitri. In ragione di ciò una corte internazionale decide in via preliminare le questioni relative all’interpretazione dei singoli prodotti del diritto uniforme, imponendo ai giudici nazionali di sospendere la decisione fino alla sua sentenza e poi conformarvisi. Nell’ambito dell’UE tale compito spetta alla Corte di giustizia. Le pronunce date da tale corte spesso non sono vincolanti solo nei confronti del giudice de quo, ma l’interpretazione data finisce per farsi sentire ben oltre il singolo caso concreto: qualsiasi giudice nazionale posto di fronte allo stesso problema interpretativo dovrà seguire la precedente pronuncia, a meno che non intenda nuovamente rimettere la questione alla corte. ( realty), di istituti quali il trust, legati alle vicende patrimoniali e a quelle successorie all’interno della famiglia, un tempo aristocratica, per via dei family settlements. Per ciò che concerne la ricchezza mobiliare (personalty)deve essere detto che in questa categoria è inclusa una gran varietà di elementi, poiché è personalty cio che non è realty. Sicchè questa catagoria finisce per accogliere oggetti eterogenei suddivisi in due maggiori sottocategorie: le cose corporali, choses o things in possession;e le cose incorporali, choses o things in action, questi ultimi fanno riferimento ai cd. beni immateriali, quali brevetti, creazioni intellettuali, ma anche debts, rents (canone di locazione) aventi ad oggetto un credito. Di recente nell’accezione di cose incorporali sono confluiti anche diritti di assistenza sociale (social benefits, welfare rights) connessi a status personali derivanti da provvedimenti di pubblica amministrazione. Questi ultimi sono i diritti che costituiscono la cd. new property, alla cui tutela è posta la maggior garanzia con il due process. 2.3 Cose (res) e diritti (iura): gli <<incorporeal hereditaments>> come oggetto di <<real property>> La personalty indica dunque sia i diritti patrimoniali che i beni che ne sono oggetto. Non deve con ciò ritenersi che la distinzione negli ordinamenti di civil law dei diritti patrimoniali in diritti reali (efficaci nei confronti di tutti i terzi, ovvero erga omnes) e diritti personali ( efficaci nei confronti della sola persona obbligata) sia sconosciuta ai giuristi di common law: essa vi si trova accolta sotto la denominazione rispettivamente di rights in rem o property rights, e rights in personam. Nei paesi di common law il concetto di property racchiude in se non solo le cose corporali (res), ma anche le cose incorporali, e i diritti (iura): per cui la classificazione-distinzione dei diritti patrimoniali in rights in rem e rights in personam non ha rilevanza, poiché sono entrambi beni immateriali oggetto di property, intesa come patrimonio; Durante l’Alto medioevo, con il diffondersi delle consuetudini germaniche e con l’affermarsi di una differente cultura proprietaria modellata sul possesso dei beni,nel senso ampio di godimento effettivo delle utilità corrispondenti, il concetto di dominio, non più inteso come appartenenza piena ed esclusiva della res, fu modificato per essere calato nello schema del rapporto di concessione feudale, avente ad oggetto non già la terra (bene fisico), ma i diritti relativi al suo possesso. Questo schema fu recepito nel modello inglese (real property), per cui le situazioni soggettive finirono per essere considerate oggetto di rapporti di appartenenza a carattere proprietario (property rights): sia che avessero riferimento al posso sesso e all’utilizzazione della bene fisico terra, sia che vi prescindessero pur essendo diritti sulla terra. Su questa base, sin dal ‘600-‘700 si delineò una classificazione della real property in corporeal hereditaments e incorporeal hereditaments, dove hereditaments allude alla modalità di devoluzione di beni e diritti a causa di morte direttamente all’erede, modalità sostituita nell’800 dal trasferimento dei beni costituenti l’asse ereditario ai beneficiari mediante interposizione di figure quali l’executor , nominato nel testamento, oppure l’administrator, nominato dalla corte competente in caso di mancata nomina testamentaria. Nella categoria dei corporeal hereditaments sono ancora oggi inclusi i diritti maggiori sulla terra implicanti un godimento (possesso) effettivo del fondo o bene immobile che sia (estates in the land). La corporeità del bene veniva percepita, secondo la mentalità medievale, per via del tipico atto di costituzione o trasferimento della infeudazione con consegna del possesso (livery of seisin) La categoria degli incorporeal hereditaments , in origine era riferita a tutti i beni inseriti nel rapporto di concessione feudale, in particolare alle funzioni, cariche o altre posizioni e situazioni attributive di vantaggi patrimoniali collegate o meno al possesso fondiario, ritenuti insuscettibili di consegna reale, a meno che non fossero trasferiti come annessi a un possedimento e pertanto idonei a trovare la propria fonte trasferiti in un grant, un atto unilaterale di concessione effettuato nella forma solenne del deed.; a differenza quindi degli estates in land, i quali accompagnandosi a un possesso, in questo trovavano il proprio fondamento (titolo). Nel novero di questa categoria rientravano, anche diritti di patronato, franchigie, decime, dignità e uffici; vi permangono tre figure di importanza pratica: rentcharges (rendite gravanti sul fondo), easements (servitù prediali), profits à prendre (diritti di appropriazione dei frutti e/o di utilizzazione delle risorse naturali di un fondo). Di fatto la categoria degli incorporeal hereditaments, attualmente tende a restringersi ai rights in alieno solo o diritti sul fondo altrui: questi diritti, cd. parziari, non conferiscono possesso pieno ed esclusivo al titolare del diritto stesso sul bene immobile, sono riguardati come incorporali e considerati ugualmente oggetto di property. 2.4 <<Rights in rem>> e <<rights in personam>> Anche negli ordinamenti inglesi si distingue tra property rights (diritti reali) e personal rights (diritti personali). I property rights, in quanto riferiti alle cose, caratterizzati dalla alienabilità-trasferibilità, opponibilità nei confronti dei terzi, è possibile dar vita autonomamente, per via contrattuale, a nuove figure giuridiche. 3.<<OWNERSHIP>> E SOPRAVVENIENZE DEL SISTEMA FEUDALE DI PROPRIETA’ Il termine ownership (“proprietà”, ovvero “avere come proprio” o “possedere”) si presenta poco compatibile con il modello di property, nel campo almeno dei beni immobili, per via delle ascendenze feudali di tale modello, che stenta a riconoscere l’idea di proprietà come diritto assoluto avente ad oggetto la cosa (land) in sé considerata; preferendo piuttosto di accogliere l’idea di ownership nei termini relativi di un diritto di grado più elevato al possesso della cosa. Gli impieghi del termine ownership riguardano in pratica l’idea di appartenenza di una cosa e quella di appartenenza (titolarità) del diritto su di essa: così si parla di owner of goods (proprietario delle merci) per indicare il proprietario della res in senso fisico, ma è owner anche colui che ha uno o più interessi di tipo proprietario, intendendosi con ciò indicare quale oggetto di ownership un bene astrattamente concepito alla stregua di un interesse o diritto (soggettivo) , avente rilevanza patrimoniale; ad esempio si parla di estate owner, qualificando in tal modo il titolare (proprietario) di quello che sarebbe un diritto di locazione, relativo al possesso (uso e godemento) di un immobile e costituente la categoria del legal estate, oggetto di real property (il titolare di un legal estate (“proprietà legale”) è indicato come un estate owner; estate owner significa il titolare (owner) di un legal estate). Nell’esperienza di common law il termine ownership, lungi dal trovare una esatta corrispondenza sul piano concettuale e sistematico con la “proprietà” dei paesi di civil law, tende ad assumere valore descrittivo di una situazione di appartenenza genericamente intesa come mera titolarità del diritto al possesso sui beni, mobili o immobili. Nei paesi di common law è valida la distinzione tra “proprietà della cosa” e “ proprietà del diritto”: nel primo caso si attribuisce la proprietà (ownership) a un oggetto fisico, a costo di ridurre il numero dei proprietari, nel secondo, aumenta il numero dei proprietari , attribuendo in ogni caso la proprietà a un entità astratta. 3.1 <<Ultimate ownership>> e <<tenure>> Nel campo della real property (dei beni immobili, “land law”) vige il principio d’impronta feudale, per cui tutto il suolo è terra regis, di proprietà cioè della Corona, proprietà cd. ultimate ownership. Ogni proprietario terriero (“landowner”) ha, come in passato, la posizione formale di chi possiede, o meglio, ha diritto di posseder, direttamente o indirettamente del sovrano, sulla base di un rapporto di concessione chiamato “tenure” (possesso), parte della terra regis: <<giuridicamente nessuno è l’assoluto proprietario di una terra: può averne solo il possesso, ovvero l’uso, il godimento, il diritto di disporre della cosa , e di escludere gli altri dalla stessa>>. Nella pratica l’idea di ownership si eguaglia a quella di proprietà privata. Sul finire del XII secolo furono abiliti i rapporti di sub infeudazione che rendevano difficoltosa l’individuazione dei soggetti tenuti agli obblighi feudali nei confronti dei signori concedenti (overlords) le terre, e tutte la land furono tenute in rapporto di concessione diretta alla corona. In epoca medievale la terra e i suoi prodotti costituivano la ricchezza materiale del paese ed era, pertanto, usuale assicurare al concedente della terra la prestazione di servizi da parte del vassallo; tale pratica cadde in disuso, fino alla completa abolizione formale con una legge del 1646, che converti il rapporto concessorio in free and common socage, ovvero l’obbligo in capo al vassallo del pagamento di una somma di denaro (una rendita) in luogo di ogni altra prestazione, onere o servigio. Le varie riforme prodottesi già dalla metà del ‘600 hanno portato ad una graduale rimozione di alcuni istituti di origine feudale dando spazio a un nuovo modello di proprietà che più si avvicina a quello romanistico, conservandone comunque l’impalcatura concettuale (di stampo feudale) su cui continua ad appoggiarsi il regime della proprietà immobiliare. Infatti, a differenza dei beni mobili corporali, goods, suscettibili di essere oggetto di proprietà assoluta, gli immobili, land, non sono considerati tecnicamente oggetto di siffatta proprietà, ma solo oggetto di tenure, concessione feudale. L’unica specie feudale oggi rimasta è la freehold tenure in socage (freeholder=tenant=tenutario=libero possidente), ovvero owner of land (proprietario di un immobile), dove il rapporto di concessione feudale rimane ancora lo schema-base del modello proprietario di common law. 3.2 <<Estate ownership>> In teme di proprietà immobiliare, oggetto della titolarità (ownership) del diritto al possesso di un fondo non è la terra, come bene fisico, ma un entità immateriale riferita alla quantità di tempo del relativo uso e godimento dell’immobile. Oggetto di ownership è il cd. estate: un estate è il diritto di possedere una tenuta per un periodo di tempo, e molteplici estates possono sussistere simultaneamente su un medesimo fondo. L’estate ownership è riferibile esclusivamente ai beni immobili, non già a quelli mobili (ai personal property); l’ownership goods non è frazionabile secondo lo stretto diritto, in estates, cioè in porzioni di titolarità del diritto al possesso (uso e godimento) graduate nel tempo, in forza della natura stessa dei beni corporali, oggetto di consumo. Occorre a questo punto precisare la differenza di concetto della proprietà a seconda che ci si riferisca alla coltura di common law o a quella di stampo romanistico-continentale. Il concetto di proprietà appare all’uomo comune un semplice concetto legato alla questione del “mio “e del “tuo”; ad es. è “mia” la casa che ho comprato versandone il prezzo; sono il proprietario assoluto. In questi semplici casi la parola assoluto è riferita alla proprietà in due differenti significati: inattaccabile e indivisa. Il proprietario asserisce di avere diritto alla cosa e che tale suo diritto è pieno ed esclusivo. In sostanza vi è una nozione elementare di proprietà, dove per assolutezza si intende l’opponibilità a chiunque del titolo di proprietario e l’indivisibilità del contenuto della proprietà. Da una simile concezione partono gli ordinamenti che affermano come principio base quello per cui ogni cosa debba avere un unico proprietario assoluto, costruendo su ciò l’intero impianto concettuale e sistematico della materia proprietaria. Si tratta dello schema maturato dall’esperienza romano-giustinianea, tornato in auge con le codificazioni e le elaborazioni dottrinali giusnaturalistica, prima, e pandettistica, dopo. Nel mondo giuridico inglese la disciplina dei diritti sui beni immobili di ascendenza feudale, continua ad essere caratterizzata dall’assenza di un’idea di proprietà intesa come rapporto appropriativo che lega integralmente un oggetto al soggetto, fino ad identificare la res, intesa come bene materiale, con il diritto stesso di proprietà: infatti, il termine ownership suole essere riferito anziché direttamente ai beni, alla mera titolarità dei diritti su di essi. 3.3 <<Ownership>> e <<possession>> Altro tratto caratteristico del sistema inglese è dato dalla stretta connessione tra ownership e possession, contrariamente a quanto accade negli ordinamenti di civil law, dove proprietà e possesso sono termini che esprimono una netta dicotomia sul piano sostanziale , quanto sul piano processuale, nella distinzione tra azioni petitorie,da un lato, e azioni possessorie, dall’altro. Nell’ordinamento inglese ownership e possession si pongono in rapporto di implicazione reciproca a formare una nozione composita sintetizzabile nella nozione di possessory ownership. Si basa sul principio del possesso come presunzione di proprietà, che trova esplicazione sotto il profilo processuale in una tutela in cui aspetti possessori e petitori tendono ad essere confusi insieme. Deve comunque essere detto che nelle varie esperienze di civil law la dicotomia proprietà-possesso ha soprattutto valore teorico e dogmatico, poiché spesso si registrano eccezioni e limitazioni alla regola: si pensi all’actio publiciana (a tutela della posizione di quanti, possessori di buona fede , venissero spogliati del possesso da terzi prima che fossero decorsi i termini per l’usucapione) o alla stessa regola del possesso vale titolo (il possessore di una cosa mobile ne acquista la proprietà per effetto del possesso immediatamente, cioè nel momento stesso in cui ne riceve in consegna e inizia a possederla, purché egli sia in buona fede e la consegna avvenga in forza di un "titolo astrattamente idoneo". Titolo idoneo è ad esempio il contratto di compravendita). Di contro nell’esperienza del common law non può totalmente sottacersi la differenza tra absolute ownership e possession: solo la prima infatti è oggetto di un’ apposita tutela attraverso declaratory judjment (ovvero una sentenza di mero accertamento); la difesa in giudizio del diritto di un landowner contro un possessore abusivo si realizza con gli stessi effetti di restituzione (del possesso) dell’immobile a vantaggio di colui che dimostri esserne il verus dominus. 3.4 <<Possession>> e <<title>>: le azioni a tutela del titolo di proprietà e la proprietà come “better title” al possesso Nel campo immobiliare, della real property o land law, la situazione di appartenenza a qualcuno di un fondo o altro immobile, anche se definita come ownership, non assume il rilievo di una proprietà assoluta ed esclusiva sul bene materialmente inteso, ma solo di titolo (title) al diritto al suo possesso, uso e godimento di un land e di quanto vi è stabilmente annesso (fixtures): il termine ownership è sinonimo di title (titolarità) a un certo diritto su un immobile (estateo, più in generale, interests in land). In questo senso viene in rilievo il rapporto tra title e possession: deve essere osservato che tutti i titles to land sono fondati sul possesso, cioè il titolo della persona che attualmente possiede un bene immobile prevale nei confronti di chiunque altro, tranne su colui che dimostri di avere un titolo basato su un possesso anteriore, ovvero chi può vantare un diritto migliore al possesso dell’immobile. La concezione di carattere possessorio di title to land (right to possess; possessory ownership) si sviluppa nel mondo feudale in collegamento con la nozione di seisin (vestitura, ovvero forma di riconoscimento dei diritti immobiliari: seisin in possession). A tutela della seisin, possesso feudale, vi erano una serie di azioni tipiche, real actions, distinte in due specie: le azioni a competenza delle corti feudali (baronali), aventi la natura di proprietary actions (es. writ of right, a mezzo del quale taluno vassallo faceva valere il suo miglior diritto (titolo) ad avere e tenere un feudo), e le possessory assizes di competenza delle corti regie, inizialmente concesse per reagire contro i casi di spoglio, per scopi di ristabilimento della “pace del re”, e successivamente ampliatesi fino a sostituire le altre più antiche azioni. Caratteristica comune alle real actions era che il title to land veniva fatto dipendere dal better right to possession (il miglio diritto al possesso), con cui il titolo stesso si identificava: il concetto di proprietà finiva per essere assorbito in quello di possesso: si era owner in quanto si possedeva e non viceversa. Tutto ciò in conformità con l’atteggiamento medievale incapace di concepire un diritto astratto di proprietà senza il supporto concreto ovvero, fuori dall’involucro visibile di un esercizio effettivo o possesso che ne facesse da titolo. La tradizione di common law peraltro non ha mai avuto un procedimento adeguato nel caso degli immobili e nel caso dei mobili addirittura nessuno, per la rivendicazione della proprietà pura e semplice, quale la vindicatio. Nel XII secolo nacque una nuova forma di azione, denominata action of ejectment: essa aveva all’origine natura delittuale e funzione risarcitoria, ed era concessa a favore del fittavolo, titolare di un diritto di leasehold estraneo all’ambito dei diritti feudali sulla terra e come tale insuscettibile di seisin-vestitura (di un possesso feudale) tutelabile con real actions, per reagire contro l’illecito (trespass) , cioè contro l’ estromissione di costui dal possesso del fondo da parte del concedente e suoi successori. Successivamente il rimedio si affermò come mezzo di tutela generale, utilizzabile dai tenants per far valere la titolarità (ownership) del proprio diritto (right to posses) diritti sul medesimo immobile, riandando indietro nel tempo, fino a un periodo di 12 anni al decorso del quale conseguiva, in presenza di un possesso rivale (adverse possession), l’effetto estintivo del diritto del vero proprietario (effetto oggi abolito nei casi di registered land). Fu così avvertita l’esigenza di ammodernare il regime dei diritti su beni immobili attraverso importanti riforme in materia: le prime leggi in materia furono approvate nel 1925 componendo un organico disegno riformatore che prese il nome di property legislation. 5.1 La riforma del 1925 (<<Law of Property Act>>) (LPA) Il modello di property è stato sostanzialmente mantenuto inalterato, per essere piuttosto semplificato e razionalizzato in funzione di una maggiore facilità e sicurezza dei trasferimenti immobiliari, nonché l’esigenza di una maggior garanzia per i co-titolari dell’immobile. 5.2 <<Legal estate>>: <<freehold>>; <<leasehold>>; <<commonhold>> È stata operata una classificazione dei diritti reali immobiliari, suscettibili di sussistere at law, cioè dei legal rights in land, prevedendo una loro drastica riduzione di numero, nonché la loro distinzione in due categorie: quella dei legal estates e quella dei legal interest. Secondo quanto stabilito dal Law of property act i soli estates capaci di sussistere o di essere trasferiti o costituiti secondo lo stretto diritto (at law) sono: l’estate in fee simple absolute in possession o freehold estate, e il leasehold estate o lease: il primo ha natura di proprietà perpetua (di durata indefinita); il secondo ha natura di proprietà temporanea (di durate determinata). Con la rimforma del 1925 l numuero dei possibili co-titolari di un legal estate sul medesimo bene è stato limitato a 4. Il fee simple (freehold estate) è il più ampio diritto, analogo al diritto di proprietà piena: oggi, questo diritto è in sé indivisibile, ed è capace di sussistere solo at law; mentre una sua frammentazione continua a sussistere in equity, a mezzo di rapporti fiduciari (trusts) tra titolare (owner) del legal estate (legal owner), e titolare di un equitable interest (equitable owner o beneficial owner). 5.3 <<Legal interests>> (o <<charges>>) Ai legal estates vanno aggiunti una serie di altri diritti, tassativamente enumerati, noti in dottrina come lesser rights, diritti minori, cioè interessi (interests) od oneri (charges)su o relativi ad un immobile che sono capaci di sussistere o di essere trasferiti o costituiti secondo lo stretto diritto (at law). Vi si annoverano i diritti su fondo altrui (rights in alieno solo): le servitù prediali (easements), i diritti di pascolo, pesca, raccolta di prodotti della terra (profits), le rendite di carattere perpetuo o per un periodo di tempo determinato gravanti su un fondo (rentcharges), il pagamento di una somma di denaro gravante su o derivante da un fondo, i rights of entry esercitabili con riferimento ad un rapporto di affitto od annessi a una rendita fondiaria. La particolarità del right of entry è data dal suo atteggiarsi a forma di autotutela: nell’ipotesi di affitto di un immobile, il proprietario può riservarsi il diritto di rientrare in possesso del bene allorquando il tenant (l’affittuario) non adempie le proprie obbligazioni; tale diritto è opponibile erga omnes, sicchè ha natura di diritto reale. Il suo esercizio prescinde da intervento giudiziale, che può invece essere invocato dall’altra parte interessata. Dal punto di vista sistematico la distinzione tra legal estates e legal interest (o cherges) sembra rispecchiare la classificazione dei rights in land a seconda del carattere possessory o non possessory degli stessi: i legal interests non si estrinsecano in un potere d’uso e godimento diretto dell’immobile, contemplano piuttosto un rapporto con un immobile da altri posseduto. In tal senso la distinzione sembra avvicinabile a quella tra diritti su cosa propria e diritti su cosa altrui; tuttavia la non corrispondenza allo schema romanistico appare evidente per alcuni legal interest, come ad esempio il mortage (l’ipoteca), che non ha come diritto reale di garanzia una configurazione autonoma, assumendo nella sua versione odierna la veste di lease. 5.4 <<Equitable interests>> Al di fuori del fee simple e del leasehold, nonché dei legal interest è stabilito peraltro che tutti gli altri diritti (etsates) interessi (interests) e oneri (charges) su o relativi ad un immobile valgano (take efect) come equitable interest. La denominazione equitable interests (o equitable rights) include sia equitable estates in land (simili per contenuto ad una proprietà piena), sia i diritti di contenuto minore ai quali più esattamente si addice la qualificazione di altri equitable interests (o charges). Da un punto di vista terminologico un estate sia esso legal o equitable connota un diritto di contenuto simile alla proprietà, mentre un interest in land può includere un estate, ma include altresì diritti di contenuto minore di proprietà. Occorre precisare che nonostante sia affermata la massima <<l’equity segue il diritto>>, cioè che tutti i diritti aventi efficacia reale at law hanno pari efficacia in equity, è anche vero che vi sono diritti non considerati reali at law, ma che tali sono riconosciuti e tutelati in equità. 5.4.1.<<Registration>> e <<overreaching>> Occorre distinguere tra legal etstaes e interests, da un lato, in quanto diritti aventi rilievo commerciale, ovvero previsti in numero ridotto e tipizzato, e, dall’altro, equitable interests, come i diritti vitalizi o i diritti futuri costituti a favore di discendenti in sede testamentaria. Ciò che importa sottolineare è la tutela (erga omnes) dei diritti equitativi, in quanto aventi natura di property rights, su beni immobili. Tradizionalmente questa tutela è stata offerta dalla doctrine of notice (teoria della notizia): mentre i property rights riconosciuti at law (legal rights) hanno efficacia erga omnes, gli equitable interests esplicano la loro natura reale nel senso di essere considerati efficaci nei confronti di tutti i terzi, salvo il terzo acquirente di un legal estate a titolo oneroso, in buona fede e senza notizia del fatto che il legal estate fosse gravato da diritti del genere. Gli equitable interests possono essere iscritti o non iscritti nell’apposito registro. Un'altra forma di tutela prevista dell’ordinamento inglese è il cd. overreaching che opera in caso di alienazione dei beni oggetti di trust, configurandosi come una sorta di surrogazione dell’equitable r4ight sui proventi che derivano da tale alienazione. 6.TRUST E CONCEZIONE PROPRIETARIA DEGLI <<EQUITABLE INTERESTS>> Nel trust esistono tre figure: il settlor, ossia il disponente; il trustee, ossia il gestore nominato dal settlor che ha la gestione del bene contenuto nel trust, dunque piena facoltà di gestire i beni e infine il cd beneficiary, il beneficiario cioè colui che gode della gestione del trustee. Il contributo maggiormente offerto dell’equity alla costruzione del modello di property nell’ordin)amento inglese è l’istituto del trust: da cui prende coropo la distinzione tra legal rights (estates o interest) ed equitable interestss. Si può osservare che nel caso in cui il titolare di un estate in the land (un fee simple) avesse alienato formalmente il suo estate a taluno sulla base di un rapporto di fiducia che obbligava costui in qualità di trustee a tenere la titolarità legale del bene per l’effettivo vantaggio o godimento ovvero nell’interesse di un altro soggetto indicato dallo stesso alienante, le corti di common law riconoscevano come titolare (legal owner) dell’estate di specie unicamente il fiduciario. Nel caso in cui il cancelliere, fosse chiamato ad intervenire in sede di equity jurisdiction nei confronti del trustee inadempiente per tutelare la posizione del beneficiario, questi, in base alla massima equity acts in personam riconosceva al beneficiario la posizione di equitable owner, accordandogli in tal modo tutela di carattere relativo, circoscritta alla sola persona del trustee, ingiungendo di adempiere l’obbligo connesso al raporto fiduciario. Questo modo di operare dell’equity valse storicamente a dare ingresso nell’ordinamento inglese a mezzi di tutela in forma specifica alternativi rispetto al rimedio dei danni in common law. In progresso di tempo la tutela del diritto di godimento esistente sull’immobile a favore del beneficiary è stata ampliata nei confronti di chiunque avesse acquistato un legal estate sapendo dell’esistenza di un tale beneficio, oppure indipendentemente da questa conoscenza, oppure ancora a chi avesse ricevuto a titolo gratuito l’immobile, fino ad arrivare in epoca moderna alla regola per la quale i legal rights sono validi nei confronti di tutti, gli equitable rights sono validi nei confronti di chiunque, eccetto un compratore a titolo oneroso e di buona fede del legal estate e i suoi aventi causa. Da semplici rights in personam, suscettibili di essere fatti valere solo nei confronti dei trustees, i diritti del beneficiario hanno assunto la consistenza di veri e propri rights in rem, o comunque ad essi assimilabili: gli equitable interest divennero molto più che semplici diritti personali nei confronti dei fiduciari, erano una nuova specie di property rights, veri diritti in rem. Di qui la possibilità di ricomprendere insieme le due distinte categorie dei legal estates e degli equitable interest in ragione della loro natura proprietaria, ossia del loro configurarsi come diritti reali. 6.1 Critiche alla concezione proprietaria degli <<equitable itnerests>> Appare controversa in dottrina la natura dei beneficial rights o interests alla luce della divisione tra diritti reali e personali secondo lo schema romanistico. Deve dirsi piuttosto che dal punto di vista storico si tratta di ius in personam, trattato alla stregua di ius in rem: un diritto primariamente valido nei confronti di certa persona, cioè del fiduciario, ma trattato in modo da essere equivalente a un diritto valido nei confronti di tutti, un dominium, una proprietà, che esiste comunque solo in equity. Ciò appare dimostrato dal fatto che il diritto del beneficiario di pretendere che i beni siano amministrati come richiede il vincolo fiduciario viene considerato ai fini dell’equity come equivalente al diritto sui beni stessi. Il trust è dunque un ibrido di contratto e proprietà, riconoscerne gli elementi personali non significa disconoscerne le componenti proprietarie. 6.2 Caratteri del trust: il <<tracing>> La chiave per comprendere l’istituto del trust sembra essere quella che lega l’obbligo del trustee, concernente la gestione dei beni a lui alienati (affidati), a questi stessi beni, anziché alla persona del beneficiario. In conseguenza di ciò il complesso di beni oggetto di trust appare completamente separato dal resto delle proprietà del trustee che, come corollario dei propri obblighi non ha, in quanto fiduciario, alcun interesse personale verso i medesimi beni; inoltre a fronte del trust duty (dovere di fiducia) si ravvisa un diritto del beneficiary altrettanto incidente sui beni alienati al trustee, al fine di assicurarne l’appartenenza al trust, cioè di mantenere la destinazione vincolata a vantaggio dello stesso beneficiario mediante tutela capace – sia pure nei limiti dell’acquisto in buona fede e a titolo oneroso - di perseguire i beni oggetto di trust nelle mani di chiunque li abbia indebitamente ricevuti – incluso l’acquirente di buona fede a titolo gratutito. Il mezzo elaborato a tal fine è il tracing, da non confondere con il common law tracing (che ha natura di azione di ingiustificato arricchimento), con cui viene fatta valere una pretesa di carattere personale nei confronti del convenuto che ha ricevuto indebitamente beni di proprietà dell’attore. Il tracing, sia at law che in equità, ha natura di azione restitutoria con cui viene fatto valere un diritto reale, applicabile oltre ai casi di illegittimo trasferimento dei beni oggetto del trust avvenuto in caso di violazione dei doveri fiduciari connessi ai beni medesimi, anche ai casi di confusione di tali beni con quelli del trustee. Deve essere fatta menzione di delle ipotesi nelle quali i diritti del beneficiario verso terzi sono protetti dall’equity attraverso il ricorso alla finzione per cui un soggetto estraneo, il cd stranger può essere reso responsabile in veste di fiduciario presunto, ad esempio quando abbia collaborato con il trustee nella violazione degli obblighi fiduciari, o ricevuto beni rientranti nel trust sapendo della violazione commessa in tal modo. Grazie al mezzo del tracing la posizione del beneficiario tende ad essere salvaguardata non solo in chiave di tutela personale, ma come tutela reale, poiché il diritto viene fatto valere come proprietary remedy. 6.3 Trust come ipotesi di “proprietà senza proprietario”: la dissociaizone tra poteri di amministrazione e diritti di godimento Il risultato cui ciò sembra condurre agli occhi di un giurista continentale è quello di una proprietà senza proprietario. La mentalità inglese impedisce di considerare il legal owner come proprietario assoluto della cosa. Il punto su cui occorre insistere è allora quello del collegamento dei doveri fiduciari con i beni oggetto di trust, in modo da orientare il rapporto formale di appartenenza di tali beni in direzione dello scopo per cui sono stati affidati anziché della persona a cui sono stati attribuiti: poiché gli obblighi gravanti sul trust sono collegati con i beni oggetto di trust, questi non sono considerati come propri del trustee, essi sono di proprietà del trust che il trustee si trova solo ad amministrare. Peraltro il beneficiario può chiedere di porre termine al trust dando istruzioni e direttive allo stesso fiduciario circa il modo di disporre dei beni. Il diritto del beneficiary comunque finisce per coincidere con una situazione dimezzata di appartenenza, assistita da una tutela solo parzialmente reale. Il trust dunque contribuisce a caratterizzare quella flessibilità sul piano funzionale tipica del sistema inglese, nel quale si ravvisa una duplicazione di situazioni di titolarità dei diritti sui beni: legal ownership e equitable ownership, relative rispettivamente all’amministrazione e all’effettivo godimento degli stessi diritti. La costruzione del trust comporta una divisione della proprietà sulla cosa o sul fondo tra poteri di amministrazione, inclusi i poteri di alienazione attribuiti al trustee (fiduciario) e, i diritti di godimento attribuiti al beneficiario. Con la riforma del 1925 tutto il tradizionale apparato di strumenti e figure riguardanti la frazionabilità dei property rights in land trova applicazione come equitable interests. Ciò vale in particolare per i beni mobili (corporali e non) oggetto di personal property, per i quali la possibilità di trarre in successione cronologica - per una durata determinata o vitalizia - le utilità da essi ricavabili, esclusa at law (per la inapplicabilità a tali beni della teoria degli estates), si realizza mediante ricorso al trust. 6.4 Trust e concezione “patrimoniale” della proprietà Deve essere premesso che i giuristi di common law non prendono così “sul serio” la distinzione tra diritti reali e diritti personal;, la distinzione è da loro considerata sul piano dei rimedi, cioè sotto il profilo dell’assolutezza o relatività. L’aspetto che “svuota” l’importanza della distinzione tra diritti reali e diritti personali è dato dalla concezione patrimoniale caratteristica del common law. Questa concezione, a differenza dei paesi di civil law, vale nell’ordinamento inglese quale premessa concettuale e sistematica su cui si fonda l’intera struttura tecnico-giuridica del regime dei beni, ossia la grammatica della proprietà. Nel common law, accade ad esempi che il diritto del leashold estate, figura da noi assimilabile a quella di un locatario, viene considerato oggetto do ownership, ovvero ricondotto all’interno dei diritti di proprietà, in quanto avente natura di “proprietà temporanea”. 6.5 Alle origini del trust: <<family settlements>> (e fedecommessi) Il meccanismo del trust, che scinde la titolarità dei beni, da un lato, e il loro valore d’uso, dall’altro, appare utile e opportuno per comprendere la distinzione tra legal e equitable rights. Giova in tal senso ricordare che in età medievale il trust trovava applicazione solo in campo immobiliare per fini di conservazione e perpetuazione nell’ambito familiare del patrimonio, costituito principalmente da possedimenti fondiari: mediante la tecnica del family settlements, cioè sulla base di disposizioni del settlor, dettate attraverso un apposito strumento negoziale (deed ) oppure per testamento, in cui venivano a combinarsi trust e estates, formando una catena di assegnazioni di interest in land presenti e futuri, ovvero di istituzioni beneficiari successive, tendenti ad assicurare attraverso le generazioni, il trasferimento, e quindi ad assicurare il mantenimento della proprietà immobiliare all’interno del nucleo familiare. Per quanto riguarda il rapporto tra regole generali e regole speciali la dottrina recente ha affermato che l’interprete deve prima applicare la disciplina speciale ai contratti speciali cui essa è rivolta, e solo in caso di lacune ricorrere alla discipline generale; resta fermo comunque il principio che rende applicabile le regole generali ai contratti atipici. b) I principi generali: Il legislatore dà una definizione di contratto come accordo di due o più parti per costituire, regolare o estinguere tra loro un rapporto giuridico patrimoniale, ma anche come vincolo (il contratto ha forza di legge tra le parti). Le parti sono libere di concludere contratti anche diversi da quelli regolati dalla legge (art. 1322); gli effetti del contratto riguardano solo le parti che lo hanno concluso e non possono spiegarsi nei confronti di terzi, salvo i casi previsti dalla legge (il contratto a favore di terzi); le parti possono sciogliersi volontariamente dal vincolo del contratto solo in casi di eccezione o perché hanno deciso di comune accordo di estinguere il rapporto, o perché una parte ha consentito all’altra di recedere, o entrambe si sono attribuite reciprocamente questo diritto; inoltre le parti devono comportarsi secondo correttezza e buona fede sia al momento in cui pongono in essere il contratto sia nel corso della sua esecuzione. Possono essere dunque individuati alcuni principi generali: il principio di vincolatività del contratto, il principio di relatività del contratto, il principio di autonomia contrattuale, il principio di buona fede. Il contratto, dunque, può essere inteso come atto e come rapporto: l’atto riguarda l’incontro delle volontà dei contraenti, il rapporto riguarda le conseguenze giuridiche che derivano dall’atto. i. L’accordo: Non tutti gli accordi sono contratti; il contratto è una sottocategoria degli accordi. L’accordo, che non è definito da codice, è definito dalla dottrina come un’espressione generica che allude all’incontro di due o più volontà. ii)Le parti: Il contratto si distingue dall’atto unilaterale poiché è il risultato dell’incontro delle volontà di due o più soggetti. Il concetto di parte è inteso come centro di interessi, poiché una parte può essecre costituita da più soggetti. iii)Le finalità: Le parti possono concludere un contratto per costituire un rapporto, modificarlo oppure estinguerlo. iiii)L’oggetto: L’oggetto del contratto è un rapporto giuridico patrimoniale: la parti non posso giungere ad un accordo contrattuale che non abbia contenuto patrimoniale (l’interesse che può spingere una parte a concludere un contratto può essere semplicemente morale, ma il contenuto che si conclude deve avere contenuto patrimoniale. 1.6 Il contratto nel diritto inglese Per ciò che attiene al diritto inglese la trattazione della tematica del diritto contrattuale, trattandosi di un diritto essenzialmente di formazione giurisprudenziale, deve partire dall’analisi dei textbooks (i manuali), dalle riviste e dalle raccolte di cases materials, dagli statutes che hanno introdotto i contratti speciali. Gli autori inglesi esprimono diversi metodi e diverse concezioni del contratto. Tali tecniche possono essere ricondotte a due indirizzi fondamentali: uno che enfatizza del contratto soprattutto l’atto di autonomia privata, nel quale gli interventi esterni (del giudice o del legislatore) devono essere limitati (questa concezione è chiamata <<sacertà del contratto>> (sancity of contract)); l’altro che muove dalla considerazione che il contratto sia un atto esposto a tutti gli interventi esterni consentiti dall’ordinamento. 1.6.1.Terminologia e definizioni La nozione di contratto derivata dall’esperienza inglese coincide solo parzialmente con quella continentale, di accordo che crea diritti e obblighi tra le parti contraenti. Nella dottrina inglese si distingue il contract dalla convention,che è termine più ampio e generico inclusivo di accordo di cui una delle parti è la p.a.; si distingue il contract dalla promise, che è la dichiarazione di assumere un obbligo; si distingue il contract dalla obligation, che è il singolo obbligo creato dal contratto; si distingue il contract dal bargain che è un accordo tra due parti per uno scambio di prestazioni eseguite o promesse. Nella dottrina e nella giurisprudenza inglese non vi è unanimità sulla definizione di contratto. La nozione di contract varia a seconda dell’idea che gli autori tendono ad esprimere. Burke dà definizioni molteplici e giustapposte di contratto: si parla di agreement enforceable at law (accordo esecutivo per legge), insistendo sul fatto che non ogni accordo è contratto e per ciò stesso vincolo con effetti giuridici: sua caratteristica essenziale è una promise, destinata a creare un’obbligazione che le parti devono eseguire. Gli atti che per il diritto continentale sono intitolati promesse unilaterali, costituiscono , nel diritto inglese, una categoria interna al genere contract. Secondo Treitel il contratto è un accordo che produce obbligazioni ed è riconosciuto dalla legge. Il contratto dunque si distingue, pertanto, da altri tipi di vincoli obbligatori poiché in esso il vincolo nasce sulla base di un accordo (agreement), fondato sulla volontà delle parti. L’accertamento della volontà a contrarre, secondo l’autore, si basa su una nozione oggettiva, collegata con l’apparenza all’esterno della volontà ragionevole di contrarre, ossia con il comportamento oggettivo di chi intende contrarre. Seocndo Treitel rientrano nella mozione di contratto anche i casi in cui l’obbligazione sorge non dall’accordo delle parti, ma dalla promessa a titolo gratuito fatta da una di esse nella forma solenne e perciò vincolante (è il caso del deed, assimilabile all’atto pubblico del diritto italiano). Pollock incentra invece la nozione di contratto sulla promessa definendolo come a promise or a set of promises, cioè una promessa o un complesso di promesse cui il diritto attribuisce forza vincolante. Secondo Atiyah, invece, non è possibile fondare la definizione di contrato né sull’agreement (accordo) né sulla promise (promessa); da un lato, perché esistono contratti che non sono coercitivi, e dall’altro, perché l’ordinamento non conferisce vincolatività astratta alla promessa, ma solo azioni per ottenere la sua esecuzione o il risarcimento del danno in un giudizio. Secondo tale autore nucleo centrale del contratto è il bargain, la negoziazione, lo scambio, l’operazione economica cui si intende dare veste giuridica: non si può dare una definizione generica e astratta di contratto, ma occorre piuttosto dare una definizione delle singole operazioni contrattuali delle parti. Si può concludere che essendo così diverse le nozioni di contratto, appare opportuno che questa espressione non sia definita, tenendo presente che il suo significato cambia a seconda del contesto. 1.6.2.Origine storica del diritto contrattuale Nel diritto inglese l’ossatura del sistema dei contratti si è formata nel corso dei secoli attraverso l’evoluzione giurisprudenziale e, per alcuni aspetti dipende ancora da principi di origine medievale. Nel common law la disciplina del contratto si fonda in origine sull’idea di danno derivante dalla violazione di un obbligo. Pertanto la nozione di tort e di contract assumono molteplici punti di contatto. All’inizio del XV secolo si contavano 4 rimedi per rapporti obbligatori specifici: 1)debt: per il recupero di somme di denaro, con onere della prova a carico dell’attore; 2)detinue: per il recupero della cosa specifica (coatte); 3)covenant: per l’esecuzione della promessa fatta in modo solenne, per la difesa dell proprietà fondiaria; 4)account: per ottenere il rendiconto dei debiti derivanti da rendite o dalla vendita di merci. A questi rimedi si aggiunse successivamente l’action of assumpsit, azione concessa quale rimedio contro l’inesatto adempimento (misfeasance) o l’inadempimento (non-feasance) di chi aveva precedentemente assunto un obbligo. Quest’azione si sviluppo a seguito dell’evoluzione dell’azione di trespass on the case, cioè dell’azione concessa contro chi aveva adempiuto inesattamente o non aveva adempiuto del tutto un proprio obbligo. Successivamente si consolidò l’idea che fonte di un’obbligazione contrattuale, oltre dell’illecito, potesse essere l’accordo. Alla fine del XVII secolo, sulla spinta di esigenze commerciali si formò l’implied assumpsit: le azioni derivanti dai titoli di credito si fondavano sull’esistenza di un accordo implicito precedente. 1.6.3.Principio della <<freedom of contract>> e sua crisi Il principio della autonomia contrattuale, freedom of contract, si basa sull’assunto che il contratto sia il risultato dell’accordo di volontà delle parti, che queste siano libere di concluderlo o meno e, di determinarne liberamente e integralmente il contenuto senza interferenze da parte del legislatore, del giudice o dell’autorità legislativa, giustificate dall’esigenza di tutelare gli interessi di una parte, quella più debole, o l’interesse pubblico. Secolo d’oro del contratto fu quello del laissez-faire: l’ascesa dei ceti mercantili, il trionfo della borghesia, il non intervento da parte dello stato e il liberismo consentirono lo sviluppo di strumenti giuridici utili e funzionali ai rapporti economici; in questo periodo i principi di eguaglianza nello scambio, di equilibrio nelle contrattazioni sono superati dall’esigenza di rispettare la volontà dei singoli, di assicurare a traffici e commerci un’ area abbastanza vasta di libertà e autonomia, sottratta a forme di controllo incisive. Si profila il non intervento delle Corty di equity in materia di valutazione del prezzo, poiché solo il consenso delle parti deve considerarsi paramentro per il giusto prezzo: Powell sostine che ciascuno è obbligato, in coscienza, ad eseguire il contratto che ha stipulato, anche se esso risulta assai oneroso. L’insieme dei principi su menzionati sono manifestazione della cd. “teoria della volontà” o, più precisamente “sacertà del contratto”. L’idea di contratto, quale espressione dell’eguale potere di obbligarsi riconosciuto alle parti, comincia a declinare sul finire del XIX secolo, in ragione del tramonto del laissez- faire, dell’affermazione del principio di eguaglianza in senso sostanziale (oltreché formale) e del declino dell’equity. Secondo Atiyah questo fenomeno deve essere inteso come: 1) perdita di rilevanza del ruolo del contratto nella società moderna; 2) come sostituzione della libera scelta, che dà luogo all’acquisizione di diritti, con una scelta non volontaria ma imposta dall’intervento legislativo; 3)come declino della responsabilità fondata sulla promessa, poiché la tutela è riconosciuta anche quando il contratto non sia stato concluso e pertanto non vi sia stata formalmente alcuna promessa. Secondo Atiyah, è bene che i rapporti contrattuali siano lasciati alla libera determinazione delle parti; e solo nei casi di oggettiva necessità lo stato dovrebbe intervenire in via diretta con strumenti assistenziali, senza imporre, come è avvenuto finora, oneri alla generalità dei contraenti. 1.6.4.Funzioni del diritto contrattuale e della pormessa Nella sua più accezione più comune il contratto è costituito da uno scambio di promesse che creano diritti e obblighi per le parti. La funzione immediata del law of contract è dunque quella di attuare le promesse e le legittime aspettative delle parti. Secondo Atiyah la funzione del law of contractual obligation (legge sulle obbligazioni contrattuali), come preferisce definirlo (anziché law of contract), è anche quella di tutelare l’interesse della parte, che facendo affidamento sul contratto non concluso, invalido, o altrimenti inefficace, sia incorsa in spese o si sia altrimenti impoverita arrecando all’altra un arricchimento senza causa. Uno dei dibattiti in corso nel commin law inglese riguarda la natura e la funzione della promessa. Atiyah ha condotto importanti riflessioni sulla vincolatività della promessa secondo due prospettive diverse: lo svolgimento storico del modello giuridico di promessa e, le idee filosofiche che di volta in volta permeano tale modello. L’opera di Atiyah tratta della descrizione di una crisi: della crisi della promessa intesa come manifestazione di volontà per sé vincolante, senza riguardo alla causa, cioè al perché della sua determinazione. Il modello di contratto, e quindi di promessa, trae origine dai principi del diritto naturale, creati da Grozio e Pufendorf, per i quali la questione fondamentale si riassume nell’accertare quando una promessa sia moralmente vincolante; per i giuristi che seguono la teoria classica si riassume invece nell’accertare quando una promessa sia giuridicamente vincolante. In entrambi i casi punto di passaggio è la volontà. In questo senso deve essere ricordata la filosofia utilitarista di Smith, Austin, Mill, Hume, i quali fanno riferimento all’affidamento (reliance): ciascuno agisce perseguendo un proprio utile; le promesse devono però essere onorate e quindi il loro inadempimento deve essere sanzionato. Ciò può essere spiegato in termini di self interest (interesse personale). Nasce tuttavia un problema logico: la promessa non è vincolante solo perché ci si fa affidamento, perché finché non si assicura che essa sia vincolante il promissario può non volervi prestare affidamento. Se è la natura vincolante della promessa a indurre a farvi affidamento, diventa impossibile dedurre la vincolatività della promessa dalla sola circostanza che vi si è fatto affidamento. Un tentativo di soluzione del problema è stato compiuto ad opera di Mac Cormick, il quale sostiene che il promissario non fa affidamento sul fatto che la promessa crea obbligazioni vincolanti, ma fa affidamento sull’intenzione del promittente di adempiere ciò che ha promesso di fare. Si attua così il principio della reliance (dell’affidamento) e si fa strada l’accertamento delle aspettative. Questa è una forma di <<affidamento psicologico>>; e se si portano alle estreme conseguenze le premesse utilitaristiche, il promittente che trarrebbe un maggior vantaggio dall’inadempimento, potrebbe scegliere di on adempiere. Ci si chiede allora, se il promittente abbia diritto di cambiare opinione e sottrarsi alla promessa o se il promissario abbia diritto di vederla osservata. La risposta risiede nel contratto sociale, ovvero nelle regole della convivenza, che vengono osservate a garanzia delle aspettative: e in tutti gli ordinamenti i principi giuridici trovano un parallelo nei principi etici osservati. 1.6.5.La classificazione dei contratti Ragioni sistematiche hanno spinto la dottrina continentale ad operare diverse classificazioni dei contratti. Nell’esperienza di common law questa tendenza è quasi inesistente. La classificazione tradizionale vede una tripartizione dei contratti in: 1) contracts of record: obbbligazioni derivanti da una sentenza di una Court of Record, che storicamente erano poste in esecuzione mediante ordinari rimedi contrattuali. 2) contracts under seal: che comprende atti denominati anche deeds o convenants (patti), cono costituiti da una promessa scritta sigillata e consegnata; la forma da a questi contratti validità. 3)simple contracts: sono i contratti ordinari, che noi definiremmo contratti a forma libera. Una classificazione sulla quale si insiste maggiormente è quella tra contratti unilaterali e bilaterali, è importante perché solo nel caso della bilateralità entrambe le parti assumono obbligazioni, nel caso di unilateralità solo una di esse è obbligata a fare qualcosa. Altra distinzione è quella tra contratto unilaterali (in cui alla promessa di una parte corrisponde un facere dell’altra (es promessa al pubblico);e solo una parte è obbligata) e contratti bilaterali (in cui vi è scambio di una o più promesse da entrambe le parti; e su entrambe sorgono obbligazioni). Vi è, poi, chi distingue tra express contracts (contratti espliciti; manifestazione esplicita della volontà), implied contracts (contratti impliciti; manifestazione implicita della volontà) e quasi-contracts, categoria quest’ultima che attinente alla disciplina del pagamento indebito e dell’arricchimento ingiustificato, riguarda in realtà tutt’altro settore della law of obligation, denominato la law of restituito, che disciplina le obbligazioni che non sorgono né da fatto illecito (tort), né dall’accordo delle parti o dalla promessa di una di esse (contract). Si è inoltre soliti distinguere tra contratti a base individuale per i quali vi è presunzione di eguaglianza sostanziale di potere contrattuale tra le parti e, contratti per adesione, per i quali vi è un potere preponderante della parte che ha predisposto il formulario. Altra distinzione è quella tra executed contracts contratti stipulati) ed executory contracts (contratti esecutivi): i primi sono contratti le cui obbligazioni sono già state interamente o parzialmente eseguite; mentre i secondi sono La causa deve anche essere inerente al tipo di contratto che si intende concludere: ad es. la manutenzione di un fondo circostante uno stabilimento e utilizzato allo scopo di barriera antincendio non integra un contratto agrario, bensì un contratto di appalto di servizi, ciò in funzione della causa del contratto; e ancora, ad es. il mutamento di status di una parte, da conduttore del fondo non coltivatore diretto in coltivatore diretto, non comporta qualificazione del contratto come affitto a coltivatore diretto. vi)L’uso della causa per circoscrivere i rischi accollati alle parti La causa è utilizzata anche per escludere o per includere i rischi dall’area contrattuale. Ad es.: la spedizione di carte valori con lettere raccomandata poi andati in smarriti non comporta responsabilità della amministratore, in quanto il privato usa il servizio per uno scopo estraneo alla causa del contratto e quindi a suo rischio e pericolo. 3.LA DISCIPLINA DEI CONTRATTI DEL CONSUMATORE E LA SUA INFLUENZA SULLA DISCIPLINA GENERALE DEL CONTRATTO Uno dei problemi più dibattuti in materia di contratti riguardala relazione tra la disciplina dei contratti dei consumatori e la disciplina dei contratti in generale. In materia di contratti dei consumatori è stata approvata la direttiva n. 93/13/CEE, con la quale è stato introdotto il controllo giudiziale delle clausole abusive, a garanzia della parte debole. 3.1.La frammentazione della disciplina contrattuale nei manuali recenti La questione sulla correlazione tra le due discipline è stata notevolmente significativa nell’esperienza inglese, dove di recente è nata la tendenza ad affiancare alla legislazione nazionale, un confronto sostanzioso con altre esperienze giuridiche , quali appunto quelle della Comunità Europea. 3.2.La disciplina dei contratti dei consumatori Nel presentare la direttiva n. 13/93, gli autori inglesi evidenziano soprattutto le finalità di tutela della concorrenza (consentendo alla CE di ingerirsi anche della disciplina contrattuale, normalmente considerata estranea alle competenze dell’UE), che sarebbe distorta da una varietà di normative nazionali tra loro contrastanti, e la finalità dei consumatori (il controllo delle clausole vessatorie), la cui ignoranza delle normative degli altri paesi membri frenerebbe dal fare acquisti transfrontalieri di beni o servizi. 4. I PROCESSI DI ARMONIZZAZIONE E DI UNIFICAZIONE DEL DIRITTO CONTRATTUALE 4.2.La costruzione sistematica Il processo di armonizzazione del diritto contrattuale in corso avviene attraverso un triplice corpus normativo: 1)la costruzione del diritto comunitario dei contratti; 2)la progettazione di un codice europeo dei contratti; 3)la redazione di principi uniformi del diritto dei contratti nel commercio internazionale. Questi tre corpora divergono tra loro per molteplici ragioni: i) per l’autorità della fonte, in quanto nel primo caso si tratta di regole giuridiche, regolamenti e direttive, di principi e modelli normativi di recepimento, e di regole giurisprudenziali che si riferiscono ai poteri normativi riconosciuti agli organi dell’UE; nel secondo caso di una elaborazione teorica effettuata in modo privato e propositivo, di regole proposte da una commissione di docenti (Lando); nel terzo caso, di principi con cui si registrano e si innovano le regole che governano i contratti del commercio internazionale elaborati dall’istituto per l’unificazione del diritto (UNIDROIT ); ii) per ambito geografico, in quanto i principi del commercio hanno una vocazione universale che non si attaglia con i primi due corpora, circoscritti all’Europa; iii)per la dimensione prospettica, in quanto il codice europeo ha ambizioni sistematiche per la parte generale della disciplina dei contratti, mentre i principi di UNIDROIT si preoccupano di risolvere questioni pratiche concernerti contratti commerciali internazionali e, il diritto comunitario è frutto dell’approvazione delle direttive comunitarie allo stato emanate dall’UE e delle discipline di recepimento nei singoli paesi membri. Prima di passare al raffronto dei testi, occorre precisare il modo con lui il legislatore comunitario legifera in determinate materie: la comunità europea nell’emanare le direttive comunitarie (o altre fonti) non segue alcun criterio logico; spetta al legislatore nazionale il compito di coordinarle al momento del recepimento, sul piano sia sostanziale sia sul piano della loro vigenza. 4.3.Esempi di raffronto dei testi i)Libertà contrattuale le direttive comunitarie in materia di diritto contrattuale non contengono enunciazioni generali sulla libertà contrattuale delle parti, tuttavia ciascuna di esse la presuppone sia con riguardo alla scelta dell’altro contraente, sia con riguardo alla determinazione del contenuto, della forma e così via. Ciò che rileva in materia, non è tanto l’enunciazione della libertà contrattuale, quanto piuttosto i limiti che le direttive comunitarie impongono alla libertà contrattuale. Questi limiti hanno una doppia valenza: sono volti a rendere privi di effetti giuridici i patti che ostacolano la circolazione di merci, di servizi, di capitali, e a contenere il potere negoziale della parte più forte. La parte più debole è il consumatore, cioè la controparte del professionista. Il codice europea enuncia il principio di libertà contrattuale (art. 1102) e così pure i Principi di UNIDROIT (art. 1.1). ii)Buona fede, correttezza, ragionevolezza Nelle enunciazioni normative spesso si richiamano clausole generali e standard di comportamento. La clausola generale di buona fede deve essere esaminata nel contesto in cui il concetto stesso è utilizzato. In altri termini il contesto presuppone la rilevanza dei ruoli che si ascrivono alle parti, ovvero due commercianti, cioè due operatori professionali hanno canoni usuali di comportamento che non si identificano con i canoni di comportamento del contraente e del consumatore. Il concetto di buona fede è menzionato nel codice europeo e nei Principi di UNIDROIT. Eguale discorso vale per la correttezza. Diverse sono, invece le considerazioni sulla ragionevolezza che è parametro raro nelle direttive comunitarie, raro nel codice europeo mentre diffusissimo nei principi di UNIDROIT. iii)Usi Gli usi non sono considerati con favore dalle direttive comunitarie, poiché essi richiamano il particolarismo giuridico, e quindi ontologicamente in contrasto con la creazione di un diritto comune. Di contro sono invece esaltati nei principi di UNIDROIT che si pongono come regole generali tali da codificare la lex mercatoria. Il codice europeo, accanto agli usi comunemente intesi, introduce una nozione soggettiva di uso, considerando vincolante l’uso che le parti hanno concordato o instaurato tra loro. iv)La protezione della parte debole Le direttive comunitarie sono in gran parte rivolte a tutela degli interessi della parte debole, vale a dire il consumatore; nel codice europeo non si rinviene una definizione di parte debole, ma alcune disposizioni tengono in conto la posizione di debolezza di una delle parti, come accade, ad esempio, per le clausole non individualmente negoziate. Nei principi UNIDROIT si rinvengono regole sulle clausole a sorpresa, sull’interpretazione contra proferentem e sulla gross disparity. v)La trattativa L’orientamento in materia di trattativa è sostanzialmente uniforme nei tre corpora normativi: si enuncia infatti la libertà delle parti nella fase di contatto anteriore alla conclusione del contratto; la libertà di contrarre viene intesa come libertà negativa, di non contrarre; il mancato raggiungimento dell’accordo non può comportare responsabilità alcuna; la libertà nella trattativa deve essere esplicato secondo buona fede, sicchè un comportamento difforme implica responsabilità. La trattativa è considerata in una duplice prospettiva: come la fase nella quale le parti esprimono effettivamente la loro libertà negoziale; e come la fase nella quale le parti si scambiano informazioni. vi)La formazione Le regole sulla formazione dei contratti sembrano omologhe in tutti i testi considerati (Principi di UNIDROIT, Codice europeo, direttive comunitarie). La conclusione di contratti standard è presa in considerazione sia nel codice europeo sia nei principi di UNIDROIT. Nel diritto comunitario l’impiego di modelli standard è considerata una delle tecniche con cui il professionista tenta di imporre al consumatore clausole abusive e pertanto è disciplinato con particolare cura nella direttiva apposita. In particolar modo è disciplinato il ius poenitendi del consumatore, consentendogli di revocare la proposta o di recedere dal contratto. Simili opportunità non sono previste né nel codice europeo né nei principi di UNIDROIT. Ciò accade perché il contraente ordinario oppure il contraente operatore economico non possono recedere se questo diritto potestativo non è concordato dalle parti. Per il diritto comunitario il ius poenitendi costituisce un espediente più sicuro per sottrarre il consumatore ad un’operazione di cui non avesse compreso appieno il significato e la convenienza. vii)Il contenuto i singoli ordinamenti divergono sugli elementi essenziali del contratto per cui il codice europeo e i Principi di UNIDROIT non fanno alcun elenco di tali requisiti. Le direttive si preoccupano invece del contenuto minimo essenziale che il giurista continentale ascrive all’oggetto del contratto; preoccupazione anche questa volta ispirata alla tutela della parte debole. Si tratta di un’ottica interventista perché le direttive prescrivono la previsione di determinati elementi considerati essenziali, la cui mancanza priverebbe il consumatore della possibilità di esprimere un consenso informato e lo esporrebbe al rischio di sottoscrivere un contratto lacunoso, di cui potrebbe giovarsi il professionista. Le direttive comunitarie si preoccupano, altresì che il contenuto del contratto sia espresso con clausole chiare e intellegibili, perchè il consumatore possa esprimere un consenso informato. Per quanto concerne le regole di interpretazione, queste sono per lo più simili nei tre corpora. Particolare attenzione è poi posta dalle direttive comunitarie al ius variandi: si tratta di una rilevante limitazione alla libertà contrattuale dettata dall’esigenza di proteggere la parte più debole che si troverebbe esposta agli abusi del professionista. viii)La forma Nel commercio internazionale, regolato dai principi di UNIDROIT, vige il principio della libertà di forme. Il codice europeo non disciplina specificamente la materia in ragione della disciplina eterogenea della forma nei vari sistemi. La direttiva assume un atteggiamento interventista anche in questo settore: la forma è intesa nel duplice profilo, come tecnica per far conoscere alla parte più debole il contenuto del contratto, e come tecnica per richiamare l’attenzione sulle singole clausole del rapporto. ix)La conservazione Le direttive comunitarie non si occupano né della risoluzione né dell’invalidità, se non nei casi particolari di invalidità di singole clausole. Nei principi di UNIDROIT si registra la tendenza a conservare il contratto; mentre le direttive non si preoccupano tanto di salvare il contratto quanto piuttosto di tutelare il consumatore,preferendo di sciogliere il contratto piuttosto che mantenerlo in vita quando un suo interesse viene travolto. 5.DAL PROGETTO GENERALE DI <<COMMON FRAME>> ALLA REVISIONE DELL’<<ACQUIS COMMUNAUTAIRE>> 5.1.L’esigenza di costruire un diritto comune europeo e di realizzare uno spazio giuridico unitario L’obiettivo principale che gli Organi comunitari si sono posti è quello di disegnare un diritto comune europeo, uno spazio giuridico armonico. In particolare il percorso di armonizzazione del diritto europeo dei contratti è risultato molto lungo e faticoso; in primo luogo perché l’unificazione non può estendersi a materie estranee alla competenza comunitaria, quali il diritto di famiglia, il diritto della proprietà: la comunità europea, alla luce delle competenze che il Tratto istitutivo CE attribuisce al Consiglio, può adottare direttive volte ad operare l’avvicinamento della disciplina interna degli stati membri che abbiano una incidenza sul mercato comune; in secondo luogo perché il trattamento dei rapporti giuridici di diritto privato è differente tra gli stati membri, tanto da porre un vero ostacolo alla creazione di u mercato comune. 5.2.Le prime iniziative del Parlamento europeo mirato ad avvicinare il diritto provato degli Stati membri e a promuovere l’elaborazione di un <<codice comune europeo di diritto privato>> I primi documenti che hanno iniziato a prefigurare un percorso di armonizzazione del dirittto privato europeo sonno: i)la Risoluzione del 26 maggio 1989, con la quale il Parlamento europeo, considerato che sino ad allora si era proceduto ad armonizzare singole parti dei diritto privato, ha avvertito l’esigenza di procedere all’unificazione dei più importanti settori di diritti privato; ii)la Risoluzione del 6 maggio 1994, con la quale il Parlamento istituisce una nuova Commissione sollecitandone l’operato, per il fatto che la prima Commissione non aveva concluso i lavori di elaborazione del codice europeo comune di diritto privato. 5.3.L’intervento della Commissione europea in vista della edificazione di un diritto contrattuale europeo: le Comunicazioni dell’ 11 luglio e del 2 ottobre 2001 Con la Comunicazione dell’ 11 luglio 2001, inviata al consiglio e al Parlamento europei, la commissione finalmente compiva il primo passo concreto verso l’auspicata unificazione del diritto contrattuale. Tale Comunicazione conteneva un questionario, rivolto ad imprese e operatori del diritto, avente lo scopo di raccogliere informazioni sulla necessità di un’azione comunitaria incisiva nel settore diritto contrattuale; avendo acquisito la consapevolezza che l’adozione di direttive riguardanti specifici contratti e tecniche di commercializzazione particolari , risultava insufficiente in vista dell’obiettivo prefissato. La commissione ha, così, prospettato ai suoi interlocutori la scelta tra 4 opzioni: 1)astensione da un’azione comunitaria, lasciando la soluzione dei problemi al mercato stesso; 2)promozioni di un complesso di principi comuni non vincolanti, che le parti contraenti, i giudici e i legislatori potrebbero prendere in considerazione; 3)miglioramento qualitativo della legislazione comunitario attraverso un’attività di chiarificazione e di semplificazione; 4)adozione un nuovo strumento legislativo comunitario da graduare in ragione del particolare grado di vincolatività auspicato. Con l’altra Comunicazione del 2 ottobre 2001, la commissione ha avviato una consultazione pubblica, diretta ad accertare l’esistenza di ostacoli incontrati da consumatori ed imprese, imputabili alla differenze tra le normative nazionali in materia di trasparenza e correttezza delle operazioni commerciali, invitando gli interessati a valutare la necessità di una riforma della tutela dei consumatori nel mercato interno. Occorre innanzitutto ricordare che i principali sistemi giuridici di civil law, in particolare quello francese e quello tedesco, si rifanno al modello romanistico, ma con esiti assai diversi tra loro. Nel diritto romano classico si individuano 4 categorie di delicta dalle quali sorge a carico dell’offensore una pena consistente nel pagamento di una somma di denaro. Il furtum e la rapina tutelavano essenzialmente il diritto di proprietà; l’iniuria(la lesione) l’integrità fisica e morale. Il damnum iniuria datum (il danno ingiusto) appare essere la categoria più complessa, giacchè comprende una serie di atti dannosi su cose altrui; questa non richiede l’elemento soggettivo del dolus bensì soltanto quella della culpa. (si ha colpa quando l’agente non voleva la realizzazione dell’evento giuridico rilevante, che tuttavia si è verificato a causa di: negligenza, imprudenza, imperizia, inosservanza di leggi, regolamenti, ordini, discipline; si ha dolo quando l’agente intenzionalmente provoca un danno). A fondamento per damnum iniuria datum viene posta la lex Aquilia. Intorno alla nozione di colpa romanistica non vi è unanimità di opinioni, certo è che rappresenta il tratto di innegabile novità della responsabilità civile, così come ricostruita nei secoli a venire: vi è illecito solo se il comportamento è doloso o colposo. Tuttavia occorre evidenziare come nel sistema romanistico siano presenti ipotesi di responsabilità senza colpa - i quasi delicta, e in particolare l’actio de effusis et deiectis (concessa a chi veniva leso dal lancio di oggetti da una casanei confronti dell’abitante della stessa) o l’actio de positis vel suspensis (concessa a chi venica leso dalla caduta di cose appoggiate o sospese ad una casa) - che si tramanderanno fino ai nostri giorni, dove trovano l’equivalente nella responsabilità per le cose in custodia e dei datori di lavoro per fatto illecito dei loro preposti. 4.2.Il contributo dei giusnaturalisti Punto di passaggio essenziale verso le concezioni attuali è rappresentato dalla lettura che dell’istituto venne proposta dalla scuola del diritto naturale. Ugo Grozio muove la teoria della responsabilità civile su due terreni: in primo luogo la responsabilità civile fa parte del diritto civile dove l’intervento del diritto ha funzioni riparatrici, per cui l’istituto viene spogliato delle sue implicazioni penalistiche evidenti già nel diritto romano (che prevedeva quali fonti di responsabilità il furtum e la rapina) e dalla natura prevalentemente sanzionatoria (una penalità fissa) della somma di denaro che doveva essere corrisposta dall’offensore all’offeso; in secondo luogo la responsabilità è ridotta ad una serie variegata di ipotesi tipiche, caratterizzate dal principio generale “l’illecito obbliga a risarcire il danno” ,intendendo per illecito qualsiasi atto commissivo o omissivo che si pone in contrasto con il comportamento che si dovrebbe tenere in generale o in particolari situazioni. E’ in quest’ultimo aspetto evidente l’evoluzione del diritto romano che rifiutava una teoria generale dell’illecito, concentrandosi piuttosto su una ricostruzione casistica. 1.3.La codificazione francese Evidente è l’influsso del giusnaturalismo nel iniziatore del code civil, Pothier, il quale affermava nel suo Trattato delle obbligazioni che <<la legge naturale è causa di tutte le obbligazioni, perché se i contratti, i delitti o i quasi delitti producono obbligazioni è perché la legge naturale ha già dapprima prescritto che ciascuno adempia a tutto ciò che ha promesso e risarcisca il danno arrecato per sua colpa >>. Il principio è così trasfuso nell’art 1382 del code Napoléon: “Qualunque fatto dell’uomo che arreca danno ad altri ,obbliga colui per colpa del quale è avvenuto, a risarcire il danno.” In questo contesto le motivazioni addotte per giustificare la responsabilità dei genitori, degli istitutori e dei datori di lavoro per il fatto di figli, degli allievi e dei dipendenti, sono diverse: in primo luogo, se non la si imponesse il danno rimarrebbe il più delle volte irrisarcito; inoltre chi trae profitto da una certa attività deve sopportarne anche le conseguenze negative; e infine nel confronto di interessi tra danneggiante e danneggiato, la bilancia della giustizia non può che pendere a favore di quest’ultimo. 2.IL MODELLO TEDESCO Al modello romanistico, rivisitato dalla scuola cd pandettistica dell’800, in Germania, si rifà il BGB tedesco del 1896 (entrato in vigore nel 1900). Ciò che viene messo in evidenza nel Codice civile tedesco è la tipicità del modello romanistico: non ogni lesione ad un interesse veniva sanzionato, ma solo quei comportamenti che corrispondevano a quel che oggi definiamo <<fattispecie incriminatrice>> Il BGB opera essenzialmente su tre registri: 4)la selezione degli interessi tutelati: vita, integrità fisica, libertà, proprietà, reputazione; è illecito, e dunque obbliga al risarcimento, solo ciò che lede taluni diritti di primaria importanza oppure contrasta con una norma imperativa posta a tutela dei privati; il resto è libero o, comunque, non dà luogo a prestazioni risarcitorie. 5)la ingiustizia del danno: l’atto o il fatto deve essere contrario alla legge, e quindi è il legislatore a decidere se allargare o stringere i confini delle fattispecie illecite; 6)l’ elemento soggettivo (riferibile all’illecito penale): la colpa costituisce l’elemento essenziale per l’applicazione delle regole di responsabilità. Se tuttavia l’illecito è doloso, e in più contrario al buon costume, si prescinde dalla tipicità dell’interesse protetto sulla scia dell’actio generalis doli; se invece manca la colpa è necessaria una speciale disposizione che ne dichiari l’illiceità civile. Occorre precisare che la giurisprudenza ha dato vita alla creazione di alcuni diritti soggettivi assoluti non contemplati dal legislatore, ma desumibili dall’esistenza di norme e principi sparsi; inoltre dopo la seconda guerra mondiale, il sistema tedesco ha subìto un processo di costituzionalizzazione: alcuni diritti vengono fondati direttamente o indirettamente dalla Costituzione . 3.IL MODELLO ANGLO-AMERICANO 3.1.Il diritto inglese A differenza di questi due modelli che si sono sintetizzati, quello inglese non ha legami con l’esperienza romanistica. Nella tradizione germanica l’illecito, nei casi in cui si applicava la legge del taglione, obbligava il responsabile a compensare le offese; il principio era essenzialmente casistico e dunque non veniva inteso in termini generali e, nella storia del diritto inglese è ulteriormente limitato dalle restrizioni processuali poste dal sistema delle forms of action che consentiva di agire in giudizio solo se la situazione giuridica lesa e il rimedio richiesto corrispondevano a quanto previsto dalla formula introduttiva del giudizio predisposta dal Cancelliere. La costruzione della categoria dei torts segue un percorso lungo secoli, che prende le mosse dell’action of trespass (azione di trasgressione), termine che indicava l’interferenza illecita con l’altrui persona o proprietà. Si trattava, in origine, di un’azione penale - in quanto turba la pace del re, e la sanzione è rappresentata da una pena; ela lesione deve essere inflitta direttamente dall’offensore (caratteristica simile alla più antica zione romana per iniuria. Verso la metà del XIV secolo, sfruttando la possibilità che il cancelliere aveva di concedere un writ in consimili casu (cioè in casi analoghi), nasce la action of trespass on the case, a natura civilistica e dunque con funzione risarcitoria, per la quale non è richiesto un atto diretto dell’offensore e l’offeso deve quantomeno allegare la colpa del convenuto. Sotto questo profilo il divario con il tort originario è comunque notevole: nel trespass la materialità della condotta dell’offensore, il quale direttamente arrecava la lesione, ne faceva presumere la volontarietà. A differenza del traspass il cui “bene” leso era costituito dall’ordine e dalla pace sociale violati, nel trespasson the case è necessario provare un danno. L’alterità tra trespass e trespass on the case si è protratta per molti secoli, dando vita ad un sistema tipico di illeciti intenzionali e non intenzionali; in quest’ultimo rientra il tort of negligence, che nasce intorno al XVII-XVIII secolo e viene addebitato a soggetti che svolgono una qualche attività di rilievo pubblico come il vettore, il fabbro, il chirurgo, l’oste, ecc, i quali vengono onerati di una particolare diligenza nei confronti di chi entra in contatto con loro. Solo nell’800, a seguito della crescente industrializzazione il tort of negligence occupa aree più vaste e, per la sua ricorrenza si richiedono cinque fattori: 1) esistenza di un duty of care, dovere di diligenza; 2) violazione del duty of care; 3) esistenza del danno; 4) collegamento causale tra violazione e lesione; 5) inesistenza di cause di giustificazione o di responsabilità (o di concorso di colpa) del danneggiato La maggiore attenzione degli studiosi si attesta attorno al duty of care, poiché occorre innanzitutto accertare se taluno sia soggetto a un dovere di diligenza e nei confronti di chi. A differenza dei sistemi continentali, nei quali l’attenzione è rivolta alla verifica dell’esistenza, in capo al danneggiato,m di una situazione protetta che è stata lesa dal responsabile, nei sistemi di common law inglese invece ci si muove per stabilire se vi fosse un obbligo in capo al preteso danneggiante. Seguendo il tipico modello casistico vengono a definirsi volta per volta regole vigenti nei singoli settori dell’esperienza pratica o applicabili a comportamenti tipizzati. Vi sono comunque alcuni tratti comuni: a) l’obbligo può esistere se sia prevedibile che dal comportamento tenuto possa conseguire un danno. La prevedibilità dipende da una serie di elementi di fatto (circostanza di luogo e di tempo), ivi inclusi rapporti che possono esservi tra le parti; b) di norma l’obbligo ha riguardo ad attività commissive, non ad omissioni, riguardo alle quali è raro che si riconosca un duty of care che implichi un comportamento attivo del soggetto volto ad evitare una lesione del terzo, a meno che non si tratti di una misura precipuamente volta alla sicurezza altrui (non ho l’obbligo di gettami in mare per salvare una persona hc etsa annegando; me se gestisco una piscina pubblica ho l’obbligo di adibire un bagnino per eventuali operazioni di salvataggio); c) l’obbligo può mirare alla protezione solo di alcuni interessi, come quelli di primaria importanza quali la vita, l’integrità fisica, la proprietà e, così via; d) di solito l’obbligo non è volto a tutelare la generalità dei consociati, ma solo alcune categorie di essi. Una volta accertata l’esistenza di un duty of care – compito attribuito al giudice togato che svolge un ruolo di controllo nella selezione degli obblighi - occorre verificare in concreto se il convenuto in giudizio lo abbia violato. Per fare ciò è necessario però, fissare quale sia lo standard of care che egli avrebbe dovuto osservare, per confrontarlo con la condotta concretamente tenuta. Entra così in gioco la figura del reasonable man (uomo ragionevole), simile a quella del bonus pater familiae di tradizione romanistica. Esso serve a oggettivizzare gli standard di condotta richiesti e rendere ininfluenti le condizioni fisiche o mentali individuali del presunto responsabile. In altre parole non si è seguita la tendenza continentale che distingue tra elementi oggettivi (condotta, causalità, danno) ed elementi soggettivi (colpa, dolo): nel sistema inglese, l’inottemperanza a comportamenti dovuti comporta automaticamente la sussistenza dell’illecito. Altra peculiarità del sistema inglese che lo differenzia dai sistemi continentali è che, mentre in quest’ultimo l’indagine per affermare l’esistenza di un <<dovere di tutela>> di interessi altrui parte dalla produzione normativa di vario livello (leggi, regolamenti, decreti), nei sistemi di common law il giudicie ricostruisce automaticamente l’esistenza di uno standard od care in capo al danneggiante – il risultato è quasi sempre uguale, ma la finzione serve a ribadire il principio di autonomia del potere giudiziario. Per quanto riguarda la nozione di prevedibilità, utilizzata per “perimetrare” l’area del danno risarcibile, occorre segnalare che nel diritto inglese la law of damages (la legge dei danni) si applica indistintamente alla responsabilità contrattuale come a quella extracontrattuale. Per quanto riguarda le ipotesi di responsabilità oggettiva o aggravata deve essere colta un’evidente differenza rispetto ai sistemi continentali, poiché nel sistema inglese è assente un dettato legislativo che consenta di far discendere dal verificarsi di un fatto dannoso la responsabilità in capo ad un soggetto prescelto. Fin dalla metà dell’800 si è affermata la strict lability (labilità rigorosa) per il danno arrecato da cose che si trovano sul fondo del proprietario e, soluzione analoga viene raggiunta per gli animali domestici; si parla poi di vicarious responsability (responsabilità vicaria (o delegata)) nel caso di danno arrecato dal dipendente nell’espletamento delle sue funzioni. Nella common law la responsabilità per il fatto del dipendente viene collegata all’esistenza fra questo e il datore di lavoro di un rapporto di agency (figura assimilabile al nostro mandato): così come il principal si avvantaggia delle attività utili dell’agent, così deve sopportarne i reati. Importante appare poi la responsabilità dell’impresa per i prodotti difettosi: nella decisione Donoghue v. Stevenson fu affermata la responsabilità del produttore verso il consumatore per quei beni che quest’ultimo non poteva previamente ispezionare, perché chiusi in scatola, o altro contenitore. Questa decisione rileva che l’impresa abbia un duty of care verso il pubblico, che non comporta, comunque, una presunzione di responsabilità e l’inversione della prova che incombe sempre sul danneggiato. Nel sistema inglese, in tema di circolazione automobilistica l’assenza di presunzione di responsabilità è temperata dalla ormai imposizione dell’assicurazione obbligatoria per i danni arrecati a terzi. Ulteriore svolta per il sistema inglese è rappresentata dall’approvazione dello Human Rights Act del 1998, il quale costituisce il recepimento nell’ordinamento interno inglese della Convenzione europea dei diritti dell’uomo: ciò ha determinato un processo di costituzionalizzazione dei principi contenuti nella CEDU simile a quello cui si è assistito in Germania e in Italia. Finalmente il giudice inglese si trova a doversi confrontare con un testo giuridico con principi generali per stabilire l’esistenza di un duty of care. 3.2.Il diritto inglese negli USA Il sistema di responsabilità che si è affermato negli Stati Uniti D’America si differenzia da quello inglese soprattutto con riferimento alle ipotesi di responsabilità aggravata, oggettiva o per il fatto altrui. Negli USA pur partendo dal comune fondamento del tort of negligence per individuare la responsabilità, gli sviluppi sono stati più vasti e incisivi: alla base del tort non c’è alcun rimprovero morale, alcuna colpevolezza; ciò che conta è l’oggettiva violazione di un obbligo socialmente conosciuto. La negligence deve essere provata dal danneggiato, salvo il caso in cui “i fatti parlano da sé”, e dunque la violazione dello standard of care si presume. Inoltre, a differenza dell’Inghilterra, i giudici fanno ricorso alla legislazione esistente per affermare l’esistenza del duty of care o per desumere lo standard of care imposto al danneggiante. E’ evidente che in tal modo di ampliano le ipotesi di responsabilità alleggerendo l’onere processuale del danneggiato. Ulteriore elemento di differenziazione non solo rispetto al sistema inglese, ma anche rispetto quelli continentali è dato dal risarcimento del danno: mentre negli altri ordinamenti trattati la condanna dell’offensore al risarcimento mira a ripristinare lo status quo ante attraverso un equivalente in denaro, il diritto americano mira anche ad una funzione afflittiva del danneggiante al fine di scoraggiarlo dal compiere ulteriori illeciti e di deterrenza nei confronti dei soggetti operanti nello stesso settore. 4.LA COMPARAZIONE DEGLI ORDINAMENTI GIURISPRUDENZIALI 4.1.L’antigiuridicità Per antigiuridicità si intende quell’elemento dell’illecito civile che consente di affermare che il comportamento del soggetto è illecito, contrastante con una regola. Mentre negli ordinamenti continentali l’antigiuridicità è prevalentemente legata alla sussistenza in capo al danneggiato di una situazione giuridica protetta, nei sistemi di common law essa è prevalentemente legata alla sussistenza in capo al danneggiante di un divieto o di un obbligo. Ci si chiede cosa avviene se la correlazione divieto-diritto non sia evidente e dunque non siano applicabili i criteri di accertamento dell’antigiuridicità. In questi casi il punto di partenza è che il soggetto A ha subito un danno e cerca di trasferire il peso su un soggetto B. Posto che riesca a stabilire la relazione causale fra condotta di quest’ultimo e il danno e/o l’ imputabilità in capo a questi della condotta di un terzo, rimane sempre la necessità di provare che la ITALIA – il caso da riportare è quello relativo all’introduzione in un film di un sketch di grave umorismo in cui il protagonista componeva un numero di telefono e recitava facendo riferimento al cognome “Laterza”; per cui le persone con il cognome “Laterza” venivano molestate da chiamate anonime. Secondo il Tribunale il produttore, nel realizzare la pellicola, doveva rendersi conto – accettandone il rischio – dell’elevata possibilità che lo scherzo telefonico sarebbe stato imitato in danno dei portatori di quel cognome. 4.1.3. Danno da perdita delle prestazioni dovute dal debitore ferito o ucciso ITALIA – ricordiamo il caso in cui l’associazione Calcio Torino agiva nei confronti della compagnia aerea, la negligenza dei cui piloti aveva provocato il disastro aereo di Superga nel quale era perita l’intera squadra di calcio. L’azione della società danneggiata si muoveva su due linee: la prima era quella di sostenere che i giocatori costituissero un bene aziendale sul quale essa vantava un diritto assoluto, distrutto per colpa della compagnia aerea; la seconda era di qualificare l’illecito come lesivo del diritto di credito vantato dall’associazione sportiva nei confronti dei propri giocatori. La Cassazione, nel confermare i giudizi resi nei gradi precedenti, rigettava il ricorso escludendo che i giocatori potessero essere considerati un’universalità di beni facenti parte dell’azienda calcistica; aggirava l’ostacolo della pretesa indistinzione tra diritti assoluti e relativi; ed escludeva la risarcibilità del danno poiché non vi sarebbe stato nesso immediato e diretto tra colpa dei piloti e venir meno delle prestazioni di lavoro dei giocatori verso l’Associazione sportiva. Altra sentenza importante è quella relativa al caso Meroni, nel quale la stessa squadra di calcio, il Torino, agiva nei confronti del proprietario dell’autoveicolo che aveva investito e ucciso il calciatore di maggior pregio, Luigi Meroni. La corte suprema ribadendo la tesi che il calciatore non potesse intendersi come bene aziendale, rovesciava l’orientamento precedentemente assunto sulla base delle seguenti argomentazioni: a)l’art.2043 non distingue tra diritti assoluti e diritti relativi, sicché anche la lesione di questi ultimi da parte del terzo può dar vita ad un illecito aquiliano; b) non poteva – a sostegno della opposta conclusione - invocarsi il disposto dell’ art.1372 che limita gli effetti del contratto ai soli paciscenti (ciascuna delle parti che conclude un accordo); c)non si poteva escludere aprioristicamente l’esistenza di un nesso causale tra illecito commesso in danno del debitore e il danno risentito dal creditore, dovendosi valutare il caso alla stregua dell’art.1223 cod. civ.; d) tale nesso sussiste quando la perdita subita dal creditore sia definitiva e non sostituibile con altra prestazione, se non a prezzo superiore. La Corte di cassazione ravvisava nel caso di specie un danno riparabile e dunque riteneva responsabile il proprietario della’autoveicolo. FRANCIA – occorre precisare che nell’ordinamento francese la distinzione tedesca tra diritti assoluto e diritti relativi non è rilevante; il problema si situa sul terreno delle conseguenze risarcibili. Si consideri il caso deciso dalla Cour d’Appel di Colmar, circa l’uccisione in un incidente stradale del giocatore di calcio del Metz, per il quale l’associazione sportiva agiva nei confronti dell’investitore chiedendo il risarcimento dei danni individuati: a)nel valore del “cartellino” del giocatore, cioè della somma che l’associazione avrebbe ricavato dalla cessione del giocatore ad un’altra squadra; b)il costo del rimpiazzo del giocatore deceduto; c) la diminuzione degli incassi. I giudici francesi ritennero che il giocatore avesse valore patrimoniale per l’associazione e che la sua uccisione, oltre a creare disorganizzazione e a vanificare le energie fino ad allora impiegate per allenare l’atleta, faceva perdere le possibilità di percepire un guadagno; e per quanto riguarda il primo punto ciò deve essere risarcito. Le altre due voci, cioè il costo del rimpiazzo e la diminuzione degli incassi sono indimostrate e i giudici rigettarono le domande. REGNO UNITO - nel diritto inglese si registrano casi contrastanti: nel caso Mankin v. Scala Theodrome, un attore di teatro era rimasto ferito sul palcoscenico difettoso e per un certo periodo lo spettacolo non aveva potuto essere rappresentato. L’impresario agiva nei confronti del proprietario del teatro, responsabile per la negligente manutenzione dello stesso, e chiedeva il risarcimento del danno consistente nel salario inutilmente sborsato e nei mancati guadagni dagli incassi. La High Court applicava l’action per quod servitiium amisit (l’azione per il sevizio perso) ritenendo che le prestazioni lavorative del dipendente costituissero un bene proprio del datore di lavoro che il fatto illecito del terzo aveva danneggiato, con conseguente sua responsabilità sia per il danno emergente sia per il lucro cessante. In una decisione successiva invece veniva notevolmente ridotta la portata del principio. Un dipendente dell’ufficio delle imposte era stato ferito in un incidente stradale e aveva dovuto astenersi dal lavoro per circa 10 mesi durante i quali aveva ricevuto la sua paga. L’ufficio fiscale agiva nei confronti dell’investitore chiedendo il risarcimento del danno per gli stipendi inutilmente sborsati. I giudici inglese ritenevano che l’action per quod servitiium amisit poteva applicarsi solo al caso di domestici veri e proprio e non in ogni caso di lavoro dipendente. In particolare era negato che gli stipendi versati durante la malattia potessero costituire un danno ricollegabile al fatto illecito dell’automobilista, in quanto ciò era avvenuto in virtù della legge, e non perché in via contrattuale il datore di lavoro (Stato) fosse tenuto alla sua erogazione. Dal confronto dei casi esaminati emerge che negli ordinamenti più rigidi - quello inglese e quello italiano ante- Meroni - l’esclusione della risarcibilità del danno per perdita di servizi si basa sulla non pertinenza di essi al patrimonio del danneggiato, mentre in quelli più aperti – quello francese e quello italiano post-Meroni - si interviene essenzialmente sulle voci di danno. 4.2.Il nesso causale Nei diversi sistemi della responsabilità civile il problema del nesso causale – inteso come riconducibilità all’azione di un soggetto di conseguenze negative subite da un altro soggetto - emerge in tempi relativamente recenti, e più precisamente, nell’età della codificazione, in ragione di due fattori: nell’epoca precedente a questa ci si interrogava soprattutto sul nesso causale nel risarcimento del danno da inadempimento contrattuale; e sin dall’epoca romana il nucleo essenziale dei fatti illeciti era costituito da comportamenti nei quali il danno veniva arrecato dalla persona dell’offensore direttamente contro la persona o la proprietà dell’offeso. Solo nell’800 il nesso causale diviene uno degli elementi essenziali nella struttura della responsabilità per fatto illecito, utilizzato soprattutto al fine di escluderla. Una delle ragioni di quanto detto sta nella concezione, diffusa nell’800, del diritto come scienza, governato da regole scientifiche di cui quelle causali sono le più significative. La nozione scienza equivarrebbe a certezza, elemento che le regole giuridiche dovrebbe sempre possedere. 4.2.1.La perdita di una <<chance>> ITALIA – ciò che viene in rilieve è se la colpa dell’agente abbia effettivamente arrecato il danno lamentato. Prendiamo in considerazione il caso “Melis” in cui un operaio era caduto mentre riparava una serra ed era stato tagliato all’addome da vetri. Portato in ospedale un primo medico provvedeva a suturare la ferita, ma di lì a poco si verificava un’emorragia; un secondo medico si limitava ad esaminarlo e a dimetterlo senza ulteriori accertamenti raccomandando assoluto riposo. Durante la notte le sue condizioni si aggravano, e accompagnato in un diverso ospedale veniva accertato che nel torace era rimasto infisso un grosso frammento di vetro che aveva provocato la rottura del diaframma e del peritoneo; di lì a poco il paziente decedeva. I due medici vennero condannati per omicidio colposo; essi ricorsero in cassazione lamentando il mancato accertamento del nesso causale fra la loro negligenza e il decesso, in quanto non era provato che un intervento tempestivo avrebbe potuto salvare il ferito. Ma la corte rigettava tale argomentazione affermando che negli interventi medici non vi è mai certezza sull’esito e dunque la valutazione della relazione causale dovrà farsi sulla base delle riconosciute probabilità di successo; e aggiunge che quando è in gioco la vita umana anche solo poche probabilità di successo di un immediato intervento sono sufficienti, con la conseguenza che sussiste il nesso di causalità quando tale intervento non sia stato possibile a causa di negligenza del medico che ha visitato il suo paziente. Dalla sentenza si evince che il requisito causale non è sempre identico ma è in funzione sia dell’importanza dell’interesse protetto, sia dell’’entità della colpa accertata. USA – nel caso americano Gardner v National Bulk Carrier, una notte mentre una nave è a largo della Florida il marinaio Gardner non compare al turno di guardia. Il bastimento viene ispezionato ma senza traccia. Se ne desume che sia caduto in mare, ma non si sa quando, essendo stato visto per l’ultima volta diverse ore prima. Il comandante della nave non si ferma, né inverte la rotta per cercare il disperso, ma si limita a informare la guardia costiera. Il marinaio non verrà più trovato e si presume sia annegato. La vedova agisce nei confronti dell’armatore lamentando che la negligenza del comandante abbia contribuito alla morte del marito. La società si difende sostenendo anche quand’anche fosse stata effettuata la ricerca in mare l’esito sarebbe stato molto incerto. Dunque manca il nesso causale fra la colpa del comandante e la morte del marinaio, il quale, con ogni probabilità, sarebbe morto comunque. La corte d’appello statunitense, nel riformare la sentenza di primo grado, ritiene che nell’operare la scelta di non effettuare le ricerche il comandante aveva assunto su di sé il rischio di far svanire le probabilità dell’uomo di essere salvato. I giudici, confrontando gli interessi in gioco (la vita di una persona, ritardo nell’arrivo al porto di destinazione), ritengono che la violazione del duty of care dovuto dal comandante verso un suo marinaio aveva contribuito causalmente alla morte di quest’ultimo. Anmche in questo caso si avverte che la certezza della colpa e l’importanza della situazione lesa portano ad un alleggerimento delle tradizionali regole causali nell’illecito civile (in cui il danneggiato deve provare il nesso causale secondo il principio della preponderance of evidence), con una inversione dell’onere probatorio: spetta al convenuto dimostrare la presenza di una diversa ed estranea causa. FRANCIA – nell’ordinamento francese casi simili sono risolti attraverso un artificio logico: l’evento dannoso non consiste nella lesione del bene concretamente colpito (vita, integrità fisica), ma nella chance, cioè nella possibilità di raggiungere un certo risultato utile o evitare una conclusione sfavorevole. Ricordiamo a tal proposito un caso: ad una persona ferita a una mano era stata effettuata una radiografia senza che venisse scorta alcuna lesione. Anni dopo, avendo sollevato un forte peso, provava un dolore lancinante e un nuovo più attento esame di quella radiografia rilevava segni di fratture. Agiva dunque in giudizio nei confronti del primo medico sostenendo il nesso causale fra la sua colpa e le lesioni successive: se avesse saputo la frattura si sarebbe curato. I giudici francesi ritengono che il medico abbia fatto perdere al paziente una chance di guarigione sulla quale egli aveva diritto di fare affidamento. La principale conseguenza pratica di tale soluzione è che in caso di accoglimento della domanda del danneggiato, il risarcimento che gli spetterà corrisponderà solo alla percentuale in cui è valutata la chance perduta. REGNO UNITO – in Inghilterra invece, la House of Lords, trovatasi di fronte a un caso simile, ha rigettato la domanda, perché il paziente che ha iniziato la terapia in ritardo per via di errore medico, non può dimostrare che egli sarebbe guarito o che comunque il danno lamentato sarebbe stato evitato da un tempestiva diagnosi. 4.2.2.Il nesso causale quando l’agente è ignoto Si pensi al caso in cui un cacciatore viene ferito dai suoi compagni di battuta, ma non si riesce a stabilire da quale fucile sia partito il colpo: nell’illecito è certo l’evento, è certa la causa, ma è ignoto l’autore che ha posto in essere la causa. GERMANIA – il legislatore tedesco stabilisce che <<se più hanno, con un’azione illecita commessa in comune, causato un danno ognuno ne è responsabile. Lo stesso vale se non si può venire a conoscere chi, fra più partecipanti, ha causato il danno, con la sua azione>>, ponendo dunque in capo a taluni soggetti una presunzione di responsabilità. ITALIA – nel caso Anedda contro Corriga, il giudice cui era stato chiesto di condannare i due compagni di battuta, pur riconoscendo che l’attività di caccia costituiva attività pericolosa, riteneva che spettasse al danneggiato provare il nesso causale tra comportamento di chi lo aveva effettivamente colpito e l’evento dannoso, e sollevava questione di costituzionalità sulla legittimità dell’imposizione di tale onere probatorio. La Corte costituzionale giudica la questione inammissibile in quanto ritiene che la distribuzione dell’onere della prova nelle varie ipotesi di fatto illecito sia rimessa alla discrezionalità del legislatore, purché non sia irragionevole e ingiustificatamente discriminante. USA – nella giurisprudenza americana si ritiene che i convenuti con il loro comportamento imprudente, di aver sparato senza sapere che cosa stessere per colpire, determini una inversione dell’onere della prova, costringendoli, per liberarsi, a dimostrare che il proiettile lesivo non è partito dal loro fucile. In mancanza saranno entrambi responsabili. • Mentre nel caso italiano l’applicazione delle regole causali è rigorosa negli USA la loro rigidità viene ribaltata sull’agente attraverso lo spostamento del carico probatorio: chi pone in essere un comportamento altamente pericoloso si espone al rischio di non poter disprovare le conseguenze che appaiono riconducibili alla propria condotta. Occorre ricordare, ulteriormente, il caso Brown v. Abbott Laboratories in cui un numero elevato di gestanti aveva ingerito durante la gravidanza un farmaco che aveva provocato dei tumori. Vi era in primo luogo un certo grado di colpa giacché fino ad un certo stadio della produzione non erano sufficientemente prevedibili le conseguenze dannose dell’uso del prodotto. I giudici californiani hanno affermando che a fronte della pericolosità del prodotto, si impone l’inversione dell’onere della prova a carico del produttore il quale, se vorrà liberarsi, dovrà dimostrare che non è stato il suo medicinale a provocare il danno. Qualora non riesca nella prova egli sarà ritenuto responsabile, ma non per l’intero bensì per una quota di danno apri alla quota di mercato da lui detenuto (visto che diversi erano i farmaci che causarono i tumori, appartenenti a diverse case farmaceutiche). Anche in questo caso vi una comparazione di interessi in gioco (vita, integrità fisica, salute dei consumatori da un lato, e dall’altro il profitto dell’impresa) che fa pendere la bilancia a favore dei primi. 4.3.La responsabilità dell’impresa Nei paesi industrializzati il proliferare dei fatti dannosi legati allo sviluppo delle imprese e alla progressiva automazione dei processi produttivi ha determinato diverse considerazioni in ordine alla responsabilità: il mero verificarsi del fatto dannoso nell’impresa e nell’esercizio delle sue attività dà luogo all’erogazione previdenziale; dunque un numero di fatti dannosi è stato sottratto alla disciplina generale della responsabilità civile e assoggettato a regole sue proprie, con l’introduzione di sistemi – variamente finanziati – di previdenza contro gli infortuni sul lavoro, attivati in genere indipendentemente dall’accertamento della colpe del datore di lavoro (o del concorso di colpe del prestatore d’opera) e del nesso di causalità.