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riassunto diritto pubblico internazionale ultima edizione, Sintesi del corso di Diritto Internazionale

riassunto del libro "lezioni di diritto pubblico internazionale" di sinagra-bargiacchi. voto esame con il prof bargiacchi: 27

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020

In vendita dal 04/11/2021

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Scarica riassunto diritto pubblico internazionale ultima edizione e più Sintesi del corso in PDF di Diritto Internazionale solo su Docsity! Diritto Internazionale Capitolo | Le società internazionali e il diritto Ogni formazione sociale è un insieme di membri, ovvero ciò che crea il diritto, l'ordinamento giuridico internazionale è una sovrastruttura di un determinato ambiente sociale. lus e auctoritas costituiscono valutazioni e giudizi della societas (es. lo stato condanna il reo). La Pace di Westfalia del 1648 sanci la fine delle relazioni internazionali incentrati tra Papato-Impero, e segnò l'inizio di un sistema paritario e anorganico tra Stati, quest'ultimi si riconoscono indipendenti tra di loro e sovrani nei confronti degli individui (Quadri). La società internazionale è una società anorganica e non istituzionalmente organizzata, la cui base è l'intera umanità e dove si forma un diritto interno, il diritto pubblico dell'umanità a cui fa rifermento anche Arangio-Ruiz, per negare ogni fondamento delle teorie moniste, in quanto il carattere paritario e anorganico non inficia l'esistenza di un diritto. La società internazionale è una formazione sociale ad appartenenza necessaria, i suoi membri ne sono parte inevitabilmente per il sol fatto di esistere. L'auctoritas si manifesta in termini di supremazia/volontà del gruppo sul singolo, come comando, dunque capace di imporsi anche sul membro dissenziente. L'autorità si manifesta come massa sociale, attraverso la garanzia di valori e interessi comuni, considerati dalla collettività come supremi e irrinunciabili i quali inoltre sono mutevoli quindi non individuabili a priori e cambiano nel tempo come ad. Es la schiavitù, oggi vietata ma un tempo considerata giuridicamente lecita come sosteneva Quadri. A questa modalità diffusa di manifestazione di auctoritas si aggiunge quella definita verticalizzazione normativa utilizzata dalle organizzazioni internazionali in particolare l'ONU, secondo la dottrina questi agiscono uti universi ovvero espressione della volontà nazionale con poteri e competenze differenti da quelli conferitegli nei trattati istitutivi. Non agendo in prima istanza può elargire obblighi erga omnes solo quando gli stati membri investono l'organizzazione di tale funzione. Obbligatorietà del diritto (ius) internazionale Il fondamento di obbligatorietà del diritto internazionale si ritrova nella volontà sociale come situazione psicologicamente permanente che diviene autoritaria per ogni singolo membro (Quadri). Vi sono diverse concezioni che cercano di ritrovare il fondamento del diritto e la sua capacità di evolversi. Le concezioni giusnaturalistiche fondano l'obbligatorietà del diritto internazionale su valori trascendenti, scelti in astratto, ma questa non spiega il suo evolversi nel tempo. La dottrina pura, ritenendo che il fondamento sia una norma base, una mera ipotesi, l'idea di Kelsen è che esiste una norma superiore di contenuto sconosciuto. Ma anche questa non trova riscontro nella realtà. Esistenza del diritto internazionale. Critiche delle tesi negazioniste, nesso tra società e diritto Il diritto internazionale viene definito primitivo o fondato sulla legge del più forte, ma la storia dimostra che neanche gli stati più egemoni si sono ritenuti legibus solutus, ovvero non vincolati alla legge internazionale. Le critiche sono rivolte su due aspetti: non si tiene conto del fatto che ogni società produce diritto, il secondo aspetto l'errore è dato nell'elevare in termini di paragone il diritto internazionale al diritto interno. Bolton negava l'esistenza del diritto internazionale in quanto ricercava in esso gli elementi costitutivi del diritto statunitense. Pollock confutò la teoria di Austin, che negava l'esistenza del diritto internazionale in quanto non promanasse dal comando di un sovrano c.d. norma- comando, Pollock dimostrò in un remoto paese dell'India con una realtà ben diversa da quella Occidentale, anche in assenza di un apparato di governo, le relazioni interindividuali non erano anarchiche. Critica delle tesi negazioniste fondate sulla presunta assenza di un apparato sanzionatorio Un secondo filone di tesi negazioniste fa leva sulla presunta mancata esistenza di un apparato sanzionatorio, rivelandosi sostanzialmente nella legge del più forte. La reazione, quindi non è un elemento costitutivo della norma giuridica, in quanto quest'ultima esiste di per sé, se in quel contesto è considerata legge. Inoltre la reazione non può essere concepita solo in termini coercitivi. L'errore sta nel considerare sinonimi i termini garanzia e sanzione. Il termine garanzia va ad indicare tutte le reazioni non coercitiva mirate a stabilire o ristabilire l'equilibrio sociale, al contrario, alla sanzione va attribuito il significato di reazioni coercitive. A riprova il concetto di voluntary compliance secondo cui le norme sono spesso osservate spontaneamente a prescindere della sanzione, talvolta anche non prevista. | casi di violazione restano, quasi tutti gli stati rispettano il diritto internazionale, questa è la prova dell'esistenza di un sistema anorganico e diffuso. Quindi i rarissimi casi rimasti impuniti per motivi extra- giuridici (opportunità politico- economica, peso degli stati coinvolti) in cui manca solo l'ultima parte del processo che lega l’illecito, all'accertamento e in fine la reazione non fonde le tesi negazioniste e riduzioniste. Le dottrine universaliste o globaliste Ritengono che la società e il diritto internazionale si siano evoluti in modo universale o globale. Questi certificano il tramonto della società internazionale, nata dalla Pace di Westfalia del 1648 la nuova società globale viene descritta in diversi modi: sostenibile del genere umano gli stati continuano a perseguire politiche egoistiche di potenza indirizzando le relazioni internazionali. Per comprendere l'essenza giuridica dei fenomeni internazionali è necessario comprenderne la dimensione sostanziale senza tradurre dati politici ed economici in nuove ricostruzioni sistematiche. Le teorie universaliste cadono nell'errore di fondere lo studio del diritto e quello delle relazioni internazionali, perdendo la capacità di scindere dato politico e dato giuridico, creando un punto di vista infondato scientificamente, trovando come prospettiva la dissoluzione dell'attuale comunità internazionale. Capitolo Il I soggetti | protagonisti delle relazioni internazionali si manifestano come potenze, ossia come enti effettivamente costituiti in un'unità idonee al volere ed agire nei rapporti politici internazionali e in grado di tenere comportamenti rilevanti per operare verso il mondo esterno in modo rilevante per il diritto internazionale (Arangio-Ruiz). L'individuazione dei soggetti, ossia gli enti dotati della personalità giuridica, spetta alla dottrina e alla giurisprudenza, questi riconoscono come soggetti gli enti cui fanno capo i diritti e gli obblighi internazionali. Ma la soggettività internazionale deve essere individuata attraverso i soggetti che posseggono a priori i requisiti costitutivi e non deve essere individuata solo perché destinatari a posteriori di norme. Secondo Quadri è errato considerare la capacità giuridica come la qualità di destinatario di norme, si vogliono invece cogliere i requisiti subbiettivi generali permanenti che l'ente deve presentare affinché questo sia effettivamente destinatario di norme. Quindi non bisogna confondere la capacità giuridica con la situazione giuridica, la quale differisce tra i vari enti; infatti i requisiti generali non vanno confusi con le speciali condizioni subbiettive o obbiettive richieste da un gruppo o singole norme. / requisiti generali nei quali la capacità giuridica consiste, sono sempre gli stessi ed è indifferente che la situazione giuridica soggettiva sia più o meno ricca ed omogenea. Un ente è soggetto per forza propria e se tutti i soggetti sono destinatari di norme non è vero che tutti i destinatari sono anche soggetti, infatti la ricerca dei requisiti costitutivi dell'ente-soggetto deve partire dall'osservazione delle caratteristiche dell'ente-potenza, quali sovranità e indipendenza. lo Stato è un ente fattuale e pregiuridico, cioè un fenomeno socio-politico la cui esistenza costituisce un dato materiale che prescinde dal diritto internazionale e dalle sue qualificazioni. Infatti gli Stati essendo preesistenti e quindi creatori del diritto internazionale sono enti a titolo originario della soggettività, in quanto hanno l'effettiva capacità di gestire l'ordinamento che hanno eretto, mentre gli altri protagonisti internazionali sono enti a titolo derivato ovvero portatori di situazioni giuridiche nei limiti e nei modi determinati dagli Stati. Secondo Arangio-Ruiz l'ente potenza può anche essere privo di territorio, pertanto può manifestarsi anche in forma individuale, come nel caso di Napoleone Bonaparte nel periodo tra la sconfitta di Waterloo e l'esilio a Sant'Elena, gli inglesi lo consideravano l'individuo come potenza. Lo Stato Nella società internazionale moderna e contemporanea lo Stato è il modello predominante sia come organizzazione politico-giuridica di governo su territori e collettività, che come interazione tra potenze nelle relazioni politico giuridiche internazionali. Lo Stato è quella struttura formale e giuridica rilevante per il diritto internazionale e quindi adatta a partecipare su un piano di parità alla vita di relazione con le altre potenze. AI fine di applicare il diritto internazionale le relazioni sono inter-statali e non inter- governative nella misura in cui il diritto si fonda sulla forma e sulla struttura dello Stato, e non del governo. Il soggetto Stato, almeno in linea di principio prescinde dal governo. Ad esempio negli Stati organizzati in forma federale l'unico soggetto internazionale è lo Stato e non gli enti federali che lo compongono, la confederazione di stati invece non ha soggettività giuridica. neanche la Svizzera, il cui nome ufficiale è Confederazione Elvetica. Gli elementi che tipizzano lo Stato Gli elementi che tipizzano lo Stato sono il governo, il territorio e il popolo. La dottrina come anche Arangio-Ruiz danno rilevanza all'elemento governo, in quanto questo rappresenta l’unità organica degli altri due elementi. Si considera lo Stato come stato- apparato, ovvero insieme degli individui o l'ente in una posizione di direzione e di governo. Per stato-comunità si considera il popolo che attraverso l'organizzazione politica assume il carattere di Stato. Lo Stato è caratterizzato dall'essere sovrano, che significa rappresentare, per la comunità di individui stanziati su un territorio, la più alta istanza politica e giuridica, esercitandovi le funzioni statali. Essere sovrano al proprio interno significa essere indipendenti nei rapporti con gli altri stati. L'indipendenza è da accertare nell'ordinamento dello Stato, il quale deve essere originario e non subordinato ad un altro ordinamento statale. In linea di principio, la dipendenza economica e politica di uno stato da un altro non incide sull'indipendenza, questo viene definito stato satellite o cliente di uno Stato patrono. Il controllo esercitato incisivamente, ovvero in numerose materie, fa vanificare le potestà fondamentali dell'altro stato, in tal caso lo Stato viene chiamato stato fantoccio. Un esempio furono i 4 Bantustan, territori elevati dalla Repubblica Sudafricana al rango di stati formalmente indipendenti ma privi di effettiva indipendenza. Rispetto a questo punto, la Corte EDU ha disconosciuto la statualità della Repubblica turca di Cipro nord, considerando l'amministrazione locale subordinata alla Turchia. Ma l'indipendenza di uno Stato non dipende neanche dalle limitazioni alla sua libertà di agire che derivano dai Trattati. La sovranità continua a sussistere anche quando tali elementi come la rappresentanza dei propri affari siano delegati affievoliti o limitati. Ad esempio - Il Trattato di unione doganale conchiuso tra la Confederazione Svizzera e il Principato del Liechtenstein in cui, il principe del Liechtenstein equipara la situazione giuridica doganale a quella Svizzera, utilizzando la Svizzera per rappresentarlo nei negoziati con stati terzi. - Il trattato tra la Santa Sede e l'Italia del 1929 in cui la piazza di San Pietro, pur facendo parte della Città del Vaticano, continuerà ad essere soggetta ai poteri di Polizia delle autorità italiane. - Nel caso dei trattati di protettorato lo Stato protetto è considerato ente statuale solo da un punto di vista formale, in effetti, è un ente dipendente e privo di statualità. Configurazione straordinaria degli elementi tipizzanti Un governo può perdere o vedere affievolito il controllo su tutto o parte del suo territorio o popolo, per mutamento rivoluzionario, occupazione militare straniera, conflitto armato, ribellione, situazione generalizzata di violenza. Queste situazioni però non si riflettono necessariamente sulla soggettività internazionale dello Stato. Ad esempio la sconfitta militare, salvo il caso come la Germania durante la Seconda Guerra Mondiale che determinò l'annientamento militare e politico, e il mutamento rivoluzionario del governo, salvo il caso di innovazione; non incidono sulla soggettività dello stato. il Cile ad esempio con il rovesciamento del governo Allende e l'istaurazione del governo Pinochet non perse la soggettività internazionale. Anche territori del tutto privi di governo per essere sotto il controllo di gruppi armati organizzati in conflitto tra loro, il territorio non diventa res nullius, sul quale un altro Stato possa legittimamente estendere la propria sovranità e la comunità internazionale come anche il Consiglio di Sicurezza, infatti non considera estinta la soggettività di questi stati. Quindi la produzione istantanea di effetti giuridici a favore o contro la soggettività internazionale di uno Stato non appartiene alle dinamiche del diritto internazionale che partecipa alla fine del conflitto armato della violenza prima di valutazioni giuridiche. Ciò spiega la prassi dei governi in esilio durante la Seconda Guerra Mondiale. Anche se privati del controllo sul popolo e territorio causata dall'invasione e occupazione tedesca, si trasferirono nel Regno Unito rimanendo in vita grazie al consenso e all'ospitalità britannica, esercitando una funzione di rappresentanza politica negli interessi dello stato. Fu l'esito della guerra però a decidere la sorte definitiva di questi governi e della soggettività degli Stati. La vittoria degli Alleati consentì a quei governi di tornare dall'esilio e riprendere il controllo di popoli e territori senza che la soggettività degli Stati si estinguesse. AI contrario la vittoria della Germania avrebbe consolidato definitivamente la situazione creatasi nel corso della guerra determinando l'estinzione della soggettività internazionale degli Stati vinti. Arangio-Ruiz considerava soggetti tutti gli enti che si manifestano come potenze nelle relazioni internazionali e non solo quelli che siano territorialmente sovrani e indipendenti, afferma quindi la soggettività dei governi in esilio. È cambiata però la prassi post-1945 della comunità internazionale nei casi in cui lo stato si è scosso dalle prolungate situazioni di conflitto armato o di violenza generalizzata si parla di stati falliti, la Somalia ad esempio nel periodo tra il 1991 e il 2004 ne è esempio. La comunità internazionale interviene di solito con operazione condotte dall'ONU a tutela del popolo e del territorio svolgendo le funzioni statali che il governo non è più in grado di esercitare. Anche alcuni stati Europei (Danimarca, Francia, Paesi Bassi, Portogallo e Regno Unito) applicano intraterritorialmente la legislazione interna e internazionale in alcuni parti del loro territorio. L'UE le distingue tra RUP (regioni ultraperiferiche) e PTOM (Paesi e Territori D'Oltremare) e prevede in ambo i casi la non applicazione, in tutto o in parte, dei Trattati istitutivi e del diritto derivato, in ragione della situazione socio-economica strutturale che le rende destinatarie di misure specifiche, (ad esempio le isole Normanne del Regno Unito). Per favorire gli interessi degli abitanti e condurli allo sviluppo economico, sociale e culturale. La sovranità funzionale | casi di esercizio extraterritoriale della giurisdizione si rilevano nel diritto internazionale sotto il profilo della legittimità di tale esercizio e della responsabilità dello Stato per le eventuali conseguenze pregiudizievoli a danno di individui. Controversi sono il criterio della nazionalità passiva e quello di universalità in quanto quest'ultimo consente di punire il crimine ovunque esso sia stato commesso. Mentre il principio di nazionalità passiva riposa sulla volontà dello Stato di proteggere i propri cittadini all'estero, sull'implicito presupposto che le autorità giudiziarie dello Stato su cui è stato commesso il reato non intendano, o non siano in grado di punire efficacemente gli autori del reato. Il fatto che la giurisdizione statale per il diritto internazionale possa legittimamente esercitarsi anche oltre i confini nazionali, unito alla constatazione che la giurisdizione è la prima e forse più intrinseca manifestazione della sovranità dello Stato, inducono a ritenere che l'essenza costitutiva della sovranità non abbia natura territoriale. Ad esempio l'esercizio della giurisdizione dello stato costiero nella zona contigua e nella ZEE (Zona Economica Esclusiva), dello Stato battente bandiera sui propri aeromobili e navi in spazi di nessuno. Le funzioni giuridiche utilizzate in passato per definire in termini territoriali l'essenza costitutiva della sovranità sono state ormai abbandonate perché infatti navi e aerei non sono porzioni di territorio dello stato di bandiera in movimento. La zona contigua e la ZEE non sono estensione del territorio dello stato costiero ma zone di alto mare non assoggettabili alla sovranità di alcuno Stato. La sovranità è funzionale perché si manifesta in funzione della pretesa di governare certe situazioni indipendentemente dal loro verificarsi sul territorio dello Stato o all'estero. Secondo Quadri lo Stato non ha solo nei limiti del territorio il diritto esclusivo di governo, ad esso tale diritto può spettare in certi casi anche negli spazi che la dottrina indica come res nullius. La giurisdizione dello Stato di bandiera sui propri aeromobili e navi negli spazi di nessuno o in territorio straniero si spiega considerandoli come comunità viaggianti che restano assoggettati alla giurisdizione esclusiva dello stato di bandiera (potestà navale). Secondo Quadri si tratta di comunità viaggianti che si compenetrano nella comunità territoriale dello Stato costiero, data la presenza nelle acque territoriali o nello spazio aereo di un'altra potestà di governo, anch'essa riconosciuta dal diritto internazionale, dovrà funzionalmente proporzionare i propri interventi alla compenetrazione reale che si realizza tra comunità navale e comunità territoriale. In alcune situazioni, (navi, aerei, immunità reali di missioni diplomatiche) i criteri di ripartizione sono relativamente pacifici e condivisi, mentre in altre (applicazioni extraterritoriali di Trattati sui diritti umani o immunità personali) tali criteri sono molto più incerti e controversi. Le organizzazioni internazionali Dottrina e giurisprudenza affermano la soggettività giuridica delle organizzazioni e la distinguono dalla soggettività degli Stati perché, le prime non hanno una competenza generale come i secondi ma una speciale (principio di specialità). Le organizzazioni hanno personalità funzionale, nate per perseguire fini indicati nel trattato istitutivo. | poteri sono quelli espressamente indicati nel trattato istitutivo, più tutti quelli che sono essenziali al raggiungimento dei loro fini (poteri impliciti). Secondo la dottrina si tratta di una personalità internazionale che consente alle varie organizzazioni internazionali, in funzione dei loro poteri conferiti da parte degli Stati e dei privilegi garantiti dal diritto internazionale, lo svolgimento delle loro attività nell'ambito della comunità internazionale. Il tratto distintivo della loro soggettività è l'autonomia mentre quello della soggettività degli Stati è l'indipendenza. Gli atti giuridici internazionali posti in essere dagli organi di un'organizzazione in possesso di soggettività sono attribuiti all'ente e non agli Stati membri, non responsabili per gli atti illeciti eventualmente commessi dall'organizzazione e producono effetti anche nei confronti di Stati terzi (personalità oggettiva). Gli atti giuridici di organizzazioni prive di soggettività, invece, hanno valore di fatti giuridici internazionali, i quali saranno produttivi di conseguenze giuridiche per gli Stati membri solo con l'assenso o con l'acquiescenza di questi ultimi (personalità relativa). Ovviamente l'assenso si intende espresso attraverso la firma del trattato. Secondo la teoria volontaristica o contrattualistica, l'accertamento dell'autonomia, delle organizzazioni si dovrebbe fondare sulla volontà degli Stati membri di costituire un ente autonomo e distinto dalla loro volontà o un gestore delle loro posizioni soggettive e degli interessi. L'eventuale espressa previsione nel Trattato della personalità della organizzazione (ad esempio l'articolo 47 del TUE statuisce che l'Unione ha personalità giuridica) sarebbe un elemento fortemente indicativo della soggetta soggettività dell'ente. Secondo la teoria istituzionalista o esistenzialista, le norme del trattato istitutivo avrebbero solo parole descrittivo e l'accertamento andrebbe effettuato con riguardo all'effettiva partecipazione dell'ente alla vita delle relazioni internazionali. Il Trattato resterebbe solo l'atto di fondazione dell'ente ed i suoi effetti, perlomeno all'inizio, non travalicherebbero la cerchia dei rapporti tra stati membri. Solo in seguito, diventando autonomo l'ente, il Trattato inizierebbe a produrre effetti anche per gli Stati terzi. La teoria contrattualistica attribuisce al trattato una rilevanza eccessiva ove presuppone che, nel riconoscere anche implicitamente la personalità delle organizzazioni, esso produca effetti giuridici anche nei confronti degli Stati terzi. La teoria esistenzialista sminuisce la rilevanza del trattato istitutivo e non tiene conto, perlomeno all'inizio della vita dell'organizzazione, che la sua autonomia non può comunque eccedere i limiti segnati dal trattato. La CIG nel ricostruire la soggettività giuridica delle organizzazioni, adotta una soluzione intermedia. Nel parere consultivo del 1949 sulla riparazione dei danni, la CIG muove dall'esame della Carta per affermare i caratteri di adeguata autonomia dell'ONU, che occupa una posizione per alcuni aspetti distinta dei suoi membri e analizza l'effettiva vita di relazione dell'ente, per affermare la soggettività anche sul piano oggettivo del diritto internazionale generale nei confronti degli Stati terzi e non solo tra l'ONU e gli Stati membri. Secondo Cannizzaro un'organizzazione è destinataria di una regola internazionale generale, se l'organizzazione ha la capacità di violare tale regola attraverso l'esercizio delle competenze delle quali dispone. Le organizzazioni quali destinatarie di norme internazionali Le organizzazioni non sono soggetti ma destinatarie di norme nei limiti e nei modi determinati dagli enti-soggetti, cioè gli Stati membri. Le forme più evolute quali o ONU ed UE sono infatti strumenti ed interpretazioni della volontà dei propri stati membri. L'avere quel carattere di adeguata autonomia, che conferisce una posizione distinta da quella degli Stati membri non è sufficiente, per equipararle agli enti che quella capacità possiedono a titolo originario e sono dunque indipendenti. La questione sulla soggettività andrebbe impostata in termini teorico-generali e induttivi piuttosto che normativi e deduttivi, per evitare che le analisi dei differenti atti e comportamenti delle organizzazioni possa indurre a credere che tali atti e comportamenti abbiano un valore giuridico autonomo. Secondo Quadri bisognerà aver riguardo delle possibilità affettive che si offrono alle organizzazioni internazionali, di avere un posto autonomo, indipendente, distinto da quello degli Stati nel seno della comunità giuridica internazionale. La soggettività delle organizzazioni serve a semplificare, sul piano dei rapporti interni ed esterni tra stati membri, organizzazione e stati terzi, i processi di individuazione ed imputazione giuridica in un sistema così complesso (Bargiacchi). International Istitutional Law Il posizionamento delle organizzazioni nel sistema giuridico internazionale è sovrastrutturale, e non può essere istituzionale. Definirlo istituzionale è appropriato: - per descrivere la struttura interna delle organizzazioni, si riferisce quindi al diritto interno dell'organizzazione e viene anche chiamato Istitutional Law of International Organizations. - per distinguere le organizzazioni aventi forma e struttura tipica da ogni altra forma di cooperazione internazionale intersessuale di carattere associativo. Oltre che situazioni internazionali queste diverse forme sono talvolta definiti organizzazioni in maschera o non identificate, non definendosi organizzazioni, ma informal groups, pur possedendo tutte le caratteristiche essenziali delle organizzazioni. Klabbers definisce le organizzazioni tradizionali con la locuzione Law of Interntional Organizations e le nuove forme di cooperazione con la locuzione International Istitutional Law. Le due forme di cooperazione tra stati secondo Arangio-Ruiz, restano dal punto di vista sostanziale intercambiabili. Sia l'organizzazione che l'istituzione restano entrambi i modelli di forme di cooperazione internazionale, che gli stati scelgono l'uno l'altro in funzione delle circostanze delle preferenze. Gli stati preferiscono utilizzare le istituzioni, ossia strutture e meccanismi poco formalizzati e giuridicizzati, in pratica proceduralizzano le riunioni senza che gli impegni sociale e culturale. L'autodeterminazione nel diritto internazionale riguarda solo il rapporto tra popolo e potenza straniera e non il rapporto tra il popolo è il proprio governo. Il diritto, inizialmente, sancito solo nella Carta, è dunque ormai consolidato anche come norma generale consuetudinaria del diritto internazionale. La norma generale sull'autodeterminazione (norma di Jus cogens) stabilisce obblighi il cui rispetto, da parte dello Stato straniero, è dovuto verso tutti gli Stati (obbligo erga omnes) e rientra tra i principi essenziali del diritto internazionale contemporaneo. Il diritto internazionale vigente considera i popoli come i beneficiari delle disposizioni internazionali concernenti l'autodecisione. Titolari del diritto correlativo di tale obbligo sono gli Stati membri delle Nazioni Unite. L'interpretazione dell'autodeterminazione può determinare: la nascita di un nuovo Stato sovrano indipendente, la libera associazione o integrazione del popolo e del territorio con uno Stato già esistente. La scelta tra diverse soluzioni si esercita, solamente, attraverso il referendum, strumento privilegiato di esercizio del diritto che si svolge sotto la supervisione dell'ONU. La CIG ha comunque precisato che l'AG ha discrezionalità nell'individuare le forme e la procedura più appropriata per la realizzazione del diritto e che il diritto internazionale non impone un meccanismo specifico per tutti i casi possibili e circostanze. Lo Stato che controlla il territorio interessato dal processo di autodeterminazione ha il dovere di favorire, con azioni con altri Stati o individualmente, la sua realizzazione. Inoltre ogni Stato può legittimamente pretendere dallo Stato non rispettoso del principio di autodeterminazione che ponga fine al comportamento lesivo. L'eventuale conflitto armato tra il popolo e l'autorità che rappresenta il popolo impegnato nel processo di autodeterminazione, è una guerra di liberazione nazionale, avente natura giuridica internazionale. Il diritto di chiedere e ricevere un aiuto conforme ai fini e principi della Carta dagli Stati terzi obbliga lo Stato terzo a non intervenire militarmente al fianco del popolo, contro lo Stato che ne impedisca l'autodeterminazione. Le limitazioni che il diritto internazionale impone agli Stati nel presentare aiuto a un popolo in lotta per la tua determinazione si spiega con la necessità di restringere al massimo l'uso della forza e relazioni internazionali. Anche i popoli indigeni hanno il diritto di autodeterminazione, considerato però la loro peculiare situazione, il diritto è garantito secondo modalità specifiche. Autodeterminazione esterna Considerato il contesto storico-politico coloniale e post bellico, nella prima fase di attuazione del diritto di autodeterminazione riguardo i popoli sottoposti al dominio coloniale o di una potenza straniera. A tal riguardo la Carta distingue i territori non autonomi corrispondenti alle colonie esistenti fino al 1945, disciplinati dagli articoli 73 e 74; e i territori in amministrazione fiduciaria che sono soprattutto i territori sotto mandato alla Società delle Nazioni, disciplinati dagli articoli 75-85. In base a quanto disciplinato dall'articolo 73 della Carta le potenze ora amministratrici e non più coloniali, riconoscono il principio che gli interessi degli abitanti dei territori non autonomi, sono preminenti, e le accettano come sacra missione l'obbligo di promuovere al massimo il benessere degli abitanti di tali territori. Il diritto di autodeterminazione dei popoli indigeni è disciplinato dalla dichiarazione sui diritti dei popoli indigeni del 2007. Con riguardo ai popoli dei territori in amministrazione fiduciaria, lo Stato assume il ruolo di autorità amministratrice, tenuto ad agire in nome sotto l'autorità del consiglio di amministrazione fiduciaria, organo principale dell'ONU. Questa definizione tra territori fu subito cancellata dalla prassi dell'AG che riconobbe tutti i popoli, compresi quelle territorio non autonomi, il diritto di determinarsi non solo autogovernandosi ma anche divenendo indipendenti in un nuovo Stato. Il distacco dei territori da quello della potenza o autorità amministratrice, con formazione di un nuovo Stato spiega l'utilizzo del termine autodeterminazione esterna, con riguardo a questa fase del processo di autodeterminazione. Per i territori in amministrazione fiduciaria, il Consiglio di Amministrazione Fiduciaria ha sospeso ogni attività dopo che l'ultimo territorio ancora sotto amministrazione fiduciaria aveva conseguito l'indipendenza. Altri popoli di territori in amministrazione fiduciaria hanno scelto status diversi rispetto all'indipendenza quali la libera associazione con l'autorità amministratrice. Con riguardo ai territori non autonomi, il processo di autodeterminazione non si è ancora concluso ed è supervisionato dal comitato speciale per la decolonizzazione. 16 territori sono amministrati dal Regno Unito, Stati Uniti, Francia e Nuova Zelanda ad esempio: Anguilla, Gibilterra, le Isole vergini britanniche, Guam, le Isole Vergini Americane, Polinesia francese. Il Sarah Occidentale è occupato militarmente dal Marocco che vi rivendica, senza titolo, la propria sovranità. Gli altri 16 stati non ancora autonomi, ribadito che autodeterminarsi non comporta necessariamente l'indipendenza, va segnalato come per i territori sotto amministrazione statunitensi e britanniche la situazione non è sempre conforme agli obblighi internazionali. Alcuni popoli, infatti non sono ancora stati messi nelle condizioni di esprimere liberamente la propria volontà. Autodeterminazione interna e democratica In ambito ONU, si pose all'attenzione la situazione degli stati aventi sue o più popoli stanziati allora interno, Stati plurinazionali. Il rischio è che il diritto di autodeterminazione della componente eventualmente minoritaria non sia garantito da quella maggioritaria, provocando la secessione di una parte dal tutto violando l'integrità territoriale, unità politica dello Stato plurinazionale e mettendo a rischio le relazioni amichevoli e pacifiche tra lo Stato plurinazionale e lo Stato straniero che abbia legami identitari con la minoranza. Per evitare una pericolosa deriva di conflitti armati si è affermato il diritto di autodeterminazione interna, che attua in sostanza l'articolo 27 del patto sui diritti civili e politici del 1966. La norma tutela l'identità è la specificità del gruppo nello stato plurinazionale, che ha l'obbligo di rappresentarlo senza discriminazioni rispetto agli altri. Non importa la forma del governo dello Stato (autocratico, democratico, federale, unitario), nel diritto internazionale l'elemento essenziale è l'attuazione dell'aspirazione o vocazione del popolo, non è necessaria l'adozione di modelli democratici affinché i popoli possano esercitare e godere del relativo diritto. Il modello politico della democrazia non è ancora predominante nelle relazioni internazionali, la maggior parte degli Stati tende a considerare, erroneamente, l'autodeterminazione con un'accezione democratica. Il diritto internazionale nel caso in cui ad un popolo sia precluso, ovvero non possa esercitare, nello Stato in cui vive, il diritto autodeterminazione interna come si desume dalla sentenza della Corte Suprema sulla Secessione del Quebec: ipotizza che nel diritto internazionale possa implicitamente esistere un diritto di secessione unilaterale in casi di autodeterminazione e in presenza di specifiche circostanze. Il diritto di secessione sussisterebbe quando al popolo sia preclusa a livello interno la possibilità di esercitare effettivamente l'autodeterminazione. Una parte della dottrina lo ritiene anche come una sorta di clausola di salvaguardia (contenuta nella DICHIARAZIONE SULLE RELAZIONI AMICHEVOLI TRA GLI STATI), che legittimerebbe la secessione de popoli che non riescono ad esercitare il diritto di autodeterminazione interna in quanto oppressi. Un'altra parte della dottrina ritiene la clausola di salvaguardia una deroga al principio di integrità territoriale, unità politica degli Stati e al divieto di uso della forza, quindi illegittima in quanto derivante da un atto non vincolante. Gli attori non statali Gli attori non statali e le loro condotte sono disciplinati dal diritto internazionale: - ribelli, rappresentano il gruppo che è parte a un conflitto armato non internazionale contro lo Stato, - insorti, il gruppo che è parte un conflitto armato non internazionale contro lo Stato e controllando una parte del territorio, - movimenti di Liberazione Nazionale è il gruppo che rappresenta un popolo in lotta contro l'occupazione coloniale o straniero contro il regime razzista nell'esercizio del proprio diritto di autodeterminazione può essere parte un conflitto armato internazionale, - governi di fatto, sono gruppi di controllo non territorio e la popolazione ivi stanziata e operano in modo simile a uno Stato, esercitando pubblici poteri e servizi pubblici, - gruppi terroristici che hanno natura transnazionale, sono gruppi le cui condotte terroristiche sono commesse in più di uno Stato, in quanto parte sostanziale della loro preparazione avviene in un altro stato o in più di uno. La Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale, entrata in vigore nel 2003 e ne fanno parte 189 Stati tra cui l'Italia (Congo e Iran non ne sono parti). Essi sono oggetti del diritto internazionale penale, quindi norme contenuti in trattati e accordi che promuovono il rapporto nella cooperazione internazionale giudiziaria in materia penale e di polizia (ad esempio trattati estradizione, accordi sulla cooperazione di polizia o convenzioni anti-terrorismo). | movimenti di Liberazione Nazionale (MLN), ovvero enti politici organizzati portatori dell'istanza di autodeterminazione di un popolo, perseguono i propri fini agendo pacificamente solo sul piano politico o non sono presenti sul territorio interessato dal processore determinazione trovando ospitalità presso Stati che ne sostengono la causa. In - Nel tipo interpretativo entrambe le norme si applicano, perché l'una diventa strumentare per interpretare l'altra; - il tipo conflittuale si sceglie una norma da applicare perché le soluzioni sono incompatibili. - Il criterio gerarchico è quasi sempre inutilizzabile nel diritto internazionale data l'anorganicità e la parità, ad eccezione delle norme di terzo grado che restano subordinate alle norme convenzionali del trattato che le contiene. - il criterio di specialità diventa quindi la tecnica di interpretazione e di risoluzione dei conflitti più diffusi del diritto internazionale. - il criterio di successione nel tempo delle norme è meno utilizzato, talvolta il criterio di successione è applicato insieme a quello di specialità, ad esempio tra due norme parimenti speciali, quali quelli contenuti in due trattati avanti lo stesso oggetto, si applica la norma successiva nel tempo. L'articolo 38 dello Statuto della CIG conferma, sia il criterio di specialità nell'individuazione della norma applicabile, che l'inesistenza di una gerarchia tra norme. L'articolo 38 è una norma processuale che individua, in ordine decrescente le norme dal contenuto di solito più speciale e suggerisce al giudice un ordine per la loro considerazione, alla lett.: a. Le convenzioni generali e particolari in vigore tra gli Stati parte alla controversia b. Consuetudini c. Principi generali di diritto riconosciuti dalle Nazioni civili. Gerarchia informale, invalidità e non applicazione di norme incompatibili La CDI attesta l'esistenza nella prassi di una percezione informale secondo cui alcune norme sono più importanti delle altre e godono, in caso di conflitto, di una posizione superiore. La posizione di superiorità di una norma può dipendere dal suo contenuto, ad es: nelle norme di Jus cogens sono inderogabili, oppure derivi da una norma di un accordo internazionale che stabilisce la prevalenza degli obblighi. Sono norme che svolgono un ruolo significativo nella giurisprudenza dei Tribunali internazionali, ad esempio norme generali che fissano obblighi collettivi e non bilaterali, nel solo caso di contrasto con una norma di Jus cogens la norma incompatibile è ipso facto nulla. In tutti gli altri casi, compreso quello di conflitto con le norme che fissano obblighi prevalenti, la norma incompatibile non viene applicata ma resta comunque valida. Il criterio di specialità L'applicazione del criterio di specialità, quale tecnica di interpretazione o di risoluzione dei conflitti tra norme determina l'applicazione della norma dal contenuto più specifico, ma non determina sempre la disapplicazione della norma incompatibile di contenuto più generale. Anzi, di solito, la norma generale continua ad essere considerata per interpretare e applicare la norma speciale e viene utilizzata anche nelle situazioni non disciplinate dalla norma speciale. Inoltre vi sono casi in cui il criterio di specialità non si applichi, secondo la CDI ciò avviene in quattro casi: - la prevalenza della norma generale si presume dalla sua forma o contenuto, dall'intenzione delle parti, - l'applicazione della norma speciale intaccherebbe la finalità della norma generale, - le terze parti beneficiarie potrebbero essere danneggiate dalla norma speciale, - il bilanciamento tra diritti e obblighi stabilito dalla norma generale verrebbe negativamente alterato dalla norma speciale. Il criterio di specialità viene utilizzato dal CDI anche con riguardo ai regimi speciali ovvero norme e principi che disciplinano uno specifico oggetto. Il fall back (ovvero tornare ad essere applicabile), sulle norme generali in caso di mancato funzionamento delle norme speciali, si traduce poi completamente nell'applicazione delle norme generali. La CDI distingue tre tipi di regimi speciali formati da gruppi di norme che: - si applicano solo in caso di violazione di un regime speciale primario ad es: i regimi speciali sulla responsabilità da atto internazionalmente illecito, - disciplinano una specifica materie, si trovano in uno o più trattati oppure in un insieme di norme convenzionali e generali, - sono correlate dal riferirsi tutti ad un settore generale considerato nel suo complesso ad esempio il diritto del mare o i diritti umani. Lcasi AL-ADSANI, AL-KADI e AL-JEDDA Il rapporto tra norma o regime speciale e norma o regime generale dimostra che l'interpretazione è l'applicazione deve tenere conto dell'ambiente normativo che li circonda. La CDI parla di un principio interpretativo di integrazione sistematica. - Nel caso Al-Adsani, deciso nel 2001, La Corte EDU rileva l'incompatibilità tra l'articolo 6 della CEDU, che sancisce il diritto ad un processo equo incluso il diritto di adire a un tribunale, e la consuetudine sull'immunità degli Stati dalla giurisdizione straniera, quindi affermò che la disposizione della CEDU non esistendo in un vuoto normativo e doveva essere interpretata nei limiti del possibile in armonia con le altre norme del diritto internazionale cui appartiene, incluse quelle sul riconoscimento dell'immunità agli Stati. Dopo aver integrato sistematicamente le due norme, la Corte EDU riconobbe la prevalenza della norma sull'immunità e non rilevò una violazione dell'articolo 6. La CDI ha notato come la Corte nell'integrare l'articolo 6 nel suo ambiente normativo, rilevando il conflitto tra le due norme. Il successivo bilanciamento tra il diritto garantito dall'articolo 6 e l'interesse generale al mantenimento del sistema sull'immunità degli Stati, aveva poi determinato La Corte EDU a non applicare, nel caso specie la norma della CEDU. - Nel caso Kadi, deciso nel 2013, la CGUE integrò sistematicamente l'obbligo degli Stati, sancito dalle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza, di adottare sanzioni individuali nei confronti di persone fisiche giuridiche a seguito del loro inserimento in una Black List con il diritto alla difesa e alla tutela giurisdizionale effettiva, garantito dall'articolo 41 comma2, 47 della Carta dei diritti fondamentali dell'UE (carta di Nizza). Il regolamento con cui l'UE aveva dato esecuzione alla risoluzione del Consiglio di Sicurezza (blocco dei conti di Kadi per essere un possibile affiliato di Al-Quaida), era stato impugnato dal destinatario delle sanzioni, per violazione della Carta di Nizza dato che l'inserimento della Black list era avvenuto senza contraddittorio. Nel 2005 il Tribunale dell'UE aveva accolto la risoluzione del Consiglio di Sicurezza in quanto non violata nessuna norma di Jus cogens. Vista la prevalenza degli obblighi derivanti dal sistema ONU su ogni altro obbligo convenzionale, la risoluzione del Consiglio non lasciava margine di discrezionalità nell'eseguirla, poiché si limitava ad indicare il nominativo dell'individuo da inserire nella black list. Ma la CGUE ha invalidato la risoluzione del Consiglio di Sicurezza in quanto non conforme a taluni principi fondamentali dell'UE. La CGUE annullò definitivamente il regolamento per violazione dei diritti fondamentali, che non possono essere compresi neanche dinanzi a minacce gravi quali quella del terrorismo. - Anche nel caso Al- Jedda, deciso nel 2011, La Corte EDU ritenne che adempiere gli obblighi imposti da una risoluzione del consiglio di sicurezza non esimesse lo Stato dal rispetto dei diritti fondamentali. Il ricorrente, cittadino iracheno detenuto per oltre 3 anni in una prigione in Iraq, gestita dal Regno Unito e senza le garanzie procedurali, lamentava la violazione dell'articolo 5 della CEDU, che vieta le privazioni arbitrarie della libertà. Mentre il Regno Unito obiettava in base all'obbligo derivante dalla risoluzione del CS di garantire la sicurezza in Iraq e, anche detenendo individui considerati pericolosi, prevalesse sull' obbligo previsto della CEDU. Nell'accogliere il ricorso di Al-Jedda, quindi si riconosce la violazione dell'articolo 5, la Corte EDU infatti afferma che salvo esplicita o implicita contraria indicazione, si deve sempre presumere che il CS non intende obbligare gli Stati a violare i diritti fondamentali. Le norme imperative del diritto internazionale generale L'esistenza nel diritto internazionale di norme inderogabili (norme imperative, norme di jus cogens) è riconosciuta dalla Commissione del diritto internazionale (CDI), dalla dottrina e a dalla giurisprudenza. Dottrina e giurisprudenza evidenziano come, in questo unico caso, si possa allora parlare di un rapporto gerarchico in senso stretto, in ragione del fatto che queste norme generali, tutelano valori essenziali, da presentare una natura imperative. Talvolta ci si riferisce a queste norme come norme di ordine pubblico internazionale. La Convenzione sul diritto dei trattati del 1969 disciplina le norme imperative agli artt. 53, 64 e 71. L'art. 53 definisce la norma imperativa come quella accettata e riconosciuta dalla comunità internazionale, inderogabile, e afferma che può essere modificata solo da una norma generale avente lo stesso carattere; l'art 64 stabilisce la nullità e l'estinzione di un trattato in contrasto con lo jus cogens, l'art 71 disciplina le conseguenze dell'invalidità del trattato in contrasto con lo jus cogens. La violazione di norme imperative determina un regime aggravato e non ordinario di responsabilità internazionale per lo Stato con conseguenze giuridiche «particolari» che si aggiungono alle conseguenze ordinariamente previste dal diritto internazionale. L'art. 41 La codificazione del diritto internazionale generale consiste nell'identificare con esattezza il contenuto di norme generali già esistenti per poi trascriverlo in un trattato scritto e garantire maggiore chiarezza e certezza del diritto e delle relazioni internazionali. L'opera di codificazione e sviluppo progressivo del diritto internazionale è principalmente realizzata dalla CDI, organo sussidiario permanente dell'AG istituito nel 1947 e composto da 34 giuristi di chiara fama eletti dall'AG tra i nominativi indicati dagli Stati. Gli studi della CDI delegati dall'AG sono prima adottati in via definitiva dalla CDI sotto forma di Progetti di Articoli, di Conclusioni o di Convenzioni e poi, di solito, anche dall'AG con risoluzioni non vincolanti. In alcuni casi, il Progetto di convenzione diventa altresì il testo sul quale poi gli Stati negoziano, in apposite conferenze intergovernative convocate dall'AG, al fine di stipulare eventualmente un trattato. Ad es., proprio la Convenzione sul diritto dei trattati, adottata a Vienna, nel 1969 ed entrata in vigore nel 1980, fu negoziata e stipulata a partire dal relativo Progetto elaborato dalla CDI. In altri casi, invece, gli studi della CDI non trovano seguito tra gli Stati. Cone il fondamento di obbligatorietà del diritto internazionale non è volontaristico o consensualistico perché il diritto è un fenomeno eteronomo, è quindi il fatto sociale del diffuso riconoscimento, in seno alla società internazionale, della doverosità di un comportamento a fondare l'obbligatorietà giuridica della norma generale e non certo la volontà del singolo Stato a vincolarsi. Una parte della dottrina, però, ritrova invece nel consensualismo il fondamento di obbligatorità delle norme generali e osteggia l'idea che la volontà normativa del gruppo possa giuridicamente imporsi sul singolo Stato dissenziente. Come la dottrina statunitense nel caso della Corte Suprema che attraverso sentenza statuì l'incostituzionalità della pena di morte per un minorenne per contrasto con l'Ottavo Emendamento che vieta le pene crudeli ed inusuali (diritto interno). Evidenziò come gli Stati Uniti fosse l'unico Stato a non avere ratificato la Convenzione sui diritti del fanciullo del 1989, il cui art. 37 vieta l'applicazione della pena di morte ai minorenni. La Corte Suprema riconobbe che, come previsto dall'art. 38 della Convenzione sul diritto dei trattati di Vienna, a partire dalla norma convenzionale ratificata a livello quasi universale si era formata una norma generale di identico contenuto che, perlomeno a fini interpretativi del diritto costituzionale statunitense, poteva e doveva essere presa in considerazione. La dottrina statunitense di impronta consensualista criticò la Corte Suprema per aver interpretato la Costituzione in funzione dei valori morali universali delle élite in particolare di quelle dell'Europa Occidentale. Lo stato obiettore persistente Se il consensualismo viene in qualche modo a costituire il fondamento di obbligatorietà delle norme generali, diventa allora ammissibile anche la figura dello Stato obiettore persistente, ossia dello Stato che oppostosi in modo persiste, durante il processo di formazione la norma generale, al suo consolidamento giuridico non è poi obbligato a rispettarla una volta che si sia formata nel diritto internazionale. L'obiezione persistente è incompatibile con una teoria generale del diritto internazionale che è improntata sulla volontà collettiva del Corpo sociale. La regola generale viene richiamata dalla CDI, riferendosi alla sentenza sulla Piattaforma continentale nel Mare del Nord della CIG del 1969 nella parte in cui la Corte afferma che le norme generali consuetudinarie, devono avere la stessa forza per tutti i membri della comunità internazionale e che non possono essere dunque oggetto di alcun diritto di disapplicazione unilaterale esercitabile a discrezione e a proprio favore da uno di quei membri. La CDI riconosce però che una obiezione può essere manifestata nel rispetto di certi requisiti nei confronti della norma emergente. Tali requisiti sono: 1) l'obiezione va manifestata nel corso del processo di formazione, cioè prima che la norma si consolidi, 2) dopo che la norma si è formata, l'obiezione produce l'effetto di non applicazione fino a quando lo Stato continui a mantenerla, in caso di abbandono o rinuncia all'obiezione, lo Stato diventa obbligato a rispettare la norma; 3) per rilevare e continuare a rilevare, l'obiezione deve essere non ambigua, indipendentemente dalla forma prescelta e portata a conoscenza degli altri Stati a livello internazionale. Il requisito della persistenza dell'obiezione deve essere pragmatica, coerente e non contraddittoria (Secondo la CDI). Però alcuni Stati manifestarono posizioni diverse ad es., per Cina, Israele e Paesi Bassi l'obiezione non andrebbe reiterata qualora lo Stato l'abbia in precedenza espressa in modo inequivoco. Due sentenze della CIG sono richiamate in dottrina a conferma dell'esistenza dell'obiezione persistente: la sentenza sulle Peschiere anglo-norvegesi e quella sull'Asilo diplomatico. La CIG riconosce l'esistenza di una consuetudine locale e regionale, applicabile a un numero ristretto di Stati. | principi generali: aspetti problematici In ambito internazionale il termine principio è spesso utilizzato in dottrina, nella giurisprudenza interna e internazionale, nella prassi degli Stati e delle organizzazioni internazionali. Il termine principi indica l'importanza di queste norme, il termine generale evidenzia la possibilità di applicarli a un numero molto più ampio di fattispecie. Nel novero dei Principi sono dunque inclusi: -le due norme che fondano l'obbligatorietà delle norme generali e convenzionali del diritto internazionale, principi formali. -tutte quelle norme generali il cui contenuto materiale disciplina questioni di particolare importanza, principi materiali. | principi generali: un inquadramento realistico | principi generali, sono al pari delle norme consuetudinarie e convenzionali, sono accumunati alle norme consuetudinarie del processo di formazione, ma più breve dato che immediato. L'immediatezza è l'elemento costitutivo dei principi generali. L' importanza di situazioni, esigenze e valori che spingono la società internazionale a creare un principio generale può dipendere da molteplici ragioni. Vi può essere l'esigenza per il gruppo di organizzare la struttura della vita di relazione, dato dal fatto che siano immanente alla stessa esistenza della società internazionale, perché pongono l'obbligatorietà di tutte le norme giuridiche internazionali o disciplinano aspetti essenziali dell'organizzazione e della struttura delle relazioni giuridiche. Non vi è dunque nulla di trascendentale perché il fondamento giuridico resta saldamente ancorato alla realtà della dinamica della base sociale di riferimento. Quindi sono primari rispetto alle altre norme generali e convenzionali perché ne fondano l'obbligatorietà ma non sono interrogabili. L'inderogabilità non è una caratteristica costitutiva dei principi generali ma un possibile requisito di qualunque norma generale. esistono consuetudini inderogabili e principi derogabili. Le norme generali consuetudinarie La consuetudine è la norma generale che presenta necessariamente due elementi costitutivi: a) l'elemento oggettivo o materiale, che consiste in una pratica o prassi generale, ossia nella ripetizione costante e uniforme di una condotta da parte della generalità degli Stati; b) l'elemento soggettivo o psicologico (opinio iuris) che consiste nel convincimento da parte degli Stati che quella condotta sia giuridicamente doverosa o necessaria e, dunque, obbligatoria. Entrambi gli elementi devo sussistere. L’elemento oggettivo della pratica generale L'elemento oggettivo o materiale consiste nella pratica generale da intendersi come quelle condotte che siano in grado di formare una norma consuetudinaria o attestarne l'esistenza. La pratica deve intendersi tra gli Stati e non tra organizzazioni internazionale come la CDI ha specificato nella Conclusione 4 nei Progetto di Conclusioni sull'identificazione del diritto internazionale consuetudinario del 2018. La condotta è attribuibile alle stesse organizzazioni, con riguardo: 1) a quelle norme che disciplinino materie rientranti tra le competenze dell'organizzazione o di cui sia specificatamente destinataria (ad es., le norme sulla responsabilità internazionale dell'organizzazione o quelle relative a trattati di cui sia parte); 2) a quelle organizzazioni cui siano attribuite materie di competenza esclusiva (ad es., le competenze dell'UE indicate dall'art. 3 del TFUE) oppure che esercitino poteri equivalenti a quelli citati dagli Stati (ad es. stipulare trattati). Alle osservazioni critiche degli Stati, la CDI rispose che anche se agiscono per conto degli Stati le organizzazioni comunque agiscono quali attori rilevanti sul piano internazionale e che la ricostruzione dell'opinio juris di una organizzazione si potesse rilevare applicando mutatis mutandis i criteri per individuare quella degli Stati, attraverso (le dichiarazioni dei Funzionari, la corrispondenza con gli Stati membri e terzi). La pratica degli Stati deve poi essere generale, cioè sufficientemente diffusa e uniforme. Sufficientemente perché non esistono standard assoluti di riferimento, il requisito della diffusione della pratica non implica che sia necessaria una «partecipazione universale» degli Stati, cioè non è «necessario dimostrare che tutti gli Stati abbiano contribuito con le loro condotte alla formazione della pratica generale». Rappresentativa nel senso che vi concludere il singolo contratto è solo la condizione materiale e concreta affinché la previsione di legge produca effetti e fondi l'obbligatorietà anche del singolo contratto Secondo Arangio-Ruiz i soggetti "legiferano", ma nel senso che essi "contrattano". E chi contratta con i propri pari non crea ordinamenti né soggetti, ma diritti ed obblighi reciproci. La convenzione sul diritto dei trattati, adottata a Vienna nel 1969, è il principale riferimento normativo, dato che disciplina in modo organico la materia. In gran parte la convenzione codici che le preesistenti norme generali. La convenzione non si applica ai trattati tra stati e organizzazioni o tra due o più organizzazioni, ma si applica ai Trattati istitutivi di organizzazioni internazionali Ad esempio la Carta dell'ONU. La Convenzione di Vienna distingue: -lo stato che ha partecipato al negoziato, vale a dire lo stato che ha partecipato all'elaborazione e adozione del testo del trattato, -lo stato firmatario, ossia lo stato che ha firmato il Trattato ma non ha ancora manifestato il consenso di obbligarsi, -lo Stato parte / stato contraente, cioè lo stato che ha già manifestato il consenso di obbligarsi, se il trattato è già in vigore per quello Stato, sarà uno Stato parte, altrimenti sarà considerato uno Stato contraente. Obblighi bilaterali, interdipendenti ed assoluti e integrali la CDI studiò gli obblighi dotati di un grado di generalità distinse tra obblighi convenzionali reciproci, interdipendenti ed assoluti e integrali. - Gli obblighi reciproci determinano il reciproco interscambio di benefici o concessioni tra le parti e costituiscono l'ipotesi ordinaria nel diritto internazionale. - | più rari obblighi interdipendenti sono invece quelli il cui adempimento ad opera di una parte dipende necessariamente, perché la violazione dell'obbligo da parte di uno Stato priverebbe di senso logico l'adempimento del medesimo obbligo da parte degli altri (ad es., gli obblighi previsti nei trattati in materia di disarmo o non proliferazione). - Gli obblighi assoluti e integrali, invece, esigono l'adempimento assoluto e integrale dell'obbligo da parte dello Stato. In quanto il valore tutelato dall'obbligo convenzionale è particolarmente importante. Questi obblighi si ritrovano nei trattati di diritto internazionale umanitario e nei trattati sui diritti umani. Le conseguenze delle violazioni variano a seconda dell'obbligo. L'articolo 60 della Convenzione di Vienna 1969, prevede infatti che: - in caso di violazione sostanziale di obblighi bilaterali o interdipendenti, l'altra parte o le altre parti potrebbero invocare la violazione come motivo di sospensione totale o parziale di applicazione del trattato. In caso di violazione sostanziale di obblighi assoluti le altre parti non potranno invece invocare la violazione come motivo di estinzione del Trattato di sospensione totale o parziale della sua pubblicazione. Non si confondono, infine, gli obblighi assoluti con quelli Erga omnes, l'obbligo assoluto non consente allo stato leso di sospendere l'applicazione del trattato mentre l'obbligo erga omnes legittima qualunque stato, anche se non direttamente leso dalla violazione, ad invocare la responsabilità dello Stato offensore. La fase preparatoria del trattato: i pieni poteri, il negoziato e il correlato obbligo di buona fede Il trattato può essere costituito da un unico documento oppure da due o più documenti tra loro correlati. Il preambolo ha valore interpretativo, le disposizioni del Preambolo non sono giuridicamente obbligatorie a differenza di quelle contenute nel testo del trattato. Le clausole finali del trattato disciplinano questioni come, apposizione delle riserve, e dunque sono applicabili a partire dall'adozione del testo (art. 24, par. 4). Anche i protocolli e gli allegati sono vincolanti e le loro disposizioni prevalgono su quelle del testo a titolo di specialità. Le dichiarazioni di uno Stato o di più Stati che hanno partecipato al negoziato e all'adozione, non fanno parte del trattato e non sono giuridicamente obbligatorie. Quindi come il preambolo, però, possono essere utili a fini interpretativi. All'art 47, la Convenzione di Vienna individua chi possa considerarsi rappresentante dello Stato per gli adempimenti relativi alla formazione del trattato. Rappresentante è colui che attesti formalmente esibendo alle altre parti il documento di «pieni poteri» (art 2). La prassi della formazione di un trattato si articola in diverse fasi: 1. La dimostrazione del potere di rappresentanza dell'individuo (plenipotenziario) è necessaria ed è reciprocamente fornita all'inizio dei negoziati. Lo scambio dei documenti di pieni poteri tra i plenipotenziari degli Stati è dunque il primo atto dei negoziati. L'esibizione dei pieni poteri non è però necessaria in alcuni casi specifici ad es: i Capi di Stato, i Capi di Governo e i Ministri degli Affari esteri, che sono considerati ipso facto. L'atto compiuto dalla persona priva del potere di rappresentanza non produce effetti giuridici salva la conferma successiva dell'atto da parte dello Stato. La procedura di formazione inizia con il negoziato tra gli Stati interessati alla conclusione del trattato in cui le rispettive posizioni sono discusse alla ricerca di un eventuale accordo cui attribuire efficacia giuridica vincolante. La procedura di formazione del trattato è governata dal principio di libertà di forma perché lo Stato può manifestare il proprio consenso ad essere vincolato dal trattato sia con atti tipici (firma, ratifica, adesione, scambio degli strumenti costituenti il trattato, etc.) che con qualsiasi altro mezzo convenuto tra gli Stati interessati (art. 11). Viene messa in discussione l'esistenza e il contenuto dell’obbligo di buona fede per gli Stati che partecipano al negoziato. La CIG ha evidenziato che gli Stati, mentre sono liberi di ricorrere o terminare i negoziati, hanno l'obbligo di parteciparvi e condurli in buona fede, ossia di comportarsi in modo che il negoziato abbia un senso, cosa ere non succede quando una parte insiste nel mantenere ferma la propria posizione senza modificarla. Spesso sono le organizzazioni internazionali a farsi promotrici della stipulazione dei trattati. In tal caso, l'organizzazione convoca una apposita conferenza intergovernativa, al termine dei negoziati il trattato viene adottato da un organo dell'organizzazione (ad es: l'’AG) e poi viene aperto alla firma degli Stati che siano interessati a stipularlo. Qualora il negoziato vada a buon fine, l'accordo raggiunto viene solitamente trascritto in un unico documento scritto. 3. Il negoziato si chiude con l'adozione del testo che pone fine alla fase preparatoria del trattato. L'adozione di un testo convenzionale è in sé giuridicamente non vincolante, in quanto gli Stati devono esprimere la loro volontà. Quindi l'adozione avviene all'unanimità o a maggioranza dei 2/3 degli Stati presenti e votanti (ad esempio l'adozione dello Statuto della Corte Penale Internazionale CPI). Nella prassi l'adozione può venire anche per consensus, ossia attraverso un voto formale, al patto che non ci siano obiezioni contrarie. La stipulazione del trattato: autenticazione, firma e 1’18 della Convenzione di Vienna Tra l'adozione e la manifestazione del consenso può intervenire l'autenticazione del testo del trattato che lo certifica «come autenticò e definivo» (art. 10). Una volta autenticato; il testo non può più essere modificato a meno che non si riparti dalla fase preparatoria. Il testo può essere autenticato con la firma, la firma ad referendum (che presuppone l'ulteriore conferma delle competenti autorità statati) o la parafatura (ove si appongono solo le sigle e non la firma completa). Se nella procedura di formazione o se è prevista la forma semplificata, la firma vale come manifestazione del consenso dello Stato ad obbligarsi. Fuori da questa ipotesi, però, la firma non produce l'effetto giuridico di rendere le disposizioni del trattato vincolanti per lo Stato firmatario. Non vi sono norme internazionali che prescrivano l'obbligo di manifestare il consenso a vincolarsi al trattato già firmato garantisce la libertà degli Stati di non dare mai seguito alla firma. Nello Stato moderno, caratterizzato di solito dalla separazione dei poteri, il potere legislativo, se coinvolto nella procedura di manifestazione del consenso dello Stato ad obbligarsi al trattato firmato, ha la facoltà di sindacare nel merito le scelte e le politiche del potere esecutivo che, di solito, ha la competenza a negoziare, adottare e firmare trattati. Questi potrebbero essere in disaccordo o vi sia un cambio di Governo, quindi non vi sarebbe il perfezionamento del trattato, uno degli esempi più noti fu la mancata ratifica del Senato statunitense della firma apposta dal Presidente nel 1919 sul Trattato di pace di accettazione o adesione, ad esempio, gli emendamenti allo Statuto del Fondo Monetario Internazionale FMI entrano in vigore dopo che sono stati accettati da almeno tre quinti dei membri. Il numero minimo di strumenti necessari è stabilito di volta in volta nel corso dei negoziati e differisce da un trattato all'altro. La fissazione di una soglia minima evita che l'entrata in vigore del trattato sia incerta, è dunque importante per lo stato adattare il proprio ordinamento agli obblighi internazionali. Può accadere che gli Stati possono convenire che un trattato, pur non ancora in vigore, si applichi a titolo provvisorio. L’interpretazione del trattato Per risolvere le antinomie tra norme dei trattati, ci si basa sull'interpretazione autentica degli Stati parte, che abbiano il potere giuridico di modificarlo o abrogarlo, quindi procedono all'interpretazione collettiva del trattato, restandone vincolati. Di solito, l'attività di interpretazione è svolta dai giudici delle corti internazionali, interpretazione giudiziaria, ed è vincolante solo per le parti alla controversia o può essere affidata dagli Stati parte ad un organo di un'organizzazione. La Convenzione di Vienna codificando norme generali preesistenti, disciplina l'interpretazione e i criteri internazionali che si impongono al giudice Nazionale che li deve applicare in sostituzione di quelli interni. L' articolo 31 sancisce l'interpretazione in buona fede. | termini vanno interpretati secondo l'oggetto e lo scopo del trattato, interpretazione teleologica, adattando quindi quella più compatibile utilizzata soprattutto nei trattati sui diritti umani. L’interpretazione sistematica comporta degli obblighi previsti dal trattato non possono intendersi in contrasto con i principi di diritto generalmente riconosciuti dalla società internazionale. L'articolo 32 fa rifermento ai mezzi complementari o sussidiari di interpretazione, ma è possibile solo quando servono: - a confermare il senso che risulta dall'applicazione dell'articolo 31, - 0a chiarire il senso dell'interpretazione dopo che l'applicazione dell'articolo 31 abbia lasciato un significato ambiguo della disposizione. Emendamento e modificazione del trattato Gli artt. 39-41 della Convenzione di Vienna del 1969 disciplinano l'emendamento e la modificazione del trattato. Per emendamento si intende l'alterazione di una o più disposizioni a seguito di un accordo tra tutti gli Stati parte; per modificazione si intende invece l'alterazione di una o più disposizioni a seguito di un accordo solo tra alcuni Stati parte. Nell'emendamento gli Stati hanno totale libertà di alterare, in tutto o in parte, il trattato originario attraverso una o più disposizioni di emendamento. | trattati multilaterali tra pochi Stati e quelli istitutivi di organizzazioni di integrazione regionale (come l'UE) richiedono, di solito, l'unanimità per l'entrata in vigore del trattato di emendamento. Qualora invece l'entrata in vigore del trattato di emendamento non richieda l'unanime ratifica, accettazione o approvazione gli Stati parte che non ratifichino, non devono attenersi alla versione emendata. Con riguardo alla modificazione, gli Stati parte non hanno totale libertà di alterare il trattato perché essendo un accordo modificativo che per scelta di alcuni Stati esclude altri Stati dalla sua applicazione. Gli Stati parte all'accordo di modificazione hanno l'obbligo di notificare agli altri Stati l'intenzione di concludere l'accordo di modificazione e le modifiche che determineranno. Qualora infine si succedano nel tempo trattati diversi aventi ad oggetto però la stessa materia, e tutti gli Stati parte al trattato anteriore siano anche parte al trattato posteriore, il trattato anteriore, si applica soltanto se le sue disposizioni sono compatibili con quelle del trattato posteriore. In assenza di espresse clausole di compatibilità o subordinazione, il rapporto di tipo conflittuale non è quindi regolato secondo il criterio gerarchico ma in base al criterio dell'interpretazione utile e conforme. Le riserve La riserva è la dichiarazione unilaterale, fatta da uno Stato quando sottoscrive, ratifica, accetta o approva trattato o vi aderisce. L'effetto giuridico della dichiarazione di volontà dello Stato limita dunque l'applicazione di una o più disposizioni del trattato nei rapporti tra lo Stato riservante e un altro o tutti gli altri Stati parte. Le riserve si distinguono dalle dichiarazioni e dalle dichiarazioni interpretative che esplicitano la posizione dello Stato sul contenuto o l'interpretazione di una disposizione. Quindi le dichiarazioni non modificano o escludono l'applicazione della disposizione cui si riferiscono. In linea di principio, la riserva può sempre apporsi salvo che: - il Trattato non lo proibisca, - il trattato indichi solo alcune riserve vietando tutte le altre, - 0 la riserva sia incompatibile con l'oggetto o lo scopo del trattato. La possibilità di apporre riserve con l'unico limite della loro compatibilità con l'oggetto o lo scopo del trattato è una soluzione che favorisce la più ampia partecipazione possibile degli Stati ai trattati, secondo il principio di flessibilità. In tema di accettazione e obiezione alle riserve: - se le riserve sono espressamente autorizzate del trattato, non serve un ulteriore atto di accettazione da parte degli altri Stati contraenti. In ogni altro caso la riserva deve essere accettata. - se risulta che l'applicazione del trattato deve essere integrale fra tutte le parti la riserva deve essere accettata da tutte le parti. - sel Trattato è l'atto costitutivo di un'organizzazione, la riserva va accettata dall'organo competente dell'organizzazione. Secondo la convenzione la questione riguardante l'accertamento della compatibilità di una riserva con l'oggetto e lo scopo del trattato è affidata ad ogni parte contraente, che effettuerà le proprie valutazioni in maniera unilaterale e soggettiva. La CDI sottolinea l'esistenza di varie modalità precisando che un'istanza non esclude necessariamente l'altra è che, anzi, tutti si rafforzano reciprocamente. Le riserve nei trattati sui diritti umani | problemi più complessi riguardano la valutazione dell'ammissibilità della riserva e si riscontrano con riguardo ai trattati aventi ad oggetto la tutela dei diritti umani. Il CCPR, Comitato per i diritti umani, rivendica la competenza esclusiva a valutare l'ammissibilità e la compatibilità delle riserve formulate dagli Stati. In ragione del carattere speciale dei trattati sui diritti umani, quindi se la considera non apposta sarà dunque priva di effetti giuridici. Anche la corte EDU si dichiarò competente a valutare nel merito ammissibilità e compatibilità delle riserve formulate dagli Stati parte. La CDI cerca di temperare il meccanismo esclusivamente intestatale di valutazione delle riserve, con le specifiche competenze attribuite agli organi di controllo nei trattati sui diritti umani. La CDI cerca di istituire un processo di dialogo informale tra gli stati interessati allo scopo di confrontare le rispettive posizioni e valutazioni. L’invalidità del trattato: inesistenza, nullità e annullabilità Le cause di invalidità come anche quel di estinzione e sospensione del trattato sono enunciate nella Parte V della Convenzione di Vienna del 1969. L'invalidità comporta l'inidoneità del trattato a produrre effetti giuridici mentre estinzione e sospensione determinano la cessazione, definitiva o temporanea, di tale idoneità. Secondo una concezione divisibile: gli effetti dell'inidoneità sono limitati alla sola disposizione interessata e il resto del trattato continua a produrre effetti giuridici. La divisibilità non è mai ammessa in caso di nullità (la forma più grave di invalidità) dovuta al contrasto con lo jus cogens. In tal caso, il vizio della singola disposizione si estende sempre all'intero trattato. Non è poi possibile, per uno Stato invocare la causa di invalidità, estinzione, recesso o sospensione se, avendo conoscenza dei fatti a suo fondamento, l'abbia espressamente accettata o vi abbia prestato acquiescenza. A seconda della gravità del vizio, l'invalidità può consistere nell'inesistenza, nella nullità o nell'annullabilità del trattato. Nei casi di inesistenza manca addirittura l'atto giuridico di manifestazione di volontà di un soggetto di diritto internazionale. Nei casi di nullità e annullabilità, l'atto giuridico esiste ma è viziato in modo più o meno grave. In caso di nullità lo stato non ha discrezionalità nel decidere se invocare o meno il Diversa invece la disciplina per i trattati o le disposizioni localizzabili e per i trattati o le disposizioni che regolano i confini internazionali. Secondo cui una successione tra Stati non pregiudica: a) un confine stabilito da un trattato; b) o obblighi e diritti stabiliti da un trattato e riguardanti il regime di un confine. Con riguardo alla successione tra Stati rispetto ad una parte del territorio, si applica invece il criterio della mobilità delle frontiere dei trattati. Secondo cui quando una porzione del territorio di uno Stato diviene parte del territorio di un altro Stato, i trattati che vincolano il primo Stato cessano di valere per la porzione del territorio su sui questo non esercita più la sua sovranità. Per gli Stati di nuova indipendenza, sorti dal processo di decolonizzazione, applicano il principio della tabula rasa secondo cui il nuovo Stati non assume mai gli obblighi gravanti sul predecessore e resta libero da qualunque obbligo contratto da altri prima della sua nascita. Altri Stati concludono invece appositi accordi di devoluzione lo Stato successore assume obblighi e diritti dello Stato predecessore e l'accordo non produce effetti per gli Stati terzi. Un trattato è considerato in vigore tra uno Stato di nuova indipendenza e l'altro Stato [terzo] quando: a) tali Stati lo abbiano espressamente convenuto; b) o si possa dedurre dal loro comportamento che essi lo abbiano convenuto. Il fenomeno della successione degli Stati nei trattati si verifica anche nei casi di unione e separazione di Stati già esistenti, in tal caso ci si orienta solitamente per la continuità degli obblighi. Per gli Stati di nuova indipendenza vale il criterio della tabula rasa a meno che gli Stati interessati non manifestino una diversa volontà. Per gli Stati formati da unioni e separazioni di precedenti Stati, invece, vale di solito della continuità degli obblighi. In ogni caso, il denominatore comune è la rilevanza giuridica della volontà degli Stati. CAPITOLO 5 Il diritto internazionale nel corso della storia ha lasciato la libertà agli stati di risolvere le loro controversie agendo in autotutela ovvero lo Stato offeso poteva agire contro la sfera dello stato offensore anche attraverso l'utilizzo della forza. Queste libertà furono limitate a partire dall'800. L'autotutela è stata sostituita da meccanismi di risoluzione bilaterali o multilaterali in procedimenti giudiziali attraverso l'istituzione di tribunali e corti. Queste due tendenze trovarono definizione nella carta dell'Onu attraverso cui si obbligano gli Stati a risolvere le controversie internazionali con mezzi pacifici. | caratteri strutturali della società internazionale (pariteticità e anorganicità), a causa dell'assenza di un apparato centrale governativo a pari di quello Statale fa sì che il loro eventuale utilizzo sia sempre rimesso alle parti della controversia. La CIG è l'unica corte permanente e a competenza generale sia soggettiva (tutti gli Stati membri dell'Onu sono parti al suo Statuto) che oggettiva (applica il diritto internazionale) ma la sua competenza a pronunciarsi dipende dall'accettazioni delle parti. Anche la fondamentale funzione giurisdizionale è dunque tipizzata nel diritto internazionale dai caratteri strutturali della base sociale di riferimento. La principale conseguenza è che la funzione giurisdizionale si caratterizza non come giurisdizionale ma come arbitrale perché l'organo internazionale non ha potere di decidere la controversia a prescindere dal consenso delle parti ove il giudice è longa manus. Anche la competenza automatica e obbligatoria della CGUE o della Corte Edu si fonda sulla volontà degli Stati membri nell'UE o degli stati parte della CEDU. La costituzione delle istanze decisorie formata da corti e tribunali avviene appositamente per risolvere una specifica controversia. | giudici non sono scelti dalle parti ma fanno parte di organi collegiali precostituiti, gli arbitri invece sono designati dalle parti direttamente in liste precostituite come le Camere arbitrali internazionali. La volontà delle parti controvertenti rappresenta il fondamento di obbligatorietà dei procedimenti giudiziali e arbitrali ma non anche dei provvedimenti decisori (sentenza e lodo). L'ordinamento giuridico li considera fatti giuridici in senso stretto produttivi di obblighi fondati sull'obbligatorietà di norme convenzionali che conferiscono efficacia risolutiva alla sentenza. Affinché intervenga un'istanza decisoria come la CPGI e la CPG è necessario che le due parti siano in totale contrasto nel conflitto. Come il caso della sentenza del 2016 sui ricorsi promossi dalle isole Marshall nei confronti di India Pakistan e regno unito sul disarmo nucleare in cui bisognava dimostrare che gli stati fossero consci al disarmo. | procedimenti di risoluzione delle controversie internazionali si dividono in diplomatici: negoziato, buoni uffici, mediazione, conciliazione, commissioni di inchiesta) e non diplomatici o giudiziali (arbitrato e regolamento giudiziario). | procedimenti si distinguono in base ai mezzi di risoluzione. Come ad es. le Convenzioni nel 1899 e nel 1907, patto della società delle nazioni 1919 con l'istituzione della CPGI attraverso cui si obbligavano gli Stati ad eseguire in buona fede una sentenza o un lodo ed a non utilizzare la forza. La carta dell'Onu ha cristallizzato queste volontà attraverso l'obbligo di utilizzare mezzi pacifici per la risoluzione delle controversie. Nel caso in cui vi siano controversie che mettono a repentaglio la pace tra gli Stati il Consiglio di sicurezza può invitare ma non obbligare le parti a regolare la controversia con la soluzione più adeguata attraverso le raccomandazioni. In generale il Consiglio ha anche altri poteri: 1) Di indagine su qualsiasi controversia che metta a repentaglio la pace tra gli Stati. 2) Di raccomandare agli Stati parte alla controversia sottoponendola anche all'AG In tal caso l'AG potrà raccomandare misure per assicurare il benessere generale e re relazioni tra le nazioni. Il Segretario Generale svolge un ruolo importante nella risoluzione pacifica agendo o su delega del Consiglio o dell'AG o di propria iniziativa. Procedimenti diplomatici di risoluzione: 1) il Negoziato, caratterizzato dalla presenza delle sole parti al raggiungimento di un determinato accordo soddisfacente e risolutivo. Nei trattati c'è l'obbligo dell'utilizzo del negoziato come condizione di procedibilità per l'attivazione di altri procedimenti. 2) I buoni uffici del terzo, servono a mettere a contatto le parti controvertenti per facilitare l'avvio o la ripresa dei negoziati. 3) La mediazione implica un maggior coinvolgimento del terzo proponendo anche una risoluzione possibile in questo caso può anche essere uno Stato. 4) La conciliazione, comporta un coinvolgimento ancora maggiore del terzo che prende l'incarico di esaminare la controversia, in molti trattati è prevista come fase obbligatoria nella gestione diplomatica della controversia. Ciascuna parte può richiedere la nomina di un conciliatore unico o di una commissione di conciliazione. 5) Le Commissioni d'inchiesta, sono formate da esperti indipendenti e imparziali, incaricati di accertare le circostanze relative alla controversia (fact-finding). Carta: la legittima difesa o ricercando l'autorizzazione del CDS; rifacendosi al DI, hanno fatto ricorso per invocare una delle preesistenti cause di giustificazione che escludono l'illiceità del fatto o per consolidare nuove eccezioni al divieto. La Carta ONU, infatti, non esaurisce tutta la normativa internazionale in materia di uso della forza, perciò gli Stati ricercano nuovi spazi di legittimità giuridica in nome di nuove esigenze politiche (più o meno fondate e condivisibili): è il caso di norme generali in nome dei diritti umani che gli consentano di usare la forza. II CDS è chiamato a monopolizzare l'uso della forza, esercitandolo in via eccezionale per mantenere o ristabilire la pace. Esso, tuttavia, è un organo politico assoggettato all’influenza politica e al controllo giuridico degli Stati vincitori della WWI, per cui le attività sono spesso bloccate dal veto di uno degli Stati permanenti (soprattutto nel periodo della guerra fredda), non agendo così nell'interesse collettivo di tutti i popoli dell'ONU, come si era inizialmente ipotizzato. 5 L’uso della forza nella carta ONU, aggressione e rappresaglia Il generale divieto di uso della forza si trova nell'art. 2 p.2 della Carta, ma la forza è vietata anche quando sia incompatibile con i fini delle Nazioni Unite, rendendo il divieto onnicomprensivo; la violazione di tale divieto dà luogo alla responsabilità aggravata dello Stato per crimine internazionale. Il divieto riguarda l'uso della minaccia (es. ultimatum) o l'uso della forza armata (esercitata nel territorio di un altro Stato), ma non la coercizione economica e politica: sono quindi sempre considerate illecite - L’aggressione, definita come l'uso della forza armata da parte di uno Stato contro la sovranità, l'integrità territoriale o l'indipendenza politica di un altro Stato. Sono indentificati come atti di aggressione: l'invasione/occupazione militare di un territorio, il bombardamento, il blocco dei porti o delle coste da parte delle forze armate, l'attacco di terra, di mare o d'aria, l'utilizzo delle forme armate a di fuori dei limiti temporali dell'accordo, il mettere a disposizione il proprio territorio per perpetrare un'aggressione armata e l'aggressione indiretta attraverso l'invio di gruppi o forze irregolari. Il crimine di aggressione rientra tra i crimini internazionali in seguito all'Assemblea degli Stati parte della Corte a Kampala nel 2010, codificato dall'art. 8bis, poiché costituisce una manifesta violazione della Carta. L'articolo entrerà in vigore solo quando trenta Stati avranno accettato l'emendamento e 2/3 degli Stati parte avranno deciso di attivarne la giurisdizione. Una volta in vigore, la Corte potrà esercitare la giurisdizione solo verso coloro che abbiano ratificato l'emendamento, su iniziativa del Procuratore o su segnalazione di uno Stato se il CDS non ha già determinato l'esistenza di un atto di aggressione: in caso di mancanza di determinazione il procuratore può procedere previa autorizzazione della Camera della CPI. - La rappresaglia armata è vietata, per cui nel caso in cui uno Stato abbia subito una lesione, dovrà rivolgersi al CDS o adottare contromisure pacifiche e una forma di autotutela per lo Stato che abbia subito una lesione di un proprio diritto da parte di un altro Stato (una sorta di vendetta) è consentita, anche se spesso gli Stati dichiarano le proprie rappresaglie armate come legittima difesa. La risoluzione 3314 del 1974 dell'AG La nozione di “aggressione” più condivisa a livello internazionale è contenuta nella risoluzione 3314 del 1974 dell'AG, la quale definisce l'uso della forza armata da parte di uno Stato contro la sovranità, l'integrità territoriale o l'indipendenza politica di un altro Stato o in qualunque altro modo contrario alla Carta delle Nazioni Unite. L'art.3, poi, individua alcuni atti di aggressione: ad esempio, il bombardamento da parte delle forze armate di uno Stato contro il territorio di un altro Stato o l'impiego di una qualsiasi arma da parte di uno Stato contro il territorio di uno Stato e il blocco dei porti. L'articolo 5 postula che nessuna motivazione di ordine politico, economico, militare o checchessia può giustificare un'aggressione; l'aggressore è colpevole di crimine all'umanità e impedisce all'aggressore di godere dei frutti della sua azione. 5.1 L’uso della forza in legittima difesa L'art. 51 della Carta prevede la possibilità di usare la forza per legittima difesa, che quindi non è causa di illecito internazionale. La legittima difesa è considerata un diritto naturale dello Stato aggredito, un elemento costitutivo per la sua integrità territoriale e indipendenza politica. È dunque giustificata solo nei confronti di un attacco armato in corso o imminente, per cui in caso di uso minore della forza, o nel caso in cui l'attacco cessi, la legittima difesa non è consentita. La reazione deve poi essere necessaria, cioè l'unica opzione per difendersi; proporzionata all'attacco ricevuto per effetti e portata; funzionale ad interrompere l'attacco. Nel caso in cui la cessazione impedisca l'esercizio della legittima difesa, la questione deve essere sottoposta al CDS affinché adotti le misure necessarie nei confronti dello Stato che ha turbato l'ordine. L'art.51 differisce dalla corrispondente norma generale per il suo limite funzionale: lo Stato aggredito ha diritto a difendersi finché il CDS non abbia preso le misure necessarie a ristabilire l'ordine. La prevalenza del CDS sulla norma generale persiste a meno che il primo non si trovi in una situazione di stallo per il disaccordo politico: in tal caso opera la logica del fall-back, cioè si applica il sottostante regime giuridico di DI generale. Per usare la forza, gli Stati tentano di ampliare il più possibile il concetto di legittima difesa, il cui tentativo è stato ravvivato in seguito agli attentati dell’11 settembre (in primis gli USA): - Si ricomprende nel concetto di attacco armato anche gli attacchi terroristici, gli atti di violenza sporadici e gli usi minori della forza. Questa interpretazione non è condivisibile perché è armato solo quando ha dimensioni, effetti e durata di rilevante consistenza. Gli USA hanno tuttavia qualificato gli eventi del 2001 come attacco armato, reagendo con un massiccio impiego della forza, sebbene l'azione fu considerata illegittima e sproporzionata dagli altri Stati. Gli USA giustificarono la portata della loro azione con la teoria della accumulazione di eventi, per cui la proporzionalità non va misurata in base a un singolo evento ma sommando tutti gli atti simili compiuti in un lasso di tempo. - Viene inteso estensivamente il criterio di attribuzione ad uno Stato della condotta di un gruppo armato operante sul suo territorio. Questa possibilità non è da escludere solo se si dimostra un legame tra lo Stato e il gruppo armato così stretto da rendere il secondo organo di fatto del primo (es. Al-Qaeda e l'Afghanistan) - Si intende estensivamente la nozione di attacco imminente, in cui rientrano anche gli attacchi ipotizzati o puramente eventuali. (legittima difesa preventiva, illegittima). Se uno Stato si sente minacciato può segnalare la situazione al CDS che prenderà le opportune misure. Questa viene giustificata con l'interpretazione sulla inherent right theory, per cui il termine inherent farebbe riferimento alla preesistente norma generale sulla legittima difesa che consente la difesa preventiva. (es. attacco di Israele vs reattore nucleare Osiraq, 1981). In base alla global war on terror, gli USA si riservano la possibilità di difendere in ogni momento la sicurezza nazionale, usando la forza nel territorio di un altro Stato, anche senza il suo consenso, nel caso in cui un non-State actor utilizzi quel territorio per pianificare o preparare attacchi senza che lo Stato possa (o voglia) impedirlo (es. attacchi in Siria vs ISIS). Le altre eccezioni al divieto si ritrovano nel DI generale (Capitolo V, Progetto di articoli sulla responsabilità internazionale degli Stati), e sono le seguenti: - Il consenso dell'avente diritto, cioè il consenso dello Stato al compimento sul proprio territorio di un atto implicante l'uso della forza da parte di uno Stato straniero. (es. ogni volta che uno Stato in conflitto autorizza l'ingresso di truppe straniere). - Il consenso non deve avere vizi di volontà, deve provenire da un governo effettivamente rappresentativo e prima all'uso della forza. - Infine, l'atto dello Stato straniero deve rispettare i limiti di operatività imposti dal consenso dello Stato territoriale. Nella prassi il consenso è anche il fondamento dell’intervento di forze straniere per la liberazione di ostaggi. Il fondamento giuridico di un sistema di sicurezza collettivo (quello fondato sulle deleghe) viene identificato da alcuni in una norma consuetudinaria formatasi nella Carta, e da altri andrebbe desunta dalla Carta oppure attraverso un'interpretazione estensiva dell'art 42; PICONE, invece, trova il fondamento nel DI generale. Il CDS si vede attribuiti nuovi poteri e competenze per la tutela collettiva degli obblighi erga omnes in base a una consuetudine emergente e per un processo di verticalizzazione normativa: il Consiglio diventa quindi una sorta di organo materiale degli Stati. Oltre alle operazioni coercitive, hanno spesso luogo operazioni di pace effettuate da forze multinazionali (i cd. caschi blu), poste sotto la direzione del Segretario Generale e coadiuvato da un apposito Dipartimento per le operazioni di peacekeeping, su delega del Consiglio. Gli Stati possono contribuire alle missioni con personale militare e di polizia, ma deve essere stipulato un accordo ad hoc affinché l'ONU possa avere gestione diretta del contingente. Una volta istituita la forza multinazionale, il comando militare viene affidato a uno o più Stati, il CDS rimane il riferimento politico mentre il Segretario Generale il riferimento strategico. Gli obiettivi e la durata della missione sono precisati dalla Risoluzione del CDS che istituisce l'operazione, che può essere prorogata a scadenze regolari. La missione può essere modificata solo dal CDS, autorizzando per esempio l'uso della forza anche nei casi non di legittima difesa. Tre sono gli elementi ricorrenti di queste missioni: - l’impiego della forza solo per legittima difesa -la neutralità della forza multinazionale - il consenso delle parti al dispiegamento della missione sul proprio territorio. Oltre a questi elementi, le numerose modalità in cui si sono realizzate le missioni hanno portato alla distinzione delle stesse in tre categorie: - Operazioni di prima generazione, dal 1956 al 1989, che avevano lo scopo di creare una forza cuscinetto tra le parti in conflitto(peacekeeping) - Operazioni di seconda generazione, dal 1989, che hanno obiettivi anche di carattere politico e sociale (es. monitoraggio delle elezioni). Si parla di peacebulding, per favorire il passaggio dal conflitto alla pace, e di post-conflict peacebuiliding, se una volta terminato il conflitto devono occuparsi di stabilizzare la situazione politica e sociale. - Operazioni di terza generazione, dal 1989, che impiegano la forza non per legittima difesa (es. disarmo delle fazioni in lotta o distribuzione di aiuti umanitari). Vengono definite come operazioni di peace-enforcement, in cui viene spesso meno anche la neutralità dell'ONU e non è richiesto il consenso delle parti in controllo del territorio. Le operazioni di pace costituiscono un modello sui generis, più ascrivibile nel Capitolo VI (soluzione pacifica delle controversie) che nel VII (mantenimento della pace e della sicurezza internazionale). La loro legittimità sarebbe basata su una consuetudine, anche se PICONE la fonda sull'idea che gli Stati stiano attribuendo nuovi poteri all'ONU, e quindi sul DI generale che tutela gli obblighi erga omnes. Secondo gli autori, invece, è riconducibile al Capitolo VII della Carta, il cui compito è così ampio che esistono molteplici modalità per adempierlo: uso della forza coercitiva, missioni di pace... 7.2. Intervento umanitario e responsabilità di proteggere In dottrina, l'idea di un gruppo che difende i propri valori e interessi precede l'adozione della Carta, perché quell'azione rappresenta l'auctoritas come volontà della coscienza giuridica collettiva. L'adozione della Carta ha affiancato al modello anorganico della SI un modello di azione incentrato sul CDS, anche se si ammette la possibilità di un'azione coercitiva diffusa e anorganica degli Stati uti universi (fuori dal sistema ONU) nel caso di uno stallo del CDS. La complicazione arriva in tema di diritti umani, perché è controversa in dottrina l'esistenza nel DI di una norma generale che traduca la volontà politica di sanzionare le violazioni dei diritti umani da parte degli Stati agenti uti universi, e l'esistenza al contempo di una norma generale sull'intervento umanitario, che legittima l'intervento anche armato all'interno di uno Stato per arrestare le violazioni. Questa questione è molto discussa: gli Stati non occidentali ritengono che la norma si presti ad abusi e violazioni della sovranità politica e integrità territoriale, mentre gli Stati occidentali sostengono la necessità di intervento di fronte a gravi violazioni dei diritti umani. L’intervento umanitario deve effettivamente ancora trovare strumenti credibili di accertamento dei presupposti e delle finalità, per cui risulta difficile ritenere che si sia creata una norma a riguardo. L’uso della forza, infatti, dovrebbe rivelarsi assolutamente necessario e strettamente proporzionato al fine umanitario: l'uso della forza deve essere limitato all'interruzione delle violazioni dei diritti umani, non deve avere finalità punitive. Inoltre, per essere legittimato l'intervento, le violazioni devono essere gravi e sistematiche; tuttavia l'accertamento dell'esistenza di questi requisiti è stato affidato al CDS, e non a un organo neutrale come la Corte, per cui le interpretazioni sono del tutto abusive, come è stato visibile in tre casi: - Conflitto in Jugoslavia (1999): per difendere la popolazione albanese in Kosovo, la NATO intervenne contro la Serbia senza autorizzazione del CDS per il veto russo. Con lo scopo di evitare una catastrofe umanitaria, intervenne in modo tuttavia sproporzionato, non necessario e strumentale a fini diversi da quello umanitario. - Conflitto in Libia (2011): il CDS autorizzò gli Stati a intervenire con ogni mezzo contro il Governo libico per proteggere i civili, ma le azioni diedero sostegno agli insorti per rovesciare Gheddafi, non rispettando il mandato del CDS. - Conflitto in Siria (2013): UK voleva intervenire in Siria per difendere la popolazione dal Governo siriano accusato di aver utilizzato armi chimiche, ma ottiene il veto russo e cinese; gli USA, invece, giustificarono l'intervento in Siria a titolo di legittima difesa collettiva (su richiesta dell'Iraq) e individuale contro l'ISIS (global war on terror). Nel 2000, il Canada aveva cercato di superare questi problemi sull'intervento umanitario introducendo la nuova dottrina della responsabilità di proteggere (R2P), contenuta in un Report, per cui ogni Stato avrebbe il dovere di garantire la sicurezza umana degli individui. Nel caso in cui lo Stato non possa/voglia garantirla, spetta agli altri Stati questa responsabilità, che consente in casi estremi anche l'intervento armato, poiché si tratta di un dovere di protezione gravante in via sussidiaria sulla società internazionale. Per evitare abusi, sono stati fissati anche limiti rigorosi riguardo l’intervento coercitivo: si tratta di circostanze eccezionali, legate alla perdita di vite umane su larga scala e alla pulizia etnica su larga scala. Tutti gli altri casi di violazioni dei diritti, in cui non sia garantito un regime democratico nonostante l'aspirazione del popolo e i casi di salvataggio di propri cittadini all'estero non legittimano l'intervento armato. Ancora una volta il Report enuncia i principi di proporzionalità, necessità e ragionevole probabilità di conseguire l’obiettivo. Nonostante gli sforzi, l'attuazione pratica di questa nozione non è conforme al quadro teorico, perché i contrasti tra gli Stati ne impediscono una pacifica traduzione in termini giuridici. L'istituto dell’intervento attribuisce uti singoli il diritto di intervenire in territori altrui a protezione dei propri cittadini che si trovino in pericolo. L'eccezione si fonda sull'esistenza di un pericolo attuale di gravi violazioni, sull'incapacità o mancanza di volontà dello Stato territoriale di garantire adeguata protezione e sulla proporzionalità nell'uso della forza rispetto al pericolo: anche in questo caso le posizioni degli Stati sono tuttavia molto divise. 8. Il diritto internazionale umanitario o dei conflitti armati Dall’Ottocento si è formata una normativa internazionale sulla condotta delle ostilità, ovvero sui mezzi e le modalità leciti o vietati in situazioni di conflitto. Una volta che il livello di conflitto raggiunge una certa intensità, si genera una situazione di ostilità, presupposto indispensabile per l'esistenza di un conflitto armato internazionale; se il livello non viene raggiunto, si parla di incidente armato. Ai IAC (internazional armed conflict) si applicano le norme generali e convenzionali, e le norme relative a numerosi trattati: le quattro Convenzioni di Ginevra (1949) ed il primo Protocollo addizionale (1977), che ha ampliato il contenuto delle prime due Convenzioni per quanto riguarda il diritto dei conflitti armati o diritto umanitario. Con diritto internazionale umanitario (diritto di Ginevra) si pone l'accento sulle esigenze di tutelare le vittime e le persone durante le ostilità, mentre il diritto internazionale dei CAPITOLO 6 - La responsabilità internazionale dello Stato 1. L’elemento oggettivo dell’illecito internazionale La violazione di un obbligo internazionale determina la conseguenza giuridica dell'insorgere della responsabilità internazionale per fatto illecito per lo Stato. Le norme che fissano gli obblighi sono norme primarie mentre sono definite secondarie quelle che stabiliscono le conseguenze derivanti dalla violazione delle prime. Sullo Stato offensore grava l'obbligo di adempiere all'obbligo primario e secondario, e lo Stato leso può violare legittimamente la sua sfera giuridica adottando le contromisure previste dal DI, che non possono consistere nell'uso della minaccia/forza o rappresaglie, non possono violare i diritti umani né gli altri obblighi di jus cogens (art. 50, Progetto di articoli del 2001 adottato dall'AG). (art. 31). 2. L'elemento soggettivo dell’illecito internazionale L'elemento soggettivo consiste nell'attribuibilità del comportamento allo Stato in base all'azione o omissione di un proprio organo che risulti lesiva di un obbligo internazionale: il DI non tiene in considerazione la ripartizione delle competenze e funzioni all'interno dello Stato, perché tutti gli organi devono collaborare e rispettare gli obblighi e perché è lo Stato l’unico soggetto di DI a cui si può imputare la responsabilità, eccetto il caso delle concorrente responsabilità penale dell'organo. Questo meccanismo impedisce allo Stato di sottrarsi al regime di responsabilità invocando il proprio diritto interno, secondo il presupposto teorico della perdurante immedesimazione dell'organo nel corpo socio-giuridico dello Stato, e non di imputazione successiva degli atti allo Stato. L’imputazione, infatti, prevede l'esistenza di due soggetti (Stato e organo), e avrebbe come conseguenze un rapporto che potrebbe venire meno tra i due soggetti e l'imputazione dell'atto allo Stato. Quest'ultimo, essendo invece un ente-fattuale e pre-giuridico, non può distaccarsi dai suoi organi, perché l’agire di un organo è già agire dello Stato. Viene considerato come organo dello Stato qualsiasi organo che eserciti funzioni legislative, esecutive, giudiziarie o altre, purché includa qualunque persona/ente che gode di tale status per il diritto interno. Lo Stato è responsabile (es. sequestro diplomatici in Iran, 1979) - peri comportamenti esorbitanti del proprio organo (eccessi di competenze), - per il comportamento di un organo straniero messogli a disposizione, - per il comportamento di una persona se esercita di fatto prerogative dell’autorità di governo in mancanza delle autorità ufficiali - per il comportamento di un movimento insurrezionale che riesca a divenire il nuovo governo, - per il comportamento di un privato se lo Stato adotta il comportamento come proprio. 2.1 L'ORGANO DI FATTO L'attribuzione dell'illecito si verifica anche nell'ipotesi dell'organo di fatto (art.8), per cui una persona, pur non essendo organo abilitato ad esercitare le prerogative dell'autorità di governo, agiscono sotto la direzione dello Stato. Possono essere singoli individui o gruppi di persone che formalmente non hanno legami con lo Stato, il quale però li dirige e controlla nell'eseguire l'atto illecito. Tra gli esempi più noti troviamo: - il sostegno USA ai contras in Nicaragua (anni Ottanta). La CIG non riconobbe la totale dipendenza dei contras dagli USA, ma ritenne gli USA responsabili dei loro comportamenti illeciti nei confronti del Nicaragua (controllo non ritenuto effettivo). - il legame tra Serbia e Republika serba di Bosnia ed Erzegovina e i loro rispettivi eserciti contro Croazia e Republika di Herceg Bosnia e i loro rispettivi eserciti (1992-1995). Il TPIY interpretò in modo più estensivo il requisito del controllo, considerandolo valido ogni volta che fossero impartite direttive anche di ordine generale (overall control): secondo questa impostazione venne riconosciuto il legame tra Serbia e Croazia e i loro rispettivi eserciti. L’overall control non è però accettato dalla CIG, perché tale criterio fu usato dal Tribunale per determinare il carattere internazionale del conflitto e non in riferimento ai comportamenti. Se quindi si applica il concetto dell'effective control nel conflitto balcanico, e in particolar modo riguarda al genocidio di Srebrenica, questo non può essere attribuito alla Serbia poiché realizzato dalla Republika Serba di Bosnia ed Erzegovina. LE CIRCOSTANZE DI ESCLUSIONE DELL’ILLICEITA DELL’ATTO Le circostanze di esclusione dell’illecito sono costituite: 1-dal consenso dell’avente diritto, cioè il consenso dello Stato al compimento sul proprio territorio di un atto implicante l'uso della forza da parte di uno Stato straniero. In mancanza del consenso l'ingresso di agenti stranieri in territorio altrui ed il compimento di atti coercitivi costituiscono una lesione dell'integrità territoriale e dell'indipendenza politica dello Stato. Il consenso, per essere validamente prestato, non deve essere affetto da vizi della volontà, deve provenire da un governo effettivamente rappresentativo ed essere prestato senza coercizioni prima o all'uso della forza da parte dello Stato straniero. Alla luce di questo non fu considerata effettivamente rappresentativa del governo locale la richiesta di intervento presentata agli Stati Uniti dal Governatore generale di Grenada nel 1983. Il successivo intervento armato statunitense, che determinò il rovesciamento del governo democraticamente eletto, fu dunque considerato illecito dall'AG ed il Consiglio di Sicurezza non potè adottare una Risoluzione sulla questione per il veto degli Stati Uniti. 2-dall’estremo pericolo: in questo caso la violazione internazionale della norma è giustificata dal fatto che l'agente non ha un altro ragionevole modo per salvare la propria vita o le vite di altre persone. 3-dalla forza maggiore: l'ipotesi si verifica quando la violazione del diritto di uno Stato non è intenzionale in quanto dipende da una forza irresistibile o da un evento imprevedibile che rendono impossibile evitare la commissione dell'illecito come, ad esempio, nel caso della nave da guerra di uno Stato che, essendovi trascinata da una tempesta non poteva opporsi, venga trovata ferma in avaria nel mare territoriale di un altro Stato. 4-dallo stato di necessità: in questo caso il compimento dell’atto illecito è l'unico modo che ha lo Stato per salvaguardare un suo interesse essenziale da un imminente e grave pericolo a patto che l’atto compiuto per necessità non violi una norma di jus cogens e non pregiudichi seriamente un interesse essenziale dello Stato o degli Stati nei cui confronti era dovuto l'obbligo violato. La differenza con la legittima difesa sta nel fatto che chi agisce per necessità non reagisce ad un'azione precedente. La differenza con l'estremo pericolo sta nel fatto che il pericolo non riguarda una o più persone ma lo stesso ente statuale nella sua consistenza territoriale e politica. 5-legittima difesa: se la misura e presa in conformità alla carta dell'' ONU 6-le contromisure: prese in risposta ad un atto illecito internazionale LE CONSEGUENZE GIURIDICHE DELLA RESPONSABILITA Le contromisure Le contromisure non possono essere adottate o devono cessare nel caso in cui la violazione sia finita, la controversia sia risolta tramite istanza decisoria o lo Stato abbia adempiuto agli obblighi. RESPONSABILITA’ DA FATTO LECITO Per responsabilità da fatto lecito si intende la responsabilità internazionale che consegue a un comportamento lecito per il DI, ma che ha causato danno ad un altro Stato. Si tratta generalmente di attività inquinanti o compiute sul proprio territorio (energia nucleare, attività industriali) o in spazi non soggetti a sovranità (lancio nell'atmosfera di oggetti, trasporto in alto mare di sostanze pericolose). Dubitando dell'esistenza di responsabilità senza illecito, è più realistico che si debba continuare a parlare di responsabilità da fatto illecito, conseguente alla violazione della norma generale che vieta agli Stati di recare danno agli altri Stati nello svolgimento delle proprie attività. Capitolo 7 Sezione I: Immunità dello Stato e dei suoi organi Le immunità nel diritto internazionale: tratti generali La struttura della società internazionale, composta da enti indipendenti e sovrani, e gli interessi politici di quegli enti favoriscono l'accertamento e l'attuazione della responsabilità dello Stato sul piano del diritto internazionale secondo i modi e le forme possibili ed appropriati in quel contesto sociogiuridico interstatale. L'immunità dalla giurisdizione dei tribunali stranieri evita il rischio che le controversie attinenti alla condotta di uno Stato siano conosciute dagli organi giurisdizionali dello Stato straniero avente un collegamento con la controversia che potrebbero non garantire adeguata terzietà e imparzialità rispetto alle parti controvertent. Il riconoscimento dell’immunità allo Stato straniero assicura che la risoluzione delle controversie che lo coinvolgono e la definizione della conseguente responsabilità si realizzino con i modi e le forme previsti dal diritto internazionale. L'immunità, dunque, costituisce una significativa deroga al principio di territorialità secondo cui lo Stato ha il diritto di esercitare sul proprio territorio ogni funzione necessaria, inclusa quella giurisdizionale, al suo governo. A partire dall'inizio del Novecento la coscienza giuridica collettiva della società internazionale si è orientata per il progressivo restringimento di tali regimi sulla base di esigenze sia commerciali che soprattutto di maggiore tutela dei diritti umani. Tra le conseguenze vi sono, da un canto, il regime di immunità relativa dello Stato dalla giurisdizione civile e amministrativa dello stato straniero e, dall'altro, il diniego dell'immunità dell'individuo-organo dalla giurisdizione penale dei tribunali internazionali nel caso in cui abbia commesso crimini internazionali. Controverso è anche il restringimento della combatant immunity del personale militare che, oltre a rispondere penalmente o personalmente per i crimini di guerra commessi, impegna in solido anche la responsabilità civile extracontrattuale del proprio stato in caso di morte o lesioni personali causate a commilitoni e civli nel corso di operazioni militari. Le immunità giurisdizionali degli Stati e dei loro beni. La Convenzione delle Nazioni Unite sulle immunità giurisdizionali degli stati e dei loro beni Tale consuetudine è recepita anche nella recente Convenzione delle Nazioni Unite sulle immunità giurisdizionali degli Stati e dei loro beni, firmata il 2/12/2004, non ancora in vigore, che riconferma la garanzia dell'immunità giurisdizionale solo per gli atti jure imperii. La Convenzione non si applica, però, ai regimi d'immunità speciale né alle immunità e ai privilegi riconosciuti dal DI ai Capi di Stato, né infine alle immunità relative ad aeromobili od oggetti spaziali “di proprietà o gestiti da uno Stato". L'art. 5 sancisce l'esenzione generale dello Stato dalla giurisdizione straniera salve le specifiche eccezioni previste, tutte riconducibili ad attività iure privatorum dello Stato. Lo Stato può rinunciare all'immunità, consentendo, per il singolo procedimento, l'esercizio della giurisdizione nei suoi confronti da parte del tribunale locale. Il consenso deve essere esplicito, cioè formalizzato in un accordo internazionale, in un contratto scritto o in una comunicazione scritta o dichiarazione resa davanti al tribunale procedente, e non è desumibile per fatti concludenti. Lo Stato non può più invocare l'immunità dalla giurisdizione qualora egli stesso abbia iniziato il procedimento, qualora vi abbia partecipato senza sollevare obiezioni o qualora abbia agito in via riconvenzionale, c.d. counterclaim. In ogni altro caso, se lo Stato convenuto si costituisce in giudizio solo per invocare l'immunità, se non compare in giudizio restando contumace o se compare un suo rappresentante in qualità di teste, la condotta dello Stato straniero convenuto non sarà interpretabile come consenso ad essere giudicato e, quindi, come rinuncia all'immunità. | noltre, si distinguono le misure coerctive anteriori che sono escluse tranne nei casi in cui lo Stato vi acconsenta nei modi prestabiliti dalle norme o abbia appositamente destinato un bene a garanzia. Le misure posteriori, invece, sono ammesse quando lo Stato vi acconsenta espressamente o abbia appositamente destinato beni allo scopo oppure il bene oggetto della misura coercitiva si trovi sul territorio dello Stato del foro e sia utilizzato per un fine diverso da quello pubblico non commerciale. | casi in cui lo Stato non può invocare l'immunità, salvo il diverso accordo tra gli Stati interessati, sono poi indicati negli artt. 10-17 della Convenzione: 1) Le controversie aventi ad oggetto contratti di lavoro conclusi tra lo Stato straniero e una persona fisica per un lavoro da eseguire nel territorio dello Stato del foro; 2) Le controversie relative ai diritti sui beni immobili sui quali lo Stato estero avanza pretese causa successione, donazione, amministrazione o insolvenza; 3) Le controversie in materia di proprietà intellettuale e industriale; 4) Le controversie relative a navi “possedute o gestite” dallo Stato estero se al momento del fatto la nave non era impiegata per fini governativi di natura non commerciale; 5) Le controversie relative ad azioni di risarcimento del danno in caso di decesso o di lesione dell'integrità fisica di una persona, o in caso di danno o di perdita di un bene corporeo, dovuti a un atto o a un'omissione presumibilmente attribuibile allo Stato, se tale atto o omissione si sono prodotti sul territorio dell'altro Stato. (uno Stato Contraente non può invocare l'immunità dalla giurisdizione dinanzi a un tribunale di un altro Stato Contraente se il procedimento concerne il risarcimento di un danno alla persona o materiale risultante da un fatto intervenuto sul territorio dello Stato del foro e se l'autore del danno era ivi presente al momento in cui tale fatto è intervenuto). Un esempio esplicativo è dato dalla sentenza della CIG del 2012 sulle immunità giurisdizionali. Nel corso del procedimento l’Italia sostenne la tesi che la territorial totrt exception sarebbe ormai parte del diritto internazionale consuetudinario, si applicherebbe anche agli atti iure imperii ed anche quando commessi dalle forze armate., ortando come elementi di sostegno l'art. 12 della Convenzione e l'art.11 della Convenzione europea sull'immunità degli Stati. La CIG respinse l'argomento italiano. In particolare la CIG affermò che l'art.11 della Convenzione europea va letto in combinato con l'art. 31 che sottrae l'applicazione della Convenzione proprio qualsiasi atto od omissione delle forze armate, quando esse si trovino in territorio straniero; che sulla base dei lavori preparatori dell'art. 12 della Convenzione ONU risulta che l'art.12 non si applica alle situazioni di Le relazioni diplomatiche e consolari tra Stati: tratti essenziali Lo Stato è sempre responsabile sul piano internazionale per gli atti illeciti che commette mentre sono immuni gli organi stranieri per i comportamenti illeciti commessi nell'esercizio delle loro funzioni e la responsabilità ricade solo sullo Stato. La norma generale di diritto internazionale garantisce l'immunità delle sedi diplomatiche e consolari solo alla giurisdizione ma non anche dalla sovranità dello Stato territoriale per garantire il libero ed indisturbato svolgimento delle funzioni diplomatiche e consolari e delle relazioni interstatuali. Questa ratio della norma spiega anche perchè l'esenzione non sia assoluta come dovrebbe essere se il territorio dove insiste la sede dello stato di missione si trovasse effettivamente al di fuori del territorio dello stato che la ospita. L’esenzione è, infatti, relativa cioè funzionalmente commisurata alle esigenze correlate al libero ed indisturbato esercizio delle funzioni da parte dello stato estero e si fonda su un obbligo internazionale gravante sullo stato territoriale che viene meno nel caso in cui nella sede siano svolte attività contro la sua sicurezza. Anche grazie alla giurisprudenza delle Corti italiane e Belghe l'ambito di applicazione si cominciò a restringere fino al punto da essersi ormai consolidata nel diritto generale internazionale l'idea che quando lo stato straniero esercita le proprie prerogative sovrane si pone come pari ordinato rispetto al giudice essendo cioè autolegittimato in ogni espressione e come tale irriducibile alla soggezione di ricevere prospezioni da lui. L’immunità è negata dal giudice allo stato straniero ogni volta che questo agisca come un normale soggetto privato nell'ambito di rapporti giuridici privatistici mediante atti jure privatorum quali, ad esempio, la stipula di contratti commerciali o di locazione immobiliare. Il criterio per qualificare un atto come jure imperii o jure privatorum viene diversamente individuato dai tribunali nazionali e non sempre la prassi sul punto è chiara, uniforme o generale. A volte si valuta quale sia il fondamento giuridico della key transaction (fattispecie); a volte ci si chiede se l'atto possa essere compiuto anche da un privato cittadino ecc. Ne consegue che la natura pubblicistica del fine per il quale il contratto è stipulato non è sufficiente a sottrarre il contratto stesso alla giurisdizione dello stato italiano e che l'immunità si applica solo ai rapporti che rimangono del tutto estranei all'ordinamento interno o perchè quegli stati o enti agiscono in altri paesi, come soggetti di diritto internazionale o perchè agiscono come titolari di una potestà di imperio nell'ordinamento di cui sono portatori o nell'ambito del proprio territorio. Con riguardo all’immunità dello Stato straniero dalla giurisdizione di esecuzione e cautelare dello stato del foro, l'evoluzione da un regime di immunità assoluta ad uno di immunità relativa si è verificata nel diritto internazionale in un momento successivo rispetto alla parallela evoluzione del regime applicabile alla giurisdizione di cognizione. A consolidamento avvenuto, però l'ambito di applicazione materiale della norma resta comunque più ampio rispetto a quello della corrispondente norma sull'immunità dalla giurisdizione di cognizione, rendendo più difficile l'assoggettamento dei beni dello Stato straniero alla giurisdizione esecutiva e cautelare dello Stato del foro. L'unico limite che ia il privato, uscito vittorioso dal giudizio di cognizione, è che non può soddisfarsi sui beni impiegati dallo stato soccombente in attività iure imperii. Anche in questo ambito il criterio discriminante resta quello dell'essere il bene straniero oggetto della misura esecutiva o cautelare destinato a finalità pubbliche (iure imperii) o meno (jure privatorum). Nel primo caso la pur ammissibile azione di cognizione per morosità o finita locazione non potrà avere un seguito di natura esecutiva per il rilascio del bene dato che altrimenti la sottrazione materiale della sede alla sua funzione inciderebbe sulla possibilità stessa dello stato straniero di svolgere le proprie istituzionali funzioni sul territorio dello Stato ospite. L'utilità di una sentenza di cognizione che riconosca al privato un diritto al risarcimento del danno o ai canoni insoluti nei confronti dello stato straniero non è però necessariamente vanificata dalla norma sull'immunità della giurisdizione di esecuzione. L'azione esecutiva potrà infatti esperirsi nei confronti dei beni dello Stato straniero che rientrino nel secondo caso, ossia che non siano destinati a finalità jure imperii. L’immunità funzionale e personale degli organi. Eccezioni ed evoluzioni. Le norme sull'immunità riguardano gli atti compiuti dall'individuo-organo nell'esercizio delle funzioni pubbliche in territorio straniero. Quest'ultimo presupposto, il territorio straniero, è lo stesso che giustifica le immunità dello Stato. Distinguiamo due tipi di immunità dell’individuo-organo: - immunità funzionali o ratione materiae: esse comportano “l'esenzione dalla giurisdizione del foro a favore degli individui-organi che operano nell'esercizio delle mansioni loro affidate da uno Stato estero”. La ratio dell’immunità funzionale sta nel fatto che in forza della immedesimazione tra organo e corpo dello Stato, l'atto del primo è a tutti gli effetti atto del secondo. Il titolare dell'immunità non è l'individuo-organo, ma lo Stato. Anche per l'individuo-organo l'esenzione dalla giurisdizione civile, amministrativa e penale dello Stato del foro vale solo per gli atti e le attività compiuti iure imperii ossia posti in essere nell'esercizio delle funzioni di organo statale e non anche per quelli compiuti iure privatorum. Per tale motivo, l'immunità perdura anche dopo la cessazione dalla carica. Possiamo fare riferimento al caso Lozano (il soldato statunitense che uccise il funzionario del Governo italiano a Baghdad nel 2005), la Corte di Cassazione tornò a ribadire, in punto di immunità funzionale dalla giurisdizione penale dello Stato del foro, che rappresenta un principio di fonte internazionale consuetudinaria, universalmente accettato dalla prevalente dottrina e dalle prassi giurisprudenziali nazionali e internazionali, recepito nell'ordinamento giuridico italiano. La Corte affermò che il primato esclusivo della giurisdizione attive degli Stati Uniti per il fatto che l'imputato abbia agito iure imperii nell'esercizio delle funzioni di guardia e di controllo a un posto di blocco. Anche in questo caso, però, la Corte di Cassazione riaffermò la tesi secondo cui sarebbe in via di formazione una norma di DI generale che nega l'immunità dello Stato straniero dalla giurisdizione civile ed anche quella funzionale dell'organo dalla giurisdizione penale qualora sia commesso un crimine internazionale. - immunità personali o ratione personae: esse garantiscono ad alcuni organi dello Stato (Capi di Stato, Capi di Governo, Ministri degli Affari Esteri, diplomatici) una tutela supplementare perché li rendono immuni dalla giurisdizione anche per gli atti compiuti a titolo privato. Questa norma ha ad oggetto la persona dell'organo che per questo viene protetta anche quando agisce a titolo personale. Il presupposto della norma è quello di proteggere l'’organo-individuale da qualunque interferenza che ne ostacoli il pieno e libero svolgimento delle sue funzioni. Per questo motivo l'immunità personale vale solo fino a quando l'individuo rivesta la carica di organo statale: cessata la carica, cessa anche questa forma di immunità. La prassi dei tribunali internazionali ed alcuni trattati internazionali (come la Convenzione contro il genocidio) negano l'applicabilità della immunità funzionale e/o personale tanto che l'impossibilità di prevalersene è sancita sia negli Statuti istitutivi della Corte penale internazionale, sia in altri trattati. Nella sentenza del 2002 riguardante il mandato d'arresto per crimini contro l'umanità emesso da un giudice belga nei confronti del Ministro degli Affari esteri congolese in carica quando rilevò l'inesistenza di una consuetudine internazionale che negasse l'immunità in tali casi, la CIG non potè dedurre che esistesse nel DI consuetudinario una qualche eccezione alla regola che accorda l'immunità dalla giurisdizione penale e l'inviolabilità ai Ministri per gli affari esteri in carica, quando siano sospettati di aver commesso crimini di guerra o contro l'umanità. Anche le Corti nazionali tendono a riconoscere l'immunità in questi casi. Nel 2008, ad esempio, il Procuratore presso la Corte di Appello di Parigi riconobbe l'immunità dalla giurisdizione penale a Donal Rumsfeld accusato di aver ordinato ed autorizzato la tortura dei detenuti nelle prigioni in Iraq nella sua qualità di Segretario della difesa statunitense. Sul piano internazionale, invece, i mandati di arresto emessi dalla CPI nel 2009 e 2010 nei confronti del presidente sudanese in carica per crimini du guerra e contro l'umanità non furono eseguiti dagli Stati in cui quello si era recato in visita ufficiale in ragione delle immunità di cui gode il Capo di Stato in carica in base al diritto internazionale generale. Tutttavia nel 2014 le competenti Camere preliminari (PTC) della CPI hanno accertato la violazione commessa da 4 Stati parte del dovere di cooperare con la CPI per non aver eseguito i mandati d'arresto. La sentenza della CIG del 2002 viene interpretata dalle PTC e dalla CIP come riferibile ai soli mandati di arresto emessi da tribunali nazionali. Di conseguenza viene affermata l'esistenza di una ormai consolidata eccezione nel DI consuetudinario che negherebbe l'immunità funzionale e personale ai Capi di Stato quando il mandato d'arresto è emesso da un tribunale internazionale. La PTC, inoltre, portò elementi a sostegno della sua tesi, cioè di non far valere l'immunità per i capi di stato in carica, come ad esempio gli Statuti dei tribunali penali internazionali che negano l'immunità e la ratio della distinzione tra mandati di arresto nazionali ed internazionali nel fatto che i primi potrebbero essere strumenti di una persecuzione giudiziaria orchestrata da uno Stato in danno di un altro mentre i secondi non porrebbero questo problema dato che i tribunali internazionali sono totalmente indipendenti dagli Stati. Tuttavia questo non è proprio vero perchè, ad esempio 4 dei 5 tribunali internazionali stessa sorte per gli altri accusati, perché la Germania si rifiutò di consegnare le 900 persone richieste (soprattutto per la delicata situazione del biennio 19-20). Si accolse invece la proposta tedesca di tenere alcuni processi dinanzi alla Corte Suprema di Lipsia sotto la piena responsabilità tedesca, per cui furono presentati 45 nomi e le relative prove, che vennero esaminate senza alcuna interferenza straniera: i processi si conclusero con alcune lievi condanne ai sensi del diritto penale tedesco. Il carattere internazionale in quella esperienza fu limitato: - L'art. 227 prevedeva un organo comune delle Potenze vincitrici e lo stesso può dirsi per i tribunali militari (art.229) previsti per i crimini commessi contro vittime di diversa nazionalità, mentre in caso di vittime di uguale nazionalità i tribunali sarebbero stati semplici organi interni dello Stato. - La Corte di Lipsia aveva pochi elementi internazionali (materiale probatorio, accusati e testimoni di diversa nazionalità, reati puniti come crimini internazionali). I tribunali militari internazionali di Norimberga e Tokyo Nuovi sviluppi si hanno con i Tribunali istituiti in seguito al secondo conflitto mondiale. - Tribunale militare internazionale di Norimberga, (1945-1946). Fu istituito l'8 agosto 1945 tra USA, UK, URSS e Francia; in base alla sua Carta, aveva competenza sui crimini di guerra, crimini contro la pace e contro l'umanità. - Tribunale militare internazionale per l’Estremo Oriente, di Tokyo, (1946). Fu istituito il 19 gennaio 1946 su ordine del Generale americano Mac Arthur; in base alla sua Carta, aveva competenza sui crimini di guerra, crimini contro la pace e contro l'umanità. Le critiche mosse nei confronti di questi tribunali “internazionali” sono numerose: - Risultano essere organi comuni delle Potenze vincitrici, chiamati ad operare su territori privi di un governo sovrano. - Le sentenze di condanna non hanno rispettato alcuni principi fondamentali come il nullum crimen sine lege e il nulla poena sine lege. Non essendo ancora codificato il DI come lo conosciamo oggi, alcune categorie di crimini non erano previste e quindi non erano punibili. - Sono stati strumenti di giustizia delle Potenze vincitrici sui vinti, poiché i loro responsabili di crimini non furono mai processati (come nei casi dei bombardamenti). - Fu negata la possibilità agli imputati di invocare l'immunità funzionale, o la giustificazione di dover eseguire gli ordini del superiore. Nonostante queste critiche, il loro apporto per lo sviluppo del DI fu fondamentale. I tribunali penali internazionali per il Ruanda e la ex Jugoslavia. Il Meccanismo residuale internazionale All'inizio degli anni Novanta il CDS istituì due ulteriori Tribunali internazionali. - Tribunale per la ex-Jugoslavia (ICTY/TPIY), creato con la Risoluzione 827 del 1993, con sede a L'Aja. Terminerà il suo mandato non appena saranno conclusi i casi ancora pendenti. In base al suo Statuto, ha competenza a giudicare gli individui-organi responsabili sui gravi crimini commessi sul territorio della ex-Jugoslavia dal 1991 e sulle gravi violazioni del diritto umanitario, delle Convenzioni di Ginevra del 1949, dei customs of war, inoltre sul crimine di genocidio e sui crimini contro l'umanità, in quanto conflitto armato internazionale. - Tribunale per il Ruanda (ICTR), creato con la Risoluzione 995 del 1994, con sede ad Arusha, in Tanzania. Ha completato il suo mandato nel 2015. Ha competenza a giudicare i responsabili dei gravi crimini commessi in Ruanda e territori limitrofi nel 1994. Poiché si tratta di un conflitto armato non internazionale, aveva competenza sui crimini di genocidio, crimini contro l'umanità, e sulle violazioni delle Convenzioni di Ginevra, oltre che sulle violazioni del DI umanitario. Fu il primo tribunale internazionale a emettere una condanna per genocidio. Per ridurre i costi e terminare le loro attività, nel 2010, con Risoluzione 1966, fu creato un Mechanism for International Criminal Tribunals (MICT), con il compito di celebrare i processi in caso di arresto degli individui ancora latitanti, completare i processi di appello, condurre i processi di rinvio della Appeals Chamber, supervisionare l'esecuzione delle sentenze di condanna e la designazione dello Stato di esecuzione, e infine conservare gli archivi dei due Tribunali. Entrambi negano l'immunità funzionale agli organi individuali, e il loro sistema si fonda sull'obbligo, gravante sui membri dell'ONU, di cooperare al fine di facilitarne l'attività nel punire i responsabili dei crimini. In caso di mancata cooperazione, il Tribunale può segnalarlo al CDS affinché adotti eventuali sanzioni. All'inizio gli Stati coinvolti erano riluttanti a cooperare per ragioni politiche e per la mancanza di norme procedurali di diritto interno necessarie ad attuare gli obblighi di cooperazione. Una volta raggiunto un certo livello di cooperazione, alcuni casi sono stati trasferiti dalle giurisdizioni internazionali a quelle nazionali, creando a volte apposite strutture (es. area Jugoslava) e offrendo assistenza alle Corti. Inizialmente, i sistemi internazionali esercitavano la loro primazia sulle concorrenti giurisdizioni statali, obbligando lo Stato a trasmettere tutte le informazioni necessarie relative ai crimini, e, in caso, a trasferire il caso al Tribunale. Anche in caso, per mancata esecuzione, la situazione po' essere segnalata al CDS. Negli ultimi anni, invece, molti casi sono stati trasferiti alle giurisdizioni nazionali (referral) quando relativi a persone di medio o basso profilo della gerarchia civile o militare dello Stato. Affinché il referral avvenga, il crimine deve essere stato commesso sul territorio di quello Stato, l'accusato deve trovarsi in stato di arresto in quello Stato, e lo Stato deve avere giurisdizione sul crimine in base al proprio diritto interno, oltre che dover essere desideroso e preparato ad esercitare l'azione penale: in questo caso, l'accusato deve ricevere un equo processo e non può essere condannato a morte. Nel caso del ICTR, sono state trasferite 10 persone, mentre per il ICTY 13, oltre che numerosi casi che non avevano poi condotto alla formulazione di un capo d'accusa o quelli interrotti per concentrare l'attenzione del Tribunale su casi più gravi. In Bosnia, Serbia e Croazia sono stati istituiti organi specializzati in crimini internazionali. - La War Crimes Chamber (WCC), operativa dal 2005 a Sarajevo, si articola in commissioni di tre giudici per ciascun caso, in cui si applica il diritto interno bosniaco. Si tratta quindi di un tribunale interno, i cui unici elementi di internazionalità sono dati dai crimini di competenza, dal finanziamento di Stati stranieri, dalla presenza fino al 2012 di personale straniero e dal fatto che fu istituita dall'Alto Rappresentante ONU e dall'ICTY. - In Serbia sono state istituite alla Corte di Belgrado nel 2003 la WCC e la War Crimes Prosecutor’s Office: il Procuratore ha competenza su tutti i crimini commessi da chiunque (anche non serbo), applicando il diritto interno serbo. L'internazionalità è ridotta al minimo, legata alla competenza su crimini internazionali e la provenienza delle informazioni anche dal ICTY. - In Croazia, sono state create quattro nuove sezioni specializzate in seno ai tribunali di Zagabria, Fiume, Spalato e Osijek. Il fondamento di legittimità dei Tribunali istituiti dal Consiglio di Sicurezza Questi Tribunali sono stati fondati dal CDS poiché ritenne le due situazioni lesive della pace e sicurezza internazionale, ma il loro fondamento è molto discusso in dottrina. - Nella Carta ONU, in base a numerosi articoli: - Art.40, si considerano i 2 Tribunali come misure provvisorie; tuttavia, lo stesso ICTY ha negato questa possibilità perché non si tratta di misure cautelari e sospensive. - Art. 41, si considerano i Tribunali come uno strumento per il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale senza ricorrere all'uso della forza. - Art. 42, si considerano i Tribunali come misure implicanti l'uso della forza, ma l'ICTY ha scartato questa ipotesi perché non gli spetta l’attività militare. - Art. 24 p.2, richiamando i residual powers del CDS per il mantenimento della pace, e l'art.29 che prevede l'istituzione di organi sussidiari per l'adempimento delle sue funzioni come implied powers. - La seconda posizione prospetta invece l'illegittimità della loro creazione perché: - Un organo politico come il CDS non ha i poteri giudiziali per istituire organi sussidiari con funzioni giudiziali (poteri non previsti dalla Carta, perché crea misure che creano leggi incidendo sui diritti degli Stati) - Un tribunale internazionale non può essere semplicemente considerato come una misura non implicante l'uso della forza, ai sensi dell'art.41. - L'agire del CDS viola i principi fondamentali di sovranità e indipendenza politica. - La terza tesi è sostenuta da PICONE, che nega la legittimità nella Carta, ritrovando il fondamento nel DI generale. Egli qualifica i due Tribunali come strumenti sanzionatori voluti dalla SI per il tramite del CDS nei confronti di individui responsabili di illeciti erga omnes. Nonostante i dubbi sulla loro legittimazione, la prassi ha mostrato una diffusa accettazione della loro attività, ma questo non implica la creazione di una norma consuetudinaria. La Corte penale internazionale: tratti generali e giurisdizione. | rapporti tra USA e CPI. Il crimine individuale di aggressione Per le numerose critiche ai Tribunali istituiti dal CDS, ed essendoci la volontà di creare un organo permanente di giustizia penale internazionale, il 17 luglio 1998 fu adottato a Roma lo Statuto della Corte Penale Internazionale (CPI). Lo Statuto è un accordo di 128 capitoli, corredato dagli Elementi dei crimini, in cui sono elencate le competenze della Corte, e dal Regolamento di procedura e prova. A maggio 2016, 124 Stati sono parti dello - su iniziativa motu proprio del Procuratore, che può iniziare delle indagini in base a informazioni relative ai crimini di competenza della Corte, acquisite direttamente o tramite segnalazione di altri enti. E il caso dell'Afghanistan, Iraq, Colombia, Kenya, Georgia ... Una volta attivata la competenza, il Procuratore effettua una valutazione preliminare, all'esito della quale apre un'indagine se esiste un ragionevole fondamento per esercitare l'azione giudiziaria. Durante la prima fase, egli deve vedere se la Corte ha giurisdizione in materia, se il caso è ammissibile sulla base dell'art.17, o se vi sono motivi gravi di ritenere che un'inchiesta non favorirebbe gli interessi della giustizia. Se il Procuratore ritiene che non vi sia un ragionevole fondamento per procedere, informa gli interessati (es. Honduras, 2015). Se, al contrario, ritiene che tale fondamento sussista, allora vengono avviate le indagini. Una volta avviata l'indagine, a ciascuna corrisponde una situazione riferita ad un territorio sul quale si ritiene che siano stati commessi crimini di competenza della CPI. Nel caso in cui avesse agito motu proprio, il Procuratore deve chiedere l'autorizzazione alla Camera preliminare per avviare le indagini, che può essere respinta. Il principio di complementarità In ogni fase è fondamentale valutare la procedibilità del caso, che traduce in termini procedurali quel principio di complementarità che è il vero e proprio criterio che caratterizza il sistema CPI per ciò che riguarda la concorrenza tra la giurisdizione della Corte e le giurisdizioni nazionali competenti. In base a tale principio, spetta in primo luogo allo Stato che ha giurisdizione esercitare l'azione penale sui responsabili; solo se ricorrono le condizioni di cui l'art.17, allora la competenza spetta alla Corte, cioè quando lo Stato di dimostra incapace o non intenzionato a procedere correttamente nei confronti della persona interessata. Nello specifico, l'art.17 p.1 prevede che un caso sia improcedibile per la Corte nei casi in cui: - Lo Stato stia già investigando; può intervenire se lo Stato non è intenzionato a cominciarle o a svolgerle correttamente per mancanza di volontà o di capacità. - Lo Stato abbia deciso di non procedere in seguito a indagini; - La persona sia già stata giudicata; l'unica deroga riguarda il caso in cui una persona possa essere giudicata una seconda volta dalla CPI se il processo non è stato condotto in modo imparziale e indipendente, nel rispetto delle garanzie di un equo processo. - Il fatto non sia di gravità sufficiente da giustificare l'intervento della CPI. Il difetto di volontà dello Stato è considerato in termini di ritardi ingiustificati, parzialità o non indipendenza del processo allo scopo di proteggere la persona accusata, mentre l'incapacità viene vista come l'indisponibilità del sistema giudiziario, la mancanza di risorse, professionalità umane e finanziarie e di norme procedurali che permettano di adempiere agli obblighi. Dovendosi affidare alla cooperazione degli Stati, possono crearsi situazioni di cortocircuito tra politica e diritto (es. polizia deve raccogliere prove per il Procuratore nei confronti del proprio Capo dello Stato). Risulta quindi di fondamentale importanza il dialogo nella fase preliminare, per assicurarsi la capacità/volontà dello Stato a procedere con l'investigazione. AI fine di accertare la competenza della Corte, il Procuratore deve sempre effettuare delle valutazioni, anche quando è lo Stato stesso a segnalare alla Corte la commissione di illeciti sul proprio territorio (self-referral): il self- referral indica in modo più o meno generico le ragioni che giustificano l'ammissibilità del caso dinanzi alla CPI e non allo Stato. Ai sensi dell'art.19, la valutazione sulla competenza della Corte può essere anche promossa d'ufficio nel caso in cui nello Stato investigato si manifestino nuovi fatti che vanno a modificare il criterio di complementarità. Nella seconda fase, quella dell'investigation, l'accertamento della competenza avviene mediante un processo formale di natura incidentale rispetto alle indagini in corso, e si conclude con una decisione della Camera preliminare. Gli obblighi di cooperazione e l'esecuzione delle sentenze Per quanto riguarda gli obblighi di cooperazione degli Stati verso la CPI, è fondamentale riconoscere la loro importanza per il funzionamento della Corte, l'efficacia delle indagini e delle azioni penali. Nella parte IX dello Statuto viene disciplinato questo rapporto: le richieste di cooperazione sono trasmesse dalla CPI per via diplomatica o mediante ogni altro canale scelto dallo Stato; la richiesta più significativa è quella di arresto e consegna di una persona ricercata, e viene indirizzata ad ogni Stato in cui potrebbe trovarsi la persona assieme alla documentazione giustificativa. Altre forme di cooperazione sono la raccolta di prove, interrogatori, identificazione di persone, perquisizioni... Come detto, in caso di mancata cooperazione, la CPI può deferire lo Stato al CDS o all'Assemblea degli Stati parte (ASP). Inoltre, gli Stati non parte possono essere invitati dalla Corte a prestare assistenza sulla base di un'intesa ad hoc o di un accordo: se però lo Stato si rende inadempiente, la Corte può informare l'ASP o il CDS. L'obbligo di cooperazione con la CPI implica anche il dovuto adeguamento della legislazione internazionale in modo che lo Stato sia sempre in grado di esercitare l'azione penale nei confronti dei responsabili: inoltre, se l'ordinamento interno è conforme al DI, lo Stato potrà ricevere i casi di fronte alla giurisdizione nazionale senza doversi rivolgere alla CPI. La pena applicabile dalla CPI è quella detentiva fino a 30 anni, o in caso di estrema gravità del crimine, l'ergastolo: vengono scontate in uno Stato designato che abbia precedentemente segnalato la propria disponibilità, ma rimane sempre sotto il controllo della Corte; se nessuno Stato fosse disponibile, la pena verrebbe scontata presso un penitenziario nei Paesi Bassi. Altri tribunali a carattere internazionale | tribunali di terza generazione sono così definiti per la loro origine ibrida: sebbene tutti molto diversi fra loro, hanno in tratto comune di internazionalizzare la funzione giurisdizionale penale dello Stato interessato in modo più o meno rilevante. L'internazionalità può trovarsi nella composizione dei giudici, nella struttura o nell'azione. Il Tribunale speciale per la Sierra Leone (SCSL), che ha completato il suo mandato nel 2013, ed è stato sostituito per le sue residuali funzioni da un meccanismo chiamato Residual SCSL, per garantire la protezione dei testimoni, supervisionare l'esecuzione delle condanne e conservare gli archivi. Fu istituito nel 2002 da un Accordo tra ONU e SL per giudicare i maggiori responsabili per i crimini commessi sul territorio dopo il 1996, con sede a Freetown in SL, ma esercitò le sue funzioni provvisorie a L'Aja. Il SCSL ha competenza sui crimini contr l'umanità, sulle gravi violazioni dell'art.3 comune alle Convenzioni del 1949 riguardo la protezione dei civili, su ogni altra violazione del DI umanitario e sui crimini previsti dal diritto interno della SL, e non era possibile invocare l'immunità; inoltre, come il TPIY era improntato alla primazia e non alla complementarietà. Aveva composizione mista (giudici del SL e altri nominati dal Segretario Generale), oltre che essere interamente finanziata da contributi volontari di donatori internazionali. Il SCSL ha processato i membri di vari gruppi organizzati parti del conflitto, e l'allora Presidente della Liberia accusato di alimentare il conflitto per appropriarsi delle risorse finanziando i gruppi belligeranti. Il Tribunale speciale per il Libano (STL), che fu richiesto nel 2005 dopo un attentato all'ex Primo Ministro Hariri, per indagare sui sanguinosi fatti. L'ONU autorizzò la creazione dell'STL nel 2007, allegando alla Risoluzione sia l'Accordo mai ratificato tra ONU e Libano, che lo Statuto del Tribunale. Ha sede a L'Aja e ha iniziato a operare dal 2009. Gli organi hanno composizione mista, ha la primazia sulla concorrente giurisdizione ed è chiamato a indagare, oltre che sull'attentato ad Hariri, su ogni altro attentato compiuto tra il 2004 e il 2005. L'STL può procedere anche in contumacia, applica il diritto interno previa conformità ai più elevati standard di procedura penale internazionale (la pena di morte e i lavori forzati sono disapplicate). Nel 2011, l'STL dichiarò il terrorismo come un crimine internazionale, trovando nel DI consuetudinario tre elementi costitutivi: la commissione di un atto criminale, con l'intenzione di diffondere terrore, e la presenza di un elemento transnazionale. Le Extraordinary African Chambers (EAC), istituite all'interno dell'ordinamento giudiziario del Senegal per punire l'ex Presidente del Chad Habrè per i crimini internazionali commessi dal 1982 al 1990. Dopo il colpo di Stato del 1990, Habrè si rifugiò in Senegal e molti stati chiesero al Senegal di processarlo o estradarlo; nel 2012 la CIG confermò la sussistenza di tale obbligo, per cui i Senegal stipulò con l'UA un Accordo istitutivo delle quattro EAC. Hanno competenza nei confronti dei maggiori responsabili dei crimini e delle altre gravi violazioni del DI e dei trattati firmati dal Chad (genocidio, crimini contro l'umanità, crimini di guerra e tortura). Viene negata l'immunità anche in questo caso e le eventuali amnistie concesse diventano prive di effetti giuridici. | giudici sono senegalesi, nominati dal Presidente dell'UA; il diritto applicabile è quello internazionale. Nel 2015 Habrè fu condannato all'ergastolo in primo grado. Le Extraordinary Chambers in the Courts of Cambodia (ECCC), costituite all'interno del sistema giudiziario della Cambogia per processare i responsabili dei crimini commessi tra il 1975 e il 1979 durante il governo dei Khmer Rossi. Non riuscendo l'ONU a stipulare un accordo sulla falsariga di quello per la SL, a causa della resistenza della società, si optò per un tribunale interno ma supportato internazionalmente (2003). Hanno competenza nei confronti dei senior leaders dei Khmer Rossi e dei maggiori responsabili dei crimini, sui crimini di genocidio, crimini contro l'umanità, violazioni delle Convenzioni e i crimini del diritto penale interno. Gli organi dell'ECCC sono: - Pre-Trial Chamber (3 giudici cambogiani e due stranieri) - Trial Chamber (3 giudici cambogiani e due stranieri) - Supreme Court Chamber (organo di appello, 4 giudici cambogiani e 3 stranieri) L'azione penale è svolta da due Procuratori in modo congiunto, e da due Giudici istruttori, in entrambi i casi uno cambogiano e uno straniero. La Special Criminal Court in the Central African Republic, non ancora nata, che avrà competenza sui crimini non sufficientemente gravi da rientrare nella competenza della CPI. Il suo carattere ibrido sarà dato dai finanziamenti stranieri, parte dei suoi giudici saranno stranieri, riceverà assistenza dall'ONU e si applicherà il diritto internazionale oltre a quello interno. La sua nascita è stata decretata da una legge adottata dal Parlamento presenti (i c.d. Stati firmatari originari che, però, sono in effetti 51, includendovi anche la Polonia). La Carta entrò in vigore ed entro il 27 dicembre dello stesso anno. Acquisto e perdita dello status di membro dell’ONU. Emendamento e revisione della Carta Per tutti gli altri Stati, non invitati a San Francisco, non originari (fondatori) della Carta dell'ONU, l'ammissione implica una richiesta dello Stato candidato (indirizzata al Segretario generale contenente l'accettazione degli obblighi della Carta) ed una accettazione dell'Organizzazione, previa verifica dei requisiti richiesti. L'ammissione quale Membro delle Nazioni Unite di uno Stato che adempia a tali condizioni è effettuata con decisione dell'Assemblea Generale su proposta del Consiglio di Sicurezza. Dunque, in concreto, è il Consiglio di Sicurezza ad esaminare lo Stato candidato e poi a proporlo, con propria raccomandazione, all'AG per l'ulteriore e successiva sua deliberazione; in caso il Consiglio non esprima parere favorevole all'ammissione, l'AG non può deliberare, ma può solo invitare il Consiglio a riconsiderare favorevolmente la richiesta dello Stato candidato. Una volta membro lo Stato può essere sospeso (in tutto o in parte) dall'esercizio dei diritti, espulso o può recedere. La sospensione della qualità di membro significa l'impossibilità temporanea di esercitare i diritti connessi allo status ma non la perdita della loro titolarità (come, invece, accade in caso di espulsione o recesso). La sospensione totale viene comminata (su proposta del Consiglio) dall'AG a maggioranza dei due terzi dei membri presenti e votanti, mentre le astensioni non sono computate nel quorum. La sospensione parziale, invece, è prevista per lo Stato che sia in arretrato nel pagamento dei suoi contributi finanziari all'Organizzazione per i due anni precedenti (salvo che il mancato pagamento sia imputabile a «circostanze indipendenti dalla sua volontà») e comporta solamente l'impossibilità per lo Stato di votare in seno all'AG. L'espulsione comporta la perdita dello status di membro (ad oggi, nessuno è mai stato espulso). Essa viene comminata, sempre dall'AG e sempre su proposta del Consiglio (con il voto favorevole di tutti i membri permanenti), in caso di persistente violazione dei principi della Carta. Il recesso non è espressamente previsto dalla Carta. Si ritiene in dottrina, anche sulla base dei lavori preparatori della Carta, che il recesso possa avvenire legittimamente solo in circostanze eccezionali e/o in caso di mutamento fondamentale delle circostanze (clausola rebus sic stantibus); fuori da queste ipotesi, quindi, uno Stato non potrebbe legittimamente recedere dall'ONU. Oltre allo status di membro vi è la possibilità per uno Stato (ma anche per Organizzazioni internazionali e altri enti) di acquisire, per concessione dell'AG, lo status di osservatore permanente. Esso, pur non comportando il diritto di voto in AG, consente comunque di partecipare attivamente ai lavori dell'organo plenario alle cui riunioni l'osservatore partecipa (sono osservatori permanenti lo Stato Città del Vaticano, la CE, la Lega Araba ecc.). Con riguardo alla Carta, essa stabilisce la prevalenza degli obblighi ivi sanciti su qualunque altro obbligo internazionale assunto dallo Stato membro: gli obblighi previsti in una risoluzione del Consiglio, quindi, prevalgono sui diversi ed incompatibili obblighi internazionali già assunti dallo Stato membro. Gli obblighi internazionali incompatibili con quelli della Carta sono generalmente considerati inapplicabili e non validi. Si distinguano poi l'ipotesi dell'emendamento da quella della revisione: in linea di principio, gli emendamenti implicano modifiche minori, meno importanti rispetto a quelle che deriverebbero da una revisione del trattato. Vero è che, in concreto, anche un emendamento può comportare conseguenze giuridiche di notevole portata, così come, al contrario, una revisione può determinare mutamenti non altrettanto significativi: in tale ottica, quindi, la distinzione non va certamente esagerata (tanto che la dottrina non esita a definirla «labile»). È altrettanto vero, però, che la distinzione non può essere negata e che le procedure di emendamento e di revisione sono differenti. L’Assemblea Generale L'AG è l'unico organo plenario (dove, cioè, siedono tutti gli Stati membri) dell'ONU. Basta essere ammessi come membri all'ONU per avere anche un seggio e un voto (uguale per tutti gli Stati). L'AG è un organo collettivo composto di Stati (gli individui che partecipano ai lavori assembleari, ovvero i delegati, sono organi degli Stati) che lavora per sessioni annuali ordinarie (che si chiudono intorno alla metà di settembre) e speciali (convocate d'urgenza di fronte a gravi crisi internazionali). Essendo organo collettivo, l'attività è imputata a tutti gli Stati membri. Un potere di carattere generale è previsto dall'art. 10, ai sensi del quale l'AG «può discutere qualsiasi questione od argomento che rientri nei fini [della Carta] o che abbia riferimento ai poteri ed alle funzioni degli organi previsti [dalla Carta]». AI potere di discutere si ricollega il potere, altrettanto generale, di fare raccomandazioni sia agli Stati membri che al Consiglio di Sicurezza «su qualsiasi di tali questioni od argomenti». Particolarmente importante è il potere previsto dall'art. 17 di “esaminare e approvare” il bilancio dell'ONU. È un potere di notevole rilievo non solo per l'importanza che il documento di bilancio assume in qualunque Organizzazione, ma anche per il fatto che, nell'espletamento di questa funzione, l'AG emana decisioni vincolanti (e non mere raccomandazioni) per tutti gli Stati. Infatti, dopo aver determinato la ripartizione tra gli Stati membri delle spese dell'Organizzazione (cioè la singola quota dovuta dallo Stato), AG adotta (a maggioranza di due terzi dei membri presenti e votanti) con decisione il relativo atto (che vincola anche gli Stati che abbiano votato contro). Il Consiglio di Sicurezza, il diritto di veto e i propositi di riforma Il compito principale del Consiglio di Sicurezza è quello di regolare le controversie e le situazioni a tutela della Pace e della sicurezza internazionale quando minacciate o violate. Il privilegio che si auto-attribuirono i membri permanenti (cioè il potere giuridico di porre il veto sulle decisioni dell'organo) si poteva, al limite, giustificare politicamente (come «contraltare» per l'assunzione della gravosa responsabilità di mantenere la pace e la sicurezza internazionale) e giuridicamente (come un dovere di voto; l'art.24, infatti, definisce proprio un «dovere» del Consiglio quello di mantenere la pace e la sicurezza internazionale). Purtroppo, però, dal 1945 ad oggi, il diritto di veto è stato quasi sempre utilizzato a tutela dell'interesse individuale del singolo membro permanente. Il veto è oggetto di numerose proposte di riforma (da parte, ovviamente, di chi non lo ha!) in senso limitativo o abolitivo. Tra le molte, di particolare interesse e fattibilità (perché non richiede un emendamento formale della Carta e non introduce vincoli giuridici) è la proposta di motivare il veto da parte del membro permanente Uno Stato non membro del Consiglio «può partecipare, senza diritto di voto, alla discussione di qualsiasi questione sottoposta al Consiglio di Sicurezza, ogniqualvolta quest'ultimo ritenga che gli interessi di tale Membro siano particolarmente coinvolti». Inoltre, uno Stato non membro del Consiglio (e anche uno Stato non membro dell'ONU), se parte ad una controversia all'esame del Consiglio, «sarà invitato a partecipare, senza diritto di voto, alla discussione relativa alla controversia». Fermo restando che lo Stato non membro non ha mai il diritto di votare, sembra che nel primo caso il Consiglio abbia la facoltà di invitare lo Stato non membro, mentre nel secondo caso abbia l'obbligo di integrare il contraddittorio con lo Stato non membro. Anche la composizione del Consiglio è oggetto di numerose proposte di riforma. Dal 1965, il Consiglio si compone di 15 membri. | 10 membri non permanenti siedono in Consiglio per due anni (senza possibilità di immediata rielezione). Spetta all'AG eleggere, con voto segreto a maggioranza dei due terzi presenti e votanti, i membri non permanenti (ogni anno, l'AG elegge 5 Stati in modo da garantire un ricambio progressivo) tenendo conto, in primo luogo del «contributo» dello Stato al mantenimento della pace e della sicurezza internazionale (e degli altri scopi dell'Organizzazione) e, inoltre, del criterio dell'equa distribuzione geografica. Per concludere l'esame del Consiglio, resta da evidenziare come anche quest'organo, come ogni altro organo principale dell'ONU, abbia il potere di istituire organi sussidiari che ritenga necessari per l'adempimento delle sue funzioni. A questo potere il Consiglio ha fatto notevole ricorso negli ultimi anni, suscitando talvolta (come nel caso dell'istituzione dei Tribunali penali internazionali) accesi dibattiti in dottrina e tra gli Stati. Il Segretariato, PECOSOC e le Agenzie specializzate Il Segretariato è uno degli organi principali dell'ONU il quale svolge e ne garantisce l'azione amministrativa. Il Segretariato è l'organo di vertice dell'intero apparato amministrativo della struttura; esso è pari ordinato (e non subordinato) agli altri organi dell'Organizzazione. A capo del Segretariato vi è il Segretario Generale che nella sua qualità di più alto funzionario amministrativo dell'Organizzazione svolge sia funzioni amministrative che funzioni politiche diplomatiche. Egli è nominato dall'Assemblea Generale su proposta del Consiglio di Sicurezza. La Carta non dispone nulla circa la durata del mandato, né circa la rielezione del Segretario: la prassi del Consiglio e dell'AG ha fatto sì che la rielezione sia possibile (tranne in un caso, tutti i Segretari Generali hanno infatti ricoperto un doppio mandato) e che la durata del mandato sia tendenzialmente di cinque anni. Tra le funzioni amministrative, il Segretario nomina il personale dell'Organizzazione, a lui sottoposto gerarchicamente e soggetto al suo potere disciplinare. Egli ha competenza nella preparazione dei lavori e nell'attuazione delle decisioni degli altri organi dell'ONU. Infatti, il Segretario Generale agisce in tale qualità in tutte le riunioni dell'Assemblea Generale, del Consiglio di Sicurezza, del Consiglio Economico e Sociale, del Consiglio di Amministrazione fiduciaria, ed esplica altresì quelle altre funzioni che gli siano affidate da tali organi. In tema di funzioni politiche, egli riceve deleghe molto ampie dagli altri organi dell'Onu: egli è perciò in grado di sviluppare un'articolata capacità politico-diplomatica di intervento e mediazione. Anche la funzione che il Segretario Generale svolge nell'ambito del peace- strettamente necessarie in rapporto alla situazione; b) le misure non devono essere incompatibili con gli altri obblighi imposti agli Stati medesimi dal diritto internazionale. In alcuni articoli è prevista comunque la possibilità di limitare il godimento dei diritti sanciti dal Patto per altre ragioni, ormai abbastanza tipizzate negli strumenti internazionali, quali «quelle stabilite dalla legge e che siano necessarie in una società democratica, nell'interesse della sicurezza nazionale, della sicurezza pubblica, dell'ordine pubblico, o per tutelare la sanità e la morale pubblica o gli altrui diritti e libertà». Questo secondo ordine di limitazioni, a differenza delle deroghe indicate è invece soggetto al controllo di legittimità da parte dell'organo di controllo del Patto sui diritti civili e politici, vale a dire del Comitato dei diritti dell'uomo. Il compito del Comitato (composto da 18 membri eletti a scrutinio segreto e a titolo individuale dagli Stati parti al Patto) è di controllare il rispetto del Patto da parte degli Stati. Il Patto prevede due diverse procedure di controllo: a) la presentazione, da parte degli Stati al Comitato per il tramite del Segretario Generale, di «rapporti sulle misure che essi hanno adottato per dare attuazione ai diritti riconosciuti nel presente Patto, nonché sui progressi compiuti nel godimento di tali diritti; b) la presentazione di una comunicazione da parte di uno Stato membro che denuncia al Comitato l'inadempimento degli obblighi pattizi da parte di un altro Stato membro. Un altro meccanismo di controllo sul rispetto del Patto è, poi, previsto dall'allegato Protocollo opzionale; gli Stati che decidono di divenire parti al Protocollo, riconoscono la competenza del Comitato a ricevere e esaminare comunicazioni da individui soggetti alle proprie giurisdizioni che rivendicano di essere vittime di una violazione da parte dello Stato membro di uno dei diritti elencati nel Patto. Il Patto sui diritti economici, sociali e culturali del 1966 (31 articoli) si distingue dal Patto «gemello» sui diritti civili e politici essenzialmente per due aspetti: a) enuncia diritti legati alla sfera economica, sociale e culturale del singolo che, come tali, richiedono una realizzazione più in chiave collettiva che individuale; b) stabilisce un diverso sistema di controllo sul rispetto degli obblighi pattizi da parte degli Stati (di recente, però, queste differenze sono praticamente scomparse). Per ciò che riguarda i meccanismi di controllo, due significative e più recenti novità hanno praticamente eliminato le differenze tra i due sistemi di controllo dei Patti. In primo luogo, nel 1985 l'ECOSOC ha istituito il Comitato delle Nazioni Unite per i diritti economici, sociali e culturali, incaricato (come l'omologo Comitato operante all'interno del Patto sui diritti civili e politici) di ricevere, esaminare e formulare pareri sui rapporti presentati dagli Stati (procedura, poteri e composizione del nuovo Comitato sono uguali a quelli dell'altro Comitato). In secondo luogo, poi, nel 2008 l'AG ha adottato il Protocollo opzionale al Patto sui diritti economici, sociali e culturali che ha introdotto anche per questo Patto la procedura delle comunicazioni individuali e quella delle comunicazioni interstatali. Il Consiglio per i diritti umani Nel febbraio 1946 l'ECOSOC istituì la Commissione per i diritti umani. Essendo composta da Stati, la politicizzazione dei lavori della Commissione fu praticamente inevitabile. Il fatto che, talvolta, questa situazione impedisse o ritardasse i lavori della Commissione, unita ad alcune inefficienze nell'attuazione delle procedure di controllo, ha attirato, nel corso degli ultimi anni, critiche sempre più forti nei confronti della Commissione al punto che, dopo un lungo e articolato dibattito sulla riforma di questo organo, si è deciso di istituire, in sua sostituzione, il Consiglio per i diritti umani (Human Rights Council), organo sussidiario (con sede a Ginevra) dell'AG e non, come era la Commissione, dell'ECOSOC. Il Consiglio dei diritti umani ha come scopo principale quello di promuovere il rispetto universale per la protezione dei diritti umani. Numerosi altri compiti sono affidati al nuovo organo, tra i quali spiccano: 1) quello di occuparsi delle violazioni dei diritti umani, incluse quelle di carattere grave e sistematico, facendo le opportune raccomandazioni (decisioni non vincolanti); 2) quello di assumere, rivedere e, se necessario, migliorare il meccanismo della precedente Commissione, mantenendo comunque in vita la tripartizione tra procedure speciali, pareri e comunicazioni; 3) svolgere “l'universal periodic review’ (UPR) nei confronti degli Stati. Lo HRC (Consiglio dei diritti umani) si compone di 47 Stati, eletti a scrutinio segreto e a maggioranza semplice dall'AG per un triennio (è vietata l'immediata rielezione solo dopo due mandati). Nella scelta dei membri dello HRC l'AG dovrà tenere conto del contributo dei candidati alla promozione e protezione dei diritti umani, degli impegni e delle promesse da essi volontariamente assunti e del criterio dell'equa distribuzione geografica. L'UPR (uno dei nuovi e fondamentali compiti del Consiglio), consiste nell'ambizioso progetto di sottoporre, ogni 4 anni al ritmo di 48 Stati ogni anno (a partire dal 2008), tutti gli Stati membri dell'ONU ad un esame (tra Stato esaminato e HRC) allo scopo di migliorare e promuovere la tutela dei diritti umani ad ogni livello ed in ogni Stato. La review del singolo Stato è condotta da un apposito Universal Periodic Review Working Group composto dai 47 Stati membri del Consiglio (ma qualunque Stato membro dell'ONU può intervenire e partecipare al dialogo con lo Stato esaminato) e coadiuvato da una troika (significa triunvirato) di tre Stati che fungono da relatori. Il meccanismo della review è quello del dialogo cooperativo e interattivo tra Stato esaminato e Consiglio. L'oggetto della review è il rispetto della Carta dell'ONU, della Dichiarazione universale del 1948, dei trattati sui diritti umani ai quali lo Stato è parte, del diritto internazionale umanitario e degli impegni e delle promesse volontariamente assunti. Una volta completata la review, la troika prepara il report (contenente le raccomandazioni dirette allo Stato che questo può accettare o rifiutare). Lo Stato ha la responsabilità di dare esecuzione alle raccomandazioni del report e nella successiva review, dopo 4 anni, anche questo aspetto sarà oggetto di controllo e dialogo. In caso di mancata cooperazione, lo HRC può segnalare la situazione dello Stato e, se l'ostruzionismo persiste, può anche decidere misure nei suoi confronti. La protezione dei diritti umani nel sistema della CEDU L'Europa è certamente tra le aree geografiche che, a livello mondiale, offre il più elevato standard di tutela dei diritti umani. Non è un caso, quindi, che molti tra gli strumenti ed i meccanismi internazionali più articolati ed evoluti siano nati ed operino in questo Continente. Tra questi, spicca innanzitutto la Convenzione di Roma del 1950. Questo trattato internazionale trova origine in seno al Consiglio d'Europa, un'Organizzazione internazionale istituita a Londra nel 1949 (la sede, però, è a Strasburgo in Francia). Gli organi del Consiglio d'Europa (in particolare, il Comitato dei Ministri) da subito cominciarono ad elaborare un progetto di convenzione per la tutela dei diritti umani e nel novembre del 1950 a Roma fu firmata la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali. Essa enuncia e garantisce un'ampia gamma di diritti e libertà fondamentali dell'individuo. Per garantire un'effettiva attuazione e tutela dei diritti e delle libertà sancite, la Convenzione prevede la creazione di una Corte europea dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) chiamata a controllare il rispetto della Convenzione da parte degli Stati membri mediante la procedura di ricorso interstatale e la procedura di ricorso individuale. La competenza automatica ed obbligatoria della CEDU (anche per i ricorsi degli individui contro gli Stati), comporta che per l'instaurazione del procedimento e della competenza della CEDU, vale una volta per tutte il consenso manifestato dallo Stato al momento della ratifica della Convenzione. Il testo originario della Convenzione è stato modificato da ben 16 Protocolli, molti dei quali non più in vigore o perché le modifiche da questi introdotte sono state recepite direttamente nel testo della Convenzione, o perché le loro previsioni sono state superate dalla successiva, profonda riforma del sistema introdotta, nel 1998, dal Protocollo n.11. La modifica strutturale più evidente introdotta da questo Protocollo consiste nella scomparsa dell'originario sistema dualistico di controllo della Convenzione imperniato sulla CEDU e sulla Commissione europea dei diritti dell'uomo. Il controllo della Corte di Strasburgo sul rispetto da parte degli Stati membri della Convenzione e dei Protocolli può attivarsi mediante ricorso interstatale o individuale. |l ricorso interstatale comporta la possibilità per uno Stato membro di deferire alla Corte la violazione commessa da un altro Stato membro. Sebbene il ricorso sia stato talvolta usato per fini strumentali di natura politica, questa facoltà è attribuita agli Stati parti in funzione dell'interesse oggettivo alla tutela dei diritti umani previsti dal sistema di Strasburgo. Gli Stati, secondo quanto stabiliti dalla Convenzione, si impegnano a conformarsi alle sentenze definitive della Corte sulle controversie nelle quali sono parti; quindi lo Stato deve fare tutto ciò che è necessario per eliminare la violazione e ripristinare la piena conformità del proprio ordinamento interno alle previsioni della Convenzione. Ciò significa che qualunque provvedimento dello Stato lesivo della Convenzione dovrà essere modificato o, se necessario, abrogato affinché la conformità (e quindi il rispetto degli obblighi internazionali assunti) sia ripristinata. | giudici nazionali non potranno considerare le sentenze di Strasburgo come meri «suggerimenti» ma come indicazioni vincolanti, anche per le questioni interpretative. Si tenga, comunque, presente che la reiterata e persistente violazione degli obblighi previsti dalla Convenzione e, più in generale, dello Statuto del Consiglio d'Europa può legittimare il Comitato dei Ministri a sospendere e, nel caso, ad espellere lo Stato dall'Organizzazione. Applicazione extraterritoriale dei trattati in materia di diritti umani Lo stato esercita la sua potestà di imperio anche oltre i confini territoriali cioè in territorio straniero o negli spazi di nessuno. In questi casi di esercizio extraterritoriale della potestà di imperio ci si pone la domanda se sulla base di alcuni requisiti (nazionalità attiva, personalità passiva, universalità, bandiera, ecc..) si possa accertare la sussistenza della giurisdizione dello stato e di sancire anche l'applicazione del diritto interno ed internazionale. In questi ci si basa sul principio “la legge segue la bandiera”, cioè il diritto istantanei, che implicavano un contatto troppo episodico tra Stato e individuo per permettere alla persona di restare assoggettata al suo controllo e alla sua autorità, ritenuti non sufficientemente lunghi. CASO BANKOVIC (2001): viene respinto il ricorso dei familiari delle vittime dei bombardamenti della NATO su Belgrado, con cui si richiedevano il riconoscimento su base personale della giurisdizione extraterritoriale degli Stati NATO anche parte della CEDU, in ragione del controllo effettivo esercitato mediante i bombardamenti. La Corte però non accettò che la mera uccisione facesse di quella vittima anche una persona sotto la giurisdizione dello Stato agente, perché avrebbe compreso ogni singola persona colpita da un atto imputabile allo Stato CEDU. La sentenza fece molto discutere per l'approccio restrittivo impiegato, permettendo così agli Stati colpevoli dei bombardamenti e delle relative vittime di non rispondere delle gravi violazioni. Ulteriori critiche sorsero in seguito alla successiva giurisprudenza della Corte (Caso Issa vs Turkey, 2004 / Caso Mansur Pad vs Turkey, 2007: si tratta di due cittadini di Iraq e Iran uccisi da forze armate turche). In questi casi, la Corte ritenne che la CEDU fosse applicabile anche al di fuori degli Stati parte, oltre che la Turchia avesse giurisprudenza, nonostante il caso fosse identico a Bankovic. Applicazione extraterritoriale della CEDU in Iraq Fino a luglio 2011, la giurisprudenza europea sanciva l'applicazione della CEDU solo negli spazi protetti (prigioni e basi militari), che erano assoggettati al controllo esclusivo e totale dello Stato parte: fuori da quegli spazi, il modello territoriale non poteva applicarsi per mancanza di controllo effettivo. Questa impostazione si scontrava con la giurisprudenza americana, che tiene in considerazione anche delle circostanze, permettendo così al giudice di astenersi dal sindacare l'azione dell'Esecutivo quando il Presidente è in guerra a difesa della Nazione e di ostacolare lo sforzo bellico con indagini giudiziarie. Tuttavia, a luglio 2011 la Corte decise di applicare la CEDU anche alle violazioni commesse fuori da quegli spazi (Caso Al-Skeini, in cui 4 civili morirono durante operazioni di controllo effettuate dalle forze armate britanniche, uno annegato in un fiume per punizione, e uno morì all'interno di una base militare britannica): utilizzando il modello personale, la Corte ritenne che UK esercitava alcuni poteri pubblici normalmente esercitati da un Governo sovrano, per cui le vittime irakene ricadevano sotto la sua giurisdizione. La Corte non ricondusse le vittime sotto l'autorità e il controllo delle forze britanniche in forza del controllo prolungato, perché ciò avrebbe smentito la sentenza Bankovic. Le conseguenze sono rilevanti. - La CEDU può essere applicata alle situazioni di combattimento: l'esistenza della combatant immunity viene quindi valutata alla luce della CEDU, e aumenta il novero di situazioni passibili di risarcimento rispetto a quanto previsto dal diritto umanitario. - Gli stessi soldati britannici hanno richiesto al proprio Ministero della Difesa il risarcimento dei danni subiti per violazione della CEDU (es. violazione del diritto alla vita causata da equipaggiamenti non adeguati ai rischi). Da un punto di vista giuridico viene criticata l'applicazione della CEDU alle forze armate e della responsabilità civilistica alle fast moving combat situations: l'attitudine della Corte viene definito come una forma di imperialismo giudiziario, per cui le truppe militari vengono messe agli stessi livelli degli ufficiali di polizia. Il problema degli eccessivi ricorsi viene risolti ammettendo una deroga all'applicabilità della CEDU nel caso di conflitti armati, in modo da applicare solamente il diritto umanitario. Da un punto di vista politico, invece, l'accesso più difficile alla Corte in seguito all'emendamento del 2012 rappresenta una reazione inglese a questo orientamento della Corte. La Corte di Strasburgo continua a non ricollegare la giurisdizione extraterritoriale al mero power to kill, come enunciato nella sentenza Bankovic. Nonostante ciò, gli atti sprovvisti di copertura giurisdizionale sono sempre meno, a causa dello sviluppo della giurisprudenza: l'esercizio dei poteri pubblici e il criterio dell'autorità e controllo fisico (sempre più svincolato dall'elemento temporale) riconducono quasi ogni atto all'attivazione della CEDU. La High Court of Justice britannica, invece, ha superato ogni limite: una volta stabilito il principio per cui la giurisdizione dipende dall'esercizio dell'autorità e controllo fisico, allora è impossibile ritenere (come invece afferma la Corte nella sentenza Bankovic) che uccidere non implichi tale esercizio, ed è quindi impensabile distinguere tra uccidere qualcuno dopo averlo arrestato o senza arresto. Sebbene questa sentenza debba passare al vaglio delle corti superiori, il riconoscimento si svincola sempre più dal contesto e dalla durata temporale. Infine, per quanto riguarda l'applicazione della CEDU fuori dagli spazi protetti in contesti di violenza bellica e precaria sicurezza, la giurisprudenza americana attribuisce troppa importanza alle condizioni esterne (magari discriminando situazioni identiche), mentre la Corte tiene troppo poco in considerazione il contesto, trattando in maniera uguale situazioni diverse: le due posizioni non leggono la reale ed effettiva situazione che devono disciplinare. La protezione dei diritti umani nell’Unione europea Inizialmente, i Trattati istitutivi delle Comunità europee (CECA, CEE, Euratom) non facevano alcun riferimento alla tutela dei diritti umani, poiché i loro obiettivi erano principalmente economici. Solo alla fine degli anni Sessanta, con la sentenza Stauder, la Corte di Giustizia cominciò a incorporare i diritti della persona nei principi generali dell'uomo, utilizzandoli come parametro di legittimità. La loro importanza crebbe sempre più, sebbene si trattasse ancora di un settore economico; nel 1974, con la sentenza Nold, la CGUE sostenne che la ricostruzione dei diritti fondamentali era possibile traendo ispirazione dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri e ai trattati relativi alla tutela dei DU a cui gli Stati avevano aderito. Solamente nel 1992, i diritti e le libertà fondamentali furono formalmente inseriti nell’art.6 del TUE, che divenne l’art.2 dopo le modifiche del Trattato di Lisbona del 2009. L'UE si fonda dunque sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell'uguaglianza e del rispetto dei diritti umani, compresi quelli delle minoranze. Il rispetto dell'art.2 è una precondizione che gli Stati candidati devono soddisfare per essere ammessi, e la violazione dello stesso può attivare il meccanismo sanzionatorio (art.7), che può portare all'espulsione del membro nei casi più gravi. L’art. 7 disciplina due situazioni differenti: - la situazione di evidente rischio di violazione grave da parte di uno Stato membro dei valori di cui l’art.2; la constatazione spetta al CE a maggioranza dei 4/5 dei suoi membri e previa approvazione del PE; - la situazione di esistenza di una violazione grave e persistente da parte di uno Stato di tali valori; la constatazione spetta al CE all'unanimità e previa approvazione del PE. Se il Consiglio constata la violazione, esso ha il potere di sospendere alcuni dei diritti derivanti allo Stato, compresi i diritti di voto. Il richiamo alla CEDU come fonte di ispirazione è contenuto nell'art.6 p.3 TUE. L'UE in sé non è membro della CEDU, e la sua adesione potrà avvenire solamente mediante accordo internazionale. Solamente in seguito all'adesione, la Corte di Strasburgo potrà sindacare direttamente la compatibilità degli atti dell'Unione con la CEDU. Inoltre, l'interpretazione della CEDU da parte della Corte sarà vincolante per l'Unione, ma l'interpretazione della CGUE di un diritto previsto dalla CEDU non sarà vincolante per la Corte di Strasburgo; infine, l'interpretazione del diritto dell'UE e della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione da parte dalla CGUE sarà vincolante per la Corte di Strasburgo. Il percorso di adesione si profila ancora molto lungo e complesso, nonostante nel 2013 ci sia stato un progetto di accordo che ha ricevuto parere negativo dalla CGUE. Un altro strumento per la tutela dei DU è la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, o Carta di Nizza, proclamata solennemente nel 2000 ma entrata in vigore nel 2009 con il Trattato di Lisbona. L'art.6 del TUE riconosce i diritti, le libertà e i principi lì sanciti (che sono ripresi dal patrimonio culturale, politico e giuridico degli Stati membri e dell'UE). Da un esame complessivo risulta il ruolo ancillare della Carta rispetto alla CEDU e alle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, senza attribuire alcuna capacità espansiva o innovativa alla Carta: si limita solamente a garantire che l'azione dell'Unione e dei suoi membri sia rispettosa dei diritti e libertà fondamentali. Ciò nonostante, alcuni Stati come UK e Polonia hanno stipulato il Protocollo n.30, allegato ai Trattati, che condiziona l'applicazione della Carta nei loro confronti. La CGUE ha precisato che il Protocollo non esonera i due Stati dall'obbligo di rispettare le disposizioni della Carta (come invece era l'intenzione dei due membri). La protezione dei diritti umani nel continente americano Sulla falsariga europea, in America sono stati creati diversi organi per la tutela dei diritti umani. La Dichiarazione americana dei diritti e doveri dell’uomo (1948) consta di 38 articoli e fu adottata a Bogotà in Colombia nel corso della non a Conferenza internazionale americana. Sebbene non vincolante, è divenuta un punto di riferimento politico e giuridico: l'OAS (Organization of American States) ha favorito un collegamento tra le enunciazioni della Dichiarazione e quelle in materia di diritti umani contenute nella Carta istitutiva dell'OAS. L'OAS, poi, si è reso promotore della tutela dei DU attraverso l'adozione della Convenzione americana dei diritti dell’uomo (CADU), nel 1969 a San José di Costa Rica: a differenza della CEDU, però, non tutti i membri dell'OAS ma solo 23 su 35 ne sono parte. Alcuni Stati come il Canda non l'hanno neanche firmata, mentre altri, come gli USA, non l'hanno ratificata; altri ancora l'hanno denunciata, come il Venezuela. Gli art.1-2 sanciscono gli obblighi generali: gli Stati assumono l'obbligo di rispettare i diritti e le libertà sancite, garantendone a qualunque essere umano soggetto alla loro giurisdizione il pieno esercizio senza discriminazioni, e di adottare tutte le misure legislative necessarie per darvi concreta attuazione. promuovere tra i 22 membri progetti di convenzioni in materia: il primo progetto fu l'elaborazione della Carta araba dei diritti dell'uomo, approvata nel 1994 dal Consiglio della Lega araba. Le critiche alla Carta furono però molte, soprattutto da parte degli Stati islamici, per il contrasto di alcune disposizioni con la legge islamica della Sharia (nega uguaglianza tra uomo e donna, parità tra i coniugi, la libertà di religione e ammette le punizioni corporali), perciò venne riformulata. Nel 2004 fu adottato un nuovo testo, ratificato da 13 Stati: la Carta araba richiama la Dichiarazione universale del 1948, i patti del 1966, la Carta ONU e la Dichiarazione sui diritti umani nell'Islam del 1990. Gli Stati devono garantire ad ogni individuo di godere dei diritti e delle libertà sanciti dalla Carta senza discriminazioni, non ammettendo alcuna deroga in nessuna situazione ad alcuni diritti quali il diritto alla vita, il divieto di tortura, il divieto di schiavitù e il diritto ad equo processo. Il controllo viene affidato ad un Arab Human Rights Commitee, composto da 7 membri, a cui gli Stati forniscono ogni tre anni un report sulle misure adottate, il quale è poi oggetto di osservazioni e raccomandazioni. Infine, nei paesi islamici, la Carta istitutiva dell’Organizzazione della Cooperazione Islamica (OCl), emendata nel 2008, ha tra i suoi obiettivi quello di promuovere e proteggere i diritti e le libertà fondamentali, inclusi quelli di donne, bambini, giovani, anziani e disabili, sia quello di preservare i valori islamici della famiglia. Tra le iniziative, è bene ricordare l'adozione nel 1990 della Dichiarazione sui diritti umani nell'Islam, che costituisce una guida in tutti gli aspetti della vita, sebbene non sia vincolante, e che riconosce la parità tra uomo e donna (le diversità di trattamento sono legate alla diversa funzione che ognuno svolge nella società), e nel 2011 della Indipendent Permanent Human Rights Commission (IPHRC), organo composto da 18 membri con l'obiettivo di rafforzare i diritti umani e promuovere il dialogo tra civiltà, servendo gli interessi della Comunità islamica nel mondo. Quest'ultimo ha il compito anche di presentare raccomandazioni agli organi dell'OIC in materia di diritti umani, condurre ricerche, e cooperare su richiesta degli Stati alla revisione o all'adozione di meccanismi e strumenti giuridici di tutela in armonia con i valori islamici. L’obbligo di non respingimento e le assicurazioni diplomatiche. Gli status di protezione internazionale: l’asilo diplomatico e territoriale Lo stato non ha un generale obbligo di diritto internazionale circa l'ammissione degli stranieri nel proprio territorio tanto che può allontanarlo verso lo Stato di residenza o provenienza. Per cui l'ammissione, qualunque siano i suoi fini (lavoro, studio, affari), è rimessa alla discrezionalità dello Stato. Tuttavia, una serie di obblighi internazionali pone dei limiti: soprattutto dopo la WWI, è sorta una norma di protezione (divieto di respingimento) che vieta allo Stato di respingere alla propria frontiera chi vi giunga in cerca di protezione, se la persona corre il rischio di subire una grave violazione dei propri diritti fondamentali nel Paese in cui è respinta. Inizialmente era previsto solo per i richiedenti protezione aventi lo status di rifugiato, ora è applicato anche a chi ha altri status di protezione internazionale e il concetto è interpretato estensivamente. Soprattutto nel continente europeo avviene questo ampliamento della tutela, soprattutto a causa della pressione migratoria senza precedenti, in cui ritroviamo richiedenti protezione internazionale (“sfollati o displaced persons) e migranti economici. Fra la categoria delle displaced persons avviene un'ulteriore divisione a seconda dello status di protezione che gli viene attribuito: - Rifugiato, previsto dalla Convenzione di Ginevra del 1951 e fu il primo ad essere codificato. Si fonda sull'obbligo per lo Stato alla cui frontiera giunga lo straniero o l'apolide di non respingerlo. Viene definito rifugiato colui che nel giustificato timore d'essere perseguitato per la sua razza, religione, cittadinanza o appartenenza a un certo gruppo si trova fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o non vuole avvalersi della protezione dello Stato per tale timore. Una volta accolto, lo Stato ne valuterà la posizione giuridica e fattuale, e se l'elemento della persecuzione non dovesse sussistere potrà allontanarlo (es. se è un criminale o un migrante economico). Gli atti, per essere persecutori, devono essere gravi per loro frequenza e natura in modo da rappresentare una violazione dei DU: può avvenire sotto forma di violenza fisica o psichica, provvedimento, azione giudiziaria o azione penale sproporzionata o discriminatoria. Se la persecuzione sussiste, lo Stato potrà per il DI, ma dovrà per il diritto dell'Unione, concedere una protezione ampia e duratura e garantire numerosi diritti (istruzione, assistenza, lavoro...), oltre che riconoscergli i diritti legati allo stato personale (matrimonio). Il loro status viene meno nel momento in cui la persona ritorna nel Paese che aveva lasciato, ne richiede volontariamente la protezione o sono cessate le condizioni di persecuzione. - Protetto in via sussidiaria, previsto da una norma di diritto generale la cui attuazione è rimessa ai singoli Stati. Rispetto alla definizione di rifugiato, ne amplia il novero dei soggetti passibili di protezione, soprattutto in seguito a eventi precedentemente non disciplinati (es. conflitto armato o stato di caos istituzionale). In materia, "UE ha la disciplina più avanzata, contenuta nella Direttiva 2011/95: viene garantito un livello minimo di diritti e benefici come per lo status di rifugiato, ma si differenzia in tema di assistenza sociale e permesso di soggiorno. Beneficia di questo status lo straniero o apolide non definibile come rifugiato nei cui confronti sussistono fondati motivi di ritenere che, se ritornasse nel paese, correrebbe il rischio di subire un grave danno, quale la condanna o l'esecuzione della pena di morte, la tortura o ogni sorte di trattamento inumano e degradante. - Protetto in via temporanea per ragioni umanitarie, che tutela tutte le varie esigenze di protezione che non ricadono nelle previsioni tipizzate precedenti (es. catastrofi naturali, violenza endemica o violazione sistematica e generalizzata in assenza di conflitto armato). Questo status nacque negli anni Settanta (il caso più eclatante fu quello in protezione dei cambogiani che fuggivano dal regime dei Khmer Rossi) e ha trovato compiuta e attuazione solo nel diritto dell'UE. Questo status è provvisorio e meno oneroso per lo Stato. Il minimo comune denominatore è sempre l'obbligo di non respingimento alla frontiera, anche nei casi di estradizione, allontanamento o consegna ad uno Stato terzo. Ha valore extraterritoriale, cioè si applica anche in alto mare se la persona si trova sotto il controllo effettivo dello Stato. Nella prassi USA e australiana, l'obbligo viene interpretato in senso non extraterritoriale e si considera adempiuto nel caso di assicurazioni diplomatiche da parte dello Stato terzo circa la non violazione dei diritti e dell'integrità della persona. In Europa, invece, non viene attribuito alcun valore giuridico alle assicurazioni diplomatiche, per cui un trasferimento non è possibile finché non vengono presentate delle prove effettive che qualifichino lo Stato come sicuro. Uno Stato è definito sicuro se si può dimostrare che non ci siano persecuzioni, tortura o altre forme di pena o trattamento inumano. Tale nozione è applicata dalla CGUE anche al Regolamento di Dublino, che attribuisce allo Stato di primo ingresso la competenza di esaminare la domanda di protezione internazionale, per cui uno Stato secondo deve trasferire il richiedente protezione al primo Stato. Dal 2009, però, la CGUE ha sospeso i trasferimenti sulla base del Regolamento di Dublino a causa dell'incapacità greca di accoglienza ed esame delle domande di protezione, per cui non era più ritenuto uno Stato sicuro, anche a causa delle massicce migrazioni. La Corte di Strasburgo ha invece ritenuto che la deroga al trasferimento non debba essere valutata in base all'esistenza di deficit nella struttura, ma caso per caso. La protezione internazionale viene sempre concessa su base territoriale, per cui l’asilo territoriale è la protezione che lo Stato garantisce allo straniero, che differisce dall’asilo diplomatico, dove invece la protezione è garantita fuori dal territorio di rifugio (es. nelle sedi diplomatiche e consolari, nelle chiese, in conventi e templi): quest'ultimo, però, non è riconosciuto dal DI poiché la sede della missione diplomatica si trova nel territorio dello Stato che ospita la missione, non in quello di invio. Solo alcuni Stati latinoamericani attribuiscono rilevanza giuridica all'asilo diplomatico facendone derivare diritti ed obblighi tra lo Stato di invio e lo Stato ospite il cui cittadino chiede rifugio.