Scarica Riassunto di "Filosofia della cura" - Luigina Mortari e più Sbobinature in PDF di Scienze dell'educazione solo su Docsity! Filosofia della cura CAP. 1 La cura è un fenomeno essenziale e irrinunciabile ma spesso ciò che è quotidiano sfugge al pensiero e rimane sconosciuto ontologicamente: - Socrate spiega che è tratto essenziale sia dei mortali sia delle divinità. - Heidegger la definisce come la “struttura d’essere dell’esserci” o come una “fabbrica dell’essere” in quanto l’uomo diventa ciò di cui ha cura (es. la sua struttura di pensiero prende forma modellandosi sulle idee di cui ha cura). È possibile partire da una definizione generale di “cura” come di “prendersi a cuore, preoccuparsi e dedicarsi a qualcosa” e tramite un dialogo maieutico giungere ad una concettualizzazione più specifica. Le caratteristiche essenziali dell’essere umano 1. Consistenza relazionale. 2. Vulnerabilità. 3. Fragilità. 4. Mancanza d’essere. 5. Debolezza ontologica. 1. Consistenza relazionale L’impegno di cura verso se stessi non è mai sufficiente per conservare la vita e per realizzare le proprie possibilità esistentive, perchè siamo esseri relazionali ed essere nel mondo si esprime sempre nella forma di abitare uno spazio comune, dunque il vivere è sempre un convivere e non un evento solipsistico. Non siamo mai “da soli” perchè la nostra consistenza ontologica è relazionale, infatti anche nei momenti di solitudine e di intersoggettività sperimentiamo una situazione dialogica (la coscienza è il prodotto del dialogo dell’anima con se stessa) e i nostri pensieri conservano tracce dei pensieri che abbiamo costruito insieme agli altri (secondo Arendt la solitudine si distingue dall’isolamento, dove l’uomo smette di pensare e inizia il male). Questo è dimostrato da alcuni studi: - Costruttivismo: i nostro pensiero, il nostro linguaggio e i nostri significati sono co-costruiti all’interno del contesto sociale e culturale in cui siamo inseriti, i nostri modi sono espressione della comunità in cui viviamo. - Teorie dell’attaccamento: sul piano dello sviluppo psichico la relazione con l’altro è la condizione primaria dell’esserci; al momento della nascita il bambino non esiste a sè e in modo differenziato ma si identifica con chi si prende cura del suo essere (generalmente la madre). Egli possiede un’elevata competenza relazionale già dalla nascita e sviluppa un forte attaccamento nei confronti del caregiver, perchè all’inizio della vita la condizione di debolezza ontologica è alla sua massima intensità e la relazione è fondamentale per rimanere in vita e per sviluppare le modalità relazionali che poi il soggetto utilizzerà nel futuro. Questa dipendenza torna ad essere esperita intensamente nei momenti particolari della vita come la malattia e l’anzianità, ma non svanisce mai totalmente e il divenire di ognuno è sempre caratterizzato da una ricerca di relazioni significative con coloro che riescano a guardarci in modo valorizzante, che sappiano accompagnarci in un percorso di educazione, che sappiano essere “esemplari” facendoci scoprire le nostre potenzialità esistentive. L’essere umano coesiste da quando viene al mondo e quando Kant individua come categorie fondamentali del conoscere lo spazio e il tempo sta trascurando ciò che in realtà viene prima di tutto, ovvero i gesti e le parole di cura nei confronti nel nuovo che viene alla luce. Gli orientamenti a-relazionali e relazionali - Alcuni orientamenti di pensiero sono a-relazionali, atomizzati e disgiuntivi, si basano su un pensiero analitico che consiste nel frantumare la vita in parti discrete e dunque concepiscono la realtà come costituita da enti distinti e circoscritti in confini individuali, infatti l’ordine del discorso prevede di parlare prima dell’essere come unità in sè e successivamente del “con”; anche Heidegger parte da un assunto a-relazionale (l’originarietà dell’esserci) per poi parlare del con-essere. Questa ontologia a-relazionale inquina anche il discorso Dato che questi beni sono così vulnerabili e precari, nella nostra società si preferisce investire nella produzione di cose che possano perdurare nel tempo e anche andare oltre la finitezza umana. 3. Fragilità Siamo fragili perchè, come spiega Heidegger, veniamo al mondo indipendentemente da una nostra decisione e vi veniamo “gettati” senza avere sovranità sul nostro fluire nel tempo (infatti avvertiamo costantemente che il nostro essere potrebbe venire meno in un momento indefinito e questo pensiero ci provoca angoscia). Tutta la nostra vita è accompagnata dalla consapevolezza dell’enigmaticità del nostro inizio e della nostra fine: non abbiamo il potere di passare dal niente all’essere e non abbiamo conoscenza di quando passeremo dall’essere al niente, siamo consapevoli della nostra finitezza e del poter venir meno dell’esistenza senza un nostro progetto. Nella nostra cultura si insegna da subito che il valore più grande è la libertà, ma di fatto la nostra stessa esistenza inizia a causa di una decisione non libera e per tutto il nostro tempo siamo costretti a confrontarci con eventi che non dipendono da noi. Talvolta percepiamo l’abisso del nulla anche nel pieno del nostro essere, a causa di una forte sofferenza o di una perdita di ciò che ha valore che sembra nullificare la nostra vita ma non ci libera dall’essere sensibile. La consapevolezza della nostra mancanza di sovranità sull’esistenza è presente già dall’antichità, infatti gli eroi delle tragedie greche sono completamente in balia degli eventi, soggetti a forze esterne e ad un destino sul quale non possono intervenire. La fragilità nel tempo Il tempo è talmente importante che la capacità di costruirsene un’idea e non vivere più senza criterio è ciò che segna il passaggio dalla condizione animale a quella umana. Tuttavia siamo fragili anche sul piano temporale, perchè il nostro essere è puntiforme, non raggiungiamo mai una forma definitiva, viviamo in un divenire che è privo di una destinazione intrinseca e già assegnata, le forme che assumiamo sono sempre provvisorie e destinate ad essere superate, quando si porta avanti il compito dell’esistere ogni acquisizione rischia di essere persa (es. le competenze se smettono di essere esercitate vengono perse). L’essere umano si trova sempre in un’oscillazione tra essere e nulla perchè il nostro divenire non diventa mai pienamente attuale ed è un succedersi di momenti di attualizzazione della possibilità. La continuità nel tempo Nonostante il nostro essere sia puntiforme, permane una continuità: nel presente è possibile cogliere le tracce dell’essere già stato e l’anticipazione dell’essere futuro. Tutto ciò che appartiene al passato permane come impronta, dunque ogni attimo contiene potenzialmente tutta l’esistenza e l’essere è un insieme di vissuti non più attuali ma che sono sempre pronti a riaccendersi, e proprio questa imprevedibilità ci rende fragili. Inoltre tutto ciò che è potenziale e che non necessariamente si trasforma in attualità non è da considerare come un “non essere”. Il rimedio della ragione Confidiamo nell’attività di pensiero per ridurre la nostra fragilità, dato che esso ci ha permesso di ottenere guadagni nelle tecniche di miglioramento della vita e può essere alimentato e orientato ai nostri obiettivi. Tuttavia: - È limitato e può farci cadere in errore. - Non abbiamo sovranità su di esso, ad es. talvolta la mente insegue pensieri non cercati e non voluti in modo inaspettato e non è possibile raggiungere la quiete perchè permane sempre l’inesauribile fluire di pensieri ed emozioni. Anch’esso può essere conquistato e poi di colpo dileguarsi, infatti in greco la parola “psyche” si riferisce anche alla farfalla, delicata e fragile. 4. Mancanza d’essere Nell’essere divino non è richiesta una formazione ulteriore, mentre noi in quanto esseri umani siamo incompiuti, non finiti, non autonomi e autosufficienti, esseri della possibilità (Stein), esseri in formazione, totalità incompiute, mai forme compiutamente formate ma sempre forme formantesi. Nasciamo senza una mappa della nostra esistenza, senza conoscere i sentieri che potranno renderci la vita piena e per questo tutta la vita consiste in una ricerca della forma migliore da conferirci, della concretizzazione più piena del nostro progetto; ci chiediamo costantemente cosa fare per essere felici e dare forma a noi stessi, quale percorso sia il più corrispondente alla nostra originalità esistenziale e, non trovando una risposta definitiva, diventiamo “un problema a noi stessi”. Nasciamo come “mancanti d’essere” ma possedendo una possibilità e una disposizione all’essere che rischia sempre di non realizzarsi e di farci cadere nel nulla. 5. Debolezza ontologica Fragilità e vulnerabilità insieme producono una debolezza ontologica derivata dalla consapevolezza di essere condizionati, sia dagli enti con cui entriamo in contatto sia dai prodotti del nostro lavoro. Questa consapevolezza origina precisi stati affettivi: 1. Inquietudine: è un sentire sottile e irriflesso che avviene indipendentemente da un atto del pensare, che nasce dalla consapevolezza di quanto sia difficile e imprevedibile il lavoro di esistere. È una tonalità affettiva comune a tutti gli uomini che diventa negativa solo se diventa eccessiva, perchè normalmente essa mette in tensione l’esserci e lo apre alla chiamata verso l’ulteriore (quindi è il sentimento chiave dell’esistenza). 2. Angoscia: è un sommovimento dell’anima improvviso che avviene indipendentemente da un atto del pensare, che nasce dalla consapevolezza di non riuscire mai a diventare totalmente come si vorrebbe, di trovarsi in una realtà che diviene indifferentemente dai propri progetti, di esservi annodati ma di non averne controllo. 3. Dolore ontologico: è un pensiero che si forma gradualmente quando il soggetto approfondisce la propria condizione, si ferma a meditare sul proprio esserci e prende consapevolezza della propria debolezza. Infatti “sapere è patire” perchè permette di conoscere le cose per come sono e da tutti i lati. È impossibile esserci senza sentirci e per questo è necessario avere cura del proprio sentire, affinchè le tonalità negative non diventino un ostacolo. Davanti a questi sentimenti il soggetto ha la tendenza a distrarsi rispetto al reale per non riflettere in profondità sulla propria condizione, inventando “vie d’uscita” come l’anima che sale in cielo o il pensiero che la morte cada su chiunque a prescindere dalle azioni compiute in vita. Gran parte della filosofia antica si occupa di trovare confronti altrui a sostenere il peso e la fatica del “lavoro di vivere”, della tessitura dell’esistenza. 2. Merimna: è la cura che conserva l’essere, che salvaguarda la possibilità di continuare ad esserci e che procura tutto ciò che preserva il ciclo vitale (ciò che nutre, protegge, riscalda ecc.) in un mondo che minaccia costantemente di far venir meno questi benefici. Essa risponde alla necessità di soddisfare i propri bisogni in quanto esseri umani e all’orme (che per gli stoici era la tendenza all’autoconservazione e al persistere nell’essere, in quanto l’uomo è un essere finalizzato alla vita). Non si tratta di un livello degradato di vita rispetto ad un altro ambito di vita metafisico perchè noi siamo esseri incarnati e viventi in un mondo e come tali questo modo di essere ci appartiene; tuttavia questa preoccupazione per le cose materiali può diventare smisurata e far credere che la fragilità ontologica possa essere risolta con un agire acquisitivo (accumulando ciò che potrebbe essere utile), quando invece consuma la vita stessa. Infatti Agostino spiega che la vita beata deve essere “senza l’angoscia della cura” perchè sapere di non poter trovare un riparo definitivo al proprio bisogno può spingere ad agire compulsivamente riempiendo la propria vita con un eccesso di cose. 3. Epimeleia: è la cura che fa fiorire l’essere, intesa sia come cura di sè sia come cura educativa che si esprime sollecitando l’altro. Essa è necessaria perchè il nostro essere è mancante di forma e per tutto il corso della vita abbiamo il compito di ricercarne una che ci permetta di compiere il senso del nostro esistere, che ci permetta la trascendenza rispetto alla condizione presente (che ci permetta di formarci sempre maggiormente e di diventare migliori nel tempo). Essendo mancanti siamo sempre chiamati alla trascendenza, ovvero a cercare forme ulteriori di essere, prenderci cura delle possibilità, divenire continuamente altro rispetto a ciò che siamo nel presente, oltrepassarci, trasformare il possibile in reale, assumere un progetto per far fiorire il meglio di sè. L’epimeleia quindi consiste nella ricerca delle condizioni esperienziali che consentano questa trascendenza, ma qualsiasi forma si ottenga è provvisoria perchè non vi è possibilità di sosta e di quiete in un modo d’essere. Questo concetto torna in: - Socrate: il compito dell’educatore è quello di sollecitare l’altro ad avere cura di sè, promuovere nell’altro questa capacità per permettere che acquisisca la forma migliore possibile, accompagnarlo nel trovare altre forme possibili del suo pensare e del suo sentire. - Vangelo: tutti nasciamo dalla carne ma siamo anche capaci di pensiero che fa sempre esperienza di altro. Heidegger riprende queste ultime due concezioni quando spiega che esiste un “doppio senso” della cura, interpretabile come procurare e come dedizione. Normalmente prevale l’attenzione per la prima, ma: - Il neonato non deve solo vedere soddisfatti i bisogni materiali che esternalizza ma anche ricevere esperienze che possano farlo fiorire in tutte le dimensioni ontologiche. - Il paziente non deve solo ricevere una prestazione terapeutica ma anche essere messo nelle condizioni di riacquistare la propria autonomia. CAP. 2 L’essenza della cura: eidetica/universale, concreta e regionale È necessario cogliere cosa sia la cura in sè per poter costruire una filosofia della cura e delineare un percorso utile a chi se ne occupa per orientare il proprio lavoro. Ù La fenomenologia è interessata all’essenza universale/generale-formale/eidetica, ovvero le qualità essenziali che lo identificano come tale, la sua struttura intima, ciò che permane in qualsiasi esempio concreto e specifico di quell’oggetto, che rimane invariato al variare dei casi, la forma universale necessaria senza la quale l’oggetto non sarebbe definibile tale. La filosofia dell’esperienza è interessata all’essenza del concreto/individuale composta dalle loro caratteristiche particolari, contingenti e situate, che li specificano come individui. La ricerca dei due tipi di essenza si trova in una relazione sostanziale e la filosofia della cura deve essere co-costruita da entrambe: per costruire un sapere rigorosamente concreto è necessario cercare una zona intermedia tra il piano generale e il piano individuale, che si trova nelle essenze regionali riferite a regioni fenomeniche di contesto (informale come la vita familiare e l’amicizia, formale come la cura sanitaria e l’educazione), composte da più atti concreti che condividono un insieme di qualità. Dunque non è possibile distinguere nettamente pensiero teoretico e pensiero empirico se l’obiettivo è ottenere una teoria descrittiva il più possibile fedele all’essenza delle cose: - Non si può cogliere l’essenza della cura direttamente, tramite un atto intuitivo e puro slegato da qualsiasi riferimento all’esperienza (come vuole Husserl, credendo che solo il sapere eidetico e lontano dall’esperienza possa essere scientifico), perchè per conoscere è necessario esaminare le diverse attualizzazioni particolari e singolari degli eventi, i “dati”. - Non si può comprendere il contingente se non si possiede una conoscenza eidetica generale e astratta, anche provvisoria, della cura (è necessario avere una vaga idea di cosa sia la cura per poter identificare un atto come “atto di cura”). È anche necessario ricordare che non è possibile essere realisti ma è necessario essere costruttivisti, perchè la realtà non si dà mai in termini oggettivi e disponendo di un accesso diretto, in quanto ogni atto di ricerca parte da un soggetto che interviene sul reale e definisce in anticipo i confini del fenomeno. Arendt spiega che la mente umana è in grado di cogliere l’essenza di qualsiasi cosa la circondi, ma non quella della natura umana che invece individuabile solo da un altro ente: dato che la cura costituisce il nostro essere, è difficile parlarne e non si giunge mai ad un’ultimatività. Il metodo utilizzato qui consiste nell’alternare tra indagini empiriche svolte nei contesti in cui la cura si attualizza (riferendosi ai “testimoni privilegiati” ovvero a coloro che nella comunità di appartenenza vengono designati come testimoni di una buona pratica di cura), ricerche di un sapere generale e analisi della letteratura. In quest’ultima spesso si trovano definizioni formulate a partire da una specifica - È variabile nel tempo, non ha una durata predefinita e non ha effetti immediati, infatti si definisce anche come “accompagnamento”. Alcuni gesti di cura invece durano un istante, come carezze, sorrisi e parole. - È motivata dall’interesse per l’altro, non come mera curiosità ma come inter-essere (sentirsi in connessione con l’altro) e come preoccupazione autentica per la sua condizione. Questa può assumere intensità diverse, può andare dalla semplice disponibilità a rispondere alle richieste al prendersi a cuore situando al centro dei propri pensieri la situazione altrui. L’interesse per l’altro e il desiderio del suo bene spinge ad un movimento, ad un’inclinazione verso di questo (per May esiste una connessione tra inclinazione e tensione alla cura), ma si distinguono: 1. Inclinazione pericolosa: supera l’angolo di sporgenza e non rende il soggetto capace di ritornare su di sè. 2. Inclinazione retta: il soggetto non perde l’equilibrio ed è in grado di tornare presso di sè. È necessario trovare la giusta misura della propria posizione verso l’altro e per questo chi si occupa di cura deve sviluppare una postura critica e riflessiva nei confronti del proprio modo di stare nella relazione. La devozione La devozione è un atteggiamento di profonda dedizione che scaturisce dal forte valore inviolabile che viene attribuito all’altro e dal desiderio di custodirlo e salvaguardarlo: una parte di sè si dedica completamente all’altro. Non si tratta di una componente essenziale dell’agire con cura perchè è una forma intensiva dell’agire con cura, dove si offre una disponibilità fuori dall’ordinario e si mettono in moto risorse eccezionali, dunque si manifesta solo in situazioni relazionali rare ed elettive. - Ha l’obiettivo di procurare per l’altro qualcosa di essenziale che egli non potrebbe procurarsi autonomamente (il medico procura la terapia, la madre procura il nutrimento, l’esemplarità procura un aiuto per capire il proprio sentiero di vita), avendo ricettività e responsività nei confronti dei suoi bisogni. Il problema è individuare quali siano i bisogni degni di cura e quali azioni mettere in atto in modo che la cura non si trasformi in paternalismo e non espropri la soggettualità dell’altro (un’azione non necessaria non solo spreca inutilmente energie ma può depotenziare la posizione di chi riceve cura). Infatti ci sono due modi di agire con cura: 1. Cura dell’altro: consiste semplicemente nel soddisfare i bisogni concentrandosi sull’azione di chi ha cura e depotenziando chi la riceve. 2. Cura per l’altro: non solo colma uno stato di mancanza ma promuove una sua trasformazione e lo mette nelle condizioni di diventare autonomo in futuro, di provvedere da sè. È essenziale non disporre i bisogni essenziali in strutture gerarchiche perchè tutti sono ugualmente necessari e ricordare che la loro soddisfazione dipende dalle circostanze culturali, tecnologiche e storiche nelle quali l’azione viene messa in atto (i bisogni irrinunciabili esistono indipendentemente dal contesto, ma la loro interpretazione è culturalmente situata); per questo è necessario effettuare una costante analisi dei diversi contesti di vita. Noddings spiega che talvolta i bisogni non sono espressi esplicitamente da chi chiede cura ma sono inferiti o decisi da chi ha cura, come nel contesto educativo: è l’educatore a decidere che un bisogno sia vitale e irrinunciabile per l’altro, basandosi su teorie o visioni del mondo che però non sono certamente fondate, perciò l’educazione diventa un contesto molto problematico perchè in qualsiasi momento l’azione potrebbe trasformarsi in violenza o coercizione sull’altro. Fortunatamente con il crescere dei livelli educativi e dell’età di chi riceve cura aumenta lo spazio condiviso di decisionalità, al quale anche il bambino o ragazzo può partecipare. - È mossa dall’intenzione di portare beneficio, benessere e giovamento all’altro e per questo è necessario chiedersi se nell’essere umano esista un’intenzionalità originaria e primaria che orienta il suo divenire: secondo Aristotele ogni cosa tende al bene e l’essere umano in particolare tende sempre verso l’eudaimonia (vivere facendo esperienza del bene, ottenere una buona qualità di vita). La cura quindi è necessariamente rivolta alla ricerca di bene, che avviene in modo proattivo (cercando il bene per sè e per l’altro) e protettivo (proteggendo la vita propria e altrui dal male e dal venir meno del bene): si concretizza nell’alleviare le forme di sofferenza, rendere disponibile ciò che è essenziale per la vita, dare lo spazio per realizzare le proprie e altrui potenzialità esistentive. Questa ricerca è una prassi relazionale e non può mai essere solipsistica perchè non esiste un “bene al singolare” o un’”etica del singolare”. Secondo Dancy e Pulcini esiste necessariamente un’antitesi tra egoismo e altruismo, dunque la cura è una forma di altruismo puro nella quale ci si pone in una posizione oblativa e si può arrivare al sacrificio di sè. In realtà la cura di sè non è distinta dalla cura degli altri perchè il bene è uno unico ed esistere è intrinsecamente coesistere, è assolutamente aderente alla qualità ontologica della condizione umana. La domanda etica: cos’è il bene? Il lavoro di cura assume uno statuto etico in quanto è orientato a procurare beneficio e il bene è l’oggetto di occupazione per eccellenza dell’etica. Per Platone l’idea di bene costituisce il sapere più di valore sul piano etico ed epistemico e la questione è di primaria importanza per la vita perchè può illuminare il pensiero nella sua ricerca della verità dell’esperienza (così come il sole illumina il vedere sensibile) e, senza questa illuminazione, il nostro modo di essere diventa incerto e rischioso perchè non sa come muoversi ed agire nella relazione con l’altro. L’idea di bene è la condizione di ogni altro sapere, è la massima scienza e il principio primo, dunque se l’essere umano riuscisse ad afferrarla potrebbe agire sempre perfettamente e con giusta misura, sarebbe esperto di ogni cosa, ogni sua decisione si muoverebbe nella giusta direzione perchè sarebbe totalmente illuminata. Tuttavia la mente umana è limitata e non è in grado di accedere ad un’idea chiara di bene, che rimane trascendente, dunque rimane sempre mancante di un sapere che le permetterebbe di porre fine ad ogni domanda e di soddisfare la sua tensione primaria alla ricerca del bene. L’essenza del bene può essere concepita e sostenuta solo da una mente divina, perchè è sproporzionata rispetto alla forza del pensiero umano: da noi deve essere esaminata costantemente e all’infinito per poter basare le nostre decisioni su basi solide. L’analisi fenomenologica della cura è destinata ad essere lacunosa, ma ragionare sulle questioni essenziali per l’esistenza può conquistare una visione meno opacizzata. 1. Sentirsi responsabili “Responsabilità” significa originariamente sentirsi chiamati a rispondere ad una chiamata, quella derivante dal bisogno altrui, rendendosi disponibile a fare il possibile e il necessario per il suo benessere e sentendosi toccati, interpellati dal suo vissuto. Può manifestarsi secondo gradi: - Responsabilità diretta: il livello di autonomia dell’altro è molto scarso e consiste nell’assumersi la sua responsabilità. - Responsabilità indiretta: consiste nel mettere l’altro nelle condizioni di potersi assumere la responsabilità da sè. Un esempio è la cura educativa, dove sostituirsi all’altro sarebbe contraddittorio e controproducente e l’obiettivo è orientare il soggetto a prendersi la propria responsabilità. Levinas parla di “responsabilità infinita” nei confronti degli altri, ma questo termine risulta problematico davanti alla finitezza della condizione umana, perchè l’energia vitale di ogni soggetto è limitata e si rischia di interpretare l’esserci nella dismisura, di diventare “agente morale attivo” ovvero cessare di essere per occuparsi dell’esistenza di altro. Per Levinas si tratta di una responsabilità alla quale non ci si può mai sottrarre, senza poter badare a sè ma questa richiesta sarebbe insostenibile e ognuno necessita di fermarsi e prendere tempo quando manca dell’energia necessaria; inoltre badare a se stessi è essenziale perchè senza cura di sè non può esistere cura per l’altro e scardinare l’autoreferenzialità non significa annullare se stessi. In realtà l’idea di infinito può valere per il pensiero, perchè l’uomo possiede il compito inarrestabile di pensare a come essere responsabili nella giusta misura e a cosa significhi mettere in atto una giusta cura. È necessario tenere costantemente l’attenzione sull’altro per comprendere cosa accada nella realtà, per saper osservare la qualità del reale (“vedere con cura la realtà”). Da dove nasce la responsabilità? - Serve cogliere la qualità dell’esserci dell’altro, ovvero comprendere che anch’egli è fragile e vulnerabile e necessita di cura: la consapevolezza di trovarci tutti nella stessa condizione di debolezza ontologica fa percepire la tensione a fare per l’altro ciò che si vorrebbe fosse fatto per sè. Il sentirsi accomunati però non è sufficiente per generare una responsività concreta verso l’altro (altrimenti ci sentiremmo responsabili verso chiunque). - Serve percepire lo stato di bisognosità dell’altro, che è superiore alla debolezza condivisa da tutti e lo rende necessitante di qualcosa che solo un’altra persona può offrire, ponendolo in una condizione di asimmetria di potere rispetto a coloro che potrebbero fare qualcosa per lui. Anche conoscere la qualità della situazione altrui non è sufficiente (altrimenti ci sentiremmo responsabili verso ogni necessità). - Serve sentirsi toccati dall’altro e possedere un pensiero/sapere esistenzialmente sensibile, che percepisce la qualità del vissuto altrui e si mette in contatto con esso, capisce i suoi pensieri e i suoi desideri. Questo può avvenire tramite: 1. Empatia: la bisognosità dell’altro è al positivo (es. ha bisogno di essere accompagnato nella costruzione del proprio esserci, nel trovare i modi per dare consistenza alle proprie possibilità). 2. Compassione: la bisognosità dell’altro è al negativo (es. ha subito un’ingiustizia ed è in difficoltà). Il ruolo della dimensione affettiva Pulcini spiega che la vulnerabilità dell’altro stimola e mobilita il nostro lato emotivo e il nostro sentimento ed in generale all’interno di questioni dal forte valore etico è innegabile il ruolo del sentimento, poichè la ragione morale non è neutra e fredda ma sensibile. Secondo Jonas l’amore è un sentimento morale importante sia per l’etica familiare (amore per gli intimi) sia per l’etica politica (amore per la comunità) e secondo Pulcini è un elemento costitutivo della cura verso l’altro perchè dà una spinta motivazionale verso l’imperativo e il dovere. Tuttavia nella nostra cultura il termine si riferisce normalmente a relazioni privilegiate e connotate da un’intimità particolare (corrispondendo al greco “eros”), mentre invece sarebbe necessario per la filosofia della cura rimandare al greco “agape”, un amore segnato da cura, protezione e benevolenza. In ogni caso l’amore viene considerato importante ma opzionale nel dovere verso l’altro, che può rafforzare ma non causare. L’equilibrio tra dimensione noetica e dimensione affettiva È necessario trovare un equilibrio tra pensare e sentire, perchè il sentimento morale non appartiene all’ordine del cuore come completamente opposto rispetto alla ragione, ma è insito in un pensiero sensibile, in un “ragionamento del cuore”, è parte strutturante del pensiero. Infatti ogni vissuto affettivo è intimamente connesso ad un’idea, ad una convinzione, ad un prodotto dell’attività cognitiva (es. il buon samaritano si sente toccato e compatisce perchè possiede un’idea di giustizia e dunque, vedendo l’ingiustizia, ovvero valutando cognitivamente la realtà e la situazione altrui sulla base della sua idea, prova compassione). La sfera affettiva nel pensiero comune è stata svalutata e concepita come espressione del lato irrazionale del soggetto, nettamente opposta a quello razionale, mentre per gli antichi il sentimento era dotato di una struttura cognitiva e correlato ad una convinzione: questa idea viene ripresa oggi dalla psicologia culturale cognitivista e dalla corrente filosofica neostoica, secondo le quali i sentimenti sono legati ad un nucleo cognitivo e variano al variare di esso. Per questo motivo per promuovere una cultura della responsabilità per la cura verso l’altro non è sufficiente potenziare la sensibilità affettiva e far scaturire dei sentimenti che rimangono vuoti, ma è necessario cambiare il modo di pensare. Il pensiero di cui si parla e che sta alla base dell’agire responsabile non è razionalizzante (non trattiene della realtà solo ciò che si adatta alla struttura dei concetti) ma attiva una certa modalità di vedere, di co-sentire la condizione e il vissuto dell’altro. La ragione non può essere fredda e sistematica come quella cartesiana ma materna e sensibile, che non teme di sentire, che è in profondo contatto con la realtà ed ad essa obbediente (infatti sa declinarsi non solo come ragione argomentativa ma anche come ragione narrativa, riuscendo a tenere il pensiero vicino alla realtà). L’obbligo alla responsabilità e il pensiero etico - Secondo Levinas la responsabilità nasce in modo spontaneo nel momento in cui l’altro entra nel proprio spazio vitale, dunque non è la conseguenza di una deliberazione condotta razionalmente, di una mediazione della ragione o di una 2. Una virtù primaria che consiste nel rispondere attivamente alla chiamata della realtà tramite gesti e parole concreti. 2. Agire con generosità Avere cura significa donare tempo ed energie senza chiedere nulla in cambio. Questo non significa subire una perdita e venire svuotati, perchè dalla cura “non deve derivare nessun danno ma solo un vantaggio per entrambi”: infatti il soggetto che dona riceve in cambio un guadagno di senso, dato dalla consapevolezza di aver procurato beneficio all’altro, di aver fatto ciò che era necessario e vitale per l’altro, di aver agito alla ricerca del bene. Il fatto che il destinatario possa riconoscere la cura ricevuta come un dono e mostri la sua gratitudine non annulla il senso donativo dell’azione. La logica donativa va oltre qualsiasi logica dello scambio, è intrinsecamente gratuita e rompe il modello dell’efficienza che caratterizza la nostra società (dove tutto è finalizzato ad ottimizzare il tempo, a calcolare, a negoziare) perchè non si affida a regole ma al senso buono delle cose. Proprio quando il tempo è massimamente ottimizzato e organizzato si verifica la “lost care”, un agire che trascura la pratica dell’aver cura, che fa “guadagnare” materialmente del tempo ma perde sul piano del senso. Aristotele distingue tra: 1. Beni strumentali: sono funzionali ad altro e il piacere è edonistico. 2. Beni in sè: vengono scelti per se stessi senza alcun calcolo del vantaggio che ne deriverebbe, il piacere è intrinseco ed etico e nasce dal sapere di fare ciò che è essenziale fare e che è bene fare. Un esempio è la cura, infatti essa non si mette in pratica per un guadagno estrinseco ma semplicemente perchè è necessaria affinchè qualcosa di buono accada. In realtà per l’essere umano non sarebbe sostenibile una gratuità integrale, dunque anche chi dà cura va in cerca di qualcosa che però non viene richiesto all’altro, ovvero l’eudaimonia (benessere dello spirito); essa si ottiene quando si vive bene e si agisce bene, dunque impegnandosi in un’azione di cura sentendone il valore. La giusta misura del donare Un buon esempio di dono gratuito del proprio tempo è il buon samaritano, che si ferma con l’uomo ferito e successivamente consegna del denaro ad un’altra persona affinchè questa continui il lavoro di cura: dare cura richiede una sospensione del tempo per sè che però deve essere equilibrata per non mettere a rischio i progetti personali, non deve essere totalizzante, non richiede un’emorragia d’essere e un sacrificio. Per questo spesso richiede di coinvolgere dei terzi, di affidarci ad altri, poichè siamo limitati nel tempo e nelle energie che possiamo rendere disponibili. È necessario comprendere fino a che punto agire per l’altro, rimanere in un punto di perfetto equilibrio tra l’agire responsivamente e l’essere presenti passivamente; talvolta si percepisce un eccesso di cura e dunque è opportuno cercare un altro modo di stare nella relazione. La differenza tra l’antropologia del dono e la filosofia della cura - Per Caillè il dono ha l’obiettivo di consolidare i legami sociali e le alleanze e si inserisce all’interno di una circolazione e di uno scambio reciproco ed obbligatorio di beni e servizi, quindi si manifesta in una relazione circolare (dare-ricevere-ricambiare). Esso è estraneo al valore d’uso e al valore di scambio, ma è inserito nel valore di legame (dunque in un terzo paradigma). La società è concepita come una totalità legata da simboli e il dono risponde semplicemente a questa simbolicità. Questa concezione rimane all’interno di un pensiero intellettualistico. - Per la filosofia della cura il dono ha l’obiettivo di produrre del bene per l’altro ed è al di fuori di qualsiasi logica non solo economica ma anche dello scambio (dunque al di fuori di qualsiasi paradigma), è intrinsecamente gratuito e non richiede reciprocità, quindi si manifesta in una relazione unilineare. La società è concepita come un insieme di atti, gesti concreti che agiscono nell’esperienza e il dono risponde ad una necessità vitale. Questa concezione si lega ad un pensiero fenomenologico e calato nel concreto. La straordinarietà o ordinarietà del donare cura I “testimoni privilegiati” spiegano che donare accade in modo assolutamente normale, come ciò che semplicemente deve essere fatto ed è costitutivo dell’azione di cura. Seguendo la visione individualistica e materialistica, l’agire donativo sembra un modo insensato e fuori dall’ordinario di stare nel tempo, mentre invece è più opportuno parlare di “straordinarietà ordinaria”. I testimoni sottolineano come sia importante considerare normale il loro modo di essere per farlo penetrare nella vita ordinaria anzichè limitarlo a spazi straordinari e inaccessibili alla gran parte della comunità: donare non è un atto eccezionale ma necessario, perchè risponde ad una richiesta ineludibile derivante dall’altro che ha un valore vitale. La differenza tra l’imperativo kantiano e l’etica della cura - In Kant l’imperativo deriva da un enunciato che ha per la ragione un valore regolativo generale. - Nella filosofia della cura l’”imperativo” deriva dal bisogno del bene irrinunciabile che si percepisce nell’altro, dunque dall’obbedienza alla sua realtà individuale. Esso ha un valore realistico ed ideale (perchè da un lato è situazionato e attento alla singolarità concreta dell’altro, dall’altro è informato dall’idea generale di bene). La necessità vitale del dono alla nascita Il neonato ha continuamente necessità assoluta di cura, dunque di dono gratuito e continuo di tempo, energie, attenzione e solo se questa viene accolta il soggetto potrà in futuro possedere l’adeguata energia vitale per “nascere sempre di nuovo” (per sviluppare nuove possibilità esistentive e forme dell’esserci). Questo perchè ricevere in dono degli atti di cura fa sentire di avere valore e fa sviluppare l’energia necessaria per coltivare la passione per il bene, per aver cura di sè, per esserci con un senso. Se questo dono viene negato, il soggetto patisce nel profondo nell’anima un senso di privazione e continuerà a cercare quella cura originaria non ricevuta che non può essere sostituita da altro; affinchè la mancanza non si trasformi in patologia devono essere incontrate altre forme di cura durante la vita, in particolare quella educativa. inviolabile, che nessuna situazione o evento può compromettere, che è un dato primo e un’archè indiscutibile. Percepire il valore dell’altro lo inserisce nella dimensione del sacro, che non appartiene solo ad una realtà trascendente fuori dal tempo e dallo spazio ma riguarda anche la materialità della vita, dei corpi e dei vissuti (la cura dunque è la partecipazione alla sacralità dell’altro). Il tipo di pensiero che posiziona l’altro in una posizione di reverenza per la sua realtà e di sacralità è diverso da quello ordinario perchè accede all’altro non tentando di afferrarlo e possederlo ma ricevendolo, accogliendo i dati che questo vuole comunicare di sè. 4. Avere coraggio Normalmente domina la tendenza a preoccuparsi del proprio spazio vitale, dell’alleggerimento da ogni vincolo esterno e della propria autorealizzazione, secondo un orientamento narcisistico e basato sull’amor proprio che esclude l’alterità e non si interessa al bene comune e alla sfera pubblica (come dimostrato da molti eventi incuranti, indifferenti e violenti nei confronti altrui). In questo modo non ci si concepisce come parte di una rete di relazioni e si trascurano tutti quei modi di essere che sono attenti all’altro, ai suoi desideri e alle sue esigenze (perchè controproducenti rispetto al proprio obiettivo di autoaffermazione), quindi diventa impossibile coltivare un’etica della relazione. Tuttavia è da sottolineare che: 1. Individualismo e narcisismo non sono una caratteristica solo contemporanea ma sono sempre esistiti, infatti Plutarco scriveva che ai suoi tempi un cieco amore di se stessi, che pretendeva di primeggiare e di acquisire tutto senza sazietà, era la causa di una “cattiva cultura del vivere”. 2. Il negativo è sempre mescolato al positivo, che è necessariamente esistente perchè senza cura non si darebbe nessun tipo di cultura, dunque è necessario evitare una visione monologica della realtà (es. in campo sanitario sono frequenti le denunce per incuria e trascuratezza ma vi sono molti atti di cura che invece leniscono le ferite, ma richiedono coraggio). Avere coraggio significa denunciare le situazioni di incuria e di ingiustizia e confrontarsi con chi ha il potere e l’autorità nel proprio ambito di cura (es. i dottori nel campo sanitario e medico) esprimendo il proprio dissenso, comportarsi da parresiasta e prendere la parola pubblicamente dicendo la verità per poter trasformare le cose, anche trovandosi in una posizione di svantaggio rispetto all’interlocutore che comporta un grande rischio per sè. Questi atti coraggiosi mettono in pericolo le relazioni sul posto di lavoro e la propria posizione all’interno del personale perchè richiedono di andare oltre i limiti consentiti dal proprio ruolo. Si riesce ad agire con coraggio quando si viene toccati dalla sofferenza dell’altro e si capisce che non c’è altra opzione che possa incontrare il suo bisogno di cura. CAP. 4 I modi dell’esserci nell’agire con cura 1. Prestare attenzione all’altro. 2. Saper ascoltare. 3. Esserci con la parola. 4. Saper comprendere. 5. Esserci in una “distante prossimità”. I modi sono gli indicatori comportamentali della cura, le maniere d’essere che rendono evidente l’intenzione di dare cura e beneficio all’altro. Essi sono ordinati da due categorie o disposizioni: 1. Ricettività: consiste nel fare posto dentro la propria mente per l’essere dell’altro e accoglierlo. 2. Responsività: consiste nel mettere in atto azioni concrete a favore dell’altro. 1. Prestare attenzione all’altro L’attenzione consiste nel disporre la mente a ricevere il più possibile la realtà esterna, dunque nel concentrarsi intensivamente sul fenomeno interessato distraendosi da sè e spostando l’attenzione sul reale e sull’altro (passaggio che Noddings definisce “displacement”). Lo scopo è quello di acquisire una profonda conoscenza di quello che accade. Si distingue da un semplice osservare (che è un’azione spontanea) o dall’intenzione scientifica di penetrare la realtà, si tratta di una pura disponibilità a ricevere l’essere dell’altro e di uno sguardo della mente e del cuore verso la specifica realtà individuale dell’altro, che deve essere ottenuta tramite un’educazione e una coltivazione di questa disposizione cognitiva o postura della mente. L’attenzione è necessaria perchè in ogni momento ci troviamo a prendere decisioni decisive per la vita dell’altro, dunque la mente deve essere nella giusta condizione per deliberare, per ottenere dati di realtà sui quali basare il proprio pensiero, per prendere atto dell’essere altrui. Mentre chi ha cura agisce in favore dell’altro deve monitorare e comprendere quali effetti abbiano le sue azioni, quali siano le reazioni scaturite nel ricevente, quali siano i dettagli della realtà (non limitandosi ad una percezione globale e approssimata). La mancanza di attenzione costituisce una minaccia per l’identità personale perchè non esserne oggetto fa percepire se stessi come non esistenti. Perchè è difficile prestare attenzione? 1. Essendo coinvolti nell’agire risulta a volte difficile rivolgere la propria attenzione sulla realtà per un tempo prolungato, dunque normalmente si mettono in atto dei “frammenti di attenzione” istantanei. 2. Richiede lo sforzo di mettere tra parentesi l’io, di ritirarsi, di rendere la mente più leggera, di depotenziare la tendenza a mettere se stessi al centro delle cose, per permettere alla realtà e al vissuto dell’altro di manifestarsi (dunque è essenziale la disciplina della riflessione critica su di sè). 3. Agli esseri umani non è dato di sopportare troppa realtà e, soprattutto quando il vissuto si fa intenso e sofferente, il soggetto tende naturalmente a cercare rifugio nell’immaginazione e in visioni consolatorie ma questo può portare a distorcere l’agire e ad indebolire l’energia necessaria a sopportare la qualità del reale. È quindi difficile prestare attenzione alla scena senza alterarla per renderla più sopportabile. Non sempre comunicare considerazione e attenzione richiede la parola, infatti talvolta è sufficiente o necessario solo “esserci”, presenziare senza azione, astenersi dall’agire ma dimostrarsi disponibili a farlo quando interpellati dall’altro a partire da sè. Infatti sentire di poter contare sulla disponibilità di qualcuno fa trovare la forza di autotrascendersi e spingersi verso l’ulteriore. 4. Saper comprendere Secondo Heidegger esistere è comprendere e dato che l’esserci è sempre un con-esserci, diventa costitutivo comprendere non solo cosa succede a sè ma anche all’esistere altrui; proprio questo rivolgersi all’altro per comprenderlo rende possibile una relazione. In particolare nel contesto della cura la comprensione è orientata a cogliere ciò di cui l’altro ha necessità vitale per attualizzare le sue possibilità esistentive. Essa può attualizzarsi su due livelli: - Teoretico: consiste nell’interpretare la situazione dell’altro per aiutarlo a comprendere se stesso, si tratta di un semplice atto cognitivo e di una consapevolezza astratta della sua realtà. - Pragmatico: consiste in un maggiore coinvolgimento da parte di chi ha cura e nell’aiutare l’altro a progettare le proprie possibilità, nel facilitare il processo di manifestazione del suo essere. La comprensione richiede la conoscenza: molte azioni provocano danno all’altro perchè sono prive di una conoscenza adeguata del suo vissuto e dei suoi bisogni e molte politiche sociali falliscono perchè non conoscono profondamente la situazione a cui porre rimedio. Secondo Baier la cura non tollera nessuna ignoranza nei confronti dello stato attuale dell’altro e per questo è fondamentale: - Intrattenere un contatto costante con l’altro per ricevere informazioni. - Essere attenti per percepire in modo dettagliato la realtà che si mostra. - Fare epochè: lavorare su di sè per tenere lo sguardo libero da formule ermeneutiche già date, liberarsi da tutte le ideologie, da tutti i contenuti cognitivi precostituiti, dalle teorie già formulate, perchè questi si imporrebbero sulla realtà dell’altro e non ne restituirebbero una conoscenza fedele. Platone spiega che la verità può essere raggiunta elevandosi sopra il mondo ordinario e ottenendo un’anima pura: questa è una condizione irraggiungibile ma può diventare un principio regolativo o un modello da seguire per ridurre all’essenziale le idee predefinite e compiere una metanalisi del proprio funzionamento cognitivo per verificare se si stia comprendendo l’altro fedelmente. - Essere consapevoli di non poter mai ottenere una comprensione totale dell’altro, perchè gli esseri umani rimangono sempre oscuri gli uni agli altri e i prodotti del pensiero non sono mai definitivi. 5. Sentire con l’altro La comprensione è sempre emozionalmente situata e va oltre il semplice riconoscimento razionale della situazione dell’altro. Sentire significa essere esposti, vulnerabili e passivi nei confronti dell’altro, essere sensibili e percepire il suo stato d’essere come se fosse proprio. Il sentimento Aristotele distingue tra: - Sentire negativo che provoca dolore (gli unici a non conoscerlo sono gli dei e gli angeli). - Sentire positivo che provoca piacere. Il sentimento per molti “testimoni” viene fatto coincidere con la cura ed è un indicatore delle qualità che attribuiamo alle cose e ci spinge ad agire in modo rilevante. La mente pura non è quella che percepisce solo sentimenti positivi (perchè gli esseri umani vivono sempre un sentire contrastante) ma è quella che tenta di liberarsi il più possibile dai sentimenti negativi che inquinano o interrompono le relazioni e presta attenzione ai sentimenti positivi che accompagnano la nascita delle cose buone. L’empatia È la capacità di cogliere l’esperienza vissuta dall’altro anche nei suoi dettagli, necessaria per stabilire un contatto anche nel momento in cui egli si trova in una situazione affettiva difficile. L’empatia però è delicata e mai intrusiva, quindi mantiene un’infinita distanza dall’altro, non si trasforma in una fusione ontologica o in un inserimento nel suo vissuto perchè l’esperienza che si presentifica (si fa viva al nostro sguardo) appartiene sempre e comunque ad una coscienza estranea e non può mai essere colta nella sua dimensione originaria. L’esperienza che si dà non è quella di una fusione indistinta ma di una “separatezza intimamente relazionale”. Stein spiega che l’empatia non deve trasformarsi in unipatia perchè l’esperienza vissuta e l’esperienza empatizzata restano nettamente separate e ciò che noi cogliamo è sempre filtrato dai modi che assumiamo per essere presenti all’altro (in ogni relazione si inserisce un filtro soggettivo). Se fosse possibile un’unipatia, verrebbero meno i confini individuali e chi ha cura sconfinerebbe costantemente nello spazio vitale dell’altro e vivrebbe un peso emotivo insostenibile perchè si dimenticherebbe della cura di sè. Chi lavora nell’ambito della cura della salute sarebbe costretto a percepire in modo originario il dolore dell’altro e verrebbe prosciugato della sua forza vitale necessaria per agire. Plutarco infatti spiega che bisogna avere cura delle cose cattive (della sofferenza altrui) ma senza prendere parte al dolore mantenendo una forma di distanza per evitare di annullarsi nell’altro. La compassione Si distingue dall’empatia perchè non si limita a percepire il sentire negativo dell’altro ma valuta anche l’accaduto come un’ingiustizia che non può essere tollerata, perciò si declina eticamente. Aristotele infatti la definisce come una forma di sofferenza che nasce davanti ad un evento rovinoso che colpisce colui che non se lo merita, che si può provare solo nei confronti di persone alle quali non si è strettamente legati (quindi in ambiente professionale). Murdoch parla di “realismo della compassione” perchè essa permette di cogliere la qualità del reale e questo determina l’agire in favore dell’altro. Sostituirsi all’altro talvolta viene interpretato come un’espressione di forte dedizione perchè alleggerisce chi ha bisogno di cura del suo lavoro di esistere, ma in questo modo si provoca un’espropriazione ontologica e una sottrazione della sua responsabilità di cura (nei casi più gravi lo rende dominato e dipendente poichè diventa incapace di sviluppare il proprio modo di essere). Trovare la giusta distanza/misura nell’agire educativo - Nelle teorie centrate sullo studente si ritiene centrale la promozione dello sviluppo dello studente senza intrusioni nel suo spazio vitale, ma si rischia di ridurre eccessivamente la presenza dell’adulto e il processo educativo, che finisce per essere mera istruzione rendendo l’anima inattiva. - In realtà la cura educativa non può rinunciare al compito di nutrire la passione per l’ulteriore, di sollecitare il lavoro di pensare e di porre domande sulla vita che accade e su quella che potrebbe accadere. Il docente quindi deve accompagnare lo studente nella crescita senza imporgli una direzione predeterminata ma facendogli percepire la propria vicinanza nel momento del bisogno. Trovare la giusta distanza/misura nella cura della salute Spesso il paziente non è in grado fisicamente o psichicamente di avere cura di sè e il medico deve effettivamente sostituirsi ad esso, ma è sempre opportuno mantenere un’attenzione vigile sul paziente nel caso si dimostrasse capace di assumersi autonomamente la responsabilità di se stesso e per questo sono importanti le pratiche di “educazione del paziente”: l’obiettivo è sviluppare nel soggetto una padronanza su di sè e una capacità di prendersi cura del proprio esserci. L’importanza di delicatezza e fermezza nella relazione di cura 1. Delicatezza: la relazione di cura è spesso asimmetrica (per questo Kittay parla di “dependency work”) ed entrambi i soggetti vedono aumentato il loro stato di vulnerabilità, uno perchè è dipendente e l’altro perchè è sottoposto alle richieste di chi riceve cura. Per questo è necessario trattare l’altro con delicatezza (sia nel corpo sia nella dimensione spirituale), avvicinarlo senza mai dominarlo o imporre la propria verità, saper stare in silenzio quando necessario e prendere tempo per trovare una parola giusta e viva, per sceglierla con cura e precisione (es. nè un eccesso nè troppe poche parole, nè parole imprecise nè troppo ricercate). 2. Fermezza: è necessaria perchè anche chi compie il lavoro di cura può sentirsi vulnerabile perchè non può avere pieno controllo del proprio agire e perchè colui che la riceve può assumere comportamenti che abusano della sua disponibilità ed “erodono” la sua sostanza. In questi casi è essenziale saper dire di no alle richieste dell’altro quando è necessario, decidere di interrompere la relazione di cura (cercando altre soluzioni), sciogliere il proprio pensiero dai sensi di colpa per analizzare lucidamente la situazione. Il rischio di lasciarsi dominare e di non riuscire a porsi con fermezza aumenta quando si costruisce un legame affettivo tra le persone coinvolte e i confini esperienziali si riducono; in questo caso chi ha cura deve lavorare su di sè in modo che questo investimento emotivo non condizioni negativamente il proprio modo di stare nella relazione e di rispondere alle richieste altrui. La fatica della cura Il lavoro di cura è faticoso perchè: 1. Richiede molte energie cognitive, emotive, fisiche e organizzative. 2. Avviene in un contesto sempre incerto, perché non è mai possibile acquisire un controllo completo sulle azioni e sui processi da loro innescati, sono imprevedibili ed irreversibili perché il destinatario è un altro essere umano ed è collocato in un preciso contesto che condiziona gli esiti delle azioni. 3. Richiede di essere sensibili rispetto al sentire dell’altro ma questo espone sempre a dei rischi inevitabili. Per questo è essenziale una vigilanza continua sulle nostre azioni, parole e gesti e sulla reazione che provocano quando entrano nello spazio vitale dell’altro. Inoltre secondo Arendt è importante la consapevolezza di poter essere perdonati nel caso la propria azione non raggiunga l’esito sperato, ma questo pensiero presuppone un essere umano autonomo, libero e pienamente consapevole; nella realtà le relazioni talvolta comprendono con soggetti non in grado di negoziare e di partecipare attivamente al processo di significazione dell’esperienza, quindi chi ha cura è solo di fronte all’esito del suo agire. Per sostenere questa fatica è essenziale ricevere: 1. Riconoscimento, che può consistere in sorrisi, strette di mano, parole o gesti con i quali l’altro mostra di aver accettato positivamente il proprio agire. 2. Reciprocità (solo nelle relazioni amicali). Perchè nonostante queste difficoltà le persone decidono di prendersi cura dell’altro? Nella realtà sociale vi sono numerosi casi di soggetti che si assumono la responsabilità della cura anche in condizioni di alto rischio e dunque si dedicano ad un azzardo ontologico ed etico investendo moltissime energie. Questo avviene grazie alla passione per il bene e alla consapevolezza che la ricerca delle cose che rendono la vita degna di essere vissuta non può mai essere solitaria ma ci coinvolge nella pluralità. Secondo Todorov è essenziale non farsi prendere dalla “tentazione del bene”, ovvero dalla convinzione certa di possedere un concetto definitivo di bene e di essere in grado di applicarlo da sè, volendo dunque imporlo anche agli altri. In realtà siamo destinati a non averne un’idea chiara e non è importante costruire teorie generali, regole o imperativi sull’agire bene secondo una sua concezione universale, che potrebbero diventare imposizioni e coercizioni sul reale, ma cercare in ogni precisa situazione di fare il meglio che è consentito dai vincoli del reale, capire di cosa l’altro abbia bisogno per stare bene in quel preciso istante: è la qualità stessa della realtà esperienziale a comandare. Questo non significa evitare totalmente il confronto con le domande generali, ma questo non è finalizzato a costruire delle teorie ma a cercare la misura giusta e buona dell’agire: è un pensiero nè sistematico nè occasionalistico ma realistico ed empirico perchè è attento alla realtà.