Scarica RIASSUNTO Gli operatori dell'emergenza: fattori di rischio e protezione e più Appunti in PDF di Psicologia Clinica solo su Docsity! 1 RIASSUNTO Gli operatori dell’emergenza. Fattori di rischio e protezione Gli operatori dell’emergenza. Fattori di rischio e di protezione Iacolino, C. & Cervellione, B. (a cura di) RIASSUNTO INTERO VOLUME Capitolo 1 La psicologia dell’emergenza e il personale di soccorso Definizione di emergenza Spesso si fa un uso spropositato del termine “emergenza”, che si associa ad una infinità di situazioni più o meno gravi: si utilizza il termine emergenza per situazioni climatiche inattese, per un crollo all’economia mondiale, per bruschi fenomeni sociali, per inaspettati drammi personali. La Protezione Civile definisce “emergenza” qualsiasi tipo di situazione in cui è fortemente necessario attivare delle risorse di soccorso che non rientrano in situazioni di ordinaria quotidianità. Nello specifico, nell’Art 2 dell’Istituzione del Servizio Nazionale della Protezione Civile, viene fatta una distinzione tra incidenti semplici, complessi e catastrofi. Gli incidenti semplici sono quegli eventi dannosi naturali o causati dall’uomo, che possono essere fronteggiati per via ordinaria, come ad esempio un incidente stradale, una piccola frana, un incendio. Non si tratta di scenari complessi, ma di situazioni che per il singolo individuo, la sua famiglia, la squadra dei soccorritori, possono costituire un’esperienza esistenziale negativa. Per quanto riguarda le risposte psicologiche a determinati eventi inattesi, si è visto che le reazioni alle crisi sono assimilabili a quelle che si registrano in contesti di crisi allargata. Ed è questa la differenza tra un incidente semplice e un incidente complesso o una catastrofe, proprio l’impatto sistemico che porta con sé il numero delle persone toccate dal problema. Per incidenti complessi, la legislazione italiana, definisce quelle situazioni ad alta criticità in cui sono coinvolte, allo stesso tempo, numerose persone e che possono essere fronteggiate con l’intervento coordinato di più enti o amministrazioni competenti in via ordinaria. Ad esempio, un incidente industriale con decine di vittime è un incidente complesso e richiede il coordinamento e lo schieramento rapido di diverse tipologie di soccorritori come i vigili del fuoco, gli operatori della protezione civile, le forze dell’ordine, i sanitari. 2 RIASSUNTO Gli operatori dell’emergenza. Fattori di rischio e protezione Diverso è il caso della catastrofe o disastro che, anche se non causa un numero cospicuo di vittime, coinvolge le infrastrutture, i sistemi di comunicazione, le organizzazioni, l’intera trama sociale. Una catastrofe naturale come un’alluvione, un terremoto o un gravissimo incidente industriale rappresentano uno sconvolgimento complessivo che genera bisogni multiformi. Questo significa che si tratta di situazioni che per la loro origine naturale richiedono l’intervento di mezzi e poteri straordinari, che vanno al di là di un semplice coordinamento delle risorse ordinarie. Dunque, dal punto di vista legislativo, il termine emergenza racchiude una configurazione situazionale specifica dove a una specifica tipologia d’incidente corrispondono tipologie di attivazione, norme, bisogni e risposte possibili. Ma da un punto di vista psicologico che definizione assume un “contesto di emergenza”? Un contesto di emergenza è una situazione interattiva caratterizzata dalla presenza di una minaccia; da una richiesta di attivazione rapida e di rapide decisioni; dalla percezione di una sproporzione improvvisa tra bisogno (cresciuto per intensità, ampiezza, numerosità, ritmo) e potenziale di risposta attivabile dalle risorse immediatamente disponibili; da un clima emotivo congruente. Lo stato di emergenza Che cos’è uno stato psicologico di emergenza? Quali sono i processi mentali che sottostanno ad una situazione di emergenza? E non appena lo stato di emergenza si attenua, la psiche ritorna ad esser uguale a prima? A queste domande non è possibile dare una risposta ottimistica, ma è possibile analizzare il fenomeno dal punto di vista scientifico. Per quel che concerne, il fenomeno verrà approfondito dando una visione apodittica adeguata. Secondo la definizione dell’American Psychological Association (APA), un individuo si trova in uno stato di emergenza quando percepisce che la propria vita o quella delle persone più vicine a questo è a rischio. Una delle cose principali di cui tener conto è sapere, o credere di sapere, di essere coinvolti in una situazione che mette a rischio la propria vita. È esplicativo come l’autrice Axia, spieghi bene quanto sia inevitabile parlare di stato psichico di emergenza: infatti, parlarne in questi termini significa guardare al processo temporale e all’evoluzione del fenomeno. Considerare l’emergenza come uno stato psichico dà sviluppo ad un quadro integrato in modo logico che rappresenta il diagramma di flusso di base della psicologia dell’emergenza. Negli individui, lo stato di emergenza viene filtrato dagli antecedenti individuali, come fisiologia, età, tolleranza allo stress e al dolore fisico, ecc. L’entrata in uno stato di emergenza e lo sconvolgimento e provato dipendono fondamentalmente dalla valutazione cognitiva-emotiva che l'individuo fa dell’evento e delle proprie risorse. Tale la valutazione del pericolo di vita, dipende molto dalla personalità individuale. Questo significa che i tratti temperamentali, caratteriali e l’esperienza personale del soggetto assumono un ruolo centrale in tale processo. Una volta che si avvia, lo stato psichico di emergenza avrà delle caratteristiche singolari, ma non sarà durevole. L’uscita da questo stato, potrà avere effetti psichici a lungo termine. Origini della disaster psychology Le iniziative di assistenza umanitaria, morale e psicologica alle vittime di eventi in emergenza non sono mai mancate, ma bisogna attendere gli anni ’60 del secolo scorso per cominciare a vedere dei cambiamenti sostanziali nel modo di concepire e gestire le emergenze a livello collettivo. 5 RIASSUNTO Gli operatori dell’emergenza. Fattori di rischio e protezione diventare vittime di una traumatizzazione vicaria. Le persone soggette direttamente ai pericoli e al rischio di morte sono quelle che probabilmente subiranno le conseguenze più gravi, questo però non vuol dire che un’esposizione “indiretta” non possa causare conseguenze abnormi; in ogni caso, è di fondamentale importanza tenere in considerazione (indipendentemente dal tipo vittima) i fattori individuali che possono fungere da fattori di rischio o di protezione a seconda dell’esperienza vissuta. Per tale motivo, dal punto di vista dell’assegnazione e della distribuzione delle risorse della salute mentale, la letteratura riporta un modello ben scandito di definizione dei ruoli che risulta essere maggiormente funzionale al fine di inquadrare le diverse tipologie di vittime. Taylor e Frazer (1981), distinsero le vittime in cinque diverse categorie in base al livello di coinvolgimento: VITTIME DI 1° LIVELLO: chi subisce direttamente l’impatto dell’evento catastrofico. VITTIME DI 2° LIVELLO: parenti e amici delle vittime di primo livello. VITTIME DI 3° LIVELLO: personale di soccorso. VITTIME DI 4° LIVELLO: la comunità coinvolta nel disastro e chi, in qualche modo, ne è eventualmente responsabile. VITTIME DI 5° LIVELLO: individui il cui equilibrio psichico è tale che, anche se non sono coinvolti direttamente nel disastro, possono reagire con un disturbo emozionale. VITTIME DI 6° LIVELLO: individui che, per un diverso concorso di circostanze, avrebbero potuto essere loro stessi vittime di primo livello o che hanno spinto altri nella situazione della calamità o che si sentono coinvolti per altri motivi indiretti. Il personale di soccorso nell’emergenza Gli operatori, professionisti o volontari, che intervengono in qualità di “soccorritori” nei contesti emergenziali, svolgendo quindi attività ad alto rischio e ad alto indice di stress, essendo in prima persona esposti a sofferenze di vario genere (fisiche o psicologiche), vengono considerati Vittime di Terzo livello. La Psicologia dell’Emergenza, sin dagli inizi, prende in considerazione i soccorritori tra i destinatari del proprio intervento. Nel corso degli anni, è stata posta molta attenzione alle possibili risposte psicologiche conseguenti a una prolungata e ripetuta esposizione ad eventi fortemente stressanti o traumatici e alla necessità di dover intervenire per delimitare i vissuti motivi in termini di efficienza e rapidità. 6 RIASSUNTO Gli operatori dell’emergenza. Fattori di rischio e protezione Il personale di soccorso nell’emergenza: gli operatori professionisti La tipologia degli operatori di emergenza può essere varia e facente parte di un team ben addestrato. La diversità degli operatori dell’emergenza varia a seconda dell’area di riferimento: area di soccorso, area tecnica, area di Pubblica Sicurezza. Young e collaboratori propongono una suddivisione del personale di soccorso: • operatori di ricerca e salvataggio dei superstiti; • operatori impegnati nel controllo degli incendi e nella sicurezza; • conducenti mezzi di trasporto; • personale medico, paramedico e infermieri; • medico legale e staff; • forze dell’ordine e investigatori; • ecclesiastici; • personale dei servizi sociali e di salute mentale; • funzionari eletti; • volontari che partecipano alle attività dei centri di accoglienza, collaborano all’opera di assistenza e verificano e riparano le infrastrutture; • operatori dei media. Per quanto riguarda l’area sanitaria, è possibile annoverare il Sistema Sanitario Nazionale Italiano che si occupa di fornire alla popolazione soccorso sanitario immediato sul territorio attraverso un organo unico che si avvale di diverse specificità di operatori dell’emergenza i quali, sia nelle Centrali Operative fisse, sia nei mezzi di soccorso, garantiscono il primo intervento sanitario finalizzato all’ospedalizzazione. Ad oggi, il personale di soccorso impegnato nell’emergenza sanitaria è composto da operatori di diversa competenza professionale come autisti, barellieri, infermieri e medici. Vengono categorizzati col termine helping professions, letteralmente professioni di aiuto, termine che indica tutta quella categoria di operatori la cui attività si basa sull’aiutare le altre persone. Ciò che li differenzia è la formazione, il ruolo svolto, la diversa assunzione di responsabilità ed il tempo che prestano all’attività sanitaria. Per quanto riguarda l’area tecnica, le figure che rivestono tale ruolo solo i Vigili del Fuoco. Tale figura professionale è costantemente chiamata a svolgere attività fisicamente e psicologicamente molto impegnative, spesso in condizioni ambientali non ottimali. I Vigili del Fuoco sono i primi soccorritori che intervengono in caso di incendio, di incidenti stradali, di emergenze mediche e durante eventi di tipo catastrofico. Da un punto di vista psicologico, sia le helping professions che i Vigili del Fuoco sono riconosciute come categorie professionali in grado di far fronte allo stress, all’elevato sforzo mentale e al trauma psicologico. Il rischio di morte, il subire danni permanenti, l’esposizione diretta e indiretta a gravi incendi e incidenti nella categoria dei Vigili del Fuoco, rappresentano alcuni fra i maggiori stressor correlati al lavoro. In virtù della differenziazione tra area di soccorso e area tecnica, è possibile poter affermare con assoluta certezza che per il professionista soccorritore (indipendentemente dalla categoria di appartenenza) la gestione dei soccorsi e dei mezzi di soccorso rappresentano la quotidianità. L’organizzazione lavorativa, di ogni categoria, prevede la prevenzione e la progettazione di un intervento. Pertanto, l’emergenza per i soccorritori è ordinaria anche se si tratta di attivarla con modalità fuori “dall’ordinario”. Gli operatori dell’emergenza si trovano ad operare in un ambiente aprioristicamente non definibile, operano con l’incognita di non sapere, devono gestire e saper gestire situazioni complesse e/o drammatiche, devono essere in grado di interagire con diverse figure professionali, dovrebbero esser capaci di confrontarsi con la morte e 7 RIASSUNTO Gli operatori dell’emergenza. Fattori di rischio e protezione dovrebbero saper prestare servizio a persone in preda all’ansia, attacchi di panico o sconquassanti shock. È condiviso il pensiero per cui tra gli operatori di soccorso si combinano valori simili e differenze individuali. Gli operatori che lavorano in contesti emergenziali sono contraddistinti da tratti di personalità contrastanti, come ad esempio: delicatezza/grande forza, fiducia/cautela, molta sicurezza di sé/forte inclinazione all’autocritica, dipendenza/indipendenza, durezza/sensibilità. Gli operatori in emergenza possiedono una forte capacità nel fidarsi reciprocamente, tendono ad essere cauti nelle competenze degli individui percepiti nell’intergruppo; possono dimostrare una buona resilienza mentale ed emozionale nel corso di una operazione e ciò nondimeno avere reazioni emotive intense successivamente, a causa della loro sensibilità ai sentimenti delle vittime colpite e delle loro famiglie. Grazie al loro contributo molte vite vengono salvate ogni giorno. La letteratura riporta un elevato numero di ricerche riguardanti le motivazioni, gli stati psicologici e le emozioni degli operatori professionisti nello svolgimento del loro servizio. Si è riscontrato come gli operatori professionisti dell’emergenza sanitaria ospedaliera ed extra-ospedaliera siano motivati dalla possibilità di aiutare il prossimo e riportano emozioni positive come l’interesse, la serenità, compassione ed empatia, orgoglio e gioia sulle emozioni negative. La frequenza con cui esperiscono tali emozioni varia a seconda dei contesti in cui operano; non risultano esserci differenze significative tra le emozioni esperite dagli operatori dell’emergenza ospedaliera e dagli operatori dell’emergenza extra-ospedaliera, ad eccezione dell’emozione del disgusto. Riportare una percezione positiva del lavoro svolto durante i turni e, a rigor di logica esperire un alto livello di umore, sembri dipendere da motivazioni intrinseche e da fattori di personalità come l’estroversione. Nella stessa ricerca, di contro, emerge una desensibilizzazione alle emozioni negative in relazione agli anni di servizio prestati. Dunque, la possibilità di poter aiutare gli altri e quindi rendersi utile per qualcuno, negli operatori professionisti appare essere la chiave di volta. Si è evinto, anche, che il 14% del campione, riporti reazioni quali l’identificazione del bambino con il proprio figlio. Sulla base dell’evoluzione dell’intervento operato, si rende chiaro che le reazioni emotive e cognitive degli operatori professionisti dell’emergenza non sono basiche o statiche ma piuttosto dinamiche. In relazione alle reazioni psicologiche degli operatori professionisti dell’emergenza, è esplicativo il modello a fasi ideato da Hartsough e Myers. Tale modello comprende quattro fasi: allarme, mobilitazione, azione e smobilitazione. • Fase 1 “Allarme”: inizia quando viene comunicato l’evento dalla sede operativa; un leader diffonde le informazioni e gli operatori si raccolgono in gruppo; • Fase 2 “Mobilitazione”: a seguito della comunicazione dell’evento, si ha un’attivazione psicofisiologica e in concomitanza la creazione di aspettative e rappresentazioni cognitive al fine di intraprendere azioni efficaci e corrette. Riportando la citazione di un operatore di polizia stradale, prima di intervenire in un gravissimo incidente in autostrada: si prova uno stato d’ansia, paura di trovare qualcuno che si conosce, aumenta il battito cardiaco, inizia un tremolio, la mente inizia a viaggiare e si pensa a quale scena trovare; • Fase 3 “Azione”: gli operatori, iniziano a dedicarsi all’intervento che ha un tempo variabile, in base all’entità del disastro (ad esempio disastro ferroviario). A volte, l’intervento può durare giorni o addirittura mesi in casi di terremoto. • Fase 4 “Smobilitazione”: si ritorna alla vita lavorativa “quotidiana”. Si cerca di riprendere le energie e ristabilire uno stato cognitivo ed emotivo più o meno stabile. Considerando che nella fase alcune reazioni emotive e cognitive sono state inibite, per poter lavorare senza lasciarsi influenzare dall’evento, nella fase 4 quando si cerca di 10 RIASSUNTO Gli operatori dell’emergenza. Fattori di rischio e protezione • Soccorritore: è proprio la figura che si occupa dell’attività vera e propria di soccorso; in base al tipo di formazione può essere di livello base o avanzato, la rianimazione cardiopolmonare e tecniche di trattamento e medicazione feriti. • Soccorritore DAE: è quella figura addestrata, attraverso una formazione ad hoc, all’uso del defibrillatore semiautomatico. Questa figura, deve affrontare un corso di addestramento integrativo di 8 ore con superamento di un esame finale. Superato questo esame, otterrà il patentino di abilitazione. Il patentino ha una durata annuale e il rinnovo si ottiene attraverso il superamento della relativa prova di esame. • Autista-soccorritore: si occupa della guida e del posizionamento in sicurezza del veicolo, ed ha la responsabilità del paziente e dell’equipaggio a bordo durante i trasporti in emergenza. Avendo la qualifica di soccorritore, arrivati in campo collabora con le operazioni di soccorso. • Allievo soccorritore: è colui che si aggiunge all’équipe perché sta affrontando il corso di formazione specifica. • Centralinista: questa figura non riveste la qualifica di soccorritore, bensì si occupa di gestire le chiamate e smistare le urgenze all’associazione operativa più vicina. • Barelliere o soccorritore per servizi non urgenti: a causa di limiti personali o di età anagrafica può svolgere attività di carattere sociale o assistenziale come i trasporti di pazienti da un ospedale all’altro; è chiaro che deve comunque avere una formazione specifica in quanto facente parte dell’equipaggio. Per legge, l’equipaggio, deve essere composto da due soccorritori di livello avanzato. Tuttavia, esistono normative ulteriori definite a livello regionale. Infatti, in alcune realtà i soccorritori a bordo oscillano dai tre ai quattro elementi per urgenza. 11 RIASSUNTO Gli operatori dell’emergenza. Fattori di rischio e protezione Capitolo 2 Lo stress e le sue complicanze: le reazioni psichiche nel personale di soccorso Il racconto di Ray L’incidente. Nel 1989 qualche giorno prima di Natale due pullman, colmi di passeggeri, si sono scontrati facendo un testa a testa. L’impatto è stato violentissimo. Questo forte impatto, ha causato molti morti e gravissime lesioni e mutilazioni al viso tra chi è riuscito a sopravvivere. Sono morte 35 persone e moltissime altre hanno subito gravissime ferite. Questo incidente stradale è stato definito il peggior incidente nella storia dell’Australia. L’incidente fu così grave, che nelle prime 12 ore è stato necessario l’intervento di moltissime figure del personale di soccorso, costituito da operatori dell’Ambulanza, Vigili del fuoco, equipaggi del Soccorso stradale, Polizia, Squadre mediche, Ministri del culto, Esercito della salvezza dei lavoratori e della salute personale di reparto. Ray, era un membro del “The State Emergency Service” del gruppo locale di Kempsey, ed è stato uno dei primi operatori dell’ emergenza ad arrivare sulla scena. Quando si trovò sul posto, era ancora molto buio. Si sentivano le urla delle persone intrappolate, il loro sconforto, la loro paura. In quel momento pensò che sarebbe stata una grande operazione di salvataggio. Le mansioni svolte da Ray sono state di diverso tipo: dall’impianto di un sistema di illuminazione allo smembramento del pullman cosicché si potesse fornire aiuto all’interno. Il caso di Ray. Il dispositivo elettronico di Ray per le emergenze suonò alle 3:45 del mattino, facendolo correre fuori dal cancello di casa in pochissimi minuti, Quando arrivò era ancora buio sulla scena d'emergenza, e sentiva la gente urlare. Intervenne per montare il sistema di illuminazione e fino ad allora non ci si poteva rendere conto dell'estensione dell'incidente. Solo in quel momento iniziò a realizzare la gravità della situazione. Era necessario lavorare in modo rapido: si inizio praticando dei fori nei lati del da pullman cosi poter togliere le lamiere. Quattordici ore più tardi, Ray viveva momenti di spaesamento. Non riusciva a comprendere i suoi stati emotivi. Durante la sessione di de briefing era diventato teso, esprimendo una forte preoccupazione per tutti gli operatori in quanto era il responsabile della formazione dei soccorritori e questo lo rendeva fortemente ansioso. Pronunciava frasi di questo genere: «Per me è stato come portarli dentro ad un fuoco e non sapendo completamente come farli uscire da lì». Dopo la sessione di debriefing, riportava stati di ottundimento emotivo, si ritrovò fuori dalla sessione in piedi senza sapere cosa stesse facendo. La maggior parte delle scene che vide in quella notte rimase impressa nella sua mente per diversi giorni, non riusciva a dormire, sino a quando bevve un forte drink e, solo allora, andò a dormire. Trovò molto difficile comunicare nei giorni successivi. In quei giorni si trovava in ferie, in previsione del Natale, ma non fece nulla di quello che si era prefissato di fare in quelle giornate. Il giorno di Natale, tutta la sua famiglia si era riunita nel soggiorno a guardare la televisione. Nel pomeriggio una coppia di amici andò a trovarli ma Ray non aveva molta voglia di conversare e socializzare. Soltanto quando cominciò a mentalizzare l'evento accaduto, si rese conto di quanto fosse emotivamente sconvolto e di come il suo umore instabile potesse aver colpito tutta la sua famiglia. La moglie ha cercato di interagire col marito, nel tentativo di fargli comprendere la situazione vissuta e di fargli capire che non stava 12 RIASSUNTO Gli operatori dell’emergenza. Fattori di rischio e protezione andando tutto bene. Dopo circa tre giorni dall'accaduto, fece una passeggiata e provò delle brutte sensazioni anche in alcune mansioni di routine era fisicamente e mentalmente impossibile fare qualsiasi cosa. In un attimo, gli tornava alla mente la scena dell'incidente, tutto quello che aveva dovuto vedere e tutto quello che aveva dovuto fare. Ha iniziato a sentirsi un po' meglio, dopo una settimana, partecipando alle sessioni di de briefing. Sua moglie solo dopo qualche tempo, è riuscita ad entrare in contatto con Ray, per la prima volta, hanno parlato dell'accaduto. È riuscito a tornare a lavorare subito dopo le sessioni di debriefing, grazie anche alla chiarificazione con la moglie. Il ritorno a lavoro, tuttavia, è stato combattuto. Nonostante lo svolgimento delle attività lavorative, la mente di Ray continuava a rivivere l'esperienza dell'evento vissuto. A lavoro si parlava dell’accaduto e ciò ha scombussolato Ray che anziché progredire, regrediva. Durante le giornate, gli sarebbe piaciuto farà un fare il suo lavoro come aveva sempre fatto, i suoi colleghi e i suoi amici chiedevano e richiedevano. Gli sarebbe piaciuto, anche rendere la casa tranquilla. Ray non riusciva a ricordare nemmeno cosa avesse visto la sera in televisione e cosa avesse fatto la sera prima e descrive la sensazione di vuoto. A prescindere da alcune situazioni alquanto spiacevoli, la maggior parte degli incidenti diventano parte del lavoro del soccorritore in emergenza Nel soccorso, è comune vedere persone morte o vederle morire ma quando accadono eventi di questo genere, è possibile lasciarli andare fisicamente ma non mentalmente. Nonostante l’impatto traumatico subito per Ray è stato vitale tornare a parlare con il personale di soccorso coinvolto, rassicurandoli di aver fatto il meglio e mettere in risalto anomalie per migliorare in futuro. Il debriefing è stato essenziale per riordinare le idee. Col passare del tempo gli incubi rallentano, anche se nelle giornate persistono dei flashback. Discussione del caso. Dall’analisi di Walkden e Watt, Ray trovò molto difficile comunicare per diversi giorni dopo l’evento emergenziale. Descrive, infatti, di aver camminato smarrendosi, descrive di sentirsi indisponente nei confronti altrui, a sé stante e isolato nonostante il forte appoggio della moglie Sandra. Da un punto di vista emozionale si ritirò, si sentiva preoccupato, aveva pensieri e ricordi ricorrenti sull’evento. Riportava incubi notturni e flashback giornalieri. La storia appena descritta e le reazioni associate ad essa, sono tipiche di uno stress post-traumatico. Lo stress e le situazioni emergenziali In uno dei suoi ultimi lavori Hans Selye scriveva: lo stress è un concetto scientifico che ha avuto la fortuna di diventare troppo noto, ma anche la sfortuna di essere poco compreso. Effettivamente, oggi non esiste termine più abusato del concetto di stress. Dunque, cosa si intende per stress? Fu l’endocrinologo Hans Selye a portare tale terminologia nell’ambito dello studio sulle emozioni. Attraverso studi empirici, osservando la serie di reazioni biochimiche prodotte negli animali da laboratorio, propose un modello dello stress fisiologico. Nello specifico, i suoi studi si occuparono delle minacce di ordine fisico e biologico che possono compromettere l’omeostasi di un organismo, vale a dire l’equilibrio che lo lega al suo ambiente. Selye non fu l’unico a studiare lo stress da un punto di vista biochimico; qualche anno dopo le osservazioni scientifiche di Selye il fisiologo W.Cannon studiò tale costrutto da un punto di vista fisiologico e mise in evidenza i concetti fondamentali legati alla reazione da stress: il fight or flight response e l’omeostasi. H. Selye, chiamò stressor la fonte della minaccia e stress la risposta fisiologica annessa. Attraverso le osservazioni condotte sugli animali da laboratorio, notò che gli agenti stressanti provocavano il rimpicciolimento del timo e dei linfonodi, l’ingrossamento 15 RIASSUNTO Gli operatori dell’emergenza. Fattori di rischio e protezione tipologie perché possono tendere all’estremo episodico (è esemplificato l’evento di una guerra improvvisa); 5) gli eventi mancati sono situazioni desiderate, previste o attese che non si verificano come previsto. Il soggetto deve, dunque, far fronte alla loro non realizzazione (è esemplificativo una promozione ambita ma non verificata); 6) gli stressor cronici sono agenti stressanti che hanno una insorgenza graduale, permangono nel tempo, e non è possibile prevederne il termine. Dunque, il concetto di stress e la classificazione degli stressor, offrono una chiave di lettura utile per comprendere i comportamenti delle persone impegnate nei contesti emergenziali come i soccorritori, che sono impegnati ed esposti a condizioni di criticità non indifferente che porta a dover avere prestazioni molto alte e richieste emotive differenti. A tale riguardo, è utile dover sottolineare che le reazioni di stress nei soccorritori in emergenza sono normali e vanno messe in conto tanto quanto quelle delle vittime di primo tipo. Anche i soccorritori meno esperti non si desensibilizzano tanto da restare completamente indifferenti a situazioni di forte disagio emotivo, soprattutto se si tratta di vittime come i bambini. Tali reazioni di stress possono dar luogo a riduzione della reattività psichica e a menomazioni transitorie della memoria, della capacità di problem solving e della capacità di comunicazione. Le reazioni di stress a lungo termine possono portare a depressione, ansia cronica e a sintomi di traumatizzazione vicaria come ripetizione dell’esperienza dell’evento, riduzione dell’reattività psichica, evitamento comportamentale e attivazione fisiologica. La letteratura sugli effetti stressanti dei compiti dei soccorritori è molto vasta, infatti risultano stressanti fattori come la forte pressione di ordine temporale, il sovraccarico di responsabilità, l’impegno fisico, l’impegno mentale in cui si richiede un tipo di elaborazione cognitiva più sofisticata, la necessità di operare in ambienti disagevoli, la carenza di risposte rispetto all’evento, l’esposizione diretta a situazioni pericolose e, in particolar modo, l’esposizione a richieste emotive molto forti. Robert Jay Lifton fu uno dei primi a studiare le reazioni degli operatori in emergenza. In particolare, studiò gli effetti devastanti della bomba su Hiroshima. I dati riportano che i soccorritori mostravano intensi sentimenti di paura, rabbia, odio e risentimento, che spesso interferivano con il loro lavoro. Altri studi in letteratura hanno sottolineato l’importanza di approfondire gli effetti del disastro sul personale che lavora in emergenza mettendo in evidenza come le ripetute esperienze di esposizioni a situazioni ad alta drammaticità possano esporre i soccorritori in emergenza al rischio di sviluppare disturbi significativi. Gli studi condotti da Jones e Ursano hanno trovato che i soccorritori in contesti emergenziali sembrano essere più sintomatici rispetto a un gruppo di controllo non esposto ad eventi drammatici o addirittura a pari livello delle vittime di primo tipo. Tuttavia, altri autori hanno evidenziato che possa essere possibile una generale capacità di recupero e mantenimento del benessere da parte dei soccorritori. Riportando una esemplificazione, soltanto il 13% dei vigili del fuoco che lavorarono come soccorritori nelle operazioni in contesti emergenziali in seguito all’attentato di Oklahoma City riportano disturbi da stress-post traumatico. E, sempre sulla stessa scia, altri studi hanno riportato che la maggior parte degli operatori coinvolti nei contesti emergenziali avevano un buon adattamento, alcuni ad esempio sembravano relativamente insensibili rispetto all’evento vissuto. Le reazioni di altri individui, invece, potevano addirittura essere confrontate a quelle di individui non esposti. Infine, studi condotti da Leffler e Dembert riscontrarono che alcuni soccorritori riportavano persino dei benefici in seguito all’esperienza vissuta nel contesto emergenziale. È per tale motivo che, a partire dagli anni ’80, si cominciò ad indagare quali 16 RIASSUNTO Gli operatori dell’emergenza. Fattori di rischio e protezione fossero le strategie di coping messe in atto dai soccorritori nei contesti emergenziali, per far fronte ad eventi stressanti. Neuropsicologia ed emergenza La paura a livello evoluzionistico rappresenta un’emozione alla base di una risposta istintiva ancestrale. Nei contesti emergenziali, la paura è la reazione emotiva più riportata. Durante uno stato psicologico emergenziale, tutte le risorse psicofisiche sono mobilitate con una velocità sconcertante e vengono focalizzate tutte allo stesso scopo: quello della sopravvivenza. In questi momenti, il cervello ha così poco tempo da perdere che può saltare i circuiti più particolari e affidare la vita ai circuiti automatici che hanno fatto sopravvivere al pericolo la maggior parte delle specie viventi. La neurobiologia dello stato psichico in situazioni emergenziali L’ipotesi principale del grande lavoro di LeDoux è che l’evoluzione abbia creato nel cervello della maggior parte delle specie viventi un sistema difensivo in grado di accorgersi del pericolo imminente e di attivare, consequenzialmente, risposte comportamentali al fine di aumentare le probabilità di sopravvivenza. Negli esseri umani, in quanto specie pensante e in grado di riportare i loro stati di coscienza, tale sistema difensivo è spesso, ma non inevitabilmente, intricato alla percezione soggettiva delle emozioni della famiglia della paura come l’ansia, l’orrore, il panico e la stessa paura. Il sistema difensivo è il prodotto di una programmazione genetica raffinata, data dall’evoluzione biologica, che fornisce risposte specifiche che favoriscono alla specie la sopravvivenza. Tale sistema non ha necessità di percezioni di paura per poter funzionare. I sentimenti legati inestricabilmente alla paura derivano dall’interazione di due sistemi neurali specifici: uno regola il sistema difensivo, l’altro regola la consapevolezza. È la sintonia del viaggio all’unisono tra i due sistemi che provoca l’esperienza individuale di paura; mancando uno dei due, o entrambi, si potrà dar luogo all’esperienza consapevole della paura. Gli studi classici di W. Cannon misero in evidenza che di fronte a stimoli minacciosi per la propria esistenza, gli individui fronteggiano la situazione emergenziale attraverso approcci diretti o di evitamento. È il classico binomio “fight or flight”. La risposta di fight (lotta) è molto meno frequente alla risposta di flight (fuga) nei confronti di una situazione di pericolo, ma in ogni caso è comunque successiva alla considerazione dell’opzione fuga. Come spiega Giovanni Liotti, gli etologi chiamano tale sistema difensivo “sistema motivazionale di difesa”. In molte specie di mammiferi, e chiaramente nell’uomo, il sistema di difesa si esprime attraverso quattro risposte fondamentali, chiamate le quattro “f”. Le risposte “fight or flight”, come descritto precedentemente, indicano rispettivamente lotta o fuga; la terza risposta è il “freezing” che sta ad indicare l’immobilità ipertonica con conservata padronanza sulla motilità, ed infine “faint” che sta ad indicare l’immobilità ipotonica con perdita della padronanza sulla motilità. Complessi pattern emotivi e schemi corrispondenti di attivazione neurovegetativa accompagnano tali risposte. Attraverso la descrizione dei Blanchard, si può evincere che persone diverse fanno cose simili in situazioni simili. Questa conformità suggerisce che impariamo tutti a provare paura alla stessa maniera o, magari, che i modelli di risposta alla paura sono geneticamente programmati nel cervello umano. Considerando la straordinaria somiglianza tra il comportamento difensivo umano e quello degli altri animali di fronte al pericolo, e ancora, l’identicità delle reazioni fisiologiche associate, quando le cose non funzionano bene, la mente in successione degenera nel panico e il comportamento difensivo diventa irrazionale. Ad esempio, in un contesto emergenziale la persona può rifiutarsi di muoversi e aiutare i soccorritori a farla uscire dalle macerie (freeze), o ancora la persona può aggredire 17 RIASSUNTO Gli operatori dell’emergenza. Fattori di rischio e protezione la guida alpina che sta cercando di imbracarla (fight), oppure dopo un gravissimo incidente, la vittima se ne va ed evita il personale di soccorso medico che potrebbe medicargli la ferita (flight). È importantissimo dover tenere in considerazione che i soccorritori debbano essere a conoscenza del fatto che tali reazioni sono del tutto naturali, e che bisogna necessariamente dare tempo e modo ai sistemi mentali più sofisticati di entrare in azione. Pertanto, gran parte dei soccorritori con esperienza alle spalle, sono a conoscenza di questi fenomeni basilari, ma spesso però non ne sono a conoscenza i soccorritori volontari che accorrono dopo le catastrofi. Le due paure del cervello emotivo Cosa succede dentro il cervello umano quando ci accorge di un pericolo? Le strutture cerebrali coinvolte nel riconoscimento e nella difesa dal pericolo sono: il talamo, l’amigdala, l’ippocampo (tre strutture sottocorticali) e la corteccia (in particolare quella prefrontale). È di particolare importanza la differenziazione tra l’attività fisiologica e quella mentale. Nello specifico, è necessario dover differenziare tra le aree corticali, specializzate nella cognizione umana, autoriflessiva e consapevole, e le parti sottocorticali, che stanno localmente al di sotto della corteccia, regolando gli aspetti essenziali alla vita fisica, funzionando in modo inconsapevole. Sono proprio le aree sottocorticali del sistema limbico fortemente implicate negli stati emotivi. Gli stimoli che possono indicare pericolo, quando entrano nel nostro sistema cerebrale, possono essere di vario genere come, ad esempio, le immagini, i suoni che segnalano il potenziale evento pericoloso, che dopo aver percorso vie inferiori vengono elaborate dal talamo che, a sua volta, smista i dati sensoriali. Il talamo, infatti, invia segnali in due direzioni: l’amigdala da un lato e la corteccia dall’altro. I suoni corrispettivamente vengono inviati alla corteccia uditiva, le immagini alla corteccia visiva e così via. La corteccia analizza lo stimolo proveniente, lo confronta con la memoria a lungo termine e ne stabilisce la sua pericolosità. Dopo queste elaborazioni, la corteccia invia le informazioni all’amigdala. Una delle sue funzioni è, infatti, quella di attivare il sistema difensivo. La funzione della corteccia è quella di inibire l’attivazione non appropriata dell’organismo piuttosto che quella di fornire delle risposte. Pertanto, se la sua funzione è quella di decidere che non vi è pericolo, che tutto è sotto controllo l’attivazione dell’amigdala non deve avvenire. La corteccia deputata alle decisioni e alla pianificazione dell’azione, e che inibisce l’attivazione dell’amigdala, è la corteccia frontale. Se un pericolo sta per avanzarsi, la corteccia fornirà l’informazione all’amigdala stimolando le sue funzioni. Esiste, anche, una via breve (o via talamica) che non passa per la corteccia e collega direttamente il talamo all’amigdala. Questa connessione è più veloce e diretta rispetto all’altra via, che dovendo fare un percorso più lungo coinvolgendo la corteccia e numerose connessioni, assume la connotazione di una via più “ragionata”. Pertanto, il lavoro della corteccia per quanto possa essere veloce richiede, chiaramente, il suo tempo; questo significa che la via diretta talamo-amigdala è più rapida, aggirando la lentezza e la ponderatezza corticale. La via diretta oltre ad essere più rapida, ha un’altra caratteristica importante e cioè quella di non entrare nella “consapevolezza”. Questo significa che gli individui possono trovarsi in uno stato psichico emergenziale senza averne nessuna consapevolezza e, quindi, potrebbero agire senza pensare (si trovano ad agire prima che la corteccia abbia valutato la situazione). Tale via 20 RIASSUNTO Gli operatori dell’emergenza. Fattori di rischio e protezione Il trauma psicologico nei soccorritori Il soccorritore che opera nei contesti emergenziali incorre a situazioni di forte disagio psicologico e di forte disagio emotivo che possono portare a una ingestibilità della situazione fortemente stressante, provando distress. Infatti, i traumi subiti dai soccorritori che operano in situazioni critiche sono specifici: l’operatore che assiste o interviene attivamente in un incidente altamente complesso, pur non essendo personalmente infortunato o implicato affettivamente con le vittime, corre il rischio di restarne emotivamente coinvolto. L’operatore dell’emergenza riconosce l’alto impatto emozionale sulla scena, ma ha la possibilità di far emergere ed attivare un processo di auto-protezione psicologica: innanzitutto, si percepisce come attivo protagonista dell’evento, in contrasto con il vissuto di passività sperimentato dalla vittima; successivamente, concentrandosi sugli aspetti puramente tecnici, al fine di svolgere al meglio la sua attività, può distogliere l’attenzione dalla componente emotiva. Queste risorse riguardano gli aspetti razionali e cognitivi cosicché possano fare da scudo alle componenti generate dall’impatto con le situazioni ad alta drammaticità relative ai traumi esperiti. Ma nel momento in cui, il soccorritore in emergenza non può esercitare la sua attività e l’apparato tecnico risulta inutile, quando non si può fare altro che accettare la morte della vittima, quando le immagini di morte violenta di giovani si fissano nella memoria visiva e rappresentano un ricordo di cui non si riesce a liberare, quando tali immagini restano impresse nella memoria per anni come qualcosa che ha a che fare con la morte o con la paura della morte che può colpire lui stesso o un membro della famiglia e, comunque in grado di condizionare le relazioni interpersonali e la propria idea di futuro, cosa accade? In presenza di tali circostanze, che possono impedire l’integrazione psichica dell’evento vissuto, l’impatto emotivo può determinare un vero e proprio trauma. D’altro canto, il termine trauma è stato usato spesso in modo improprio. Etimologicamente il termine trauma sta ad indicare “ferita”, “danno” o “schock”. Tale terminologia fu usata per la prima volta dal neurologo tedesco Albert Eulenburg per riferirsi all’impatto psicologico degli eventi stressanti sul funzionamento del sistema nervoso centrale; fu così che venne introdotto il termine trauma psichico. La tematica riguardante il trauma psicologico conobbe un’improvvisa ondata di interesse verso la fine degli anni ’70. Nella letteratura clinica e scientifica il termine evento traumatico è molto comune, e il termine trauma viene spesso usato come suo sinonimo. Ciò nonostante, gli eventi non sono traumatici di per sé, ma possono diventare traumatici a causa del loro effetto su un dato individuo. Pertanto, non tutti coloro che vivono un evento molto stressante saranno, poi, necessariamente traumatizzati. Quindi, questo significa, che possono esserci delle condizioni che andranno a sovrastare le capacità di fronteggiamento individuali e potranno portare ad una possibile sintomatologia clinica causando sentimenti di impotenza. Secondo Lingiardi, il trauma può essere considerato da due diversi punti di vista: soggettivo ed oggettivo. Per quanto riguarda il punto di vista oggettivo, la valenza traumatica è intrinseca all’evento, vale a dire che esistono degli eventi specifici, insostenibili per chiunque e quindi con un potenziale traumatico aprioristicamente determinato. Invece, per quanto riguarda il punto di vista soggettivo, è necessario valutare la portata individuale dell’evento e il modo in cui ciascun individuo reagisce. Lenor Terr afferma che il trauma è il risultato mentale di un evento sconvolgente che rende il soggetto temporaneamente impotente e interrompe le precedenti ordinarie operazioni di coping e di difesa. A conferma della definizione riportata, affermando che il grado di traumatizzazione di un individuo può dipendere principalmente da due fattori interagenti, caratteristiche oggettive dell’evento e caratteristiche soggettive che determinano l’energia psichica e l’efficienza mentale dell’individuo stesso, si rende necessario focalizzarsi sui fattori di vulnerabilità propri degli individui. 21 RIASSUNTO Gli operatori dell’emergenza. Fattori di rischio e protezione Che cosa viene definito traumatico: le categorie ufficiali L’esperienza di eventi stressanti nel corso della vita può dar origine a diversi tipi di problematiche e disturbi psicopatologici. I soccorritori, quotidianamente o meno frequentemente, possono incorrere ad eventi stressanti di vario genere. Non necessariamente però una sintomatologia può trasformarsi in un disturbo psicopatologico. Mentre una parte rilevante di soccorritori in emergenza potrà sperimentare, durante la propria attività di soccorritore, eventi stressanti potenzialmente dannosi, solo una percentuale modesta di loro avrà conseguenze psicologiche accertabili durature. I due sistemi classificatori più diffusi sono: il DSM dell’Associazione Psichiatrica Americana e l’ICD l’Organizzazione Mondiale della Sanità. Tali sistemi di classificazioni diagnostiche, caratterizzano in modo diverso il concetto di evento traumatico. Secondo l’ICD-10, sono definiti traumatici quegli eventi “di natura eccezionalmente minacciosa o catastrofica, in grado di provocare diffuso malessere in quasi tutte le persone”. Mentre, il DSM-5 presenta criteri più dettagliati e fornisce una lista di eventi che possono essere considerati traumatici: violenza sessuale, guerra, disastri naturali, attacchi terroristici, gravi incidenti automobilistici, esposizione indiretta ad eventi traumatici e, nei bambini, gli eventi sessuali inappropriati dal punto di vista dello stadio di sviluppo, anche in assenza di violenza o lesioni. Il DSM-5 descrive, inoltre, la molteplicità e la variabilità delle manifestazioni riconducibili al Disturbo da Stress Post-Traumatico, superando un limite del DSM-IV TR che si limitava a sottolineare la paura intensa e i sentimenti di impotenza o orrore, escludendo le reazioni meno visibili. Al di là del sistema di classificazione preso in riferimento, nell’assessment post- traumatico, ai fini della valutazione della traumaticità di un evento, è importante dover tenere in considerazione il quadro sintomatologico individuale che è un elemento necessario ma non sufficiente, così come necessaria ma non sufficiente è la valutazione delle caratteristiche dell’evento. Il disturbo da stress post traumatico nei soccorritori I soccorritori che intervengono nei contesti emergenziali sperimentano sintomi di Disturbo da Stress Post-traumatico che si prolungano spesso oltre la fase della crisi acuta e divengono di natura cronica. Negli ultimi vent’anni, c’è stato un aumento della consapevolezza riguardante le conseguenze derivanti dall’esposizione a tragici e raccapriccianti eventi dei lavori connessi ai contesti emergenziali e la possibilità di manifestarsi sintomi da stress traumatico. Bryant e Harvey riportano uno studio sui Vigili del Fuoco, il quale dimostra che il 26% del campione riporta alti livelli significativi di grave stress, dopo aver operato nel contesto di emergenza. I soccorritori riportarono sintomi che includevano sogni ricorrenti, sentimenti di estraneità, dissociazione, collera, irritabilità, o depressione, compromissione della memoria o della concentrazione, disturbi fisici e uso di alcool e sostanze. Altre due indagini empiriche sul personale dei servizi in emergenza che era intervenuto nel terremoto di Loma Prieta del 1989, suggerivano che il 9% degli operatori mostravano sintomi psichiatrici al livello di quelli di una popolazione di pazienti ambulatoriali. I soccorritori dell’emergenza in ambulanza, in particolare, sono stati osservati nel rispondere ad un quantitativo numero di chiamate di emergenza rispetto ai poliziotti e ai Vigili del Fuoco. Dai dati è emerso che gli operatori delle ambulanze riportavano uno stress psicologico maggiore rispetto alla categoria VF e Forze dell’ordine. E ancora, il 30% del personale di ambulanza scozzese riportarono sintomi nella fascia alta del test IES (Scala Impatto dell’evento). 22 RIASSUNTO Gli operatori dell’emergenza. Fattori di rischio e protezione Dunque, il personale di soccorso in emergenza si trova fortemente a rischio nel sviluppare una sintomatologia clinica come il PTSD. A questo punto, come definire il Disturbo da Stress Post-traumatico? Nella prima edizione del DSM era prevista una categoria nosologica chiamata “Goss Stress Reaction”, il quale indicava una sindrome conseguente a guerre o a catastrofi civili. Con la pubblicazione del DSM-II, viene inserita una nuova categoria nosologica che, apparentemente, sembra ridimensionare le reazioni al trauma. Tale categoria prese il nome di “Transient Situational Disturbances”. Col passare degli anni, l’interesse per le conseguenze ad eventi traumatici si è evoluto: dalla denuncia degli abusi sessuali subiti dalle donne, la prevenzione del maltrattamento e dell’abuso sessuale dei bambini, lo studio delle patologie post- traumatiche nei reduci di guerra in particolare la Guerra del Vietnam negli anni ’70, nei sopravvissuti all’Olocausto e così via. Tali studi hanno portato gli psichiatri a delineare un quadro clinico specifico e ben articolato: il Disturbo da Stress Post-Traumatico (PTSD, post-traumatic stress disorder). Il DSM-IV TR faceva rientrare il PTSD tra i disturbi d’ansia. Considerando che l’ansia e le reazioni di attivazione fisiologica sono solo una categoria dell’intera costellazione di sintomi, tale classificazione risultava discutibile. È per questa ragione che nella nuova edizione del DSM-5 è stato dedicato un intero capitolo ai Disturbi correlati a eventi traumatici e stressanti che comprende, oltre al disturbo da stress post-traumatico, anche il disturbo reattivo dell’attaccamento, il disturbo da impegno sociale disinibito, il disturbo da stress acuto e i disturbi dell’adattamento. Il DSM-5 attribuisce al PTSD una eziologia specifica; infatti, per poter essere diagnosticato, deve essere oggettivato un evento traumatico. Infatti, tale eziologia specifica sposta il focus della domanda da “che cosa non va in questa persona?” a “che cosa è accaduto in questa persona?” Il Disturbo da stress post-traumatico è un disturbo che ha una causa esterna evidente, un evento macroscopicamente evidente. La caratteristica essenziale del PTSD è lo sviluppo di sintomi tipici che seguono l’esposizione a uno o più eventi traumatici. La manifestazione clinica del disturbo è variabile da individuo a individuo. Infatti, in alcuni individui può essere predominante il rivivere con paura i sintomi emotivi e comportamentali, mentre in altri individui possono creare maggiore sofferenza gli stati d’animo anedonici o disforici e i pensieri negativi, in altri ancora, si evince una predominanza di sintomi di arousal e reattivo-esternalizzanti o di sintomi dissociativi. Altri individui, possono mostrare combinazioni multiformi di tali pattern di sintomi. Il PTSD si può manifestare a qualsiasi età; i sintomi insorgono in genere nei primi 3 mesi dopo il trauma, sebbene possa esserci un ritardo di mesi o anche di anni prima che siano soddisfatti i criteri per una diagnosi, e per tale motivo si definisce “espressione ritardata”. Spesso la reazione di un individuo a un trauma soddisfa i criteri per il disturbo da stress acuto immediatamente dopo il trauma. I sintomi del PTSD e la predominanza sintomatologica differente può variare nel tempo. La ricorrenza e l’intensificazione sintomatologica può verificarsi in risposta a fattori che suscitano ricordi del trauma originale, fattori stressanti della vita quotidiana o eventi traumatici vissuti recentemente. 25 RIASSUNTO Gli operatori dell’emergenza. Fattori di rischio e protezione mantenere un atteggiamento di neutralità. Il rapporto empatico con le persone traumatizzate può causare un cambiamento nel modo in cui l’operatore percepisce sé stesso, gli altri e il mondo. Ascoltando i dettagli delle esperienze traumatiche che vengono riportate dai pazienti, l’operatore diventa testimone della realtà traumatica del paziente e questa esposizione può portare ad una trasformazione all’interno del suo funzionamento psicologico. Queste modificazioni negli schemi cognitivi possono avere effetti negativi sulla sua vita personale e professionale. Si parla di traumatizzazione vicaria o secondaria quando l’operatore si ritrova a vivere egli stesso un’esperienza traumatica, non per esposizione diretta, ma per il contatto con la persona traumatizzata. In altre parole essi possono ritrovarsi a “vivere” il trauma di un’altra persona in qualità di soccorritori, parenti, o amici della vittima stessa. In questi casi è fondamentale non attendere che i sintomi svaniscano, perché nel tempo essi potrebbero intralciale le normali capacità lavorative. Esistono diversi fattori di rischio di sviluppare una traumatizzazione vicaria per il soccorritore che presta il suo aiuto nelle emergenze: la continua esposizione alla morte, il rischio di contagio, la mancanza della rete familiare, l’alto impatto emotivo del soccorso, turni massacranti o il continuo cambio di mansioni che porta a lavorare in gruppi misti e sempre nuovi. L’alta motivazione, la capacità di prefigurarsi possibili criticità ed esperienze pregresse favorevoli in situazioni analoghe costituiscono invece fattori di protezione che possono mettere al riparo chi presta il proprio aiuto da una traumatizzazione secondaria. È opportuno programmare con i soccorritori brevi spazi di decompressone, programmati e organizzati nelle pause dai turni di lavoro; si tratta di interventi di supporto individuale o in piccoli gruppi che favoriscono la mobilitazione delle risorse e il ripristino di un senso di sicurezza. Se non si interviene, l’alterazione dell’emotività e degli schemi cognitivi può diventare permanente, in quanto ogni nuova esperienza con una nuova persona traumatizzata rinforza questi cambiamenti negativi. Per definire l’insieme di reazioni comportamentali ed emotive alla conoscenza di eventi traumatici sperimentali da altri o in seguito all’aiuto/tentativo di aiuto a persone traumatizzate si usa l’espressione Stress Traumatico Secondario (STS). L’STS può manifestarsi attraverso sintomi che sono similari a quelli del DPTS: rivivere continuamente shock, il mettere in atto comportamenti di evitamento e di ipervigilanza. Da recenti ricerche, si è evinto che i professionisti che sono ad alto rischio per lo sviluppo di STS sono gli assistenti sociali, gli operatori sanitari militari, gli operatori sanitari civili e, più in generale, chiunque lavori con i sopravvissuti al trauma. Gli operatori hanno bisogno di brevi interventi al fine di proteggere la loro salute mentale, attraverso la formazione permanente e le cure preventive. Stamm sottolinea che il vero nemico dell'operatore sia in realtà l'operatore stesso. Ogni operatore che si espone particolarmente al rischio di sviluppare disordini quali il trauma vicario o lo stress Traumatico Secondario, nel momento in cui adotta un atteggiamento di totale distacco dalle proprie emozioni, causa un discontrollo dei propri sentimenti. Questi atteggiamenti indurranno lo stesso a divenire incapace di verbalizzare le sue emozioni. 26 RIASSUNTO Gli operatori dell’emergenza. Fattori di rischio e protezione La crescita post traumatica Diverse ricerche hanno indicato l'esistenza di cambiamenti positivi a seguito di esposizione al trauma. È possibile dare una definizione al costrutto di crescita post‐ traumatica, in quanto tendenza a riferire cambiamenti positivi a livello personale e sociale dopo aver vissuto un trauma. Nel 1996 autori come Tedeschi e Calhoun hanno introdotto il termine crescita post‐ traumatica, concettualizzando tre aree principali di cambiamento in positivo dopo un evento traumatico: nella percezione di sé, nelle relazioni interpersonali e nella filosofia di vita. Il cambiamento nella percezione di sé avviene nel momento in cui l'individuo assume l'identità di una persona che ha superato un grosso ostacolo, esperendo sentimenti come una maggiore fiducia in sé stessi e una maggiore consapevolezza della propria vulnerabilità. L’area delle relazioni interpersonali può caratterizzarsi per una aumentata vicinanza emotiva, un maggiore senso di appartenenza e di fiducia nei confronti altrui. L'evento traumatico potrebbe, paradossalmente, indurre a una maggiore apertura di sé nei confronti degli altri. Il saper riconoscere la propria vulnerabilità può portare a una migliore capacità nell'esprimere le proprie emozioni. Ruolo chiave giocheranno l'empatia e la compassione nei confronti delle persone sofferenti. Infine, lo sviluppo di una nuova filosofia di vita potrebbe rinnovare la componente spirituale, cambiando le priorità e gli atteggiamenti dısfunzionali nei confronti della vita. Arnold e collaboratori, basandosi sul costrutto di crescita post‐ traumatica, hanno coniato il concetto di "crescita personale da stress post‐ traumatico secondario" (SPTG) per indicare i cambiamenti positivi riguardanti il rapporto con il proprio sé e con il mondo. Secondo Cohen e Collens la crescita personale post‐traumatica secondaria è uno dei risultati principali di esposizione indiretta al trauma vissuto da professionisti della salute e dei servizi umani; di fatto, è il risultato di essere costantemente esposti a materiali che possono causare uno shock dato dalle esperienze traumatiche vissute. Secondo il modello SPTG proposto da Cohen e Collens, le aree di cambiamento riguardano la crescita personale, gli atteggiamenti verso la vita, i valori, l’autoefficacia e lo stile di vita. In particolare, l'autoefficacia si riferisce alle credenze di un individuo sulla propria capacità far fronte alle richieste stressanti, da parte dell'ambiente circostante o del proprio lavoro. L'avere un atteggiamento più propositivo porta ad avere delle credenze più costruttive, permettendo agli individui di affrontare in modo più efficace i fattori stressanti. Originariamente il concetto di autoefficacia è stato sviluppato per descrivere la reazione a vari eventi stressanti. L'autoefficacia è una cognizione modificabile, che può essere arricchita rinforzata. Gli interventi finalizzati alla promozione della salute mentale fisica spesso utilizzavano queste tecniche. Nonostante ciò, in una recente ricerca di Steinmetz e collaboratori, attraverso la persuasione verbale e le tecniche di autoregolazione emotiva, si cercato di promuovere l'autoefficacia anche attraverso Internet. Autori come Newell e MacNeil hanno proposto un intervento divulgazione, suggerendo programmi di formazione approfondita per i lavoratori indirettamente esposti ai traumi. Questa formazione dovrebbe essere non solo durevole nel tempo, ma dovrebbe anche fornire informazioni sull'esposizione indiretta, sulle conseguenze nascenti e sulle risorse utili per la prevenzione. 27 RIASSUNTO Gli operatori dell’emergenza. Fattori di rischio e protezione Una recente meta‐analisi ha valutato i sintomi del Disturbo da Stress Post‐ Traumatico tra i sopravvissuti esposti direttamente al trauma, confrontando gli effetti di interventi basati su Internet (procedure attive, tecniche cognitivo‐comportamentali e così via) rispetto a: (1) nessun trattamento (p.e. essere solamente inseriti in una lista d'attesa) e (2) altre condizioni di controllo (istruzione o esercizi di scrittura basati su Internet, ma non tecniche cognitivo‐comportamentali specifiche). Dai risultati è emerso che le procedure attive basate su Internet sono risultate più efficaci nel ridurre il PTSD rispetto ai gruppi di controllo rimasti senza trattamento. L’attaccamento come fattore di rischio e protezione La teoria dell’attaccamento di John Bowlby e dei suoi continuatori viene considerata da molti clinici come un fondamento tra differenti orientamenti teorici ed operativi. Nella teoria dell’attaccamento, infatti, contribuiscono elementi provenienti da diversi orientamenti come la psicoanalisi, la psicologia cognitiva clinica e sperimentale, l’etologia, la cibernetica, la neurofisiologia, la teoria neo-dissociativa di Hilgard e l’approccio sistemico. Tale teoria è molto utile per una lettura e una pratica approfondita della psico-traumatologia. John Bowlby ipotizzò l’esistenza di un sistema motivazionale primario e autonomo: il sistema di attaccamento. L’impianto concettuale di tale teoria è stato descritto nei principali tre volumi che compongono la sua grande opera: Attaccamento e perdita. Secondo l’autore, i bambini nascono già con un repertorio comportamentale chiamato “comportamenti d’attaccamento”, selezionato durante l’evoluzione della specie, che ha come fine quello di aumentare la probabilità di mantenere la vicinanza ad altri supportivi chiamati “figure d’attaccamento”. Bowlby basandosi sulla teoria cognitiva dell’informazione, sviluppa il concetto di internal working models, modelli operativi interni (MOI) delle interazioni di attaccamento. I modelli operativi interni, attraverso una sofisticata e complessa metodologia di ricerca empirica, possono svilupparsi a partire da una disposizione innata che accompagna l’essere umano dalla culla alla tomba. I MOI sono rappresentazioni mentali della disponibilità e utilità concreta della figura di attaccamento e del sé in relazione a queste figure. Queste rappresentazioni delle interazioni, durante lo sviluppo, vengono generalizzate andando a costituire dei modelli rappresentazionali relativamente fissi che il bambino, e poi l’adulto, utilizzerà per prevedere gli eventi e mettersi in relazione con gli altri, configurando un’importante funzione adattiva. Nonostante ciò, se da un lato il MOI garantisce stabilità dall’altro consente al bambino di sviluppare strategie difensive e di coping, essenziali e alla base per poter comprendere i diversi stili di attaccamento. Sono stati identificati diversi tipi di attaccamento. Le varie tipologie sono: sicuro, insicuro- evitante, disorientato-disorganizzato. Queste tipologie di attaccamento si differenziano tra loro in relazione alle modalità attraverso le quali il bambino ed il caregiver condividono i propri stati mentali e le emozioni. Nell’attaccamento sicuro, il MOI si costituisce per l’esperienza di risposte accettanti fornite dal caregiver (colui/colei che si prende cura abitualmente del bambino). Il legame biologico ha poca importanza nei confronti delle richieste di aiuto, protezione e conforto che il caregiver rivolge. Nel MOI dell’Attaccamento Sicuro la rappresentazione sé-altro veicola una considerazione positiva delle proprie emozioni, grazie alle risposte memorizzate dell’altro: ad esempio, il pianto del bambino che esprime dolore è dotato di valore, senso ed efficacia, agli occhi del bambino, se l’altro è responsivo. 30 RIASSUNTO Gli operatori dell’emergenza. Fattori di rischio e protezione La capacità di mentalizzare gli stati mentali delle altre persone, cioè la componente interpersonale, è invece alla base dell’empatia (cioè la consapevolezza e la parziale condivisione degli stati mentali dell’altro manifestando la capacità di regolare l’affetto e mantenendo la distinzione tra il sé e l’altro). In assenza di capacità riflessive il comportamento non assume un significato e non è possibile essere empatici. Il processo della mentalizzazione, quindi, è caratterizzato da due aspetti: 1) percepire gli stati mentali (rappresentarsi gli stati mentali propri e degli altri); 2) interpretare il comportamento sulla base di stati mentali intenzionali. Si distinguono, inoltre, una mentalizzazione esplicita e una implicita. La mentalizzazione esplicita corrisponde al “pensare e parlare degli stati mentali” propri e degli altri, è conscia, legata al linguaggio verbale e tende ad assumere il carattere di una narrazione. Può essere più facilmente appresa culturalmente (attraverso modelli e stereotipi sociali) o con l’esperienza (in famiglia, con gli amici, a scuola, sul lavoro o in psicoterapia), ma anche imitata o falsificata attraverso atteggiamenti solo apparentemente mentalizzanti. La mentalizzazione implicita, al contrario, è una “mentalizzazione intuitiva, procedurale, automatica e non conscia”, è maggiormente legata al comportamento non verbale e anch’essa può riguardare sia sé (senso del Sé, affettività mentalizzata) che gli altri. Si manifesta in modo spontaneo nella capacità di cambiare turno in una conversazione, quando si reagisce alle emozioni delle altre persone, o quando si utilizza un comportamento non verbale (uno sguardo significativo o un gesto espressivo, ad esempio accarezzare o toccare una parte del corpo dell’altro, come il volto, una spalla, una mano o una gamba) con la chiara intenzione di comunicare un proprio stato mentale o la comprensione dello stato mentale dell’altro. Non esiste un confine definito tra mentalizzazione esplicita e implicita. Bisogna considerare, inoltre, che i trattamenti psicoterapeutici, compresi quelli basati sul costrutto di mentalizzazione e di attaccamento, mirano a incrementare soprattutto le capacità riflessive esplicite. Per la sua natura spontanea, non consapevole e procedurale, infatti, la mentalizzazione implicita è più difficile da riconoscere, da descrivere e da modificare attraverso interventi verbali diretti di tipo interpretativo o cognitivo-comportamentale. In ogni caso la mentalizzazione, occupandosi della comprensione degli stati mentali propri e degli altri, è stata considerata il più importante fattore comune di tutti i trattamenti psicoterapeutici. Assumere un atteggiamento psicologico mentalizzante costituisce un notevole vantaggio in termini evoluzionistici, in quanto permette di comprendere meglio le proprie reazioni e andare oltre le apparenze nel valutare il comportamento degli altri, interpretando con maggiore successo le loro intenzioni. Bisogna però considerare che le capacità di insight hanno sempre dei limiti e che gli stati mentali altrui possono essere solo ipotizzati, in quanto non è possibile avere la certezza di quello che passa per la mente di una persona. La pretesa di sapere quello che un altro pensa non è espressione di una mentalizzazione, ma piuttosto del contrario. Non tutti gli stati emotivi, inoltre, implicano necessariamente un processo di mentalizzazione. In alcuni casi si può essere travolti da un’emozione senza riuscire ad attribuirle un significato psicologico (come durante un attacco di panico), altre volte mentalizzare è inutile, eccessivamente dispendioso o anche pericoloso. Oltre a permettere una comprensione del comportamento proprio e altrui, la mentalizzazione favorisce la rappresentazione psicologica e la simbolizzazione del proprio stato interiore ed è quindi determinante per l’organizzazione e l’integrazione 31 RIASSUNTO Gli operatori dell’emergenza. Fattori di rischio e protezione psicosomatica del Sé. Mentalizzare, infatti, non solo permette l’automonitoraggio (il riflettere sul proprio pensiero e sul proprio comportamento) e l’esperienza di self-agency (il riconoscersi come soggetto responsabile e protagonista delle proprie azioni), ma anche la regolazione e il controllo delle emozioni e degli impulsi (compresi gli stati somatici ad essi correlati), risultando fondamentale per una valida regolazione psicosomatica e un’adeguata gestione dello stress. Il concetto di regolazione/disregolazione emotiva si è recentemente fatto spazio all’interno della ricerca sulle emozioni. Molti teorici contemporanei concordano sul fatto che la risposta emotiva coinvolge nell’uomo tre sistemi o insiemi di processi interrelati: i processi neurofisiologici, in particolare l’attivazione neuroendocrina e del sistema nervoso autonomo; i processi motori o comportamentali/espressivi; un sistema cognitivo- esperenziale. Il processo di regolazione emotiva si basa sulla possibilità di integrazione tra loro e con l’ambiente di questi tre sistemi. L’attivazione di uno qualsiasi dei domini di risposta emotiva altera o modula l’attivazione degli altri e, inoltre, le interazioni sociali e altri aspetti dell’ambiente possono favorire una regolazione interpersonale che può avere un ruolo di supporto o un effetto disorganizzante. Il concetto di regolazione degli affetti comprende gli atti compiuti al fine di modulare le emozioni esperite ed espresse. Lo sviluppo degli affetti e di quelle capacità cognitive che servono a regolarli è strettamente connesso alla relazione del neonato e del bambino con le figure significative che si prendono cura di lui. Stern ha sottolineato come il caregiver, attraverso la sintonizzazione con le espressioni comportamentali delle emozioni del bambino, sia in grado di rispondere con cure ed espressioni emotive appropriate, che contribuiscono ad organizzare e regolare la vita emotiva del bambino. La condivisione, il rispecchiamento delle emozioni e l’esperienza della sicurezza nell’ambiente familiare hanno un’importante influenza sullo sviluppo affettivo del bambino e sulla nascita delle sue rappresentazioni del sé e dell’oggetto. Fonagy riprende il concetto di rispecchiamento affettivo e lo considera strumentale alla promozione della capacità di regolazione affettiva attraverso la capacità di una rappresentazione di secondo ordine degli stati affettivi costitutivi. Secondo Sroufe il bambino passa da un sistema di regolazione diadico a uno individuale. L’autore definisce l’attaccamento stesso come modalità di regolazione diadica delle emozioni ed evidenzia come esso costituisca la base da cui si evolve l’autoregolazione. Anche Schore considera la teoria dell’attaccamento essenzialmente come una “teoria della regolazione intenzionale tra due organismi sincronizzati a livello biologico”. Schore e Schore sostengono che una “moderna” teoria dell’attaccamento non possa prescindere dall’essere una teoria della regolazione: la centralità dei processi di attaccamento nel ciclo di vita può essere oggi spiegata attraverso i contributi teorici e di ricerca interdisciplinari, che negli ultimi quindici anni hanno sviluppato le idee di Bowlby ed hanno portato alla costruzione di un modello più complesso e rilevante dal punto di vista clinico, che ha l’obiettivo di comprendere in modo più integrato i disturbi del sé e della regolazione degli affetti. La famiglia rappresenta il più importante contesto di esperienza emotiva di cui il soggetto sia partecipe nel corso del suo sviluppo. Per comprendere in quale maniera essa possa costituire un fattore di influenza nella definizione della regolazione emotiva dei figli possiamo fare riferimento alle ricerche che si sono occupate della qualità della genitorialità, intesa come una competenza determinata a sua volta da un insieme di fattori tra loro interdipendenti. Preservare il senso della sicurezza emotiva mediante una buona regolazione rappresenta dunque un importante 32 RIASSUNTO Gli operatori dell’emergenza. Fattori di rischio e protezione obiettivo che organizza l’esperienza emotiva individuale, le relative tendenze all’azione e la valutazione di sé e delle relazioni interpersonali. Quindi i 2 sistemi di regolazione affettiva giungono insieme al punto in cui l'affetto primario processato nel cervello destro viene ulteriormente processato nel sinistro. È da qui che l'esperienza somatica diventa parole nella mente, che il non verbale diventa verbale e che il processamento preconscio (implicito nel cervello destro) è superato dal processamento cosciente (esplicito nel cervello sinistro). I processi del cervello sinistro (verbali, lineari) deliberati dal sistema di mentalizzazione sono decisamente lenti per interazioni in tempo reale. Per tanto, solo grazie a questi l'individuo si rende capace di riflettere sugli stati affettivi propri e degli altri. Dunque, tali processi permettono valutazioni multiple su ciò che è accaduto o che accadrà, offrendo una comprensione attenuata di affetti e correggono o avvalorano le reazioni viscerali generate dal sistema primario. Il lavorare in condizioni di emergenza può comportare molto stress. Se i fattori individuali non sono abbastanza forti da utilizzarli come dei fattori protettivi, si rischia l'insorgenza di eventuali condizioni cliniche. Es: può succedere che i soccorritori siano a loro volta genitori, zii, addirittura nonni di bambini che hanno quasi la stessa età di coloro che sono morti. Se l'affetto è disregolato, le capacità di mentalizzazione vengono ridotte, incorrendo in un'ulteriore disorganizzazione. Le strategie di coping e la resilienza Il costrutto di coping fa riferimento alla modalità con cui le persone cercano di fronteggiare o gestire eventi traumatici o situazioni particolarmente stressanti. Il coping è una caratteristica più o meno stabile di personalità, che determina le differenze individuali nel modo di reagire a eventi di vita potenzialmente traumatici; il coping comporta reazioni flessibili e mutevoli ad eventi di vita stressanti. Ad oggi, il coping viene concettualizzato come un processo che nasce in situazioni che mettono alla prova le risorse di un individuo. In tale ottica, l’obiettivo consiste quindi nell’indentificare la valutazione cognitiva di tali eventi da parte della persona, le eventuali reazioni di disagio, il tipo di risorse personali e sociali, gli sforzi di coping e gli esiti a lungo termine di questi sforzi. Proprio in questo modo risalta la natura ciclica e cumulativa del processo, con una influenza reciproca tra gli elementi coinvolti. Di diversa tipologia, sono state negli anni le ricerche sul coping, ma principalmente si evincono quattro temi fondamentali: la descrizione delle caratteristiche fondamentali delle strategie di coping (quali sono e quante sono); la descrizione dei fattori che ne influenzano l’acquisizione e l’uso di risposte di coping (sono inclusi gli aspetti socio- contestuali e gli aspetti di personalità); cosa rende gli sforzi di coping efficaci e cosa non li rende efficaci; quali aspetti delle strategie di coping possono essere soggetti a modificazione. Generalmente, le risposte di coping comprendono tutte le azioni adottate da un individuo a fronte di un evento potenzialmente stressante e le emozioni provate ed esperite a tale evento. La maggior parte degli studi presenti in letteratura indicano che le strategie di coping svolgono in particolare due funzioni essenziali: la prima riguarda la riduzione del rischio delle conseguenze dannose che potrebbero risultare da un evento stressante (coping focalizzato sul problema) e la seconda cercare di contenere le reazioni emozionali negative (coping focalizzato sulle emozioni). La strategia di coping focalizzata sul problema, trova la sua massima espressione in due fattori: il coping attivo e la pianificazione. La strategia di coping focalizzata sulle 35 RIASSUNTO Gli operatori dell’emergenza. Fattori di rischio e protezione Critical incident: definizioni di base Il Critical Incident è stato definito da Mitchell e Everly come qualunque situazione capace di esercitare nell’individuo un impatto fortemente stressante, tale da annientare i meccanismi di difesa e di coping solitamente utilizzati. Il Critical Incident tende a produrre nell’individuo una forte reazione emotiva, capace di interferire negativamente nell’utilizzo dei propri schemi cognitivi e skills. Negli operatori di emergenza questa condizione può generare diversi effetti: da forte disagio ad uno stato di conclamata patologia. Può produrre una forte diminuzione delle proprie capacità professionali, che si esprime anche attraverso un senso di disagio, un disorientamento nella scena dell’evento fino ad un vero e proprio malessere, che non permette di ottenere l’indispensabile sintonia con gli altri operatori con i quali si trova ad operare (componenti della propria équipe: autisti soccorritori, infermieri, medici; altre équipe: forze dell’ordine; vigili del fuoco), non permette di utilizzare in modo corretto i protocolli operativi o linee guida, non permette di valutare con la necessaria lucidità le esigenze del paziente o dei pazienti (Triage) e le appropriate modalità terapeutiche da utilizzare. Inoltre, si può riscontrare un’insufficiente valutazione dei pericoli presenti sulla scena dell’evento. Dunque, la gestione dello stress da evento critico costituisce la struttura dell’intervento sulla crisi per la gestione delle conseguenze emozionali di eventi critici. Debriefing psicologico Il debriefing psicologico (CISM) viene classificato come un intervento di prevenzione secondaria della durata di 60-180 minuti rivolto ad un gruppo omogeneo di circa 8-10 persone, vittime primarie o vittime terziarie, che hanno vissuto ed esperito un evento potenzialmente a rischio di sviluppo sintomatologico. Tale intervento ha luogo da uno a dieci giorni dopo un evento critico e da tre a quattro settimane dopo un disastro. Il setting è generico, basta che ci sia una struttura che possa offrire sicurezza e privacy. I facilitatori di tale intervento sono essenzialmente due operatori (due professionisti o un professionista più un pari. Gli obiettivi ai fini dell’intervento, riguardando l’aiuto alle vittime nel farli comprendere e a farli gestire le emozioni intense, a identificare le strategie di coping efficaci e a ricevere sostegno dagli altri normalizzando le emozioni attraverso il supporto e il confronto sociale. Il CISM si suddivide essenzialmente in sette fasi: introduzione, fatti, pensieri, reazioni, sintomi, insegnamento e rientro. Nella prima fase, quella dell’introduzione, vengono presentati gli obiettivi del debriefing, si definiscono i rapporti di confidenza, le regole del gruppo e si facilita la presentazione dei partecipanti. Nella fase dei fatti, si chiede ai partecipanti di descrivere cosa è accaduto, dove si trovano, cosa hanno percepito. Nella terza fase, quella dei pensieri, viene chiesto di ricordare i pensieri, i ragionamenti e ciò che è passato per la mente in quel momento, se ci sono pensieri riguardo norme e regole che sono stati rispettati o lesi durante l’evento. Nella fase di reazione si chiede di esprimere le sensazioni e i sentimenti provati durante e dopo l’evento, prestando particolare attenzione a non esplorare materiale emozionale che genera sentimenti ingestibili tra cui l’ansia, la vulnerabilità e l’impotenza. Sempre in questa fase, si incoraggia la persona a dare un nome alla propria emozione e a quantificarla; successivamente si indagano eventuali risposte positive all’evento. Nella fase dei sintomi si aiutano le persone a riconoscere le manifestazioni più comuni di stress evitando la terminologia “patologica”. Nella fase dell’insegnamento si cerca di dare informazioni e suggerimenti, si cerca di incoraggiare a valutare le risorse di sostegno sociale e a dedicarsi ad attività che possano ridurre lo stress. Infine, in particolar modo quando si tratta di lutto, si può invitare il 36 RIASSUNTO Gli operatori dell’emergenza. Fattori di rischio e protezione singolo o il gruppo a scegliere un rito, un segno comune o di conclusione del lutto. Tale rito, come ad esempio piantare un fiore, è utile ai fini di facilitare una ripresa e una nuova fase della vita. Nell’ultima fase, quella del rientro, si riassume e si verifica se qualcosa è rimasto in sospeso. Si termina il debriefing sottolineando gli aspetti positivi emersi nelle varie fasi cercando di parlare non di problemi ma di risorse, cercando di far ricordare incessantemente che ogni individuo ha delle risorse e dei mezzi che può mettere in atto per affrontare i momenti di crisi. Infine, si rilasciano le indicazioni per incontri futuri rimarcando il patto di alta confidenzialità. In letteratura vi è stato un ampio dibattito sul debriefing riguardante la sua efficacia come attività di prevenzione secondaria nei confronti di disturbi psicopatologici. Due metanalisi basate su studi controllati o randomizzati hanno evidenziato che una sessione di debriefing non è una procedura in grado di prevenire l’insorgenza di disturbi post-traumatici. Questi studi hanno alimentato quel dibattito che in letteratura viene definito debriefing debate. Gli oppositori di tale intervento sostengono che vi possa essere un danno associato a interventi di tipo intrusivo nel brevissimo periodo, in quanto vanno a sensibilizzare le persone sulle loro reazioni e sul disagio portato all’evento senza concedere il tempo necessario per abituarsi alle circostanze e impedendo quindi un buon recupero. I sostenitori, ritengono che la rievocazione precoce in memoria dell’evento traumatico interferisca con i processi cognitivi di adattamento e favorisca una ruminazione eccessiva e una maggiore consapevolezza delle risposte emotive; nel debriefing vi può essere una indiretta patologizzazione delle reazioni normali di tipo post- traumatico. I sostenitori del debriefing optano più per una visione “serve in determinate circostanze non serve in altre circostanze”. Diverse esperienze europee di utilizzo del debriefing con Vigili del Fuoco, Militari, Volontari dell’aiuto umanitario dimostrano che tale intervento abbia una sua efficacia con le squadre di soccorritori subito dopo un trauma vicario I sostenitori di tale intervento indicano che non vado eseguito da solo ma soltanto all’interno del protocollo di gestione più ampio come il CISM. Infatti, secondo Roberts ed Everly, attraverso una metanalisi esplorativa, hanno rilevato che l’applicazione del CISM ha una efficacia superiore rispetto ad interventi in cui la tecnica del debriefing è stata utilizzata singolarmente. Defusing Gli obiettivi principali del defusing sono diversi, tra cui il poter offrire una tempestiva possibilità di supporto, condivisione ed assistenza, ridurre lo stress psicofisico causato dall’evento critico, favorire la normalizzazione, valutare la necessità di provvedere ad un invio, superare la necessità di effettuare un CISD e rafforzare la disponibilità ad effettuare un CISD, se ancora necessario. L’intervento viene condotto in alcuni casi da Psicologi dell’Emergenza e in altri casi da peer supporter preparati per gli interventi di supporto ai colleghi. Caso per caso, in base alla gravità dei fatti accaduti, si determina la condizione più opportuna. Per quanto riguarda le tempistiche, viene impiegato quanto prima possibile dopo l’incidente, solitamente dopo poche ore l’evento e nella stessa giornata. Il setting è generico, basta che ci sia una struttura che possa offrire sicurezza e privacy, proprio come per il CISM. Cambia l’impostazione del setting, qualora l’intervento non venisse applicato secondo il protocollo di Mitchell. Tale impostazione viene definita informale, in quanto viene svolto nel posto in cui si trovano in quel momento gli individui. La durata dell’intervento è solitamente di 45 minuti, a parte alcuni casi in cui si può protrarre per un’ora. In conclusione, è possibile poter affermare che intervenire professionalmente sugli aspetti relazionali dei momenti di crisi significa saper essere in grado di gestire le 37 RIASSUNTO Gli operatori dell’emergenza. Fattori di rischio e protezione emozioni, proprie e altrui, saper lavorare, con le dimensioni che sostengono le azioni personali e collettive, che motivano e guidano i piani di azione e le organizzazioni stesse. Tali interventi favoriscono lo sviluppo nella persona della capacità di far fronte all’evento. Ipso facto, l’obiettivo si focalizza nel far scoprire ai soggetti le risorse personali e organizzative attivabili in caso di necessità. Eye Movement Desensibilization and Reprocessing (EMDR), psicoterapia ipnotica, psicoterapia cognitivo-comportamentale La ri-elaborazione, la verbalizzazione e l’integrazione del vissuto traumatico possono avere un ruolo chiave nel trattamento del trauma. Infatti, sono state create specifiche strategie di intervento psicoterapeutico per intervenire sul soccorritore che opera nei contesti di emergenza rimasto altamente coinvolto dagli eventi stressanti e/o nel caso in cui esperienze in emergenza avessero destabilizzato un equilibrio psicologico precario. Eye Movement Desensibilization and Reprocessing (EMDR) Nel 1987 la Psicologa Francine Shapiro diede inizio allo sviluppo di un nuovo strumento nella psicoterapia: l’Eye Movement Desensitization and Reprocessing (EMDR). Tale metodo psicoterapico strutturato facilita il trattamento di diverse psicopatologie e problemi legati ad eventi traumatici e a esperienze comuni ma emotivamente stressanti. Infatti, sintetizza elementi di molte altre psicoterapie efficaci, come la terapia psicodinamica, cognitivo-comportamentale, incentrata sulla persona e sul corpo. L’integrazione di tali approcci con gli elementi caratteristici dell’EMDR, come la breve esposizione al materiale traumatico o associato al trauma, la stimolazione con duplice focus di attenzione (ad esempio, i movimenti oculari congiunti alla focalizzazione sul materiale traumatico), la consapevolezza e la libera associazione, offre una serie di specifici protocolli strutturati. L’approccio terapeutico standardizzato dell’EMDR si articola in otto fasi, inserite in un piano terapeutico globale, al fine di affrontare un insieme di disturbi basati sull’esperienza. Il protocollo standard richiama l’attenzione all’evento o a eventi passati che hanno posto le basi per il disturbo, agli eventi presenti che lo scatenano e all’acquisizione di modelli per una adeguata funzionalità futura. Nella prima fase del protocollo, dopo un assessment specifico e dettagliato, viene affrontato il ricordo dell’evento disturbante. Il paziente si focalizza sul materiale emotivamente disturbante e al contempo si concentra su uno stimolo esterno. I movimenti oculari guidati dal terapeuta sono lo stimolo di solito più impiegato che consente un duplice focus di attenzione, ma spesso vengono utilizzati altri tipi di stimoli, come ad esempio il tamburellamento sulle mani e gli stimoli uditivi alternati. Il paziente viene invitato a focalizzare l’attenzione su qualsiasi pensiero, sensazione o immagine che emerge durante questo processo. Il nuovo materiale emergente diventa la fase successiva del protocollo terapeutico. Con l’avanzarsi del processo, il paziente comincia a creare associazioni con materiale più adattivo che si va ad integrare con i ricordi traumatici. Questo porta alla riduzione del disagio legato al ricordo dell’evento e ad una ristrutturazione delle relative condizioni. Tale approccio terapeutico viene spesso utilizzato con persone vittime di incidenti critici, causati da calamità naturali o prodotti dalla mano dell’uomo. È stato anche applicato a soggetti vittime di traumi fisici e psicologici, tra cui l’abuso sessuale, la violenza domestica, il combattimento, gli incidenti, i disastri naturali, i crimini e in persone affette da una gamma di disturbi variegata come la depressione, l’abuso di sostanze, le fobie e i problemi legati all’autostima. 40 RIASSUNTO Gli operatori dell’emergenza. Fattori di rischio e protezione desensibilizzazione del paziente agli stimoli associati al trauma attraverso l’esposizione ripetuta. Tale approccio comprende il connubio di diverse componenti. Secondo Andrews e collaboratori le persone che hanno vissuto un trauma hanno una scarsa comprensione delle proprie reazioni psicologiche, determinando una condizione di vulnerabilità e scarso senso di controllo. Dunque, ai fini della terapia, risulta di fondamentale importanza rivolgere le prime fasi del trattamento all’insegnamento di strategie di gestione dell’attivazione della sofferenza psicologica, strategie che si riveleranno utili per affrontare il processo conseguente di esposizione. L’ansia è una reazione psicologica conseguente ad un DPTS, di conseguenza la sua gestione può essere realizzata con interventi rivolti nell’ambito fisico, cognitivo e comportamentale. Infatti, sembrano essere un ottimo punto di partenza, secondo Andrews, le strategie a orientamento fisico dirette all’eccessiva attivazione delle reazioni allo stress traumatico, come ad esempio le tecniche di controllo della respirazione, il rilassamento muscolare progressivo, l’esercizio aerobico, la riduzione di assunzione di stimolanti. Tali interventi, sembrano essere efficaci al fine di aiutare la persona ad avere un primo controllo sui sintomi fisici di eccessiva attivazione e l’esperienza clinica rileva che spesso producono rapidi miglioramenti sul senso di auto-efficacia e aumenti sulle aspettative di guarigione. L’utilità delle strategie a orientamento cognitivo è messa in evidenza dalla natura intrusiva dei ricordi traumatici di molti pazienti che li portano ad avere una ruminazione mentale dell’esperienza traumatica, di conseguenza tali strategie hanno il fine di dare al paziente un certo controllo sui suoi ricordi limitando il tempo che passa pensando all’evento e al malessere associato. Gli interventi comportamentali devono essere mirati ai specifici bisogni del paziente, infatti possono essere utili interventi di programmazione delle attività e strutturazione delle giornate del paziente e il suo reinserimento sociale, in quanto alcune reazioni tipiche di un PTSD vi sono il ritiro e l’isolamento sociale. Riuscendo a tale intento, risulta essere necessario incoraggiare il paziente a riprendere le normali attività quotidiane il più presto possibile a seguito del trauma, cosicché la ripresa normale delle attività giornaliere aiutino l’individuo a riguadagnare un senso di struttura e controllo. Riassumendo, è possibile poter affermare che la psicoterapia cognitivo- comportamentale focalizzata sul trauma, utilizza tre tecniche nelle fasi del trattamento: tecnica di esposizione, ristrutturazione cognitiva e tecniche di gestione dell’ansia. Le tecniche di esposizione hanno lo scopo di far familiarizzare il paziente con le situazioni che più teme in un ambiente che gli dia sicurezza, attraverso procedure di esposizione in vivo ed esposizione ai ricordi con l’immaginazione. Attraverso la ristrutturazione cognitiva si aiuta il paziente con PTSD ad identificare e modificare i ragionamenti errati e le convinzioni disfunzionali su di sé, sugli altri e sul mondo che posso essere pregressi al trauma. Le tecniche di gestione dell’ansia mirano alla respirazione e al rilassamento attraverso strategie di distrazione mentale. 41 RIASSUNTO Gli operatori dell’emergenza. Fattori di rischio e protezione Capitoli 3 e 4 Gli operatori in contesti di emergenza: una rassegna sistematica internazionale I capitoli 3 e 4 sono stati riuniti in un unico capitolo poiché hanno la stessa struttura. Il capitolo 3 parla di studi nazionali ed il capitolo 4 di studi internazionali Il personale di soccorso e le reazioni psichiche: una rassegna della letteratura Secondo la Psicologia dell’emergenza, i traumi subiti dai soccorritori che operano in situazioni di particolare criticità sono specifici: l’operatore che assiste e interviene in modo attivo in un incidente di diversa complessità, pur non essendo coinvolto in prima persona o implicato affettivamente con le vittime, corre il rischio di restarne emotivamente coinvolto. Negli ultimi trent’anni, nel panorama internazionale si è assistito a un interesse particolare nei confronti delle reazioni psicologiche dei soccorritori nei contesti emergenziali e degli effetti che il disastro potesse avere su essi. Dall’altro canto, poche ricerche sono state condotte nel panorama nazionale e per tale motivo, nella presente rassegna, la maggior parte delle ricerche passate in rassegna sono italiane. Di seguito, verrà riportata la classificazione degli operatori in emergenza nei contesti internazionali e nazionali effettuata da Young e collaboratori e Fenoglio: • Personale Medico e Paramedico, Infermieri, personale delle ambulanze; • Operatori di ricerca e salvataggio superstiti; • Operatori impiegati nel controllo degli incendi e della sicurezza; • Medico legale e staff; • Forze dell’ordine (Polizia, Carabinieri) e militari; • Volontari (diverse “Croci”, Protezione Civile, Gruppi radioamatori, Speleologi, volontariato per l’antincendio boschivo, soccorso alpino…); • Giornalisti che operano sul luogo di incidenti e catastrofi. 42 RIASSUNTO Gli operatori dell’emergenza. Fattori di rischio e protezione Le situazioni di particolare rischio per il soccorritore in emergenza possono essere suddivisi in fattori di rischio oggettivi, fattori di rischio soggettivi e fattori di rischio legati all’organizzazione: FATTORI DI RISCHIO OGGETTIVI: Eventi che comportano gravi danni per neonati e bambini Eventi che coinvolgono molte persone (dall’incidente stradale al terremoto) Eventi che causano morte di colleghi Eventi che causano lesioni gravi, mutilazioni, deformazioni del corpo delle vittime Fallimento di una missione di soccorso comportante la morte di una o più persone Necessità di compiere scelte difficili e/o inadeguate al proprio ruolo operativo e necessità di prendere decisioni in tempi rapidissimi FATTORI DI RISCHIO SOGGETTIVI: Tendenza eccessiva del soccorritore ad identificarsi con la vittima Bisogno marcato del soccorritore di tenersi a distanza dalle vittime Presenza di significative problematiche psicologiche del soccorritore e/o la presenza di traumi pregressi non elaborati Mancanza di idonee strategie per fronteggiare lo stress e/o la mancanza di adeguate capacità di valutare la propria tolleranza allo stress Scarsa conoscenza della normale risposta fisiologica e psicologica delle persone di fronte allo stress Lesioni personali FATTORI DI RISCHIO LEGATI ALL’ORGANIZZAZIONE: Ritmi di lavoro eccessivi Inadeguatezze logistiche degli ambienti destinati ai soccorritori Carenze nei processi di comunicazione Conflitti interni all’organizzazione e tra soccorritori Carenze nei processi di selezione e formazione degli operatori Mancanza di programma di supporto psicologico dei soccorritori Nonostante, l’operatore in emergenza sviluppi una soglia di tolleranza abbastanza elevata nei confronti di situazioni che possono mettere a repentaglio il suo equilibrio psicologico il rischio di essere coinvolto in esperienze traumatiche è molto alto. Il fatto che il soccorritore in emergenza sviluppi soglie alte di tolleranza rientra soltanto in un pensiero consolidato ma di certo non realistico, in quanto fa sì che si tenda a ritenere che egli sia sempre in grado di fronteggiare e superare l’impatto a prescindere dall’evento traumatico vissuto, senza nessuna conseguenza sul piano psicologico. Questo convincimento, il più delle volte, porta il soccorritore a negare il proprio disagio impedendogli di prenderne atto, di esprimerlo o di chiedere aiuto. Tale atteggiamento può comportare una incapacità di risposta al disagio provato, allo stress e alle problematiche del personale di soccorso, senza nessuna attenzione alle ricadute che questo potrebbe avere sulla qualità della prestazione del singolo e dell’équipe in generale. Per tale motivo, è stata effettuata una rassegna in letteratura che mette in evidenza la prevenzione dello stress, il benessere e la qualità della vita, il disagio emotivo, le motivazioni e i rischi psicosociali, le emozioni e i tratti di personalità, le strategie di coping, la resilienza, il burnout e il PTSD. Metodo E’ stata effettuata una review systematic che ha messo in evidenza diverse tipologie di costrutti: prevenzione dello stress, il benessere e la qualità della vita, il disagio emotivo, le motivazioni e i rischi psicosociali, le emozioni e i tratti di personalità, le strategie di coping, la resilienza, il burnout e il PTSD. Nel presente capitolo si cercherà di dare delle risposte ai quesiti di ricerca attraverso lo studio della letteratura passata in rassegna. 45 RIASSUNTO Gli operatori dell’emergenza. Fattori di rischio e protezione è il loro lavoro e quindi hanno dei doveri a cui far fronte, a discapito dei Volontari Soccorritori che invece sono spinti “dal voler aiutare gli altri”. Altra considerazione essenziale da dover fare rispetto all’ipotesi di partenza riguarda la differenza di genere in relazione alla qualità di vita professionale. Negli studi di Palestini e collaboratori emerge come il genere femminile non solo mostri elevati livelli di Burnout e Compassion Fatigue ma anche livelli bassi di Compassion Satisfaction; questo dato potrebbe essere spiegato dal fatto che il genere femminile sia solitamente più vulnerabile rispetto al genere maschile e che questo elemento possa fungere da fattore di rischio, al fine di tutelare la vita professionale. In virtù del dato precedente riportato da Pietrantoni e Prati per cui gli operatori sanitari risultano essere più esposti ad eventi critici di servizio rispetto agli operatori tecnici, nel campione di Palestini e collaboratori emerge una disconferma di quel dato. In particolare, in questo campione, risultano gli operatori tecnici più esposti ad eventi critici di servizio, nonché i Vigili del Fuoco che sembrano mostrare livelli elevati di Compassion Fatigue e di Compassion Satisfaction. Questo dato può essere spiegato in questo modo: se da un lato gli interventi in situazioni maggiormente stressanti possono portare una maggiore soddisfazione, dall’altro possono portare ad una ingestibilità dello stress. Un dato rilevante della ricerca di Palestini e collaboratori, ai fini della prima ipotesi, è che all’aumentare del grado di istruzione diminuisce la soddisfazione lavorativa (Compassion Satisfaction) questo dato potrebbe essere spiegato dal fatto che un determinato livello di istruzione non ricopre un livello di occupazione specifica. La prima ipotesi risulta essere adempiente anche per i lavori di Setti e Argentero riguardante i professionisti soccorritori intesi come Forze dell’Ordine, Operatori del 118 e i Volontari Vigili del Fuoco. Dai dati raccolti dalla prima ricerca emerge che gli Operatori del 118 siano più a rischio di sviluppare la Sindrome di Burnout rispetto agli Operatori delle Forze dell’Ordine che evidenziano una maggiore qualità di vita. Questo dato potrebbe essere spiegato dalla differenza lavorativa sostanziale tra l’Operatore di Soccorso del 118 che potrebbe investire molto più tempo nel lavoro (in termini di quantità d’ore) e che, probabilmente, operi in contesti in cui i livelli di stress risultano essere molto più alti rispetto agli operatori delle Forze dell’Ordine. Infine, nei volontari dei Vigili del Fuoco si evince come il ruolo delle risorse psicologiche possano agire da fattori di protezione nei confronti del rischio di sviluppare una sintomatologia clinica. Inoltre, la tecnica della Mindfulness risulta essere efficace per sviluppare la resilienza. La seconda ipotesi parte dal presupposto che emozioni, motivazioni e tratti di personalità siano sostanziali al fine di poter sostenere attività di soccorso in contesti emergenziali. Questa ipotesi viene soddisfatta dalle ricerche di Fassio, Fassio e Galati e Sartori e Ceschi. Nello specifico, le motivazioni e le esperienze associate all’attività di volontariato si differenziano a seconda delle variabili indipendenti quali il genere, l’età e il livello di competenza teorica o acquisita dall’esperienze. È stato messo in evidenza che le motivazioni più ridondanti, nel campione dei volontari preso in esame, si riferiscano all’autorealizzazione e le esperienze emotive si distinguono in base all’intensità dell’emozione provata che oscilla tra l’ansia e la paura alla tristezza e compassione. Nel campione preso in esame da Fassio e Galati riguardante gli Operatori di Soccorso (infermieri e medici ospedalieri e infermieri e medici extra-ospedalieri) è emerso che la motivazione generale al proprio lavoro ha alti punteggi; risulta essere interessante il punteggio emerso all’item “aiutare le altre persone”. Le emozioni provate dagli operatori sono principalmente l’interesse, la serenità, l’orgoglio, la gioia, la tristezza e così via; l’unica differenza riscontrata tra Operatori ospedalieri ed extra-ospedalieri risultava essere l’emozione del disgusto. Questa differenza può essere spiegata col fatto che gli operatori in ambulanza siano i primi ad accorrere e soccorrere quando la chiamata viene ricevuta; questo significa che risultano essere esposti maggiormente a scene poco piacevoli. 46 RIASSUNTO Gli operatori dell’emergenza. Fattori di rischio e protezione I tratti di personalità degli operatori si differenziano a seconda delle categorie professionali prese in considerazione. Negli infermieri soccorritori delle ambulanze, rispetto ai colleghi dei contesti prettamente intra ospedalieri, risulta esserci un altro livello di Estroversione. Dall’analisi dello studio si è evinto anche che esperire un’alta tonalità di umore porti ad una percezione di qualità di vita migliore, provando maggiore benessere dall’attività lavorativa. L’emozione della paura e il tratto di personalità “Nevroticismo” si associano ad un genere ben specifico. Infatti, sono le donne a riportare alti livelli di Nevroticismo e a esperire emozioni più frequenti come la paura. Come già ben delineato in uno studio dell’ultima area presa in esame in questo articolo, il risultato sopra elencato, può essere spiegato in relazione ai fattori di vulnerabilità presenti nelle donne. Nell’area riguardante le motivazioni che spingono un individuo a diventare un volontario di soccorso emergono differenze statisticamente significative nel quadro delle caratteristiche socio-anagrafiche. Emerge, infatti, che le donne siano motivate dal “volere aiutare gli altri” e “rendersi utili” risultando quindi più consapevoli dei rischi riguardo l’attività del soccorritore in emergenza. Diametralmente opposta, risultano essere le motivazioni del sesso maschile che esperiscono motivazioni legate al “potere stare con gli altri” e dalla “opportunità di apprendere e fare qualcosa che sia degno di nota”. Questo risultato mette in evidenza come in quel contesto specifico, i volontari di sesso maschile, siano spinti da motivazioni lontane dall’erogazione di servizi di soccorso, fattore che li rende meno propensi a rimanere nell’attività di volontariato di soccorso e più vulnerabili a fattori distressogeni legati al ruolo di soccorritore in ambulanza. Ancora una volta, un risultato in contrasto con la letteratura presa in considerazione. Nella ricerca di Palestini e collaboratori indagando le variabili indipendenti, in particolare le variabile genere, risulta come il sesso femminile sia più a rischio nella gestione degli eventi stressogeni e quindi più vulnerabile e più a rischio di sviluppare PTSD. Questa riflessione mette in evidenza come le motivazioni intrinseche eterocentrate e le motivazioni intrinseche autocentrate siano di vitale importanza nello svolgere un ruolo decisivo al fine di poter sostenere attività in contesti emergenziali, proprio come ipotizzato nella secondo quesito del presente articolo. Il ruolo delle variabili indipendenti risulta avere ancora una volta, un ruolo decisivo. Infatti, da come si evince su un campione prevalentemente di sesso maschile del Nord Italia, di volontari soccorritori in ambulanza, l’anzianità al lavoro e quindi la variabile indipendente “anni di esperienza” più risulta alta più aumenta la possibilità di vivere stati di disagio, classificandosi come “Fattore di Rischio”. Tale risultato, ci porta ad affrontare una riflessione. La variabile “anzianità al lavoro” come la variabile “anni di esperienza” non risulta essere un fattore di protezione o di prevenzione a fronte del disagio che è possibile provare ed esperire a seconda dell’emergenza in cui si opera. In ogni caso, sia che siano tanti gli anni di esperienza sia che siano pochi gli anni di esperienza il disagio esperito dai soccorritori è variabile in quanto bisogna sempre tenere in considerazione i fattori individuali, prima di determinare le variabili indipendenti. Altra variabile che si classifica come fattore di rischio è il “livello di istruzione”, che mostra una probabilità più che doppia per i bassi livelli di istruzione classificandosi come fattori di rischio più elevati. E ancora, risulta fattore di rischio nel campione dei soccorritori volontari del Nord, Centro e Sud Italia la non partecipazione ai corsi di formazione che aumenta vertiginosamente (di 3,3 volte) di risultare severamente un fattore di compromissione ad un disagio provato. Questo dato, viene anche confermato dalla rassegna sistematica di 47 RIASSUNTO Gli operatori dell’emergenza. Fattori di rischio e protezione Berger e collaboratori per cui la formazione preventiva risulta essere un fattore chiave per favorire la gestione delle situazioni a rischio, sviluppando e incrementando la resilienza. Dunque, viene assolutamente soddisfatta la terza ipotesi. La quarta ipotesi si prefigge l’obiettivo di indagare se a determinati livelli di stress corrispondano strategie di coping preferenziali. Ed infatti, la ricerca di Verni e collaboratori (2010) riporta che coloro che non posseggono adeguate competenze acquisite (perché magari agli inizi della propria esperienza lavorativa) e che percepiscono maggiormente pericoli per la loro incolumità possono assumere strategie di coping evitanti o al contrario riportare una eccessiva identificazione con le vittime. Gli operatori in contesti di emergenza sviluppano una soglia di tolleranza abbastanza elevata a situazioni che possono mettere a repentaglio il proprio equilibrio psicologico. Quest’ultimi, però, sono spesso indotti a trascurare le proprie reazioni emotive e le proprie esigenze, per dedicarsi alla cura delle vittime di eventi traumatici. Per frequenza e intensità, le strategie più utilizzate dai soccorritori per affrontare la situazione emotigena sia il “Distanziamento emotivo”. Risulta essere una strategia funzionale e adattiva secondo Sbattella e Pini, in quanto consente di rimanere focalizzati sul problema, di operare efficacemente e di fare scelte determinate per la sopravvivenza della persona che si trova a soccorrere. Le strategie di coping evitanti, invece, risultano essere controproduttive. L’uso continuo dell’evitamento emotivo, ad emergenza superata, quando il soggetto deve dare libero sfogo a quanto emozionalmente soffocato per ristabilire il suo equilibrio interno, sembra essere un fattore di rischio non indifferente. L’evitamento emotivo non produce nuove informazioni sui problemi compromettendo la disponibilità di alcune risorse come il sostegno sociale. Attraverso il contributo di ricerca sulla validazione dello strumento di assessment per lo studio delle strategie di coping negli operatori dell’emergenza del 118, si è evinto che diverse strategie di coping vengono utilizzate dai soccorritori a seconda del ruolo ricoperto. Dai professionisti del soccorso sono più frequenti le strategie “comportamenti di distrazione dall’evento” e il “Distanziamento emotivo”. Dai soccorritori volontari, invece, sembra essere più frequente la strategia di coping “Ricerca del supporto sociale”, in particolare tra le donne che affermano di cercare sostegno emotivo dagli altri e dai colleghi che vivono esperienze simili a loro. Il genere femminile, d’altro canto, ricorrono più frequentemente alla “valutazione secondaria delle conseguenze del soccorso” rivolgendo la propria attenzione su scelte e reazioni. L’uso perpetuo dell’umore nero e le alterazioni del linguaggio sono le principali strategie di coping di cui il soccorritore si avvale di fronte ad eventi di soccorso particolarmente critici . Il CRRWI non indaga però strategie di coping come “l’umore nero” e “alterazioni del linguaggio”. I presupposti della quarta ipotesi, pertanto, vengono soddisfatti parzialmente, in quanto attraverso l’analisi degli studi di Verni e collaboratori e Sbattella e Pini si tende a mettere in evidenza quali strategie di coping vengono più frequentemente utilizzate ma non si tende a mettere in evidenza se a determinati livelli di stress esperiti corrispondano strategie di coping preferenziali. La quinta ipotesi che si prefigge di indagare se la marcata pressione di fattori stressogeni e l’esposizione ad eventi traumatici possa portare all’insorgenza di sintomatologie cliniche come il PTSD, viene pienamente soddisfatta. Nello studio di Verni e collaboratori si tende a sottolineare come i soccorritori in base al tipo di esposizione dell’evento traumatico siano a rischio di presentare varie