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riassunto "il cristiano nel mondo, introduzione alla teologia morale", Dispense di Teologia

riassunto completo di tutti i capitoli del libro "il cristiano nel mondo, introduzione alla teologia morale", appunto integrativo del libro

Tipologia: Dispense

2019/2020

In vendita dal 20/01/2020

cactus98
cactus98 🇮🇹

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Scarica riassunto "il cristiano nel mondo, introduzione alla teologia morale" e più Dispense in PDF di Teologia solo su Docsity! Il cristiano nel mondo Introduzione alla teologia morale Introduzione: “Maestro, che cosa devo fare di buono...?” (Mt 19,16) Il dialogo tra il giovane ricco e Gesù può essere suddiviso in tre momenti, imperniati attorno a tre concetti: la vita eterna, i comandamenti di Dio e la sequela di Gesù. La forma dialogica comporta un discorso che scorre tra due interlocutori. La morale cristiana è dialogo interpersonale, relazione vitale di due persone. 1) Il desiderio dell’uomo Il dialogo della scena evangelica comincia con la domanda di “un tale” che resterà anonimo. L’anonimato universalizza la sua identità: quel tale rappresenta ogni uomo che s’interroga sul bene e la felicità. La domanda che inaugura il dialogo verte sul bene da praticare in vista di una vita pienamente compiuta e illimitatamente perdurante. La domanda che pone non riguarda solo il fine della felicità, ma anche i mezzi per raggiungerla. Si tratta di una domanda pratica, che verte cioè sul “che cosa fare” che ha i tratti dell’obbligo e la qualità del bene. 2) La legge di Dio La risposta di Gesù non frena la ricerca del giovane, ma la apre ad un orizzonte infinito. Suona come una contro-domanda, che invita il giovane ad attivarsi personalmente nel cammino di ricerca. Egli svela al giovane la profondità divina del bene, invitandolo a riconoscere la radice dei molteplici beni in Dio. La domanda morale del giovane riguardante il suo agire nel mondo viene rivelata da Gesù nella sua profondità religiosa, nel suo legame con Dio: interrogarsi sul bene da fare è già mettersi sulle tracce di Dio. L’uomo non è abbandonato a se stesso nel perseguimento della vita divina, ma da Dio stesso istruito circa il cammino da compiere. La legge morale di cui l’uomo è naturalmente dotato lo induce a fare il bene non totalmente in astratto, ma già insegnando alcuni modi concreti di vivere, quali appunto dettati dai comandamenti. 3) La sequela di Gesù La risposta di Gesù alla richiesta del giovane verte sulla vendita delle ricchezze a favore dei poveri. Il desiderio di perfezione del giovane viene calibrato sugli altri. La perfezione morale non consiste nell’inappuntabile pratica di precetti impersonali, ma nella dedizione personale agli altri, scegliendo di preferenza i poveri. 4) Epilogo L’imperativo della chiamata: “Seguimi!” non priva di libertà la risposta. Al giovane, Gesù si rivolge anzitutto dicendo: “Se vuoi”. Nella rinuncia del giovane alla sequela di Gesù si potrebbe riconoscere un sintomo dell’attuale condizione giovanile, non senza desideri di autentica felicità eppure spesso irretita nel godimento immediato. FEDE CRISTIANA E AGIRE MORALE CAPITOLO PRIMO: I legami della libertà La morale cristiana consiste nel legame che intercorre tra Cristo e gli uomini, così come dall’innesto nella vite dipendono la vitalità e fruttuosità dei tralci. 1) Morale ed etica Il termine morale è la traduzione dall’aggettivo latino moralis, morale. A sua volta l’adattamento dell’aggettivo greco ethika, il quale è giunto direttamente nelle lingue moderne nella forma del sostantivo etica. Etica e morale sono stati usati con diverso significato: -etica indica la riflessione di taglio filosofico, lo studio fondamentale del problema -morale indica la riflessione di materia religiosa, si riferisce alle norme concrete del comportamento umano. Si potrebbe definire l’etica/morale come “ciò che caratterizza l’agire umano”. Questa definizione è confermata da un’altra accezione del termine ethos, quella di “residenza, luogo dove si abita”, quindi l’etica/morale può essere intesa anche come la “dimora” propria dell’uomo, quella dimensione che caratterizza il suo modo di comportarsi in senso propriamente umano. L’agire umano è agire libero. Non solo l’uomo compie delle azioni, ma le compie sapendo e volendo agire. 1 Ragione e volontà sono gli ingredienti dell’agire libero, per il quale l’uomo, a differenza di ogni altro essere vivente, è “padrone dei propri atti”. 2) La presunta libertà Per lungo tempo l’etica è stata concepita in stretta dipendenza dall’Essere divino, ma con l’avvento dell’epoca moderna si è prodotta una profonda svolta. La questione che viene alla ribalta è la questione dell’uomo. Questa svolta verso il soggetto umano stimola il sorgere di un nuovo modo di argomentare: dall’interrogazione del mistero di Dio con lo scopo di dedurre le leggi dell’agire umano, si passa all’interrogazione diretta di quest’ultimo, nel tentativo di scoprire le leggi immanenti che lo regolano. Lo sforzo moderno di dare alla morale una fondazione autonoma raggiunge il suo vertice con Kant: la sua etica si qualifica come “autonoma” e svincolata da ogni forma di “eteronomia”. Con l’acquisizione dell’autonomia, la morale si è liberata dall’ancora divina che le impediva di navigare da sola, ma sembra anche aver smarrito la stella polare sulla quale stabilire la rotta. Tra i principali maestri che propiziano e caratterizzano la nascita dell’etica postmoderna, spicca Nietzsche. La metafora più adatta per indicare l’uomo postmoderno sembra essere quella del turista. Il turista gira il mondo sapendo che non prenderà dimora da nessuna parte. Il turista è extraterritoriale, è ovunque e da nessuna parte: libero di andare dove vuole. Un vincolo sussiste, ed è quello della sua disponibilità economica. Il grado della sua libertà è dato dal potere di acquisto. La metafora del turista che non conosce confini se non quelli dettati dal suo portafoglio si adatta alla condotta morale dell’uomo postmoderno, priva di regole che non siano quelle stabilite in proprio. Individualismo della libertà e relativismo della morale vanno a braccetto. La parola libertà rimanda al non dover far qualcosa, quindi sembra essere il poter fare ciò che si vuole. Sapere ciò che si vuole è tutt’altro che facile come potrebbe sembrare. Ciò che si vuole non è solo ciò di cui si ha voglia, ma ciò che si vuole, diventa ciò per cui siamo disposti a impegnarci. La libertà, non potendo evitare di scegliere, cerca di non farlo definitivamente, di tenersi sempre aperta una via d’uscita per evitare una scelta che sia per sempre. Il fenomeno appare oggi piuttosto diffuso e talvolta mascherato dietro scelte che sembrerebbero solo di valore. Scegliere è rischioso. Decidere non è semplicemente scegliere qualcosa ma è tagliar via, privarsi di tutte le altre cose che non si sono scelte. Scegliere lei/lui è sacrificare tutti gli altri. E ciò che non si sceglie resta in qualche modo sempre presente come ciò che manca. Alla libertà manca la cosa più fondamentale, la scelta iniziale di esistere. 3) La libertà legata La libertà non può decidere se fare o non fare. È costretta a giocare la partita della vita, deve giocarsi. La libertà è ciò che fa di un corpo una persona umana: un corpo senza la libertà potrebbe al massimo aspirare ad essere un animale. Nei confronti del corpo non si può fare ciò che si vuole: compromettere il corpo significa compromettere la propria libertà. Il corpo è fonte dei motivi che inclinano la libertà a compiere determinate azioni. I bisogni inducono l’uomo a nutrirsi ed accoppiarsi. Il dolore e il piacere percepito spingono l’uomo a evitare i pericoli e a ricercare il benessere. Il corpo è anche il modo mediante il quale la libertà si esprime. Il legame della libertà col corpo si esprime nelle emozioni: il termine stesso rimanda al sensibile influsso che essa esercita sulla libertà. Oltre che dalle emozioni, la libertà è condizionata anche dalle abitudini che non le consentono di cambiare le proprie scelte con la fermezza e la rapidità con cui vorrebbe. C’è poi un livello biologico del corpo che condiziona la libertà in modo pressoché assoluto: eventi come la nascita, la crescita, l’età, il declino, la morte sono realtà indisponibili all’uomo. L’evoluzione che la civiltà umana ha favorito è la degenerazione di un legame che l’uomo inevitabilmente intrattiene con il suo mondo vitale. Là dove l’uomo vive, la natura è già cultura. La cultura è ciò che scaturisce dalla libertà che opera nella natura. Il mondo dell’uomo non è solo un mondo di cose. Esso è popolato da altri simili a lui, la cui presenza non è certo secondaria. Sono gli altri che consentono all’uomo di venire al mondo. Il legame con gli altri può essere più o meno stretto. C’è un legame che ci portiamo inscritto fin nel patrimonio cromosomico. Ad esso è associato un profondo legame affettivo che diventa vincolante per tutta la vita. Tra i legami più intimi c’è il legame con colui/colei di cui sono innamorato. 2 Ma la legge nuova è infusa nell’uomo, non solo come indicazione di ciò che deve essere fatto, ma anche come aiuto a compierlo. La dissomiglianza della legge naturale rispetto alla legge nuova riguarda il fatto che quest’ultima è la risorsa per compierlo. La legge naturale trova espressione scritta nei comandamenti del Decalogo. I comandamenti del Decalogo convergono nell’unico comandamento dell’amore del prossimo. I precetti del Decalogo indicano il livello minimo della vita amorosa, al di sotto del quale si apre l’abisso della violenza mortale. L’interpretazione amorosa dei precetti negativi del Decalogo, permette di rivalutarli nella loro positiva funzione. Caratteristiche della legge morale: - Interpersonalità: in quanto amore, la legge morale è interpersonale, riguarda cioè la relazione amorosa tra persone. L’osservanza della legge morale diviene una questione di coerenza soggettiva. L’amore per gli altri non costituisce più la sostanza della legge morale, ma l’obbligo che essa impone. L’altro è amato in nome della legge e non per amore. - Obbligatorietà: se la legge morale consiste essenzialmente nel legame amoroso con l’altro, sorge la domanda circa la sua obbligatorietà. L’amore sembrerebbe escludere ogni obbligo. La forza imperativa dell’amore è debole. Nient’altro impone di obbedire al comandamento dell’amore se non l’invocazione di chi chiede di essere amato. - Universalità e immutabilità: l’universalità e l’immutabilità esprimono la validità del comandamento dell’amore, l’ovunque e il sempre dell’esigenza di amare. In negativo, universalità e immutabilità della legge morale dichiarano che non esiste alcun luogo e alcun momento in cui gli uomini possano vivere all’altezza della loro natura interpersonale prescindendo dall’amore. L’universalità e l’immutabilità della legge naturale non sono sinonimo di fissità. Esse includono la possibilità che essa evolva. - Gradualità: l’amore può essere conosciuto e vissuto a diversi gradi e trovare diversa espressione nello spazio e nel tempo, a seconda che sia più vicino al livello basilare dell’amore del prossimo, indicato dal Decalogo, o al livello superiore dell’amore dei nemici, illustrato nel Discorso della montagna. Ne deriva una concezione della legge morale detta “legge della gradualità” e ulteriormente definita “legge della gradualità amorosa”. La legge morale è, allo stesso tempo, uguale e non uguale per tutti. “La legge morale è uguale per tutti”: non solo perché tutti devono amare il prossimo al grado basilare della legge naturale illustrata dai precetti del Decalogo, ma anche perché l’amore del prossimo deve essere perfezionato sino alla fine, sino cioè a comprendere anche il nemico. “La legge morale non è uguale per tutti”: a ciascuno è comandato di amare al grado che la progressiva integrazione dei doni di Dio e delle esigenze del suo amore definitivo e assoluto gli consentono al momento presente, senza pretendere l’impossibile, ma senza nemmeno rinunciare al qui e ora possibile, fosse anche l’amore dei nemici. CAPITOLO TERZO: I dinamismi della libertà La legge morale consente e comanda di amare come Cristo. Senza libertà, la legge finirebbe per essere un’imposizione violenta o potrebbe al massimo suscitare una reazione istintiva, automatica. L’attrazione indotta dallo Spirito suscita un’azione libera. In quanto amore, la legge morale cristiana coinvolge nella sua totalità. Ne deriva che la risposta dell’uomo sarà esistenziale-pratica. L’attrazione dello Spirito produce come effetto una risposta che si configura come reazione. La libertà sussiste solo nella concretezza delle singole azioni. L’azione è la dimora della libertà. L’analisi della libertà agente deve prendere avvio là dove essa abita. Lo studio della singola azione mostrerà le sue implicazioni ontologiche e dinamiche. 1) Analitica dell’atto La negazione di un concetto di azione impedirebbe di identificare e valutare l’agire dell’uomo nel corso della sua vita. La descrizione e la valutazione dell’agire umano per viam sarebbe rimandato postmortem, perché solo allora l’agire potrebbe dirsi compiuto. A quel punto però verrebbe meno la possibilità che egli valuti la sua vita. Impossibilitato a valutare il suo agire, l’uomo resterebbe senza responsabilità. L’agire morale sarebbe in realtà un evento naturale come gli altri, e come tale l’unico metodo adeguato per valutarlo sarebbe quello delle scienze positive. 5 Il linguaggio comune intuisce la differenza tra azione umana ed evento naturale. Tommaso ha distinto tra gli atti che sono propri dell’uomo e gli atti che sono comuni all’uomo e agli altri animali. Negli atti umani è presente la libertà, assente negli atti genericamente dell’uomo. La distinzione tra i due tipi di atti è indicata nominando i primi come “azioni” e i secondi come “passioni”. Le azioni sono costituite dalla reciprocità di volontario e involontario. L’azione morale è un dinamismo che non può essere statisticamente fissato. Si potrebbero richiamare sei tempi dell’azione morale, definibili in base alla diversa configurazione che la libertà in essi assume. Seguendo il corso di un’azione si potrebbero allora scorgere: - il tempo del volere, in cui la libertà desidera acquisire un dato bene; - il tempo del progetto, in cui la libertà tende alla realizzazione di ciò che prima desiderava; - il tempo del discernimento, in cui la libertà confronta le diverse possibilità di realizzare ciò che intende; - il tempo della scelta, in cui la libertà decide di realizzare ciò che intende; - il tempo dell’efficienza, in cui la libertà persegue la scelta compiuta; - il tempo della gioia, in cui la libertà gode del desiderio realizzato. Quando la libertà sceglie di fare qualcosa, rinuncia ad ogni altra fattibile cosa. La scelta è una decisione che comporta una recisione. Attraverso la scelta, le molteplici possibilità del futuro divengono l’unica necessità del passato. Per valutare la qualità morale degli atti si può attingere alle tre cosiddette “fonti della moralità”, corrispondenti all’oggetto, alle circostanze e al fine. Questi tre elementi sono paragonabili a tre sorgenti che alimentano il medesimo ruscello. Presupposto necessario di un atto moralmente buono è la bontà di tutte e tre le sue fonti. 1. Oggetto: la prima fonte da considerare è l’oggetto, da intendersi come un comportamento liberamente scelto. Esso è il fine prossimo di una scelta deliberata, che determina l’atto del volere della persona che agisce. L’oggetto morale di un atto non coincide con alcun oggetto fisico. L’oggetto morale di un atto specifica la sua collocazione nell’orizzonte del bene e del male, definisce la specie morale di un’azione, qualificandola come omicidio, furto, adulterio. 2. Fine: l’altra fonte della moralità è il fine o intenzione del soggetto agente. Il fine costituisce la fonte che deriva dall’attore. 3. Circostanze: Tommaso d’Aquino, chiamando circostanza una cosa che, pur essendo esterna all’essenza di un atto, in qualche modo lo riguarda, spiega come ciò possa avvenire in tre maniere. Le circostanze concorrono ad aggravare oppure a ridurre la bontà o la malizia degli atti umani. L’oggetto di un’azione altro non è che il fine buono o cattivo che essa oggettivamente realizza. Le azioni umane non sono riducibili a eventi naturali o meccanici, ma risultano inevitabilmente intenzionate: l’azione è l’incarnazione di un’intenzione. L’intenzionalità che esse esprimono può giungere in taluni casi a un grado tale di consistenza che ogni ulteriore smentita o precisazione da parte di colui che le pone risulti ininfluente: tale è il caso di un atto intrinsecamente cattivo. 2) Metafisica dell’atto Sganciato dal soggetto che lo compie e dalla durata in cui s’inscrive, l’atto morale diveniva un oggetto statico, valutabile come un frammento di materia o di tessuto biologico che può stare sotto il microscopio del fisico o del biologo. L’oggettivismo morale trovava riscontro a riguardo degli atti cattivi, i peccati. La teologia morale ha recuperato l’importanza dell’agente. Si rileva che la libertà non è solo la scelta per questa o per quest’altra azione particolare; ma è anche decisione su di sé e disposizione della propria vita pro o contro il Bene, pro o contro la Verità. Questa scelta della libertà umana rispetto al suo bene fondamentale prende il nome di “opzione fondamentale”. Tale opzione non è una delle tante scelte che l’uomo continuamente compie nel corso di una giornata e nemmeno coincide con alcune importanti scelte di vita che incidono sulla storia personale. L’opzione fondamentale è più che tutte le azioni morali particolari e categoriali come tali e anche più che la loro somma; essa è più profonda, le penetra e le supera, senza diventare mai essa stessa come tale formalmente uno degli atti categoriali. Il darsi dell’opzione fondamentale nei singoli atti categoriali conosce una diversità di grado. Non ogni scelta particolare incide allo stesso modo sull’opzione fondamentale. Si potrebbe distinguere tra “atti profondi”, che coinvolgono totalmente la libertà della persona, e “atti periferici”, che lo fanno solo parzialmente. 6 In epoca moderna e contemporanea, il fenomeno della coscienza morale è stato sottoposto a feroce critica. Le decostruzioni più classiche e ancora influenti, sono state operate dai “maestri del sospetto”: Marx, Freud e Nietzsche. Per Marx, la coscienza morale è il riflettersi nella mente del singolo della sovrastruttura sociale prodotta dai rapporti di produzione economica. Per Freud, coincide con il territorio psichico del Super-Io, prevalentemente inconscio e derivante dall’interiorizzazione dell’autorità dei genitori. Per Nietzsche, non è che “la voce del gregge in noi”, ovvero l’effetto dovuto all’introiezione di norme morali di una determinata società. La parola coscienza traduce il greco syneidesis: con-sapere, sapere con altri. Ad esso corrisponde nella lingua latina il termine conscientia. Perché si possa parlare di coscienza morale non basta che un soggetto si dica colpito da un valore morale. Il semplice essere colpiti appartiene al livello psicologico della coscienza, a quella che si potrebbe definire “consapevolezza psicologica”. La responsabilità della coscienza morale è dovuta alla libertà di determinarsi rispetto a ciò che la interroga. La risposta della coscienza non risulta predeterminata alla stregua di un impulso incontrollabile o di un istinto automatico, ma libera. La libertà non è assoluta, sciolta cioè da ogni legame. La coscienza è sempre coscienza di..., e dunque la coscienza sussiste nella misura in cui è in dialogo con. Ci sono quattro relazioni costitutive della coscienza: - la relazione ambientale con la natura e la cultura; - la relazione interpersonale con il corpo; - la relazione interpersonale con il prossimo umano; - la relazione religiosa con Dio. Il Magistero morale insiste sulla necessità di concepire la coscienza come testimonianza di Dio stesso, la cui voce e il cui giudizio penetrano l’intimo dell’uomo. 3) Storia dell’atto L’agire umano si distende nel tempo della vita terrena dell’uomo. L’analisi di questo processo può essere illuminata ricorrendo ai due concetti di “possesso” e di “privazione”. Il decidere per un verso permette all’uomo di venire in possesso di ciò che ha scelto, per altro verso lo priva di ciò che non ha scelto. Quando la scelta è di ordine morale succede che l’uomo ne entra in possesso, diviene cioè buono; mentre omettendolo se ne priva, divenendo cattivo. La bontà di cui l’uomo attraverso le sue scelte entra in possesso o si priva diviene un habitus, il quale, a seconda che sia buono o cattivo, si specifica, rispettivamente, come virtù o vizio. Si può definire la virtù come la storia buona della libertà o come la storia della libertà buona, come pure intendere il vizio quale storia cattiva della libertà o storia della libertà cattiva. La virtù appartiene alla libertà ed entra a determinare il bene fatto dalla libertà; al contrario, il vizio appartiene alla libertà ed entra a determinare il male fatto dalla libertà. Il significato del termine virtù, deriva dal latino virtus, cioè forza, valore, dipende dal greco areté. La vita secondo virtù è la miglior vita che l’uomo possa condurre. La virtù è acquisibile dall’uomo mediante l’esercizio ripetuto e costante di un’azione buona. Le virtù morali si acquisiscono come le abilità artistiche. In senso greco-classico la virtù è il prodotto dell’attività dell’uomo. Virtuoso è colui che mediante l’esercizio ascetico ha scolpito nel suo carattere la capacità di fare il bene. Tommaso provvede all’integrazione del quartetto delle virtù morali di prudenza, giustizia, fortezza e temperanza, mutuate dalla tradizione filosofica e introdotte nel cristianesimo col nome di “virtù cardinali” da Ambrogio di Milano, con la triade delle virtù teologali di fede, speranza e carità. Si possono definire: - la carità come l’attrazione dell’amore di Dio; - la fede come l’affidamento all’amore di Dio; - la speranza come il movimento nell’amore di Dio. Così espresse, possono essere intese come la Trinità stessa che raggiunge e coinvolge la libertà dell’uomo: il Padre che attrae, il Figlio che gli si abbandona, lo Spirito che li unisce. La carità è l’origine, il senso, il movimento e anche il fine della vita cristiana. Tutte le virtù declinano la carità 7 all’amore del Padre. Coscienza e sacramenti. Tutti i sacramenti provvedono alla formazione della coscienza. In uno di essi sembra più facile percepire l’azione dello Spirito. L’esperienza di tanti cristiani testimonia la grande efficacia del sacramento della riconciliazione in ordine alla formazione della coscienza. Coscienza e comunità cristiana. Veniamo da una tradizione che reagendo agli assolutismi del tempo, ha rivendicato i diritti della coscienza individuale. La giusta rivendicazione ha messo in ombra le inevitabili relazioni che costituiscono la coscienza stessa e senza le quali la coscienza risulta deformata. Ciò implica un legame inscindibile tra la coscienza, per cui è ingenuo immaginare che sussista una buona coscienza isolata, circondata da cattive coscienze. Tra le relazioni essenziali che la coscienza cristiana vive nella communio morale della Chiesa vi è quella con il Magistero gerarchico del Papa e dei vescovi, al quale compete il carisma dell’insegnamento. NATUARA E TECNICA CAPITOLO PRIMO: Bioetica: una nuova scienza? 1) All’origine della bioetica La bioetica si colloca in un complesso intreccio di questioni socio-culturali e di riflessioni etiche e giuridiche, dopo il conflitto mondiale. Dalla guerra l’umanità sembra uscire più disincantata a riguardo della qualità dei rapporti interpersonali e sociali. Si situa lo sviluppo di una riflessione di tipo deontologico sulla medicina e sulla scienza che trova tre punti di emersione: il processo di Norimberga ed il Codice, la riscoperta dell’etica medica tradizionale e l’elaborazione della categoria di “diritti dell’uomo”. Il processo e il Codice di Norimberga Tra il 21 novembre 1946 e il 9 agosto 1947 si è celebrato il “Processo ai medici”. Gli imputati non sono scienziati pazzi, ma scienziati. Le teorie di eugenetica erano condivise da tutto il mondo accademico prima della guerra; le pratiche di sperimentazione su soggetti non consenzienti o non consapevoli erano unanimemente ritenute utili per la buona riuscita delle ricerche. La sentenza del processo ai medici sente il bisogno di inserire alcune indicazioni deontologiche che regolamentino la sperimentazione medica. Il Codice di Norimberga, che afferma la legittimità di sperimentazioni solo se socialmente utili e rispettose di indicazioni etiche e legali, è il primo di una serie di regolamenti deontologici. La tradizionale etica medica raccoglie le esigenze etiche e professionali che il medico deve rispettare nella sua attività: il valore morale della cura del malato e le linee di condotta nei confronti delle responsabilità sociali di cui è investito. Espressione di questa linea è il Giuramento di Ippocrate. Il testo è caratterizzato dalla ricerca del bene del paziente. Dal Processo emerge la necessità di una formulazione giuridica superiore a quella del diritto civile e statuale. Sorgono i concetti di “crimine contro l’umanità” e di “diritti dell’uomo”. Da un lato i diritti umani sono visti come espressione del diritto naturale e dall’altra come conseguenze della libertà individuale e del consenso civile. Negli anni ’60 e ’70 del XX secolo matura l’esigenza di un nuovo discorso istituzionale e disciplinare che si raccolga attorno al neologismo coniato nel 1970 dall’oncologo Van Rensselaer Potter: bioethics. Il crescente disagio nei confronti della medicina e delle scienze sperimentali Gli anni ’50 sono segnati da importanti e rapidi sviluppi della scienza medica. Pubblicizzati sono i casi della Willowbrook State School e del Jewish Chronic Disease di New York e lo studio della sifilide di Tuskegee. Il passaggio alla cronaca di questi fatti ha creato un grosso movimento di indignazione e di sospetto nei confronti della scienza. Il risultato è stata l’istituzione di tavoli di controllo e di dibattito, semi dei futuri organismi e comitati di bioetica. La riflessione teologica: nel Concilio si trovano i tratti che caratterizzano il contributo originario della teologia alla bioetica: l’attenzione all’elemento storico del fatto morale, l’assunzione di un paradigma personalista e la sottolineatura del carattere propriamente teologico del discorso morale. La riflessione etico-filosofica: la filosofia ha assunto un ruolo pratico. 10 Il contesto socio-culturale nord-americano Nei paesi del Nord America le problematiche legate agli sviluppi e alle pratiche della scienza e della tecnica hanno dato vita alla bioetica. I tratti che possono descrivere questo ambiente culturale sono tre. Il primo è il moralismo che tende a frammentare i diversi ambiti ed aspetti del vivere per trovare principi regolatori chiari e distinti. Il secondo è l’ottimismo progressista che non mette in discussione il carattere promettente del futuro guidato dalla scienza e dalla tecnica. Ultimo tratto è l’individualismo, che affida ai singoli la gestione della responsabilità confidando in modo illimitato nella libertà dell’individuo contrattualmente legato ad altri. La vita è un fenomeno plurale, che permette di essere letto da differenti punti di vista. Lo sguardo oggettivista legge nella vita l’insieme dei processi bio-chimici che regolano l’esistenza degli organismi e lo sguardo del poeta vi ritrova il fascio di tutte le esperienze e le emozioni vissute. Ciò che è mutato è l’equilibrio tra la percezione di riceversi dall’esterno e la forma specifica di un agire protagonista. Questi due poli fondamentali trovano sintesi nei termini di natura e tecnica. Il cambiamento invoca una risposta e la bioetica si è proposta come tale. 2) L’identità della bioetica La definizione della bioetica si lega alla comprensione di cosa siano natura e tecnica e del loro rapporto. Incomprensioni riduttive di natura e tecnica e conseguenti paradigmi bioetici Un primo riferimento implicito nella descrizione della natura è al suo livello empirico. Natura viene definita intendendo le cose naturali e i meccanismi organici che presiedono al funzionamento del cosmo e dell’uomo inserito in esso. L’uomo partecipa delle leggi biofisiche dell’universo. La natura è l’insieme dei significati storicamente e culturalmente interpretati, accessibili al soggetto. La natura sarebbe la cultura: tutto l’uomo è ridotto all’interpretazione storica e relativa. Il riflesso in campo etico di una simili opinione conduce al proceduralismo. Compito della nuova etica, della bioetica, è la costituzione di un livello ulteriore rispetto a quello delle diverse morali contenutistiche: un’etica formale che abbia lo scopo di evitare i conflitti attraverso l’accordo. Con “tecnica” si considera l’insieme degli strumenti e delle procedure che hanno come scopo il raggiungimento di un fine. La tecnica sarebbe il regno dei mezzi che l’uomo si dà per realizzare i propri scopi. Questo a due conseguenze: gli strumenti sono opera dell’uomo e si presenterebbe come eticamente neutra. Siamo di fronte ad una interpretazione antropologica della tecnica. L’essere umano, per caratteristiche anatomiche e cerebrali, ha bisogno di un mondo di strumenti che lo circondi. La tecnica è parte dell’essenza dell’uomo, della sua natura. Dall’altra parte, lo strumento si offre all’uso dell’uomo in maniera neutra. Il rischio corrisponde ad una deriva riduzionista. Riflesso di questa deriva è rinvenibile nel paradigma utilitarista, rappresentato dalla proposta di P. Singer. Nell’utilitarismo la giustificazione del comportamento etico si fonda sulla ricerca del maggior benessere possibile e sulla minimizzazione del male. La norma morale deve essere fondata sull’uguale considerazione degli interessi di tutte le persone in grado di manifestarli. È persona umana, non chi appartiene alla specie umana, ma chi, in quanto dotato di autocoscienza, è in grado di esprimere interessi. Emerge il carattere riduttivo di una razionalità strumentale elevata a chiave interpretativa di tutti i rapporti segnati dalla tecnica. Il ragionamento morale si riduce a calcolo quasi matematico che bilancia costi e benefici. Esiste un’altra visione della tecnica. La tecnica sembra staccarsi dall’ambito antropologico per costituirsi in un sistema in grado di autoalimentarsi e di imporre la propria logica sull’intero vivere personale e sociale. È la tecnica ha guidare il futuro dell’umanità. Ci si trova di fronte ad un progressivismo secondo il quale tutto ciò che è possibile è al tempo stesso lecito, perché il futuro non potrà comunque essere bloccato. Sul campo etico questo corrisponde ad un nichilismo che si arrende di fronte ad una tecnica interpretata come destino dell’uomo. Natura e tecnica sono due aspetti della medesima dinamica: la vita. La natura indica il carattere antecedente che l’uomo sperimenta nel suo vivere. L’uomo si percepisce preceduto, indisponibile ad una totale determinazione di sé. È chiamato ad agire, ad interpretare con il suo agire, quella natura che lo precede. La tecnica è una delle modalità dell’interpretazione della natura, una delle forme dell’agire dell’uomo in risposta all’appello del dato. Ciò che è specifico si comprende nel quadro di ciò che è generale: la tecnica – come la natura – non può essere separata dall’agire dell’uomo. Non basta il riferimento alla natura come limitazione alla tecnica e tantomeno è sufficiente riconoscere la qualità antropologica della tecnica per vedere in essa la nuova etica. 11 Il disagio nei confronti di una disciplina recente quale la bioetica ha mosso la ricerca attorno alla sua identità. Ciò ha messo in luce un cammino che ha coinvolto il XX secolo e che si è nutrito di diversi episodi. La questione etica non può limitarsi alla gestione dei conflitti, ma è questione del sé chiamato a realizzarsi. La bioetica si colloca nel contesto del sapere propriamente etico, come etica speciale. La bioetica si definisce come attività speculativa chiamata a rendere ragione dell’agire morale dell’uomo nei suoi tratti di libertà, consapevolezza e responsabilità e nel suo orientamento al bene. Si tratta di spiegare il movimento morale della persona e di custodirlo nel suo reale orientamento al bene. La funzione della bioetica si configura come sostegno all’esperienza etica della persona. La bioetica non può subentrare alla coscienza di chi è chiamato a scegliere nelle diverse situazioni del suo vivere. La collocazione della bioetica all’interno dell’etica chiede di considerare che cosa la specifichi e la identifichi come disciplina autonoma all’interno del sapere morale. La bioetica risulta come la scienza morale specificata dalla considerazione dell’intreccio di natura e tecnica che descrive il vivere dell’uomo nei suoi momenti più significativi. La bioetica si definisce come la scienza morale del rapporto tra natura e tecnica. CAPITOLO SECONDO: Un nuovo modo di generare? Il 25 luglio 1978 nasce Louise Brown, generata dall’unione dei gameti dei suoi genitori in un terreno di cultura per opera di due scienziati inglesi. Siamo di fronte alla nascita del primo essere umano generato in provetta. Davanti a questo passaggio epocale della medicina alcuni cultori hanno espresso paure e perplessità. 1) Le tecniche di procreazione medicalmente assistita Sotto questa etichetta si collocano una pluralità di tecniche classifi cabili secondo criteri diversi. Un primo criterio per orientarsi tra le varie tecniche riguarda il “luogo fisico” in cui avviene l’unione dei gameti. Si distingue tra PMA in vivo o intracorporea e PMA in vitro o extracorporea.Tra le tecniche intracorporee si riconoscono l’inseminazione artificiale (IA) e la cosiddetta GIFT. Nel primo caso si procede attraverso il prelievo del seme maschile che viene inserito per via trans vaginale nelle tube durante il periodo di ovulazione. La seconda tecnica consiste nel prelievo di entrambi i gameti e nel loro reinserimento nelle vie genitali femminili in maniera simultanea, ma separata. Al secondo gruppo di tecniche appartiene invece la FIVET (fecondazione in vitro e trasferimento di embrione). Qui la procedura consiste nel prelievo di entrambi i gameti e nel loro incontro all’interno di una provetta. Un’ulteriore tecnica è la ICSI (iniezione intracitoplasmatica di uno spermatozoo). Consente la fecondazione anche quando il liquido seminale contiene una bassa quantità di spermatozoi o con gameti maschili non ancora maturi. Tutte le tecniche sopra elencate possono svolgersi con gameti ottenuti dalla stessa coppia che ha richiesto la PMA e che svolgerà il ruolo di genitori sociali oppure da donatori esterni alla coppia. Nel primo caso si parla di PMA omologa, mentre nel secondo di PMA eterologa. Il coinvolgimento di figure esterne alla coppia genitoriale può spingersi oltre, in forme di maternità surrogata. Si nota la realizzazione di una frammentazione della figura paterna e materna che può arrivare a comprendere tre madri e due padri. 2) L’esperienza del genere umano Generare è un atto della libertà e della coscienza chiamata ad interpretare nella pratica il senso offerto. Generare è un atto che coinvolge tutta la persona in ogni sua dimensione e la libertà è chiamata a farsi carico del tutto e non solo di una parte. A livello bio-fisico la generazione umana è un processo complesso che va dalla gametogenesi alla gestazione. Essa coinvolge tutto l’organismo dell’uomo e della donna. Vengono sottolineati tre aspetti. Il primo è il legame tra il processo di maturazione dei gameti maschili e femminili e la totalità della struttura corporea. Secondo momento è la gestazione. Un ulteriore momento del processo bio-fisiologico della generazione è il momento della fecondazione. Il livello psicologico mettere al mondo una nuova creatura significa generare un figlio e allo stesso tempo generazione di un padre e di una madre. Questo processo, detto di genitorializzazione, è complesso coinvolgendo una quantità ampia di fattori identitari nell’uomo e nella donna. La pulsione che spinge verso la filiazione è desiderio di trasmettere i propri geni, di incarnare l’amore di 12 L’espressione di un consenso libero e consapevole da parte del paziente che accetti di sottoporsi a cure anche sperimentali è certo necessario al retto agire del medico, ma non basta. Bisogna comprendere questo strumento all’interno di una cura reale del rapporto tra medico e paziente, del contesto in cui esso è inserito e della comprensione dell’esperienza della malattia e della cura. Sintomi di questa insufficienza sono le problematiche attorno alla reale misurabilità della qualità del consenso, o attorno ai problemi legati alla decisione di minori o di disabili. Le pratiche di ingegneria genetica sollevano una serie di problematiche di ordine sociale. Scoprire una predisposizione ad una determinata patologia significa scoprire allo stesso tempo qualcosa legato alla famiglia del soggetto, ai suoi genitori ed ai suoi figli. Gli studi e le pratiche di ingegneria genetica hanno costi molto alti e il rischio è quello di riservare a questi una grande quantità del denaro pubblico e privato destinato alla ricerca più sulla base di un’enfasi che non sulla effettiva probabilità di risultati. Altre pratiche mediche rischiano di rimanere prive di fondi. Un ulteriore problema etico-legale che sottolinea lo spessore sociale della genetica è la questione della brevettabilità. Le direttive europee indicano tre criteri per concedere un brevetto: la novità, la non ovvietà e l’utilità. L’agire medico è in sé agire sociale che coinvolge non solo la relazione medico-paziente, ma si allarga a comprendere tutta la società nelle sue forme, istituzioni e legami. Criterio fondamentale dovrà essere la carità, intesa come cuore della riflessione etico-sociale. È necessaria una nuova iterazione tra i vari saperi che ritrovi il proprio centro, contro ogni frammentazione o interpretazione riduttiva. Il centro di questa “interdisciplinarietà ordinata” dovrà essere il reciproco legame tra carità e conoscenza. 3) Alcune problematiche specifiche Una prima tipologia di diagnostica genetica fa riferimento alle diagnosi prenatali. Gli elementi che devono essere presenti in una valutazione di simili pratiche sono due: la rischiosità di certi test e la forbice tra diagnosi e terapia. Nel primo caso si deve riconoscere che i test genetici prenatali posseggono un certo grado di invasività con il rischio di danni all’embrione o al feto, fino alla possibilità di aborto. Al dato sul rischio si deve poi aggiungere che raramente ad una diagnosi di malattia genetica può far seguito una terapia. Inoltre diagnosi genetiche negative spesso riguardano predisposizioni alla possibilità di insorgenza tardiva di malattie. L’unica soluzione è l’aborto procurato. La prospettiva di dover crescere un figlio disabile, o a rischio di malattie gravi, è implicitamente ritenuta come non richiedibile dal diritto o dall’etica: la scelta è lasciata agli individui coinvolti. Una seconda tipologia diagnostica riguarda i test genetici adulti (post-natali). Criterio per la decisione a favore di un test non deve essere l’alta probabilità di malattia, quanto la reale disponibilità di possibili cure. Deve essere garantita una gestione dei dati che eviti un eccessivo carico psicologico del soggetto che non può essere lasciato solo di fronte ad un eventuale risultato negativo. Al diritto all’informazione deve poter corrispondere il riconoscimento sociale di un diritto alla non conoscenza di situazioni solo probabili, comunque future e non curabili. Deve essere garantita la riservatezza delle informazioni suscettibili di generare atteggiamenti discriminatori nella società. Modificare il patrimonio genetico di un soggetto al fine di curare una malattia è un’impresa complessa e rischiosa. Le possibilità di correzione di un genoma difettoso si distinguono in due linee di ricerca: la terapia somatica e quella germinale. Nel primo caso si tratta di procedere inserendo in un grande numero di cellule somatiche di un individuo il gene corretto rispetto al tratto di DNA errato nel caso di malattie monogenetiche. Non si va a curare la malattia, ma se ne tratta l’espressione compensando una carenza con una nuova produzione: il rischio così è che i geni patogeni aumentino all’interno della popolazione. Sono ancora molte più le incertezze che le certezze. Seconda pista di ricerca riguarda le terapie germinali in cui si tenta di correggere un genoma difettoso nelle cellule della linea sessuale di un individuo adulto per poter trasmettere un “nuovo genoma” ai discendenti. La possibilità di un’eugenetica positiva evoca immediatamente una grande quantità di preoccupazioni: l’embrione rischia di ridursi a materiale fabbricabile in cui le decisioni dei genitori si sostituiscono all’indeterminatezza della natura. La gestione sociale dovrà garantire un serio orientamento al bene comune nelle diverse situazioni in cui simili ricerche si compiono evitando forme di discriminazioni o di sperequazione dei guadagni. 15 Cellule staminali = cellule del nostro organismo che non si sono ancora specializzate in una funzione determinata e sono quindi disponibili come “materiale di riserva” in grado di rigenerare tessuti. Le cellule staminali hanno diverse origini. La ricerca si è concentrata in un primo momento sulle cellule dell’embrione. Esse infatti sono totipotenti, cioè in grado di dare vita a tutte le cellule somatiche dell’individuo. Le cellule staminali adulte appaiono meno versatili di quelle embrionali e sono dette pluripotenti. L’utilizzo delle cellule embrionali trascina con sé una lunga serie di problemi etici. Prelevare cellule da un embrione significa la sua distruzione. Le indicazioni legali vietano ovunque la produzione di embrioni al fine specifico della ricerca, ma generalmente si consente l’utilizzo di embrioni soprannumerari, frutto di pratiche di procreazione medicalmente assistita. Una simile posizione sembra godere anche di un appoggio sociale in nome di un principio di beneficialità che riconosce l’altezza della finalità per cui verrebbero sacrificati gli zigoti comunque condannati ad una fine perché non più impiantabili. Questo significa però sottoporre l’embrione ad una logica strumentale, che lo riduce a mezzo in vista di un fine di ricerca pur nobile. Tale esito sarebbe gravemente lesivo della dignità dell’embrione. Legata alla ricerca sulle cellule staminali troviamo anche le pratiche di clonazione terapeutica. Il clone è copia identica del progenitore. Due sono i metodi possibili per la clonazione: lo splitting o il trasferimento nucleico. Nel primo caso la procedura consiste nel provocare e gestire il fenomeno della gemellazione dividendo gruppi di cellule nelle prime fasi dello sviluppo embrionale. Nel secondo caso si procede prendendo un ovulo femminile denucleandolo e inserendovi all’interno il nucleo di una cellula somatica dell’organismo da clonare. Il dibattito etico si è concentrato sull’applicazione di queste tecniche all’uomo. È unanime il rifiuto di clonazione per finalità riproduttive, mentre le posizioni si differenziano a riguardo della cosiddetta “clonazione terapeutica”. Essa prevede l’applicazione delle medesime procedure, bloccando però lo sviluppo embrionale nei primi stadi. Lo scopo di questa pratica è la produzione di cellule staminali totipotenti assolutamente compatibili con l’individuo, essendone una copia genetica. Questo materiale, successivamente coltivato in vitro, può sviluppare tessuti e potenzialmente anche organi utili poi ad una terapia o ad un trapianto. Ciò che non deve essere trascurato in una valutazione etica è il fatto che, nonostante la differenza terminologica, la clonazione terapeutica, coma le riproduttiva, sia per finalità sperimentali che di cura, si avvale delle medesime procedure e comporta la produzione di un embrione umano. Per quanto la ricerca della salute e l’aumento delle conoscenze tecnico-scientifiche siano espressioni importanti della libertà dell’uomo e delle istituzioni sociali, esse non possono essere ottenute al prezzo di un utilizzo strumentale dell’embrione, che custodisce la stessa dignità della persona umana. L’etica animata da una carità intelligente appare quindi il centro di ogni prospettiva aperta alla famiglia umana. CAPITOLO QUARTO: Un nuovo modo di morire? Di fronte alla morte si fugge. Questo fenomeno ha radici strette attorno a quell’istinto fondamentale di ogni essere vivente che è la sopravvivenza. 1)L’esperienza del morire oggi L’inaugurazione degli strumenti di rianimazione e la chirurgia dei trapianti ha modificato il momento del morire e l’immagine del cadavere. La morte è un processo. La diagnosi di morte viene oggi emessa misurando la totale assenza di attività cerebrale per un opportuno arco di tempo. Da un lato si sono schierati coloro che non ritengono sufficiente la certificazione della morte di un solo organo per definire il morire di un uomo e quindi difendono il criterio tradizionale. Dall’altra coloro che, riconoscendo la morte come un processo, ritengono sufficiente la definitiva perdita della coscienza per definire morto l’individuo come persona. In questo secondo caso basta quindi la certificazione della compromissione delle strutture deputate alla coscienza per definire il decesso. La definizione fisiologica di morte rimane la distruzione di un organismo in quanto organismo, cioè in quanto capacità di funzionare come tutto coordinato. Non esiste la morte in sé, esiste invece la persona che muore. Lo studio della dottoressa Elisabeth Kubler- Ross permette di comprendere la dinamica psichica che accompagna la coscienza di colui/colei che muore. L’impatto iniziale con la consapevolezza di una morte prossima o di una malattia inguaribile provoca, dopo uno shock iniziale, una situazione di rifiuto. Quando la prima fase di rifiuto non può più durare, viene sostituita da sentimenti di rabbia. Presto ci si rende conto che l’ira non conduce da nessuna parte e si tenta allora di scendere a patti. Si configura una terza fase, quella della negoziazione. 16 Il malato vede il disfarsi della propria immagine corporea. Tutto ciò sfocia in un senso di depressione. Il morente potrà raggiungere uno stadio di accoglienza del proprio destino. Non si tratta di una fase di gioia, ma di comprensione di un passaggio ormai inevitabile, di una passività alla quale ci si abbandona. L’abbandono genera serenità. C’è un tratto però che sembra accomunare tutti questi momenti del morire: è la speranza. Ciò che appare necessario è un contesto relazionale fondato su una comunicazione profonda e rispettosa. Una comunicazione che sappia ascoltare le varie domande del malato, anche quelle più drammatiche, senza averne timore, senza sminuirle, ma anche senza ritenerle l’ultima parola. Due principali radici: anzitutto un secolarismo che ha tolto i linguaggi per dire la morte. Il rifiuto di ogni forma di ritualità sembra aver abbattuto le “maschere” che formano quell’insieme di luoghi comuni entro cui gli uomini si scambiano continuamente le loro esperienze di dolore e dove il parlare diviene legittimo. A questo si aggiunge l’edonismo di una società capitalistica. La vita si rifugia nell’artificio laddove la natura conduce alla morte. Il mondo reale è sostituito dall’immagine che non ammette screzi, dagli oggetti che rimangono dopo di noi, dalla grandezza delle opere che sfidano il tempo. La modernizzazione, attraverso l’individualismo e la privatizzazione dei sentimenti, ha avuto la necessità di trovare un nuovo ambito in cui porre la morte. A questo scopo gli si è fatta incontro la medicina. L’arte medica si è presentata sufficientemente sicura per richiudervi il dolore e la morte. Il più grande rischio è essenzialmente la solitudine di degenti in reparti di rianimazione, l’indifferenza delle comunità di fronte alla scomparsa di loro membri, all’assenza delle persone care al momento del trapasso. Il medico e l’équipe a lui legata, in quanto detentori delle conoscenze e possibilità tecnologiche e terapeutiche che si applicano alla condizione del paziente, sappiano anche automaticamente quale sia il bene per il malato moribondo. Questo modello interpretativo dell’arte medica si lega all’attribuzione di prerogative carismatiche al curatore quasi al detentore di poteri divinatori e taumaturgici. In opposizione a questo modello paternalista, è andato emergendo in questi ultimi anni, grazie all’ingresso dei valori liberali e democratici nella medicina, l’affermazione di un principio di autonomia del paziente di fronte alle terapie. Al medico è chiesta solo la competenza tecnica per eseguire, in modo asettico e impersonale, le richieste del morente. Bisogna integrare gli elementi positivi delle due posizioni. Di fronte al morente è auspicabile una medicina capace di farsi carico della morte, non meno di quanto si faccia carico della salute e della guarigione, capace di accompagnare la persona che muore rispettandone i tempi e le legittime scelte. Si tratta di costruire un’alleanza terapeutica. La dimensione teologica : l’esperienza del morire pone la questione del senso: perché esiste la morte? Perché si muore? Perché io muoio? La domanda diventa invocazione, lamento, urlo che chiede una risposta trascendente. La morte è vissuta come violenza indesiderata che entra nella nostra vita e ci travolge passivamente. Si percepisce la dinamica attiva di un morire assunto come atto estremo del vivere, come manifestazione dell’uomo come uomo. Solo l’attimo del morire permette una piena presenza dell’uomo a sé stesso. La morte compie la libertà perché nel momento in cui essa si decide verso questo evento non può più porsi e diventa così indisponibile a sé. La morte è realizzazione piena dell’opzione definitiva della libertà. La morte è momento del vivere, momento supremo in cui il vivente si confronta con la propria umanità limitata e con la propria storia per consegnarsi alla definitività. È necessario preservare questo momento da ogni tipo di invasione indebita. È importante garantire anche spazi fisici che custodiscano il grande valore etico e personale del morire dell’uomo, come decisione finale della sua vita, congedo dai suoi affetti, rilettura sul vissuto. Si deve fare di tutto per facilitare l’assistenza domiciliare e la promozione di hospices specializzati per l’accompagnamento degli ultimi momenti. 2) Interpretazioni in autentiche del morire: eutanasia ed esubero terapeutico “Eutanasia” significava “morte bella” e indicava la ricerca di tutte le condizioni affinchè il soggetto potesse vivere una morte degna del suo stato di uomo e cittadino. Con l’epoca moderna il termine si è piegato ad un atto che procura o accelera la morte al fine di alleviare le sofferenze. Oggi, con eutanasia si intende la scelta che per struttura propria dell’atto o per deliberata intenzione del soggetto agente, procuri la morte in una persona per compassione verso la sua condizione di sofferente o di malato in stato ritenuto disumano. 17 quando i due coniugi arrivano alla decisione di sposarsi, hanno una consapevolezza comune di essere significativi l’uno per l’altro e una serie di aspettative molto elevate. Non basta essersi riconosciuti, essersi amati, aver deciso insieme ad un certo punto di sposarsi: occorre che questo consenso, dato inizialmente, venga continuamente confermato per tutto il tempo in cui il matrimonio dura. L’uomo e la donna hanno delle aspettative che dovrebbero trovare una continua verifica positiva perché possa continuare il legame che hanno deciso inizialmente. Nel momento in cui vengono meno le conferme proprie o del partner alle attese disegnate, la coppia individua presto una via d’uscita legale che la liberi dagli aspetti difficili del legame: si chiede la separazione, avviando l’iter verso il divorzio. La possibilità di interrompere il legame può comportare meno voglia di spendere in faticosi mutamenti delle situazioni negative. Le separazioni possono dare l’impressione di costituire una chance in più, una tappa obbligata della vita, oppure una prova con la quale occorre prima o poi cimentarsi e perciò tanto vale farlo presto. Il matrimonio viene visto come “contratto privato”. La relazione matrimoniale non può essere “di massa”, né “per abitudine”, bensì deve essere decisa, fatta oggetto di riflessione, e deve essere voluta e rimotivata giorno per giorno. Entrambi i soggetti coinvolti in questo processo di decisione l’uno per l’altro sono oggi attenti al rispetto delle originalità, potenzialità, possibilità per il futuro di ciascuno dei due. La vita di coppia può essere intesa come “concorrenziale” alla vita del singolo: quest’ultimo si concederebbe al legame affettivo solo per il tempo strettamente necessario e a condizione che essa non sia “pietra di inciampo” dalla realizzazione personale; tanto più i legami si fanno esigenti, tanto più finiscono spesso per essere avvertiti come “vincoli”, non come risorsa. Sono interessanti le categorie di “relazione pura” e di “amore convergente”, due modi per provare ad agguantare lo stile contemporaneo di intendere i rapporti di coppia: si starebbe insieme solo per quello spazio-tempo in cui convergono gli interessi di vario tipo dei soggetti coinvolti, o almeno di uno dei due. Una relazione pura si mantiene stabile fin tanto che entrambe le parti ritengono di trarne sufficienti benefici come per giustificarne la continuità. L’amore convergente è amore attivo, contingente, e quindi non fa rima con i “per sempre” e gli “unico e solo” tipici del paradigma dell’amore romantico. La società separante e divorziante di oggi diventa la conseguenza della nascita dell’amore convergente. Perché una coppia possa costituire una realtà solida e duratura, deve essere formata da due individui differenziati e individuati sia nei confronti delle famiglie di origine, sia tra i membri della coppia stessa. Ora, questa realtà è sempre più difficile che si realizzi nella nostra società. Nel contesto della “privatezza” del legame, i coniugi si trovano soli e spesso solitari nel prendere sia le decisioni fondamentali che quelle quotidiane della loro vita persona e di coppia. I mutamenti introdotti nei ruoli socialmente riconosciuti all’essere maschio o femmina, comportano una serie di modifiche nella gestione degli ambiti vitali. Sulle minute esigenze della realtà quotidiana nascono frequenti motivi di conflitto. Ora che i ruoli sono intercambiabili e non ci sono più nette divisioni dei compiti fra uomo e donna, fra moglie e marito, ogni giorno si devono rinegoziare semplici incombenze. Le vicende dell’amore si scontrano con la fatica della quotidianità e su questo spesso cedono, cadono, falliscono. Le vicende dell’amore di coppia inducono le nuove generazioni a preferire modelli di relazione affettiva meno vincolanti, più elastici, meno “imbrigliati” rispetto a quello matrimoniale. Trasformazioni: - diminuisce drasticamente la dimensione numerica dei nuclei di convivenza; - cresce l’età al primo matrimonio; - aumentano i separati e i divorziati; - decrescono i nuovi coniugi; - cala il tasso di fecondità; - il panorama delle convivenze si frammenta. Il modello tradizionale di famiglia si scompone in più modelli. CAPITOLO SECONDO: Il sacramento dell’amore Ciò che della relazione amorosa sembrava “enigmatico”, si svelerà come “misterioso”, cioè portatore dell’identità di Dio, Mistero d’Amore. 20 1)L’evidenza ecclesiale: il matrimonio celebrato La Chiesa si presenta con una realtà che ha una sua visibilità: il rito. In chiesa, la comunità cristiana propone alle coppie di compiere un rito particolare, nella convinzione che le modalità in cui si celebra veicolano e consentono l’accesso ai significati e alla realtà che sono invocati. Il dono della grazia sacramentale non si dà a prescindere dalla sua celebrazione in un rito. Se la riflessione teologica vuole sondarne il significato è lì che deve attingere la sua conoscenza; se la prassi credente vuole sapere come la forza dello Spirito Santo costituisca e sostenga la vita dei coniugi dovrà andare lì a chiedere; se la disciplina canonica vorrà essere al servizio dell’incontro fra i doni di Dio e il suo popolo dovrà lasciarsi plasmare dai significati lì celebrati; se la pedagogia cristiana vorrà identificare percorsi proficui per presentare il valore dell’amore coniugale e attirarvi le nuove generazioni sarà chiamata ad ascoltare quella “voce”. Tra le principali motivazioni che hanno reso necessario l’adattamento si segnalava: - una rinnovata coscienza ecclesiale del matrimonio maturata a partire dall’Esortazione apostolica Familiaris consortio di Giovanni Paolo II, che richiede che nel rito siano maggiormente esplicitati aspetti inerenti al senso cristiano del matrimonio; - una nuova situazione pastorale che rende necessario tener presente il caso di coppie che pur non avendo maturato un chiaro orientamento cristiano e non vivendo una piena appartenenza alla Chiesa, chiedono di celebrare cristianamente il matrimonio; - varietà e ricchezza di testi eucologici; - introduzione di nuove sequenze rituali; - arricchimento del Lezionario. La coscienza ecclesiale ha saputo ritrovare in alcuni passi biblici la ferma decisione del Signore di costituire, fondare, confermare, benedire l’amore tra un uomo e una donna. 2) La rivelazione biblica del “sacramento” All’inizio del capitolo 19 del vangelo di Matteo si trova uno dei tentativi farisei di mettere in diffi coltà Gesù. La questione è quella del ripudio della donna “per qualsiasi motivo”. La Scrittura ci presenta il “fare” di Dio nell’opera creatrice come un “separare”. La parola effi cace di Dio crea distinguendo: la luce è defi nita differenziandosi dalle tenebre; il cielo separa le acque che stanno “sotto” da quelle che stanno “sopra”; il mare si ritira per lasciare spazio alla terra; gli alberi sono diversi l’uno dall’altro; gli astri sono al servizio della distinzione tra giorno e notte e tra le stagioni; gli animali si moltiplicano nella loro varietà. Il “fare” di Dio quando separa non intende negare la comunione o dichiarare la “negatività” di tutto ciò che “non è Dio”, bensì porre le condizioni affi nchè ogni cosa abbia la sua “autonomia”, che non potrà che essere una autonomia creaturale, cioè costitutivamente in relazione a Colui che l’ha posta in essere. La dinamica creativa “a coppie” pare venir meno in occasione della creazione dell’uomo: viene prima annunciata la creazione dell’uomo e solo alla fi ne si introduce la menzione di maschio e femmina. L’uomo viene indicato col termine adam. Il suo signifi cato può essere quello generico di “umanità”, “genere umano”; se usato al singolare indica “appartenente alla specie umana”, “persona umana”; solo a partire da Gen 4 è riconoscibile l’uso come nome proprio di un uomo maschio. Quindi ciò che viene asserito dell’uomo deve essere inteso come riferito a entrambi i sessi: adam, la persona umana, è la coppia di maschio e femmina. L’espressione “Non è bene che l’uomo sia solo”, sembra tra le più laiche ed ecumeniche: oggi la grande nemica che la nostra cultura tenta di fuggire è la solitudine. Gen 2 vuole scuotere il lettore parlando di una realtà che è “non buona”. Si intuisce che non si tratta solo della mancanza di una compagna, di una sposa, bensì della sensazione di smarrimento dell’uomo che non ha di fronte a sé una donna, nel senso di un essere sessualmente differente. È come se il “maschio” sentisse di non poter accogliere la sfi da che proviene dall’essere in relazione con la “differente”, poiché lui stesso, se rimanesse solo, non riuscirebbe a dare ragione della propria identità; la stessa mascolinità non troverebbe il suo signifi cato; lo stesso si direbbe per la “femmina”, in una piena reciprocità. Questa solitudine in cui si troverebbe l’umanità, non sarebbe secondo la bontà/bellezza di Dio; tant’è che lo stesso Signore Dio a porre la decisione dell’alterità: “gli voglio fare un aiuto che gli sia simile”. Dio stesso si fa carico di offrire all’uomo una compagna che nella similitudine dell’essere “carne della sua carne”, gli manifesta la sua concreta somiglianza con Dio. Questa ricerca del “simile che sta di fronte” nasce da un insopprimibile desiderio, defi nibile con “eros”: 21 grazie ad esso, l’uomo è portato ad abbandonare la presunzione di essere autosuffi ciente, del tutto completo in sé e autoreferenziale, cioè capace da solo di realizzare la propria vocazione di creatura in relazione al suo Creatore e alle altre creature. La ricerca dell’uomo trova pace: egli guarda la donna e la indica usando la terza persona singolare. È un’altra persona, cioè non è lui, è diversa da lui; però è “simile”, cioè non è un altro animale, essenzialmente diverso dall’uomo. La Bibbia usa due termini diversi: uomo-marito e donna-moglie. L’attrazione sessuale mette l’accento sul fatto che quando si ama una persona, la si ama completamente. Le proprietà dell’amore sono tali che l’amata e l’amante non costituiscono più due esseri, ma uno solo; i due non si trovano solo uniti, ma sono uno, cioè uomo-donna, un “adamo” nel senso biblico, perché l’amore cambia la sostanza stessa delle cose. “Una sola carne” ha come sua caratteristica di unire i corpi e di essere aperta al dono del passaggio di questa vita alla prole. La sessualità è contrassegnata da un orientamento verso l’alto; è energia che include l’apertura verso l’Altro, verso il Tu assoluto. È questa spinta alla trascendenza, che appartiene all’eros umano, la ragione per cui esso viene inserito nel circolo dell’agape, cioè della stessa realtà dell’amore di Dio. La relazione interpersonale è la dimensione più profonda del mistero di Dio. La sessualità umana va vissuta nel segno di una totale reciprocità interpersonale ispirata ad un atteggiamento di assoluta gratuità. Fino a quando la relazione amorosa non sarà tradita, le identità in relazione saranno piene, integre, in completa donazione: “erano nudi e non ne provavano vergogna”. Essere “sottomessi gli uni agli altri” è una declinazione del camminare nell’amore, legge fondamentale dei rapporti interpersonali all’interno della comunità, senza differenza di condizione, di età e di sesso. Quando si è reciprocamente sottomessi, non può esservi un “superiore” e un “inferiore” nel senso di una supremazia. Nel timore di Cristo, cioè nel riconoscimento della sua signoria e nella disposizione alla sequela di Lui, inteso come “capo”. La comunione che Egli porta è un’unione nuova, costituita nella sua carne: il sangue nel quale viene stipulata la “Nuova Alleanza” è il sangue del nuovo e definitivo Agnello, quello stesso Verbo di Dio che si fa vicino in modo inaudito alla vita delle sue creature. L’unione tra Cristo e la Chiesa trova la sua massima espressione nell’evento della Pasqua, in cui lo Sposo si prende cura della propria Sposa col gesto supremo del dare la vita per lei. Amore coniugale: conoscenza e reciprocità, comunanza e diversità, obbedienza e rivelazione, intesa e proiezione verso l’esterno, fecondità e fedeltà. Si gode della comunione trinitaria a partire dalla modalità concreta rivelata da Gesù. Si può parlare di “divinizzazione” delle creature come “filiazione”: la rivelazione da parte di Cristo dell’amore del Padre e della sua comunione con lui chiama l’umanità a farsi “figlia” nello Spirito Santo, come Cristo è Figlio. La Chiesa “si lascia fare” dall’amore del Figlio e, conquistata da lui, dispone tutta se stessa a “rispondere” all’amore convocando tutti gli uomini alla tavola dell’amore. La nostra unione con Cristo non è solo un evento spirituale, ma anche “fisico”, come quella coniugale. Cristo redime i nostri corpi, così come le nostre anime. Stessa cosa nel matrimonio: si salvano le anime, ma trovano redenzione pure i corpi. 3) Il sacramento delle origini Dio è amore e ovunque crea e diffonde amore. Dio si disporrà verso il suo popolo con la stessa intensità di uno sposo appassionato, fedele, disposto al perdono, capace di pagare di persona per il bene dell’amata. Tutti i beni di cui gode l’intera umanità, ed in particolare la comunità cristiana, possono essere interpretati come doni d’amore dello Sposo per la sua Sposa, la quale ne ricava gratificazione sponsale, ovvero gioia, godimento, senso di pienezza, vita e vitalità. La Chiesa Sposa risulta essere solo “beneficiaria” di tali doni, ma attiva nell’atteggiamento “sponsale”, ovvero rispondente con tutta se stessa alla proposta d’amore del Cristo-Sposo. 4) La qualità sacramentale dell’amore coniugale Nella sua pienezza, il matrimonio-sacramento manifesta l’autopartecipazione di Dio all’uomo attraverso la grazia. Manifesta l’essenza della Chiesa la quale è, in Cristo, il sacramento fondamentale, escatologicamente vittorioso e indistruttibile di questa autopartecipazione divina. Manifesta anche l’atto libero in cui questa partecipazione viene accettata, nella grazia, da chi permette che il sacramento si compia sopra di lui e contribuisce anzi a costituirlo. 22 1) Sentieri che si aprono Quando e dove comincia la “via dell’amore”? Dal grembo materno, cioè da quando la nuova creatura percepisce che il suo stesso esistere trae origine, conserva il respiro e prende forza da un “gesto” d’amore tra un uomo e una donna, posto all’interno di una storia d’amore. L’esortazione apostolica Familiaris Consortio identifica tre fasi della preparazione al matrimonio: una preparazione remota, una prossima e una immediata, in un processo graduale e continuo che va dall’infanzia alla vigilanza delle nozze, coinvolgendo i genitori, gli operatori pastorali, i pastori della comunità, gli stessi giovani. Quando due credenti si aprono all’amore, il compito di prendersi cura reciprocamente l’uno dell’altra diventa un dovere morale della coppia. Rupnik raccoglie alcuni pilastri basilari di un itinerario che gli innamorati possono costruire e verificare: i fidanzati stessi prendano coscienza e decidano di dare vita e di applicarsi in un cammino che tende al sacramento, e si dispongano affinchè tale cammino sia dichiarato, celebrato, riconosciuto anche “oltre” loro due; la coppia abbia un interlocutore spirituale, che la aiuti a rileggere sapienzialmente la sua vicenda; nella stessa linea, le famiglie d’origine e quelle degli amici siano ambiti ascoltati per un discernimento sulla qualità di un amore di coppia che non si chiude, ma anzi è “verificato” dalla sua capacità di distendersi anzitutto sui più “prossimi”; tra gli obiettivi ci sia la franchezza di rivelarsi l’uno all’altra in modo sempre più completo, col sano desiderio di crescere nella conoscenza amorevole di sé e dell’altro/a; ci sia la gioia di “annaffiare” le radici l’uno dell’altra, cioè si lavori insieme per il sostegno di ciò che edifica ciascuno dei due e quindi entrambi; si cresca nel gusto per la preghiera condivisa, in cui si affinano i “gusti spirituali” reciproci; i fidanzati dedichino un’apposita cura alla preparazione di una profonda, significativa, piena vita sessuale, che non si inventa, non si improvvisa, non sia data per scontata; sulla scia della tradizione della “regola di vita”, i fidanzati stendano un sobrio “diario dell’amore”, in cui fare memoria delle opere di Dio in loro, identifichino i bisogni spirituali e relazionali, assumano gli impegni per la loro concretezza; un’attenzione particolare è bene sia dedicata alla formazione all’arte del perdono reciproco, che schiude ad inedite “rinnovazioni” dell’alleanza coniugale. 2) Sentieri quotidiani Giunti alla celebrazione nuziale si dà avvio alla vita coniugale. Affinchè l’amore di Cristo innervi la vicenda amorosa di un uomo e di una donna è necessario che ciascuno dei due sia inserito in Cristo. Solo in questo caso potranno vivere la loro relazione all’insegna del suo comandamento nuovo: “che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri”. La parola “spiritualità” è intesa come la vita secondo lo Spirito del Signore Risorto, cioè vita nell’amore. Nel sacramento il dono di Dio e il compito della coppia vengono articolati in modo tale che Colui che viene donato è proprio Colui che rende possibile ed esalta la capacità di coloro che lo ricevono. L’etica matrimoniale si pone al servizio di una risposta completa all’attrazione dello Spirito: le esigenze che rendono autentico l’amore coniugale che desidera essere sacramento non solo altro rispetto alle leggi della morale matrimoniale, che indica le condizioni affinchè esso possa realizzarsi in modo pieno. Totalità, fedeltà, indissolubilità, fecondità sono le caratteristiche che le regole morali intendono salvaguardare e favorire. Donarsi e accogliersi totalmente Essere sacramento dell’amore totale di Cristo implica che ciascuno dei due orienti se stesso all’unione con l’altro/a. Il corpo fa riferimento alla gestualità erotica e alla capacità procreativa; la mente riguarda la dimensione psichica dei pensieri e dei sentimenti; il cuore indica la dimensione spirituale della scelta libera, cioè consapevole e volontaria. A livello del corpo si tratterà di educare le proprie pulsioni erotiche e di conoscere la propria fertilità; a livello della mente si tratterà di imparare a vivere i propri pensieri e sentimenti senza fuggire dalla realtà; a livello del cuore, si tratterà di non lasciarsi tiranneggiare dalle voglie irrobustendo la propria capacità di scegliere con decisione e con costanza. La regola della “castità matrimoniale” mette in luce lo scadere dell’amore sessuale al solo congiungimento dei corpi senza sentimento e attenzione, per la ricerca esclusiva del piacere erotico o della procreazione. La castità è l’arte di parlare l’amore personale mediante il linguaggio dell’eros. La comunione amorosa integrale, giungendo fino all’intimità sessuale, assegna alla relazione amorosa il carattere di esclusività. Ci saranno anche “altri” nella vita di due coniugi, ma “come” il proprio coniuge non ci sarà nessun altro. L’io e il tu diventano “una carne sola” nel tempo. La totalità del dono reciproco si raggiunge solo nel tempo. L’amore integrale è gravido di fecondità. C’è una fecondità interpersonale mediante la quale i due crescono, 25 camminano, si amano nel tempo: il primo frutto della coppia è la coppia stessa. C’è inoltre una fecondità sociale della coppia, che si esprime nell’accoglienza, nell’ospitalità, nella relazione con altre famiglie. C’è una fecondità spirituale. Avviene quando due persone comunicano in profondità la loro vita, aiutandosi reciprocamente a rinascere come persone nuove. La comunione amorosa integrale,giungendo fino all’intimità sessuale, può infatti generare un’altra vita, dare vita al figlio. La contraccezione è l’esclusione positiva e diretta della facoltà generativa, attraverso alcuni impedimenti posti alla totalità della comunione interpersonale. I “metodi naturali” rispettano il ciclo della fertilità della donna, permettendo la regolazione naturale della fecondità, determinata secondo criteri di responsabilità, senza penalizzare la comunione integrale dei corpi dei coniugi. 3) Sentieri tortuosi Affinché l’amore di Cristo circoli come linfa nella vita di una coppia non è sufficiente che essi dichiarino di credere: è necessario che lo frequentino. Una relazione amorosa vive del vivo contatto. Essendo il vissuto ciò che testimonia l’effettivo inserimento in Cristo, per valutarne la consistenza si dovrà guardare più alla qualità del vissuto amoroso che non alla correttezza formale, civile o ecclesiastica. L’irregolarità matrimoniale è il “peccato” e da questo punto di vista ogni matrimonio sarebbe “irregolare”, poiché non praticherebbe mai pienamente la carità di Cristo, che si pone come regola della morale cristiana. Con “irregolare” non si intende esprimere un giudizio di tipo morale sulle singole persone, ma solo indicare lo stato di vita dei battezzati che vivono coniugalmente senza il sacramento del matrimonio. C’è distinzione tra situazioni “difficili” (divorziati e separati) e situazioni “irregolari” (divorziati risposati, sposati solo civilmente, conviventi). La Chiesa cattolica ritiene di non poter ammettere queste persone alla riconciliazione sacramentale e alla comunione eucaristica. La Chiesa deve ricordare che quanti vivono in una situazione matrimoniale irregolare, pur continuando ad appartenere alla Chiesa, non sono in “piena” comunione con essa. Non lo sono perché la loro condizione di vita è in contraddizione con il Vangelo di Gesù, che propone ed esige dai cristiani un matrimonio celebrato nel Signore, indissolubile e fedele. Il magistero chiede di essere attenti al discernimento delle diverse situazioni che il fallimento del rapporto matrimoniale giunge a configurare, cercando di identificare il bene e la premura adatte a ciascuno dei soggetti coinvolti. C’è differenza tra quanti sinceramente si sono sforzati di salvare il primo matrimonio e sono stati abbandonati del tutto ingiustamente, e quanti per loro grave colpa hanno distrutto un matrimonio canonicamente valido. Secondo la dottrina ortodossa, il matrimonio è indissolubile e contratto a vita in conformità con le parole del Signore. Si tratterebbe di un’indissolubilità condizionata del matrimonio, dal momento che il divorzio è concesso solo in casi specifici. Anche per la Chiesa ortodossa il matrimonio è unico ed è sacramento, ma se fallisce, la Chiesa si pone il problema della salute spirituale degli sposi e delle loro anime affinché non si perdano. Le Chiese orientali giungono a differenti conclusioni teologiche e pastorali. La Chiesa non scioglie il vincolo del matrimonio, ma prende atto di un male operato contro Dio e contro la Chiesa dai coniugi divorziati e decide l’atteggiamento da usarsi per chi torna pentito. Negare la pienezza del valore sacramentale delle seconde nozze non vuol dire che esse non abbiano alcun valore sacramentale. L’attuale disciplina della Chiesa che richiede a chi vive coniugalmente senza il sacramento del matrimonio di non ricevere i sacramenti, non impedisca loro di essere raggiunti dallo Spirito amorevole di Cristo. PERSONA E SOCIETÀ CAPITOLO PRIMO: Un’etica sociale cristiana 1) Sguardo all’attuale fenomeno sociale Lo sguardo sulla società attuale coglie una serie di sintomi: frammentazione, flessibilità, multicentricità. La società si presenta oggi all’insegna della complessità, ovvero come una realtà in cui è necessario comprendere le differenti tensioni presenti al suo interno. Il tratto caratteristico del nostro tempo è la “globalizzazione”, con i relativi pregi e difetti. 26 La tensione fondamentale oggi sembra essere quella tra individuo e società. La persona è un essere in relazione. Coscienza è consapevolezza di quanto altri, in gran parte, ci hanno trasmesso. Ogni coscienza si dà come coscienza non soltanto della società, ma anche nella società, in una società ben precisa. Apprezzate sono oggi le relazioni comunitarie o “primarie”, in cui prevalgono i tratti della prossimità, del pieno riconoscimento dell’altro, dell’attivo coinvolgimento dei membri di una famiglia o di un gruppo; le relazioni in cui la logica dell’io-tu tende ad evolvere nel costituire alcuni “noi essenziali”, dove ritrovarsi e ritrovare l’altro. L’istituzione merita di essere riconosciuta come “prodotto” dell’accumularsi della libertà di molti, di cui porta il segno e che predispone, orienta, positivamente o meno, tutte le scelte che ad essa si riferiranno. L’aspetto istituzionale dei rapporti sociali dice d’altra parte che è possibile raggiungere, amare... non soltanto il vicino, il fratello, il prossimo che incontriamo, ma anche colui che non conosceremo mai in modo immediato, e tramite le istituzioni sarà possibile considerare non semplicemente un volto anonimo, privo di contorni, ma un “altro” che può essere riconosciuto nella sua singolarità, assieme a molti altri, e amato, apprezzato come tale. Affiora una considerazione relazionale della libertà dell’uomo, che si rende afferrabile in tre dimensioni: personale, comunitaria, istituzionale. Ciò significa che ogni problema sociale necessita di essere indagato almeno sotto questi tre profili. Un’etica sociale non potrà non tener presente di queste dimensioni, perché è dal loro intreccio che la libertà può essere colta in modo non ingenuo o parziale. Seguendo la metafora della società paragonata all’uomo, si potrebbero cogliere nella società tratti di “soggettività”, spirituali, culturali, di valore, che ne dicono la singolarità specifica e la trascendenza analogamente alla soggettività personale; aspetti “comunitari”, organici nel concorrere delle varie membra del “corpo sociale” al buon andamento del tutto come pure nel ricevere da esso; e la necessità di una “struttura portante”, in grado di conferirle solidità e forma stabile. 3) Un metodo per l’etica sociale Le tre tappe irrinunciabili sono rappresentabili secondo lo schema FENOMENO SOCIALE (storia) che si divide in RILETTURA ALLA LUCE DELLA FEDE CRISTIANA (bibbia) eETICA SOCIALE (dottrina sociale della chiesa). Al primo posto è il fenomeno sociale: la società è essenzialmente fenomeno antropologico, che accomuna la vicenda di tutti; al secondo posto di trova la Bibbia, in quanto attestazione rivelatrice di Dio all’uomo e dell’uomo a se stesso, entro la relazione salvifica originariamente e gratuitamente posta con lui (ovvero la sua verità); al terzo posto si trova l’esigenza etica, che si manifesta in quanto direzione di compimento della libertà, nelle sue varie dimensioni relazionali. La libertà è chiamata a riconoscere nel momento biblico il punto più alto del suo rivelarsi a sé stessa, e in quello etico la possibilità di una mediazione alta.Il metodo è circolare, “aperto” a successivi sviluppi, che dall’uomo parte e all’uomo conduce. Vuole educare a proseguire nella stessa logica, in modo da favorire il discernimento degli eventi sociali più rilevanti. 4) La verità dell’agire sociale La verità delle relazioni, nella Scrittura, si dà in modo paradigmatico, mediante la narrazione di vicende esemplari, ad alto contenuto simbolico. Con “giustizia” la Scrittura esprime il modo più autentico di vivere le relazioni nella storia, nelle concrete circostanze del vissuto. Tra due diverse e conflittuali modalità dell’agire nelle relazioni, la Bibbia non definisce con criteri astratti la migliore, ma dal confronto vivo tra le modalità possibili dell’agire fa scaturire la migliore, perché il lettore ne sia istruito. Giustizia è fedeltà, solidarietà, lealtà, anche in condizioni estreme, come di fronte al nemico o all’avversario. La giustizia è per l’uomo soprattutto cammino da compiere, sulla base dell’incrollabile e infinitamente superiore giustizia di Dio; essere giusti esige anzitutto fede in Dio, perché da Dio viene l’autentica giustizia. • Antico Testamento - La Legge Nel Pentateuco, la Legge di Israele è presente nei testi del Decalogo e della rimanente legislazione. Tra gli elementi di novità si notano: 27 Nel corso della storia sono riconoscibili alcune gradi tappe di sviluppo dell’attività economica e della corrispondente questione etico-sociale: - l’economia nel mondo antico. Le forme consuete dello scambio e il manifestarsi del problema etico- sociale riguardano l’economia del baratto. Lo schema è quello di MERCE-MERCE; - l’economica all’epoca dello sviluppo dei mercati mediante l’intermediazione monetaria. Lo schema può essere rappresentato come MERCE-DENARO-MERCE; - l’economia industriale. Lo schema diventa DENARO-MERCE-DENARO. Cresce l’importanza dell’economia politica e della politica economica. I presupposti del liberalismo economico sono la libera concorrenza, l’individualismo e l’assenteismo statale. In esso, il modello culturalmente vincente è l’utilitarismo. - L’economia post-industriale è un’economia finanziaria, informatizzata, globalizzata; la new economy risulta strettamente legata alle nuove, elevate tecnologie. Lo schema è quello del DENARO-DENARO. L’economia post-industriale risulta intrecciata con la globalizzazione. La globalizzazione è un fenomeno carico di forti ambivalenze, di grandi promesse come pure di gravissimi oneri ai quali non sembra possibile far fronte adeguatamente. 2) Cenni ai fondamenti dell’agire etico in economia Nell’Antico Testamento affiora un giudizio ambivalente sulle ricchezze: possono essere segno positivo, addirittura di benedizione, quindi realtà favorevoli alla vita dell’uomo e alle sue relazioni, se sono acquisite e utilizzate in modo giusto; altrimenti, se sono frutto, segno, strumento di ingiustizia, il giudizio sul loro possesso/utilizzo è negativo. In questione essenzialmente è l’agire dell’uomo che ne fa uso. Nel Nuovo Testamento le ricchezze sono il possesso smisurato e si manifestano come realtà fortemente ambivalenti, addirittura illusorie. Illudono l’uomo accecandolo, cioè impedendogli, in molti casi, di vedere correttamente la realtà. La ricchezza si presenta come un obiettivo vantaggio per l’uomo e per la sua vita: gli conferisce prestigio, onori e notorietà, può mutare a suo favore il corso delle relazioni sociali, lo rende sicuro riguardo al proprio avvenire, mostra di poter dilatare a dismisura le sue possibilità di scelta e di vita, lo mette in grado addirittura di farsi benefattore, di provvedere col suo ad altri, imitando Dio stesso; promette una vita migliore, più piena e più libera. La ricchezza, però, finisce per possedere l’uomo, per renderlo schiavo, asservito ai suoi possessi. Le ricchezze non mantengono, né sono in grado di mantenere le promesse di cui pure in apparenza sono valide portatrici: sono ingannevoli. Attraggono il cuore dell’uomo, accecandolo. Della povertà raccomandata dal vangelo, non si può fare l’ideologia. Il discepolo non è tale nella misura in cui meno possiede. Certo è che le ricchezze non sono realtà indifferenti all’accesso al Regno e alle modalità effettive del discepolato, comunque da sottoporsi al primato assoluto della carità. La predicazione di Gesù non afferma la necessità di “disfarsi ad ogni costo”, o comunque di distruggere i beni materiali in quanto segno negativo. Dei beni, i Dodici facevano evidentemente uso, come più volte attestato nei Vangeli: né, in ogni caso, Gesù ha esortato i suoi ad uscire dal quadro economico-sociale del suo tempo. Ciò che è lasciato, donato o condiviso, o posseduto ad esempio in comune, non è perduto, ma trasformato; non è più occasione di divisione e contrapposizione, ma di comunione. Il criterio evangelico ultimo per la gestione delle ricchezze è di sottoporle a due criteri di giudizio fondamentali: - il giudizio di Dio nella fede; - i bisogni dell’altro, e di tutti gli altri, nella prospettiva della carità. Il regno di Dio è la sola, vera, ricchezza in grado di colmare il cuore, le attese profonde dell’uomo. Ogni altro bene, pur benedetto da Dio, da Lui stesso voluto e donato all’uomo, ha senso per sostenere l’uomo entro la sua vicenda storica, in una logica di fraternità e condivisione. I beni della terra sono offerti all’umanità perché essa ne fruisca concordemente; perché siano occasione e motivo di unità, non di divisione. I beni vanno riconosciuti ultimamente come doni di Dio che devono giungere a sfamare molti; il “talento” trattenuto presso di sé, viceversa, rimane improduttivo, per sé e per gli altri. 3) Etica dell’agire economico La fi nalità complessiva: produrre utilità o contribuire al bene comune? Il criterio più generale per un giudizio etico in economia consiste nella fi nalizzazione dell’utile al bene. Scopo dell’azienda non è la massimizzazione del profi tto, quanto di fornire beni e servizi, utili ad altri, alle migliori condizioni compatibili con l’esigenza di una gestione ordinata, in grado di remunerare adeguatamente chi 30 lavora in essa ed i fattori che consentono la produzione. Se i beni economici sono fi nalizzati all’uomo e non sono fi ni a se stessi, ciò che va migliorato e massimizzato è semmai altro: la qualità del prodotto o del servizio offerto; l’occupazione, ecc... All’opposto, la negazione dell’etica non dà buoni frutti neppure sul piano dell’utilità economica. Luoghi caratteristici della tensione tra eticità ed economia Il lavoro umano e le sue esigenze Il lavoro, per essere pienamente compreso, va inteso come vocazione originaria dell’uomo. Il lavoro è da cogliersi anche come grande opera ed occasione di solidarietà. Essenziali sono i diritti del lavoro, specialmente al giusto salario, quello in grado di soddisfare le necessità della propria persona, della propria famiglia, e a garantire, anche per mezzo dei sistemi di assicurazione sociale, il lavoratore dalle sue altre necessità. La più profonda interpretazione del lavoro concerne la sua dimensione teologica. Particolare importanza andrà assegnata all’impresa. Un’impresa va vista anzitutto come “comunità di uomini” o “di lavoro”. Possesso e utilizzo di beni e di mezzi finanziari Il principio che presiede al possesso e all’utilizzo dei beni di ogni tipo è quello della destinazione universale dei beni della terra. Questo principio afferma che i beni economici sono stati affidati da Dio all’umanità tutta, affinchè possano rimanere al servizio di tutti, senza indebite esclusioni. Questo non significa abolizione della proprietà privata; implica piuttosto che la proprietà dei beni sia equamente accessibile a tutti, così che tutti diventino, almeno in qualche misura, proprietari. Ciò implica il riconoscimento della funzione sociale di qualsiasi forma di possesso privato. Tale principio, se da un lato fonda il diritto alla proprietà privata, d’altro lato evita che la proprietà privata stessa sia immaginata come diritto assoluto. Con ciò non si intende mettere in discussione la titolarità dei possessi, ma il loro utilizzo che deve considerare le necessità altrui. La titolarità dei possessi può venir meno nel caso dell’esproprio. Il procedimento di esproprio deve essere guidato dai seguenti tre criteri: sia determinato dall’autorità legittima competente, secondo le esigenze e i limiti imposti dal bene comune e dietro equo indennizzo. Si configura non come negazione del diritto alla proprietà privata ma come sua limitazione o meglio, trasformazione per ragioni di bene comune. Quale sistema economico? Quale globalizzazione? La Dottrina Sociale della Chiesa è per una particolare modalità di sistema economico, alla quale possono corrispondere in concreto differenti modelli: - un’economia in cui Stato, mercato e corpi intermedi abbiano ciascuno un compito riconosciuto e apprezzato al servizio del bene comune; - un’economia in cui al mercato sia riconosciuto un ruolo positivo. La Dottrina Sociale della Chiesa richiede pertanto un mercato del lavoro, dei beni e servizi e dei capitali equo, non lasciato in balia delle sole forze che in esso si confrontano, ma rettamente governato, in cui cioè l’equilibrio giunga alla formazione di un “giusto salario”, di un “giusto prezzo” e di un “giusto profitto”. Un mercato quindi non finalizzato a se stesso, ma all’uomo e al suo servizio, lontano da ogni ricerca esclusiva del profitto e da una logica consumistica, anch’essa spersonalizzante; - un’economia articolata e basata su una pluralità di interventi e di soggetti. In negativo, si mette in guardia dalle strutture di peccato e dal peccato sociale, rilevanti in sede economico- politica. In positivo, si auspica l’orientamento generalizzato della solidarietà. CAPITOLO TERZO: Una politica per il bene di tutti 1) Che cos’è “politica”? La politica è una risorsa, possibilità o anche potenzialità straordinaria posta al servizio del progresso della civiltà. La politica ha saputo diffondere una pluralità di beni e servizi un tempo disponibili a pochissimi; ha saputo far crescere la partecipazione e la dignità del cittadino, favorire la ricerca e la cultura, consentire la fruizione di numerosi diritti. Dalla politica scaturiscono e sono scaturiti anche guerre, distruzioni, genocidi, neocolonizzazioni di intere aree dell’umanità, e così via. La forza della politica risiede nel fatto che essa attinge a un potere proveniente da molti. La politica rappresenta il potere sociale, cioè su molti, indistintamente, nella sua massima espressione storica; ad essa, competono sempre responsabilità di altissimo livello. 31 La politica può essere riferita a tre livelli: - la policy, ovvero l’orizzonte più ampio degli orientamenti ideali, linee di condotta, aspetti culturali della politica; finalità, valori, contenuti del dibattito e della prassi politica; costume, modi di vivere; - la polity, ovvero il livello concernente gli aspetti istituzionali, strutturali, della politica e il loro governo; - la politics, vale a dire la politica attiva, l’attività politica in senso proprio: è quella ordinariamente svolta dai suoi professionisti, ovvero dai politici propriamente detti. Rappresenta anche il livello di riflessione, di studio specifico della scienza politica. Il primo orizzonte è fondamentale, gli altri due devono essere posti al suo servizio; il secondo rappresenta la codificazione, la strutturazione istituzionale della politica e il suo attuarsi; il terzo, il luogo decisionale, dipende e interagisce con gli altri due, in quanto di essi si alimenta e su di essi interviene, influenzandoli. 2) La ricerca della verità nella vita politica Antico Testamento In primo piano troviamo la Legge e i suoi mediatori, giudici e re chiamati a esercitare la giustizia presso il popolo.Un ruolo altrettanto importante è svolto dalla Profezia. I profeti affermano l’esigenza non solo di istituzioni giuste, ma di una giustizia praticata dai re, dai capi, come da chiunque. Nuovo Testamento Luci e ombre del potere politico. Gli scritti del Nuovo Testamento sottolineano il potere politico; esso costituisce una tra le massime tentazioni, quella di asservire altri e, se fosse possibile, Dio stesso, alle proprie finalità: si veda, su questo, in particolare il genere apocalittico; si vedano inoltre le narrazioni delle tentazioni di Gesù. L’agire politico è soggetto non soltanto a limitatezza e imperfezione, ma anche al peccato. Il potere come servizio. Il potere è in apparenza servizio, ma in realtà costruisce una propria etica e quasi una sua religione. Grandezza e limiti del potere politico. In sintesi: - il potere politico e sociale, colto a partire e nell’orizzonte del piano salvifico di Dio, appare in tutta la sua limitatezza; è potere circoscritto, che esige di essere ridimensionato nelle sue pretese pseudo-salvifiche, in quanto radicalmente sottoposto alla suprema potestà di Dio; - la possibilità autentica insita nel potere è di divenire servizio, nel proprio ambito e nei propri limiti. Questo toglie, da un lato, la pretesa di dominio insita nelle forme del potere sociale, relativizzandolo ad altro; d’altro lato, ciò consente all’agire sociale e politico di raggiungere le più alte vette del servire il bene; non soltanto di qualcuno, ma di tutti quanti coloro che con quel potere avranno a che fare. Il senso pieno dell’autorità è quello più direttamente espresso dall’etimologia di auctoritas, da augeo = faccio crescere. Anche l’attività politica deve essere perennemente sottoposta alla suprema signoria di Dio e alle esigenze dell’altro, di tutti gli altri. A meno di questo, si tenderà all’idolatria del potere e all’asservimento degli altri, per mezzo della politica. Occorre decidere: tra esercizio del potere politico a proprio vantaggio o a servizio degli altri non vi è via di mezzo. L’itinerario della fede cristiana nella storia presenta svariati modelli. In epoca patristica vige il modello di S. Agostino, in cui la lettura della storia presenta la dialettica tra le due città, la città di Dio e la città terrena. La politica è radicalmente contrassegnata dal peccato e in grado, al massimo, di produrre alcune utilità. La principale conseguenza è la differente logica che a essa occorre riconoscere. In epoca medievale prevale il modello di S. Tommaso, secondo il quale i due poteri sono differenti ma armonicamente coordinati entro l’unica città degli uomini, la res publica cristiana. Per Tommaso la politica costituisce la naturale espansione della nativa relazionalità dell’uomo, animal politicus. In quanto realtà naturale, la politica è per sé buona e ragionevole. La legge rappresenta l’interpretazione razionale del bene comune e la giustizia è la virtù predisposta a conseguirlo in forma pratica. La ragione, coerente con la fede, consente di cogliere il bene della società. In epoca moderna la politica risulta separata dalla fede e dall’etica. Lo Stato diviene luogo di elaborazione autonoma di una “politica senza verità”. La natura genera l’uomo, l’uomo crea la politica come attività specifica per disciplinare l’uso del potere pubblico. Quattro sono le figure dello Stato nazionale moderno: - assoluto; - liberale; 32