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Riassunto inside the white cube, Appunti di Storia dell'arte contemporanea

Riassunto inside the white cube di Brian O’Doherty. a.s. 2023-2024. In preparazione per l'esame storia dell'arte contemporanea. All'esame ho preso 30.

Tipologia: Appunti

2023/2024

In vendita dal 12/07/2024

monica-zhou
monica-zhou 🇮🇹

4.1

(21)

57 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Riassunto inside the white cube e più Appunti in PDF di Storia dell'arte contemporanea solo su Docsity! RIASSUNTO INSIDE THEWHITE CUBE INTRODUZIONE Lo studio di Brian O'Doherty, raccolto negli articoli pubblicati su Artforum nel 1976, analizza l'influenza del contesto rigidamente controllato delle gallerie d'avanguardia sull'oggetto d'arte e sull'osservatore, suggerendo che il contesto stesso ha finito per divorare l'oggetto, rubandogli la scena. O'Doherty sostiene che lo spazio espositivo, costruito secondo leggi rigorose simili a quelle di una chiesa medievale, isola l'arte dal mondo esterno. Questo isolamento crea un ambiente in cui l'arte è libera di vivere una vita propria, ma al contempo la colloca in una sorta di limbo fuori dal tempo, destinata già ai posteri e considerata un buon investimento. Questa separazione temporale e spaziale dell'arte dalla vita reale richiama le antiche camere funerarie egiziane, che eliminavano la consapevolezza del mondo esterno per proteggere l'illusione di una presenza eterna. Questi spazi rituali, simboliche ricostruzioni dell'antico axis mundi che collegava Cielo e Terra, dovevano essere protetti dai cambiamenti e dal tempo, proprio come le gallerie moderne. O'Doherty vede un parallelo tra la funzione di queste camere funerarie e quella delle gallerie d'arte contemporanee. Nell'antico Egitto, la vita ultraterrena del faraone rappresentava la salvaguardia del popolo e consolidava il potere politico di una classe dominante. Allo stesso modo, le gallerie d'arte moderne creano uno spazio fuori dal tempo per estendere questa immutabilità all'intera società, cercando di imporre uno status quo sia nei valori sociali che artistici. Il "White Cube", termine usato per descrivere queste gallerie, sancisce la perenne approvazione delle rivendicazioni del gruppo che condivide quella sensibilità, promuovendo l'idea di una realtà immutabile e della propria eterna correttezza. Il White Cube, dunque, mira a perpetuare una certa struttura di potere nel tempo. L'eternità evocata dai nostri spazi espositivi non è solo quella della posterità artistica, della bellezza immortale, ma anche della stabilità sociale ed economica del gruppo dominante. L'arte, così presentata, costringe l'osservatore a rinunciare alla propria umanità, trasformandolo in un mero spettatore con un occhio disincarnato. Le gallerie d'avanguardia, come le chiese, impongono un comportamento rigoroso, reprimendo gli interessi individuali a favore di quelli del gruppo, e privando l'opera d'arte di tutti i riferimenti esterni che potrebbero interferire con la sua percezione. O'Doherty critica questa situazione, descrivendo il White Cube come l'archetipo dell'arte del '900, un limbo in cui le opere d'arte vengono trasformate in oggetti di culto. All'interno di questi spazi, le idee potenti sull'arte concentrano la loro forza sugli oggetti, rendendo l'arte inaccessibile al di fuori di questo contesto controllato. La visione platonica della forma pura ha dominato l'estetica e l'etica del White Cube, ma O'Doherty difende la vita reale contro questa sala operatoria asettica, esaltando il valore del tempo e del cambiamento contro il mito dell'eternità e della trascendenza della forma pura. In sintesi, O'Doherty argomenta che l'oggetto d'arte è solo un mezzo per le idee già presenti nella galleria, e che con il passare del tempo, il contesto diventa il contenuto stesso. Secondo la sua visione critica, il mondo esterno deve restare fuori da questi spazi espositivi, ma in questo processo, l'arte perde il suo legame con la vita reale e diventa parte di un rituale statico e immutabile. 1 OSSERVAZIONI SULLO SPAZIO ESPOSITIVO La storia dell'arte moderna è strettamente legata all'evoluzione dello spazio espositivo e al modo in cui questo influenza la nostra percezione dell'arte. La galleria ideale del Novecento, uno spazio bianco e neutro, isola l'opera d'arte da tutto ciò che potrebbe distogliere l'attenzione dalla sua essenza. Questo tipo di spazio acquisisce una presenza simile a quella di luoghi sacri, come chiese o tribunali, dove le convenzioni vengono preservate attraverso un sistema chiuso di valori. La galleria, quindi, diventa un luogo dove l'arte esiste in uno stato senza tempo, un limbo accessibile solo a chi è già "morto" artisticamente, suggerendo che la mente, piuttosto che il corpo, sia la benvenuta. Nel XIX secolo, il Salon definiva implicitamente una galleria come un luogo con muri ricoperti da dipinti. Il dipinto "Galleria del Louvre" di Morse mostra una tappezzeria di capolavori non ancora separati e isolati nello spazio. All'epoca, ogni dipinto era considerato un'entità autonoma, isolata dal vicino da una massiccia cornice e al suo interno da un sistema prospettico completo. Questo sistema di esposizione tassonomico si svolgeva in sale riadattate a scopi espositivi. Il quadro da cavalletto, con l'avvento della prospettiva, diventa una porzione di spazio accuratamente selezionata, confermando la promessa illusionistica della pittura. La pittura muraria viene sostituita da un quadro trasportabile, rafforzando l'illusione di realtà. La cornice stabilisce l'esperienza all'interno del quadro, mantenendo i contorni ben definiti. Tra il Settecento e l'Ottocento, la pittura di paesaggio inizia a suggerire un prolungamento oltre i propri confini, facendo pressione sulla cornice e rendendola una zona incerta. Questo fenomeno è accentuato dalla fotografia, che elimina la retorica del margine, attenuando il suo assolutismo e trasformandolo in una zona fragile. L'Impressionismo, con Monet come figura centrale, attenua il ruolo strutturale del margine. L'ideale della piattezza si oppone all'illusionismo, rendendo il margine un arbitrio tra ciò che sta dentro e ciò che sta fuori dal dipinto. Il Cubismo mantiene lo status quo della pittura da cavalletto, mentre Seurat e Matisse contribuiscono a ridefinire i limiti della pittura attraverso l'uso del colore e la struttura dei dipinti. L'allestimento di una mostra esprime un'interpretazione e un giudizio di valore, influenzando il pubblico. Courbet, con il suo Pavillon du Realisme nel 1855, fu il primo artista moderno a ideare un contesto per la sua opera. Tuttavia, le prime mostre impressioniste mantennero l'allestimento accademico, con tele incollate una all'altra. La retrospettiva di Monet al MoMA nel 1960, con tele senza cornici, rappresentò una svolta, rendendo giustizia alle opere impressioniste. Negli anni '50 e '60, la consapevolezza dello spazio necessario ai dipinti per "respirare" diventa centrale. La parete, da supporto passivo, diventa protagonista dell'arte, sede di ideologie contrapposte. Il dipinto da cavalletto non deve essere per forza rettangolare, come dimostrano le tele sagomate di Stella. Questo altera il concetto di spazio espositivo, con piattezza, margine, formato e parete intrecciati in un dialogo senza precedenti. sfidare e rinnovare la storia dell'arte. Il gesto artistico è descritto come un affondo diretto contro il "toro" della storia consolidata, portando un cambiamento repentino nella prospettiva degli assunti e delle idee dominanti. Secondo l'autore, se il gesto riesce a insegnare qualcosa, lo fa attraverso ironia, epigramma, astuzia e provocazione. Il gesto artistico ha il potere di aprire gli occhi dello spettatore e il suo effetto dipende dal contesto delle idee che trasforma e connette tra loro. Nonostante possa essere discusso se sia o meno arte nel senso tradizionale, il gesto ha delle somiglianze con essa. Barbara Rose, citata nell'articolo, suggerisce che il gesto ha anche una funzione didattica, educando gli spettatori attraverso la sua espressività e innovazione. Il testo poi si sposta a considerare i gesti come entità mutevoli, alcuni dei quali, retrospettivamente, possono trasformarsi in veri e propri progetti artistici. Questo solleva la questione della durata e della sopravvivenza dell'effimero nell'arte contemporanea. Documenti fotografici e testimonianze diventano cruciali nel rappresentare e preservare gesti artistici che altrimenti sarebbero destinati a essere effimeri e fugaci. Infine, i progetti artistici vengono presentati come una forma di revisionismo storico operato da osservatori privilegiati, che documentano e interpretano l'arte del gesto in modo che possa essere recepita anche dopo la sua realizzazione. Questo processo di documentazione e revisione aiuta a preservare e a conferire significato agli atti artistici che altrimenti potrebbero sfuggire alla comprensione o all'apprezzamento immediato. In sintesi, il testo riflette sulla natura dinamica e provocatoria del gesto nell'arte contemporanea, sottolineando il suo potenziale di trasformazione delle idee convenzionali e la sua capacità di educare e stimolare il pubblico attraverso la sua espressività e innovazione. La Modernità e il White Cube Il testo esplora inoltre l'evoluzione del white cube, lo spazio espositivo modernista per eccellenza, nato come un luogo neutrale ma che in realtà rappresenta una collettività con idee condivise. La parete bianca diventa un elemento chiave nell'interazione tra valori estetici e commerciali, simbolizzando il paradosso della società contemporanea. Questo spazio, pur preservando l'arte, la rende anche difficile e ne sottolinea l'estraniamento dalla società. La Contraddizione del Modernismo Il modernismo, attraverso figure come Duchamp, Cézanne e De Kooning, manifesta una tensione tra l'accettazione del contesto sociale e la critica di esso. Gli artisti moderni utilizzano strumenti come ironia, paradosso e distacco per navigare le grandi questioni culturali e morali, consapevoli della propria ambiguità storica e sociale. Postmodernismo e Spazio Espositivo Con il postmodernismo, lo spazio espositivo perde la sua pretesa di neutralità, diventando una membrana attraverso cui si scambiano valori estetici e commerciali. L'arte degli anni '70, con il suo carattere provvisorio e la sua critica del sistema espositivo tradizionale, rappresenta un punto di svolta, cercando spazi alternativi e affrontando la storia con un atteggiamento più ambiguo. In sintesi, il testo descrive l'evoluzione dello spazio espositivo attraverso l'intervento rivoluzionario di Duchamp e la successiva trasformazione del white cube modernista. Duchamp, con i suoi gesti radicali, ha ridefinito il rapporto tra arte e spettatore, anticipando molte delle dinamiche che caratterizzeranno l'arte contemporanea e postmoderna. 4 LA GALLERIA COME GESTO Negli anni che vanno dagli anni Venti agli anni Settanta, gli spazi espositivi hanno vissuto una trasformazione radicale, parallela a quella dell'arte stessa. Il piedistallo è scomparso, la cornice è caduta, lasciando lo spettatore libero di muoversi sulla parete, e il collage è saltato fuori dal dipinto per sistemarsi direttamente sul pavimento. Lo spazio espositivo si è evoluto in un ambiente vasto e omogeneo, privo di ostacoli, che si riversava in tutta la galleria. Questo ha portato alcuni a considerare la "galleria vuota" come una delle più grandi invenzioni del modernismo, un luogo capace di infinite mutazioni una volta liberato da ogni contenuto manifesto. Yves Klein fu uno dei pionieri di questa nuova concezione dello spazio espositivo. Nel 1958, alla Galerie Iris Clert, egli cercò di creare "un mondo senza dimensioni" attraverso la sua mostra "Le Vide", dove la galleria era completamente vuota, con le pareti dipinte di bianco e la facciata esterna dipinta di blu. L'evento fu un successo, attirando 3000 persone, incluso Albert Camus. Questa idea di una galleria come un luogo vuoto e trascendente è stata ulteriormente sviluppata dagli artisti europei negli anni Sessanta. Ad esempio, nel 1960, Arman riempì lo spazio vuoto della galleria di Klein con un cumulo di immondizia, creando una metafora della trasformazione e del consumo. Il visitatore, costretto a rimanere fuori dalla galleria, veniva posto di fronte a un nuovo tipo di esperienza artistica, dove il contenitore e il contenuto erano inseparabili. Il nuovo realismo, movimento che si sviluppò tra la fine degli anni Cinquanta e gli anni Sessanta, giocava con queste idee, ma fu presto superato dalla crescente influenza degli artisti americani. Negli Stati Uniti, l'approccio era più semplice e ottimista. Andy Warhol, ad esempio, nella Leo Castelli Gallery, creava opere che combinavano critica e indulgenza, riflettendo i piaceri materiali della borghesia. La Pop Art americana non attaccava direttamente il concetto di galleria, ma giocava con esso, come dimostra l'opera di Warhol con i suoi cuscini argentati fluttuanti. In contrasto, gli artisti europei come Daniel Buren usavano la galleria per fare dichiarazioni politiche e sociali. Nel 1968, Buren sigillò la galleria Apollinaire di Milano con strisce bianche e verdi, trasformandola in un simbolo di un corpo sociale disturbato. Le sue opere, con le loro strisce riconoscibili, rappresentavano una critica sofisticata delle convenzioni sociali e artistiche. Buren credeva che l'arte fosse contenuta non solo dallo spazio della galleria, ma anche dallo stile, che considerava una convenzione sociale. Negli anni Sessanta, la concettualizzazione della galleria raggiunse il suo apice. Robert Barry, nel 1969, chiuse la galleria Eugenia Butler a Los Angeles per tre settimane, lasciando all'esterno un cartello con la scritta "Durante la mostra la galleria rimarrà chiusa". Questo gesto portava lo spettatore a riflettere sullo spazio invisibile e abbandonato, stimolando una nuova percezione dell'arte. Les Levine, con la sua mostra "White Sight" nel 1969, privava gli spettatori dei colori e delle ombre, trasformandoli in punti di riferimento visivi e rendendo l'atto di guardare un'esperienza artistica in sé. Negli anni Sessanta e Settanta, molti artisti cercarono di sfidare l'establishment dell'arte attraverso opere site-specific, temporanee e non acquistabili, ma queste opere finirono comunque per essere assimilate dal sistema delle gallerie. La galleria divenne un luogo di dibattito sulla percezione e sui valori dell'arte. L'artista poteva trovare un altro pubblico o un contesto dove la sua idea minoritaria non fosse cooptata dal sistema dominante? Questo interrogativo portò a esperimenti radicali come quello di Christo, che nel 1969 impacchettò il Museum of Contemporary Art di Chicago, trasformando il museo stesso in un'opera d'arte e sollevando questioni profonde sulle relazioni tra arte, istituzioni e società. Questi gesti, che riconoscevano nella galleria un vuoto carico di significati, mostrarono come l'arte potesse rivelare i programmi segreti delle istituzioni e provocare riflessioni sul ruolo dell'arte stessa. Le strategie usate dagli artisti per affrontare lo spazio idealizzato delle gallerie variavano, ma tutte puntavano a mettere in discussione le convenzioni e a esplorare nuove possibilità di espressione e fruizione artistica. La galleria, con la sua ambiguità e le sue potenzialità inesplorate, divenne il luogo di lotte di potere, ironia, commedia e commercio, riflettendo e influenzando la società in cui era inserita. 5 STUDIO E GALLERIA: IL RAPPORTO TRA IL LUOGO IN CUI L’ARTE SI CREA E LO SPAZIO IN CUI VIENE ESPOSTA Nel 1964 Lucas Samaras trasferì l'intero contenuto della sua camera da letto-studio dal New Jersey a New York, più precisamente alla Green Gallery. Qui ricostruì la sua stanza esponendola come fosse un’opera d’arte, sovvertendo così il tradizionale rapporto tra lo spazio dell’arte e lo spazio dell’esposizione. Questa operazione non solo fece coincidere lo studio con la galleria, ma mostrò uno stile di vita frugale e disordinato, lontano dal galateo museale. La sala che Samaras mise in mostra era una tipica stanza degli anni '60, simile a quelle che nei musei ricostruiscono la vita di un determinato periodo. Con questo gesto, Samaras immaginava un artista assente: se stesso. La galleria incorniciava lo studio, che a sua volta incorniciava il modo di vivere dell’artista, che incorniciava i suoi attrezzi, creando una complessa rete di cornici che alla fine escludeva l'artista in carne ed ossa. L’atto di trasformare la propria camera-studio in un’opera d’arte consapevole fu un gesto da dandy, offrendo la sua vita privata al pubblico come arte. Questo gesto richiamava l'aforisma di Oscar Wilde secondo cui essere naturali è una posa, mostrando come la consapevolezza renda tutti artificiali, e così fa anche la galleria. Nell'osservare il gesto di Samaras, emerge come la consapevolezza stessa diventi un tema, un’auto-citazione. Il gesto di Samaras simboleggia una delle forze che trasformano la galleria vuota in un’opera d’arte: il collage e la sua estensione agli oggetti ingombranti come il trasferimento dello studio. Lo studio, agente della creazione, si trovava all’interno del white cube, agente della trasformazione. Un altro esempio di fusione tra spazio creativo e spazio espositivo è la performance "Seedbed" di Vito Acconci del 1972, in cui l'artista si nascose sotto una pedana inclinata in una galleria, masturbandosi per tutta la durata della mostra. Anche Acconci portò con sé il suo studio, rappresentato dal suo corpo. Questo spostamento dell’attenzione dall’opera all’artista, il cui atto nuovi media come il video, la fotografia e le installazioni ha messo in discussione la rilevanza del "white cube", trasformando le gallerie in spazi più dinamici e interattivi. Infine, il testo riflette sulla tensione tra la purezza del "white cube" e le nuove forme artistiche che hanno sfidato questa concezione. L'arte contemporanea ha spostato l'attenzione dal prodotto finale al processo creativo, trasformando la galleria da contenitore di oggetti a un luogo in cui l'arte è in continua evoluzione. Questo cambiamento riflette una più ampia trasformazione culturale e sociale, dove i nuovi media ridefiniscono il modo in cui percepiamo e interagiamo con l'arte. In sintesi, il testo esplora come lo studio d'artista e la galleria abbiano evoluto le loro funzioni e significati, passando da luoghi di produzione isolata a spazi di interazione e dinamismo creativo, influenzati dai cambiamenti nei movimenti artistici e nelle tecnologie. La definizione e l'evoluzione dello studio e, conseguentemente, della galleria e del museo d'arte, sono state influenzate da tre fattori fondamentali. Il primo riguarda la mitologia dell'artista, visto come una creatura impegnata nell'opera misteriosa della creazione. L'atto creativo dell'artista diventa un feticcio borghese, attraverso il quale il pubblico riconosce il potere dell'opera d'arte, ma che, allo stesso tempo, ne mina il potenziale sovversivo. L'artista trasferisce poi questa mistica al proprio studio, uno spazio che diventa fertile terreno per la creazione. Le varie rappresentazioni di atelier dimostrano un fenomeno autoreferenziale che si estende anche alla galleria, enfatizzandone un idealismo immacolato. Il secondo fattore è il concetto di "white cube", uno spazio espositivo che sembra incorruttibile, ma che è stato fondamentale per lo sviluppo di molti fenomeni straordinari nell'arte moderna. Dal Cubismo in poi, l'arte esposta in questo spazio ha prodotto cambiamenti radicali nella percezione umana, esplorando sia lo spazio, considerato il medium inconoscibile dei nostri discorsi visivi, sia la natura umana con i suoi abissi insondabili. Prima che i media come cinema, radio, televisione, pubblicità e schermo del computer assumessero il compito di riformare la percezione, il white cube aveva già innescato trasformazioni significative all'interno della galleria, con conseguenze sociali enormi. Il concetto di studio, sviluppato nel contesto del modernismo, ha avuto rapporti diretti e indiretti con la galleria. La conservazione del white cube come una boutique in grande stile è stata necessaria per il commercio e ha permesso ai musei di esporre le loro ricchezze, pur avvicinandosi sempre più allo spettacolo. Questo spettacolo rappresenta un po' il patto faustiano del museo, un modo per garantirsi la sopravvivenza vendendo l'anima a una cultura che si inchina ai numeri. Durante tutta questa evoluzione, lo spazio bianco è rimasto quasi immutato nella nostra cultura, trovando il suo posto accanto all'artista e ai suoi strumenti. La pittura, l'avatar del modernismo, è stata la più fedele al white cube, anche quando le sue innovazioni erano radicali. Tuttavia, il declino della pittura ha intaccato la purezza dello spazio bianco, portando a una mentalità anti-white cube, radicata nelle avanguardie e ulteriormente esacerbata dal postmodernismo. Con l'emergere di nuovi media come video, cinema, fotografia e performance, la pittura è diventata periferica, se non addirittura superata. Infine, la terza fase vede l'emergere dello "studio povero", esemplificato da artisti come Mondrian e Brancusi, che hanno contribuito a creare uno spazio pulito e ben illuminato per l'esposizione dell'arte. L'intrusione di installazioni, video e altri media ha reso il white cube sempre più irrilevante, trasformando la galleria in un sito dove qualcosa si trova, si trovava o si troverà. Il legame tra questi nuovi media artistici e la cultura popolare ha infuso energie incontrollate che non investono più nella preservazione dello spazio bianco classico. Mentre un tempo la galleria trasformava tutto ciò che vi si trovava in arte, oggi i nuovi media hanno capovolto questo processo, trasformando incessantemente la galleria a loro piacimento. POSTFAZIONE L'arte, un tempo al servizio dell'illusione, oggi è essa stessa fatta di illusioni. Negli anni '60 e '70, tentare di rinunciarvi era pericoloso e quasi intollerabile, tanto che ogni tentativo in tal senso è stato denigrato. Le illusioni sono così tornate e le contraddizioni vengono ora tollerate; il mondo dell'arte sembra stabile e tutto appare andare per il meglio. Quando si interferisce o si sovverte un settore economico, il suo sistema di valori va in tilt. Da un secolo, in Europa e in America, il modello economico dell'arte funziona attraverso un processo ben definito: il prodotto artistico viene filtrato dalle gallerie, offerto ai collezionisti e alle istituzioni pubbliche, commentato dalle riviste finanziate dalle stesse gallerie, e infine convogliato verso il mondo accademico che ne certifica il valore, proprio come fanno le banche con i beni custoditi. In definitiva, la storia dell'arte ha un valore economico, e quindi non abbiamo l'arte che meritiamo, ma quella per cui paghiamo. Questo sistema non è mai stato osteggiato, nemmeno dall'artista che ne è il protagonista. Ogni sistema definisce la natura umana secondo i propri obiettivi, cercando di mascherare gli aspetti più sordidi, tentando di convincerci che siamo migliori di quanto non siamo. Le varie versioni del capitalismo riconoscono almeno il nostro egoismo di base, che rappresenta il loro punto di forza. Le commedie dell’ideologia e dell’oggetto si svolgono su un terreno dove proliferano false speranze, menzogne e megalomania, e l’arte, spesso spettatrice innocente, vi è coinvolta. Nessuno è più innocente dell’intellettuale di professione, che non ha mai dovuto scegliere tra due mali e per il quale il compromesso è un disonore pubblico. L’avanguardia, per proteggersi, ha elaborato l’idea della portata mistica e detentrice di valore estetico, sociale e morale della sua produzione. Questa concezione è nata dalla fusione dei residui della filosofia idealista con i programmi sociali degli inizi del modernismo. Nonostante le sue virtù, collocare l’energia morale in un oggetto commerciabile è come vendere indulgenze, e conosciamo bene le riforme che questo ha provocato. Il concetto di avanguardia, oggi lo capiamo, ha molte responsabilità. Il suo rapporto con la borghesia, descritto da Baudelaire nel 1846, è interdipendente e farsesco. Il culto dell’originalità, la determinazione del valore e l’economia della scarsità, della domanda e dell’offerta si applicano con singolare pregnanza alle arti visive, le uniche dove la morte dell’artista provoca un significativo scossone economico. La marginalità sociale dell’artista d’avanguardia e il lento spostamento della sua opera verso i centri della ricchezza e del potere sono perfettamente in linea con il sistema economico dominante. Oggi sappiamo che l’artista ha un controllo limitato sul contenuto della propria arte, determinato piuttosto dalla sua ricezione, che è retroattiva. Negli anni '60 e '70, quando la comunità artistica espresse il proprio dissenso sulla questione Vietnam e Cambogia, si impose una nuova visione: il sistema dell’arte doveva essere rimesso in discussione. Gli artisti americani del dopoguerra, eccetto poche eccezioni, non comprendevano appieno il ruolo della politica nell’accoglienza dell’arte. Invece, molti artisti degli anni '60 e '70, specialmente della generazione minimalista e concettuale, lo coglievano bene. L’analisi che l’arte conduceva su sé stessa divenne un’analisi del suo contesto sociale ed economico. Molti artisti erano irritati dal pubblico di riferimento, sembrava insensibile a tutto tranne che alla questione della connoisseurship, e la loro voce era smorzata dal costoso circuito di gallerie, collezionisti, case d’aste e musei attraverso cui l’arte era inevitabilmente offerta. Questa situazione era potenzialmente rivoluzionaria, ma la quasi-rivoluzione fallì. Il formalismo portò a un’arte fabbricata su ordinazione, mentre i musei promuovevano una sorta di arte da museo, adatta allo sguardo delle masse. Il sistema assicurava un continuo flusso di nuovi prodotti grazie all’“assegnazione di spazi riservati”. Molti artisti venivano identificati con il momento culminante della loro attività e non erano autorizzati a distaccarsene. La scena artistica dei grandi centri divenne una necropoli di stili e artisti, studiata da critici, storici e collezionisti. Questa consapevolezza ha portato, negli anni '80, a una riconferma di tutto ciò che era stato messo in discussione e spazzato via. Prodotto e consumo sono tornati con abbondanza per chi ne sentiva la mancanza. Il soggetto sfrutta sé stesso e riappaiono i paradossi del Pop. Lo spazio espositivo è tornato a essere l’arena incontrastata del discorso. L’arte pericolosa e inafferrabile del periodo 1964-1976, insieme ai suoi insegnamenti, sta sprofondando lontano dal nostro sguardo, come vuole la cultura del nostro tempo.