Scarica Riassunto "Introduzione ai media digitali" (Arvidsson, Delfanti) e più Sintesi del corso in PDF di Sociologia solo su Docsity! INTRODUZIONE AI MEDIA DIGITALI Capitolo 1. Media e tecnologie digitali • L’ambiente digitale Le società contemporanee sono caratterizzate dall’onnipresenza e pervasività crescenti dei media nelle vite quotidiane degli individui. Attraverso la diffusione di massa di svariate tecnologie, le persone vivono immerse in flussi di comunicazione continui. Questo fenomeno è stato definito mediatizzazione, e ad oggi rende la presenza dei media talmente abituale da indurci a sottovalutarne gli effetti. L’ambiente saturo di media in cui viviamo ci spinge a dare per scontata, o addirittura a non percepire, la presenza delle tecnologie digitali, e a viverne la mancanza come stressante, talvolta anche distruttiva. Ma oltre alla sfera comunicativa, i media digitali influenzano quella sociale, economica, lavorativa e politica, in quanto attualmente sono diffusi nelle attività umane più disparate, dall’agricoltura alla burocrazia. Dunque, grazie alla capacità di integrarsi e interagire con la maggior parte delle tecnologie preesistenti, i media digitali hanno assunto un ruolo chiave anche nell’economia delle società contemporanee. Piccola parentesi storica: Internet si affermò tra gli anni Ottanta e Novanta, grazie alla diffusione dei personal computer (PC), a basso prezzo e di facile uso, pensati per un mercato di massa, e all’introduzione del World Wide Web (WWW). Dagli anni Duemila si diffondono il web collaborativo, con la nascita di piattaforme on line che permettono agli utenti di produrre contenuti in prima persona, e le tecnologie mobili, come gli smartphone e i tablet. Ecologia dei media: metafora secondo cui esiste un ecosistema dei media in cui si stanno evolvendo nuove forme di vita, come i motori di ricerca e i social network. Oltre a popolarsi di nuove specie, l’ecologia dei media si arricchisce di nuove strategie di sopravvivenza: ad esempio, i social network forniscono servizi gratuiti in cambio dei dati degli utenti. E’ un mondo dove non vi è un luogo centralizzato di controllo, ma piuttosto un insieme di relazioni e interazioni che nel complesso costituiscono questo ecosistema e lo trasformano. A ciò si ricollega la definizione di ambiente digitale di rete di Benkler, un ambiente caratterizzato dalle maggiori possibilità di cui godono gli individui per assumere un ruolo più attivo all’interno del sistema dei media. Allo stesso tempo però questo ambiente è denso di scontri sul futuro delle relazioni tra gli organismi che lo compongono: ad esempio riguardo temi sensibili quali il copyright, la censura, ecc. I media digitali sono oggetto di ricerca rilevante per le scienze sociali in quanto le tecnologie mediano le relazioni tra individui e sono determinanti nella costruzione delle loro identità. Da una parte l’emergere di una sfera pubblica in rete e la cooperazione che vige on line tra comunità di individui, ad esempio nella produzione di informazioni, sono fenomeni legati a cambiamenti sociali che vanno ben oltre le innovazioni tecnologiche; dall’altra proprio queste ultime sono anche frutto delle trasformazioni, delle sfide e dei bisogni che la società e gli individui si trovano di fronte. Dunque tecnologia e società si compenetrano. La prima è dipinta sia come portatrice di democrazia che come minaccia all’ordine sociale, in quanto i media digitali sono dotati di un potere trasformativo. Ma essi possono anche ostacolare il cambiamento, essendo altamente sorvegliati. Insomma, vi sono diverse ambiguità che interessano l’argomento. • Nuovi e vecchi media I media digitali sono un insieme di mezzi di comunicazione basati su tecnologie digitali aventi caratteristiche comuni che li differenziano dai mezzi di comunicazione che li hanno preceduti. Con il termine nuovi media vengono definiti in modo onnicomprensivo tutte quelle tecnologie basate sui computer e sulle reti che si sono diffuse dagli anni Ottanta (vedi sopra) affiancandosi e poi integrandosi con i mass media tradizionali o “vecchi”, quali televisione, radio e giornali. Tutta via l’idea che i media digitali siano nuovi è per alcuni punti problematica: 1. I cosiddetti nuovi media sono costituiti da tecnologie eterogenee e molto diverse tra loro, per cui racchiuderli tutti in una definizione può risultare fuorviante. 2. I media basati sui computer sono ormai diffusi da decenni e sono ormai quelli predominanti nel settore; inoltre interagiscono con tutti i media precedenti. Per questi motivi è impreciso definirli semplicemente nuovi. 3. Tutti i media sono nuovi quando vengono introdotti. Ma studiare i nuovi media non significa solo studiare i nuovi media di oggi, ma il momento in cui una tecnologia emerge e si afferma in un preciso contesto storico. Anche la stampa a suo tempo è stata un nuovo media. 4. Il termine “nuovo” implica una visione lineare dell’evoluzione dei media, che porta le persone a trascurare il contesto in cui sono emersi e a considerarli migliori di quelli “vecchi”. Al contrario, altri ritengono che i vecchi media siano migliori di quelli più recenti. 5. I nuovi media conservano similitudini con quelli precedenti; dunque non sostituiscono quelli “vecchi”, ma piuttosto li integrano o li modificano (es: la comparsa della televisione non ha comportato la scomparsa dei giornali). E’ il processo di rimediazione, che comporta una relazione di competizione ma anche di coevoluzione, omaggio e cooperazione tra media diversi, che evolvono da modelli precedenti, in un processo continuo e non lineare. Ciclo tecnologico di un media emergente: • Crisi di identità: incertezza sul suo ruolo sociale; il suo significato resta aperto e contestato. Ma dopo la sua introduzione, il significato e le funzioni di una nuova tecnologia sono lentamente plasmati dalle abitudini di uso dei media preesistenti e dai desideri dei nuovi utenti. La fase di crisi si risolve quando una nuova tecnologia sorpassa la fase di novità iniziale e diviene un prodotto di consumo di massa. • Domesticazione: la nuova tecnologia viene accettata all’interno della società. Concludendo, se tutti i vecchi media sono stati nuovi a un certo punto della loro evoluzione, è anche vero che prima o poi tutti i nuovi media sono destinati a diventare vecchi e ad essere superati da tecnologie più recenti, che però ne mantengono qualche traccia. In altri casi un media può sopravvivere in una nicchia di mercato o tornare almeno parzialmente in auge, come il disco in vinile. Infine, media abbandonati possono essere riportati in vita (i cosiddetti zombie media) e assumere nuovi significati o scopi, ridiventando nuovi. Si parla in questo caso di archeologia dei media, e ne è un esempio il Gameboy, oggi utilizzato per produrre musica techno. • I media digitali La definizione media digitali è dunque più accurata rispetto a nuovi media, non si presta ad ambiguità e indica una delle caratteristiche principali di queste tecnologie, che processano e diffondono informazione digitale elaborata e trasformata in linguaggio umano. Lo studio dei media digitali, oltre agli strumenti tecnologici quali PC, smartphones, fotocamere, lettori mp3 ecc, include anche le piattaforme software, i protocolli di rete, le nuove forme di socialità in rete e le trasformazioni dell’economia e della comunicazione. I media digitali possiedono alcune caratteristiche principali che li differenziano dai media tradizionali e che sono cruciali per comprendere il loro legame con le dinamiche sociali, economiche e politiche con le quali interagiscono. Essi sono: • Tecnologie e società Le scienze sociali si occupano da tempo delle tecnologie. Le principali teorie sul rapporto fra tecnologia e società si sono sviluppate a partire dalle tecnologie predominanti nel Novecento. Con l’emergere delle tecnologie digitali, nuove sfide spingono a rinnovare questi approcci. Alcune prospettive vedono la tecnologia come un fattore esogeno, cioè una forza esterna il cui sviluppo è indipendente dai fenomeni sociali. Secondo questo punto di vista, occorre concentrarsi su quale funzione specifica essa assolva per lo sviluppo di una società. Seguendo questa logica, ad esempio i computer sono funzionali agli scopi di chi li utilizza, come le istituzioni; non si prende in considerazione l’idea che le tecnologie siano usate per scopi diversi a seconda di chi ne faccia uso. Il determinismo tecnologico segue questo approccio, sostenendo che le tecnologie sono fattori indipendenti in grado di determinare lo sviluppo delle società umane. Le caratteristiche dei media digitali quindi determinano il modo in cui gli individui interagiscono tra loro, dando vita a forme particolari di organizzazione sociale, o sono responsabili di cambiamenti nella struttura economica o politica di una società. Anche nella teoria sociale, versioni più o meno estreme del determinismo hanno sempre rivestito un ruolo importante. Per Karl Marx, ad esempio, le tecnologie hanno il potere di strutturare i rapporti di produzione (banalizzando, potremmo dire che la macchina a vapore è stata uno dei fattori che hanno contribuito all’affermarsi di una società di tipo capitalistico- industriale). Negli anni Sessanta McLuhan scriveva che “il medium è IL messaggio”, per sottolineare l’impatto sulla società della tecnologia mediatica (a ciò si potrebbe ricollegare il discorso “tutto ciò che non viene riportato dai media non esiste”). La prospettiva determinista appena analizzata resta uno dei principali modi per interpretare la dimensione sociale ed economica dei media digitali. E’ evidente che le tecnologie hanno un ruolo fondamentale, che questo approccio gli riconosce, nella società; tuttavia questa visione è ritenuta troppo monodimensionale, dato che nega la complessità del rapporto fra tecnologie e società. Una prospettiva opposta a quella appena vista è quella della costruzione sociale delle tecnologie, in base alla quale la struttura e il successo di una tecnologia dipendono dalla forza, dai bisogni e dai valori del gruppo sociale che la promuove. La metafora della costruzione indica che l’evoluzione delle tecnologie è qualcosa a cui le persone partecipano attivamente. Questo approccio sottolinea come le tecnologie NON siano naturali o esogene, ma dipendano dai processi sociali dai quali hanno origine e in cui sono immerse le persone che le sviluppano. L’architettura di Internet dunque non è naturale, ma dovuta alle scelte degli scienziati che l’hanno progettata; attori diversi avrebbero costruito una rete diversa. Questo approccio riconosce pienamente il ruolo attivo degli utilizzatori delle tecnologie. Chi utilizza i media digitali può farne usi non previsti o diversi da quelli immaginati da chi li ha progettati. Detto ciò, occorre aggiungere che la tecnologia NON è neutrale, proprio perché incarna i valori e i bisogni di una parte della società; anzi, si sostiene che abbia addirittura una “politica”: il modo in cui sono progettate, oppure la decisione di adottarle o meno possono avere il fine di ribadire una forma di potere o di autorità. Infine, altre teorie sociali parlano della coproduzione di tecnologia e società: non è l’una a plasmare e determinare l’altra, ma piuttosto si influenzano a vicenda, in un processo di coevoluzione in cui i cambiamenti dell’una producono le altre, e viceversa. La sociologia utilizza il termine affordance per descrivere le possibilità offerte e i limiti imposti da uno strumento tecnologico a chi lo utilizza. Le tecnologie possono offrire soluzioni e rendere possibili nuove forme di azione, ma allo stesso tempo ciò è possibile solo all’interno dei confini della tecnologia stessa. Twitter, per esempio, è una piattaforma che permette agli utenti di produrre informazioni, e perciò viene definita una tecnologia abilitante. Però allo stesso tempo consente loro di scrivere messaggi che non superino i 140 caratteri, costringendo di fatto gli utenti all’interno di uno schema prestabilito. Facendo riferimento anche a questo, con il termine algocrazia viene definito un ambiente digitale in cui sempre più potere viene esercitato dagli algoritmi, i quali rendono possibili alcune forme di interazione e ne vietano altre. Talvolta gli utenti si prendono una “rivincita”, come nel caso del jailbreaking, ovvero la rimozione delle limitazioni presenti nel sistema operativo iOS di Apple, con conseguente possibilità di installare applicazioni e programmi non previsti dalla Apple stessa. Capitolo 2. La società dell’informazione • Informazione e società L’espressione società dell’informazione indica una forma di società caratterizzata dall'importanza della produzione e gestione di informazione, sapere e conoscenza, dove le tecnologie informatiche sono pervasive e influenzano i processi produttivi, sociali, identitari e politici. La capacità di produrre, manipolare e distribuire informazione diventa il fattore principale di ricchezza e potere. La affermazione di questo tipo di società è legata anche ai profondi cambiamenti economici e politici avvenuti negli ultimi decenni del Novecento, come la fine del bipolarismo USA-URSS e l’affermarsi di nuovi fenomeni di globalizzazione. Si comincia così a parlare di “società postindustriale” o “postmoderna”; nasce un nuovo paradigma fondato sull’informazione e sulla conoscenza, che diventano fattori produttivi chiave della produzione, dell’economia e dell’organizzazione delle società contemporanee. Le tecnologie per produrre, gestire e distribuire l’informazione sono caratterizzate da grande diffusione e costi sempre più bassi, perciò vasti strati della popolazione possono accedervi. Il concetto di società dell’informazione comincia a diffondersi negli anni Novanta insieme alla diffusione di Internet. Alle visioni di trasformazione economica si aggiungono speranze utopiche, quali una visione della rete come di un mezzo che porterà a un accesso diffuso del sapere e a una democratizzazione radicale della politica, fino al punto di iniziare a parlare della società dell’informazione come di una terza rivoluzione industriale. Il sistema economico che emerge da questa trasformazione si caratterizza per essere, nella definizione di Castells: 1. Informazionale 2. Globale 3. A rete. • Economia in rete e globalizzazione 1. In un’economia informazionale, cioè basata sull’informazione, la produttività, la competitività e la redditività dipendono dalla capacità di generare e gestire informazione e conoscenza. La ricerca e lo sviluppo, e quindi l’innovazione, diventano cruciali per l’impresa. L’informazione è un bene intangibile diverso dai beni materiali, e necessita di essere regolato da forme di proprietà apposite: nella società dell’informazione i diritti di proprietà intellettuale acquistano un’importanza inedita. Per un’azienda che produce beni a elevato contenuto di informazione, possedere brevetti o diritti d’autore diventa cruciale. Le risorse principali dell’impresa smettono di essere le fabbriche e i macchinari, per diventare quelle legate all’informazione: brand, brevetti, design, marketing, ecc. La produzione dei beni materiali è appaltata a produttori esterni, spesso in Asia, mentre le imprese madri possiedono la proprietà intellettuale (i brevetti sui prodotti e i diritti sul marchio) e gestiscono la ricerca tecnologica, il marketing, eccetera. Il capitale investito in beni informazionali rende di più di quello investito nella produzione materiale. L’informazione e la conoscenza diventano sia materia prima, sia prodotto finale dei processi produttivi. Quadro 2.1: I diritti di proprietà intellettuale la proprietà intellettuale è un apparato di principi giuridici che permettono a creatori e inventori di esercitare diritti di proprietà sui frutti dell’inventiva e dell’ingegno. Questi diritti concedono un monopolio sullo sfruttamento di un bene immateriale e permettono di escludere soggetti terzi dal suo uso. Si dividono in tre tipologie principali: • Il diritto d’autore (o copyright) tutela la proprietà delle opere artistiche, letterarie e scientifiche. • Il brevetto tutela le invenzioni industriali, ovvero invenzioni che siano riproducibili e applicabili in attività industriali. • Il marchio, che contraddistingue un prodotto o un’azienda rendendoli riconoscibili da parte del consumatore. La proprietà intellettuale è una concessione temporanea; dopo un dato periodo di tempo, le opere o le invenzioni diventano di dominio pubblico, in modo che tutta la società possa trarne beneficio. L’informazione è un bene non rivale (non è esclusivo; come io apprendo una determinata informazione, ad esempio da un articolo di giornale, così può farlo chiunque nello stesso momento) che ha un costo marginale (corrisponde al costo di un’unità aggiuntiva prodotta) pari a zero. I diritti di proprietà intellettuale instaurano invece costi marginali artificiali da pagare per produrre una copia di un bene immateriale. 2. Nell’economia globale, o meglio globalizzata, le grandi istituzioni economiche hanno la capacità organizzativa e tecnologica di operare su scala globale. I processi di globalizzazione sono in atto da secoli, tuttavia con la società dell’informazione la globalizzazione diventa uno dei fenomeni economici principali e si basa anche sulla nascita di nuovi soggetti: si affermano le imprese multinazionali, in cui produzione, consumo e circolazione delle merci vengono organizzati su scala globale. In questo modo nasce una cultura di consumo globale in cui merci, stili di vita e forme di consumo si diffondono in tutto il mondo e vengono adattati in contesti locali diversi. Infine, si affermano i mercati finanziari globali, che vengono gestiti tramite media digitali e tecnologie di rete, e aumenta l’importanza di entità e trattati sovranazionali che comprendono insiemi di nazioni o intere regioni del globo. 3. L’economia a rete infine è caratterizzata da forme di produzione più flessibili, in cui vige un paradigma di organizzazione dei processi produttivi basato su decentramento e autonomia delle unità produttive (formando così le reti di imprese), al contrario delle rigide gerarchie del lavoro di fabbrica tipiche della società industriale. Le reti tuttavia non nascono con questi cambiamenti, ma sono una forma arcaica di organizzazione sociale: le reti di parentela costituiscono ad esempio una forma arcaica di organizzazione sociale. Con l’emergere della società dell’informazione, questo sistema a rete è tornato ad essere competitivo; le tecnologie dell’informazione permettono infatti di organizzare in modo estremamente efficiente attori che non rispondono a nessuna gerarchia ma hanno parziale autonomia di decisione. Le reti tornano così ad essere un’alternativa alle organizzazioni burocratiche. Sempre negli anni Novanta si fa strada l’idea di intelligenza collettiva, che per Lèvy è una mobilitazione delle intelligenze distribuite, coordinate e valorizzate grazie alle tecnologie dell’informazione. Da una particolare tradizione di teorici sociali marxisti emerge invece il concetto di capitalismo cognitivo, cioè una forma di organizzazione della produzione che, grazie ai media digitali e in particolare alle loro caratteristiche sociali, si basa sullo sfruttamento delle capacità cognitive degli individui. L’intelligenza collettiva è dunque da un lato sfruttata dal capitalismo, dall’altro costituisce le possibili basi di una nuova alternativa. • Storia delle tecnologie informatiche N.B.: da studiare con a fianco il quadro 2.2 (posto in fondo al paragrafo). Le tecnologie informatiche hanno una storia legata a quella dei grandi mutamenti sociali e politici degli ultimi secoli. La prima definizione di computer come macchina che conosciamo oggi viene dal matematico Turing e risale agli anni Trenta: egli parla di una macchina “capace di imitare tutte le altre macchine”, ovvero programmabile. Un computer contemporaneo è un insieme di macchine, che prima vivevano vite distinte: è una macchina da scrivere, un lettore Dvd, un telefono, una fotocamera, ecc. Tecnicamente questo processo che porta diversi tipi di contenuti a convergere in un unico dispositivo viene definito, per l’appunto, convergenza. Seguendo questa definizione il primo computer potrebbe essere considerato il telaio inventato da Jacquard nel 1801. Questo telaio utilizzava un rotolo di carta perforata che conteneva un programma di istruzioni per l’esecuzione di un particolare modello. Cambiando il rotolo di carta e quindi il programma, si cambiava il modello. Sulla base di questa invenzione di Jacquard, il matematico inglese Babbage sviluppò due progetti per computer meccanici: la macchina delle differenze e la macchina analitica, entrambe macchine per l’automazione del calcolo ed entrambe destinate a calcolare gli orari per le ferrovie inglesi. Babbage si proponeva di risolvere due problemi: l’alto costo per macchine simili e la bassa qualità dei calcoli svolti a mano da esseri umani. Nessuna di queste due macchine fu mai realizzata, ma si ritiene che la collaboratrice di Babbage, la signora Lovelace, sia l’autrice del primo programma informatico della storia. E’ evidente come questi primi progetti fossero orientati ad aumentare l’efficienza della produzione industriale e del controllo e della gestione di organizzazioni complesse, e ciò dipendeva dai processi di industrializzazione del periodo e dell’espansione che comportarono. L’idea che un nuovo atteggiamento scientifico possa essere applicato anche alle vicende umane e che i fatti sociali seguano regole ben precise era stata sviluppata a partire dal Seicento e rafforzata durante l’Illuminismo. Da questa nuova mentalità scientifica ha origine l’idea che la società possa essere misurata e che gli avvenimenti sociali ed economici possano essere calcolati e programmati. Questo modo di pensare fu enormemente rinforzato dallo sviluppo della statistica. Chiamata in origine “aritmetica politica”, la statistica rispondeva all’esigenza di misurare e controllare gli avvenimenti sociali da parte degli stati. Ciò si manifestava in due trasformazioni principali: • La creazione di eserciti di leva rendeva indispensabile sapere quanti soldati potevano essere forniti da un particolare paese o regione e quindi avere informazioni attendibili sul tasso delle nascite, della mortalità o delle malattie; • La nuova economia di mercato che si stava espandendo nel Settecento rendeva necessarie misurazioni economiche più precise, dato che la ricchezza di una nazione cominciava sempre di più a dipendere dalla sua capacità di facilitare e promuovere commercio e produzione manifatturiera. Lo sviluppo della statistica tendeva a sua volta a rafforzare l’idea che l’ordine sociale fosse calcolabile, dato che forniva dati sulla base dei quali si potevano riscontrare regolarità che sembravano leggi quasi naturali. Nei secoli successivi la statistica generò una forte pressione per lo sviluppo di nuovi metodi di calcolo e di nuove macchine calcolatrici. Quella più diffusa fu la macchina di Hollerith, che processava dati in forma di schede perforate, un formato derivato da quello di Jacquard, basato su schede di cartone in cui l’informazione era registrata tramite la presenza o l’assenza di fori in posizioni specifiche. Hollerith fondò una sua compagnia (oggi si chiama Ibm ed è una delle maggiori al modo nel settore informatico) che diffuse i computer a schede perforate nella maggior parte delle amministrazioni statali e delle grandi società commerciali. Anche il processo di industrializzazione che si affermava nell’Ottocento creò la domanda per nuovi modi di automatizzare la produzione; così avvenne, e macchine programmabili come il telaio di Jacquard potevano aumentare la produttività semplificando il lavoro. Gli operai qualificati infatti tendevano ad essere anche politicamente attivi, mentre l’automazione permetteva di sostituirli con immigrati appena arrivati dalle campagne, con poca esperienza politica e disposti a lavorare con un salario più basso. Questo processo fu alla base dello sviluppo della catena di montaggio negli stabilimenti della Ford, e in seguito dell’organizzazione generale del lavoro. Intanto le nuove grandi società e imprese americane stavano espandendo il loro ruolo, prima limitato alla produzione di beni: nascono così nuove discipline quali il marketing, il management, eccetera, e quindi cresce la domanda di macchine calcolatrici fornite dall’azienda leader del mercato: Ibm. La Seconda guerra mondiale diede impulso ulteriore allo sviluppo dei calcolatori e diede forma ai computer come li conosciamo oggi. Lo sforzo bellico richiese l’applicazione dei computer per diversi scopi (calcoli complessi per scopi balistici, di controspionaggio, trasmissioni di unità calcolabili di informazione, ecc). Per lo sviluppo della bomba atomica (Progetto Manhattan) si dovettero fare calcoli molto complessi; infine le telecomunicazioni assunsero un’importanza strategica. Turing realizzò Colossus, un computer utilizzato per decifrare messaggi tedeschi in codice. Anche le donne ebbero un ruolo da protagoniste nella programmazione. Alcuni anni dopo la guerra i computer cominciarono a diffondersi al di fuori dell’ambiente militare. Ma il loro costo proibitivo, insieme alla grandezza e la complessità che li caratterizzavano, fecero sì che rimanessero degli “aggeggi misteriosi”. Il primo super computer elettronico realizzato da Ibm fu venduto in nove esemplari. All’epoca infatti un computer costava decine di milioni di dollari, riempiva una stanza intera, necessitava di quantità enormi di energia ed era incomprensibile da utilizzare per chi non fosse laureato in matematica. Le innovazioni tecnologiche del dopoguerra cambiarono questo scenario. Sia Ibm che Olivetti (realizzatore nel ’65 del primo personal computer della storia, la cosiddetta “Perottina”) lanciarono una serie di prodotti destinati alle medie e grandi imprese e all’amministrazione statale. Nel 1971 Intel inventò il microprocessore, ovvero un computer collocato su un chip tascabile (e non più in una intera stanza). Questa innovazione rivoluzionò il mercato dei computer, riducendone drasticamente il prezzo e le dimensioni e migliorandone le prestazioni. I computer stessi si diffusero così nelle organizzazioni e nelle imprese ed ebbero un impatto crescente sull’organizzazione dell’economia. Alla fine degli anni Settanta si poteva parlare dell’emergere di una nuova società dell’informazione basata sui computer, esaudendo la cosiddetta legge di Moore, una “profezia” a riguardo formulata da uno dei fondatori di Intel sullo sviluppo costante della potenza dei microprocessori che ne avrebbe comportato una rapida diffusione. Questo portò, già a partire dagli anni Sessanta, alla formazione negli Stati Uniti di una cultura di giovani studenti dei neonati dipartimenti di informatica vicina alle controculture che poi sfociarono nel Sessantotto e che dà vita alle prime comunità di hacker. Ispirate da un ideale democratico, queste persone vedevano il rigore gerarchico che circondava i computer come una sfida da contrastare. Al contrario, essi propugnavano un approccio attivo alla tecnologia, utilizzando i computer per scopi imprevisti; ad esempio, furono gli artefici dei primi videogiochi. Con le controculture nacquero anche iniziative concrete per diffondere le nuove tecnologie, rendendole di pubblico accesso. Hanno origine da ciò i primi personal computer destinati a un uso familiare. Intanto, in quella che sarebbe poi diventata la Silicon Valley, hacker e appassionati di informatica si scambiavano idee e innovazioni, in una sorta di club di cui facevano parte anche i due futuri fondatori di Apple, Steve Jobs e Steve Wozniak. Da qui nacquero sistemi operativi a interfaccia grafica come Mac e Microsoft che aumentarono il potenziale dei computer per famiglie. La trasformazione di questi da tecnologia burocratico-militare a elettrodomestico e centro di intrattenimento per le famiglie fu quindi frutto dell’appropriazione e riconfigurazione delle nuove tecnologie da parte di attori come gli hacker, gli attivisti dei movimenti post Sessantotto, gli imprenditori della Silicon Valley e l’industria dei videogiochi. Anche Internet, come vedremo nel prossimo paragrafo, ha una storia simile. Quadro 2.2: Cronologia della storia dei computer 1801: Francia, telaio automatico di Jacquard. 1822: Gran Bretagna, macchina delle differenze e macchina analitica di Babbage. 1843: Gran Bretagna, Lovelace definisce la macchina analitica di Babbage come “programmabile”. 1899: Stati Uniti, macchina tabulatrice di Hollerith, che fonda l’attuale Ibm. 1931: Gran Bretagna, Turing fornisce la definizione di computer. Secondo il test di Turing, una macchina è da considerarsi intelligente se un essere umano che vi interagisce non si rende conto che si tratta di un’intelligenza artificiale. Nel 1944 egli svilupperà Colossus. 1959: Stati Uniti. Ibm realizza il primo super computer elettronico. 1965: Italia. Olivetti lancia la Perottina, primo pc della storia. 1969: Stati Uniti. Prima connessione di Arpanet, l’antenata di Internet. 1971: Stati Uniti. Intel commercializza il microprocessore. 1977: Stati Uniti. Viene lanciato Apple II, il primo pc destinato a un mercato di massa. 1982: Mondo. Vengono venduti 17 milioni di un nuovo modello di computer. 1983: Stati Uniti. Motorola commercializza il primo telefono portatile. 1985: Stati Uniti. Microsoft rilascia la prima versione di Windows. 1991: Svizzera. Il Cern di Ginevra lancia il World Wide Web. 2001: Stati Uniti. Nasce Wikipedia. • L’evoluzione delle reti Internet è la più grande rete telematica mondiale che connette attualmente alcune centinaia di milioni di elaboratori. Si avvale di strutture fisiche e collegamenti di vario tipo (fibre ottiche, collegamenti satellitari, WiFi) con cui mette in contatto dispostivi di varia natura, i cosiddetti host. Uno dei punti chiave che ha determinato la sua affermazione è stata la capacità di creare uno standard de facto tra i protocolli di comunicazione delle diverse reti, consentendo ai più svariati agenti di comunicare tramite un protocollo comune, TCP/IP, relativamente indipendente da specifiche hardware, da sistemi operativi e dai formati dei linguaggi degli apparati di comunicazione (modem, router, hub). anche per la costruzione dell’identità individuale e la formazione di gruppi sociali. Essi hanno avuto una velocità di penetrazione senza precedenti, e sono caratterizzati dal rapido succedersi di nuove piattaforme di comunicazione. Questa differenziazione rende necessario valutare in profondità le diverse tecnologie digitali e il loro legame con le relazioni sociali. Due visioni contrapposte sembrano dominare questo dibattito: da un lato, si afferma che i media digitali rappresentino un mondo sociale estraneo alla vita reale, quotidiana; dall’altro, che abbiano effetti dirompenti sulle forme di socialità. Tuttavia i media digitali odierni sono caratterizzati da una forte integrazione tra la vita online e quella offline, in quanto gli individui tendono a postare in rete contenuti legati alle attività, alle emozioni o agli avvenimenti che appartengono alla loro vita quotidiana. Le tecnologie mobili come smartphone e tablet permettono di utilizzare applicazioni come Twitter o Snapchat in qualsiasi momento della nostra giornata. In questo modo si favorisce uno stile di vita always on, continuamente online, di cui le relazioni sociali sono il fulcro. Le attività online diventano parte della vita sociale quotidiana e i profili sui media sociali sono una parte dell’identità complessiva delle persone. Questi media tendono anche ad affievolire la distinzione tra pubblico e privato, dato che i dettagli delle vite private degli utenti sono spesso condivise in pubblico e contribuiscono a costruire una propria identità in rete. I media digitali, concludendo, non sono sempre responsabili di nuove forme di socialità, ma possono diventare strumenti per riprodurre fenomeni sociali esistenti. Quadro 3.1: Metodi digitali per la ricerca sociale il progressivo aumento dell’importanza delle reti ha avuto conseguenze rilevanti anche per la ricerca sociale, che ha sviluppato un insieme di nuovi metodi di studio, i metodi digitali. Le piattaforme di social media, i siti di e-commerce, le carte di credito e i motori di ricerca raccolgono masse immense di dati sul comportamento degli utenti, i cosiddetti big data. Questi rappresentano un patrimonio inestimabile per sociologi e altri scienziati sociali, dando accesso a masse di dati su intere popolazioni e rendendo così possibile studiare fenomeni che prima erano inosservabili. Un altro metodo utilizzato è la network analysis, uno studio delle reti. L’analisi semantica permette di studiare i discorsi che si sviluppano in rete. La sentiment analysis analizza il contenuto di milioni di tweet e commenti per capire se su Twitter o su altri media un brand, un prodotto o un politico sono associati a termini positivi o negativi. Un approccio differente è quello dell’etnografia digitale, usata per comprendere in profondità i modi di ragionare e comunicare, cioè le culture che caratterizzano alcune forme di vita online. Questo metodo è basato sull’osservazione di forum, media sociali e siti web. N.B.: è uno studio delle forme di interazione che si sviluppano online, non di chi vi partecipa. Attualmente, gran parte del patrimonio costituito dai big data è di proprietà privata; appartiene a multinazionali come Google e Facebook, che li rendono inaccessibili, oppure li vendono a caro prezzo. In più non sappiamo come vengano utilizzati dai colossi del web. • I media sociali Tra i servizi che dominano il panorama dei media digitali vi è una serie di piattaforme chiamate social network o media sociali. I media sociali sono siti web basati sulla costruzione e sul mantenimento di legami sociali che sono esplosi a partire dagli anni 2000. Oggi un numero enorme di persone li utilizzano. Esistono però diverse piattaforme, utilizzate per gli scopi più vari e con diverse modalità: LinkedIn (mette in contatto reti professionali), Twitter, Badoo (sito di dating), Instagram. Secondo una delle definizioni più diffuse, i media sociali sono servizi web che permettono di: • Creare un profilo pubblico o semipubblico secondo le possibilità offerte dalla piattaforma stessa. • Costruire una rete di contatti (amici, follower) di cui si possono vedere i contenuti e le informazioni dei profili. • Creare o aderire a comunità tematiche, gruppi di discussione o reti anche estranei alla propria cerchia di contatti. In base a questa definizione il primo social network è stato Six Degrees, lanciato negli Stati Uniti nel 1997, anche se ebbe maggiore successo Friendster, risalente al 2003. Nello stesso tempo veniva lanciato MySpace, mentre nel 2004 nasceva Facebook, che esplose a livello di massa nel 2006. Se alcuni media sociali sono generalisti, nel senso che sono basati sulla condivisione di contenuti molteplici, altri sono dedicati a temi specifici, come le fotografie su Instagram, gli articoli e i documenti di testo su Academia.edu, eccetera. Inoltre molti di questi forniscono servizi aggiuntivi quali chat, email, telefonia, ecc. Dunque un utente di Facebook può utilizzare il social sia per comunicare privatamente che per informarsi tramite link a contenuti giornalistici, entrando di fatto in competizione con i motori di ricerca. Molte di queste piattaforme sono state sviluppate per facilitare l’organizzazione di relazioni sociali intorno ad interessi comuni. I diversi social network si rivolgono a pubblici diversi, anche se in parte possono essere sovrapposti, e forniscono un insieme di servizi che sono usati per altri scopi e da altri gruppi, per esempio a fini di marketing da parte di aziende, partiti politici o associazioni. Non sono sempre globali, ma spesso si articolano su base territoriale e linguistica. Anche se le piattaforme più grandi, come Facebook e Twitter, sono utilizzate ovunque, servizi simili ma forniti da attori diversi possono essere più diffusi in alcune aree geografiche, come i social media asiatici o russi. Oggi i media sociali sono in grande maggioranza gestiti e sviluppati da aziende private. Queste aziende hanno sviluppato modelli economici che permettono loro di assicurarsi guadagni a partire dalle informazioni che gestiscono. La maggior parte dei social network è gratuita, proprio perché le aziende proprietarie guadagnano sulle informazioni generate dagli utenti del loro sito. Questi dati vengono aggregati da software di profilazione, che raggruppano e creano target di users in base ai loro interessi, ai siti che visitano, alle loro amicizie, ecc. Tutte queste informazioni possono essere vendute a terzi, oppure possono essere utilizzate dal sito stesso per realizzare pubblicità personalizzata. Non tutti i social media sono a scopo di profitto (es: Diaspora, privo di una struttura centralizzata e che permette di effettuare comunicazioni criptate), e non tutti sono completamente gratuiti. Lo studio dei social network permette di comprendere come questi assumano un loro ruolo nello strutturare nuove forme di relazioni sociali e contribuiscano alla costruzione delle identità personali e di gruppo che avvengono in rete. Sono l’effetto dell’affermazione di nuove forme di relazione sociale e hanno il potere di strutturare il tipo di azioni che gli utenti possono mettere in atto. • Media e identità I media digitali, e in particolare le piattaforme dei media sociali, sono importanti strumenti in cui gli individui mettono in atto strategie attive di costruzione della propria identità. I rituali di presentazione del sé, studiati da Goffman, attraverso i quali le persone si rappresentano in pubblico e costruiscono nelle pratiche la propria identità, devono essere ricalibrati per adattarsi ai media digitali e alle possibilità offerte dalle piattaforme sociali. I media digitali permettono alla metafora del teatro teorizzata da Goffman di esprimersi fino in fondo, in quanto offrono agli individui un controllo elevato sulla loro continua costruzione identitaria. Secondo questa metafora, essi sarebbero dei palcoscenici contemporanei in cui gli individui si rappresentano, dopo essersi costruirti dietro le quinte. Le persone procedono a definire la percezione che gli altri avranno di loro. I media sociali più che definire completamente l’identità di una persona, la incorniciano. Molti dei comportamenti di costruzione dell’identità in rete sono identici a quelli reali, come ad esempio il conformismo. Talvolta questi media forniscono lo spazio in cui esprimere in forma anonima lati della propria identità ritenuti socialmente inaccettabili o censurati. Un esempio consiste nel fenomeno chiamato thinspiration, ovvero la diffusione di immagini e messaggi favorevoli ai disordini alimentari, in particolare l’anoressia. Un altro esempio dell’importanza dei media sociali per l’identità delle persone è evidenziata anche da fenomeni come l’aldilà digitale: alla morte di un individuo, è divenuto comune utilizzare il suo profilo personale per annunciarne il decesso e raccogliere messaggi e ricordi di amici e parenti. Questo processo può creare una sorta di “immortalità” in cui l’identità digitale della persona deceduta sopravvive alla sua morte. Infine, le relazioni online si intersecano continuamente con quelle offline. Tuttavia alcune piattaforme vengono utilizzate per creare i cosiddetti legami latenti, come per esempio alcuni amici su Facebook, che anche se non si conoscono di persona fanno parte delle stesse cerchie e creano un legame tramite il social network. Fattori come la diffusione della connettività grazie a smartphone e tablet negli anni 2000 hanno fatto parlare persino di un nuovo soggetto generazionale. Con la definizione nativi digitali sono stati descritti i giovani nati a stretto contatto con i computer, Internet, cellulari, eccetera, abituati sin dalla nascita a interagire, giocare, imparare per mezzo della rete; non hanno mai conosciuto il mondo senza queste tecnologie. I migranti digitali invece sono coloro che sono nati prima dell’avvento di Internet e che si sono formati grazie ai giornali e alla televisione. Ma a un certo punto della loro vita adulta, essi sono dovuti “migrare” nel mondo delle tecnologie digitali e imparare un nuovo linguaggio e nuovi comportamenti. Tuttavia questi concetti così rigidi sono stati accantonati, in quanto un individuo utilizza Internet in un determinato modo a seconda del contesto e classe sociale, del livello di istruzione e culturale, del genere più che dell’età e della generazione di appartenenza. • Pubblici o comunità? La teoria sociologica classica distingue due forme di relazioni sociali. Da un lato ci sono le relazioni comunitarie, caratterizzate da alti livelli di fiducia e di conoscenza reciproca. Queste relazioni si articolano nella forma della comunità, in cui il gruppo viene prima dell’individuo e le norme che regolano la vita sociale sono molto forti e a volte oppressive. Dall’altro lato, le relazioni sociali, tipiche della modernità; sono caratterizzate dall’importanza di associazioni dotate di regole formali ed esplicite, come le organizzazioni burocratiche, i partiti politici, i sindacati o le associazioni professionali. I diritti e i doveri sono regolati da leggi e regole e l’equilibrio tra autonomia individuale e norme sociali è più bilanciato. Il senso di identificazione con la collettività è meno intenso, le forme di interazione meno opprimenti; i livelli di solitudine sono però potenzialmente più alti. Nella società si è più liberi ma anche più soli che nella comunità. La diffusione dei media sociali è stata interpretata come l’emergere di una terza forma di relazioni sociali, che è stata chiamata individualismo in rete. Questo è il risultato della coordinazione di una grande quantità di opportunità e scelte individuali abilitate dai media digitali. L’individuo tende ad appartenere a una moltitudine di reti sociali diverse, spesso disconnesse tra loro; questo concetto trae spunto dalla teoria di Simmel sulle relazioni sociali nelle grandi città. Egli evidenziò come l’esperienza individuale tipica della modernità sia caratterizzata dalla contemporanea appartenenza a diverse cerchie. In ogni rete l’individuo può mostrare o sviluppare un aspetto particolare della sua identità. La costruzione della propria identità si basa dunque sull’appartenenza a gruppi caratterizzati da norme e codici distinti. Non ci sono appartenenze egemoni o caratterizzanti, dato che le persone hanno la possibilità di agire attraverso le proprie scelte per definire la loro identità complessiva. Un approccio attivo nei confronti della costruzione delle proprie reti di appartenenza è stato enormemente facilitato dalla diffusione dei media digitali e in particolare dei social media. Internet rende molto più facile identificare e contattare persone con cui si condividono passioni, interessi e valori e organizzare con loro una rete di interazioni; si parla così di collettivismo in rete, in cui gruppi di persone tenute insieme da legami deboli riescono a costruire e a mantenere reti Fra le trasformazioni tecnologiche, economiche e organizzative della società dell’informazione un posto di rilievo è occupato dai fenomeni di partecipazione attiva e collaborazione alla produzione di contenuti e informazione che coinvolgono gli utenti della rete. Gran parte dei servizi presenti online sono infatti interattivi e permettono la partecipazione del pubblico o addirittura si basano su forme di produzione affidate completamente agli utenti. Il web stesso è caratterizzato da software e piattaforme semplici da utilizzare e facilmente accessibili a tutti (social media, blog, Wikipedia, ecc), che hanno contribuito a creare una cultura della partecipazione basata sulla collaborazione online, ovvero sulla creazione di contenuti da parte degli utenti; l’utente ha dunque un ruolo centrale: può esprimersi senza barriere e condividere i contenuti creati, e tutto ciò scaturisce dalla sensazione che il proprio contributo abbia un valore per la comunità (Jenkins). Vi sono svariati esempi di applicazioni collaborative: ■ I blog sono diari o giornali online, che danno vita alla blogosfera, cioè un ambiente formato da blog in comunicazione tra loro e connessi ai social network e altre piattaforme. Chiunque può creare un blog e pubblicare i propri contenuti. ■ I wiki sono software di scrittura collettiva, che permettono a più persone di lavorare contemporaneamente a uno stesso testo o documento. L’esempio più noto è Wikipedia, un’enciclopedia online. Essi sono liberamente accessibili a chi vuole consultarli. Esistono altri software collettivi basati però su fotografie o video, come YouTube o Instagram, o sulle recensioni dei clienti, come eBay o Amazon. ■ Le piattaforme di mashup permettono di aggregare informazioni prese da fonti diverse per creare un sito o un’applicazione. Es: Google Maps. ■ Le tecnologie che permettono il tagging, grazie al quale gli utenti possono aggiungere a un contenuto un tag, ovvero un’etichetta che lo definisce e permette a chiunque di ritrovarlo facilmente. ■ I sistemi di rating, che consentono agli utenti di votare rispetto a un contenuto (Amazon, Trip Advisor, eccetera). Essi funzionano al meglio quando aggregano diverse votazioni definendo un trend generale (il voto a un ristorante è un risultato aggregato e non di una singola recensione). L’esplosione del web collaborativo è una questione sia tecnologica che culturale. Il pubblico si trasforma in una pluralità di pubblici attivi che partecipano attivamente alla produzione e diffusione di contenuti, diventando così prosumer (producer\consumer, ovvero produttori\consumatori). Jenkins studiò le comunità di fan (di qualsiasi tipo), sottocultura chiamata fandom, notando che essi sono sempre più spesso coinvolti attivamente nella produzione di contenuti alternativi a quelli ufficiali, come video, fiction, videogiochi, cartoni animati. Da ciò deriva un maggiore coinvolgimento emotivo nei confronti del prodotto mediale cui fanno riferimento. Temi molto sensibili in questo senso sono il copyright, che i fan non devono violare nella produzione dei loro contenuti tratti dal film\canzone\ecc originale, l’atteggiamento della casa produttrice coinvolta (permissivo o repressivo), l’utilizzo di strategie di marketing basate sulle comunità di fan da parte delle major. • Il dilemma della partecipazione Le prime ricerche sul web collaborativo e sulla cultura della partecipazione tendevano a dipingere questi processi come forme di democratizzazione dell’ambiente dei media. Tuttavia questa visione idealizzata è stata presto criticata, partendo dall’uso stesso della parola partecipazione. Questo concetto nella modernità sottintende una distribuzione del potere verso i cittadini tramite processi decisionali democratici e relazioni di potere egualitarie. Da questa prospettiva però ci accorgiamo che in rete gli utenti contribuiscono solo marginalmente ai processi decisionali; sono le grandi imprese del web a decidere le “regole del gioco”, in un sistema che non è partecipativo. Accesso, interazione e partecipazione hanno accezioni molto diverse tra loro (Carpentier): la semplice abilità di accedere all’informazione tramite i media digitali è differente dalla possibilità di interagire per scambiare contenuti, mentre forme di partecipazione caratterizzano piattaforme come Wikipedia, i cui utenti possono decidere almeno parzialmente l’evoluzione dell’enciclopedia. Scendendo nel dettaglio si possono analizzare alcuni dei fattori organizzativi e politici che determinano la differenza tra semplice condivisione o produzione di contenuti da parte degli utenti, poi aggregati da aziende private a fini di profitto, e forme di collaborazione in cui invece si può parlare di vera e propria partecipazione democratica a un progetto collettivo (Hyde): • Intenzionalità: i partecipanti sono consapevoli di pendere parte a una collaborazione e hanno obiettivi condivisi oppure i contenuti da loro creati vengono gestiti da altri? • Controllo delle modalità: gli utenti possono mettere in discussione le regole della partecipazione oppure possono solo accettarle passivamente? • Accessibilità: chi può partecipare e come? • Uguaglianza: ci sono delle gerarchie oppure tutti i partecipanti hanno lo stesso peso nei processi decisionali? Questa ambivalenza è sfruttata dalle grandi imprese che gestiscono servizi come YouTube, Facebook o Google, e si definiscono piattaforme, per ribadire l’apertura dei propri servizi agli utenti e per presentarsi come spazi democratici e neutrali in cui un individuo può esprimersi. Dietro a questa retorica si cela un’ideologia fondata su scopi commerciali: i contenuti prodotti dagli utenti (foto, video, commenti, interessi, eccetera) vengono sfruttati economicamente come fonti di profitto per l’impresa che li gestisce. Viceversa, le stesse aziende si dichiarano neutrali quando devono prendere le distanze da contenuti illegali pubblicati dai propri utenti. • Dal software libero al Peer-To-Peer Il successo delle pratiche di cooperazione in rete ha imposto all’attenzione delle scienze sociali la produzione peer-to-peer (P2P), o produzione sociale basata sui beni comuni, che consiste in una forma di produzione affidata alla libera collaborazione di individui online. In questi progetti di peer-to-peer molti individui collaborano in forma coordinata, senza nessuna gerarchia: per questo si parla di gestione orizzontale, in cui le decisioni vengono prese grazie alla partecipazione di tutti gli utenti. Un esempio di questo tipo è quello del free software Gnu\Linux, creato inizialmente dalla comunità hacker da un’intuizione del programmatore Stallman. Questo software si differenzia da quelli proprietari (come Microsoft Windows) in quanto chiunque può ottenere il suo codice sorgente (il testo originario del programma), studiarlo ed eventualmente modificarlo. E’ libero nell’accezione di libertà di parola, che si adatta ad un software nel senso che qualsiasi utente ha il diritto di modificare, adattare e redistribuire un programma; tuttavia ciò non significa che questi programmi possano essere usati in modo indiscriminato, essendo soggetti a specifiche licenze. Talvolta questi software sono anche gratuiti, e secondo Stallman si definiscono liberi quando garantiscono quattro “libertà fondamentali”: http://www.unimi.it/studenti/1162.htm ▲ Libertà di eseguire il programma per qualsiasi scopo (libertà 0). ▲ Libertà di studiare come funziona il programma e di modificarlo in modo da adattarlo alle proprie necessità (libertà 1). Per fare ciò è necessario l’accesso al codice sorgente. ▲ Libertà di redistribuire copie in modo da aiutare il prossimo (libertà 2). ▲ Libertà di migliorare il programma e distribuirne pubblicamente i miglioramenti apportati dall’utente, in modo tale che tutta la comunità ne tragga beneficio (libertà 3). Quadro 4.1. Il copyleft e le licenze Creative Commons il termine copyleft indica una forma di copyright alternativo che in italiano si potrebbe definire permesso d’autore invece di diritto d’autore (in inglese gioca sui termini “right” e “left”). Questa è una forma di proprietà intellettuale che tutela l’autore di un’opera ma allo stesso tempo permette a chiunque di compiere alcune azioni senza chiedere permesso o pagare royalty all’autore, in modo da eliminare gli ostacoli alla diffusione e condivisione delle informazioni creati dalle leggi sul copyright. Il copyleft è nato da un’intuizione di Stallman, che nel 1989 ha scritto la Gpl (General Public License) per permettere la diffusione del software Gnu. Tuttavia le licenze copyleft più famose sono quelle sviluppate da Creative Commons (CC), un’organizzazione non profit. Chi decide di proteggere un’opera dell’ingegno con una licenza CC permette a chiunque di riprodurre, distribuire, rappresentare l’opera stessa. Esistono quattro clausole principali che l’autore può combinare per scegliere quali diritti concedere agli utenti: • La clausola Attribuzione (by) significa che chi esegue o redistribuisce l’opera deve indicare l’autore e riconoscere la paternità. • La clausola Non uso commerciale (nc) significa che non sono consentiti utilizzi a fine economico. • La clausola Non opere derivate (nd) impedisce di modificare l’opera. • La clausola Condividi allo stesso modo (sa) significa che chi trasforma l’opera e ne ridistribuisce una versione modificata deve pubblicarla secondo le condizioni della licenza scelta dall’autore originale. Le licenze CC hanno valore legale a tutti gli effetti e sono sempre più diffuse. Negli anni Settanta il sistema operativo Unix circolava liberamente ed era aperto alla collaborazione; il suo codice sorgente era disponibile e i miglioramenti apportati dalla comunità scientifica venivano messi in circolazione a disposizione di chiunque. Un decennio più tardi però la compagnia proprietaria (la AT&T) decise di “privatizzare” Unix, e fu proprio in seguito a questo evento che Stallman si mise a lavorare a un sistema operativo simile ma basato sui principi di condivisione al pubblico. Nasce così Gnu, acronimo di Gnu is Not Unix, e contemporaneamente Stallman e altri programmatori scrivono licenze che traducono in termini legali i loro ideali, impedendo la privatizzazione di Gnu: nasce così la Gpl da cui derivano altre licenze (CC) che istituiscono il cosiddetto copyleft (vedi quadro 4.1).Negli anni Novanta un giovane programmatore finlandese, Linus Torvalds, sviluppò una parte molto importante del sistema operativo di Gnu (definita kernel) e lanciò di fatto il progetto Gnu\Linux. L’intuizione vincente fu quella di coinvolgere centinaia di membri delle comunità hacker nel debugging, cioè nella ricerca di problemi da risolvere. Questo è un esempio di forking, un fenomeno esistente grazie alle licenze Gpl che permettono a chiunque di deviare dal progetto originario per lavorare ad una propria versione. La storia ed il funzionamento di Gnu e Linux, due sofwtare liberi, vengono presi spesso come esempio delle forme di cooperazione online per diversi motivi: ♦ Si sono dimostrati in grado di competere con i sistemi operativi tradizionali. ♦ Hanno dimostrato l’esistenza di una nuova forma di cooperazione mediata dalle tecnologie tradizionali. ♦ La licenza Gpl ha creato nuove forme di proprietà intellettuale alternative. creare una base hip hop). Lo sviluppo di questa cultura si basa di fatto sullo sfruttamento di esenzioni dal copyright o sulla pirateria. Un ultimo esempio è quello della shanzhai economy, ovvero una rete di produttori cinesi di telefoni cellulari shanzhai (ovvero pirata), caratterizzati dal basso prezzo e legati a un’estetica pop (addirittura un modello ha il retro di un iPhone e il fronte di un Blackberry), che vendono i loro prodotti nei mercati di strada asiatici, mediorientali e africani. Quadro 4.3. Le istituzioni della rete aperta. Pag. 103. • Il valore nell’economia della condivisione Il P2P venne interpretato da molti come fautore di un processo di democratizzazione delle società dell’informazione, essendo una forma di produzione liberatoria, in quanto secondo alcuni autori: a. Metterebbe nelle mani dei lavoratori i mezzi di produzione (i computer connessi in rete) insieme alla possibilità di controllare input e output del processo produttivo; questo favorirebbe la redistribuzione di ricchezza. b. Rappresenterebbe un aumento di autonomia e libertà individuale grazie al controllo esercitato dagli utenti. c. Risponderebbe a obiettivi di sviluppo, mettendo a disposizione dei paesi più poveri nuove risorse di informazione. Questi punti sono effettivamente riscontrabili nella realtà, ma non hanno scalzato, anzi coesistono e sono complementari a processi produttivi di tipo commerciale che rispondono a logiche di mercato e si basano su forme proprietarie di gestione dell’informazione. Diversi autori di ispirazione marxista hanno criticato l’idea che la cooperazione in rete sia di per sé sorgente di giustizia distributiva. Tiziana Terranova sottolinea come le imprese sfruttino la collaborazione degli utenti per fare profitti, rendendo l’attività di questi un “lavoro gratuito”. Tuttavia queste critiche che si rifanno alla teoria del valore di Marx applicata alla produzione online presentano diverse contraddizioni: ♦ L’esperienza d’uso di Facebook è molto diversa dall’esperienza del lavoro salariato; l’utilizzo dei social media non viene vissuto dagli utenti come una forma di sfruttamento simile a quello subito dai lavoratori. ♦ La creazione di valore online non presenta una relazione lineare tra valore e tempo di lavoro, sulla quale si basa la teoria del valore di Marx. ♦ Il valore realizzato direttamente dal lavoro degli utenti di Internet è ridotto: le imprese web si basano principalmente sulla capacità di raccogliere capitali finanziari, non su quella di generare profitti. Infine le forme di cooperazione flessibile sono state adattate per interagire con l’economia di mercato e le grandi imprese multinazionali. Un esempio è quello della sharing economy, composta da piattaforme online tramite cui le persone possono instaurare processi di scambio di beni, di servizi, o di saperi. Oggi viene presentata come una soluzione sia alla crisi economica che all’alienazione delle società contemporanee. Facilita la costruzione di piccole comunità di collaborazione e condivisione che sono anche in grado di generare nuove reti relazionali; allo stesso tempo però si tratta di un settore dominato da grandi capitali finanziari che usano il loro potere di mercato e la loro capacità di lobbying per ristrutturare mercati interi. Esempi: Airbnb, Uber, eccetera. Quadro 4.4. Blockchain e Bitcoin Bitcon è la moneta elettronica di gran lunga più diffusa al mondo. Negli ultimi anni un numero crescente di istituzioni ha cominciato ad accettare pagamenti in Bitcoin, che permettono il trasferimento anonimo di valuta via Internet. Questo sistema è basato su una rete di computer peer-to-peer; le transazioni di Bitcoin sono registrate in Blockchain, un registro basato sui computer degli utenti stessi. E’ suddiviso in blocchi di informazione (da qui il nome “catena di blocchi”), che sono conservati su tutti i computer che partecipano al sistema. Con un certo intervallo le informazioni vengono aggiornate e trasformate in un nuovo blocco. Capitolo 5. Sfera pubblica e potere • Dal pubblico ai pubblici attivi Nella tradizione degli studi sui media e sulla comunicazione il pubblico è considerato attivo. Gli individui che ricevono un messaggio sono in grado di interpretarlo, valutarlo e rispondere in forme differenti. L’audience dei media è quindi attiva. Se questo è vero per i media broadcast, ovvero quelli distribuiti da pochi a molti (televisione, radio e stampa), con i media digitali il pubblico si diversifica ulteriormente (e perciò si parla ormai di pubblici) e acquista un ruolo sempre più diretto. I media broadcast sono strutture ad architettura centralizzata e unidirezionali; le decisioni sulle notizie o sulle informazioni da comunicare sono prese da pochi e la comunicazione arriva al pubblico da un solo punto, uno studio televisivo o la redazione di un giornale. Alcune categorie professionali, dai giornalisti ai politici, hanno inoltre un accesso privilegiato a questo tipo di media, riuscendo a raggiungere l’opinione pubblica. Questi media possono essere anche definiti commerciali quando sono sostenuti da vendite e pubblicità. I media digitali invece intervengono a modificare radicalmente questa situazione. Il loro effetto principale è la nascita di un sistema mediatico molto più complesso e diversificato, accessibile a tutti, decentrato e distribuito; tutto ciò è possibile grazie a una serie di caratteristiche che li contraddistingue: I. L’accessibilità: il costo dell’apertura di un canale di comunicazione, la produzione e la distribuzione dell’informazione stessa, si è abbassato al punto di diventare quasi nullo, rendendo blog, giornali online, forum, eccetera accessibili a chiunque. II. La struttura distribuita: si passa da un’architettura centralizzata tipica dei mass media commerciali all’architettura decentrata e distribuita della rete. Dai media broadcast si passa a quelli sociali e distribuiti. III. La commistione tra pubblico e privato: la partecipazione alla vita pubblica è espressa tramite la condivisione di contenuti personali attraverso i profili privati sui media sociali. Le conversazioni dei pubblici in rete sono quindi ibride, tra il pubblico e il privato. IV. La sorveglianza: la maggior parte delle attività che avvengono in rete sono sorvegliate dalle imprese del web e dai governi in modo diffuso, continuo e sistematico. Alcuni tipi di pubblici, infine, intervengono attivamente su tutti i livelli dell’ambiente digitale: non solo sui contenuti, ma anche sull’infrastruttura tecnologica della rete, sulle piattaforme software e sulle forme di gestione dell’informazione; Kelty li definisce pubblici ricorsivi. Sono quei gruppi di individui che producono e mantengono le piattaforme che utilizzano per produrre attivamente informazione e conoscenza. In questo contesto Castells parla della capacità di riprogrammare le reti di comunicazione. • La sfera pubblica Grazie alla diffusione dei media digitali abbiamo assistito a un allargamento della platea di chi può accedere alla produzione di informazione, e così si è creata quella che è stata definita da Benkler sfera pubblica in rete. La sfera pubblica è il luogo dove le persone si incontrano per discutere nelle società moderne; qui si radunano insieme e agiscono per negoziare le regole di vita comune (Arendt). Questa metafora include sia gli spazi fisici (piazze, luoghi di aggregazione, circoli, eccetera) che quelli mediati (stampa o ambienti digitali). I media a stampa (giornali, libri, riviste) furono da subito fondamentali per la nascita della sfera pubblica, insieme a luoghi di ritrovo quali un tempo erano i Caffè (Habermas). E’ in questa dimensione di discussione e confronto che avviene la formazione dell’opinione pubblica. Nelle società liberali moderne un’opinione pubblica ricca, vitale e talvolta critica è cruciale per il funzionamento della democrazia, in quanto permette un controllo diretto sul potere; questa funzione fondamentale si esprime tramite i mass media. Ciò però può avvenire anche al contrario, quando il potere si impossessa anche del controllo dei mezzi di informazione, creando il cosiddetto quarto potere. I media digitali hanno trasformato il funzionamento della sfera pubblica pur preservandone alcune dinamiche cruciali. La rete permette innanzitutto di diversificare le fonti di informazione; gli utenti hanno accesso a una molteplicità di fonti, anche indipendenti o alternative a quelle del sistema dei mass media. In questo modo sono i cittadini a svolgere la funzione di sorveglianza democratica che compete tradizionalmente alla stampa. Dunque la sfera pubblica in rete fornirebbe un bacino più ampio di raccolta di informazioni e un filtro più partecipato e aperto all’attività dei singoli individui per scegliere i temi rilevanti. Uno dei processi di trasformazione della sfera pubblica nell’era digitale è quello della disintermediazione, cioè l’aumento di indipendenza da figure professionali che hanno storicamente un ruolo di intermediarie tra il pubblico e l’informazione. Grazie alle tecnologie digitali e alla rete, gli individui hanno accesso diretto a una mole immensa di informazioni che erano prima appannaggio di esperti, tecnici o professionisti. Inoltre dispongono di vie di comunicazione indipendenti dal sistema tradizionale dei mass media. La disponibilità di strumenti per pubblicare contenuti di uso semplice e accessibile a chiunque ha reso possibile la nascita di fenomeni di produzione di informazioni (news) di nuovo tipo. Il citizen journalism è la produzione e distribuzione di notizie da parte di individui che non sono giornalisti professionisti e attraverso canali alternativi, come i blog. Il primo esempio di questo tipo fu il sito di informazione Indymedia, piattaforma per la pubblicazione di contenuti informativi da parte degli utenti. Gli stessi giornali tradizionali si sono adattati al cambiamento in atto, aprendo edizioni online via sito web o applicazione per smartphone e tablet, ma l’interazione con i lettori è al centro dell’attività comunicativa. I confini tra i mass media e le nuove forme di comunicazione scompaiono, e i giornali integrano le news online con sistemi di interazione con i lettori, come blogging, commenti agli articoli, uso di social network, eccetera. Questi strumenti e queste pratiche hanno modificato in profondità il sistema con cui le notizie vengono prodotte e distribuite. Una delle funzioni principali dei giornali è quella del gatekeeping, cioè il potere di selezionare quali notizie raggiungono il pubblico e quali vengono scartate. Secondo diversi autori la funzione di gatekeeping (letteralmente “guardiano”) non è più nelle mani dei media broadcast, ma piuttosto è distribuita tra gli utenti della rete che producono, selezionano e vagliano notizie e informazioni. Infine, è cambiato anche il ruolo dei mass media tradizionali come detentori del potere di agenda setting, cioè la capacità di dettare l’agenda del dibattito pubblico seguendo le notizie e i temi di cui si parlerà. Oggi le notizie rilevanti possono emergere tramite diffusione dai media sociali o dai blog minori a quelli più importanti, fino a raggiungere le grandi testate online o i mass media. La sfera pubblica in rete sarebbe così in grado di garantire i filtri di attendibilità e rilevanza un tempo riservati ai mass media, diventando la nuova intermediaria tra cittadini e informazione. La rete ha anche favorito l’emergere di attori come WikiLeaks, una piattaforma nata nel 2006 per la pubblicazione di leak, cioè “perdite” o “fughe” di notizie, che hanno un ruolo importante nella ridefinizione della sfera pubblica in rete. E’ un organizzazione non profit internazionale basata su un sistema di raccolta di documenti coperti da segreto di stato o industriale che le persone possono • La sorveglianza è invece un processo di raccolta e analisi dei dati da parte di attori pubblici (stati) e privati (imprese del web) al fine di controllare il comportamento degli individui. Negli anni Settanta Michel Foucault ha descritto la nascita nell’era moderna della società disciplinare, caratterizzata dalla pervasività di istituzioni dedicate a osservare il comportamento dei cittadini per normalizzarlo. Per descrivere il potere disciplinare, egli ha usato l’esempio del panopticon: l’architettura di questo edificio permette a una sola persona di controllarne diverse, che non sanno esattamente quando sono osservate. Dunque, istituzioni che sorvegliano cittadini. Viceversa, un altro filosofo, Deleuze, teorizzò la società del controllo, in cui è la popolazione stessa a esercitare un controllo continuo e istantaneo. Nel 2013 l’informatico statunitense Edward Snowden ha rivelato al mondo l’esistenza di programmi segreti di spionaggio messi in campo da un organismo governativo Usa, la Nsa. Grazie a queste rivelazioni sappiamo che diversi governi occidentali gestiscono sistemi di sorveglianza che permettono di registrare tutte le interazioni online e telefoniche dei propri cittadini, indistintamente, anche senza il mandato di un giudice. Tutto ciò chiaramente è dovuto alla collaborazione con i governi delle grandi imprese del web. Quadro 5.2. Resistere alla sorveglianza la consapevolezza crescente della pervasività della sorveglianza negli ambienti digitali dà vita a forme di resistenza. La crittografia utilizza un insieme di tecniche di codifica che permettono di leggere un testo solo a chi possiede la chiave di interpretazione. Le tecniche di offuscamento si basano invece sula produzione di informazioni fuorvianti, false o ambigue, che rendono la cattura dei dati più difficile e meno affidabile. • Cultura civica e informazione L’emergere di forme di organizzazione politica tramite strumenti e piattaforme online ha fatto parlare della nascita di una nuova cultura civica. Politologi come Putnam sottolineano che il coinvolgimento civico delle popolazioni dei paesi occidentali è in declino da decenni. Le organizzazioni di massa come i sindacati hanno sempre meno partecipanti, e sempre meno persone votano alle elezioni o partecipano attivamente alla vita dei partiti politici. Secondo Putnam ciò sarebbe dovuto in gran parte al consumo televisivo. In realtà il rapporto tra media e partecipazione politica è più complesso. Attualmente, le forme di attivismo e coinvolgimento politico in rete stimolano la formazione di una nuova cultura civica, riunendo individui con uno scopo in comune e profondamente coinvolti; allo stesso tempo però tendono a esasperare i conflitti e a ridurre l’interazione con persone che la pensano diversamente. Il confronto e la diversità possono così venire meno. La politica online tenderebbe quindi a una polarizzazione della società, per la quale gli individui interagiscono solo con i loro simili. In chiusura del capitolo occorre evidenziare che le grandi imprese del web oggi assumono il ruolo di nuovi intermediari, senza però essere necessariamente più accessibili, aperte o democratiche di quelli precedenti. Spesso si tratta di imprese commerciali volte al profitto, e perciò non sono neutrali ma esprimono precise visioni del mondo, valori e interessi. Capitolo 6. Economie digitali e lavoro • I modelli economici del web Internet e i media digitali hanno una grande rilevanza economica; dispositivi come personal computer, smartphone, televisori o tablet rappresentano un mercato di prodotti di consumo a diffusione globale. Questo mercato sostiene le economie sia dei paesi produttori di componenti e hardware, come quelli asiatici e nordici, sia dei paesi che gestiscono i processi di innovazione e marketing, come gli Stati Uniti o la Cina. Inoltre sui media digitali si basa un’economia sviluppata direttamente online in termini di servizi venduti (siti dot com [.com]) e mercato pubblicitario da parte delle grandi imprese del web. Con la diffusione di Internet si sono scatenate ondate di investimenti e sono sorti nuovi modelli economici, introducendo nuove possibilità e nuovi vincoli alle imprese che producono informazione. La coda lunga è il modello su cui si basano giganti come la libreria online Amazon, e si riferisce alla massa di opportunità marginali che con i media digitali diventa possibile gestire. Invece di vendere solo pochi titoli molto popolari, Amazon realizza gran parte dei guadagni vendendo poche copie ciascuno di moltissimi libri, che rappresentano la coda del mercato. Quindi anche se ognuno di questi titoli ha vendite marginali, il loro insieme costituisce una massa tale da contribuire in modo sostanziale ai guadagni dell’azienda. Tutto ciò è possibile grazie al fatto che Amazon è in grado di accumulare i libri in giganteschi magazzini automatizzati e gestiti per via informatica, riuscendo di fatto a svolgere il lavoro di centinaia di piccole librerie che, invece, avendo spese elevate e mancanti dello spazio fisico necessario, devono selezionare solo quelli che vendono più copie. Negli anni Novanta, con l’avvento di Internet, nacquero i siti “dot com”; alcuni di questi sono definiti content provider, cioè fornitori di contenuti, e facevano pagare l’accesso ai contenuti online che fornivano. Questo modello di business esiste ancora in alcuni settori professionali, ma con l’avvento di servizi gratuiti come YouTube, Facebook eccetera è diventato sempre meno sostenibile in tanti altri settori. E’ stata importante anche la diffusione dei sistemi di file sharing , come eMule, che però hanno reso difficile il controllo della diffusione e della circolazione (in sostanza, della pirateria) di contenuti prodotti dall’industria musicale e cinematografica. Altre innovazioni: Netflix, integrazione tra libri, film, videogiochi e fumetti come per Harry Potter, nascita di Internet mobile e quindi sviluppo delle app, diffusione degli eBook. Un altro aspetto del variegato mercato online si è sviluppato con la nascita del web collaborativo: i modelli economici di molte aziende in rete si basano sulla co-creazione da parte degli utenti, che vengono quindi coinvolti nel business. Esempi: TripAdvisor, app di dating (per appuntamenti romantici), eccetera. Occorre a questo punto menzionare i videogiochi (settore del gaming), che compongono un mercato sia per le vendite che registrano che per la diffusione di dispositivi (hardware) necessari a utilizzarli come console e computer. Come abbiamo visto nel citato caso di Harry Potter, i videogiochi sono anche strumenti utilizzati per il marketing: di fatto questa industria alimenta in modo significativo anche quella di film, libri, giocattoli, eccetera, che usano gli stessi personaggi o producono giochi legati ai propri prodotti. Un altro ramo dell’economia del web è composto dai motori di ricerca, di cui il più importante è Google. Alla base del suo funzionamento vi è un sistema chiamato page rank, un ranking (classifica) dei siti più rilevanti per la ricerca svolta, e che quindi permette all’utente di visualizzare i risultati migliori per lui, calcolato tramite algoritmi che lavorano su parole chiave e sulla pertinenza. Google è in grado di fornire servizi gratuiti perché usa le informazioni raccolte sugli utenti (profilazione) per fornire pubblicità personalizzata, e perché gli inserzionisti possono pubblicare annunci a pagamento sulle sue pagine di ricerca. I social network seguono modelli molto simili. Fondamentale è il mercato pubblicitario, dato che gran parte dei siti web e dei servizi gratuiti che popolano la rete dipende dagli investimenti pubblicitari. In questo settore vi sono modelli sofisticati, con sistemi come il click throught, in cui gli inserzionisti pagano sulla base di quanti visitatori di un sito cliccano sulla pubblicità e quindi accedono effettivamente ai suoi contenuti. Uno dei modelli prevalenti di sostentamento economico del web è quindi la fornitura di servizi gratuiti resi possibili dalla raccolta di introiti pubblicitari massicci, anche se finora poche aziende, e su tutte Google, sono riuscite ad attrarre investimenti pubblicitari sufficienti. Le tecnologie digitali hanno permesso anche l’emergere di grandi imprese che si basano sulla sharing economy, o economia della condivisione. Queste imprese sono basate su applicazioni web o mobili che mettono in contatto domanda e offerta e trattengono un profitto su tutte le transazioni economiche; svolgono di fatto la funzione di intermediari (Uber non poissiede automobili, né Airbnb case) per evitare le regolazioni a cui sono sottoposte le imprese tradizionali. Infine occorre citare il crowfunding; letteralmente “finanziamento della folla”, è un sistema di raccolta di fondi per progetti non profit o per imprese start up basato su piattaforme online. Gli individui possono contribuire con finanziamenti anche molto limitati, dato che questi servizi puntano su grandi numeri di persone disposte a donare piccole somme. Se il progetto raggiunge il budget prefissato, l’utente che lo ha lanciato riceve il denaro e la piattaforma di crowfunding trattiene una piccola percentuale. Quadro 6.1. L’economia delle startup le grandi imprese come Twitter o Airbnb sono frutto dell’economia startup, ovvero basata su nuove imprese emergenti. Il fenomeno è legato allo sviluppo della Silicon Valley negli anni Settanta e si è consolidato attorno ad alcune caratteristiche. • Le startup per lo più sono lanciate da giovani con in mente un prodotto, solitamente digitale, come una app, che ancora non esiste. • Il percorso delle startup spesso passa per un incubatore, cioè un luogo che fornisce un percorso di formazione in cui l’impresa viene assistita nel realizzare la sua idea di partenza, sviluppando un business plan e coltivando un pitch, una breve presentazione per i potenziali investitori. Alla fine del percorso di incubazione le startup sono pronte a competere nel mercato. • Molte startup fanno uso di piattaforme di crowfunding per accumulare un piccolo capitale iniziale; se la campagna ha successo, spesso attira investitori. • I fondi di venture capital (capitalismo di avventura) puntano su investimenti ad alto rischio: selezionano una serie di piccole startup, scommettendo sul fatto che le poche che avranno successo realizzeranno guadagni cento o mille volte maggiori a quelli iniziali. Questi fondi acquisiscono una quota del loro capitale sociale, che può essere venduta in caso di successo. • Questa logica fa sì che il suddetto successo sia misurato in termini di valutazione finanziaria e non di crescita sul mercato. Il valore si può concretizzare in due modi: la vendita a una società più grande oppure la quotazione in borsa. Due parole chiave del sistema startup: I. Ideas are cheap: il successo dipende dalla qualità delle persone e del team, non da quella dell’idea. E’ importante fare lavoro di squadra, dare una forma alle idee e costruire un brand (come viene insegnato nella fase di incubazione). II. Disruption: i guadagni si fanno con la capacità di capovolgere intere industrie, come accaduto per Amazon con le librerie o Uber con i taxi. Un’impresa veramente disruptive crea nuovi bisogni: nessuno desiderava Facebook prima del suo lancio. sottopagati, organizzati tramite la rete. Un esempio è il già citato crowdsourcing, un servizio che si basa sull’aggregazione del lavoro di migliaia di individui pagati a cottimo in base al numero di compiti svolti. Queste forme lavorative, spesso retribuite pochi centesimi a compito svolto, sono spesso svolte da individui residenti nei paesi in via di sviluppo (come l’India) e vengono definite microlavori. Le imprese della sharing economy operano in modo simile: non assumono ma organizzano e coordinano migliaia di individui indipendenti (come gli autisti di Uber, che lavorano quando vogliono ma hanno tutte le spese della loro automobile). Diversi autori parlano di un arretramento dei diritti e di una nuova condizione di precarietà per nuove classi di lavoratori, che non hanno accesso al sistema dei diritti conquistato nell’era industriale. Come abbiamo già accennato, anche i sindacati tradizionali faticano a intervenire in questo contesto. Le nuove forme di organizzazione del lavoro intellettuale tendono anche a far sfumare la differenza tra tempo di lavoro e tempo libero. La flessibilità richiede agli individui di lavorare in qualsiasi momento, e i media digitali rappresentano lo strumento ideale per questo scopo. Sono solo gli strati più privilegiati, come quelli manageriali, che possono permettersi di essere maggiormente disconnessi per diminuire lo stress dovuto alla sovrapposizione completa di vita e lavoro. Quadro 6.2. L’economia digitale a San Francisco San Francisco, in California, è da decenni uno degli epicentri dell’economia digitale, e ciò influisce anche a livello di trasformazioni economiche e sociali. La vicinanza della Silicon Valley e la presenza in città di sedi dei colossi del web come Twitter e Dropbox hanno creato migliaia di posti di lavoro e potenziato l’economia locale. Questa ricchezza però non è distribuita equamente. L’afflusso di centinaia di ingegneri e informatici (i techie), che percepiscono salari molto maggiori della media della popolazione, ha un effetto sulle dinamiche sociali della città. Chi non lavora nell’industria tecnologica non può permettersi gli affitti cresciuti in maniera smisurata; inoltre i techie sono principalmente giovani bianchi, mentre sono presenti in città folte comunità latinoamericane. Le popolazioni storiche e le fasce più deboli sono quindi esposte al rischio di espulsione dalla città verso aree sempre più distanti. Recentemente sono stati oggetto di violente proteste i Google bus, autobus di lusso provvisti di wifi per far lavorare i dipendenti anche durante gli spostamenti forniti dalle imprese. L’industria digitale di San Francisco non ha redistribuito la ricchezza, ma ha esacerbato le disuguaglianze di fondo della società statunitense. • Il capitalismo digitale Il successo delle imprese che producono tecnologie o servizi informatici è immenso. I magnati della rete, da Gates a Zuckenberg, sono tra gli individui più ricchi del mondo e le loro aziende controllano capitali superiori a quelli delle aziende petrolifere. Nel 2016 Google e Apple valevano 500 miliardi di dollari ciascuna. I colossi della rete sono talmente ricchi da andare oltre la dimensione comunicativa, arrivando a influenzare lo sviluppo del capitalismo globale tramite i propri investimenti. Bill Gates ha auspicato la nascita di un capitalismo senza frizioni mediato dalle tecnologie digitali in cui i flussi di capitale, informazione, merci e lavoro possano scorrere senza impedimenti causati da regolamentazioni o barriere nazionali. In relazione a questi fenomeni, negli ultimi anni un numero crescente di autori ha cercato di fornire un’interpretazione per le trasformazioni economiche e sociali degli ultimi decenni; impresa non semplice, perché la società dell’informazione è in costante cambiamento e in rapida evoluzione. Anzitutto, dopo la crisi del 2008 molti autori si sono concentrati sulla finanziarizzazione dell’economia: i cicli del capitalismo sono soggetti a fasi di crisi in cui la finanza prende il sopravvento fino a quando un nuovo paradigma produttivo non riesce ad emergere. Il tentativo di definire questo nuovo paradigma ai giorni nostri si è concentrato sulla capacità delle imprese del web di organizzare processi produttivi distribuiti e di sfruttare le capacità comunicative e cognitive degli individui. Con la definizione capitalismo delle piattaforme alcuni autori hanno sottolineato la capacità del capitale contemporaneo di utilizzare le piattaforme web al fine organizzare processi produttivi basati su forme di cooperazione sociale e ricavarne un profitto (es: sharing economy). Altri hanno parlato della nascita di un capitalismo comunicativo, in cui le capacità affettive e comunicative rappresentano gli elementi principali della produzione capitalista. In questo modello le attività di comunicazione sono paragonate a delle merci. Un passaggio ulteriore è quello compiuto dai teorici del capitalismo cognitivo, che sono influenzati dal famoso “frammento sulle macchine” in cui Marx aveva profetizzato forme di automazione che avrebbero liberato l’umanità dal lavoro (intelletto generale= il sapere incorporato nelle macchine). Secondo le teorie sul capitalismo cognitivo, le tecnologie informatiche sviluppate dal capitalismo digitale sono invece costruite per sfruttare i processi cognitivi e cooperativi degli individui connessi in rete. Le tecnologie sarebbero quindi adibite a controllare il lavoro anche al di fuori dei luoghi in cui solitamente si svolge; in un certo senso, il capitale avrebbe conquistato la stessa intelligenza e socialità umane. Il capitalismo digitale ha anche optato per forme di produzione peer-to-peer, sfruttando ambienti lavorativi uguali ad ambienti ricreativi e creando così una produzione P2P, la quale fornisce una vera e propria infrastruttura culturale che insegna ai lavoratori forme che producono innovazione cooperativa e socializzata che hanno luogo nelle imprese del web. Quadro 6.3. Automazione e lavoro l’automazione e l’economia industriale sono sempre esistite insieme, dalle prime macchine antiquate fino alla computerizzazione del lavoro. In particolare quest’ultimo processo ha ridimensionato notevolmente sia la tradizionale classe operaia sia il ceto medio impiegatizio, contribuendo alla crescita della disoccupazione. Oggi stiamo attraversando un ulteriore processo di automazione in cui la robotica e l’intelligenza artificiale promettono di sostituire sia mansioni standardizzate che professioni che fino ad ora richiedevano creatività ed ingegno umano. Questa nuova ondata di automazione potrebbe generare una nuova ondata di disoccupazione. Le riposte a questo cambiamento dipendono principalmente da scelte politiche. • Diseguaglianze globali e sviluppo Nonostante la retorica di uguaglianza e democrazia che circonda i media digitali, nella società dell’informazione le risorse sono tutt’altro che distribuite equamente. Il digital divide, o divario digitale, è la disparità tra chi ha accesso ai media digitali e chi non lo ha. Banda larga e dispositivi mobili sono fattori fondamentali per l’accesso alla rete. La differenza nell’accesso ai media digitali viene tipicamente considerata una fonte di diseguaglianze sociali ed economiche, dato che incide sulla possibilità degli individui o dei paesi del mondo di partecipare alla sfera pubblica in rete e alle economie basate sulla produzione di informazione. La disparità più visibile è quella tra paesi ricchi e paesi poveri in via di sviluppo. Alcune aree del mondo infatti soffrono di uno sottosviluppo cronico che si riflette anche nell’accesso ai media digitali. Allo stesso modo però il divario digitale può essere presente anche tra regioni diverse di uno stesso paese (es: Nord e Sud Italia). Vi sono poi altre possibili problematiche: i paesi autoritari limitano l’accesso a siti e servizi online; altri subiscono scelte imposte dall’esterno, come l’embargo statunitense su Cuba. Questo divario può essere legato non solo alla capacità di accedere alle tecnologie, ma anche a quella di saperle usare: intervengono fattori culturali ed educativi che rendono gli individui consapevoli e in grado di sfruttare appieno le possibilità che offrono i media digitali. Altre differenze dipendono dalla classe sociale, dal genere, e infine nello stesso territorio intercorrono tra aree rurali ed aree urbane, meglio servite dalla banda larga. Risolvere o colmare il divario digitale è uno degli obiettivi che ciclicamente vengono riproposti dalle istituzioni internazionali. L’Onu ha redatto nel 2000 un documento in cui si impegnava ad aumentare entro il 2015 la disponibilità delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione come premessa per ampliare la possibilità di cooperazione a livello globale. Sicuramente il divario digitale è legato allo sviluppo economico, e perciò non è stato sufficiente, come è accaduto più volte in passato, fornire un maggiore accesso alle tecnologie dell’informazione a un paese povero per risolvere queste disuguaglianze. Diversi progetti si occupano invece di favorire l’accesso alle conoscenze, e quindi effettuano operazioni di alfabetizzazione ed educazione alle tecnologie informatiche. Secondo questo approccio la differenza la fa l’accesso all’informazione più che quello alle tecnologie. Quando si analizza il divario digitale occorre sempre tenere presente che il legame tra sviluppo e innovazione tecnologica è complesso e sfaccettato. Secondo alcuni economisti lo sviluppo sarebbe convergente, cioè andrebbe in direzione di una maggiore eguaglianza tra paesi ricchi e poveri. I paesi poveri infatti potrebbero colmare il divario di sviluppo grazie all’innovazione tecnologica, che sarebbe esogena. Tramite meccanismi di mercato, un dispositivo tecnologico può essere trasferito da un paese ricco ad uno povero, che appropriandosene dall’esterno potrebbe riavvicinarsi ai paesi che fanno innovazione; questo approccio è riassumibile nello slogan chips are chips: non c’è differenza tra patatine e microchip, dato che un paese che produce le prime può esportarle per importare i secondi. Secondo una prospettiva opposta, lo sviluppo sarebbe divergente, e il livellamento delle differenze su scala globale basato sul trasferimento tecnologico molto più difficile. L’innovazione tecnologica sarebbe quindi un fattore endogeno, cioè il risultato di scelte e investimenti da parte delle aziende e dei governi. Infatti i paesi importatori di tecnologie dall’esterno rischiano di trovarsi in una situazione di dipendenza. Le disuguaglianze a livello globale restano presenti. Ciò in parte è dovuto al fatto che alcune attività economiche o tecnologiche possono concentrarsi in alcune aree per diversi motivi, creando il fenomeno della path dependence: le scelte a disposizione in un determinato contesto dipendono dal cammino intrapreso in passato, che spesso è irreversibile (Silicon Valley VS regioni dell’Africa in cui si estraggono i materiali per i dispositivi elettronici). Concludendo, il supporto statale alla ricerca e allo sviluppo ha una ricaduta positiva molto elevata sull’economia di un paese. Conclusioni In un suo vecchio saggio Umberto Eco divideva i critici dei media in due categorie che sono tuttora applicabili: gli apocalittici e gli integrati. Per gli apocalittici le nuove tecnologie mediatiche tendono a sovvertire i valori tradizionali, alienare le persone l’una dall’altra e generare solitudine e stupidità. Gli integrati invece vedono le nuove tecnologie come un passo verso una modernità radiosa che contiene la promessa di risolvere i problemi dell’umanità. Nei discorsi sull’impatto sociale di Internet e dei media digitali si può trovare una polarizzazione simile. Chi ha ragione? Probabilmente entrambi. I media digitali stanno cambiando il mondo e le nostre vite ma l’esito di questi mutamenti dipende da molti fattori sociali, economici e politici, come abbiamo visto dettagliatamente nei capitoli qui riassunti. Quello che è certo, è che queste nuove tecnologie saranno al centro del futuro delle nostre società.