Scarica RIASSUNTO INTRODUZIONE AI MEDIA DIGITALI - Arvidsson, Delfanti e più Appunti in PDF di Storia solo su Docsity! INTRODUZIONE AI MEDIA DIGITALI CAPITOLO 1 – INFORMAZIONE E MEDIA DIGITALI L’ambiente digitale I media digitali sono dispositivi oramai diffusi in molteplici attività umane ma affinché possano essere compresi non è sufficiente studiarne le caratteristiche tecnologiche, bensì anche quelle sociali, politiche ed economiche, essendo mezzi mai neutrali. Nelle nostre società sono strumenti persuasivi che influenzano la sfera sociale, politica, economica, lavorativa e comunicativa tanto da parlare di un fenomeno conosciuto come “mediatizzazione”. Hanno iniziato a diffondersi intorno agli anni ’80 del XX secolo con la messa in commercio dei cosiddetti mainframes, computer pensati per un mercato di massa, per poi subire una evoluzione nel corso dei decenni e diffondersi sempre più negli anni 2000 con l’emergere del web collaborativo, cioè di software e piattaforme on-line che permettono agli utenti di produrre e distribuire contenuti in prima persona, e delle tecnologie mobili come smartphone e tablet, che hanno trasformato l’esperienza della rete da quotidiana a totale. Questi cambiamenti hanno creato un’ecologia dei media. Essa consiste in: 1. L’evoluzione di nuove forme di vita, come motori di ricerca, social network, operatori di telefonia mobile che forniscono connessione alla rete. 2. Nuove strategie: i social network forniscono servizi gratuiti in cambio dei dati degli utenti; i partiti politici usano la rete per sperimentare nuove forme di comunicazione; i governi mettono in atto strategie di censura e controllo della popolazione. 3. Idea di un mondo dove non ci è un luogo centralizzato di controllo, ma un insieme di relazioni e di interazioni. D’altra parte, i media sono il terreno di scontro tra diverse visioni del mondo che spesso si contrappongono violentemente. Da un lato, sono dipinti come portatori di democrazia, giustizia e uguaglianza, come mezzi per superare le rigidità delle società industriali e per allargare la platea di individui che possono partecipare liberamente alla vita pubblica e produttiva. Dall’altro, come minaccia all’ordine sociale, distruttori degli equilibri su cui si fonda la società, come strumenti di sfruttamento e di irrigidimento delle gerarchie. I media digitali I media digitali sono un insieme di mezzi di comunicazione basati su tecnologie digitali che hanno caratteristiche comuni che li differenziano dai mezzi di comunicazioni che li hanno preceduti. Trattasi di dispositivi che si sono affiancati, a partire dagli ultimi decenni del XX secolo, ai mass media tradizionali, finendo per integrarli (come televisione, giornali e radio). In realtà però, definire i media digitali “nuovi media” risulta essere ambiguo: - Anzitutto, tutti i media sono nuovi quando vengono introdotti, anche quelli nativi analogici. - Il termine nuovo può far pensare che essi siano migliori di quelli vecchi. Ma media basati su tecnologie recenti conservano contiguità e similitudini con i media precedenti. Quando un nuovo media viene introdotto, esso non sostituisce i vecchi ma piuttosto li integra o li modifica, senza necessariamente condannarli all’estinzione. E’ in atto spesso un processo di rimediazione, ossia una pratica, un contenuto o formato possono essere ri- mediati tramite una nuove tecnologia che cita o rielabora forme precedenti. Ad esempio, l’ebook è diverso dal libro cartaceo ma i lettori ne possono riconoscere la genealogia, le pagine, gli indici, la copertina. I nuovi media non nascono dal nulla ma piuttosto evolvono da pratiche mediali già esistenti. Media abbandonati possono essere poi riportati in vita e assumere nuovi significati. L’”archeologia dei media” si occupa di studiare tecnologie dimenticate o cadute in disuso. Per esempio il Gameboy, una console videoludica portatile che ebbe successo negli anni ’90, oggi viene usata per produrre musica tecno a 8 bit tramite specifici software. - Infine, i media basati sui computer sono ormai diffusi da diversi decenni, non potrebbero pertanto essere definiti “nuovi”. Più che di nuovi media, si parla dunque di media digitali. Essi, oltre che digitali (dove per digitale si intende una conversione in dato numerico o meglio, in codice binario 0 e 1 – vedi vecchi appunti) presentano una serie di caratteristiche. Sono media: Convergenti: appunti vecchi. Ipertestuali: l’utente non dovrà più necessariamente leggere un testo seguendo un ordine lineare ma potrà interagire, mediante i cosiddetti link, con molteplici altri testi a cui verrà rinviato. In questo modo l’utente può costruire un percorso di lettura personalizzato, scegliendo quando e in che ordine leggere le informazioni. Distribuiti: i mass media tradizionali sono centralizzati e unidirezionali, in quanto l’informazione viene trasmessa da una struttura centrale, ad esempio un giornale verso un pubblico di lettori. I media digitali invece sono caratterizzati da un modello distribuito che si basa su tre peculiarità: 1. La diffusione di microprocessori a basso costo e quindi l’arrivo sul mercato di computer accessibili per consumatori e di strumenti affermatosi oggi come smartphone e tablet (anche se ricordiamo che il microprocessore da solo non fu sufficiente per questa rivoluzione, fu necessario ambiente contro- culturale); 2. La diffusione dell’accesso alle reti telematiche, in particolare Internet e WWW; 3. I software e le piattaforme che permettono agli utenti di creare contenuti. I mezzi di produzione e di distribuzione dell’informazione non sono più centralizzati ma nelle mani di milioni di individui. Interattivi: nell’ambiente digitale gli utenti hanno la possibilità di interagire direttamente con i contenuti, crearli o modificarli. Sociali: attraverso i social media gli utenti hanno la possibilità di creare un loro profilo personale pubblico con il quale entrare in contatto con altri individui, formare reti di amicizia e di contatti, condividere contenuti o dar vita a varie interazioni. Mobili: le tecnologie mobili di rete, come cellulari, smartphone, tablet, rendono mobili i media digitali, non più vincolati ad un personal computer collegato alla linea telefonica. Effimeri: essi hanno durata e persistenza diversa. Un libro cartaceo, ad esempio, può essere conservato per secoli. Gli hard disk tendono a non durare più di uno o due decenni, i software vengono presto sostituiti da nuovi programmi. Le comunicazioni che avvengono in formato digitale come messaggi in chat o fotografie scambiate vengono percepite come altamente effimere. Tuttavia copie e tracce di queste comunicazioni possono essere duplicate e immagazzinate per anni senza che l’autore ne sia consapevole, per esempio da aziende, governi o altri individui. Come già detto, le caratteristiche dei media digitali raggiungono una dimensione globale grazie alla tecnologia della rete, quali Internet e il WWW, un sistema di comunicazione attraverso cui reperire e consultare informazioni accessibili a chiunque. Internet ha una struttura a rete e distribuita, le informazioni sono collocate in migliaia di computer detti server, ai quali altri computer si collegano per richiedere informazioni desiderate, come un sito web; Internet è una rete ridondante: le informazioni vengono suddivise in pacchetti che si separano dal nodo sorgente e si ricompongono poi nel nodo destinatario. L’informazione può seguire percorsi alternativi e l’interruzione di una linea non pregiudica il loro arrivo a destinazione. Internet è un sistema aperto, dato che chiunque abbia accesso a una linea telefonica o di banda larga può accedervi. Ogni sito web per essere raggiunto ha un suo “indirizzo”, un codice alfanumerico che lo identifica, il cosiddetto dominio. Per comprendere le reti e i media digitali è importante differenziare i tre livelli che li compongono: 1. Livello fisico: risorse naturali, come l’etere usato per trasmissioni radio, e le infrastrutture tecnologiche che costruiscono l’ambiente digitale di rete: personal computer, server, cavi telefonici, satelliti. 2. Livello logico: software, standard, protocolli, come ad esempio il Tcp/Ip usato per il trasferimento di informazioni su internet, o ancora i software che gestiscono le piattaforme online. 3. Livello dei contenuti: le informazioni in linguaggio umano che vengono prodotte o scambiate in rete, da testi, a immagini, video. Tecnologie e società Le scienze sociali come la sociologia o l’antropologia si occupano da tempo del legame tra società e tecnologie. Emergono diverse prospettive: Determinismo tecnologico: In più Castells descrive la società dell’informazione come una società strutturata in reti. Egli parla di uno di uno “spazio dei flussi”, ossia gli spazi fisici e mediatici dove circolano saperi, competenze, denaro e persone. Questo spazio si configura come una rete aperta in cui le frontiere tra stati, organizzazioni e comunità sono sempre meno importanti e una parte crescente di ricchezza è proprio data dagli scambi tra questi. Restano invece tagliati fuori coloro che non hanno accesso a internet o non sanno usarlo, dunque, per Castells la spaccatura principale della società dell’informazione non è più legata solo al conflitto di classe tra capitale e lavoro ma avviene piuttosto tra chi ha accesso ai flussi e chi ne è escluso. Questi ultimi tendono a contrapporsi alla cultura globalizzata rinforzando identità territoriali o culturali che diventano modalità di resistenza e di opposizione. Al contrario, nello spazio dei flussi i conflitti sono smorzati e gli individui competono liberamente per un successo o un fallimento, che dipende essenzialmente dal loro successo come imprenditori di se stessi. Il primo a investigare sul ruolo dell’informazione e della conoscenza come fattore produttivo nelle economie capitaliste avanzate è stato l’economista Fritz Machlup che iniziò già negli anni ’30 a studiare l’effetto dei brevetti sullo sviluppo economico e che negli anni ’60 introdusse l’espressione “economia della conoscenza” nel linguaggio comune. Il sociologo marxista Daniel Bell ampliò la visione di un nuovo ordine economico e sociale suggerendo che l’importanza della produzione e della circolazione di informazione come fattore economico avrebbero reso meno influenti le grandi ideologie della modernità, come ad esempio il comunismo, organizzate intorno al conflitto tra capitale e lavoro. A suo parere, i nuovi lavoratori della conoscenza sentivano di non avere alcun legame con le visioni ideologiche di destra o di sinistra, ma erano principalmente interessati alla propria autorealizzazione consumista. Queste idee ebbero risonanza anche in Italia in Alessandro Pizzorno, sociologo che suggerì che il peso crescente del nuovo ceto medio emerso dal boom negli anni ’60 stava trasformando l’Italia in una società in cui il collante sociale erano la crescita economica e la possibilità di generare nuove opportunità di consumo, non più le grandi ideologie. Nel decennio successivo queste idee si consolidarono convergendo verso un’idea di società post-industriale, fondata su tre componenti principali: 1. La riduzione del peso economico della produzione materiale effettuata nelle industrie e il consolidarsi di una nuova economia dell’informazione e dei servizi; 2. La centralità della produzione di sapere e in particolare della ricerca scientifica come motore dello sviluppo economico e sociale; 3. Il ruolo di potere assunto dalla pianificazione e dall’organizzazione di processi complessi, e di conseguenza la sostituzione della vecchia classe dirigente con un ceto di burocrati e tecnici che esercitavano il potere in modo anonimo e in apparenza senza interessi politici. Negli stessi anni, i teorici del postfordismo mettevano l’accento sulle trasformazioni delle forme di produzione. I computer e l’automazione delle macchine permettono di superare l’organizzazione rigida e gerarchica della fabbrica fordista, inoltre le macchine sono facilmente riconfigurabili e quindi possono rispondere alle esigenze di un mercato in continuo mutamento. Negli anni ’80 si affianca poi l’idea di società postmoderna, un’espressione resa popolare dal filosofo francese Lyotard secondo il quale i cambiamenti nella produzione di cultura e di sapere, con l’affermarsi della società dei consumi, avrebbero come conseguenza effetti profondi nelle società moderne. Il teorico dei media McLuhan fu tra coloro che studiarono questo cambiamento sociale alla luce dei nuovi media introdotti negli anni ’60, in particolar modo la televisione commerciale. Media come questi, secondo McLuhan, erano destinati a trasformare l’umanità in un villaggio globale, cioè in un mondo in cui i media elettronici rimpiccioliscono il mondo permettendo di comunicare in tempo reale a grande distanza. Anche la diffusione di internet a metà degli anni ’90 provocò reazioni e aspettative simili a quelle sviluppate con l’arrivo della tv o della stampa popolare. In particolar modo si iniziò a diffondere l’idea del tecnoliberismo, poi riassunta nella formula “ideologia californiana”, una denuncia della visione secondo la quale la diffusione di internet porterà a un accesso diffuso di sapere e informazione e che quindi cancellerà le differenze di potere tra consumatori e produttori, tra lavoratori e datori di lavori e tra stato e cittadini. Anche se l’ideologia californiana esaspera il potenziale liberatorio di internet, riesce comunque a cogliere l’importanza di movimenti e idee radicali nello sviluppo della rete: si pensi ad esempio alle comunità hacker o al software libero e alla loro capacità di intervenire nella sfera politica, o all’espansione delle pratiche e delle culture legate all’hacking al di fuori del mondo del software per contaminare settori come la biologia e la manifattura. A tal proposito, molti autori hanno ripreso le idee di Max Weber, descrivendo l’emergere di un nuovo spirito del capitalismo fondato sui valori delle controculture degli anni ’60: alla base del capitalismo vi sarebbero elementi culturali provenienti da movimenti di opposizione che vengono riadattati come parte della cultura di un capitalismo flessibile e consumistico. Da una particolare tradizione di teorici sociali marxisti emerge invece il concetto di capitalismo cognitivo, cioè una forma di organizzazione della produzione che, grazie ai media digitali, si basa sullo sfruttamento delle capacità cognitive degli individui. Questi teorici sottolineano come l’intelligenza collettiva e la cooperazione sociale siano da un lato sfruttate dal capitalismo, dall’altro costituiscano anche le possibili basi di una nuova alternativa. Il futuro della società dell’informazione Le nuove tecnologie, come già detto, rendono possibile l’automazione e l’organizzazione della produzione, diminuendone il costo e diminuendo il potere contrattuale della classe operaia. I conflitti hanno luogo tra i membri della società dell’informazione e coloro che sono esclusi, confermando la tesi di Castells. Inoltre, le identità e i riferimenti politici e culturali divengono in questo contesto globali e locali al contempo, ma sempre meno legati alle nazioni. L’ipotesi di una eguaglianza maggiore nella società dell’informazione torna ciclicamente, ma in chiave spesso utopistica: dalla metà degli anni ’70 si assiste ad una crescente disuguaglianza salariale ed emerge una disuguaglianza globale, con l’accentuarsi della divisione tra le regioni che producono materie prime o beni materiali, come alcuni paesi africani, e quelle che gestiscono i processi di innovazione, come la Silicon Valley in California. Il futuro della società dell’informazione è aperto e dipende da molteplici variabili, non solo quelle relative al progresso tecnologico. - Un campo importante, ad esempio, è quello delle politiche pubbliche nazionali e sovranazionali, che siano sulla regolamentazione delle telecomunicazioni, sui diritti dei lavoratori o sulla proprietà intellettuale. - I computer e le tecnologie digitali sono poi il frutto delle scelte e delle ideologie di attori molto diversi tra loro. Se la ricerca militare è più soggetta a un controllo centralizzato, le comunità di scienziati hanno un approccio di apertura e scambio delle conoscenze. Le controculture e l’ambiente hacker insistono sulla libertà di accesso e la democratizzazione delle reti. Le imprese, con strategie di marketing e la loro capacità di appropriarsi di innovazioni pensate inizialmente per scopi diversi da quelli commerciali. La società dell’informazione è un progetto che continua a svilupparsi in nuove direzioni. Alcuni esempi sono le smart cities, un progetto di controllo di flussi di persone, cose ed informazioni tramite sensori e processori nel contesto urbano oppure lo sharing economy che espande il controllo delle imprese a lavoratori che però restano proprietari dei mezzi di produzione (Uber). Al cuore di questi progetti resta il sogno di rendere il mondo calcolabile e di usare questo potere per organizzare la produzione e controllare la popolazione. CAPITOLO 3 – CULTURE E IDENTITA’ Socialità e media digitali Le relazioni sociali sono sempre state influenzate dalle tecnologie della comunicazione e in particolar modo dai media digitali, i quali hanno avuto una velocità di penetrazione senza precedenti: sono passati da poche migliaia a diversi miliardi di utenti in soli vent’anni e sono stati caratterizzati dal rapido succedersi di nuove piattaforme di comunicazione. Due visioni contrapposte: da un lato si afferma che i media digitali rappresentano un mondo sociale estraneo alla vita quotidiana, dall’altro che essi hanno effetti dirompenti sulle forme di socialità. Tuttavia, i media digitali odierni sono caratterizzati da una forte integrazione tra vita online e vita offline, al punto che queste distinzioni sembrano perdere di significato. Negli anni ’90, quando si accedeva a internet tramite modem telefonico e, quando le principali piattaforme in uso erano pagine web, mailing list, forum e Bbs, si poteva ragionevolmente parlare di un’esperienza della rete distinta dal mondo reale, un cyberspazio in cui era possibile nascondere la propria identità usando nomi o identità alternative. Oggi gli individui in rete tendono a postare sui media contenuti legati alle attività, alle emozioni o agli avvenimenti che appartengono alla loro vita quotidiana. Inoltre, tecnologie mobili come smartphone e tablet permettono di accedere ai servizi online e ai social ovunque e in qualsiasi momento. Le tecnologie mobili offrono uno stile di vita “always on”, cioè continuamente online, in cui le relazioni sociali sono sì mediate, ma non per questo meno significative. In questo senso la differenza online e offline tende a scomparire, in quanto i profili social sono una parte della vita sociale quotidiana e dell’identità complessiva delle persone. I media sociali Tra i servizi che dominano il panorama dei media digitali vi è una serie di piattaforme dette social network o media sociali. Nel corso degli anni 2000 questi servizi hanno conosciuto una vera e propria esplosione e ne esistono diversi, oltre a Facebook possiamo ricordare LinkedIn (usato per mettere in contatto reti professionali), Twitter (piattaforma di microblogging), Badoo (sito di dating), Renren (equivalente di Facebook asiatico) e Instagram (sito dove è possibile condividere fotografie e immagini). Secondo una definizione più diffusa si tratta di siti che permettono di: Creare un profilo pubblico o semipubblico secondo le possibilità offerte dalla piattaforma; Costruire una rete di contatti (amici su Facebook, follower su Twitter) di cui si possono vedere contenuti e informazioni nei relativi profili; Creare o aderire a comunità tematiche, gruppi di discussione o reti che non sono strettamente legate alla propria cerchia di contatti. In base a questa definizione il primo social network fu SixDegrees, lanciato negli USA nel 1997, ma il primo ad avere una diffusione di massa fu Friendster nel 2003 e nello stesso anno si assistette al lancio di MySpace. Nel 2004, invece, vi è la nascita di Facebook che però esplose nel 2006. Le piattaforme di questi siti non solo permettono un’interazione dei contenuti pubblicati nella propria bacheca, ma offrono una comunicazione più ampia con le tecniche di chat, instant messaging, e-mail, telefonia VoIP e sistemi di commenti. L’integrazione di questi servizi li hanno resi competitivi con i motori di ricerca come gatekeeper, ovvero come strumenti attraverso i quali gli individui accedono ai contenuti della rete, e con i fornitori di servizi di mail per quel che concerne la messaggistica. Molte di queste piattaforme sono nate per facilitare l’organizzazione di relazioni sociali attorno a interessi comuni, ma i media forniscono anche servizi usati per altri scopi, come fini di marketing da parte di aziende, partiti politici o associazioni. Inoltre, i social network non sono sempre globali ma spesso si articolano su base territoriale e linguistica, come Renren in Asia o Sina Weibo, equivalente cinese di Twitter. Oggi i media sociali sono in stragrande maggioranza gestiti da aziende private che hanno sviluppato modelli economici che permettono loro di assicurarsi guadagni, a partire dalle informazioni che gestiscono. La maggior dei servizi è infatti gratuita: la principale ricchezza detenuta dalle piattaforme dei media sociali non è costituita dagli introiti provenienti dagli utenti bensì dalla possibilità di utilizzare le informazioni che questi forniscono al sito. Questi dati vengono aggregati da software di profilazione, che permettono cioè di creare profili degli utenti in base ai loro interessi, alle loro comunicazioni, ai siti che visitano e alle loro reti di amicizie. Le informazioni raccolte possono essere poi vendute Critiche alla socialità in rete - Si sostiene che le relazioni in rete siano più deboli e meno coinvolgenti. In parte ciò è vero per quanto detto prima. D’altra parte, bisogna ricordare che ogni nuova tecnologia genera ondate di critiche una volta introdotta. Negli anni ’60 la tv era accusata di distruggere le culture tradizionali; negli ’80 le videocassette di generare nuovi livelli di violenza gratuita, colpa poi attribuita ai videogiochi negli anni ’90. Negli ultimi anni un fenomeno come il sexting ha creato ansia rispetto al ruolo sociale di servizi di condivisione di foto con testi come Snapchat. In realtà, anche il telefono fisso viene usato dai predatori sessuali ma nessuno darebbe la colpa alla tecnologia stessa, in quanto ormai pienamente accettata dalla società. - Altro argomento di critica contro le tecnologie digitali è dovuto alla loro capacità di creare mondi paralleli che isolano l’utente. I media sociali ci proietterebbero in un mondo in cui saremmo insieme, data la possibilità di interazione con altri utenti, ma sostanzialmente da soli. In questo quadro si inseriscono anche le nuove tendenza della robotica che cercano di simulare, con vari gradi di successo, il calore e l’autenticità dell’affettività umana. Le ricerche empiriche effettuate sin dagli anni ’90 concordano però nel tracciare un quadro differente: le persone che usano la rete rendono ad avere reti sociali più estese e diversificate rispetto chi non ne fa uso. In questo senso internet non allontanerebbe le persone dallo spazio pubblico ma diverrebbe un fatto che alimenta la ricchezza della vita e del capitale sociale. - Altre osservazioni emergono invece rispetto il tema della privacy. Le piattaforme social hanno scardinato la concezione di privacy basata sul diritto a una vita privata non visibile in pubblico, come del resto già accaduto con l’avvento della tv per persone con una certa notorietà pubblica. Del resto, la socialità in rete spinge gli individui a condividere e mostrare informazioni personali e intime. Non è possibile ignorare la necessità di norme stringenti per la tutela della privacy e di tecnologie che permettano, ad esempio, di cancellare un’informazione che non si vuole più mostrare al pubblico. Queste problematiche hanno rilievo non solo per la privacy individuale ma anche per le forme di sorveglianza e controllo sociale messe in atto dai governi e dalle aziende, come ad esempio da parte delle forze di polizia o per scopi di marketing. Tuttavia, se da una parte gli utenti hanno rinunciato parzialmente al concetto tradizionale di privacy per essere parte delle forme di socialità della rete, dall’altra sono consapevoli su come negoziare i livelli di privacy e quindi creare un controllo attivo sulle informazioni e le interazioni messe in atto. CAPITOLO 4 – COLLABORAZIONE ONLINE Media collaborativi Tra le trasformazioni che hanno avuto impatto sulla società dell’informazione un posto di rilievo è occupato dai fenomeni di partecipazione attiva e di collaborazione alla produzione di contenuti e informazioni che coinvolgono gli utenti della rete e che hanno ricadute su tutti i settori culturali, dal giornalismo, alla scienza, ai software, al marketing. Gli utenti stessi diventano produttori di contenuti in prima persona o possono intervenire valutando e migliorando i contenuti forniti dall’azienda, si parla infatti di contenuti creati dagli utenti. Il fenomeno è esploso a partire dagli anni 2000 con il passaggio da forme più statiche e unidirezionali di comunicazione al web collaborativo: - I media broadcast, come televisione e stampa, sono diretti da un centro che invia il messaggio a molti ricevitori periferici. Il pubblico può scegliere cosa leggere o guardare, ma non può contribuire in prima persona a fornire un feedback ai produttori di contenuti. - Oggi invece la rete è costituita da applicazioni e servizi online che rendono possibile un livello maggiore di interazione tra gli utenti e il servizio stesso. L’utente assume un ruolo centrale, dato che chiunque ha la possibilità non solo di fruire dei contenuti, ma di crearli e modificarli in prima persona. Esempi (molto diversi ma hanno tutti in comune tre elementi: esaltazione della partecipazione; la creazione di contenuti; condivisione di informazioni). Blog : diari o giornali online che danno vita a quella che è stata chiamata blogosfera, ossia un ambiente formato da blog in comunicazione tra loro. Produrre un sito web oggi non richiede competenze informatiche specifiche, è molto semplice, la pubblicazione online così non è più riservata ai soli informatici ma giornalisti, scrittori e semplici utenti della rete sono diventati i principali produttori di contenuti. Wiki : software di scrittura collettiva che permettono a più persone di lavorare contemporaneamente a uno stesso testo o documento. - L’esempio più noto di servizio basato su wiki è Wikipedia, enciclopedia online scritta in modo collaborativo. – - Servizi commerciali come Youtube o Instagram permettono agli utenti di pubblicare, taggare e condividere video e fotografie (il successo di questi servizi è dovuto non solo all’uso di software collaborativi ma anche alla diffusione di strumentazione a basso costo come telecamere o macchine fotografiche digitali. - Altri servizi commerciali come eBay e Amazon usano informazioni prodotte dagli utenti per migliorare il proprio servizio. - In modo simile funzionano le piattaforme di mashup, che permettono di aggregare informazioni prese da fonti diverse per creare un sito o un’applicazione. Un esempio sono le Google Maps, mappe interattive a cui gli utenti possono aggiungere informazioni creando quindi mappe personalizzate che aggregano informazioni provenienti da altri siti web. Attraverso altre tecnologie, come il tagging, gli utenti possono aggiungere a un contenuto un tag, un’etichetta che permetta di capire ad altri utenti di che contenuto si tratta e a cosa a esso è collegato. I sistemi di rating sono invece sistemi tramite i quali gli utenti possono votare, o meglio fornire una valutazione numerica rispetto a un contenuto. L’esplosione del web collaborativo non è soltanto una questione tecnologica. Con la nascita dei software e delle piattaforme collaborative si è assistito anche all’emergere di una cultura della partecipazione: il pubblico che riceve passivamente i messaggi veicolati dai media broadcast si trasforma in una pluralità di pubblici attivi che non si limitano a esercitare una scelta rispetto i contenuti che vogliono fruire, ma partecipano in prima persona alla loro produzione. Da soli consumatori divengono così prosumer, ossia al contempo produttori e consumatori (ricollegarsi a partecipation inequality e percentuali: E’ ormai nota la teoria di Nielsen sulla participation inequality, secondo cui il 90% degli utenti fruisce i contenuti web passivamente, il 9% partecipa moderatamente e solo l’1% in maniera intensiva. Non è solo la quantità della partecipazione, ma anche la qualità ad essere oggetto di osservazione. L’intervento dei fruitori in realtà si limiterebbe a forme “pigre” di azione, come lasciare un commento, mettere un like, postare una foto. In questo senso è stato rilevato che allora Internet consiste in una modalità di partecipazione non molta diversa dai media tradizionale. La rete può essere uno strumento, ma la partecipazione, il sentimento, il rapporto tra cittadini e istituzioni non può essere creato interamente ed esclusivamente dalla sola rete). Il dilemma della partecipazione Le prime ricerche sul web collaborativo e sulla cultura della partecipazione tendevano a dipingere questi processi come forme di democratizzazione: nella realtà gli utenti contribuiscono solo marginalmente ai processi decisionali gestiti da grandi industrie culturali e grandi imprese. Si possono analizzare alcuni dei fattori organizzativi e politici che determinano la differenza tra semplice condivisione o produzione di contenuti da parte degli utenti e forme di collaborazione in cui si può parlare di vera e propria partecipazione a un progetto collettivo: Intenzionalità: i partecipanti sono consapevoli di prendere parte a una collaborazione e hanno obiettivi condivisi oppure i contenuti da loro creati vengono aggregati e gestiti da altri? Controllo delle modalità: gli utenti possono mettere in discussione le regole della partecipazione oppure le accettano passivamente? Proprietà: chi possiede il frutto della collaborazione e ne ricava un profitto? Accessibilità: chi può partecipare e come? Uguaglianza: ci sono delle gerarchie oppure tutti i partecipanti hanno egual peso decisionale? Analizzare i processi di condivisione e collaborazione in rete mediante queste variabili può aiutarci a distinguere tra reale partecipazione democratico e fenomeni differenti in cui il lavoro individuale e collettivo degli utenti viene aggregato da aziende private a fini di profitto senza che l’utente abbia potere decisionale in merito. Questa ambivalenza è sfruttata dalle stesse imprese che gestiscono servizi come Youtube, Facebook o Google. Le imprese del web tendono a definirsi “piattaforme” proprio per ribadire l’apertura dei loro servizi agli utenti, richiamando questa parola infatti uno spazio sopraelevato e orizzontale. Presentarsi come piattaforme per la libera espressione degli utenti è quindi funzionale agli obiettivi economici delle imprese che li gestiscono. Inoltre questi servizi usano la retorica di neutralità per evitare di essere ritenuti responsabili per eventuali contenuti illegali pubblicati dagli utenti, per esempio in caso di pirateria o diffamazione. Autori hanno poi messo in discussione la presunta orizzontalità e democraticità del web collaborativo: chiunque può scrivere o correggere una voce di Wikipedia, ma ciò non significa che l’enciclopedia sia perfettamente democratica. Per esempio, la maggior parte degli editor, che hanno potere di veto sulle pagine e i contenuti, sono uomini, e a causa di questo squilibrio Wikipedia si è dimostrata poco permeabile ad argomenti come il femminismo. In reazione, gruppi femministi hanno organizzato ritrovi in cui gruppi di persone si dedicano a includere nuove voci su figure importanti in questo ambito e ampliare quelle esistenti. Al di là dell’aspetto tecnologico, bisogna analizzare la dimensione politiche più profonde che modellano la distribuzione del potere nelle piattaforme del web collaborativo. Dal software libero al peer-to-peer Il successo delle pratiche di cooperazione in rete ha posto l’attenzione sulla produzione peer-to-peer (P2P). In questi progetti molti individui possono collaborare in forma coordinata, ma non organizzata secondo le forme gerarchiche tradizionali, per questo si parla di gestione orizzontale, in cui le decisioni sono prese da tutti gli utenti. Il caso più conosciuto di creazione cooperativa di informazione è quello del free software: un esempio è il sistema operativo Gnu/Linux creato inizialmente dalle comunità hacker nordamericane ed europee. Il software libero, nato alla fine degli anni ’80 da un’intuizione di Stallman, un programmatore del MIT, è basato su licenze che permettono a chiunque di usarlo, modificarlo e distribuirlo, a differenza di Windows della Microsoft. Il free software può essere gratuito o a pagamento ma è libero perché si basa su una concezione liberale del diritto di parola, che nel caso del software si fonda sul diritto a modificare, adattare e redistribuire un programma. Secondo Stallman, un software libero deve garantire quattro libertà fondamentali: 1. Libertà di eseguire il programma, per qualsiasi scopo 2. Libertà di studiare come funziona il programma e di modificarlo in modo da adattarlo alle proprie necessità 3. Libertà di redistribuire copie in modo da aiutare il prossimo 4. Libertà di migliorare il programma e distribuirne pubblicamente i miglioramenti apportati dall’utente A differenza di Windows, le installazioni del sistema operativo Linux si attestano solo intorno all’1/2% su scala mondiale, ma Linux ha avuto comunque importanti applicazioni, come supercomputer (computer con enormi capacità di calcolo), dispositivi e smartphone (sistema operativo Android di Google). Nel corso degli anni gli sviluppatori che lavorano come volontari alla programmazione di prodotti basati su Gnu e Linux sono migliaia, dando vita a decine di progetti tramite il sistema del forking: le licenze usate dal software libero permettono a chiunque di modificare il progetto originario e lavorare a una propria versione senza dover ripartire da zero. CAPITOLO 5 – SFERA PUBBLICA E POTERE Dal pubblico ai pubblici attivi Nella tradizione degli studi sui media e sulla comunicazione il pubblico è considerato attivo. Gli individui che ricevono un messaggio non lo percepiscono passivamente secondo significati predefiniti, ma sono in grado di interpretarlo, valutarlo e rispondere in forme differenti. Se questo è vero per i media broadcast (cioè quelli distribuiti da pochi a molti, come tv, radio, stampa), con i media digitali il pubblico si diversifica ulteriormente (si parla ormai di pubblici dei media) e assume un ruolo anche nella produzione e nella distribuzione dell’informazione->web collaborativo. La transizione verso una sfera pubblica in rete si basa su diverse caratteristiche dei media digitali: Accessibilità : il costo dell’apertura di un canale di comunicazione, così come di produzione e distribuzione di informazione, si è abbattuto sino al punto di diventare nullo, dunque facilmente accessibili agli utenti in rete o gruppi sociali non dotati dei mezzi finanziati necessari per avviare un’attività nel campo dei mass media (blog, giornali online, forum, social network, piattaforme per la telefonia mobile); Struttura distribuita : si passa da un’architettura centralizzata tipica dei mass media commerciali all’architettura distribuita e non gerarchica della rete, nella quale tutti i nodi hanno pari dignità e l’informazione può spostarsi da uno all’altro senza passare per un nodo centrale. Commistione tra pubblico e privato : la partecipazione alla vita pubblica è espressa tramite la condivisione di contenuti personali attraverso i profili privati sui media sociali. L’agire collettivo si basa sulla condivisione di identità e di reti di relazioni personali piuttosto che sull’adesione a ideologie politiche. Sorveglianza : la maggior parte delle attività che avvengono in rete sono sottoposte a sorveglianza sistematica. Infatti le imprese del web e i governi raccolgono informazioni sulla maggior parte delle comunicazioni digitali o ne conservano copie. Esempio: una piattaforma come Twitter permette a singoli utenti di aprire microblog in cui postare contenuti che non superino 140 caratteri; oltre alle classiche dinamiche di amicizia che caratterizzano i social network, la peculiarità di Twitter è quella di favorire la nascita di pubblici temporanei intorno a una notizia o un tema grazie al sistema degli hashtag, cioè parole chiave che gli utenti inserisco nei loro post. Alcuni tipi di pubblici, infine, non si limitano a produrre e distribuire informazione, ma intervengono anche sull’infrastruttura tecnologica della rete, sulle piattaforme di gestione dell’informazione e i software. Essi sono stati definiti pubblici ricorsivi ed esempi sono le comunità di programmatori di software liberi. In questo contesto, Manuel Castells parla della capacità di riprogrammare le reti di comunicazioni, una delle attività cruciali per il successo dei movimenti sociali. La sfera pubblica “Sfera pubblica in rete”, ossia il luogo dove le persone si incontrano per discutere nelle società moderne, dunque, spazi fisici ma anche spazi mediati. Sebbene la sfera pubblica non nasca propriamente con i media digitali, essa ne viene trasformata in profondità. Hannah Arendt ha definito la sfera pubblica come il luogo dove è possibile radunarsi e agire insieme per negoziare le regole di vita comune. Habermas colloca l’emergere di una sfera pubblica nel mondo occidentale, indipendente dai poteri statale e religioso e fondata sul sistema dei media basati sulla stampa ma anche luoghi di ritrovo come i caffè. E’ in questa dimensione che gli individui sono liberi di criticare ed elaborare temi politici senza subire la direzione dell’autorità, che avviene la formazione dell’opinione pubblica. Tuttavia, la concentrazione di potere nelle mani dei produttori dell’informazione (il c.d. quarto potere) fa sì che i mass media controllino il flusso di informazione, con la possibilità di filtrarlo e dirigerlo verso scopi particolari. Uno dei processi di trasformazione della sfera pubblica nell’era digitale è quello della disintermediazione, cioè l’aumento di indipendenza da figure professionali che hanno storicamente un ruolo di intermediare tra il pubblico e l’informazione. Grazie alla tecnologia, gli individui hanno accesso diretto a una mole immensa di informazione che erano prima appannaggio di soli tecnici, informatici e professionisti. Nasce così il citizen journalism, la produzione e la distribuzione di notizie da parte di individui che non sono giornalisti professionisti e attraverso canali alternativi a quelli delle istituzioni comunicative broadcast. Gli stessi giornali tradizionali si sono adattati al cambiamento in atto, aprendo edizioni online in cui non solo cambia lo strumento di lettura utilizzato (sito web per pc, smartphone o tablet) ma anche l’interazione con i lettori. I confini tra mass media e le nuove forme di comunicazione scompaiono, e i giornali integrano le news con sistemi di interazione con i lettori, come blogging, commenti agli articoli, sistemi di rating e uso di social network. Questi strumenti e queste pratiche hanno modificato in profondità il sistema con cui le notizie vengono prodotto e distribuite. Una delle funzioni principali dei giornali è il gatekeeping, cioè il potere di selezionare quali notizie raggiungeranno il pubblico e quali no. Secondo diversi autori, questa funzione non è più saldamente nelle mani dei media broadcast, ma piuttosto è distribuita tra gli utenti della rete che producono, selezionano, vagliano notizie e informazioni. Infine, è cambiato anche il ruolo dei mass media tradizionali come detentori del potere di agenda setting, cioè la capacità di dettare l’agenda del dibattito pubblico scegliendo le notizie e i temi di cui parlare: le notizie rilevanti infatti possono emergere dai media o da blog minori, per poi raggiungere le grandi testate. La sfera pubblica sarebbe così in grado di garantire i filtri di attendibilità e rilevanza un tempo riservati ai mass media che oggi non sono più gli unici intermediari tra cittadini e informazione. La rete ha favorito anche l’emergere di attori come WikiLeaks, una piattaforma per la pubblicazione dei leak, cioè “perdite”, “fughe” di notizie. WikiLeaks è un’organizzazione non profit internazionale basata su un sistema di raccolta di documenti coperti da segreto di stato o industriale che le persone possono fornire in forma anonima grazie a sistemi di criptazione. L’organizzazione si occupa poi di verificarne l’autenticità e di pubblicarli allo scopo di aumentare la trasparenza dei governi e delle imprese tramite una forma di controllo del loro operato messa in atto da tutti gli utenti della rete. CONTRO: Esempi come il citizen journalism o WikiLeaks non bastano però a decretare la democraticità della sfera pubblica in rete, soprattutto se analizziamo il ruolo delle imprese private e le forme di controllo e censura che caratterizzano la rete. La maggior parte delle interazioni all’interno della sfera pubblica in rete avvengono su piattaforme digitali sviluppate, possedute e controllate da attori privati. Tramite algoritmi, le grandi aziende come Google, Facebook o Microsoft decidono le forme di interazione in rete e ne ricavano profitti. Si tratta di nuove forme di gatekeeping, spesso di tipo monopolistico. - Ad esempio, negli anni 2000 Google ha sistematicamente censurato, per gli utenti cinesi, informazioni relative alle manifestazioni e le successive repressioni che hanno avuto luogo in Piazza Tienanmen nel 1989 - Ricerche sui blog effettuate negli anni ’90 hanno dimostrato che la blogosfera era caratterizzata da fenomeni come l’omofilia: i blog tendono cioè a linkare fonti di informazioni del proprio campo politico, riducendo così la diversità e il confronto tra idee - “The Guardian”, quotidiano britannico, nel 2016, analizzando vari commenti in rete, ha notato che tra i 10 giornalisti più colpiti da commenti violenti e insulti otto erano donne, mentre gli unici due uomini erano neri. Questi spazi tendono a favorire, generalmente parlando, la polarizzazione del dibattito, dando vita alla cyberbalcanizzazione, cioè alla creazione di gruppi di persone fortemente omogenei al loro interno e in lotta rispetto gli altri. In questo modo possono venire a mancare il dibattito e il confronto fra orientamenti e diverse prospettive che caratterizzano una sfera pubblica virtuosa. Politica e democrazia Anche le relazioni di potere, oltre che quelle comunicative, sono sistematicamente organizzate attorno le reti. A partire dagli anni ’90 si è assistito a un aumento progressivo del numero di cittadini che si informano o partecipano al dibattito politico tramite i media digitali, mentre sono diminuiti coloro che utilizzano soltanto altri media come i giornali, le radio o la televisione. Questo cambiamento non è graduale e non omogeneo nelle diverse aree del mondo e nei diversi gruppi sociali: ad esempio, l’Italia ha vissuto con ritardo l’emergere di una sfera pubblica in rete rispetto agli USA o al Nord Europa. Gli effetti di questi cambiamenti nella sfera pubblica dipendono anche dalla società in cui si verificano: vedi ultima parte pt.1 Internet e limitazioni in rete, sia nei regimi, sia – in modalità diverse – nelle democrazie. I movimenti sociali Se il potere politico risiede nella capacità di programmare le reti, i movimenti che vogliono contrastare quel potere o agire per il cambiamento devono basare la propria azione sul tentativo di riprogrammare le reti, cioè utilizzarle per comunicare i propri contenuti e i propri valori modificandone lo scopo originario o trovando nuovi modi per sfruttarne le caratteristiche tecnologiche e sociali. I movimenti sociali sono sempre stati sperimentatori e innovatori nel campo dell’azione politica tramite i media digitali. - Tra i primi esempi di movimento che ha fatto della rete un canale di informazione vi è il movimento zapatista messicano, il quale dopo la sollevazione del 1994, ha creato una rete di sostegno globale grazie all’uso di media indipendenti online. - Lo stesso uso dei media digitali venne fatto anche dalle opposizioni in Medio Oriente, tanto che si è parlato di una Twitter revolution in Iran nel 2010 e nel corso della “primavera araba” nel 2011. - Nel mondo occidentale, esempi di movimenti che attraverso i social hanno avuto successo nelle mobilitazioni sono stati il 15M in Spagna e Occupy Wall Street negli USA. Critici del ruolo dei media digitali riguardo la partecipazione politica hanno sottolineato che la maggior parte degli utenti in rete si limita a mettere in campo attività di slacktivism (gioco di parole tra “slack” ossia pigro e attivismo), come postare commenti o foto di significato politico sui propri profili oppure firmare petizioni online. Tutte attività che richiedono un investimento minimo e che non portano ad alcun risultato in termini di cambiamento sociale o di influenza sui processi decisionali. Sebbene i media non siano sufficienti per creare mobilitazioni di massa delle volte, sono utili per far viaggiare rapidamente informazioni, come è stato nel caso del movimento Black Lives Matter negli USA. I movimenti sociali, quindi, si fondano su una combinazione di presenza online e offline. Si è iniziato a parlare di smart mob, ossia gruppi di utenti della rete che coordinano comportamenti collettivi tramite l’uso di dispositivi mobili, mentre Castells ha parlato di “comunità insorgenti istantanee”. I media digitali permettono anche l’emergere di movimenti che fondano la propria attività esclusivamente sulle reti, senza che avvengano mobilitazioni in presenza. L’esempio più noto è quello della rete di hacker Anonymous, nel 2003, nel forum 4chan, e divenuto famoso per le sue azioni basate su attacchi informatici che rendono inagibili i siti presi di mira, ponendo in tal modo una critica al potere politico e finanziario. Sorveglianza e controllo Qualsiasi attività in rete, che si tratti di accesso a un sito, attività su un motore di ricerca, interazione su un media sociale o scambio di messaggi tramite smartphone, lascia delle tracce che vengono raccolte e monitorate. Si determina così un fenomeno dato da due processi distinti ma legati tra loro: - Cattura dei dati : regime di controllo che usa le informazioni estratte dall’analisi dei comportamenti e delle interazioni in rete per aumentare l’efficienza delle forme di produzione tipiche delle aziende del web. - Sorveglianza : processo di raccolta e analisi dei dati da parte degli attori pubblici o privati al fine di controllare il comportamento degli individui. Messa in atto soprattutto dagli stati per controllare i propri cittadini e si basa su accordi con le imprese del web. Mentre la cattura dei dati da parte delle aziende permette di modificare l’esperienza mediale degli utenti, la sorveglianza è surrettizia e avviene in forma segreta e non percepibile. Specularmente, è nato un fenomeno di resistenza alla sorveglianza che si basa su tecnologie o azioni che permettono di non produrre dati o di renderli non tracciabili o non analizzabili. Esempi: - L’utilizzo di sistemi di crittografia nell’invio di messaggi; - Tecniche di offuscamento che si basano sulla produzione di informazioni false, ambigue, fuorvianti, che rendono la cattura dei dati difficile e meno affidabile. Esempi sono l’uso di nickname per nascondere la propria identità, software come TrackMeNot che mandano ricerche casuali ai motori di ricerca per offuscare le reali intenzioni e le reali ricerche dell’utente o l’utilizzo di sistemi come Tor, il quale crea una rete che maschera la vera provenienza dell’utente che naviga. - Anche scegliere di non partecipare ad alcuni dei servizi web commerciali è interpretabile come una forma di resistenza. Cultura civica e informazione L’emergere di forme di organizzazione politica tramite strumenti e piattaforme online ha fatto parlare della nascita di una nuova cultura civica. I pubblici costituiti da aggregati di persone che attraverso i media digitali si dedicano a perseguire una meta comune, sia esso la creazione di software liberi, la protesta per il riscaldamento globale e così via, non solo danno una possibilità di produrre qualcosa insieme, ma forniscono anche un’educazione civica in quanto abituano i membri alle virtù di condivisione, solidarietà e impegno per una causa comune, spesso, inoltre, tutto ciò sfocia nella creazione di opinioni etiche e politiche. Questi progetti sono dotati di alti livelli di omofilia, dato che tendono a far interagire individui con interessi e valori simili. Per questo le forme di attivismo in rete stimolano la formazione di una nuova cultura civica ma d’altra parte tendono a esasperare i conflitti e a ridurre l’interazione con persone e opinioni diverse. Produzione immateriale: brand e finanza Nell’economia dell’informazione la creazione di valore si sposta dalla produzione di beni materiali alla produzione di beni immateriali, intangibili. 1. Tutto si concentra sull’innovazione, ossia la capacità di creare continuamente novità sia tecnologiche, sia di design, sia di stili di consumo. Questa è la strategia adottata da Apple, che ha saputo lanciare una serie di innovazioni come iPhone o iPad, i quali hanno cambiato il modo in cui la gente interagisce con i media digitali, ponendo grande attenzione anche ad un aspetto sino ad allora poco considerato, ossia l’estetica e il design dei device. 2. Altro aspetto fondamentale è la flessibilità, ossia la capacità di rispondere rapidamente alla domanda di mercato in modo che il numero pressoché esatto di merci necessarie si trovi al posto giusto al momento giusto. 3. Infine, il brand, che non è solo il marchio di un prodotto ma piuttosto la capacità di generare la percezione pubblica di una differenza tra un prodotto e un altro. A partire dagli anni ’80, con l’arrivo dei codici a barre e la diffusione capillare delle carte di credito che rendono tracciabili le operazioni dei consumatori, le imprese hanno cominciato a mettere in atto strategie di customer relations management, vale a dire la gestione delle relazioni con i clienti, cioè il rapporto che la marca è in grado di intrattenere con i clienti. Nascono così le brand community, cioè comunità accumunate dall’affetto e l’interesse a un determinato brand. Spesso le aziende stesse costruiscono piattaforme dove i consumatori possono interagire e utili per raccogliere informazioni che possono essere usate nelle campagne di marketing o per migliorare i prodotti. Queste campagne possono anche essere rischiose per l’impresa stessa, come accaduto nel 2012 a Ikea Italia, il cui sito usato per raccogliere suggerimenti da parte di utenti è stato invaso da commenti negativi a causa di alcuni problemi relativi ai diritti dei lavoratori in un magazzino, danneggiando in tal modo l’immagine dell’azienda proprio attraverso uno dei suoi canali di comunicazione. Il fatto che il brand sia una risorsa intangibile, non toglie che le sue caratteristiche siano legate a beni materiali. Il brand Apple, ad esempio, non può essere slegato dall’esperienza tattile della tastiera e visiva dello schermo dei suoi computer. Per questo, si preferisce usare la definizione di beni ibridi, composti da un livello materiale che si fonde con la componente informazionale del brand. Un’altra dimensione importante dell’economia dell’informazione è quella dei mercati finanziari. Le risorse intangibili gestite tramite le reti, come flessibilità, innovazione e brand vengono valutate all’interno dei mercati finanziari e allo stesso tempo è avvenuto un processo di informatizzazione della finanza stessa. Già negli anni ’70 le società operanti in borsa usavano computer per predire l’andamento dei mercati analizzando i dati disponibili. In seguito il mercato stesso si è spostato gradualmente sulle reti informatiche: i trading pit, dove gli operatori finanziari si scontrano fisicamente per vendere e comprare titoli, sono stati sostituiti da reti digitali. A partire dagli anni ’90 è esploso l’uso di trading bot, cioè programmi di trading basati su forme di intelligenza artificiale. Lavoro e precarietà I media digitali sono legati anche a trasformazioni nelle dinamiche di lavoro e di consumo. - A un livello più superficiale, questi cambiamenti hanno fatto emergere nuove professioni come il web designer, programmatori, amministratori di reti o professionisti della comunicazione sui social. Anche le professioni tradizionali sono state intaccate dall’utilizzo della rete (es. medico che controllo in rete pubblicazioni scientifiche relative a un farmaco, magazziniere che organizza il suo lavoro tramite software di gestione ecc.). Infine, sono cambiate anche le attività di consumo, che avvengono sempre più spesso in rete, tramite siti per acquisti online, pagamenti mediante software online. - A un livello più profondo, invece, occorre sottolineare che nell’economia dell’informazione la creazione di valore si sposta dalla produzione materiale all’organizzazione dei beni immateriali e della gestione di informazioni. Fin dagli anni ’80 la diffusione dei computer e delle reti interne nelle grandi organizzazioni ha mutato radicalmente la natura del lavoro. Dal lavoro impiegatizio o manageriale, in cui ognuno aveva un ufficio e un compito ben preciso, si passa a un’organizzazione più fluida, orizzontale e flessibile. Il lavoro viene organizzato in team incaricati di portare a termine un compito che poi si dissolvono una volta raggiunto il risultato. Il nuovo lavoratore diventa un individuo altrettanto flessibile, capace di spostarsi rapidamente da un team all’altro. Si comincia, pertanto, a porre enfasi sulle capacità sociali dei lavoratori e, dunque, il compito del manager non è solo quello di comandare e controllare, ma anche stimolare entusiasmo e passione da parte dei lavoratori. L’azienda viene presentata non solo come diretta semplicemente al profitto, ma anche come impresa votata al raggiungimento di mete socialmente ed eticamente condivisibili. Classe creativa è un’espressione che si è diffusa a partire dagli anni ’90 e 2000 e che descrive nuove forme di lavoro della conoscenza messe in atto da professionisti urbani delle c.d. industrie creative, legate spesso ai media digitali e che prendono vita soprattutto in contesti urbani come Londra, New York, Milano. La ricetta per lo sviluppo di queste città consiste nel suggerire alle amministrazioni di creare un ambiente consono ai gusti e agli stili di vita delle persone, ristrutturando i centri in abbandono, trasformando vecchie fabbriche in loft e appartamenti e instaurando una politica culturale ricca di concerti, mostre, ristoranti etnici e locali notturni. Il legame con lo sviluppo economico si è però dimostrato debole dal punto di vista della distribuzione delle risorse, poiché le politiche di branding urbano hanno contribuito ad innalzare i valori immobiliari e attirare le classi medie abbienti all’interno dei centri urbani, attivando processi di gentrificazione e speculazione. Inoltre, la produttività immateriale di una città non si poggia solo sulla classe creativa, ma anche e soprattutto su masse di studenti, attivisti e artisti che vivono un’esistenza più povera e precaria ma, la crescita dei valori immobiliari, tende ad espellere i membri della massa creativa meno benestante. La creazione di valore intangibile tende a spostarsi al di fuori delle organizzazioni e a rivolgersi all’impiego di lavoratori freelance, che non godono della stabilità e della sicurezza delle aziende della precedente generazione. Inoltre, va aggiunta l’incapacità dei sindacati tradizionali di trovare risposte a questi problemi di tipo completamente diverso rispetto a quelli dei propri gruppi sociali di riferimento, come operai o lavoratori del pubblico impiego. Inoltre, i lavoratori più precarizzati devono farsi carico spesso di alcuni costi tradizionalmente sostenuti dalle imprese, come spostamenti e formazione. Gli spazi di coworking nelle aree metropolitane sono proprio una risposta all’esigenza di collettivizzare alcune spese sostenute dai freelancer, come le spese per l’affitto di un ufficio o per la tecnologia utilizzata. Si tratta di uffici affittati da gruppi di freelancer in cui ognuno paga una quota mensile o giornaliera per accedere a strumenti di lavoro come scrivania, stampanti, wifi ecc. Le nuove forme di organizzazione del lavoro tendono a far sfumare la differenza tra tempo libero e tempo di lavoro. La flessibilità richiede agli individui di lavorare in qualsiasi momento per rispondere alle esigenze di produzione e i media digitali forniscono strumenti per gestire questo tipo di richieste. Tramite PC, smartphone, tablet, le persone sono infatti connesse anche da casa, nei giorni festivi o durante un viaggio. Essere sempre connessi è un’esperienza comune per chi lavora tramite tecnologie digitali. Diseguaglianze globali e sviluppo Nonostante la retorica di uguaglianza e democrazie che circonda i media digitali, nella società dell’informazione le risorse sono tutt’altro che distribuite equamente. Il digital divide è la disparità tra chi ha accesso ai media digitali e chi no, ma non solo, in quanto il divario non riguarda semplicemente il possedere o meno un computer connesso alla rete. La banda larga, ad esempio, è un fattore fondamentale per garantire non solo l’accesso alla rete, ma anche la qualità di questa. Un altro è la disponibilità di tecnologie mobili, come smartphone e tablet. Il digital divide è particolarmente visibile tra paesi ricchi e paesi poveri e in via di sviluppo. Ma questo divario si verifica anche all’interno di aree omogenee (all’interno del medesimo continente, ad esempio tra Nord Europa e paesi dell’Europa meditarranea; oppure all’interno dello stesso paese, come in Italia nel caso tra Nord/Sud, centri urbani e campagne, centro e periferie). Occorre poi segnalare che il divario digitale non riguarda solo la possibilità di accedere alle tecnologie, ma anche alla capacità di usarle. Intervengono quindi fattori culturali e di educazione. Ad esempio, vi sono differenze legate alla classe sociale (i ceti meno abbienti hanno più difficolta di accesso rispetto i ceti medi); altro fattore di disparità è il genere (le donne hanno meno accesso), anche se in Italia questo gap si sta colmando. Risolvere o colmare il divario digitale è uno degli obiettivi che ciclicamente vengono riproposti dalle istituzioni internazionali, come dimostrato dagli Obiettivi di sviluppo del millennio dell’ONU. Uno degli indicatori del raggiungimento di questo obiettivo era il numero di utenti per internet ogni 100 abitanti. Il gap è andato diminuendo nell’ultimo decennio grazie alla diffusione dei personal computer nei paesi asiatici e sudamericani, ma soprattutto grazie agli smartphone (VEDI APPUNTI PT.1). Resta però da chiarire quale sia il rapporto causa/effetto: il sottosviluppo è causa dello scarso accesso ai media digitali o viceversa? Sulla base della risposta, vengono offerte strategie di risoluzione diverse. La maggior parte delle iniziative intraprese per colmare il gap si basa sull’assunzione per cui fornire tecnologie a un paese povere permetta di ridurre le diseguaglianze: in questa direzione è stato sviluppato nel 2006 il progetto One Lapton per Child, ossia costruire un piccolo computer a basso costo (100 dollari) per i bambini dei paesi in via di sviluppo. Tuttavia, Olpc e altri progetti simili hanno avuto effetti limitati, mentre si sono rivelati importanti per la nascita di un nuovo settore di mercato per i netbook (piccoli PC a basso costo) nei paesi sviluppati. Altri progetti invece si occupano di alfabetizzazione ed educazione alle tecnologie informatiche. Tuttavia, le risposte al problema del digital divide basate soltanto sull’accesso alle tecnologie o all’informazione non sono sufficienti. Occorre tenere sempre presente che il legame tra sviluppo e innovazione tecnologico è molto complesso. - Secondo alcuni economisti sarebbe uno sviluppo convergente, cioè andrebbe in direzione di una maggiore uguaglianza tra paesi poveri e ricchi. Innovazione tecnologica sarebbe esogena. Tramite meccanismi di mercato, un microchip sviluppato nella Silicon Valley può essere trasferito in un paese povero, che appropriandosi di questa tecnologia progettata e prodotta esternamente potrebbe riavvicinarsi ai paesi che fanno innovazione. Tuttavia, questa visione non prende in considerazione le difficoltà relative ai problemi di monopolio e le difficoltà di accesso. - Secondo una prospettiva opposta, lo sviluppo sarebbe divergente. L’innovazione sarebbe un fattore endogeno, cioè il risultato di scelte e investimenti da parte delle aziende e di governi. I paesi importatori di tecnologie dall’esterno si ritroverebbero, infatti, in una situazione di dipendenza rispetto paesi più avanzati. Importare media digitali in una situazione in cui sono carenti le professionalità, i distretti tecnologici o le reti di imprese in grado di assorbire le innovazioni può rivelarsi un’impre