Scarica RIASSUNTO - L'Italia degli anni Settanta: narrazioni e interpretazioni a confronto e più Sintesi del corso in PDF di Storia solo su Docsity! L’Italia degli anni Settanta Narrazioni e interpretazioni a confronto a cura di Fiammetta Balestracci e Catia Papa Rubbettino Università Introduzione L’obiettivo della raccolta di saggi qui proposti è quello di fornire un quadro rinnovato a chi voglia cimentarsi con gli anni ’70, inquadrando la storia nazionale italiana nel contesto internazionale Questi costituiscono da tempo uno specifico ambito di ricerca, non solo in Italia la storiografia occidentale pare convergere sull’interpretazione generale del decennio come caratterizzato da profondi mutamenti strutturali. In Italia il senso comune verte sulla crisi in chiave politico-istituzionale, sugli allarmi dovuti ai mutamenti economici- finanziari interpretati come crisi degli stati a capitalismo avanzato il tutto intrecciato alla parabola del terrorismo. Tutti i temi scelti riflettono argomenti importanti nel decennio che, intersecati tra di loro, possono restituire un’immagine vivida di quello che fu. storico. Incapace di gestire queste contraddizioni, dal 1974 la politica statunitense verso l’Italia passò dall’unilateralismo al coinvolgimento di altri alleati europei. Ciò comportò una minore ingerenza interna negli equilibri politici dell’Italia e uno spostamento di accento sulle questioni economiche, senza attenuare l’anticomunismo di fondo. È una posizione che trova una chiara espressione nell’incontro tra le maggiori potenze occidentali alla vigilia del G7 di Puerto Rico nel 1976, in cui si concordava di chiedere all’Italia l’applicazione di misure deflazioniste e si subordinava la concessione di aiuti economici al mantenimento dei comunisti all’opposizione. Centrale è la questione del sostegno americano alla «strategia della tensione», con l’erogazione di flussi finanziari certamente per i partiti centristi e di destra e anche per la destra neofascista; recentemente si è potuta proporre una lettura più sfumata, che sottolineava il carattere “poliarchico” degli apparati di relazioni esterne statunitense e l’atteggiamento ambivalente e contradditorio dell’amministrazione americana riguardo la situazione italiana. Non si può sostenere che gli Usa stessero preparando un golpe in Italia, ma la stessa minaccia di un golpe poteva diventare uno strumento di pressione sullo schieramento governativo «una spada di Damocle sospesa sul partito di maggioranza perché rientrasse nei ranghi di una politica più filoatlantica e abbandonasse il dialogo con il Partito Comunista» (L. Cominelli). È apparso inoltre un atteggiamento meno passivo della politica italiana verso le pressioni esterne. La documentazione mostra come i più fervidi sostenitori dell’anticomunismo americano si alimentassero in uno stretto dialogo con interlocutori italiani, che, per legittimarsi come punti solidi dell’atlantismo e poter usufruire di finanziamenti, diffondevano allarmi e tensioni – tra i più attivi in questo senso era Saragat. Lo iato tra intenzioni e capacità concreta di condizionare dall’esterno il discorso politico italiano restò ampio. Se l’Italia divenne sempre più un paese a “sovranità limitata” ciò fu più per l’infittirsi e il mutare di reti di interdipendenza economica che per le dinamiche della Guerra fredda. Qua troviamo un tema vitale in cui rintracciare le origini del “declino” italiano e che la storiografia ha solo iniziato a trattare alcuni hanno indagato la posizione dell’Italia di fronte alla trasformazione delle strutture di interdipendenza economica internazionale dopo il crollo del sistema di Bretton Woods, altri hanno analizzato il ruolo dell’Italia nella globalizzazione, in particolare riguardo all’evoluzione dei rapporti Nord-Sud e l’emergere di nuove problematiche mondiali – studi pionieristici. Un ambito di riflessione storica che ha conosciuto uno sviluppo notevole riguarda l’azione di Aldo Moro come ministro degli Esteri, carica ricoperta ininterrottamente dal 1969 al 1972 e poi dal 1973 al 1974, di cui è emersa una valutazione nuova del suo operato – ben lontana dal considerarlo «un oscuro quinquennio, senza alcun soffio rinnovatore» come a lungo è stato. Da ciò è emerso il contrastato rapporto con gli Usa; l’impegno per la distensione in Europa; una politica di attenzione verso il Sud del mondo. Una strategia di dialogo a tutto campo che manteneva la spinta verso una cooperazione politica efficace tra i membri dell’Europa, frutto della consapevolezza della necessità di una risposta adeguata ai cambiamenti in corso nello scenario nazionale e internazionale. Crisi italiana e crisi capitalistica Molte ricerche oscillano tra due poli, da un lato «primato della politica internazionale» e dall’altro «primato della politica interna». È certo che per comprendere la collocazione dell’Italia sullo scenario internazionale è necessaria un’analisi che tenga insieme interno ed esterno, evoluzione sociale e dinamiche geopolitiche. Occorre però un approccio meno generico e meno “eccezionalista”: si tratta di capire che tipo di crisi l’Italia abbia attraversato e se e in quale misura essa l’abbia differenziata dagli altri grandi paesi capitalisti. La crisi degli anni ’70 rappresenta l’incepparsi di un intero modello di sviluppo, quello affermatosi nei Paesi capitalisti dopo la WWII, fondato sulla conciliazione tra il perseguimento di politiche di piena occupazione a livello nazionale e un sistema non discriminatorio di scambi internazionali. Si tratta quindi di una crisi di sistema che investe tutti i piani, dai rapporti tra classi sociali a quelli internazionali. È al contempo una crisi egemonica, in cui si palesa l’indebolimento della supremazia che gli Usa avevano avuto nell’immediato secondo dopoguerra e anche una fase di aspra rivalità economica tra le maggiori potenze del blocco capitalista. La dinamica sociale di fondo si può riassumere nell’approfondimento dei processi di democratizzazione sia interna con la presa di parola dei ceti subalterni fino ad allora silenti sia internazionale con la richiesta del Sud globale di una riconfigurazione degli assetti politici ed economici. In questo modo, la crisi è il risultato dell’incontro e dell’interazione di tre aspetti: crisi economica, crisi sociale e crisi egemonica. A livello economico, la crisi si esprime nella compressione dei tassi di profitto, frutto della “crisi di sovraccumulazione”, cioè la saturazione dei mercati causata dallo stesso successo dei processi di sviluppo dei periodi precedenti, ovvero i vari “miracoli economici”. L’intensificarsi della concorrenza prodotto della riduzione del gap tra Paesi leader e inseguitori aveva portato alla caduta della profittabilità nei principali settori manifatturieri, in una dinamica simile a quella che aveva causato la Grande Depressione di fine XIX secolo. Ciò che differenzia i due periodi è il ruolo del conflitto verticale, tra capitalisti e lavoratori, e del conflitto orizzontale, tra capitalismi. A livello sociale, il conflitto fu una delle cause della crisi stessa: la flessione dei tassi di profitto fu il frutto anche delle conquiste, di diritti e di salari, da parte dei lavoratori alla fine degli anni ’60; infatti, la crescita economica aveva posto le basi per la messa in discussione del sistema. La generalizzazione del fordismo e il verificarsi di condizioni di piena e reale occupazione aveva accresciuto il potere contrattuale dei lavoratori, facendo emergere gli «aspetti politici del pieno impiego». Messi in condizione di non dover temere il licenziamento o di dover elemosinare per essere assunti, gli operai del capitalismo avevano aperto una fase di conflitto diretta a ridefinire le condizioni dell’impiego, arrivando a grandi conquiste in termini di ampliamento dei diritti sociali ed economici. A livello egemonico, gli anni ’70 sono il periodo della crisi dell’egemonia statunitense, evidenziata dalla difficoltà di sostenere la competizione con altre economie capitaliste e dalla scarsa capacità di risposta del modello occidentale alle aspettative di sviluppo autonomo del Terzo Mondo. Lo sganciamento del dollaro dal sistema di Bretton Woods va visto come un tentativo di liberarsi le mani su entrambi i fronti. Nuove piste di ricerca La crisi italiana non è quindi un’anomalia, ma un’espressione della crisi generalizzata dello sviluppo capitalista. Solo più virulenta e precoce, per il carattere ibrido dello sviluppo italiano, in cui convivono modernità industriale e arretratezza sociale. Con la crisi di Bretton Woods, tutto un sistema di interdipendenze crolla e con questo fatto la classe dirigente deve fare i conti proprio nel momento in cui la crisi del compromesso sociale post-bellico investe i fragili equilibri interni. Si dovrebbe quindi partire dal sommovimento sociale che porta sulla scena politica soggetti fino ad allora silenti. In questo senso c’è in effetti un primato della politica interna, intesa ora non come semplice instabilità politico-istituzionale, ma ricerca di una via d’uscita per sottrarsi alle pressioni provenienti dal basso in un aspetto giocato più sul campo economico tentato da Guido Carli e, in un’ottica di più largo respiro, costruzione di un nuovo assetto a sostegno di un ordine sociale interno in pericolo in un aspetto giocato più sul piano politico perseguito da Aldo Moro. Si tratta, nei fatti, di due aspetti di uno stesso sforzo di stabilizzazione. Dal punto di vista economico, la fine di Bretton Woods significava la fine, o meglio la sospensione, del vincolo esterno. Era venuto a mancare l’ancoraggio che aveva permesso all’Italia di rimanere nella comunità dei paesi capitalistici. Il ciclo di inflazione/svalutazione rappresenta una forma di difesa dalla stretta sui profitti, un modo per contenere il salario reale e al contempo difendere gli spazi di mercato nella competizione con le altre economie. L’Italia contribuisce così all’inasprimento del conflitto economico inter-capitalista e, in questo senso, non è oggetto, bensì soggetto delle relazioni internazionali, ma al contempo salva gli assetti politici tradizionali e garantisce un certo sollievo ad un’economia che se la cava meglio di altre. La relazione tra Italia e Occidente andrebbe interpretata non solo in base alla Guerra fredda, ma anche sullo sfondo del “conflitto economico mondiale” scatenato dalla crisi di sovraccumulazione e delle preoccupazioni per l’insubordinazione sociale e per la possibile ascesa di una sinistra, pur sempre marxista e prudentemente anticapitalista. In quest’ottica, il periodo va letto come una sorta di riedizione del “concerto delle potenze” controrivoluzionario. L’azione di Moro si può inquadrare come la ricerca di un aggancio internazionale al processo di stabilizzazione interna. Questo spiega la centralità del nesso nazionale- internazionale, consapevole dell’importanza del secondo nella risposta alla fragilità politica economica giudicasse positivamente la maggiore libertà di movimento dei capitali e in questo scenario se ne ebbe una prima ondata. Altro elemento che contribuì ad alterare gli equilibri fu lo shock petrolifero del 1973 che comportò il quadruplicarsi del prezzo del petrolio e una forte fiammata inflazionistica. Anche se gli anni di vera e propria contrazione del reddito furono solo il 1974 e il 1975, negli anni successivi rallentarono un po’ ovunque la crescita e gli investimenti, uno scenario di aumento della disoccupazione e di elevata inflazione “stagflazione”. In questo scenario, le politiche economiche occidentali furono orientate al sostegno della domanda, con diffusi disavanzi fiscali finanziati creando nuova moneta. Ciò evitò che si determinasse una caduta troppo marcata della domanda. Diversamente sarebbero andare le cose nel secondo shock petrolifero del 1979, a cui le politiche economiche reagirono con una strategia restrittiva, secondo le suggestioni del neoliberalismo di Reagan e della Thatcher. L’economia italiana in un decennio di transizione: la produzione, il mercato del lavoro e il ruolo dello Stato I risultati generali dell’economia italiana degli anni ’70 furono complessivamente positivi economia tutt’altro che stagnante con un tasso di disoccupazione non eccessivamente alto. Nonostante il rallentamento nella crescita del reddito, avvengono una buona crescita economica e notevoli progressi in campo sociale, poi da mettere a bilancio, ovviamente, con numerose criticità. Intanto, la disuguaglianza sociale e l’incidenza della povertà si ridussero come mai in passato. La capacità di crescita dell’economia italiana risultò dunque buona, nonostante gli shock a cui questa fu sottoposta: fa eccezione solo la recessione del 1975. Ci furono altre azioni per contenere dei problemi, come un prestito richiesto nel 1974 o azioni restrittive utilizzate nel 1976 (crisi valutaria) e 1979 (secondo shock petrolifero). Come altre valute, anche la lira nel 1973 divenne fluttuante, e a volte fu sottoposta a svalutazioni queste risultarono “differenziate”, cioè marcate verso le valute europee per promuovere le esportazioni, e contenute verso il dollaro per contenere il rincaro delle merci acquistate all’estero. La produzione agricola conobbe un generale processo di modernizzazione, soprattutto al Centro-Nord. La produzione del Paese vide il massimo sviluppo del peso relativo all’industria, la quale assorbì più del 44% degli attivi. Raggiunto questo punto, però, cambiò il profilo qualitativo. Anche grazie ai fattori di instabilità economica menzionati, iniziò un processo di ristrutturazione produttiva del settore manifatturiero che vide la crescente espulsione di forza-lavoro dalle grandi fabbriche a vantaggio delle piccole realtà produttive queste piccole-medie imprese divennero il principale fattore di crescita del decennio questo decentramento produttivo si accompagnò alla diffusione di condizioni precarie di lavoro. Il nuovo asse di sviluppo produttivo si spostò dal triangolo industriale ai nuovi distretti della cosiddetta “Terza Italia”, localizzata tra Centro e Nord-Est. Tutti questi cambiamenti ebbero effetti molteplici 1) Inizio di una crisi di lungo periodo della figura una volta centrale dell’operaio- massa, destinato a una riduzione quantitativa e qualitativa. 2) Nuove possibilità di inserimento lavorative per alcune componenti meno usuali, come le donne, che però comportarono anche a una diffusione di forme di lavoro precario, ridotto e in nero. Insomma, ci sono tendenze contraddittorie, come la crescita sia del tasso di occupazione che di disoccupazione. Un contributo pesante al peggioramento fu la difficile condizione dei giovani, i cui livelli di disoccupazione furono in crescita. Crebbe anche il divario tra Nord e Sud, causato da un deterioramento della qualità d’azione dello Stato. Le difficoltà che portarono ad un fallimento delle ambizioni furono molteplici 1) Le contestazioni politiche provenienti dagli industriali e dai sindacati. 2) La difficoltà di costruire un’architettura istituzionale solida e capace di coordinare gli interventi. 3) Il contesto macroeconomico che risultava esposto alle sollecitazioni esterne e interne. Aumentò molto la conflittualità operaia, rafforzatasi soprattutto nei grandi centri industriali, dove il mercato del lavoro solitamente tendeva a una situazione di piena occupazione. Ciò venne potenziato dall’unità di azione fra Cgil, Cisl e Uil, riunitesi nel 1972, dallo spostamento a sinistra del paese con l’avanzata del Pci e dal crescente protagonismo, soprattutto dopo l’autunno caldo del 1969, di operai e movimenti. In ogni caso, anche dopo le vittorie sindacali, l’inflazione e svalutazione della lira non impedirono una progressiva erosione dei salari. Ci furono comunque importanti provvedimenti legge sulla parità femminile, diritto di aborto, completamento della riforma regionale, allargamento degli strumenti di tutela contro la disoccupazione, il Servizio sanitario nazionale e le politiche per la casa. La morte di Moro però oscurò queste vittorie e aprì la strada a una virata delle politiche economiche verso una sterilizzazione della capacità dei partiti di indirizzare il processo di sviluppo economico. Non a caso venne accettato il “vincolo esterno”, il quale rendeva l’Italia una aderente al Sistema monetario europeo Pci e altri sostennero il rischio di non poter più perseguire così politiche monetarie espansive senza generare squilibri finanziari. All’inizio degli anni ’80 le industrie si trovarono in concorrenza con i paesi orientali che avevano un basso costo di manodopera si forzò quindi la ristrutturazione già avviata, con una robotizzazione che accompagnò l’aumento dei disoccupati l’orientamento va verso la restaurazione dei principi di libero mercato, cercando di contenere i gravi effetti sociali della disoccupazione. I contemporanei di fronte alla crisi. Alcune interpretazioni a confronto Gli scossoni subiti dall’economia italiana furono letti come una crisi della precedente fase di accumulazione capitalistica. Gli imputati erano i sindacati e vincoli posti dalle istituzioni all’apparato produttivo. Era inoltre diffusa l’idea che i fatti successivi al 1974 fossero un esempio di crisi ciclica capitalistica, dovute soprattutto alla sovrapproduzione. Guido Carli, governatore della Banca d’Italia dal 1960 al 1975, disse che il sistema produttivo italiano era influenzato negativamente dalle pretese dirigiste della classe politica egli aveva il timore che la programmazione potesse costituire il preludio a una deriva “sovietica” dell’economia italiana. Una valutazione diversa venne espressa da De Cecco, il quale vedeva come unica soluzione una politica espansiva da parte di Germania e Stati Uniti. Uno dei fulcri della discussione fra gli economisti fu quello ruotante intorno alla questione del lavoro e delle retribuzioni. Gli economisti tentarono di offrire nuove spiegazioni della paradossale coesistenza di alti salari e alta disoccupazione. Al termine dei dibattiti si accettò l’idea che i salari dovessero diminuire. Cominciarono a diffondersi però le idee di Friedman, secondo cui solo la deregolamentazione del mercato del lavoro e l’abbattimento dei sistemi di welfare potrebbero incentivare i lavoratori a offrirsi sul mercato, favorendo l’occupazione un netto oppositore fu Federico Caffè, che si fece sostenitore di una politica per la piena occupazione, ma contraria a questi ideali. Oltre il paradigma della crisi: alcune ipotesi di ricerca per un nuovo sguardo sull’economia degli anni Settanta Ad oggi non si riesce a vedere la tensione di quegli anni come una classica crisi dell’accumulazione capitalistica è stato evidenziato da molti studi che la crisi degli anni ’70 fu il modo in cui si manifestò l’esaurimento del modello di economia sorto post WWII fu l’importanza dell’URSS e della sua forza a imporre alle economie occidentali un ripensamento del rapporto tra Stato e mercato. Come abbiamo visto le riforme furono interrotte dall’esaurimento della forza del sindacato, sullo sfondo di una crisi complessiva dell’industria fordista, in cui si inserisce anche lo spartiacque del delitto Moro filone poco esplorato in questo senso che potrebbe dare nuove risposte, ad esempio nei processi decisionali che portarono l’Italia all’inserimento nello Sme. Dovrebbero essere rilette, oggi, diverse cose la femminilizzazione del mercato del lavoro (che mutò gli equilibri di genere sul terreno occupazionale); la crescita della disoccupazione giovanile; il nuovo peso assunto dalla manodopera fornita da immigrati; il passaggio da fordismo a post-fordismo. Con le elezioni del 1976 iniziò quella che Moro aveva definito “terza difficile fase”. Il Pci sottoscrisse con gli altri partiti una mozione sulla politica estera. Questo documento è stato ritenuto un corollario dei precedenti accordi sulla politica interna, per stabilizzare e in funzione della reciproca intesa tra le principali forze della politica nazionale. La Malfa credette invece fosse un preludio ad un approccio secolarizzato, privo dunque di ideologie, del comunismo. La soluzione di Moro governo monocolore Dc guidato da Andreotti, il più autorevole esponente del consociativismo, sembrava poter compensare le resistenze di destra e le attese di sinistra. Ingrao, presidente della Camera, rilanciò la centralità del Parlamento, riassumendo le difficoltà non dette di tutta l’operazione. Il Pci così si logorò, non essendo né partito di opposizione né di governo. Insomma, se si guarda al profilo strategico, gli obiettivi erano ambiziosi rinnovamento del partito e superamento dei vincoli. Lo sblocco del sistema democratico avrebbe sancito quel che era un dato di realtà: il primato del Pci a sinistra su una posizione pericolosa revisione globale della sua cultura politica e superamento della staticità del suo passato. A dimostrazione della fragilità del tentativo basti tenere conto che per affossarla bastò la potenza dell’uccisione di Moro. Un bilancio Pochi mesi dopo l’uccisione di Moro, il Pci uscì dalla maggioranza che sosteneva Andreotti finì la solidarietà nazionale quest’ultima venne definita il primo e ultimo tentativo di stabilizzazione consensuale, indicando un modo di governare più adulto rispetto alle pratiche che riaffiorarono negli anni ’80. L’elezione di Pertini nel 1978 non segnò la vittoria di un partito o schieramento, ma completò l’autonomizzazione della massima istituzione. Nel momento del rapido avanzare del deperimento, la presidenza della Repubblica reinventata da Pertini acquisì prestigio e autorevolezza. Con il 1976 ci fu il culmine della partecipazione elettorale degli italiani. Gli anni ’70 pertanto furono l’ultimo appuntamento per la riforma dei soggetti costituenti e delle loro culture. M. Galfré, Violenza politica e terrorismo tra storia e storiografia Un caso unico, un contesto globale Nella memoria collettiva, gli anni ’70 hanno assunto un’identità definita sul peso della violenza politica. Da una parte lo stragismo neofascista, gli aspri scontri di piazza e dall’altro lato gli attentati del terrorismo di Sinistra. Da ciò nasce la definizione di anni di piombo. Il rischio è di assolutizzare la violenza politica a scapito della visione d’insieme della storia d’Italia. Un problema ulteriore è quello di banalizzare una realtà complessa e piena di peculiarità quale quella dell’Italia degli anni ’70 e del contesto europeo, chiamato “the age of terrorism”. Il ’68, evento globale per eccellenza, scatena un’ondata di violenza sociale e politica. Per l’Italia, si è parlato di “lungo ‘68”, vista la durata degli scontri. È questo il contesto nel quale mettono radici sia la violenza politica sia l’eversione. Anomalie italiane? La «strategia della tensione», di cui fanno parte non solo le stragi neofasciste, è considerabile come l’insieme di atti violenti compiuti dal terrorismo nero italiano. Questa è da legare al contesto mondiale della Guerra fredda; l’Italia difatti era il paese con il partito comunista più forte d’Occidente e l’intero terrorismo nero si muove all’interno di una intricata trama tra mondo militare, servizi segreti, interessi internazionali e responsabilità dello Stato. La prima fase della strategia della tensione fu una reazione al “biennio rosso”, ’68 studentesco e ’69 operaio e fu caratterizzata da piazza Fontana, Piazza della Loggia e treno Italicus. Se il terrorismo di destra è dentro lo Stato, contro lo Stato è quello di sinistra. Stando al contesto storico, da una parte vediamo la fine dell’età dell’oro dell’economia occidentale, la fine della presidenza Nixon (Water gate) e il crollo delle dittature fasciste in Portogallo, Grecia e Spagna; dall’altra, la crisi dell’egemonia democristiana emersa dal referendum sul divorzio e la crescita elettorale del Pci con la conseguente ipotesi del compromesso storico. In questo contesto avvennero il sequestro del procuratore Mario Sossi e l’assassinio di Francesco Coco. È importante tenere presente che le BR non furono le uniche protagoniste dell’eversione di sinistra: l’universo della sinistra extraparlamentare, difatti, era assai composito, tra cui Prima linea e Autonomia operaia. Una conferma della peculiarità italiana è data dal movimento del ’77, l’ultima mobilitazione politica del secolo, bacino di reclutamento sia per i gruppi esistenti sia per quelli emergenti. Tra il ’77 e l’82 è stato commesso il 90% di tutti gli attentati, con una crescita evidente degli omicidi in concomitanza con questa crescita, il Pci sancì la rottura irreversibile con l’estremismo. Data fondamentale nell’evoluzione della storia del terrorismo italiano fu il rapimento e l’omicidio di Aldo Moro. Nel gennaio del ’79, le BR uccidono il sindacalista comunista Guido Rossa e pochi giorni dopo, Prima linea giustizia il giudice Emilio Alessandrini. Questi due omicidi alienarono le simpatie degli stessi ambienti progressisti di sinistra e in seno alla stessa eversione. Il 1980 è particolarmente importante perché compaiono i primi pentiti, c’è la marcia dei 40.000 e si raggiunge l’apice degli omicidi politici, ben 125, tra cui Walter Tobagi, Vittorio Bachelet e gli 85 morti della strage di Bologna (2 agosto 1980). In seguito a questo anno di sangue, si misero in atto misure severe che comportarono i primi successi delle forze dell’ordine. Tra gli effetti degli anni di piombo, uno dei più significativi fu il cambiamento del quadro politico e istituzionale, tra cui il prezzo pagato dalla democrazia all’emergenza sui piani legislativo, giudiziario e carcerario. L’idea di un attacco esterno ebbe una funzione rassicurante, cui contribuì l’insistenza sulla dimensione minoritaria del fenomeno del terrorismo; questi atteggiamenti complicarono, e continuano a farlo, la ricerca storica della verità. Binari storiografici paralleli La storiografia ha rifiutato l’immagine collettiva degli anni ’70 italiani come periodo di violenza politica e terrorismo. Negli ultimi quindici anni, gli studi sulla violenza politica e sui terrorismi sono aumentati, procedendo però su binari paralleli rispetto alla storia nazionale. La difficoltà di dialogo tra storia italiana e storia degli anni di piombo non si è attenuata con il passare del tempo, ma si è paradossalmente accentuata. La categoria di “crisi” ha vincolato a lungo l’interesse per gli anni ’70, il che ha fatto sì che questi venissero interpretati come una lunga fase di incubazione del mondo odierno, dopo la rottura prodotta dal ’68 e dalla crisi economica del ’73. La violenza politica degli anni ’70 è stata così spinta in una terra di nessuno, che le ha sottratto rilevanza. L’argomento chiave di coloro che vogliono sminuire questo periodo è il carattere fortemente minoritario della violenza politica e soprattutto del terrorismo, in particolar modo guardando alle ragioni della global history. In realtà, il concetto di minoranza è inservibile per misurare il grado di incidenza degli attacchi eversivi, da sempre responsabilità di minoranze. Le tappe degli studi Con il passare del tempo, sono emersi diversi vizi di origine che segnano a lungo la lettura di questa stagione. Già all’epoca dei fatti, si sviluppò un dibattito molto articolato, per merito di sociologi e politologi più che storici, la cui vitalità è legata all’estensione dell’attacco eversivo di sinistra. Questo modo di operare rese privilegiata la dimensione internazionale del terrorismo, con la conseguente ricerca di modelli univoci e categorie generali. In questo si riscontra un’evidente difficoltà a fare i conti con la violenza politica, sia a destra sia a sinistra. Gli storici della generazione del ’68 infatti individuano in quegli anni un tornante decisivo della modernizzazione civile e culturale del paese, oltre che di un’occasione mancata sul piano politico; con l’effetto però di dividere gli anni ’70 in due parti, una buona, il ’68 e il ’69, e una cattiva, il terrorismo di sinistra. M. Tolomelli, Azione collettiva e movimenti per i diritti di cittadinanza La cifra di un decennio Sul piano politico-sociale il decennio ’70 si apre nella primavera 1970 con l’approvazione dello Statuto dei lavoratori, che sanciva principi a lungo rivendicati dal movimento operaio e sindacale. Soggetto politico, quest’ultimo, che nel dopoguerra aveva dovuto combattere contro il riconoscimento parziale, se non solo formale, determinato da rapporti assai simmetrici sul piano economico-politico. Lo Statuto dei lavoratori sanciva una tappa gloriosa del processo di implementazione dei principi democratici repubblicani nei luoghi e nei rapporti di lavoro ed esso riuscì ad estendere ai luoghi di lavoro i diritti della cittadinanza, portando nelle fabbriche non solo i sindacati, ma la Costituzione stessa. La storia del decennio inizia dallo Statuto in quanto espressione di una prassi politica virtuosa, basata su reciprocità e conflitti anche aspri, tra società civile e istituzioni. Rievocare ciò ha come obiettivo la volontà di superare una chiave di lettura del periodo incentrata sulla violenza politica e del terrorismo, sintetizzata da espressioni quali “anni di piombo” o “decennio rosso”. In questo caso, il percorso che portò al varo della legge si dispiegò in un contesto di crescente conflittualità nei luoghi di lavoro e contribuirono a darne una forma le pressioni esercitate dai lavoratori, dai sindacati e dai partiti, dal parlamento e dal governo: i lavoratori richiamavano l’attenzione su rapporti di lavoro che violavano i principi di dignità e le libertà fondamentali; i sindacati erano sollecitati a interpretare le istanze più avanzate dal montare della combattività operaia per mettere i partiti nella condizione di poter sostenere in ambito parlamentare un disegno di legge. La storia dello Statuto dei lavoratori risulta pertanto emblematica di una sinergia virtuosa tra società civile e istituzioni statuali. La riforma del diritto di famiglia, dell’assistenza sanitaria e psichiatrica, della tutela della salute delle donne e della maternità furono altri tasselli di un processo che codificava giuridicamente incontrovertibili mutamenti culturali e che sanciva la legittimità dell’azione collettiva. Non solo le riforme in sé, ma le pratiche sociali e politiche a monte dell’iter legislativo produssero un avvicinamento tra il livello formale e il livello sostanziale della democrazia. In riferimento ad elaborazioni più recenti, il fenomeno può essere descritto in termini di un passaggio dalla democrazia dissociativa ad una più complessa democrazia partecipativa e deliberativa. Il dato essenziale di questo processo di maturazione democratica è il ruolo attivo della cittadinanza, che dava voce ai mutamenti culturali in corso nella società e si faceva interprete di istanze di trasformazione. Senza voler ignorare le tensioni e i drammi politici, si ritiene che una cultura politica autenticamente democratica raggiunse uno straordinario livello di radicamento e diffusione sociale proprio in questo decennio. Da questo, si vuole approfondire gli effetti a lungo termine innescati dalla domanda di partecipazione attiva e diretta di una società politicamente matura e consapevole, in particolare nel rapporto coi partiti e la rispettiva capacità rappresentativa. Si ritiene che, in Italia, l’impatto politico della mobilitazione collettiva nell’arena istituzionale della politica non fu solo positiva. Se, da un lato, la pressione esercitata attraverso l’azione collettiva sortì effetti propulsivi per l’azione politica istituzionale, dall’altro lato la crescente autonomia politica da parte di una cittadinanza rieducata alla democrazia indebolì la funzione pedagogica politica su cui i partiti post-bellici avevano legittimato la propria pervasività nello spazio politico pubblico e istituzionale. Si ritiene cioè che i rapporti tra cittadini, gruppi sociali e partiti entrarono in una fase di riconfigurazione verso la democrazia deliberativa senza però riuscire a stabilizzarsi: in altri termini, non si riuscì a compiere una completa transizione verso una stabile e consolidata democrazia deliberativa per diverse ragioni. Innanzitutto, troviamo atteggiamenti di resistenza a negoziare nuove pratiche politiche da parte dei partiti. La scarsa disponibilità a recepire sentimenti di frustrazione e tentativi di rinegoziazione delle forme della rappresentanza fu in parte mascherata dal Psi che aveva avviato un processo di “rigenerazione” e definitiva emancipazione dal comunismo. Un mutamento nei rapporti di forza tra i partiti facilitò uno spostamento dell’attenzione sulle dinamiche intrapartitiche che non sui rapporti tra base pubblica e vertici interni di ogni partito. Questa situazione favorì il consolidamento della “partitocrazia” a discapito di pratiche deliberative. Come osservato da alcuni autori, di fronte a segnali di scollamento e di declino della funzione politico pedagogica dei partiti prevalse l’indisponibilità a mettersi in discussione e reazioni di arroccamento difensivo. Società civile-partiti-istituzioni: a ciascuno il suo L’apogeo della “stagione di partecipazione attiva” si raggiunse tra gli anni 1974-1976, ma lo slancio partecipazionista innescato dal ’68 continuò per tutto il decennio. In ambito lavorativo, una sorta di continuazione riformatrice sulla scia dello Statuto si ebbe grazie all’istituzione delle “150 ore”. Senza volerle eccessivamente valorizzare, si ritiene comunque che sul piano simbolico, culturale e politico i corsi erogati con le “150 ore” furono un notevole strumento di promozione della cittadinanza, in quanto funsero da strumento di riconoscimento sociale dei lavoratori, di affermazione di dignità indipendentemente dalla prestazione lavorativa e contribuirono a promuovere pratiche di partecipazione nei molteplici ambiti di formazione collettiva della volontà politica. Per i lavoratori formatisi attraverso esse, il lavoro rimase l’ambito privilegiato su cui intervenire sia attraverso canali istituzionali sia dando vita a nuove forme di organizzazione. Un altro spazio di manifestazione della volontà partecipativa era la scuola. Nella prima metà degli anni ’70 la scuola secondaria e le Università continuarono ad essere luoghi di contestazione, di elaborazione di critica sociale e di promozione dell’azione collettiva. A differenza degli ultimi anni ’60 però l’attivismo studentesco si manifestò a livello locale, senza riuscire a dar vita ad un processo di mobilitazione di ampio respiro se non per un breve tempo e in maniera convulsa (’77). Il dato di maggior novità risiedeva perciò nella codificazione giuridica di alcuni elementi di discontinuità introdotti dal ’68 e che si ponevano in opposizione a tradizionali gerarchie e rapporti autoritari tra docenti e alunni. Segnò un traguardo importante l’approvazione, nel 1973, di una legge (n. 447), poi articolata nei “decreti delegati” del 1974, che traduceva sul piano giuridico una visione della scuola in termini di collettività partecipata da tutti i soggetti coinvolti. Nei “decreti delegati” si riconosceva una risposta istituzionale alle accuse dell’essenza classista della scuola italiana e la legge apriva a forme di coinvolgimento che di fatto ampliavano gli spazi della partecipazione riducendo la distanza tra l’istituzione scolastica e i suoi utenti. È bene riconoscere l’orizzonte politico ideale entro cui si iscriveva il tentativo di riorganizzare il mondo della scuola su principi di condivisione di interessi e di dialogo tra istituzioni e società nel campo della pubblica istruzione. In ambito sociale, il risultato dell’interazione tra pressione dell’azione collettiva e capacità delle forze politiche di interpretare istanze espresse dalla società culminò in riforme di grande portata. Rispetto ai diritti civili delle donne e di genere è noto l’impatto di interventi legislativi atti a implementare principi di parità; tutti i provvedimenti intercettavano e stimolavano la mobilitazione sociale per il superamento di un orizzonte valoriale più conforme ad una tradizionale società rurale che a una società industriale avanzata quale era divenuta quella italiana. Riforme di altra natura sono state l’istituzione del servizio civile in alternativa a quello militare, l’approvazione della legge quadro istitutiva dei consultori familiari a gestione regionale, la legge sull’interruzione volontaria della gravidanza, la legge sulla parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro e la riforma del sistema sanitario nazionale. Queste erano la codificazione giuridica di istanze e mutamenti su cui vari movimenti avevano già richiamato l’attenzione, sollecitandone una risposta con urgenza. In merito alla riforma della psichiatria, anch’essa rispondeva alla messa in discussione dell’istituto manicomiale, ma la riforma percepiva innanzitutto la competenza del sapere scientifico, dove la competenza degli esperti pesava di più della mobilitazione sociale non a caso la legge si richiamava al suo promotore, lo psichiatra Franco Basaglia, e non ad un membro di un partito. Nel loro insieme, le riforme degli anni ’70 vanno lette come il risultato di un rapporto conflittuale tra società e istituzioni, ma anche virtuoso e dinamico, alimentato da una comunicazione intensa e da rapporti di interazione articolati tra partiti e movimenti. È indubbio che molte di queste riforme risultarono più dalla necessità di prendere atto di mutamenti già avvenuti e di attuare principi costituzionali improcrastinabili che non da un disegno riformatore coerente. I governi di questo periodo vissero situazioni travagliatissime e si ressero su una precaria “solidarietà nazionale”. È tuttavia riduttivo liquidare uno dei periodi più ricchi di riforme ad alto impatto sociale e culturale come «l’ultima occasione gettata al vento» per dirla come G. Crainz, Il paese mancato. Sarà vero che si giunse all’attuazione del referendum abrogativo (maggio 1970) soltanto quando la Dc ritenne opportuno munirsi di uno strumento attraverso cui cercare di contrastare la legge sul divorzio (dicembre 1970). Ma è altrettanto vero che una volta istituito, il referendum sul divorzio diede voce ad una cittadinanza matura e movimenti antipartito per dare voce più a sentimenti di frustrazione sociale che non a istanze di partecipazione nella gestione della cosa pubblica. P. Causarano, Storia del lavoro e della conflittualità sindacale Gli anni Settanta del lavoro, ovvero l’apogeo del sindacalismo industriale Per i mondi del lavoro e per le organizzazioni sindacali, gli anni ’70 furono una fase decisiva a conclusione di un secolo in cui erano state protagoniste. Questo passaggio è collocato tra la fine di un ciclo di maturazione delle società industriali riferito al modello taylor-fordista e all’economia standardizzata dei consumi di massa e l’inizio di un cambiamento epocale di paradigma, nei termini di diffusione e redistribuzione della produzione e degli scambi su scala globale. Gli anni ’70 aprono la porta ad una nuova “grande trasformazione”, subito dopo quella avvenuta tra le due guerre. Di lì a poco, una breccia avrebbe travolto le coordinate che avevano legato sviluppo economico e progresso sociale-civile al mondo industriale nella “società salariale”, ovvero quella fase in cui la civiltà europea occidentale aveva provato ad “organizzare” il capitalismo e quando il sindacato aveva trovato un crescente spazio di legittimazione politica, non solo economica. L’apertura post-bellica si era manifestata in forme contraddittorie durante les Trente Glorieuses (1945-1975) del mondo industriale, in particolare quello italiano, diseguale nei benefici ottenuti e negli spazi concessi, comportando così la crisi del compromesso keynesiano-fordista alla base dello scambio politico del dopoguerra. L’esplosione dei bisogni e degli obiettivi rivendicati tra gli anni ’60 e ’70 e il crollo degli equilibri sindacali furono l’esito dello scarto tra aspettative e risultati del benessere economico e sociale. Questo travaglio porterà conseguenze inaspettate tanto per i sindacati quanto per gli stessi imprenditori travolti nei due assi della loro idea di stabilità sociale nella vita economica, ovvero la disciplina del lavoro e il consenso organizzato. Gli anni ’70 furono il cuore di un periodo che fu insieme di rottura e transizione dal punto di vista del lavoro: rappresentarono la maturità dello sviluppo industriale novecentesco con i suoi chiaroscuri e in particolare lo furono dal punto di vista del movimento dei lavoratori. Il periodo dal 1960 al 1985 è stato definito infatti “l’apogeo dei sindacalismi”, in particolare europei. Un sindacalismo e un movimento operaio centrati sulla preminenza del conflitto industriale nell’esperienza sociale e nella prospettiva dell’emancipazione e dell’integrazione. Gli anni ’70 rappresentarono il punto culminante nell’affermazione del sindacalismo industriale, delle due categorie culturali e morali, dei suoi modelli organizzativi e conflittuali, delle sue forme e contenuti negoziali tanto da influenzare altri comparti professionali dei servizi e della pubblica amministrazione. Il decennio rappresentò anche il limito ultimo raggiunto da questo tipo di sindacalismo europeo prima di un ridimensionamento di ruolo, a cui seguì un declino di centralità. L’improvviso cambiamento di paradigma a fine ‘900 arriverà attraverso l’impatto sul lavoro e sulle sue condizioni materiali e contrattuali, attraverso la progressiva riduzione dell’autonomia sindacale, su cui, già fiaccata dalla crisi del 1973, peseranno la nuova intensità e densità della globalizzazione dei mercati e degli scambi e l’accelerazione nella rivoluzione tecnologica e nella reticolazione organizzativa dei sistemi flessibili d’impresa. Conflitto sociale e conflitto di classe Negli anni ’70, il sindacato confermò la sua duplice fisionomia storica: essere insieme un’istituzione della regolamentazione sociale nel mondo industriale e un attore del conflitto sociale alla base di questa regolamentazione nella società capitalistica. Questo decennio rappresentò per un verso la chiusura di un ciclo di affermazione e strutturazione della moderna economia industriale di massa e per l’altro un ponto che il ‘900 post-bellico attraversa e che porta alla situazione attuale. Gli anni ’70 potrebbero allora essere letti come una lunga e travagliata transizione da un vecchio mondo, ormai paralizzato, ad uno nuovo e dinamico, di cui sarebbero stati incubatore. Tuttavia, sarebbe riduttivo per un periodo così dirompente negli equilibri sociali, culturali, istituzionali, politici ed economici. Oggi è quindi possibile rintracciare una specificità di questo periodo, che gli conceda una dignità tale da esulare da quel senso di crisi che troviamo in morta della sua letteratura. Pensando al sindacato, questo suo apogeo ebbe una precisa connotazione, ovvero la generalizzata dimensione di classe del conflitto e dell’azione sociale. Su questo profilo di classe, il sindacalismo italiano degli anni ’70 si palesò all’opinione pubblica e coinvolse l’intera società. Possiamo affermare oggi di quanto fosse reale la coscienza diffusa che quella fase storica rappresentasse la conseguenza della cesura sociale e della rivolta operaia. Il tema del lavoro e dei suoi diritti, delle condizioni e prospettive, delle forme della sua rappresentanza, del suo riconoscimento come attore e protagonista del cambiamento economico e sociale del paese, in Italia si affermò allora in maniera dirompente nella sua centralità, sia nei luoghi della produzione sia nella società sia alla politica e all’allargamento del welfare. Questo avvenne attraverso la costruzione iconica della “tuta blu” quale figura sociale di riferimento del sindacalismo e dell’operaio comune legato alla produzione in serie, l’operaio-massa protagonista e vittima del boom. Lo Statuto dei lavoratori del 1970 rappresentò la sintesi di un riconoscimento non solo giuridico e politico, ma anche morale rispetto alla limitazione delle libertà sindacali, alla compressione del lavoro e alla disuguaglianza di fronte al boom economico. L’imprescindibilità della presenza del lavoro organizzato sulla scena pubblica è un’eredità degli anni Settanta che non è venuta mai meno ed è frutto del nuovo protagonismo legato ai lavoratori manuali dell’industria. Negli anni ’70, conflitto sociale e conflitto di classe si sovrapposero come mai prima e rappresentarono il nerbo del sindacato industriale. Ne furono anche il punto debole, nel momento in cui la classe si sarebbe disarticolata in conseguenza della nuova “grande trasformazione”. Gli operai non scompariranno, ma non si sentiranno più classe operaia e tanto meno movimento operaio. Il decennio fu allora l’ultimo tentativo efficace di dare unitariamente e autonomamente rappresentanza e rappresentazione ai mondi del lavoro. contrattuali. La capacità sindacale di raccogliere e poi amplificare i bisogni delle vertenze operaie aziendali è ben sintetizzata dalla conquista nei contratti nazionali nel 1973-1974 della parità normativa operai-impiegati con l’inquadramento unico e dell’istituto per il diritto allo studio retribuito le 150 ore. L’obiettivo di incidere sull’organizzazione del lavoro si concretizzò inoltre nelle vicende legate alla salute e sicurezza e dagli ambienti del lavoro. Alla metà degli anni ’70 la crisi economica inizierà però a condizionare pesantemente la spinta sociale di cui il sindacato si faceva portatore. L’evoluzione elettorale del 1975-1976 e l’avvicinamento della sinistra comunista all’area di governo, con l’esperienza della “solidarietà nazionale”, modificarono il quadro del sistema politico e incisero sulla collocazione e sulle strategie del sindacato. Benché l’autonomia del sindacato unitario fosse realmente praticata, il contesto a quel punto era molto meno favorevole alla “conflittualità permanente” degli anni precedenti. Gli stessi rapporti con il movimento studentesco, che aveva ampliato la portata delle lotte operaie, si fecero più complicati e sempre più segnati dalle ambiguità nei confronti del ricorso alla violenza politica diffusa, fino all’assalto del palco alla Sapienza nel ’77 e l’omicidio di Guido Rossa nel ’79. L’accordo siglato simbolicamente da Luciano Lama e Gianni Agnelli sul punto unico di indennità di contingenza nel 1975 (l’egualitarismo applicato su scala mobile) segnò l’atto finale della fase apertasi con l’Autunno caldo, rappresentando un riaccentramento confederale della strategia sindacale e insieme l’istituzionalizzazione del movimento consiliare. Dal 1978 la strategia dell’Eur, che puntava alla moderazione sindacale in cambio delle riforme di struttura, divenne un quadro che inseriva la capacità di mobilitazione del sindacato in un contesto politico e istituzionale più ampio, indirizzandola verso obiettivi legati alle politiche economiche e alle politiche sociali: investimenti nel Mezzogiorno, lotta alla disoccupazione, riforma del sistema previdenziale, i servizi a sostegno del lavoro femminile e della famiglia, i decreti delegati della scuola, la parità salariale tra uomini e donne, la casa e il problema abitativo con l’equo canone. Tanto più il sindacato industriale come movimento aveva difficoltà a mantenere la presa sulle condizioni e suoi rapporti di lavoro, tanto più cercava di compensare con l’accesso agli accordi di politiche istituzionali nel campo della programmazione e del welfare. Ma in questo modo il sindacato finì per subire più di prima le fluttuazioni e le incertezze del contesto politico, nel momento in cui le aspettative di apertura si ridussero tra il 1979 e il 1980. La parabola degli anni Settanta del lavoro: osservazioni conclusive Nel 1992, Aris Accornero definisce il periodo che va dalla fine degli anni ’70 alla metà degli anni ’80 come una vera e propria “parabola italiana”. Si tratta di una storia che si accompagna con quella dell’operaismo politico e alla trasversalità della “sinistra sindacale”. In quel decennio, l’egemonia dell’operaismo si diffuse a livello nazionale e anche fuori dai punti alti del conflitto nel “triangolo industriale”, strutturandosi attorno all’egualitarismo e al solidarismo classista, secondo tre modelli di riferimento: il modello rivendicativo, il modello sociale e il modello della rappresentanza. La “marcia dei quarantamila” quadri e impiegati Fiat del 1980 smontò questa costruzione, ne mise in luce la fragilità sotto l’apparente forza collettiva. Questo evento fu una decisiva sconfitta sindacale, morale e culturale ancor prima che politica, dopo l’ultima grande mobilitazione nella lotta degli “80 giorni”. Lo scontro durissimo era già esploso nel 1979 a partire da licenziamenti giustificati, a detta della direzione aziendale, dal clima di violenza e intimidazione diffuso in fabbrica di cui erano protagonisti anche delegati sindacali. Questo conflitto si collegò poi ad un piano di ristrutturazione massiccia del modello produttivo la cui ampiezza strategica sarebbe stata chiara negli anni seguenti, all’interno dei nuovi orientamenti neoliberisti. L’esito negativo di queste vicende fu uno shock drammatico per il sindacato, perché avrebbero mostrato tutti i limiti del consenso e di capacità tanto di rappresentanza quanto di rappresentazione rispetto alle modificazioni del lavoro in corso. La crisi e poi la fine delle esperienze unitarie dei sindacati industriali ne furono la sanzione formale e questo porterà alla crisi del sindacato consiliare. Il tema dell’autonomia del lavoro, individuale e collettiva, e di come potesse essere declinata nell’esperienza di quel decennio ha lasciato comunque l’aspettativa di una valorizzazione soggettiva dei lavoratori e di un’affermazione delle differenze al di là o sotto la pratica solidaristica dell’egualitarismo. I nuovi modelli d’impresa degli anni ’80 daranno una risposta, cogliendo la domanda di qualità e differenziazione nel lavoro che veniva dai mutati atteggiamenti, ma mostreranno anche tutti i limiti di comprensione sindacale delle novità. Aris Accornero ha affermato che al sindacato e anche alla sinistra tutta mancò una compiuta idea di cosa fosse l’impresa oltre la fabbrica e di cosa fosse la diffusa domanda di mobilità sociale che discendeva dalle trasformazioni di mentalità. Nel rifiuto del lavoro tradizionale e delle sue gerarchie e nella ricerca di nuove forme di soddisfazione individuale affondano le radici della destrutturazione identitaria successiva al modello sindacale novecentesco. C. Papa, Giovani anni Settanta: attori, modelli, movimenti Giovani e giovinezza Al censimento del 1971 poco meno del 50% della popolazione italiana era al di sotto dei 30 anni. La rilevazione statistica procedeva per quinquenni, adattandosi alle stagioni della vita individuate dai saperi psico-pedagogici (infanzia, adolescenza, età adulta). Le istituzioni formative scandivano i primi cicli della vita e il modello di giovane prevalente era lo studente della cultura borghese. Un modello che la storiografia ha ricollegato alla storia della modernità capitalistica e nazional-statuale. I nati in Italia negli anni ’50 erano stati i primi sperimentare l’estensione di questa “condizione giovanile” sotto il profilo sociale e culturale. Per oltre un secolo il soggetto giovane del discorso pubblico occidentale aveva avuto chiari connotati di sesso e classe. Le differenti aspettative per l’età adulta tra ragazzi e ragazze e giovani della stessa estrazione sociale avevano dettato i tempi, le prerogative e le rappresentazioni della giovinezza. La divaricazione dei destini di vita si compiva già alle soglie dell’adolescenza, in quanto l’obbligo scolastico fino ai 14 anni era divenuto effettivo solo con la riforma della scuola media unificata del 1962. In generale, l’esperienza dell’emigrazione verso i centri industriali, le condizioni abitative, i rituali di società e le abitudini di consumo anche culturale delineavano mondi non omogenei. Gli anni di accelerato sviluppo industriale ed economico avevano tuttavia posto le basi per profondi mutamenti nell’esperienza della giovinezza. La richiesta di maggiore qualifica professionale e la crescita della domanda di mobilità sociale avevano dilata la scolarità secondaria. L’incremento dell’istruzione media e secondaria tendeva ad uniformare i tempi e i significati della giovinezza, intesa come età di investimento formativo lungo sentieri codificati di ascesa sociale. Questi ultimi erano comunque distinti, con liceo classico e scientifico in testa, ma privilegi arrivarono anche ai non liceali. Le pratiche di distinzione del ceto studentesco si intrecciavano e sovrapponevano alle forme culturali più popolari dell’epoca. Mentre andava compiendosi il processo di assimilazione della cultura giovanile a quella studentesca, anche quest’ultima smarriva la propria coerenza e stabilità interna, per effetto sia delle forzature dei suoi confini sia delle culture e subculture di consumo. Divario tra chi proseguiva gli studi e chi no. Irruzione significativa delle donne negli iscritti alle università. L’anno accademico 1967-1968 vide l’iscrizione all’università di circa la metà dei diplomati italiani. Il corpo studentesco era rappresentativo delle tensioni interne al mondo giovanile, diviso tra le speranze di una positiva integrazione sociale, insofferente verso il moralismo prescrittivo degli adulti e posizioni critiche maggiormente strutturate in merito alle vecchie e nuove forme di ingiustizia sociale e assoggettamento individuale della società capitalistica e dei consumi. La svolta del ’68 rappresentò un tornante su scala occidentale di una storia cominciata un quindicennio prima, riuscendo a compendiare diverse sensibilità giovanili in un’unica istanza distesa ad ogni campo della vita. Il lessico dei diritti o della classe, il problema dell’inclusione sociale o dell’emancipazione dal comando capitalistico rispondeva solo in parte ad un progetto di liberazione dei soggetti potenzialmente illimitato. La rilettura estensiva del campo della politica continuava ad incoraggiare vecchi e nuovi modi di autorganizzazione sociale. Vero è che nelle pratiche quotidiane non potevano risolversi i progetti di vita dei più giovani. La crisi economica e finanziaria aveva infatti mutato il panorama sociale delle giovani generazioni, incrinando la fiducia in una crescita indefinita e innescando un processo di ristrutturazione industriale che prospettava disoccupazione. In molti risposero affidandosi ai consueti canali istituzionali per ottenere garanzie. Crebbero gli iscritti al Pci, partito di massa che coniugava apertamente la denuncia dei guasti del capitalismo e l’ambizione a divenire forza di governo. Altri accentuarono il motivo dell’autonomia, rigettando sia la retorica della crisi sia la promozione comunista sull’austerità. Alcune parti giovanili reagirono, all’orizzonte di sacrifici, con il rifiuto del lavoro e delle istituzioni e altri che iniziavano ad avvicinarsi alla minoranza già in armi per la conquista dello Stato e altri ancora che ne prospettavano una disarticolazione sotto l’urto della rivolta spontanea di massa. Arriva il ’77. ’77 al caleidoscopio. Nell’estate del 1976 la ricerca di un’occupazione si apriva anche per chi aveva proseguito gli studi pur non avendone i mezzi, ingrossando le fila degli studenti lavoratori. Infatti, il corpo studentesco era mutato nel corso del decennio e tra i figli dei ceti medi e medio-bassi troviamo la componente prevalente dell’esperienza dei Circoli del proletariato giovanile, una sorta di anticipazione del ’77. Il fenomeno era iniziato con l’occupazione di alcuni stabili, che non discendeva dalla necessità abitativa ma dal desiderio di riappropriarsi direttamente dei tempi e degli spazi della vita. Nel novembre 1976 i circoli si erano dati appuntamento all’Università statale di Milano per il loro primo incontro nazionale, a cui presero parte quasi duemila giovani da tutta Italia. A Milano la discussione si era avviluppata sul rifiuto o meno della politica, ma conta rilevare che nel 1975-1976 il movimento studentesco nelle scuole era stato tenuto vivo dagli iscritti agli istituti professionali, che volevano la parificazione del loro percorso di studi con i tecnici. Ad animare il movimento erano state anche le studentesse, lottando sia per il diritto al lavoro e l’abolizione delle scuole femminili sia per l’autogestione dell’educazione sessuale nelle scuole e dei consultori familiari alternativi a quelli pubblici. Restava la tensione tra linguaggi di liberazione ed emancipazione, che convivevano irrisolti. Nell’autunno 1976 ci furono le rinnovate iniziative di riforma del ministro dell’Istruzione Malfatti che emanò una circolare di riordino dei piani di studio nel quadro di un più generale progetto che istitutiva due livelli di laurea e l’aumento delle tasse universitarie. La riproposizione di criteri di selezione fece esplodere le università: tra gennaio e febbraio del ’77, da Palermo a Milano, gli atenei vennero nuovamente occupati, in una più vasta contestazione dell’ordine esistente espressa in forme ora ironicamente dissacranti ora prettamente violente, in un crescendo di scontri di piazza e repressione istituzionale che finirono per oscurare la policromaticità del movimento. Alcune immagini hanno colonizzato la memoria del ’77, e altrettante dovrebbero essere ricordate sull’onda della più recente storiografia. Gli attori del ’77 furono molteplici come le loro forme espressive, tutte volte però a mettere in scena una rivoluzione non più derogabile e derogata. La maggior parte dei giovani del movimento si tenne lontana dagli scontri armati di piazza con le forze dell’ordine. Intanto, già nel giugno una delle principali riviste titolava La rivoluzione è finita, abbiamo vinto: il movimento era morto realizzandosi, esaurendo cioè le concezioni della politica e del lavoro caratteristiche della società industriale e capitalistica. Si trattava di un’interpretazione molto forte, giacché trascendeva i concreti progetti di vita dei giovani, il cui rapporto con le istituzioni si era mantenuto ambivalente ed è lecito supporre che tra il 1977 e il 1978 in molti accogliessero positivamente i nuovi provvedimenti legislativi in materia di occupazione giovanile. La politica sovversiva era stata annichilita dalla torsione rivoluzionaria in rivolta armata contro un potere inevitabilmente in grado di sconfiggerla. L’irruzione della violenza di piazza è spesso ricondotta a una disposizione giovanile corrotta. Alcune anime del movimento avevano in realtà rifiutato l’etichetta giovanile, per prospettare una pratica eversiva che dispiegasse le sue potenzialità nel presente, senza proiezione nel futuro. Una vasta letteratura di “formazione” oggi disponibile restituisce un universo giovanile in bilico tra esaltazione e smarrimento, pronto a rumorose espressioni di disordine trasgressivo e al contempo tentato da regressivi ritorni all’ordine, con la riproposizione della violenza individuale e collettiva, storico terreno che riportava la politica alla logica duale dello scontro con le istituzioni un terreno dove si produsse un rilancio tra giovani di sinistra e di destra. Questi ultimi avevano intanto scoperto la contestazione nei confronti del neofascismo nostalgico (raduni come il Campo Hobbit, dal 1977 al 1981). Queste innovazioni però convivevano con l’immaginario politico del culto virile dell’azione eroica e della lotta contro la sinistra e il “sistema” con aggressioni e azioni dimostrative fino allo “spontaneismo armato”. L’attivismo militante costituì un codice della distinzione generazionale valido solo per una minoranza. Sullo sfondo dei movimenti si muoveva infatti un universo giovanile più ampio e composito. Il mondo emotivo dei giovani era comunque filtrato innanzitutto dalla musica. Consumo commerciale della canzone d’autore testimoniato dal successo, nel 1975, di Rimmel. La bandiera di una nuova generazione, attraverso e oltre il ’77, fu L’Avvelenata di Guccini, attacco sarcastico e tagliente ai sacerdoti dell’ideologia e all’idolo del marcato. Altre rappresentazioni cinematografiche dell’universo giovanile che accompagnarono gli adolescenti agli anni Ottanta furono La febbre del sabato sera e Grease. La favola nostalgica dei felici anni ’50 americani sembravano poter esorcizzare l’eccedenza degli anni ’70 e la ribellione giovanile tornava ad essere un rituale di passaggio all’età adulta. Studiare la transizione A lungo, questa immagine del disimpegno giovanile, tra appiattimento consumistico e marginalità sociale, è sembrata sintetizzare al meglio la fine degli anni ’70 e il passaggio al decennio successivo. Il tema del “riflusso” dei giovani nel privato è stato rilanciato e consacrato dalle analisi successive sugli anni ’70 come “decennio mancato”, ultima occasione per il paese di ammodernare il suo sistema politico e quadro istituzionale, di governare cioè il mutamento sociale andando almeno in parte incontro alle aspettative della generazione ’68. Decennio visto come inizio di una crisi della democrazia italiana deflagrata negli anni ’90, da ricondurre al più ampio contesto di trasformazione della società a capitalismo maturo, con cedimento cioè della politica al mercato e l’emersione della “democrazia dei consumi”. Di segno opposto le analisi che nella crisi del periodo vedono un logoramento delle culture e subculture del dopoguerra. Qui, l’immagine del riflusso, della disillusione e distanza dei giovani dalla politica è stata risignificata in chiave di positivo “pragmatismo” sotto cui ricadrebbero le azioni collettive del decennio, come l’ambientalismo e il pacifismo. La stessa ricomparsa di agitazioni studentesche è stata letta con la lente del riflusso. Attraverso la nostalgia o il biasimo nei confronti del soggetto “giovani” come entità collettive sono quindi passate le valutazioni in merito alla qualità e legittimità del mutamento sociale. professionale, lei la ricollega alla sua militanza in un collettivo femminista-comunista a metà anni ’70. La sua intervista offre spunti di riflessione che complicano e inabilitano la contrapposizione netta tra i due decenni e mostra un contesto femminista transgenerazionale dove si incontrano e scontrano le femministe storiche con le sorelle minori, che si nutrono del pensiero politico delle donne ancora in una dimensione collettiva e di scambio ma al di fuori dei luoghi tipici della politica. Costruire una tradizione La “svolta culturale” che accompagna il passaggio di decennio può essere raccontata attraverso le vicende dei centri di documentazione femminista. In Italia, infatti, i primi archivi del femminismo furono costituiti dalle stesse “femministe storiche”, le stesse che avevano dato vita al movimento. Esemplare è il “Centro di studi storici sul movimento di liberazione della donna in Italia”, fondato a Milano nel 1979 con il fine di «trasmettere al nuovo femminismo il senso politico della nostra esperienza». Una dichiarazione d’intenti che testimonia come il bisogno di rivolgersi all’esterno non determinasse il progetto archivistico. Se il biennio 1977-1979 è stato un momento di crisi, è però ancora da indagare sia la sua effettiva valenza terminale sia la percezione che ne ebbero i contemporanei. È necessario così iscrivere “il femminismo degli anni ’70” in una periodizzazione più ampia che complichi le letture egemoni. Volendo individuare una data convenzionale in cui la parabola del neofemminismo si conclude, fa da spartiacque il 1986, anno del convegno nazionale dei centri di documentazione femministi, che a Siena colgono la sfida di un lavoro professionale e scientifico, e l’anno del disastro di Chernobyl, che porta ad interagire attiviste, politiche e scienziate in modo autorevole sul piano pubblico. Ci si accorge qui della strada compiuta dall’elaborazione teorico-filosofica, ma pesa la scarsa influenza delle ricerche applicate. Gli atti di un convegno sugli studi femministi in Italia tenuto a Modena nel 1987 restituiscono l’immagine di una nuova stagione caratterizzata sia dall’intreccio del femminismo coni vari saperi disciplinari sia dalla necessità di ripensare il connubio di militanza e ricerca scientifica. L’attenzione delle contemporaneiste si volge all’esplorazione della soggettività femminile e all’intreccio tra elaborazione teorica ed esperienza personale nel femminismo. Alla corrispondenza tra esperienza del neofemminismo e modo di fare storia delle donne fa da contraltare la percezione di un possibile cortocircuito tra storia e autobiografia. È in questo contesto che nascono i fondamentali scritti della Passerini sulla tensione tra memoria e storia. Le ricostruzioni di fatti storici sono funzionali al lavoro di concettualizzazione e di riflessione metodologica. Il fine è duplice: da un lato la restituzione di soggettività sul piano dell’interpretazione, dall’altro non lasciare nel vuoto le nuove soggettività ma di connetterle con quelle che non hanno partecipato direttamente ai movimenti femministi. Il problema della trasmissione del patrimonio degli anni ’60 e ’70 è posto. Trasmissione Gli anni ’90 si chiudono con un bilancio negativo, con la chiusura di alcune storiche testate. I propositi di scrivere la storia del neofemminismo continuano ad incagliarsi negli ostacoli posti dalla tentazione all’autobiografia, dal vincolo della nostalgia e della «difficoltà ad accogliere la fine di quell’esperienza». Bisogna attendere il nuovo millennio per trovare trasformazioni impattanti. Da un lato, anche in Italia i Women’s Studies escono dalla semi-clandestinità, dall’altro diventa ineludibile la questione della trasmissione dell’esperienza degli anni ’70. Il bisogno di strutturare le prime monografie e sintesi pensate per «chi allora non c’era» porta la necessità di affrontare la questione delle fonti prodotte da «un movimento di cui si parlava molto e si scriveva poco». Se le tracce del passato sono numerose, la loro interpretazione si rivela insidiosa, giacché le fonti si manifestano in un eterno presente collettivo. Qui, il lavoro dei centri di documentazione diventa essenziale. Tra queste, si ricorda il centro studi di Milano che organizza, nell’ottobre 2001, il convegno Archivi del femminismo. Conservare progettare comunicare. Anche tra le socie della Società Italiana delle Storiche – fondata nel 1989 – si diffonde il bisogno di rianimare il dibattito sulla dimensione politica della ricerca storica delle donne. Un passaggio cruciale è nel 2004-2005 quando la riflessione viene articolata sia sul piano nella politica del femminismo e dell’autodeterminazione delle donne, sia su uno più strettamente storiografico. Oltre la malinconia Alle suddette iniziative, segue nel febbraio 2005 il convegno Nuovi femminismi, organizzato con un duplice intento: quello di promuovere una riflessione sul femminismo in un’ottica che non fosse più esclusivamente quella della memoria, ma cercando una valutazione storica, e quello di tenere presente la prospettiva attuale di un pensiero che non si è fermato negli anni ’70 e che ha seguito percorsi tutti da esplorare. Questo convegno sancisce l’ingresso di una generazione di studiose più giovani. Il problema della costruzione di una tradizione storica delle donne era stato posto prendendo atto della necessità di porre dei confini tra politica/ricerca, storia/autobiografia, individuale/collettivo. C’era il rischio che la storia del femminismo degli anni ’70 potesse arenarsi sul piano del dialogo intergenerazionale, dove il «paradigma dell’indicibilità dell’esperienza» era stato evocato dalle storiche testimoni soprattutto riguardo la pratica dell’autocoscienza. Conclusioni La malinconia per la «perdita del momento alto, utopico del femminismo» può colpire anche le più giovani, non solo le storiche testimoni. È certo indubbio che l’assenza di timori per un eccessivo coinvolgimento personale e il rischio ridotto di auto-censure preventive possono facilitare i processi di storicizzazione, che sono ora sollecitati dal panorama politico. I nuovi movimenti femministi diffusi a livello globale stanno alimentando l’interesse transgenerazionale per il neofemminismo. Oggi si può quindi affermare che la memoria stia facendo spazio alla storia. Ci sono ancora vari terreni da indagare ad es. il legame del movimento femminista con le culture politiche di sinistra o la mancata adozione di una prospettiva intersezionale e dell’analisi delle differenze di classe. Si può comunque auspicare a lavori che siano in grado di sfidare la cesura tra storia del femminismo e storia generale, favorendo le interazioni tra generi, generazioni, ambiti e prospettive disciplinari diversi. La sfida rimane quella di bilanciare le domande rivolte dai nuovi soggetti scientifici e politici alle esperienze del passato con il bisogno e il dovere della testimonianza. Tutto ciò con la consapevolezza che il movimento delle donne è abituato a procedere sulla base di contraddizioni e tensioni continue. tra i coniugi ecc. A contrasto di ciò, l’arma legale, abbinata spesso allo scandalo mediatico, costituì in questi anni la principale forma politica di repressione e censura a sostenerla c’era una legislazione di derivazione monarchico-fascista. Gli anni ’60 avrebbero dato inizio a un cambio di panorama su di esso agivano i modelli veicolati dai media e i consumi d’oltreoceano che proponevano nuove attitudini sociali e sessuali. La critica ai costumi della vecchia società, associata alla grande presenza dei giovani, raggiungeva un pubblico sempre più vasto in quel periodo persino il mondo cattolico si trovava ad affrontare forme di dissenso e di apertura sui temi della vita coniugale e della sessualità. Iniziò così in Italia la popolarizzazione della sessualità. Intanto nel paese iniziava a circolare la pillola e la sessualità delle donne si presentava sotto una luce nuova grazie alla medicina. Politicizzazione e liberazione sessuale La fine degli anni ’60 può essere considerata l'apogeo di alcune tendenze sociali e culturali, quanto l'inizio del processo di politicizzazione della sessualità che avrebbe caratterizzato il decennio dei ’70. Le teorie del ’68 italiano però non si interessarono di sessualità; infatti, il tema centrale delle assemblee studentesche era una riflessione sull’oppressione di classe in ogni caso, pur non favorendo ripensamenti in quanto i leader erano tutti maschi, i movimenti del ’68 favorirono la promiscuità, convivenze tra giovani e altro. Sul piano politico l'esperienza delle rivolte studentesche rappresentò lo stimolo per una nuova ondata di attivismo che, nel contesto globale dei movimenti di protesta anti-Vietnam e per i diritti dei neri, contribuì a porre al centro dell’agenda politica nazionale questioni come la struttura della famiglia, i rapporti tra i sessi e il diritto alla libertà sessuale. Il 1° dicembre 1970 il parlamento approva la legge per l’introduzione del divorzio, confermata poi col referendum del 1974. Proprio il diritto all’aborto libero, gratuito e assistito, avrebbe costituito il terreno principale dell’attivismo politico femminista italiano in tutto ciò però la cornice del dibattito istituzionale e dei partiti rimandava più al principio di parziale depenalizzazione del reato sulla base di argomentazioni di natura sociale e politica sensibilità ben lontana dalla lotta femminista. Intanto avvenivano altre cose interessanti nel 1975 venne approvata la legge per l’istituzionalizzazione regionale dei consultori familiari all’inizio del decennio era nato il FUORI, primo nucleo politico per i diritti omosessuali anche donne omosessuali proliferarono con organizzazioni e riviste. Consumi e media: l’unisex e nuove culture sessuali Il sesso era diventato tema di dibattito corrente al cinema, nella letteratura e sulla stampa e si era trasformato in modo massivo in veicolo di messaggi pubblicitari e commerciali. Il carisma sessuale, anche giocato sull’ambiguità ed esibito con il corpo nudo, era diventato nella musica, nello spettacolo e nella moda elemento di prestigio e di tendenza. L’onda consumistica e controculturale d’oltreoceano stava penetrando anche la società italiana gli effetti furono molteplici si diffusero nuove culture sessuali che superavano quelle vigenti sino ad allora, arrivando prima all’equiparazione dei generi (ad esempio con indumenti unisex), poi, col passo successivo, la confusione e l’ambiguità sessuale tramite consumi e modelli culturali fu immediata. La single e la sua soddisfazione sessuale al di fuori del matrimonio iniziarono ad essere considerati come un fatto positivo e di successo. Il nuovo modello di donna divenne soggetto cinematografico e sfruttato mediaticamente con la coniazione di icone sexy, anche tramite pubblicità a sfondo sessuale. La rivoluzione sessuale del cinema e dei consumi degli anni ’70, spogliando le donne, le aveva solo rese protagoniste dell’ennesimo desiderio maschile. Dall’estremo pudore si era passati alla spettacolarizzazione e allo sfruttamento commerciale. Oggetto di interesse dei media e consumi era di riflesso anche la sessualità maschile svirilizzazione portata avanti dalla pubblicità: l’uomo e il suo corpo erano spesso messi a nudo, ridicolizzati e tagliati a pezzi. Da predatore e macho latino l’uomo italiano era diventato oggetto di desiderio sessuale sia di donne che di altri uomini. A fine decennio la rivoluzione sessuale dei consumi e dei media poteva dirsi in pieno svolgimento. Educazione sessuale e porno di massa L'educazione sessuale appariva sotto una luce nuova in tale situazione. Tornata di attualità nelle aule della politica, senza mai trovare una sistemazione legislativa, negli anni ‘70 aveva assunto nuove sembianze con la crescita del potere delle immagini e dei nuovi media da un lato e la polarizzazione del sistema dei sondaggi dall'altro. A partire da fine anni ’60 i film-documentari per l’educazione sessuale, nazionali e di importazione, si sarebbero imposti all’attenzione del pubblico italiano e dell’industria del cinema. Sebbene non fosse stata introdotta nelle scuole, il tema dell’educazione sessuale era diventata tema di discussione popolare. Nel 1978 il primo studio sulla sessualità degli italiani riteneva però che il paese fosse ancora molto arretrato. Infine, non si può non fare cenno agli effetti prodotti sull’educazione sessuale dalla nascita del porno di massa. Nel giro di pochi anni la fruizione della pornografia passava dalla clandestinità alla disponibilità in edicole, sale cinematografiche e sexy shop. Questo fenomeno era il derivato della “rivoluzione sessuale”. Tutto ciò aveva iniziato a cambiare il comune senso del pudore nazionale. P. Capuzzo, Crisi e trasformazione della società dei consumi negli anni Settanta Dal punto di vista dei consumi, gli anni ‘70 sembrano rappresentare una parentesi che intercorre tra un ventennio di boom economico, che fece uscire definitivamente le famiglie italiane dalla miseria, e gli anni ‘80, quando i consumi divennero un fondamentale veicolo di individualizzazione e definizione degli stili di vita. Andrebbe verificata meglio la consistenza della crisi degli anni ’70 non solo i livelli di spesa non diminuirono, ma alcuni prezzi di prodotti di base calarono (grazie alla completa industrializzazione di alcuni settori), quindi va indagata di più la percezione di crisi sentita in quegli anni. In più, andrebbe approfondito il rapporto tra le controculture dei ’70 e il rinnovamento della società dei consumi. L’anticonsumismo delle prime cozzava con i rilevanti sviluppi commerciali del periodo. Tendenze qualitative: ristagno e trasformazione Dal 1973 al 1982 la spesa crebbe di circa il 10 per cento, arrestandosi a Nord-Ovest, dove ci fu una vera e propria crisi, e ristagnando nel nuovo triangolo a Nord-Est. La diminuzione delle spese alimentari diede il via allo sfruttamento di altri consumi la spesa per trasporti e comunicazione registrò l’incremento più vistoso. Le comunicazioni telefoniche vennero migliorate molto, si diffusero gli apparecchi domestici, l’automobile andava diffondendosi rapidamente. Crebbe anche l’abitudine di andare in vacanza. Aumentarono anche gli italiani che abitavano in una casa di loro proprietà non siamo ancora al mondo di “villettopoli”, però tendenze alla dispersione, che causò la fuoriuscita di molte persone dagli ambienti urbani, andò a riconfigurare i modelli insediativi. Ci furono mutamenti importanti nelle abitudini vestiarie e nelle norme sociali che regolavano la propria presenza al pubblico abbigliamento casual, jeans, ecc. Si affermò la crisi del cinema a favore dello sviluppo televisivo. Le spese ci restituiscono un decennio vivace che vide l’affermazione di grandi supermercati al Sud e big ipermercati al Nord, come Maxistanda o il Gigante. Ormai, la cultura del consumo veniva considerata come fondamentale elemento nella costruzione delle identità e delle differenze sociali. Nonostante questo quadro di innovazioni la narrazione politica del decennio gravitò attorno all’immagine dell’austerità e della crisi. La storia politica dei consumi: la narrazione dell’austerità Già sul finire dei ’60 si manifestarono paure verso i risvolti patologici che la società poteva comportare le scienze sociali, il papa Paolo VI e Pasolini, per fare tre esempi, mettevano in guardia dalla rincorsa al superfluo. Tra la classe dirigente della Dc era invece prevalso un pragmatismo nei confronti dei G. Guazzaloca, Tra vecchio e nuovo: la televisione nel decennio del cambiamento Anni di transizione Nei paesi dell’Europa occidentale gli anni ’70 rappresentarono uno spartiacque decisivo per l’assetto e il funzionamento del sistema dei media fino a quel momento il settore radiotelevisivo era stato soggetto al controllo diretto o indiretto dello Stato, sia per motivi tecnici, culturali e politici. A differenza del modello statunitense, la radiotelevisione in Europa assunse la forma del monopolio pubblico col compito di informare, educare e intrattenere. In alcuni casi, come quello italiano, servì a legittimare lo stretto controllo dei partiti e delle classi dirigenti sulle aziende. Sia sociologi sia storici concordano nel dire che in questo periodo si chiuse la fase di ancien régime delle televisioni europee. Fu l’intero universo della comunicazione ad entrare in un periodo di riassetto globale che trasformò le funzioni dei diversi media, le loro interazioni, gli usi del pubblico, i rapporti con la politica e con l’economia. L’industria dell’informazione e dell’intrattenimento conobbe una costante espansione diventando un settore cruciale con un pubblico sempre più frammentato e segmentato. Quella che conobbero il sistema televisivo e l’industria della comunicazione nel corso di questo decennio fu dunque una vera rivoluzione in Italia la televisione, partita con intenti pedagogici, si riscoprì ambito di intrattenimento. Il punto di vista politico che adotta questo saggio, ovviamente, non è l’unico utilizzabile sarebbe l’ora che anche la storiografia italiana sui media allargasse il proprio sguardo ai molteplici fattori sociali, culturali ecc. Piccole e grandi antenne crescono La crisi della Rai vide l’avveramento della previsione di Scalfari del 1972 in breve entrarono operatori stranieri e aziende private nel mercato delle televisioni, spezzando il vecchio regime monopolistico. La Rai agli inizi degli anni ’70 fu travolta da una serie di polemiche riguardanti sia i suoi rapporti con i partiti di governo, sia la gestione del direttore Bernabei, l’uomo di fiducia di Fanfani. I cambiamenti dei media facevano partire dibattiti che portavano all’attenzione del grande pubblico il problema di come gestire il sistema all’interno delle moderne democrazie. Con Telebiella, il 1971, si ebbe la prima televisione via cavo attiva in Italia e la seguente esplosione di radio libere, favorendo la concorrenza di tv a colori estere nel 1973 il governo si intromise emettendo il divieto di installare impianti di comunicazione a distanza senza l’autorizzazione del governo, ma ciò non fermò il fenomeno. Si era nel pieno della febbre televisiva. La Corte Costituzionale emanò due sentenze nel 1974 che legittimava le emittenti estere, rosicchiando il monopolio Rai, e poi autorizzò le trasmissioni di emittenti private, dando via al far west di tv commerciali e fine del monopolio. Furono soprattutto le radio private ad incarnare lo spirito dei tempi esprimendo il bisogno degli individui di partecipare alla comunicazione. Chiusosi il periodo delle piccole televisioni locali, a contendere il primato della Rai erano rimasti quattro grandi network, tra cui Italia 1, Rete 4 e Canale 5 di Berlusconi quest’ultima inglobò le altre due e la quarta chiuse si arriva a un duopolio. Il pubblico, la Rai, la riforma Nel corso degli anni ‘70 la spinta al rinnovamento del mercato radiotelevisivo venne anche dei cambiamenti sociali e culturali in atto, dalla crescente segmentazione del pubblico e dalla crisi del modello televisivo tradizionale. Uscendo dal dopoguerra, con la necessità di plasmare un’identità nazionale ancora fragile, Dc e Chiesa capirono che i moderni mass media potevano essere utilizzate cementificando il tessuto politico della giovane democrazia italiana. La Rai era diventata uno strumento politico nelle mani del governo. Tuttavia, l’alta professionalità degli autori, programmatori, conduttori e l’eccellente qualità delle trasmissioni, sono nostalgicamente rimpianti, condotti ad un’epoca dell’oro della televisione, anche perché la televisione era ancora il mezzo privilegiato per la diffusione della cultura. Il biennio della contestazione giovanile ruppe gli schemi valoriali del tempo, mettendo in crisi anche il progetto pedagogico che aveva guidato la fase di austerity e l’inflazione non aiutarono la situazione la vittoria del “no” al referendum abrogativo del divorzio nel 1974 era in parte frutto della laicizzazione, sia pure ebete, dei cittadini da parte della televisione; laicizzazione indagata e teorizzata da Pasolini ed Eco. Apparivano indubbi i meriti della televisione per la diffusione di cultura e conoscenza in tutti gli angoli della nazione, però era evidente che quel ciclo si era chiuso e non aveva più senso continuare l’indottrinamento forzato. Ora i mass media cominciavano a essere analizzati nelle loro interazioni con gli utenti, come sistemi complessi e polimorfi. Mentre studiosi e giornalisti analizzavano la caduta dei valori e dei modelli culturali tradizionali, dentro la Rai non cambiò quasi nulla dal punto di vista organizzativo anche la riforma del 1975 ripropose gli stessi schemi di gestione del passato senza cambiamento. Alla fine, l’unica novità fu quella di attribuire il controllo sulla Rai alla Commissione parlamentare di vigilanza sui servizi radiotelevisivi anziché migliorare la situazione, ciò rese la Rai un benefit mediatico per quasi tutti i partiti. Messi da parte i programmi culturali, fu nei settori dell’informazione, dell’intrattenimento e dei programmi per ragazzi che si registrarono i cambiamenti più interessanti vediamo il telegiornale della seconda rete di Barbato che raccoglieva e spettacolarizzava le notizie, Domenica in e L’Altra Domenica, programmi contenitori di media diversi (radio, telefono, dischi ecc.). La televisione, aperta ora al pubblico, era capace di integrarsi con la routine degli italiani facendo loro compagnia. All’inizio del 1977 debuttavano le trasmissioni a colori, con grande ritardo rispetto agli altri paesi per problemi tecnici e politici. Continuità e rotture A proposito della cesura degli anni ‘70/80 gli studiosi dei media tendono a enfatizzare le innovazioni tecnologiche, l’ampliamento del mercato pubblicitario, i più efficaci sistemi di rilevazione dell’audience ecc. Ma ci furono cambiamenti anche dal punto di vista politico-culturale. La neotelevisione commerciale degli ’80 fece da sfondo alla rivoluzione neoliberista, alla crisi dei valori tradizionali, alla destrutturazione delle vecchie classi sociali. Cambiò anche il ruolo dei partiti, abbandonando la peculiarità della “missione salvifica che aveva accompagnato le democrazie del dopoguerra si stabilirono ora spettacolarizzazione del dibattito, attenzione più alla comunicazione che all’impegno militante la televisione divenne un palcoscenico per dibattiti. In Italia la televisione divenne pura tecnologia del divertimento, abbandonando la logica della pedagogia per accompagnarsi a quelle di mercato. Non cambiò però la vicinanza della politica alla televisione Silvio Berlusconi entrò in politica possedendo delle reti, e anche il monopolio governativo sulla Rai incontrò la riluttanza della Dc a modificarne la struttura. Primato della politica sull’industria televisiva primato che potè consolidarsi anche grazie ai vuoti e ritardi legislativi. Nel corso dei ’70 quindi una serie di cambiamenti mutarono il volto e gli assetti dei media audiovisivi; la televisione divenne un’industria matura e complessa, vincolata al mercato e collegata ad altri mezzi di comunicazione. campagna sul referendum. La ricomposizione di area cattolica non era di agevole realizzazione nonostante la tenuta elettorale della Dc alle elezioni politiche del ’76, l’unità politica dei cattolici si era infranta nei fatti ci fu anche il fallimento del Movimento politico dei lavoratori, fondato da Labor come alternativa alla Dc. L’elezione nel ’79 di Wojtyla contribuì ad articolare un quadro già mutato rispetto al decennio precedente, col suo diverso approccio alla politica italiana e al governo del cattolicesimo la crisi non era solo del cattolicesimo politico, ma del ruolo di mediatore tra le organizzazioni religiose e i partiti, sindacati ecc. Le diverse confessioni persero parte della loro capacità di rappresentare in modo unitario sulla scena pubblica le identità e le richieste dei fedeli. La polarizzazione verificatasi nel paese, con gli esiti estremi del terrorismo, alimentò e si nutrì delle contrapposizioni presenti nel cattolicesimo ma le comunità religiose svolsero comunque un ruolo di stabilizzazione e di coesione della società italiana, depotenziando le frange più critiche e assimilando alcune spinte radicali, rafforzando la capacità di resilienza alla crisi sociale ed economica di ampi settori della popolazione. Emersero religiosità post-secolari recuperano alcuni elementi della contro-cultura degli anni ’60, si proposero come comunità emotivamente coinvolgenti, spesso con un leader carismatico a capo. Continuarono ad esistere anche frizioni sui simboli confessionali nei luoghi pubblici e sull’insegnamento della religione cattolica nelle scuole. Nel movimentato scenario degli anni ’70, quindi, il religioso non si era dissolto, ma aveva cambiato la sua funzione nello spazio pubblico e sulla percezione degli stessi credenti. Storiografie a confronto Non diversamente da altri aspetti della storia d’Italia degli anni ’70, solo da un ventennio i fenomeni religiosi del decennio sono oggetto di ricerche sistematiche. Limitandosi all’ambito del cattolicesimo, è possibile proporre una scansione in tre tappe della storiografia. 1) Tra gli anni ’70 e ’80 gli studiosi sono attratti dalle tensioni dei movimenti religiosi e partiti manifestatesi dopo il ’68 e dallo studio dell’eclissi del sacro. L’evidente crisi della società italiana generarono giudizi contrastanti negativi circa le ricadute provocare dalla cultura radicale nel cattolicesimo e nella religiosità degli italiani da un altro lato si sottolinea quanto il Concilio favorì un ridimensionamento della politicizzazione della Chiesa italiana da un terzo lato si dice che la Chiesa di Roma abbia manifestato una sostanziale continuità reazionaria, nonostante i cambiamenti portati dal rinnovamento conciliare e della contestazione. Gli storici concordano sulla divaricazione negli anni ’70 tra propensioni dei fedeli e orientamenti pubblici della gerarchia cattolica. 2) Nell’ultimo quindicennio, l’estensione della società multietnica, la crescente visibilità delle correnti fondamentaliste all’interno delle diverse confessioni religiose ecc. hanno portato a un ampliamento degli interrogativi e degli oggetti di analisi grande attenzione alla storia della sociabilità religiosa, al mutamento dei fenomeni religiosi in seguito alla secolarizzazione ecc. Apertura di linee di approfondimento più attente alla dimensione transnazionale dei fenomeni religiosi e agli scambi interconfessionali. 3) Le più recenti interpretazioni della storia d’Italia hanno sottolineato le conseguenze, negli anni ’70, della pervasività della società dei consumi sulla religiosità e l’impatto delle trasformazioni dei fenomeni religiosi sulla complessiva situazione politica. Sono diverse le conclusioni si pensa che la religione abbia favorito la disarticolazione delle appartenenze politiche, oppure abbia incubato alcune genelogie del terrorismo, oppure abbia rafforzato le virate tecnocratiche o la degenerazione clientelare del governo del paese. In bilico tra passato e futuro Il 1978 è stato un anno di cerniera tra la morte di Moro e di Montini, con la fine della solidarietà nazionale allo stesso tempo si attenuavano i dibattiti ideologici più accesi nelle Chiese protestanti, ma anche l’avvio della stagione della riforma del concordato con la Chiesa cattolica e delle intese con le Chiese valdese e metodista, con le Comunità ebraiche. Sarebbe rilevante ricostruire le ricadute nelle singole comunità religiose della spinta partecipativa e, a volte, eversiva presente nei movimenti sociali del ’70 e le reazioni di fronte all’emersione di nuove forme di soggettività giovanile, operaia e femminile. Allo stesso modo, l’esame delle posizioni dei gruppi tradizionalisti e fondamentalisti cristiani/ebraici può essere arricchito con la ricostruzione delle rispettive reti di collegamento internazionale che ne favorirono il contatto con i settori politici neoconservatori e neoliberisti. C’è da chiedersi se i ’70 non fecero evaporare la nazione cattolica, o almeno a ridimensionare questa rappresentazione. Gli anni ’70, anche dal punto di vista religioso, registrarono la confluenza di tensioni e spinte per il cambiamento, spesso di lungo periodo, che provocarono all’interno delle singole confessioni incerti tentativi di stabilizzazione e creazione di nuovi equilibri. 57 C. Panizza, Oltre Pasolini: storicizzare la cultura e gli intellettuali italiani negli anni Settanta Patologie della memoria Pensando agli anni ’70 torna in mente Pasolini rinvenuto cadavere, massacrato, sul litorale di Ostia il 2 novembre del 1975. Parve naturale inscrivere il delitto nella lunga scia di sangue iniziata a Piazza Fontana nel 1969 la fase più macabra degli anni di piombo fece sì che l’immagine del cadavere di Pasolini non uscisse più dalla luce dei riflettori, anticipando il delitto Moro. Trauma collettivo. Lo storico deve però andare oltre alla patologia della memoria, non stereotipando il passato, quindi, per storicizzare gli anni ’70 si deve mettere da parte Pasolini per leggere l’intera cultura italiana di quegli anni. I cambiamenti strutturali della società italiana convergevano nello spogliare l’intellettuale dalla sua funzione sacerdotale, di mediatore tra il potere e il popolo, fra la cultura e le masse, per ritornare ad essere un esperto della cultura. Gli anni ’80, quelli dell’individualismo sfrenato e frivolo, dei consumi e della corruzione politica, finirono per essere opposti ai ’60, visti come decennio aureo perché portavano con sé le contestazioni per i diritti in questa dicotomia i ’70 finivano per sbiadire assumendo il volto ambivalente dell’impegno e della sua crisi nello scacco finale. L’eterno ritorno della questione degli intellettuali Ovviamente gli intellettuali vedevano queste trasformazioni e ne erano consapevoli, tra chi vide delle opportunità e chi una condanna, soprattutto per il sapere umanistico tradizionale ad esempio, Pasolini condannava l’impoverimento della lingua verso una medietà standardizzata funzionale allo sviluppo capitalistico. Un esempio fu la ricezione e la pubblicazione del romanzo La Storia di Elsa Morante nel 1974, pubblicato in edizione economica e frutto di una campagna pubblicitaria la critica non orientava più i gusti della popolazione. L’attività dell’ultimo Pasolini, abbandonata la critica letteraria per la sociale, pare un tentativo di argomentare le ragioni che dovevano spingere gli intellettuali a rifiutare i meccanismi sociali che li schiacciavano nel loro ruolo per riaffermare la loro funzione universale, di contro al dilagare di una società consumistica che comprimeva ogni residuo spazio critico. Una nuova andata al popolo Gli anni ’70 sembrano così essere sì anni di un ritrovato impegno intellettuale, ma a