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[Riassunto] L. Serianni - Prima lezione di grammatica, Sintesi del corso di Linguistica

Sintesi di Prima lezione di grammatica di L. Serianni per l'esame di linguistica

Tipologia: Sintesi del corso

2017/2018

Caricato il 27/09/2018

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Scarica [Riassunto] L. Serianni - Prima lezione di grammatica e più Sintesi del corso in PDF di Linguistica solo su Docsity! PRIMA LEZIONE DI GRAMMATICA (Luca Serianni) CAP. 1 – Il GRAMMATICO TRA SCRIVENTI E PARLANTI GRAMMATICA (dal greco techne grammatiké  scienza del leggere e scrivere) = tradizionalmente la grammatica viene identificata con la cultura scritta e si fonda sulla contrapposizione tra: • grammatico → persona colta depositaria del sapere. • profano → soggetto all'errore e bisognoso di una guida. = Ma nella linguistica contemporanea, per grammatica di una lingua s’intende → “l’insieme delle regole che ne governano i sistemi fonologico, morfosintattico e lessicale, alla cui interazione si deve il funzionamento della lingua stessa intesa come codice semiotico deputato alla comunicazione interpersonale”. Da questo pdv, tutti i parlanti padroneggiano alla perfezione la propria lingua materna: nessun italofono, anche se analfabeta, direbbe “io avere fame” perchè ogni b., tra i 2/3 anni, ha più o meno interiorizzato la regola seconda la quale il pronome di auto-riferimento (io) richiede una specifica forma verbale:“ho”, ma anche “ci ho” (c'ho): in questo caso ci troviamo dinanzi al ci attualizzante. CI ATTUALIZZANTE: è un elemento ridondante al quale la comunicazione parlata ricorre di frequente, in forme diverse da quelle usate nello scritto; è attestato da un paio di secoli, ma non ha trovato una stabile registrazione nella scrittura probabilmente per la difficoltà nella resa grafica. In effetti: - quando si trova in combinazione coi pronomi atoni lo, la, li (ovvero quando non c'è nessun prob. di rappresentazione scritta) il ci attualizzante che viene utilizzano nella forma ce (ce l'ho - ce lo ho) è obbligatorio nel parlato e trasferibile senza difficoltà nella scrittura (ce l'ho). Tuttavia,in questi casi, siamo di fronte ad una grammatica del parlato, senza corrispettivi nello scritto: nessuno ricorrerebbe a questo costrutto in un contesto impegnativo tranne in pochi casi come ad es: – in un romanzo o nella letteratura creativa (es: Verga scriveva ci ho, ci hai affidando al lettore il compito di elidere mentalmente la i) – quando la barriera scritto-parlato non è discriminante – nello scritto a scopo di documentazione scientifica (es: sbobinatura di una conferenza)= in questo caso vi sono 2 modi di articolare il discorso orale non rappresentabile nell'ortografia corrente: 1) creazione di blocchi accentuativi in cui le parole monosillabiche “grammaticali” (quelle che non hanno significato autonomo e servono a collegare le parole) fanno corpo con la parola successiva dotata di significato. 2) sandhi esterno – termine sanscrito usato dagli antichi grammatici indiani, che indica l'accomodamento che avviene al confine della parola, articolando debolmente la vocale finale davanti alla vocale iniziale di una parola successiva (in poesia si chiama sinelefe – Leopardi “Silvia rimembri˽ancora) Quindi, se rappresentiamo le parole come un parlante le ha effettivamente pronunciate in un discorso, dovremmo fondere le parole grammaticali con quelle semanticamente piene (“il- vostro…”) e indicare i fenomeni di sandhi (tra vocale e vocale: ho˽accolto, vostro˽invito; tra consonante e consonante: la n di con seguita dalla consonante labiale di piacere si articola come una nasale labiale: com˽piacere), inoltre molti tratti di pronuncia e la curva prosodica (l’intonazione con cui è pronunciata una frase) risentirebbero della regione/area geografica di provenienza, nonostante ciò non avremo alcun dubbio sulla trascrizione. Infatti, in italiano esiste una norma scritta abbastanza rigida, mentre c’è larga tolleranza per pronunce regionali, a differenza di ciò che accade in lingue come il francese. Questo perchè il fiorentino colto, su cui si è modellata la lingua italiana, non ha avuto forza per imporsi come modello di lingua parlata. I motivi sono: • tarda unificazione dell’Italia. • non coincidenza di Firenze con la capitale del nuovo Stato. • precaria esistenza di un italiano parlato presso la massa analfabeta, l'italiano è nato come lingua scritta (a differenza della Germania, in cui la Riforma luterana favorì l'accesso diretto alla lettura da parte del popolo e promosse indirettamente l'omogeneizzazione linguistica). Questi fattori hanno condizionato la lingua italiana moderna, questo fa sì che lo scritto sia fortemente influenzato dal parlato: infatti, è impossibile, anche sentendo parlare un italiano colto, non distinguere almeno la regione da dove proviene. Inoltre, l'italiano, a differenza del francese e dello spagnolo (che pure sono lingue romanze) mantiene in vita numerose alternative: infatti dà la possibilità di scegliere tra la soluzione linguistica più comune o un costrutto meno comune o letterario. Pur rinnovandosi come ogni lingua viva, non abbandona del tutto le forme delle fasi superate ed è per questo che mostra una maggiore variabilità rispetto alle altre lingue romanze. Esempi di questa variabilità rispetto alle altre lingue romanze d'Europa sono:  Apocope vocalica facoltativa → ovvero la possibilità indistinta di utilizzare indifferentemente all'interno di una frase una parola piena o troncata dall’ultima vocale (un bicchier d’acqua – un bicchiere d’acqua) // in francese non esiste.  Pronomi personali soggetto → l’italiano ha ormai generalizzato come pronomi di 3ª “lei” e “lui”; (ma “ella”, “egli”,” essa” si usano ancora nel registro formale), accanto al “tu” si diffonde “te” sia in seconda posizione “io e te”, sia in usi marcati “prendila te”.  Pronome dativale atono di 6° persona oscilla tra “gli” e “loro” → “GLI” è usuale nel parlato ed è d’obbligo in combinazione con altri pronomi atoni “se vedi paolo e anna digli di aspettare/di’ loro di aspettare= diglielo”);  Pronomi e aggettivi dimostrativi → in francese sono 2 e in spagnolo 3, mentre in italiano occorre distinguere: nel parlato e nello scritto sono normalmente 2 (questo, quello), ma nel dialetto toscano diventano 3 (questo, quello, codesto) e anche nella forma scritta può comparire codesto per richiamare un concetto espresso in precedenza (valore anaforico).  “Essere” e “avere” possono essere utilizzati entrambi come ausiliari dei verbi servili, che reggono un verbo intransitivo → (Paola ho dovuto/è dovuto uscire) // non accade in spagnolo. CAP. 2 – LA DERIVA DELL'ANTICO NELL'ITALIANO DI OGGI L’impronta arcaizzante ha continuato a dominare nella nostra lingua fino a 50 anni fa ed è per questo che ad es. il linguaggio utilizzato in una novella di Boccaccio risulta ancora oggi familiare. Serianni riporta un brano del Decameron, dove si può notare che: – ciò che differisce è la sintassi, in particolare l'ordine delle parole risentono dell'impronta latina (es: verbo dopo il c.ogg.) – molte parole sono rimaste le stesse (es: sia parole grammaticali “questo, che, del” sia parole semanticamente piene “persona, piccolo”); – solo alcune sono usciti dall’uso (benvogliente, oggi si usa benevolo) – altre hanno cambiato significato (brigante non viene utilizzato da Boccaccio con il significato di bandito, ma di “compagnone”, infatti si usa “brigata” senza implicazioni negative). Costrutti arcaici/antiquati si ritrovano tuttora, es: proposizione infinitiva al posto della completiva introdotta da che, modellata sul costrutto latino dell’ accusativo + infinito, utilizzata anche per ovviare all’accumulo di troppi che (Non concordano tutti esser questa la soluzione migliore) dedicano molto spazio alla differenza tra scritto e parlato, visto che la spesso astratta tipologia degli schemi grammaticali si demolisce da sola, per andare incontro al vivo della lingua. Ciò vuol dire che la grammatica come disciplina deve e sa mettersi in discussione e deve avere come riferimento principale, oltre la pura manualistica, le spinte dei parlanti. CAP.4 – NORMA DEI GRAMMATICI E NORMA DEGLI UTENTI Eugenio Coseriu, uno dei massimi linguisti del '900, si occupò della norma linguistica in un saggio divenuti classico del 1952 “Sistema, norme e “parole”. Al di là delle “parole”, il punto centrale di questa partizione è la differenza tra sistema e norma: SISTEMA = è insieme delle possibilità astratte garantite dai meccanismi formativi della lingua, alcune delle quali non sono attualizzate ma esistono solo virtualmente; NORMA = consiste nell'attualizzazione del sistema di volta in volta realizzate nel corso della storia. Per comprendere meglio questa distinzione, Coseriu fa l'esempio dell'espresso di Parigi delle 8.20: – Si possono individuare in esso alcuni elementi del sistema: orario di partenza, di arrivo, numero di fermate (senza di questi non esisterebbe quel treno). – Elementi che invece rientrano nella norma sono: disposizione dei vagoni, il loro numero, colore ecc.. ovvero sono elementi che ci aspettiamo di vedere rispettati se siamo passeggeri abituali di quella linea, ma se mancano non implica la non-esistenza del treno in questione, le ferrovie non sentirebbero l'obbligo di avvisare i passeggeri. Il confine tra sistema e norma non è facilmente delimitabile e non è possibile parlarne in termini astratti, ma dipende dalla reazione linguistica che una comunità di parlanti in un dato momento storico ha, ad es: → “bue” al plurale “normale” è “buoi”, ma esiste nel sistema linguistico la parola “bui” (tratto dal singolare bue sul modello tenue/tenui), ma se si tiene conto della reazione dei parlanti, si colloca al di fuori del sistema perché nessun parlante lo tollererebbe. Allo stesso modo per quanto riguarda la norma della sintassi, il giudizio di accettabilità dipende fortemente dalla forma scritta o orale: se si considera la sintassi di una persona che parla a braccio, anche se colta, è molto precaria: frasi lasciate a metà, interruzioni, ridondanze; però sono violazioni a cui gli ascoltatori non danno importanza, anzi, sarebbe più difficile mantenere l’attenzione dinanzi ad una conferenza letta ed impeccabile sintatticamente, mentre susciterebbe delle sanzione se venisse scritto. Per capire quali sono i parametri x definire e valutare la norma linguistica, possiamo dire che in questo caso entra in gioco una sorta di “pudore linguistico” che spinge ad avere una buona percezione della correttezza linguistica da parte dei parlanti e conseguente reattività nei casi di violazioni di norme comunemente condivise. D’altro canto, l’utente della lingua, anche se analfabeta, interiorizza alcune norme della lingua, distinguendo il confine lecito-illecito, quindi sa che in italiano è inammissibile dire “parla a io”, ma sa anche che esistono delle alternative più o meno indifferenti (es: basti pensare alla tolleranza dell'italiano x le pronunce regionali). Tra i due poli giusto-sbagliato esiste quella che è una sorta di zona grigia. Il parlante può trovarsi dinanzi a dubbi dipendenti da vari fattori: scarsa cultura, tipo di contesto in cui agisce, aspirazione al prestigio sociolinguistico ecc. Nel caso dell'italiano, questa zona grigia è più estesa rispetto alle altre grandi lingue europee per 2 motivi: 1. la minore uniformità → legata alla tardiva affermazione di una lingua comune; 2. importanza attribuita alla codificazione grammaticale → vista come un’autorità condizionante, capace di proporre schemi fissi e mai di possibile violazione. Infatti, in Italia i grammatici hanno avuto più autorità che altrove e da qui deriva anche la fortuna dei dizionari e grammatiche dal 16 sec. in poi, che vede i puristi contrapposti agli innovatori: infatti. nascono i dizionari dei barbarismi, che raccolgono forme da evitare ecc. Il filone dei puristi rimane attivo anche durante il 900 (rafforzato dal Fascismo), si affievolisce nel dopoguerra per poi riemergere negli anni 60. Anni 60 → ravviva la tradizione purista il libro “Lingua in rivoluzione” di Franco Fochi, allarmato dall’italiano del boom economico: vengono guardati con sospetto i neologismi, le estensioni semantiche (es: coscienza stradale, calcistica ecc – la coscienza è una sola ed è morale). Anni 90 → appare “Il salvalingua” di Della Valle e Patota, che danno l’immagine di una lingua che non è quella di un tribunale in cui si sanzionano gli errori, ma quella di una piazza in cui passeggiano persone vestite in modo diverso perché svolgono differenti attività e viene dato ampio spazio alla zona grigia della norma linguistica, dove possono sorgere dubbi x alternative ugualmente ammissibili e in molti casi anche intercambiabili (es: familiare/famigliare). CAP. 5 – LA REATTIVITA' DEL PARLANTE Spesso, dinanzi ad alcuni quesiti linguistici, si nota nei parlanti un atteggiamento fondato sull’idea che della lingua italiana si possano sempre tracciare i confini giusto-sbagliato, il che esprime una certa sensibilità nei confronti della lingua nazionale, che secondo alcuni starebbe decadendo sempre di più. Tra le cose meno tollerate vi sono: • Pleonasimi (ridondanze) → se una parola non aggiunge nulla al significato della frase va eliminata, tuttavia è molto frequente nell'uso familiare e parlato e non implica di per sé una violazione di regole grammaticali, es: uscire fuori (non si può uscire dentro). • Tautologie → figura retorica che consiste nell'aggiunta di contenuto ridondante e dal significato ripetitivo, es: la locuzione Arrivederci a presto poiché la preposizione a è già inclusa nel saluto. – suicidarsi è infatti stato accusato di tautologia contenendo due volte il pronome riflessivo: nella forma latina sui “di sé” e nella forma riflessiva italiana si: deriva infatti dal francese,si è diffuso poi rapidamente divenendo un neologismo da molti criticato.Ma quando una parola nuova viene introdotta in una lingua ed ha avuto successo Nencioni suggerisce di essere cauti con i giudizi puramente logico-grammaticali e chiedersi invece se quella parola non ha colmato una lacuna, un vuoto nella lingua. • Fastidio per la polisemia → “un certo discorso” vi è un'illogicità nella parola “certo”, ovvero dove sta la certezza?4 • Diffidenti verso i neologismi → si ha paura che l'italiano perda la sua individualità (perchè usare concretizzare, francesismo, anziché concretare). Questo esprime un certo attaccamento alla lingua che si manifesta con l'avversione per il nuovo visto come decadenza; molti sono sensibili all’autorità del libro di grammatica e al prestigio del vocabolario (il primo fu realizzato dall’Accademia della Crusca), al concetto di norma linguistica formatasi durante gli anni di scuola, sono più restii a concepire una lingua dinamica e in continua evoluzione. Tuttavia, bisogna inoltre ricordare che il parlato ha altre regole rispetto allo scritto e che la televisione, accusata di essere la principale responsabile del degrado, ha dato largo spazio al parlato reale ed è divenuta piuttosto rispecchiamento, che modello di lingua e questo è possibile perchè oggi l'italiano parlato è molto più compatta e diffuso rispetto a anni fa. CAP 6 – GRAMMATICA E TESTUALITA' La grammatica tradizionale si divide in: → fonologia e grafematica = i suoni della lingua e loro rappresentazioni grafiche. → morfologia = studio delle “forme“ linguistiche (quanti /quali sono gli articoli, coniugazioni verbali ecc.) → sintassi = organizzazione degli elementi costitutivi della frase e del periodo. Per orientarsi nella morfologia e nella sintassi, si fa la classica divisione in parti del discorso, ereditata dalla grammatica greco-latina. In italiano, si distinguono 9 parti: 5 di queste, ovvero nome, pronome, articolo, aggettivo e verbo sono variabili per più parametri: • nome-pronome-articolo-agg. → variano per numero (plurale/singolare) e x genere (fem/masc) • verbo → varia per modo, tempo e diatesi (attiva/passiva) 4 di questi, ovvero avverbio, congiunzione, preposizione, interiezione sono invariabili. Questa impalcatura tradizionale è stata mantenuta anche nelle grammatiche più innovative, invece gli aspetti della grammatica tradizionale che sono maggiormente entrati in crisi sono: – LESSICO – TESTO. TESTO = è ogg. di studio della linguistica testuale, da latino textus (tessuto) può infatti essere paragonato a un insieme di fili che dà vita a un insieme organico. → deve avere un contenuto comunicativo, inserirsi correttamente in un certo contesto e fare emergere un emittente/destinatario. Tranne nel caso della lettura creativa, che viola i canoni testuali x rispondere ad una precisa strategia comunicativa (es: poesia futurista). → Può essere: • orale = è eseguito in un certo contesto, rivolto a precisi destinatari e non conservato (ma conservabile con una registrazione), per essere interpretato correttamente ci si può basare sul contesto comunicativo. • scritto = destinato a una fruizione lontana rispetto al momento di produzione, il destinatario può essere imprecisato,ma per essere interpretato correttamente si devono esplicitare tutti gli elementi necessari, grammaticali e non. → Può essere classificato in: narrativo: fiaba // descrittivo: guida turistica // argomentativo: articolo di fondo // informativo: voce enciclopedia // regolativo: ricetta di cucina. → Ogni testo può avere molteplici significati, che variano anche in base all’epoca della ricezione. Nelle opere letterarie, infatti, i contorni sono più sfumati: l’emittente può non essere noto; i destinatari possono essere molteplici, ovvero tutti i possibili lettori; il contenuto comunicativo non è mai univoco. Tutte le situazioni della nostra quotidianità possono essere considerati testi. ES: una porta con la targa “signori”in un locale pubblico rappresenta un testo: - ha un preciso contenuto informativo, che presuppone un emittente. - si inserisce in un contesto comunicativo prevedibile. → Ma in particolare, i requisiti fondamentali di un testo scritto sono: la COESIONE e la COERENZA. CAP. 7 – LA COESIONE COESIONE → implica il rispetto dei rapporti grammaticali e della connessione sintattica tra le sue parti. → È violata, quando: • non si rispetta l’accordo di numero tra sogg. e predicato,o di genere tra nome e attributo. • non si segue l’ordine delle parole richiesto in italiano (es: cane il). • quando non si osservano le norme richieste dalla sintassi (es: il libro consta in 10 cap. anziché consta di perchè constatare regge il c.indiretto introdotto dalla proposizione di) Vediamo qualche caso di violazione della coesione in particolare: Invece egli, essa ed ella si usano ormai solo nello scritto e anche lì hanno un sentore libresco, in particolare: – “Egli” ha un uso ormai limitato e sopravvive nei compiti scolastici, insieme ad ella sono i veri coesivi anaforici, mentre Lui e lei in funzione di soggetto si usano in 2 casi: 1- Quando si sottolinea il tema del discorso arricchendolo di una nuova informazione (Che dice Carlo? Ah, lui non dice niente) 2- Quando il pronome è posposto al verbo, cioè quando l’informazione nuova è contenuta nel soggetto e non nel verbo. (Chi l’ha detto? L’ha detto lui!) b) Sostituzioni lessicali per evitare ripetizioni attraverso: • Iperonimi = parole semanticamente sovraordinate (albero anzichè pioppo). • Nomi riassunto = che sintetizzano il contenuto di una o più frasi precedenti (questo discorso) • Nomi generali = di massima estensione semantica. (cosa, fatto, roba) • Sinonimi = dal vocabolo più comune a quello frequente. E' una procedura molto comune, ad es: se un articolo di giornale parla di guerra, il tema può essere richiamato con conflitto ecc. c) Riformulazione E' il meccanismo a cui si deve necessariamente ricorrere, quando si vuole evitare di ripetere un nome proprio, che è un’entità individuale e irripetibile. Consiste nel richiamare il già detto con un’espressione che attivi, anche facendo leva sull'enciclopedia dei destinatari, il riferimento anaforico voluto. (per non ripetere Firenze si dice “la città di Dante”– “la ragazza” o “la signora” per Francesca) d) Ellissi è il tipo di coesione più comune in italiano, consiste nella semplice omissione del sogg. (in francese e in inglese non si può fare). • è obbligatoria in due coordinate o una subordinata ed una coordinata, che condividono lo stesso soggetto. (Laura prese il bambino e uscì. –Laura prese il bambino, perché doveva portarlo a casa.) • è preferita quando si succedono due periodi con lo stesso soggetto. Casi in cui è necessario esplicitare il soggetto: - Quando il soggetto non è lo stesso nelle coordinate e nella successione di due diversi periodi. - Quando la coordinata ha un soggetto plurale che include quello della reggente. In una subordinata, invece, se il contesto è chiaro, non c’è bisogno di esplicitarlo. Sono inaccettabili casi di omissione come i seguenti: - Quando le due proposizioni condividono lo stesso soggetto, ma nella subordinata il soggetto è rematico, posposto al verbo, es: La patente a punti è efficiente se c’è un buon controllo, laddove manca, si commetterebbe un’ingiustizia (= esso- questo –tale controllo manca) - Quando il soggetto è anticipato, in forma di tema, come complemento indiretto. (Quanto alle altre tre religioni, hanno avuto influenza irrilevante tranne l’Ebraismo (=esse hanno avuto) CAP. 10 - CONNETTIVI CONNETTIVI = sono elementi grammaticali eterogenei che assicurano i rapporti logici e sintattici tra le varie parti di un testo e che possono portare a cambiamenti di significato: a) Preposizioni (Parlo a te, equivalente a Parlo con te, ma distinto da Parlo di te o Parlo per te) b) Congiunzioni (Quando arriverai, verrò a prenderti è diverso da se arriverai) c) Avverbi e locuzioni complesse se collegano testi o sequenze del discorso, acquistando autonomia strutturale (congiunzioni testuali):  Ad es: – avverbio vivamente può modificare un singolo elemento della frase (un verbo, un aggettivo), ma non può fare altro; – Francamente, invece, ha maggiore autonomia di collocazione e può rappresentare un’intera frase (es: Francamente, non mi aspettavo un trattamento del genere / francamente sta per se posso parlare francamente) [Le diverse funzioni che lo stesso elemento linguistico può avere in contesti diversi permette di formulare alcuni quesiti propriamente grammaticali: La congiunzione benché può costruirsi con l'indicativo? La risposta è no, se si tratta di una congiunzione concessiva (Benchè fosse tardi e non benchè era tardi). Ma quando è congiunzione testuale, il suo significato sfuma in quello di una congiunzione avversativa (nel senso di ma, però, tuttavia) e può ammettere l'indicativo: in tal caso benchè conferisce valore avversativo-limitativo a una frase o sequenza di discorso.] I connettivi testuali costituiti da avverbi o da locuzioni sono tipici del parlato o della scrittura che lo riprende e possono esprimere: 1) una concessione a un’obiezione altrui, per depotenziarla (passò un’ora, ne passarono due, e poiché la morte non sopravveniva, uno dei medici propose di mandare qualcuno in città per una barella: c’era SÌ il pericolo che il moribondo spirasse per via; ma, d’altra parte, lì in quell’antro, non poteva rimanere); 2) un’obiezione o un’argomentazione che riguarda un particolare apparentemente marginale (mi sembra però che in chiesa non ci si debba star meglio da morti. nel camposanto, SE VOGLIAMO DIRLA, ci piove.); 3) un’eventualità o un caso limite (giunto da Marsiglia, mi sarei imbarcato, MAGARI con un biglietto di terza classe, per l’America.); 4) una sintesi di cose dette in precedenza per evidenziare il significato essenziale (i pubblici uffici davano ancora un po’ di movimento, ma quasi meccanico alla città: altrove ormai urgeva la vita. l’industria, il commercio, la vera attività INSOMMA, s’era da un pezzo trasferita a porto empedocle.). In scritture poche esperte può non essere semplice utilizzare i connettivi correttamente, ad es: • La duplice differenza tra ma e bensì, entrambi connettivi avversativi: – Bensì introduce un alternativo, che sostituisce ed annulla il primo elemento. – Ma indica una circostanza che contrasta con quel che precede, senza annullarlo. • Il caso di infatti (esplicativo) e quindi/ dunque (conclusivi) condividono alcuni usi, ma non sono sovrapponibili: – Infatti può introdurre una deduzione che giustifichi l’affermazione iniziale (Fa caldo: infatti la neve si sta sciogliendo) opp. si muove da un’affermazione, per inferirne una conseguenza (Fa caldo, quindi la neve si sta sciogliendo.) Infatti guarda indietro alla frase appena detta, per motivarne il contenuto. – Quindi/dunque guardano avanti, per prospettare le conseguenze. CAP. 11 – NORMA STABILE E NORMA IN MOVIMENTO. GRAFEMI E SEGNI PARAGRAFEMATICI L'ortografia è uno di quegli aspetti linguistici che più ci dà l'immagine del tempo trascorso, Serianni, infatti, propone 2 testi: ▪testo del 1200 → dove è possibile notare che lo scrivente tende a trasferire nella scrittura abitudini tipiche del palato (le parole grammaticali sono unite alle parole successive “avoi”) e ricorre ad abbreviature per le sequenze grafiche più comune come avviene oggi con i messaggi (p sta per “per”), inoltre vi sono delle oscillazioni per la rappresentazione di quei grafemi che nell'alfabeto latino non esistevano o non presentavano un valore univoco (affricata dentale gratia alla latina e molto raramente grazia). ▪testo dell'800 → vi sono delle oscillazioni a livello di grafemi: la nasale palatale viene rappresentata con il trigramma ngn (spangna), il chi pronome interrogativo viene accentato, anche se le grammatiche di allora non lo tolleravano, inoltre poiché lo scrivente è un mazziniano siciliano vi sono delle interferenze fonetiche con il dialetto (potermila). Ormai il rapporto tra grafemi e fonemi si è stabilizzato, ma ancora vi sono delle incertezze residue: - il nome della lettera “v”: si chiama “vu”, ma sia al Nord che al Sud viene chiamata “vi” - la lettera “j” si chiama “i lunga”, ma ormai si è imposto il nome inglese “jay”. In ortografia, occorre tenere presenti 2 criteri: 1) Criterio diagnostico = che serve ad orientarci lungo l'asse giusto/sbagliato ed è legato alla registrazione di una variante ortografica come antiquata. Che verrebbe però percepita come un errore dalla quasi totalità degli utenti (es: il congiuntivo vadi utilizzato da Leopardi è un arcaismo) 2) Criterio prognostico = utile per prevedere quale di due varianti concorrenti finirà per imporsi ed è legato alla pratica della videoscrittura e del correttore automatico che elimina una devianza ortografica o la segnala con una linea rossa. E' facile prevedere che prima o poi la forma emarginata dagli automatismi della videoscrittura uscirà dal limbo delle forme minoritarie, ma lecite e verrà considerata errore. Per quanto riguarda i GRAFEMI (= lettere dell'alfabeto), possiamo considerare:  L'uso della vocale “i”, in particolare 3 casi: 1) In un certo numero di parole si scrive i in omaggio alla grafia latina (scienza), opp. deriva dall’italiano antico per evitare un’omografia: ad es: la parola cielo presenta regolare dittongamento dal lat. Caelum, ma la i semiconsonantica non si pronuncia più perchè è stata assorbita dal fonema palatale precedente, ma continuiamo a scrivere cielo sostantivo per distinguerlo dal verbo celo (celare, nascondere), a differenza invece di gelu (latino), che in italiano antico era gielo e poi è diventando gelo adeguando la grafia alla pronuncia. Tra scienza e cielo non vi sono dubbi che si scrivono con la i, ma possono esserci delle incertezze quando concorrono forme con grafia latineggiante e forme con grafia fonetica (prospiciente o prospicente?) opp. quando vi sono forme che mantengono traccia dell'antico suffisso -iere/-iera, ma la i è stata assorbita dalla palatale precedente (formaggiera o formaggera?) Non esiste una regola per orientarci con sicurezza, ma in generale: - la i superflua non è ammessa fuori di accento tranne in scienziato, coscienzioso ecc. - Poi vi sono numerosi casi in cui la i superflua non va eliminata ma è d'obbligo in ortografia perchè sono parole che più risentono dell'influenza latina: specie, bilanciere, crociera, deficiente ecc. - La grafia fonetica si è invece affermata in parole come leggero, messaggero, passeggero ecc. 2) Caso della 4° persona dei verbi con tema in nasale palatale (bagniamo, sogniamo): la i è superflua dal punto di vista fonetico e serve solo per riconoscere la desinenza verbale –iamo. 3) Nel plurale dei sostantivi in –cia e –gia (provincia-province/valigia-valige) , la i è superflua: per decidere della sua presenza si usano 2 criteri: └ criterio storico → fondato sull'etimo latino: storicamente, la i dovrebbe figurare al plurale quando vi figurava in latino e in greco, ovvero quando in origine era una vera consonante e dovrebbe essere omessa, quando nelle parole popolari è un segno diacritico (segno grafico o fonetico che indica una particolare pronuncia). Tuttavia, poiché ormai poche persone hanno familiarità con il latino, anche quelle più acculturate si ricorre al: indispensabili alla tenuta semantica del discorso, è generalmente presente (se eliminiamo l’incidentale, la frase tiene), tuttavia se dopo il pronome relativo ne compare un’altra, ad esempio per aprire un inciso, è bene eliminarla per non gravare lo scritto di eccesso di interpunzione. L’eccesso di virgole rende la lettura faticosa e a volte difficoltosa, non cooperando a rendere il testo chiaro e univoco. Punto e virgola (;) → inventata da Bembo, oggi sembra quasi star cadendo in disuso, anche se ancora la ritroviamo nelle prose più elaborate, negli articoli dei giornali. → indica una pausa più lunga della virgola e serve a: • scandire unità coordinate complesse (cioè non costituite da singolo vocaboli o sintagmi elementari), ma a separare frasi relativamente lunghe e sintatticamente elaborate senza però renderle autonome (come farebbe il punto). • si adopera davanti a un connettivo forte di tipo argomentativo e sintattico (quindi, così). • svolge una funzione ritmico-stilistica: segnala una pausa marcata tra due elementi coordinati, tra i quali non sarebbe necessario alcun segno d’interpunzione, ma creando una pausa più marcata sottolinea il significato delle affermazioni che seguono per metterle in rilievo e non farle passare in secondo piano (tutti concordano che tocca a prodi sbrogliare la matassa; e intanto cercano di capire se il professore stia covando gesti clamorosi = in questo caso la punteggiatura non è necessaria perchè c'è la e, ma appunto si mette il punto e virgola per enfatizzare). → In questo caso è un uso stilistico,qnd facoltativo. Il punto e virgola può essere sostituito dal punto o eliminato, ma di rado puà essere sostituito da una virgola, infatti negli altri due casi una virgola sarebbe inappropriata e costituirebbe un errore. Virgolette metalinguistiche (“<<..>>/ “...”) → servono a: • segnalare quando una parola è inusitata o di formazione occasionale (“linkare”). • quando una parola va interpretata con particolare accezione (la moneta “forte” della Cina). • quando la parola si carica di contenuti ironici o riflette posizioni altrui (l'”islamizzazione” dell'Occidente”) Mentre è ingenuo utilizzarle per segnalare una parola o espressione usata in senso traslato CAP. 13 – IL NOME: FEMMINILE IDEOLOGICO E PROFESSIONALE Il tema del sessismo linguistico, ovvero dell'orientamento “androcentrico” della lingua è stato ampiamente dibattuto in Italia, ma anche in altre parti del mondo. Nel 1987 comparve un opuscolo curato da Alma Sabatini col titolo “Il sessismo nella lingua”, i cui principi sono stati accolti in qualche misura da pubblicazioni successive per renderle più attenti alle varie componenti della società. Esempi di sessismo nella lingua li troviamo in espressioni comuni come: quando si parla di fratellanza delle nazioni, chiedere a qualcuno quanti fratelli ha (sottintendendo anche sorelle), l'espressione “a misura d'uomo”, mentre rari sono i casi inversi: ad es: l'espressione “essere una primadonna” viene utilizzato ma in senso ironico-dispregiativo. Tuttavia, la lingua, i modi e le espressioni che si sono cristallizzate nell'uso comune sono frutto di un lungo processo di evoluzione e, secondo Serianni, non dovrebbero essere sottoposti a una riscrittura politicamente corretta dando luogo a formulazioni impacciate o innaturali (es: a misura umana). E' anche vero che sono passati dalla pubblicazione del volume, quindi è possibile chiedersi di quelle raccomandazioni cosa rimane. Infatti si possono considerare alcune tendenze in atto: → superamento della segnalazione dissimmetrica di donne e uomini nel campo politico mediante il cognome per gli uomini e il cognome preceduto dall’articolo per le donne (si può leggere di frequente Boldrini, Boschi e non la Boldrini, la Boschi, anche se vengono ancora utilizzate) opp. mediante il primo nome per la donna e il cognome per l'uomo. Oggi nel giornalismo, il vezzo di usare il primo nome per i personaggi di rilievo sembra equamente diffuso per i due sessi. → regresso del titolo di signorina per le donne nubili con l’uso di signorina/signora in base all’età e rivendicazione per le donne sposate del cognome di origine. → Più incerta è la situazione per i titoli professionali: nei settori sociali e lavorativi in cui la presenza della donna è da tempo radicata si sono affermati alcuni femminili variamente formati: • col tradizionale suffisso in -essa → dottoressa, professoressa, studentessa (la Sabatina proponeva la studente). Questo suffisso, tuttavia, può avere una connotazione ironica o negativa. • trasformazione in femminile del suffisso -iere ->in -iera → cameriera, infermiera, parrucchiera • c on la marcatura femminile di nomi epiceni (cioè di forma invariabile per masch/femm) → la preside, la pediatra, la vigile. • Alcuni nomi professionali al femminile esistono solo virtualmente o sono rari: chirurgo/chirurga, sindaco/sindaca ecc. Ad es: dal pdv grammaticale l'ingegnera e la soldata sono forme impeccabili (ma segnate come errori dal correttore) e sembrano strane solo per poca abitudine. • Tuttavia, sono spesso le donne stesse a preferire il maschile in quanto indicante la funzione svolta indipendentemente dal sesso di chi la esercita (es: ministra, la Prestigiacomo chiese di abolirla perchè ne percepiva una sottile ironia). In assenza di idnagini specifiche è difficile stabilire quale forme sono più utilizzate nell'uso reale, consultando i dizionari emerge che: – Garzanti (e anche Zingarelli) sembra il più favorevole a considerare i femminili regolari acclimati nell'uso (chirurga, magistrata, sindaca/ solo architetta viene indicato come raro). – De Mauro è più cauto e indica magistrata, sindaca, soldata come raro; ministra è considerato di uso spregiativo o scherzoso. Per quanto riguarda i FORESTIERIMI: Serianni affronta il tema della formazione del plurale nei forestierismi non adattati, ovvero immediatamente riconoscibili perchè: o terminanti in consonante (flash, film, kamikaze) o presentano tratti fonetici alieni all'italiano anche se terminano con una vocale (retablo). Infatti, la questione che pone S. è: i plurali di questi forestierismi si formano come nella loro lingua di appartenenza (flash → flashes / film → films) opp. rimangono invariati? L'uso è molto oscillante e per impostare correttamente il prob. occorre riflettere sl significato la diffusione dei singoli forestierismi, ad es: • flash → è universalmente noto, si possono avere dei dubbi sulla trascrizione grafica, ma tutti sanno cos'è e quindi grammaticalmente va trattato come una parola italiana. • retablo → la grafia non presenta problemi, ma non tutti sanno che si tratta di una pala d'altare tipica dell'arte spagnola, quindi dal pdv grammaticale il plurale si forma in spagnolo (retablos). In generale, in italiano vi è la tendenza a mantenere invariati al plurale i nomi esotici (flash, film), ma anche i nomi esotici che terminano con vocale (kamikaze). → Si noti anche il caso di “euro”: che avrebbe potuto sviluppare il suo plurale in maniera regolare “euri” è stato invece trattato come invariabile grazie ai mezzi di comunicazione che hanno soffocato l'uso dei parlanti. → Lo stesso vale per gli anglicismi: quelli di uso comune tendono a rimanere invariati al plurale; tuttavia, plurali inglesi sono frequenti in testi che vogliano evocare il mondo angloamericano, anche con intento di citazione. → Diverso è il caso dei francesismi: i francesismi non adattati sono meno numerosi degli anglicismi e rappresentano “prestiti di lusso” e non “prestiti di necessità” come gli anglicismi (= ovvero parole di cui non potremmo fare a meno perchè legate alla realtà del nostro tempo, es: social network, airbag ecc.) quindi nell’uso deve esserci consapevolezza linguistica: chi li utilizza deve prestare attenzione, oltre che alla formazione del plurale, anche alla correttezza ortografica perchè sono più uno “sfoggio di mondanità”, come dice Serianni. CAP. 14 – IL VERBO: SINTASSI DEL GERUNDIO; SCELTA DEGLI AUSILIARI GERUNDIO → è uno dei modi indefiniti più duttili, può svolgere diverse funzioni: può fare le veci di proposizioni subordinate all’indicativo o al congiuntivo,ad es: nelle modali (in assoluto le più frequenti), temporali, causali, ipotetiche e relative. → ma a questa grande flessibilità sintattica corrispondono anche dei vincoli: - deve sempre condividere il soggetto del verbo finito ad esso collegato, questo vale anche quando il sogg. del gerundio è un'intera frase sovraordinata, tranne però in alcuni casi: • nel caso del gerundio assoluto con soggetto proprio espresso (arrivando senza posa altre e altre notizie di morte da diverse parti, furono spediti due delegati a vedere e a provvedere – sogg: notizie e delegati); • quando il gerundio o il verbo finito o entrambi hanno soggetto generico (Sbagliando s’impara) – inoltre, rappresentando una proposizione subordinata, non può essere coordinato alla principale. – nella sequenza di più gerundi, tutti devono condividere lo stesso rango logico-sintattico. → Si possono individuare delle tendenze evolutive che interessano il gerundio nell'italiano contemporaneo: 1) espansione del gerundio semplice ai danni di quello composto = es: “scalando la montagna abbiamo raggiunto la vetta” (invece di “avendo scalato la montagna”). Questo perchè da un sondaggio realizzato qualche anno fa sembra che l'indicazione della successione temporale viene affidata alla posizione del gerundio: - se è messo prima del verbo finito (in posizione preverbale), allora l'azione è anteriore; - se è messo dopo il verbo finito (in posizione postverbale), l'azione è posteriore (abbiamo scalato la montagna, raggiungendo la vetta) o coincidente (Gianni entrò togliendosi il cappotto). Questa ICONICITA' (ovvero il rapporto tra il valore di una forma e la sua collocazione materiale) non è tassativa, ma è solo una tendenza. Per quanto riguarda l'USO DEGLI AUSILIARI: Essere e avere = sono i due verbi ausiliari che servono per formare tutti i tempi composti nella coniugazione di un verbo. Per quanto riguarda la scelta dell’uno o dell’altro sappiamo che: • ammettono essere tutti i verbi riflessivi e tutti i verbi impersonali. • ammettono avere tutti i verbi transitivi. L’incertezza nasce per l’ausiliare dei verbi intransitivi: → in alcuni casi lo stesso verbo può ammettere sia essere che avere, senza poter risalire ad una norma chiara (es: vivere, servire a, piovere) → per quanto riguarda i verbi servili, la regola dice che l'ausiliare da usare è lo stesso del verbo all'infinito (ho potuto mangiare perché si dice ho mangiato // sono dovuto partire perché si dice sono partito), tuttavia, si nota una tendenza evolutiva in cui il verbo avere è in espansione: infatti, sembra essere utilizzato più spesso come ausiliare rispetto al verbo essere, se il verbo è intransitivo (ho dovuto partire). Si potrebbero individuare 3 ragioni x questa tendenza da verificare con opportune indagini: 1) elimina l’onere dell’accordo andando verso una semplificazione morfosintattica (le donne sarebbero dovute andare – avrebbero dovuto andare). 2) il verbo servile usato da solo vuole avere e tende a imporre questa scelta anche con l'infinito. (Ho cercato di arrivare in tempo, ma non ho potuto → Non ho potuto arrivare in tempo.) 6) Accordo a senso (dal lat. constructio ad sensum) Si ha in tutti i casi in cui l’accordo grammaticale è violato per l’attrazione di un altro elemento della frase, semanticamente più “pesante”. Possiamo considerare 2 casi: 1. Soggetto collettivo e indeterminato (una buona parte, la maggioranza) che regge un partitivo: – La grammatica richiede un predicato al singolare. – tuttavia, l’elemento portatore del significato più importante è il sostantivo plurale, che potrebbe condizionare il verbo imponendo anche ad esso il plurale. L'uso sembra orientato verso questa direzione e l'accordo a senso deve essere considerato praticabile in qualsiasi livello di lingua (in Svevo: una parte di quegli oggetti di cancelleria furono [e non fu] venduti), ovviamente non rappresenta una regola generale. 2. Proposizioni relative che abbiano un partitivo come antecedente. ES: La religione è uno dei fattori che più ha/hanno influenzato lo sviluppo della lingua. – La grammatica e la logica vogliono che il verbo della relativa sia al plurale, dal momento che l'antecedente è fattori culturali e non religione. – L’accordo al singolare è frequente nel linguaggio colloquiale, ma nella scrittura informativa e argomentativa va evitato. Di fatto, il costrutto al singolare è raro anche nella tradizione letteraria moderna. CAP. 16 – LA PROPOSIZIONE RELATIVA PROPOSIZIONE RELATIVA → è una delle subordinate esplicite più frequenti: nel periodo svolge la funzione di determinare, distinguere, precisare un nome o un pronome della reggente. → è introdotta da un pronome relativo che/ il quale, ciascuno dei quali richiama un elemento della frase sovraordinata, detto antecedente. *Il quale = è usato comunemente nei casi obliqui (del quale, al quale, dal quale) e raramente in funzione di sogg. o ogg, se non come seconda scelta x evitare di ricorrere nello scritto a troppi che. → La proposizione relativa può essere: • esplicita = quando è introdotta da un pronome relativo (il quale, che, cui), da un pronome misto (chi, chiunque) o da un avverbio relativo (dove, ovunque) + verbo indicativo, congiuntivo, condizion. • implicita = se introdotta dagli stessi pronomi e avverbi + verbo all'infinito o gerundio:  con l’infinito: se introdotta da un pronome relativo riceve una sfumatura potenzi- eventuale. Es: cerco qualcuno con cui andare in campeggio. Importante badare all'antecedente sia per le relative implicite che esplicite: – nel caso delle implicite: è importante che l’antecedente sia indeterminato perchè altrimenti cambierebbe il costrutto della frase: non si può dire “Cerco Stefano con cui andare in campeggio”, ma “cerco Stefano per andare in campeggio” (rapporto finale) o “caso mai voglia andare” (ipotetico). – nel caso delle esplicite: antecedente di una relativa limitativa non può essere un sostant. astratto non accompagnato da un articolo, preposizione articolata o aggettivo dimostrativo. es: ottenendo risparmio che gli consentì di reinvestire i proventi (= un risparmio) Tranne nel caso dei plurali (ottenendo risparmi) e con le relative esplicative. → Inoltre, in italiano è d'obbligo che l’antecedente sia contiguo al pronome relativo: solo la poesia o l'italiano antico può permettersi una collocazione delle parole più libera; va evitato nella scrittura informativa per essere il più trasparenti possibili. → In presenza di proposizioni relative coordinate, è sempre possibile omettere il 2° pronome relativo, se condivide l'antecedente e il regime sintattico del primo. Tuttavia, non sono rari i casi di omissione in presenza di regimi sintattici diversi (faceva un sorriso a una ragazza che (sogg.) passava e (omesso il che compl.) gli sembrava di conoscere), fatto sta che il fenomeno è inaccettabile quando i pronomi sono che e cui.