Scarica Riassunto La Guerra del Peloponneso di Ugo Fantasia e più Sintesi del corso in PDF di Storia solo su Docsity! 1. Combattere e raccontare una guerra complessa La guerra del Peloponneso viene definita, comunemente, “una guerra diversa da tutte le altre”. Il conflitto durò ben 27 anni (dal 431 al 404 a.C.): un arco di tempo occupato da un’intera generazione. La scansione temporale della guerra si pone tra due periodi di vera e propria guerra fra Atene e Sparta, entrambi prolungatisi per un decennio (431-421 e 414-404 a.C.). Fra questi, si inquadrano circa sette anni di pace instabile o guerra mascherata (“la tregua inquieta” come la chiama Tucidide). Prima fase: viene definita da Tucidide “guerra decennale” ma viene chiamata “guerra archidamica” dal nome del re spartano Archidamo. Arrivò ad interessare quasi tutte le regioni della penisola greca e più marginalmente il mondo egeo e la Sicilia. Terza fase: E’ chiamata “guerra ionica” o “guerra deceleica” dal nome di Decelea (il forte attico che gli spartani occuparono nel 413). Ha come teatri di guerra lo spazio egeo, le coste dell’Asia minore e l’area ellespontica. La spedizione ateniese in Sicilia ha una collocazione ambigua. Nel secondo proemio della Storia, Tucidide ragiona come se la questione della durata e della periodizzazione riguardasse soltanto le relazioni dirette tra Atene e Sparta (ovvero: la ripresa della guerra aperta dopo la pace di Nicia del 421 si verifica non con la partenza della flotta per Siracusa, ma con un’iniziativa ateniese dell’estate del 414 nella parte del Peloponneso controllata da Sparta). Non stupisce allora che la guerra del Peloponneso sia stata percepita in modo non uniforme dagli stessi testimoni e dalla generazione immediatamente successiva; una visione non unitaria del conflitto esisteva già nel momento in cui Tucidide scrisse il secondo proemio (poco più tardi del 404). La testimonianza di Andocide: Andocide fu un ateniese nato intorno al 440 a.C. In un’orazione pronunciata di fronte ai suoi concittadini nel 392-391 a.C. egli rievoca il modo in cui Atene era arrivata al disastro del 404 passando attraverso due guerre distinte con Sparta scoppiate per cause differenti (affari di Megara e alleanza con Argo), con l’aggiunta di un terzo episodio apparentemente irrelato agli altri due: la spedizione in Sicilia. Si racconta inoltre del decisivo intervento della Persia a fianco di Sparta come reazione all’aiuto prestato da Atene a un ribelle del Gran Re. L’ultima notazione ha l’indiscutibile merito di assegnare il giusto rilievo alla discesa in campo della Persia: un evento decisivo ai fini della vittoria finale di Sparta e tale da conferire al conflitto dei tratti che lo rendevano molto diverso dagli eventi del 431. La prospettiva di Tucidide è quella di un unico grande conflitto preparato dalle tensioni tra Atene e Sparta che si erano venute accumulando dopo le guerre persiane e non ricomponibile fino a quando uno dei due contendenti non fosse stato costretto dalle ragioni delle armi a riconoscere la sua sconfitta. Anzi: poiché le due città erano entrambe a capo di un poderoso sistema di alleanze, ecco che lo scontro diretto tra le due superpotenze appare come l’epicentro di un sisma le cui onde lunghe, gradualmente ma costantemente, si propagarono all’intero mondo greco, dalla Propontide alla Sicilia, fino a guadagnare e coinvolgere le periferie barbare. Si trattò di un ENORME SCONVOLGIMENTO (“KINESIS MEGISTE”). Il confluire di più conflitti fra loro distinti nell’alveo di un unico, grande sommovimento, è il segno palpabile della natura “mondiale” di una guerra, una delle più fondate ragioni di diversità della guerra del Peloponneso è di essere stata la guerra mondiale del mondo greco. L’emarginazione dell’oplita Uno degli effetti della guerra del Peloponneso fu la radicale trasformazione della conduzione della guerra su terra e su mare. La guerra tradizionale di tipo oplitico non ha perso la sua centralità. Non mancarono di certo eserciti che invadevano in massa il territorio nemico per devastarne l’area coltivata e provocare: i peloponnesiaci ripeterono questa manovra nei confronti dell’Attica più volte nei primi sei anni della guerra archidamica, così come fecero gli ateniesi nei confronti di Megara. Almeno due grandi battaglie oplitiche ebbero importanti conseguenze sull’andamento del conflitto: 1. Battaglia di Delio (424 a.C.) _ dove gli ateniesi vennero sconfitti dai beoti alleati con Sparta; 2. Battaglia di Mantinea (418 a.C.) _ dove Argo non riuscì a divenire potenza dominante dell’area peloponnesiaca e il progetto ateniese di costituire un fronte peloponnesiaco che sottraesse l’egemonia a Sparta fallì. Benché nessuno abbia mai messo in discussione l’efficacia dell’armamento oplitico e dello schieramento a falange, in una guerra geograficamente così sfrangiata non furono sempre gli opliti a imporre l’agenda delle operazioni e a decidere il terreno di scontro. Le esperienze fatte dagli opliti ateniesi in Etolia, o quelle degli opliti spartani a Sfacteria furono tremende. I terreni impervi, scoscesi o semplicemente irregolari, conferivano una netta superiorità ai soldati dotati di armi da getto che nella classica battaglia oplitica erano di norma presenti con una funzione ausiliaria, raramente decisiva per l’esito finale: arcieri, lanciatori di giavellotto, frombolieri. Esistevano poi i PELTASTI: una categoria di fanti armati alla leggera dotati di PELTE (piccolo scudo usato al posto del pesante scudo da oplita). Originari della Tracia e quindi in una prima fase presenti negli eserciti greci come mercenari, ben presto essi cominciarono a essere reclutati anche all’interno delle poleis. Essi adottavano una formazione aperta e tattiche flessibili, erano idonei a rapide manovre di sorpresa, sortite e imboscate. I peltasti agirono insieme alla cavalleria e guadagnarono un ruolo molto rilevante nella guerra del Peloponneso rispetto alla guerra tradizionale: proteggevano i fianchi della falange e inseguivano il nemico in fuga. Gli Spartani, ad esempio, come altri stati del Peloponneso tra cui Corinto e Argo, facevano a meno dei peltasti ma all’occorrenza si servivano della cavalleria degli alleati. Nell’epitaffio pronunciato nel 431 da Pericle così viene riassunta la visione ateniese della virtù guerriera, in contraddizione con quella spartana: “Giacché anche in questo ci distinguiamo dagli altri, che nelle imprese cui mettiamo mano combiniamo la massima audacia con la massima riflessione, mentre negli altri l’ignoranza genera ardimento, il ragionamento indugio. A ragione possono essere considerati i più coraggiosi coloro che riconoscono nel modo più chiaro sia le cose temibili che quelle piacevoli e non per questo rifuggono dai pericoli”. Di fronte invece agli Spartani che svalutavano l’esperienza, la perizia e il mestiere, il grande generale ateniese Formione rassicurò i suoi operando un ribaltamento di idee: nella guerra valgono qualità che rientrano anche nella sfera intellettuale, differenti da quelle più istintive che sanciscono il valore dell’oplita. La difficile arte del comando Se furono Pericle e Formione a credere che il segreto della vittoria consistesse nell’unione tra intelligenza e audacia, non dobbiamo pensare che ciò fosse prerogativa dei soli ateniesi. Tra le pagine di Tucidide compaiono anche generali di successo non ateniesi tra cui: Brasida, Gilippo, Ermocrate. Di loro si parla facendo riferimento all’unione tra andreia e EMPEIRIA (perizia, esperienza). Questi personaggi ridefinirono la figura dello stratega. Si passa da colui che era un mero esecutore delle deliberazioni della città – profondamente legato all’autorità politica – ad una figura specializzata, consolidata da rapporti di tipo quasi clientelare con determinate comunità (quelli tra Formione e gli Acarnani ad esempio). Se nel modello oplitico-agonale lo stratego era un combattente fra gli altri che si schierava a capo dell’ala destra della falange, con il compito di dare l’esempio e mantenere l’ordine e la disciplina, la trasformazione di cui stiamo parlando, fa sì che ai generali si richiedano qualità nuove e più varie che in passato. Si trattava non soltanto di sostituire il coraggio con l’astuzia o di astrarsi dalla mischia per avere una visione dall’alto della battaglia, bensì mettere a frutto un patrimonio di competenze ed esperienze, non ancora codificato da alcun tipo di trattatistica, per far fronte a situazioni complesse e elaborare strategie di ampio respiro, non limitate a una singola battaglia. Il consiglio di guerra che si svolse in Sicilia fra i tre generali a capo della spedizione del 415 è un’ottima illustrazione della dimensione progettuale che deve caratterizzare una campagna in guerra in cui entra in gioco un numero illimitato di variabili. Si ponevano così le basi di una trasformazione che, nel corso del IV secolo, avrebbe portato alla nascita di figure professionali come quelle dei “condottieri” (Ificrate, Cabria, Timoteo) che avrebbero agito in una posizione di relativo distacco dalla polis in nome della quale continuavano pur sempre a operare. Tale trasformazione sarebbe stata accompagnata nel IV secolo dalla nascita della manualistica militare – anche se le uniche opere ad esserci pervenute sono due trattati sul comandante di cavalleria (Senofonte) e sulla difesa della città assediata (Enea Tattico). Uno storico come nessun altro: Tucidide e il racconto della guerra La guerra del Peloponneso, infine, è una guerra diversa da tutte le altre perché è stata raccontata – almeno fino al 411 – dal grande storico Tucidide, che ne fu testimone diretto: la sua è la prima opera che si dedica a eventi contemporanei. E’ bene passare in rassegna i tratti caratteristici della sua opera perché il problema storico della guerra tende ad identificarsi proprio con il problema storiografico della lettura e interpretazione della storia di Tucidide. Fatti e discorsi, parola e azione: sull’obiettività di Tucidide Il primo tratto caratteristico può essere descritto tramite il concetto di AKRIBEIA (esattezza, precisione). Essa non significa solo piena aderenza ai fatti, bensì le parole indicano il modo in cui i fatti (TA ERGA) sono stati riportati – dopo aver vagliato il resoconto di chi ne è stato testimone diretto. L’impegno all’akribeia tradisce l’aspirazione a riferire la totalità degli avvenimenti accaduti e gli erga non sono propriamente gli eventi, bensì i dettagli esatti dell’azione. Non c’è quasi parte narrativa della Storia in cui non si manifesti l’ansia, per Tucidide, di dimostrare la sua precisione microscopica. Basti ricordare, scegliendo in un vasto repertorio di esempi, quante volte Tucidide si premura di registrare i nomi, con relativo patronimico, di oscuri comandanti protagonisti di episodi non rilevanti liquidati in poche righe di testo. Troviamo ad esempio riportati interi testi di trattati internazionali, la consistenza delle flotte piccole e grandi che solcavano l’Egeo. Coerente con tale impegno è l’ordinamento cronologico dato alla narrazione. L’ultima fase del lungo prologo alla guerra annuncia che “i fatti sono stati riportati l’uno di seguito all’altro, nell’ordine in cui ciascuno di essi si è svolto, per estati ed inverni”. La cronologia stagionale è quasi un unicum nella storiografia antica e possiede, rispetto alla tradizionale cronologia per anni di carica dei magistrati eponimi, il vantaggio di una maggiore aderenza alla concreta prassi militare greca, che vede concentrarsi le operazioni, soprattutto quelle navali, nel periodo compreso tra l’inizio della primavera e l’autunno – quello coperto dall’ “estate” tucididea in senso lato. Il principio della successione cronologica è rispettato con il massimo rigore possibile, anche a prezzo di una forte frammentazione del resoconto. Eventi che si estendono, infatti, su un arco di tempo relativamente lungo vengono spezzati in entità più piccole, inframezzate ad altri eventi che si svolgono in contemporanea in teatri anche molto distanti. A volte capita, durante il racconto, che la stessa complessità delle vicende trattate induca lo storico ad infrangere il rigido schema che lui stesso si era imposto. Ma un solido ancoraggio cronologico non viene mai meno. A partire dall’autunno del 411, quando la Storia ci pianta in asso, si ha l’impressione di brancolare nel buio per ciò che riguarda l’esatta successione degli eventi. Come ha scritto D. Lewis in un paragone d’altri tempi, quando l’opera si interrompe “è come se stessimo guardando in televisione una storia complicata e la ricezione fosse improvvisamente disturbata da una tempesta elettrica”. Il lettore ha l’idea che nulla sia superficiale o approssimativo per via del ruolo assertivo che caratterizza il racconto. C’è da chiedersi, poi, se la stessa affidabilità che riconosciamo a Tucidide come storico debba essere estesa ai circa 50 discorsi diretti (LOGOI) riportati nella Storia, che nel loro insieme rappresentano una parte cospicua: poco più di 1/5 dell’intera opera. Era consuetudine inserirli dall’epica in poi, anche Erodoto ne faceva uso. Nel capitolo metodologico Tucidide, dopo aver ammesso l’impossibilità di una loro riproduzione letterale, dichiara di aver scritto i discorsi “come a me sembrava più probabile che ciascuno avesse detto cosa fare nelle varie circostanze, tenendomi il più vicino possibile all’intero ragionamento svolto in ciò che era stato realmente detto”. Lo storico si è sempre attenuto a tutti gli effetti ad un programma di verità? Certo non si può giudicare se un discorso sia stato effettivamente pronunciato o se sia stato ricostruito in tutto o in parte da Tucidide ma esistono le date eccezioni: nel discorso tenuto da Brasida ad Acanto si ha quasi la certezza che quanto riportato sia autentico, come anche i due discorsi di Pericle nel secondo libro. E’ molto più difficile dire che Tucidide abbia riportato parole fittizie piuttosto che attribuirgli una certa verosimiglianza. Per quel poco che si sa sulla retorica politica del tempo, probabilmente quella di riportare i discorsi in tal modo era una vera e propria prassi retorica in vigore nel V secolo. In ogni caso, se anche ogni discorso fosse stato inventato, ciò non sarebbe di ostacolo alla ricostruzione storica in maniera minuziosa degli eventi. Certo è che, se Tucidide ha preferito in certi passi riportare discorsi diretti e in altri discorsi indiretti, ci sarà stato un motivo preciso. L’opera di Tucidide fornisce una storia completa, obiettiva, imparziale della guerra del Peloponneso? La risposta sembrerebbe essere più positiva che negativa ma con alcune precisazioni. La totalità è un’ideale irraggiungibile, in primo luogo per i limiti dell’informazione accessibile allo storico: il catalogo dei silenzi e delle omissioni di Tucidide, puntigliosamente compilato da alcuni studiosi moderni, comprende, oltre a fatti di marginale importanza, anche temi di grande rilievo come la politica interna di Atene prima del 411 o il ruolo della Persia nella prima guerra ionica. Quanto all’imparzialità, è quasi eccessivo pretendere un giudizio completamente disinteressato da un uomo che ha vissuto quei fatti, ed è possibile che delle cose siano state omesse per via della sua dedizione a Pericle. Bisogna riconoscere che l’idea comune di obiettività è inadeguata per definire il modo di fare storia di Tucidide: egli mira a dare non solo un resoconto puntuale dei fatti, ma anche a comprendere, interpretare e spiegare il senso degli eventi, a estrarne una verità che serva da guida per la comprensione, un domani, di eventi analoghi a quelli passati. Per questi punti sopracitati, Tucidide è stato anche definito – ad esempio da Hunter – “il meno obiettivo fra gli storici” … In realtà, si potrebbe appellare così se si disponesse di dati interni o esterni al testo della Storia che ci spingessero a dubitare della sua onestà di storico ma così non è. Politica e morale: un conflitto irrisolto Poiché i discorsi diretti sono pur sempre una sospensione del tempo narrativo, è al loro interno che vengono affrontati i grandi temi politici, storici e morali. I due più frequentemente toccati sono: 1. Il rapporto tra forza e diritto; 2. La natura e la giustificazione dell’imperialismo. 1. Secondo gli oratori tucididei nei rapporti interstatali non esistono valutazioni di ordine etico ma tutti gli Stati obbediscono a una logica di sopravvivenza e di puro potere. Tucidide è, anzi, visto come il primo e uno dei più illustri padri fondatori di quello che nella teoria delle relazioni internazionali è detto “il paradigma realista”. Luogo principe in cui esso emerge in tutta la sua radicalità è il 2. Le strade che portano alla guerra Atene e Sparta fino alla “prima guerra del Peloponneso” Probabilmente le origini del conflitto si riscontrano alla fine della seconda guerra persiana e dopo la fondazione della Lega delia nel 477. La Lega delia nasce nel solco della lega ellenica a guida spartana sorta nel 481. Essa si diede fin dal principio una nuova, più rigorosa organizzazione militare e finanziaria basata sulla potenza navale e sulla riscossione di un tributo in navi o in denaro. Questa alleanza di tipo inedito si raccolse intorno allo stato-guida di Atene, ben più importante di Sparta, animata da una grande fiducia nei propri mezzi. Secondo Erodoto, la fondazione della Lega è stata la causa della sottrazione dell’egemonia di Sparta da parte di Atene. Secondo Diodoro, si sarebbe svolta a Sparta una sorta di guerriglia civile tra “falchi” – coloro che erano pronti alla guerra pur di mantenere il primato della città – e “colombe” – coloro che invece erano fautori della rinuncia a una politica di potenza e che alla fine vinsero. Tucidide pone l’accento sulla rinuncia spartana all’egemonia. Il suo resoconto, che pure include l’episodio della ricostruzione delle mura di Atene da parte di Temistocle, vede una Sparta che non si oppose: si sarebbe trattato, in sostanza, di un passaggio di consegne attuato con il consenso di tutti, per via del rancore suscitato dal comportamento arrogante e violento di Pausania dopo la presa di Bisanzio, in capo al quale Atene si limitava a raccogliere ciò a cui Sparta rinunciava e che gli alleati dell’area ionica gli offrivano. A distogliere Sparta dall’Egeo sarebbero stati, oltre alla scottante vicenda di Pausania, il desiderio di liberarsi della conduzione di una guerra che, in questo nuovo e più ampio orizzonte, veniva avvertita come un peso e come una sfida destabilizzante per i suoi equilibri interni, e infine la fiducia nella non ostilità degli ateniesi. Tucidide sembra aver colto con esattezza le ragioni di fondo del disimpegno spartano. Con la precoce uscita di scena di Temistocle – l’uomo che maggiormente avrebbe potuto impensierire Sparta – per circa un quindicennio, nonostante il rafforzamento della Lega delia e l’indurimento del controllo di Atene sui suoi membri, le relazioni fra Atene e Sparta non si svilupparono lungo il binario del puro antagonismo, ma piuttosto nel segno di una duplice egemonia. L’ateniese Cimone adoperò una metafora per convincere gli ateniesi ad andare in aiuto di Sparta che era stata sconvolta dal terremoto e dalla rivolta degli iloti nel 464: essi non “dovevano permettere che la Grecia rimanesse zoppa e la città di Atene avesse una compagna di giogo non di pari forza”. L’allusione era all’azione comune che le due città erano chiamate a svolgere nell’ambito dell’alleanza del 481. Grazie alla figura di Cimone, Atene e Sparta vinsero contro la Persia nella battaglia dell’Eurimedonte del 469. La fine dell’intesa tra le due potenze avvenne con la caduta di Cimone e la comparsa di Pericle. Atene si tirò fuori dalle alleanze con la Tessaglia, Sparta, Argo, Megara. Le premesse per uno scoppio del conflitto tra Atene e Sparta sembravano esserci già nel 461. Segue un quindicennio denominato “Prima guerra del Peloponneso” per via delle varie ostilità, ma ben lontano dall’esaurirsi nella contrapposizione tra Sparta e Atene. Assistiamo in realtà ad una successione di eventi il cui senso non è illuminato a sufficienza dalla cronaca tucididea. Da un lato, la Lega delia con una spedizione in Egitto si rivolta contro la Persia perdendo e poi instaurando una pace nel 449. Sul versante metropolitano, Atene diede vita a iniziative militari contro Stati vicini a Sparta (Egina, Corinto). Fu un conflitto dal carattere poco unitario: quando Spartani e Ateniesi si scontrarono la prima volta fu per sbaglio (accadde in Beozia, mentre gli spartani rientravano a casa dopo aver aiutato i Focesi e rimasero bloccati da un esercito ateniese). Due mesi dopo Atene prese la Beozia ma durò fino al 447, quando dovettero evacuarla a causa di una sconfitta. Nel 446 si presentò una nuova occasione di scontro per Atene e Sparta: gli Spartani invasero l’Attica al comando del re Plistoanatte. Nel frattempo Pericle (fuori Atene per campagne militari) prese l’Eubea. Per un momento Atene, oltre ad avere l’egemonia egea, possedeva territori dalle coste di Corinto fino alla Beozia: mai più avrebbe raggiunto tale estensione per via del fatto che era troppo per la sua portata. La Grecia “bipolare” e la rottura degli equilibri Alla vigilia del 431 le relazioni internazionali nel mondo greco erano regolate dalla pace conclusa nel 446-445 dopo la sottomissione ateniese all’Eubea. Quest’ultima può essere ricostruita solo in parte attraverso alcuni accenni nelle fonti: Atene doveva restituire le conquiste degli anni precedenti ancora nelle sue mani (Nisea e Pege, Trezene e l’Acaia); Tucidide scrive “che gli Ateniesi avevano accettato una in una situazione sfortunata e in un momento in cui avevano un gran bisogno di pace”. Queste parole vengono messe in bocca a Cleone che insiste sul sacrificio ateniese, ma sarebbe più giusto dire che l’accordo, benché implicasse dei costi per Atene, a conti fatti non le poneva limiti riguardo al consolidamento dell’impero e all’espansione della sua influenza al di fuori della Grecia centrale e del Peloponneso. Nel frattempo, Sparta guadagnava il risultato di aver spazzato via Atene dalla Beozia e dalla Megaride. Nel 440 Sparta considerò l’idea di portare aiuto a Samo, ribellatasi ad Atene per l’appoggio dato da quest’ultima a Mileto, ma i Corinzi espressero un voto contrario che risultò decisivo con la motivazione che “ciascuno era tenuto a punire i propri alleati”. La maggior parte del mondo peloponnesiaco condivideva comunque la logica del non intervento nella sfera della potenza avversaria. La pace dei 30 anni aveva trasformato la duplice egemonia di Cimone in un bipolarismo radicale, con due blocchi impermeabili fra loro: le due potenze si garantivano reciprocamente l’egemonia. Nel corso del quindicennio successivo (mentre Pericle fu rieletto ogni anno), Atene continuò a rafforzare la sua posizione di dominio nel mondo egeo e ai confini settentrionali della Grecia: - si mise in sicurezza contro i Traci (con la spedizione del Chersoneso raccontata da Plutarco); - vinse contro Samo nel 439 cancellando la maggiore potenza navale all’interno della Lega; - coronò il disegno di mettere piede nell’area trace con la fondazione della colonia di Anfipoli sullo Strimone, ricca di metalli preziosi e di legname, essenziale per il suo primato navale; - instaurò buoni rapporti con la dinastia greco-barbara degli Spartocidi nella spedizione “sulle tracce degli argonauti” di Pericle dei cui dettagli siamo poco informati; - fondò Turi sul sito dell’antica Sibari; - fece proseguire i lavori del programma edilizio iniziato nel 447 promosso da Pericle e finanziato almeno in parte dal tesoro della Lega; - convocò i rappresentanti di tutto il mondo greco per un congresso dell’agenda panellenica; Non abbiamo idea di come Sparta e il mondo peloponnesiaco percepissero questo fenomeno. La rivalità fra le due potenze, che si sostanziava anche di una contrapposizione fra i due stili di vita e i due modelli politici che esse rispettivamente incarnavano, alimentava senza dubbio una diffidenza di fondo che rischiava di esacerbare qualunque motivo di contrasto si fosse profilato sul terreno delle relazioni internazionali. Il problema del perché la guerra sia scoppiata proprio nel 431 deve essere ricondotto a specifici casi di infrazione del trattato o a concreti eventi che finirono per modificare quell’equilibrio in alcune zone sensibili. 1. Secondo l’opinione pubblica del tempo (come documentano gli Acarnesi e la Pace di Aristofane, Eforo e Plutarco) la causa del conflitto fu l’emanazione – nel 432 – di un decreto ateniese che escludeva i Megaresi dalla frequentazione dei porti dell’impero e dell’agorà ateniese, o quanto meno il pervicace rifiuto da parte ateniese di abrogare tale decreto quando gli Spartani fecero della sua cancellazione la principale condizione per evitare l’apertura delle ostilità. E poiché Pericle era stato il diretto ispiratore del decreto e il più deciso oppositore della sua abrogazione, la responsabilità primaria dello scoppio della guerra fu fatta ricadere sul leader ateniese. Sia in sofferma nella PENTEKONTAETIA (il periodo dei 50 anni). Al contrario: gli eventi definiti come “motivi ed elementi di contesa”, ai quali lo storico riserva un così largo spazio perché spiegano la rottura del trattato, hanno introdotto un profondo squilibrio nella situazione di diarchia e bipolarismo sanzionata dalla pace del 446-445, determinando solo ora l’emersione del fatto nuovo nella storia delle relazioni fra Sparta e Atene, cioè la paura spartana che a questo punto la crescita della potenza ateniese sia davvero inarrestabile. Un autorevole studioso moderno, D. Kagan, ha impiegato un intero volume per dimostrare che Tucidide si sbagliava nell’indicare la causa profonda del conflitto nella crescita della potenza ateniese. 3. La guerra archidamica (431-421) Strategie a confronto La guerra cominciò sul fronte beotico, in una notte dei primi di aprile del 431, quando un manipolo di 300 tebani, alleati con gli spartani, penetrarono a Platea, da tempo fedele amica di Atene, e cercarono di impadronirsene con lo scopo di cancellare un’antica rivale e di occupare il terminale beotico (principale via di comunicazione fra Peloponneso e Grecia centrale). Si trattava di una potente violazione del trattato di pace, consumata per di più in spregio alle usanze religiose greche, in un periodo festivo. Inaspettatamente il tentativo andò a vuoto. I plateesi, dopo uno smarrimento iniziale, reagirono con una sorta di guerriglia urbana che si rivelò molto efficace, e i 180 tebani che non erano periti nei combattimenti e si erano arresi, vennero uccisi in seguito a fil di spada. Gli ateniesi, informati fin dall’inizio di ciò che stava succedendo, non riuscirono a impedire questo atto, e non rimase loro che inviare un presidio a Platea e trasferire nella loro città le donne, i fanciulli e gli uomini inabili. Le forze peloponnesiache, nella misura dei 2/3 dei contingenti militari delle città della Lega, si riuniscono all’Istmo, raggiunte subito dopo da un contingente di opliti e cavalieri fornito dai Beoti. Il re Archidamo loro comandante, una volta che l’ultimo ambasciatore è rientrato a mani vuote da Atene, ordina di levare il campo e da inizio a una lenta marcia di avvicinamento che segue non la strada più diretta tra la Megaride e Eleusi, quella costiera, ma una via interna e più tortuosa che passa dalla fortezza di Enoe, al confine fra l’Attica e la Beozia: un indugio studiato dal re per dare ad Atene un’ultima possibilità di ripensamento, come dice Tucidide, ma la cui finalità militare, l’eventuale conquista di Enoe, non sarebbe stata gradita ai tebani. Ma Enoe resiste e alla fine l’esercito irrompe nella piana di Eleusi e poi nella contigua pianura triasia, dando inizio alla prima delle cinque invasioni dell’Attica che si sarebbero susseguite nei primi 7 anni della guerra archidamica. Dopo aver devastato questa fertile regione, gli invasori si dirigono verso le campagne di Acarne, uno dei demi più popolosi e meglio coltivati dell’Attica a meno di dieci chilometri a nord di Atene, dove si accampano e si trattengono a lungo continuando le devastazioni. A questo punto le strategie dei due contendenti si disegnano in modo chiaro, almeno per la fase iniziale della guerra: 1. Quella ateniese, esposta in due discorsi di Pericle, prevedeva che, di fronte all’invasione nemica, la popolazione dell’Attica si rifugiasse all’interno del perimetro difensivo costituito dalle mura di Atene e dal Pireo e dalle lunghe mura che univano il centro urbano da un lato, e con una doppia cortina, al Pireo, dall’altro all’antico porto del Falero, abbandonando il territorio rurale alle devastazioni nemiche e rifiutando quella battaglia campale che avrebbe dato una vittoria all’armata peloponnesiaca (più numerosa e meglio armata). Nel frattempo, la sicurezza delle acque antistanti la zona portuale (che Atene pensò bene di rafforzare) accoppiata al dominio dei mari reso possibile dalla flotta più cospicua ed efficiente del mondo greco, avrebbe garantito il controllo dell’impero dal quale provenivano annualmente 600 talenti fra tributi ed entrate di altro tipo, e tenuto aperte le indispensabili vie di rifornimento. Atene poteva bilanciare l’impossibilità di distruggere il potenziale militare nemico con una illimitata capacità di resistere a qualsiasi tentativo di annientamento operato in termini di guerra tradizionale terrestre. L’immagine di Atene (“quasi come un’isola”) che Pericle evoca nei suoi discorsi, riassume qualsiasi descrizione dei principi di fondo e degli effetti pratici di questa scelta strategica. Atene non annienta il nemico ma non soccombe neanche all’azione dell’aggressore. Nel frattempo, gli ateniesi allestivano varie incursioni navali nelle coste. Nel 431, una flotta di 150 navi ateniesi e alleate devastò diverse zone prima di puntare sulle isole Ionie e sull’Acarnania. Nel 430 fu lo stesso Pericle a guidare una flotta di eguale consistenza contro Epidauro e le coste del Peloponneso. Tuttavia le capacità finanziarie di Atene venivano sopravvalutate; beninteso, le sue riserve erano più ricche di qualsiasi altra città greca. Nel 447 Atene raggiunse l’enorme consistenza di 9700 talenti ma si assottigliò ben presto con le enormi spese militari e edilizie. Pericle, al quale dobbiamo la lucida formulazione del principio secondo il quale le guerre si vincono grazie alle riserve di denaro, era convinto di poter vincere questa guerra. Tuttavia i costi erano esorbitanti, se si pensa che una dracma al giorno per marinaio costava 100 talenti per ogni mese di campagna. Per ben due volte durante la guerra archidamica, atene dovette inviare navi per la riscossione di denaro in più rispetto al tributo. Si trattava di una vera e propria “pirateria di stato”. A essere sopravvalutata da Pericle, poi, era la capacità di resistenza degli ateniesi. L’abbandono delle campagne dell’Attica si caricò di notevoli costi non puramente economici, puntualmente segnalati da Tucidide. Per i più, che non disponevano di alloggio ad Atene, l’esodo comportò la ricerca di abitazioni di fortuna al di fuori delle aree interdette: le torri delle fortificazioni e le stesse lunghe mura diventarono col tempo per molti immigrati le nuove dimore. I costi divennero intollerabili nel momento in cui la città, carica di nuovi arrivati, conobbe una spaventosa epidemia di un morbo passato alla storia come “peste di Atene” (430) che causò la scomparsa di circa 1/3 della popolazione. La coesione e il morale della popolazione ne furono minati, ed è proprio nel 430, in corrispondenza del primo scoppio dell’epidemia e insieme della più lunga e dura invasione dell’Attica (i Peloponnesiaci al comando di Archidamo vi si fermarono per 40 giorni, devastando prima la pianura di Atene poi l’intera fascia costiera) che esplose il risentimento nei confronti di Pericle. Quando il nemico si fu allontanato, il popolo lo accusò come responsabile delle sue sciagure. Furono mandate ambascerie con concrete offerte di pace, che però non ebbero esito. Pericle venne sottoposto a processo, probabilmente con l’accusa di aver peculato in relazione alla recente spedizione in Argolide, egli se la cavò con una forte ammenda e la rimozione della strategia. Ma poco dopo fu rieletto stratego per il 429-428, carica che avrebbe ricoperto solo per pochi mesi a causa della morte – per postumi del contagio – avvenuta nel 429. 2. L’esercito peloponnesiaco, dal canto suo, si muoveva lungo i binari di una pratica bellica ormai secolare, che non concepiva altro che invadere il territorio nemico e conseguente battaglia campale. Nel 431, come si è detto, esso si era trattenuto nel territorio di Acarne. Nei calcoli di Archidamo, le speranze di successo erano legate a due scenari alternativi: o gli ateniesi avrebbero forzato la mano di Pericle arrivando allo scontro aperto e perciò decretando la loro sconfitta, oppure i peloponnesiaci avrebbero continuato indisturbati la loro opera negli anni a venire. Erano tutti i Greci, non solo gli spartani, a pensare, all’inizio della guerra, che gli ateniesi non avrebbero potuto reggere a questo trattamento per più di due o tre anni. Il primo dei due scenari fu sul punto di concretizzarsi già nel 431: la discordia si insinua fra gli ateniesi, e proprio gli acarnesi spingono per una sortita e alimentano il malcontento nei confronti del leader che li costringe a stare al riparo dalle mura. L’accusa di codardia rivolta a Pericle trova una puntuale eco in almeno due commedie di quell’anno: il DIONISALESSANDRO di Cratino e le MOIRE di Ermippo. In ogni caso, Pericle riesce ad inviare la cavalleria ateniese e tessala a limitare i danni e la trappola di Archidamo viene disinnescata. Se le speranze di piegare Atene nel breve periodo con una guerra tradizionale si rivelarono vane, bisogna riconoscere che i peloponnesiaci non avevano a disposizione al momento altre opzioni. I peloponnesiaci riuscirono a raccogliere flotte con uno sforzo collettivo (Corinto, Megara, Sicione… e tante altre) arrivando ad ottenere una forza navale non trascurabile. Ma a rendere incomparabili le forze dei due schieramenti in campo navale intervenivano due fattori: • Il primo è il tremendo gap in fatto di abilità ed esperienza, sia dei comandanti che dei marinai, comunque incolmabile nel breve periodo. Nonostante Corinto, la città più agguerrita in campo navale, avesse col mare un’antica dimestichezza, le sue velleità a sfidare gli ateniesi su questo terreno furono spente nelle acque del golfo Criseo. Vi è poi un difetto di visione strategica. Se si fosse aperto un fronte nell’Egeo, Atene non solo ne avrebbe risentito sul piano psicologico, ma avrebbe avuto una serie di difficoltà a proseguire il duplice obiettivo di tenere sotto Le forze imbarcate su 40 navi, un po’ per difetto di convinzione e un po’ per la non perfetta tenuta delle imbarcazioni, non andarono al di là dell’assalto ad un forte nell’isola di Salamina e della devastazione di una parte dell’isola. La spedizione del 426, venne condotta ancora una volta da Ambracia. Nell’estate dello stesso anno gli ateniesi avevano spedito una flotta di 30 navi intorno al peloponneso al comando di Demostene e Procle. Essa attaccò Leucade con l’aiuto dei locali alleati, e gli Acarnani, che videro nell’azione un’opportunità per inglobare nella loro Lega la colonia corinzia, insistettero per bloccare la città con un muro. Demostene invece diede ascolto ai Messeni di Naupatto, che lo sollecitavano a intraprendere un’azione di forza contro le tribù etoliche loro nemiche: a dire dei Messeni, essi sarebbero stati una facile preda perché abitavano centri non fortificati ed erano armati alla leggera. Demostene ne fu persuaso perché era sua intenzione, una volta acquisito il controllo dell’Etolia, attaccare la Beozia passando attraverso la Doride e il territorio amico dei Focesi. Abbandonato pertanto l’assedio di Leucade lo stratego penetrò nell’interno montuoso dell’Etolia alla testa di un esercito che comprendeva 300 opliti ateniesi che erano dei rematori armati alla leggera, Messeni di Naupatto, Cefalleni e Zacinti. (Gli acarnani si ritirarono delusi dal mancato attacco a Leucade). Tuttavia Demostene commise la leggerezza di non attendere l’arrivo degli alleati della Locride Ozolia, che conoscevano bene il territorio etolico e avevano familiarità con la tattica di combattimento usata dai suoi abitanti. Quando Demostene dopo essersi impadronito di alcuni centri minori puntò verso Egizio, gli ateniesi furono attaccati dagli etoli che si trovavano sulle alture circostanti e che adottavano la tattica “mordi e fuggi”, colpendoli con le loro armi leggere e poi ritrovandosi velocemente fuori del raggio d’azione degli opliti, più lenti e impacciati. Molti di loro finirono intrappolati in un bosco e morirono nell’incendio che il nemico aveva appiccato. Ben 120 opliti ateniesi rimasero sul terreno compreso Procle. A fatica i sopravvissuti rientrarono ad Atene, mentre Demostene rimase nella città locrese. Sull’onda di questi eventi un’ambasceria delle tre più importanti tribù etoliche si recò a Corinto e a Sparta per sollecitare un’azione contro Naupatto. L’invito fu prontamente accolto: un esercito di 3000 opliti alleati al comando dello spartiate Euriloco, di cui facevano parte truppe di Mantinea, 500 soldati della neonata colonia di Ericlea Trachinia e un certo numero di mercenari, si riunì a Delfi e, nella marcia verso Naupatto, trasse dalla sua parte diverse comunità locresi prima schierate con Demostene. Di fronte alla minaccia, proprio Demostene si riconciliò con gli Acarnani e ottenne da loro l’invio di 1000 opliti. Euriloco desistette dall’agire. Ma i peloponnesiaci non tornarono in patria, bensì si unirono agli ambracioti nella già citata spedizione contro Argo di Anfilochia e l’Acarnania. Gli ambracioti si erano mossi con 3000 opliti per attaccare Argo e avevano conquistato il forte di Olpe, a ridosso della costa orientale del golfo di Ambracia. I peloponnesiaci al comando di Euriloco, provenienti dall’Etolia, si ricongiunsero a Olpe con gli ambracioti. Poco dopo giunsero nella zona di Demostene, invitato dagli acarnani ad assumere il comando delle operazioni, e gli ateniesi che, a bordo di 20 navi con due strateghi, erano partiti in precedenza da Atene presumibilmente per contrastare l’azione di Euriloco. Mentre le navi bloccavano Olpe dalla parte del mare, i due eserciti contrapposti – gli ambracioti e le forze di Euriloco da un lato, gli acarnani, gli anfilochi e gli ateniesi dall’altro – presero posizione nei pressi del forte, e dopo alcuni giorni di attesa si arrivò alla battaglia. Il tutto si concluse con un accordo segreto tra Demostene, i generali acarnani e il comandante spartano che prevedeva una tregua, destinata a isolare gli ambracioti. Ma la battaglia ebbe una coda ancora più cruenta. Demostene, informato per tempo dell’imminente arrivo in massa degli altri ambracioti, che erano stati sollecitati dai loro concittadini a intervenire ancor prima della battaglia ed erano ignari di quanto accaduto a Olpe. Perciò preparò un agguato presso Idomene, una località dell’impervia regione che divide l’Anfilochia dall’Ambracia. L’attacco agli ambracioti fu sferrato poco prima dell’alba e guadagnò in efficacia dal fatto che a stabilire il primo contatto furono i Messeni, che con la loro parlata dorica avevano fatto credere di essere dei loro. I più furono massacrati sul posto, e quasi tutti gli altri trovarono la morte per mano degli anfilochi. Una volta che i vincitori fecero ritorno ad Argo, si presentò un araldo degli ambracioti che si erano rifugiati presso gli agrei per chiedere la restituzione dei corpi dei concittadini uccisi durante la ritirata dei peloponnesiaci da Olpe. L’annientamento dell’esercito di Ambracia non portò tuttavia all’esito che sarebbe stato lecito attendersi e che fu in realtà caldeggiato da Demostene, cioè la presa della città da parte di acarnani e anfilochi. Gli acarnani temettero invece che Atene finisse per occupare il vuoto creato dall’eventuale scomparsa della colonia corinzia e si affrettarono a stipulare con gli ambracioti una pace e un’alleanza difensiva di cento anni che prevedeva anche la restituzione delle località occupate e degli ostaggi. La composizione di questo conflitto locale, che per alcuni anni era diventato parte integrante della guerra del peloponneso, significò la fine delle ostilità nella Grecia nord-occidentale per l’intera durata del conflitto. Il destino di Platea e la GRECIA CENTRO-SETTENTRIONALE (431-426) Se in questi primi anni la Grecia centrale rimase nel complesso ai margini della guerra, la Storia di Tucidide dedica largo spazio alle vicende di Platea, una scelta che si spiega per il carattere esemplare del suo destino di piccola città stritolata nella contrapposizione fra le due grandi potenze e per la singolare dialettica che si instaura nel suo caso tra le ragioni della forza e quelle del diritto e della giustizia. Fu probabilmente per compiacere l’alleato tebano, oltre che per ragioni di carattere strategico, che nell’estate 429 Archidamo condusse il suo esercito invece che nell’abituale invasione dell’Attica, contro Platea. Le sue fortificazioni vennero assediate e all’interno della città, dopo che donne, vecchi, bambini e uomini inabili alla guerra vennero portati ad Atene, erano rimasti poco meno di 500 difensori, una parte dei quali ateniesi. Nell’estate del 427 la città era ormai allo stremo. Ma gli spartani non vollero prenderla con la forza per evitare di doverla restituire in caso di un accordo di pace, così, con una buona dose di perfidia, costrinsero i plateesi a consegnarsi spontaneamente dietro promessa che sarebbero stati trattati secondo giustizia. Gli occupanti della città furono in realtà sottoposti a un processo farsa condotto da 5 giudici spartani. La loro sentenza era chiaramente già scritta e, alla loro risposta negativa, vennero portati via e passati per le armi. Per circa un anno la città di Platea ospitò degli esuli megaresi e i pochi plateesi filospartani, poi fu rasa al suolo, e la terra venne data da coltivare ai nemici per sempre, i tebani. Per il resto, il coinvolgimento nel conflitto della regione compresa fra l’Attica e la Tessaglia è funzione soprattutto delle preoccupazioni ateniesi di proteggere l’antistante isola dell’Eubea, da sempre di importanza vitale per Atene e tanto più ora a causa delle ripetute invasioni nemiche. Nel 431 Atene condusse alcune operazioni nella Locride Opunzia finalizzate a prevenire attacchi contro l’isola da parte di nemici o pirati. La situazione cambiò nell’estate del 426, quando Sparta, in risposta all’appello degli abitanti della Doride e della Malide vittime degli attacchi degli Etei, decise di fondare la colonia di Ericlea in un sito a poca distanza dalla costa a metà strada fra la Malide e le Termopile. L’intenzione era di portare attacchi all’Eubea con una flotta che sarebbe stata allestita nei cantieri navali di cui la nuova città era dotata e di servirsene, in prospettiva, come stazione lungo la strada che portava alla Grecia settentrionale. I risultati di questa promettente iniziativa si sarebbero rivelati poco soddisfacenti sia per la perdurante ostilità delle popolazioni vicine sia per un difetto di conduzione politica da parte dei magistrati locali di provenienza spartana. Essa dovette comunque influire sull’agenda militare ateniese. Probabilmente non è un caso che, nel suo progettato attacco alla Beozia da nord, Demostene intendesse seguire una via che passava a pochissima distanza dal sito in cui Eraclea era appena sorta. Ai confini settentrionali del mondo greco, dove l’ondivago re di Macedonia Perdicca teneva con i suoi frequenti voltafaccia di ricavare i massimi vantaggi dalla contrapposizione fra i due blocchi, Atene aveva messo a segno all’inizio della guerra due ottimi colpi: 1. Nel 431 l’alleanza con Sitalce re degli Ordisi, l’ethnos dominante della Tracia, resa possibile dalla mediazione di un greco di Abdera, Ninfodoro, vicino a Sitalce. Contestualmente il figlio del re, Sadoco, ottenne la cittadinanza ateniese e Perdicca, sempre grazie alla mediazione di Ninfodoro, tornò ad allearsi con Atene contro i calcidesi ottenendo in cambio la città di Terme. L’alleanza con gli ordisi non fu priva di risultati. Nell’estate del 430 degli ambasciatori ateniesi che si trovavano in Tracia ottennero da Sadoco l’arresto e la consegna di sei ambasciatori peloponnesiaci che cercavano di staccare Sitalce da Atene ed erano in procinto di raggiungere Farnace, satrapo della Frigia ellespontica, che avrebbe dovuto condurli in presenza del Gran Re. Fra di loro vi era Aristeo di Corinto, che molto si era dato da fare a Potidea, e questo bastò perché tutti, sia Aristeo che i suoi compagni, fossero messi a morte, senza giudizio, non appena giunsero ad Atene: un atroce episodio, che violava le norme non scritte delle relazioni internazionali e che gli ateniesi cercarono di giustificare come misura di ritorsione per l’analogo trattamento riservato da Sparta per tutti i mercanti, ateniesi e alleati, catturati a bordo di mercantili intorno al Peloponneso. 2. Il secondo successo, nell’inverno del 430-429, fu la resa per fame di Potidea, da più di due anni sottoposta a un duro assedio da parte di un esercito ateniese che pochi mesi prima, con l’arrivo della forza di spedizione reduce dall’attacco dell’Argolide, era arrivato a contare ben 7000 uomini e dove la scarsità di cibo aveva già portato a episodi di cannibalismo. Nel negoziare la resa i potideati ottennero di abbandonare la città, una condizione che i tre strateghi ateniesi avevano accettato per porre fine a una operazione che stava mettendo a dura prova sia la resistenza dei soldati che le finanze di Atene. A popolare la città furono poi inviati dei coloni ateniesi che vi rimasero, a quanto sembra, fino alla fine della guerra. Ma se gli ateniesi speravano di riportare in tal modo sotto controllo la situazione nel complesso dell’area trace, si sbagliavano. All'inizio dell’estate del 429, mentre gli spartani ponevano sotto assedio Platea, un esercito ateniese di più di 2000 uomini fra opliti e cavalieri, a cui si sarebbero aggiunti in loco dei peltasti, mosse contro i calcidesi di Tracia e contro i bottiei. L’esercito ateniese devastò i campi, in attesa che dall’interno della città di Spartolo uscisse la fazione filoateniese. In realtà essa fu concitazione le 60 navi della loro flotta; ne nacque una battaglia che vide una sostanziale vittoria peloponnesiaca e che solo l’abile condotta delle navi ateniesi impedì che si trasformasse in una rotta dei corciresi. Quando poco dopo fu segnalato l’arrivo i 60 triremi ateniesi al comando di Eurimedonte, che aveva preso il mare non appena ad Atene si era avuta notizia della stasis, la flotta peloponnesiaca si dileguò sotto costa per sfuggire all’avvistamento nemico. Fu allora che, fatti entrare in città gli opliti messeni, il popolo di Corcira diede libero sfogo alla sua sete di vendetta, uccidendo tutti coloro che aveva individuato come suoi nemici. I circa 500 corciresi che sfuggirono al massacro si rifugiarono in alcune fortificazioni di cui l’isola disponeva sul vicino territorio continentale; da lì rientrarono a Corcira e saliti sul monte Istone vi eressero una fortezza dalla quale continuarono ad agire contro quelli della città. La vicenda avrebbe avuto il suo epilogo nell’estate del 425, quando gli strateghi Eurimedonte e Sofocle fecero tappa a Corcira nel loro viaggio verso la Sicilia successivo ai fatti di Pilo. Grazie all’aiuto ateniese la fortezza fu espugnata e fu concluso un accordo che prevedeva la custodia dei suoi occupanti in un’isola nei pressi della città, in attesa del loro trasferimento ad Atene per essere sottoposti al giudizio del popolo. Ma i rappresentanti del demo di Corcira architettarono un perfido stratagemma che portò all’annullamento dell’accordo, e i prigionieri, rinchiusi in un grande edificio, furono quasi subito massacrati o indotti al suicidio in un crescendo di crudeltà. Le opportunità dell’Occidente: l’intervento ateniese in Sicilia (427-424) Verso la fine del 427 Atene si trovò improvvisamente impegnata su un nuovo fronte, quello siciliano. L’occasione fu la guerra in corso fra Siracusa, sostenuta da Locri Epizefiri in Italia e da quasi tutte le città doriche in Sicilia, e Leontini, con la quale erano schierate le città calcidesi e la dorica Camarina in Sicilia e Reggio in Italia (Reggio e Leontini erano legate ad Atene da un’alleanza rinnovata, o forse stipulata per la prima volta nel 433). Leontini aveva la peggio e alla richiesta d’aiuto formulata ai suoi alleati, Atene rispose con l’invio di 20 navi affidate al comando di Lachete e Careade, con il vero obiettivo di impedire l’esportazione di grano dalla Sicilia verso il Peloponneso. Nella sua fase iniziale, che va dalla tarda estate del 427 all’inizio del 425, l’intervento ateniese si articola in una serie di operazioni militari in diversi teatri di combattimento che vedono come successo più significativo la conquista di Messene nell’estate del 426. Se si considera che una parte delle operazioni si svolge nella fascia meridionale del territorio di Locri Epizefiri, un’area periferica rispetto alle finalità della spedizione, e che alcuni degli alleati di Atene fornirono sostanziosi tributi in denaro, questo primo intervento in Sicilia si profila come un’iniziativa alquanto nebulosa dal punto di vista strategico, in cui gli specifici interessi ateniesi appaiono subordinati a quelli locali all’interno di un conflitto soprattutto terrestre che, a giudicare dalle scarne notizie sia di Tucidide che di Diodoro, dovette essere accanito e cruento. Alla fine del 426 gli ateniesi decisero di rafforzare la spedizione con altre 40 navi, di nuovo dietro richiesta degli alleati siciliani sopraffatti su terra dalle forze nemiche e preoccupati dai preparativi che Siracusa stava facendo per incrementare la sua flotta. Lo stratego Pitodoro partì subito nel cuore dell’inverno con poche navi, e nel corso del 425 i combattimenti si spostarono stabilmente nello Stretto di Messina: gli ateniesi ebbero la meglio in uno scontro navale con i siracusani, ma persero alla fine il controllo di Messene. E’ a prima vista paradossale che la partecipazione ateniese alle operazioni venga a cessare proprio quando, con l’arrivo del resto della flotta con i due strateghi Eurimedonte e Sofocle nella tarda estate del 425, gli ateniesi sono presenti in occidente con una flotta molto più cospicua che in precedenza. Eurimedonte si diede molto da fare per sollecitare gli alleati alla guerra. Ma è probabile che proprio la massiccia presenza ateniese abbia favorito quel processo di ravvicinamento fra le parti in lotta che troverà il suo coronamento nella pace di Gela del 424. La pace di Gela coinvolgeva gli stessi ateniesi e rendeva ormai inutile la loro permanenza in Sicilia. Ciò non mancò di deludere profondamente il demo ateniese, e un segno tangibile della sua frustrazione, nonché delle speranze che aveva finito per riporre nell’impresa, fu la punizione inflitta agli strateghi di ritorno ad Atene per non aver portato a termine la loro missione di sottomettere l’isola pur avendo avuto la possibilità di farlo. Il demo pensava ormai che tutto ciò che Atene intraprendeva dovesse andare a buon fine, quali che fossero le forze impiegate: uno stato d’animo nuovo, che nasceva dall’incrollabile speranza che il successo, in più di una circostanza inatteso, aveva insinuato in loro. Atene a un passo dalla vittoria (425-424) Ci troviamo nel ristretto spazio che abbraccia il promontorio di Pilo e l’isola di Sfacteria, nella baia di Navarino sulla costa occidentale della Messenia. I due eventi che abbiamo appena evocato, la stasis di Corcira e la spedizione in Sicilia, costituiscono a loro volta la tela di fondo su cui i fatti di Pilo si innestano. Nella primavera del 425, mentre l’esercito peloponnesiaco invadeva per la quinta volta l’Attica al comando di Agide figlio di Archidamo, partivano da Atene al comando di Eurimedonte e Sofocle, ai quali era associato senza alcun incarico ufficiale Demostene, le 40 navi che dovevano fare tappa a Corcira prima di raggiungere la Sicilia. Quando la flotta giunse davanti alle coste della Messenia, Demostene propose di fermarsi a fortificare il promontorio di Pilo, e fu solo una tempesta insorta nel frattempo a vincere l’opposizione dei due strateghi, che premevano per proseguire il viaggio. Il caso, dunque, avrebbe dato una mano alla realizzazione del progetto elaborato da Demostene probabilmente suggerito dai Messeni con cui il generale era stato strettamente in contatto nel corso delle campagne nella Grecia nord-occidentale. La fortificazione fu completata con mezzi di fortuna in soli sei giorni, e qui rimasero solo 5 navi con Demostene mentre il grosso della flotta con i due strateghi levò l’ancora verso Corcira. Gli spartani si resero conto del pericolo e si affrettarono a far rientrare sia l’esercito impegnato in quella che si sarebbe rivelata in assoluto la più breve invasione dell’Attica sia la flotta che si trovava in quel momento a Corcira. Ma anche le navi ateniesi, ferme in quel momento a Zacinto, furono avvertite da Demostene di far ritorno a Pilo per soccorrere la postazione ateniese. In previsione di ciò, gli spartani si ripromettevano di bloccare gli accessi alla baia a nord e a sud dell’isola di Sfacteria. Inoltre, per impedire agli ateniesi di adoperare l’isola, disabitata e coperta di boschi, come base di operazioni, vi fecero sbarcare contingenti di opliti che si avvicendarono fra loro e l’ultimo dei quali ne contava 420, agli ordini di Epitada, con i relativi attendenti iloti. Essi pensavano di espugnare in poco tempo l’improvvisata fortificazione nemica, e la difesa approntata da Demostene era realmente improvvisata per quanto riguarda le armi dei suoi equipaggi, che furono loro fornite da due navi messene arrivate in quel momento. Le poche triremi di cui disponevano furono tratte in secco ai piedi del promontorio, al riparo di una palizzata; i soldati si schierarono in gran parte dal lato della terraferma, mentre Demostene, con 60 opliti e alcuni arcieri, si posizionò sulla costa rocciosa e impervia rivolta verso il mare aperto, là dove le fortificazioni erano più deboli. Proprio su questo tratto, lungo l’arco di un giorno e mezzo, si concentrarono gli attacchi delle triremi spartane, per nulla avvantaggiate dal loro numero, visto il poco spazio a disposizione su una riva di difficile accesso. Quando le navi di Eurimedonte e Sofocle, nel frattempo salite a 50 per l’arrivo di alcuni rinforzi, arrivarono nell’area, approfittarono del mancato completamento del blocco degli accessi alla baia per penetrarvi all’interno, mettere in fuga le triremi nemiche che venivano all’attacco e piombare sulle altre che erano in riva ancora in fase di allestimento, invano contrastate dagli spartani che – in una paradossale inversione dei ruoli che Tucidide non manca di sottolineare – erano scesi in mare armati dando vita a una battaglia navale da terra contro gli ateniesi che combattevano una battaglia terrestre dalle navi Si trattò per gli spartani di un’autentica disfatta, che per di più lasciava nel più completo isolamento il contingente che era sbarcato nell’isola di Sfacteria. Le autorità spartane, subito accorse a Pilo, non poterono fare altro che negoziare con gli strateghi ateniesi una tregua che prevedeva la cessazione delle ostilità, la temporanea consegna agli ateniesi di tute le navi spartane, l’approvvigionamento, sotto stretta sorveglianza ateniese, degli uomini bloccati nell’isola, l’invio ad Atene di ambasciatori spartani accompagnati da una trireme ateniese. Gli ambasciatori spartani proposero un accordo che ponesse fine alla guerra, foriero di un trattato di alleanza e di amicizia fra le due città, e permettesse il recupero degli uomini rimasti bloccati a Sfacteria. Ma Cleone, il leader più ascoltato dalla massa del popolo, ebbe buon gioco a persuadere gli ateniesi, che si sentivano in una posizione di forza avendo in pugno gli spartani nell’isola, ad alzare la posta pretendendo la consegna degli uomini di Sfacteria, da trasferire subito ad Atene, e la restituzione di una serie di città e di territori il cui possesso avrebbe finito per ripristinare la situazione anteriore alla pace del 446-445; e lo stesso Cleone determinò la rottura delle trattative quando denunciò pubblicamente come un tentativo di raggiro la richiesta spartana di discutere questi punti non davanti all’assemblea, al cospetto della quale essi rischiavano di screditarsi agli occhi degli alleati, bensì all’interno di una commissione ristretta. Ma, a differenza di quanto lascia intendere il resoconto di Tucidide, la decisione non fu presa così a cuor leggero. Gli ateniesi furono indecisi sulla risposta da dare, per ben 3 volte misero la questione ai voti. Gli ambasciatori spartani fecero dunque ritorno a Pilo e la tregua ebbe termine. Ma gli ateniesi, adducendo presunte violazioni dell’accordo da parte degli spartani, si rifiutarono di restituire le navi ricevute in consegna – il che significò la fine di qualsiasi attività navale peloponnesiaca per il resto della guerra archidamica. La parola tornò allora alle armi; più precisamente la partita si giocava ormai intorno alla capacità di resistenza degli uomini bloccati nell’isola. Gli ateniesi, con una flotta che contava ormai 70 navi, esercitavano una costante sorveglianza per impedire che a Sfacteria arrivassero rifornimenti alimentari, e gli spartani si adoperavano con tutti i mezzi per eluderla, arrivando a promettere forti ricompense, e la libertà per gli iloti, a chiunque riuscisse, in qualunque modo, a portarvi dei viveri. Ciò vanificava gli sforzi ateniesi di costringere gli uomini dell’isola alla resa per fame, mentre il loro esercito versava in grande difficoltà per la scarsità d’acqua e di cibo, per la ristrettezza degli spazi in cui gli uomini erano accampati e per la mancanza di ormeggi sicuri per un così gran numero di navi: Atene era troppo lontana per fungere da base logistica. Messo in difficoltà dal prolungarsi dell’assedio, Cleone sfidò gli strateghi in carica a fare ciò che lui – così diceva – avrebbe fatto se fosse stato stratego, cioè della vecchia alleanza stipulata tra Atene e Megara nel 461) in modo da tagliar fuori la guarnigione peloponnesiaca che custodiva quest’ultimo e sorvegliava la città. 600 opliti, agli ordini di Ippocrate, raggiunsero le lunghe mura appostandosi dentro il fossato, mentre Demostene si appostò in un tempio con truppe armate alla leggera. Al momento giusto, con l’aiuto dei megaresi che aderivano al complotto, tutti questi uomini penetrarono all’interno di esse e se ne impadronirono, mentre la guarnigione peloponnesiaca tornò a rifugiarsi a Nisea nella convinzione che tutti i megaresi avessero tradito. Il passo successivo doveva essere l’apertura delle porte di Megara ad opera della quinta colonna all’interno della città per far entrare il grosso esercito ateniese che era nel frattempo arrivato da Eleusi dopo una marcia notturna. Ma le cose non andarono per il verso giusto. Il complotto fu scoperto, le porte rimasero chiuse e i generali ateniesi, costretti a rinunciare alla presa della città, ripiegarono sul blocco della fortezza di Nisea, la cui guarnigione, ormai tagliata fuori da qualsiasi possibilità di fuga, dovette arrendersi. Caso volle che in quei giorni Brasida (generale spartano molto famoso per le sue doti belliche) si trovasse a Corinto e Sicione impegnato nei preparativi di un’impresa sui cui sviluppi ritorneremo fra poco. Informato degli avvenimenti di Megara, Sicione si diresse con le forze che aveva a disposizione e con quelle che riuscì a mobilitare nei dintorni della città, dove fu raggiunto dalle truppe beotiche che lui stesso aveva mandato a chiamare; a capo a questo punto di un ragguardevole esercito (6000 opliti e 600 cavalieri) si avvicinò a Megara. Tuttavia la battaglia che tutti attendevano non ebbe luogo. Demostene e Ippocrate erano riluttanti a schierare l’esercito contro forze più numerose mentre Brasida si limitò a dare man forte con la sua sola presenza alla fazione dei megaresi filospartani. Quando tutti si furono ritirati, i megaresi intavolarono trattative con Pege (la città che era stata razziata dagli oligarchi) in vista di una riconciliazione; ma una volta reintegrati nel loro potere, costoro fecero condannare e mettere a morte i loro nemici e molti di coloro che si erano compromessi con gli ateniesi. A Megara fu così instaurato un regime oligarchico e tempo dopo furono riconquistate e distrutte le lunghe mura ancora occupate dagli ateniesi. Se i generali ateniesi avevano finito per accontentarsi di un successo parziale, forse fu perché la loro mente era già rivolta al piano che, con la collaborazione dei Focesi, avrebbe dovuto guadagnare la Beozia allo schieramento ateniese mediante un rovesciamento di regime e l’instaurazione della democrazia. In un giorno convenuto, Demostene avrebbe dovuto raggiungere Sife, sul golfo di Corinto, che gli sarebbe stata consegnata a tradimento, mentre Ippocrate avrebbe occupato il santuario di Apollo a Delio per farne una base d’operazione in territorio beotico. Tuttavia il piano fu vanificato da due circostanze: 1. Un focese denunciò il complotto agli spartani che a loro volta ne informarono i beoti: quando Demostene arrivò a Sife, scoprì che era stata presa dai beoti; 2. Un errore nel calcolo dei giorni impedì la sincronizzazione delle due iniziative: l’esercito di Ippocrate entrò in Beozia quando il complotto era ormai fallito. Esso si spinse fino al santuario di Delio dove costruì una fortificazione nella quale fu lasciato un presidio; le truppe leggere tornarono in Attica mentre gli opliti si fermarono nella fascia di confine fra l’Attica e la Beozia. I beoti riunirono le forze a Tanagra; incerti se attaccare battaglia ora che, come avevano appreso, il nemico non era più in Beozia, furono convinti a cercare lo scontro dal vigoroso discorso del tebano Pagonda. Perciò partirono alla volta del luogo dove l’esercito ateniese si era appostato. I due eserciti contavano sullo stesso numero di opliti ma Atene contava un numero molto inferiore di armati alla leggera, essendo la maggior parte di loro rientrata quasi subito a casa. Informato dell’avvicinarsi del nemico, Ippocrate raggiunse il suo esercito dopo aver lasciato a Delio circa 300 cavalieri a difesa della fortificazione, e stava ancora esortando le sue truppe quando i beoti cominciarono a scendere in battaglia intonando il peana; allora anche gli ateniesi si mossero scontrandosi con i nemici a passo di corsa. Pare che le estremità dei due schieramenti non entrarono in contatto perché ostacolati da corsi d’acqua, ma le falangi furono interamente impegnate nello scontro. La battaglia fu decisa da un’abile manovra di Pagonda, il quale, accortosi che l’ala sinistra era in grande difficoltà, mandò due squadroni della cavalleria in suo soccorso facendoli passare dietro la collina: vedendoli sbucare da dietro l’altura, gli ateniesi si impaurirono a morte con la conseguenza che sia l’ala destra che quella sinistra ruppero le linee e si diedero alla fuga in diverse direzioni. I caduti fra gli ateniesi, compreso Ippocrate, furono quasi 1000, il doppio di quanti caddero tra le file tebane. I beoti, con una decisione che calpestava la più vincolante fra le leggi “non scritte” che regolavano la conduzione della guerra fra greci, non consentirono agli ateniesi il recupero dei loro morti: rinfacciavano loro che occupando e fortificando Delio essi avevano violato le norme condivise dei greci circa il rispetto dovuto ai luoghi sacri; pertanto li invitarono prima di ogni altra cosa ad abbandonare il santuario. Gli ateniesi replicarono che quello su cui si trovavano era territorio conquistato con le armi, di conseguenza essi potevano disporre dei santuari che vi si trovavano e che gli dei avrebbero eventualmente perdonato tali violazioni necessarie. Di fronte al rifiuto degli ateniesi di abbandonare il santuario, i beoti diedero l’assalto alla fortificazione con un numero di uomini sproporzionato rispetto alle difese che gli ateniesi avevano potuto erigere intorno al santuario. Eppure Delio fu espugnata, grazie a un rudimentale lanciafiamme che fu accostato al tratto di fortificazione costruito con una percentuale maggiore di legname e vi appiccò il fuoco, obbligando i difensori ad abbandonarla. Solo sedici giorni dopo, i beoti restituirono agli ateniesi i corpi dei loro caduti. Il bilancio degli ultimi mesi era stato assai negativo per Atene: al mezzo fiasco di Megara e alla sanguinosa sconfitta di Delio vennero ad aggiungersi i rovesci, in prospettiva ben più pesanti. Brasida si sarebbe rivelato l’uomo giusto per queste azioni, poiché accoppiava alla grande energia messa in luce negli anni precedenti quella capacità politica e diplomatica che faceva difetto alla maggior parte dei comandanti spartani (Tucidide gli attribuisce l’aggettivo DRASTERIOS “risoluto all’azione”). Nell’estate del 424, avendo portato a termine i preparativi per i quali era rimasto coinvolto nelle vicende di Megara, Brasida si mosse alla testa di 1700 opliti e fece tappa nella colonia spartana di Eraclea. Da qui contattò gli amici di cui disponeva a Farsalo affinché lo guidassero nell’attraversamento della Tessaglia. Il passaggio non era facile: attraversare in armi il territorio di un altro stato senza il consenso dei suoi governanti esponeva al rischio di azioni di guerra, alcune città della regione erano alleate di Atene e Atene riscuoteva le simpatie degli strati inferiori della popolazione. Brasida dovette procedere a tappe forzate fino a quando, con l’aiuto dei Perrebi, non arrivò in Macedonia. Qui si districò da un’altra difficoltà che avrebbe potuto rallentarne l’azione: Perdicca intendeva coinvolgerlo in una guerra con un suo nemico: Arrabeo re della confinante Lincestide. Ma Brasida trovò il modo di negoziare un accordo con Arrabeo e questo gli costò una diminuzione del contributo macedone fornito per il mantenimento del suo esercito. A questo punto il generale spartano può dedicarsi al vero obiettivo della sua spedizione. Acanto, la città della Calcidica verso cui si diresse, non gli aprì subito le porte a causa della diffidenza del popolo; ma alla fine Brasida, con un abile discorso in cui le minacce di usare la forza in caso di opposizione erano sapientemente mescolate con la promessa di liberazione dalla dominazione ateniese, li indusse a defezionare da Atene e a permettere al suo esercito di entrare in città. Subito dopo Stagiro seguì l’esempio di Acanto. La meta successiva, Anfipoli, andava a toccare uno dei capisaldi economici dell’impero ateniese. Brasida vi arrivò nottetempo per cercare di cogliere di sorpresa gli anfipoliti. La vicina Argilo fece subito defezione e sue truppe accompagnarono Brasida, ancor prima dell’aurora, al ponte sullo Strimone che portava alla città e non era protetto da fortificazioni. Fu facile per lui forzare il posto di guardia, impadronirsi dei beni che si trovavano fuori dalle mura e saccheggiare il territorio. I partigiani di Atene, sostenuti dalla presenza dello stratego Eucle inviato per sorvegliare le località, riuscirono a impedire che gli venissero aperte le porte e nel contempo mandarono a chiamare l’altro stratego, lo storico Tucidide, che si trovava in servizio nell’isola di Taso a una mezza giornata di navigazione. Temendo che l’arrivo di Tucidide – che godeva di una certa influenza nella regione in quanto titolare di concessioni per lo sfruttamento delle miniere – rafforzasse il fronte ateniese all’interno della città, Brasida volle prevenirlo e attraverso un proclama notificò agli anfipoliti la proposta di un accordo obiettivamente generoso: gli anfipoliti e gli ateniesi che si trovavano nella città potevano rimanervi in condizione di parità e uguaglianza, mentre quelli che volevano andarsene potevano farlo entro cinque giorni portando via i loro beni. L’accordo fu accettato e la città fu consegnata a Brasida nello stesso giorno in cui Tucidide riusciva a salvare il porto di Anfipoli che Brasida tentò di prendere senza riuscirci. Proprio lì trovarono accoglienza i residenti di Anfipoli che avevano deciso di abbandonare la città. La perdita di Anfipoli rappresentava per gli ateniesi un gravissimo rovescio, tanto più che l’abilità e la moderazione di cui Brasida dava prova stavano creando nella regione un clima favorevole a Sparta. La sua azione non conobbe soste. Dopo Anfipoli, egli accolse nell’alleanza alcune città situate oltre il fiume Strimone e forzò l’adesione di altre città ubicate nella Acte, la più orientale delle tre penisole della Calcidica. Fu infine la volta di Torone, la più importante città della penisola di Sitonia, ad essere conquistata da Brasida che, anche in questo caso, dimostrò una notevole abilità diplomatica che rassicurò la popolazione. Prove tecniche di pace (423-421) All’inizio del 423 il desiderio ateniese di prendere tempo in attesa di preparare un’adeguata controffensiva e la preoccupazione spartana di recuperare i prigionieri fintantoché duravano i successi di Brasida, portarono alla stipulazione di un armistizio che congelava la situazione. I rapporti si complicarono però con la defezione di Scione, una città nella penisola di Pallene. Brasida vi si recò immediatamente e, convocata l’assemblea del popolo, ripeté agli scionei quanto aveva detto ad Acanto e a Torone aggiungendo un particolare elogio per il loro coraggio: il discorso esaltò gli Per il resto le motivazioni erano differenti nei vari casi: • I Corinzi, già adirati per la mancata restituzione di Sollio e Anactorio, si sentivano vincolati dal giuramento stipulato con le città dell’area trace fin dal 432 e dicevano che lo avrebbero violato se avessero aderito alla pace; • Nel Peloponneso, il malcontento alleato si accompagnava a un processo di scollamento interno della Lega segnalato da un episodio non poco anteriore; • I Mantineesi, che durante la guerra avevano ampliato il loro dominio in Arcadia, temevano che ora Sparta non avrebbe più tollerato questa situazione; • Gli Elei, avevano una simile motivazione: la città di Lepreo in Trifilia si era sottratta all’obbligo di pagare una sorta di tributo agli Elei, frutto di un precedente accordo fra le due comunità, e gli spartani, designati come arbitri nella controversia, ne avevano proclamato l’autonomia e vi avevano spedito delle guarnigioni; • Beoti e Megaresi, infine, erano contrari per via di un obbligo in cui i beoti dovevano restituire il forte di Panacto ai megaresi e i megaresi restituire Nisea ai beoti. Questi malcontenti vanificavano gli auspicati effetti distensivi della pace. Non tardò a farsi sentire uno dei suoi effetti funesti: nell’estate del 421, gli ateniesi, espugnata Sicione, massacrarono i maschi adulti, vendettero schiavi donne e fanciulli e diedero la città da abitare ai plateesi. Ma il fatto inedito, da qui al 418, sarà il ruolo assunto da Argo: avvantaggiata, anche economicamente, dal ruolo di neutralità osservata nel corso della guerra e alla quale la scadenza della tregua trentennale con Sparta offriva un’opportunità di estendere la sua influenza nel Peloponneso. Non stupisce allora che gli stati scontenti della pace si siano rivolti proprio ad Argo come polo di un nuovo schieramento di marca antispartana. Per primi i corinzi sollecitarono gli argivi a prendere l’iniziativa di proporre, a chiunque volesse aderirvi, un’alleanza per la difesa reciproca. Gli argivi ne discussero e nominarono una commissione cui diedero pieni poteri per la stipulazione di eventuali trattati. I primi ad accogliere l’invito furono i mantineesi; un’ambasceria da Elei fece visita sia a Corinto che ad Argo e concluse un’alleanza con entrambe; lo stesso fecero infine i corinzi e i calcidesi di Tracia. Ne rimasero invece fuori, in attesa degli eventi, beoti e megaresi. La situazione cambiava pochi mesi più tardi, quando due efori spartani, Clebulo e Senare, meno entusiasti dei loro predecessori dell’accordo con Atene, cominciarono a premere sui beoti perché seguissero Corinto nel diventare alleati di Argo come premessa per la formazione di una più vasta alleanza destinata a includere la stessa Sparta. La proposta tuttavia incontrò l’opposizione del Consiglio federale beotico che, tenuto all’oscuro degli ultimi sviluppi, temeva che gli interessi di Sparta fossero danneggiati da queste manovre. Poiché i beoti, infine, pressati dalle continue richieste spartane di restituire Panacto e i relativi prigionieri in vista dello scambio con Pilo, subordinavano il loro assenso alla stipulazione di un’alleanza con Sparta, all’inizio del 420 gli spartani si rassegnarono a dire di sì, accettando il rischio di un’aperta rottura con Atene. Loro ambasciatori si presentarono ad Atene riportando infine i prigionieri ateniesi detenuti fino ad allora dai beoti e annunciando la restituzione di Panacto, benché la fortezza fosse stata nel frattempo rasa al suolo dai beoti col pretesto di un antico giuramento preso con gli ateniesi in base al quale il sito doveva rimanere disabitato. Gli ateniesi in preda all’indignazione, impressero allora una svolta alla loro politica di cui si fece paladino un giovane e ambizioso Alcibiade da poco affacciatosi alla vita pubblica, e già risentito con gli spartani per essere stato tenuto ai margini delle trattative di pace nonostante gli antichi legami tra la sua famiglia e Sparta e a dispetto della cura che si era preso dei prigionieri spartani detenuti ad Atene. Egli propose di contattare Argo in vista di un’alleanza argivo-ateniese e così avvenne. In precedenza gli argivi, alla notizia dell’alleanza conclusa tra beoti e spartani e pensando che Atene fosse al corrente di questo fatto nuovo, avevano temuto di rimanere isolati dalla coalizione che sembrava si stesse coagulando intorno a Sparta. Perciò avevano spedito due loro concittadini a Sparta per aprire le trattative sulla possibilità di concludere un trattato analogo a quello da poco scaduto. Ma quando arrivarono gli ambasciatori ateniesi e l’equivoco fu chiarito, gli argivi cambiarono posizione e si lasciarono sedurre dalla prospettiva di avere al loro fianco una grande potenza navale, loro tradizionale amica e politicamente affine perché anch’essa retta da una democrazia. In questa convulsa partita diplomatica ora toccava agli spartani di doversi preoccupare per la piega che avevano preso gli eventi, e per sventrare la minaccia che si profilava (una vasta coalizione ostile che includeva Atene) loro ambasciatori si precipitarono ad Atene e di fronte al Consiglio dissero che erano venuti per risolvere tutti gli aspetti controversi delle relazioni fra le due città e per rassicurare gli ateniesi sul fatto che l’alleanza con la Beozia non era diretta contro di loro. Ma Alcibiade riuscì a metterli in grande difficoltà nel momento in cui si presentarono davanti all’assemblea, facendogli dire che erano venuti non provvisti di pieni poteri e suscitando l’ira degli ateniesi presenti. Il rancore di Atene nei confronti di Sparta si accrebbe dopo che un’altra ambasceria ateniese a Sparta ebbe fatto ritorno senza aver raggiunto alcun risultato. Niente ormai era di ostacolo alla conclusione – nel 420 – dell’alleanza fra Atene, Argo, Mantinea e l’Elide. Una serie di episodi diede l’impressione che Sparta fosse all’angolo: • La sua esclusione dalle feste olimpiche del 420 decretata dagli Elei; • La plateale umiliazione inflitta a un suo illustro cittadino (Lica) nelle gare; • Il comandante spartano Trachinia fu ucciso nel corso di un attacco inflitto da popolazioni confinanti ed Eraclea passò sotto la tutela tebana; • Nel 419 una spedizione di ateniesi, argivi e alleati, guidata da Alcibiade, si spinse fino all’Acaia ma non riuscì a fortificarne le mura; • In questo stesso periodo si accese una guerra tra Argo ed Epidauro per un pretesto di natura religiosa, ma in realtà per gli innegabili vantaggi che la neonata alleanza con Atene avrebbe ricavato dalla presa della città. Difficilmente Sparta poteva rimanere indifferente di fronte a un’iniziativa che indeboliva il suo schieramento e metteva pressione sui corinzi. In un primo momento la risposta spartana risultò parecchio incerta sul da farsi, poi nell’estate del 418, arrivò il momento di rompere l’accerchiamento con il più classico dei mezzi a loro disposizione: una spedizione della Lega e degli alleati contro Atene. Partito da Fliunte, l’esercito si divise in tre tronconi che entrarono nell’Argolide da tre differenti strade. Gli argivi erano apparentemente in una posizione disperata. Ma il re Agide, contattato da due cittadini argivi si lasciò convincere, senza consultare nessuno degli alleati, a concordare una tregua di quattro mesi. Gli spartani, di tutta risposta, attaccarono e sconfissero quell’esercito nettamente meno numeroso e Agide, naturalmente, fu bersagliato da pesanti accuse per il suo comportamento, venne quasi lapidato sulla strada del ritorno, si vide confiscare i beni per non aver concordato le sue mosse col popolo. Alla fine dell’estate arrivarono ad Argo 1000 opliti ateniesi e 300 cavalieri agli ordini di due strateghi, con Alcibiade in veste di ambasciatore. Vincendo l’iniziale riluttanza degli argivi, gli ateniesi convinsero gli alleati a marciare tutti insieme contro Orcomeno, e la città arcade, stretta d’assedio, accettò di entrare nell’alleanza e di dare ostaggi ai mantineesi. Subito dopo, su sollecitazione dei mantineesi, gli alleati decisero a maggioranza che il loro prossimo obiettivo sarebbe stata Tegea, importantissima città. In vista dell’attacco a Tegea, l’esercito si concentrò nei pressi di Mantinea. Le prodezze ateniesi e non solo (la caduta di Orcomeno ad esempio) arrivarono agli spartani, che mossi dal risentimento, liberarono il re Agide e lo mandarono in una nuova campagna con dieci spartiati in veste di consiglieri. Fu così che l’esercito spartano si mosse verso Tegea, arrivando a Mantinea e devastandone le campagne. Passò ancora un giorno prima che i due eserciti entrassero in contatto. Tucidide afferma in due passi distinti che l’esercito spartano era il più numeroso. Alla fine i mantineesi e i soldati argivi, ormai consapevoli della sconfitta del resto dell’esercito, si diedero alla fuga. 700 opliti erano morti fra gli argivi, gli orneati e i cleonei, 200 fra i mantineesi, 200 fra gli ateniesi compresi i due strateghi. Dall’altra parte Tucidide non dà cifre, ma i caduti fra gli spartani non avranno superato le poche centinaia. Avendo vinto, gli spartani tornarono in patria dove poterono festeggiare le Carnee, risollevati nel morale dopo aver corso il rischio di perdere la supremazia nel Peloponneso. Le conseguenze non tardarono a farsi sentire all’interno della stessa Argo, dove gli elementi filospartani e contrari alla democrazia ripresero forza. Così, quando l’inverno seguente una spedizione spartana raggiunse Tegea e da qui avanzò delle proposte di pace con Argo, nella città si aprì un dibattito, alla presenza di Alcibiade e dello spartano Lica, il cui esito fu l’accoglimento di quelle proposte. Poco dopo, quando l’esercito spartano si era ritirato da Tegea, gli argivi furono persuasi ad abbandonare l’alleanza con i mantineesi, gli ateniesi e gli elei e a stipulare un trattato di pace e di alleanza per 50 anni con gli spartani. I due stati adottarono una politica comune su tutti i fronti: si adoperarono con Perdicca, facendo leva sulla sua mitica ascendenza argiva, perché si schierasse dalla loro parte e rinnovarono i giuramenti con i Calcidesi di Tracia. Anche la guerra fra Argo ed Epidauro cessò nel 418-417. Naturalmente Sparta approfittò della situazione per regolare i conti in sospeso nel resto del Peloponneso: ciò avvenne in Acaia e Sicione, mentre i mantineesi, isolati, si accodarono anch’essi a Sparta. All’inizio del 417 una spedizione comune di spartani e argivi, 1000 per parte, rovesciò il regime democratico vigente ad Argo instaurando un’oligarchia. Ebbe breve durata: nella successiva estate il demo argivo approfittò della celebrazione della festa delle Gimnopedie a Sparta per riprendere il potere eliminando o scacciando gli uomini della fazione avversa, senza che Sparta trovasse il modo di intervenire. Argo si riavvicinò perciò ad Atene, stringendo un’alleanza cinquantennale che sembra essere stata ratificata nella primavera del 416, e con la partecipazione dell’intera popolazione e la collaborazione di artigiani venuti da Atene si mise mano all’edificazione di lunghe mura che unissero la città al mare (secondo Plutarco, su suggerimento di Alcibiade). Questa pericolosa iniziativa smosse Sparta. Nel corso dell’inverno 417-416 una spedizione comandata dal re Agide puntò su Argo e distrusse le mura in costrizione, poi occupò Isie e uccise tutti gli uomini liberi che riuscì a catturare. Benché la fazione filospartana di Argo non sembri aver avuto alcun ruolo in questo episodio, essa doveva essere tanto attiva da provocare l’intervento di Alcibiade nel 416: catturò e confinò In questo clima, nel maggio del 415, avvenne “lo scandalo delle erme”: gli ateniesi scoprono, durante la notte, che tutte le erme (pilastrini di sezione quadrangolare raffiguranti Ermes collocati lungo le strade, ai crocevia, ai confini delle proprietà, dinanzi alle porte che invocavano la protezione del dio) erano state sfigurate durante la notte; un gesto empio che fu letto come cattivo presagio per la spedizione o un tentativo di sabotarla oppure come una congiura per sovvertire l’ordine costituito e abbattere la democrazia. La vicenda arrivò a coinvolgere Alcibiade, tanto che fu brandita dai suoi avversari politici come un’arma per minarne il prestigio e denunciarne la pericolosità. Alcibiade cercò di difendersi dalle accuse e chiese di essere sottoposto a giudizio prima della partenza della flotta ma ciò non avvenne. All’inizio dell’estate del 415, la spedizione prende il largo dal Pireo verso Corcira, dove si raccoglievano le forze alleate. Le triremi erano in totale 134, di cui 100 ateniesi; al loro seguito vi erano 30 navi da carico per il trasporto delle vettovaglie e delle attrezzature. Le truppe combattenti comprendevano 5100 opliti e 1300 uomini fra arcieri, frombolieri e armati alla leggera. Divisa in tre squadre, ciascuna affidata a uno stratego, la flotta attraversò lo Ionio e ridiscese lungo la costa dell’Italia meridionale. Taranto e Locri le rifiutarono il rifornimento d’acqua e l’ancoraggio; nessuna delle altre città aprì loro le porte; solo Reggio, già precedentemente alleata, si limitò a offrire loro la possibilità di accamparsi fuori le mura e di usufruire di un mercato. Nel frattempo a Siracusa erano giunte le prime notizie sulla grande spedizione e i suoi strateghi avevano già cominciato a fare i necessari preparativi alla guerra. In vista della vittoria e ritorno (415-414) Nel frattempo gli ateniesi, oltre a non essere stati accolti nel meridione, affrontavano un altro problema: le navi che erano state mandate in avanscoperta a Segesta fecero ritorno con la notizia che nella città erano disponibili solo 30 talenti e che dunque gli ambasciatori inviati a suo tempo in Sicilia erano stati ingannati da un’esibizione di mezzi non rispondente alla realtà. Nel consiglio di guerra che allora tennero a Reggio i tre strateghi, si profilarono tre diverse strategie: 1. Lamaco espresse l’idea di attaccare subito Siracusa contando sullo spavento che avrebbe provocato l’arrivo di una flotta imponente e approfittare della sua inadeguata preparazione militare; 2. Nicia era per dirigersi a Selinunte e poi, una volta composta con ogni mezzo la contesa con Segesta, tornare in patria eventualmente facendo qualcosa per aiutare Leontini; 3. Alcibiade, con un approccio più tattico e riflessivo, sosteneva la necessità di trarre dalla loro parte il maggior numero di alleati siculi e greci (in particolare Messene) e solo dopo attaccare Selinunte e Siracusa nel caso non avessero acconsentito ad accordarsi con Segesta e a permettere la rifondazione di Leontini. Sia Lamaco che Alcibiade prevedevano l’attacco diretto a Siracusa. Il piano di Alcibiade ebbe comunque la meglio ma il tentativo di convincere Messene ad allearsi con Atene non ebbe successo. Una parte della flotta raggiunse allora Nasso, i cui abitanti accolsero gli ateniesi nella loro città, poi proseguì verso Catania. Nella stessa Catania arrivò la nave Salaminia, giunta da Atene con l’incarico di scortare Alcibiade e altri ateniesi davanti alle corti di giustizia perché si difendessero dalle accuse loro rivolte circa le mutilazioni alle erme. A risultare decisiva per la ricerca dei colpevoli fu la delazione resa da un ateniese che Tucidide non nomina, sulla base della quale i processi erano stati istruiti (erano state cercate prove ed elementi necessari per il giudizio) e le condanne a morte eseguite. Alcibiade, a quanto pare estraneo all’affare della mutilazione delle erme, fu coinvolto nell’accusa della profanazione dei misteri (erano accaduti, dopo lo scandalo delle erme, dei fatti riguardanti versioni parodiche dei misteri eleusini in case private); più ancora, egli rimase vittima del clima di sospetto che regnava in città. Alcibiade e gli altri partirono dunque alla volta di Atene a bordo di un’altra nave ma, arrivati a Turi, sbarcarono e fecero perdere le loro tracce. Naturalmente sarebbero stati tutti condannati a morte e i loro beni sarebbero stati confiscati o venduti all’asta. Prima della fine dell’estate gli ateniesi, si diressero con tutte le loro forze verso l’occidente dell’isola costeggiandola a nord e, respinti da Imera, presero d’assalto la città di Iccara, che fu data alla nemica Segesta e infine si ricongiunse al resto dell’esercito che aveva fatto ritorno a Catania: le truppe di terra avevano attraversato il territorio all’interno della Sicilia, mentre la flotta aveva fatto il periplo dell’isola trasportando gli schiavi, la cui vendita fruttò 120 talenti. Le mosse successive ci portano nel cuore dello scontro con Siracusa, la cui forte cavalleria rappresentava su terra l’ostacolo più grave per le truppe ateniesi quasi del tutto sfornite di cavalcature. Perciò gli strateghi ateniesi concepirono il piano di attestarsi in un campo fortificato non lontano dalla città che offrisse loro la necessaria protezione, e lo attuarono attirando con un tranello il grosso dei nemici lontano da Siracusa, verso il loro accampamento a Catania, e sbarcando invece con tutte le loro forze di fronte al santuario di Zeus Olimpio, sulla riva occidentale del Porto Grande. Qui ebbero tutto il tempo di approntare un accampamento, sfruttando alcune difese naturali e completandole dal lato meridionale con una palizzata a protezione delle navi. All’indomani del rientro dei siracusani dall’infruttuosa sortita ebbe luogo la prima battaglia, a nord dell’Anapo, che vide un chiaro successo degli ateniesi e dei loro alleati; ma la cavalleria siracusana, padrona del campo, ne impedì il completo sfruttamento ponendo un freno all’inseguimento dei soldati in rotta. Unica iniziativa siracusana coronata da successo fu l’invio di un corpo di guardia a protezione dei beni dell’Olympieion. Il giorno dopo gli ateniesi tornarono a Catania con le spoglie dei nemici: era cominciato l’inverno ed essi avevano la necessità di estendere la rete di alleanze in Sicilia, procurarsi cavalieri e denaro, accantonare provviste in vista della ripresa delle ostilità in primavera. Motivazioni, queste, sicuramente fondate, ma che non riescono a cancellare l’impressione, cui avrebbe dato voce in una successiva circostanza lo stratego Demostene, che Nicia e Lamaco avrebbero potuto fare qualcosa per sfruttare maggiormente questa prima vittoria. I siracusani, dal canto loro, furono indotti da questa sconfitta, sempre su consiglio di Ermocrate e per rendere più efficace la guida delle operazioni, a ridurre il numero degli strateghi da 15 a 3 (tra cui lo stesso Ermocrate) e ad aumentare il numero degli effettivi e migliorarne la disciplina. Inviarono inoltre ambasciatori a Corinto e Sparta per sollecitare aiuti e indurre i peloponnesiaci a riprendere l’offensiva in Grecia. Poco più tardi, migliorarono il sistema difensivo del centro urbano e del territorio immediatamente circostante. In particolare, costruirono un muro che partendo dalla riva del Porto Grande risaliva fino alle pendici delle Epipole, il pianoro a nordovest della città, ma invece di piegare subito a oriente, includeva il colle Temenite e toccava il mare. Costruirono anche piazzeforti a Megara e all’Olympieion ed eressero palizzate davanti ai tratti di costa nei quali era possibile operare sbarchi. Infine, avendo appreso che gli ateniesi si erano acquartierati a Nasso per passarvi l’inverno, attaccarono in massa e diedero alle fiamme il campo che avevano stabilito a Catania. Sul piano diplomatico, quello del 415-414 fu un inverno assai operoso per entrambi i contendenti. Atene inviò un’ambasceria a Camarina per cercare di trarla dalla sua parte ora che la situazione sembrava peggiorare per Siracusa; quest’ultima reagì mandando anch’essa un’ambasceria guidata da Ermocrate. • Ermocrate, nel dibattito che seguì, insistette sulla necessità che l’elemento dorico facesse fronte comune contro la minaccia ateniese e sul pericolo derivante per la libertà di tutti i sicelioti da un’eventuale vittoria ateniese; • Eufemo, il rappresentante ateniese, mise l’accento sulla minaccia che le mire egemoniche di Siracusa rappresentavano per l’indipendenza delle città siceliote e sull’interesse ateniese a stringere, in Sicilia, solidi rapporti di alleanza piuttosto che di sudditanza. Ma i camarinesi pensarono bene di non scostarsi dalla loro linea di neutralità. L’iniziativa ateniese ebbe più successo con le comunità sicule dell’interno dell’isola, che fornirono viveri e denaro. Messi furono inviati a Cartagine e alle città etrusche – dalle quali sarebbero arrivate in primavera 3 navi che avrebbero preso parte ai combattimenti del 413 – e richieste di cavalieri ancora ai siculi e a Segesta. Ambasciatori siracusani toccarono le città italiote, poi la madrepatria Corinto, che si dichiarò pronta ad aiutare Siracusa in omaggio alla consanguineità, infine, accompagnati da legati di Corinto, Sparta. Un aiuto del tutto imprevisto venne offerto alla loro causa da Alcibiade che, giunto infine proprio a Sparta dopo la sua fuga da Turi, intervenne nell’assemblea in cui le richieste siracusane furono discusse. Nel discorso, oltre a dichiarare di sposare gli interessi peloponnesiaci dopo aver tradito Atene, dava informazioni sui presunti piani ateniesi: - assoggettare la Sicilia e l’Italia meridionale e impadronirsi delle loro cospicue risorse come premessa ad un attacco in forze contro il Peloponneso. Alcibiade suggerì poi due misure operative della cui efficacia nessuno poteva dubitare: 1. L’invio di un loro uomo a Siracusa, con navi equipaggiate con opliti, che assumesse il comando delle operazioni; 2. La ripresa della guerra aperta con Atene con l’occupazione del forte di Decelea in Attica, di cui Alcibiade prospettò i vantaggi in particolare di ordine economico. Se per Decelea si aspettò il 413, la scelta dell’uomo che doveva organizzare la difesa di Siracusa cadde subito su Gilippo, che si diede subito a organizzare il trasporto di truppe. Nella primavera del 414 ripresero le ostilità, ed ebbero come centro le Epipole, chiave di volta di qualsiasi tentativo di assedio. I siracusani avevano già deciso di sorvegliarne gli accessi, ma furono battuti sul tempo dagli ateniesi, le cui truppe salirono durante la notte sul pianoro passando dall’Eurielo invano ostacolati da un primo contrattacco siracusano. Essi eressero una fortezza a Labdalo, sul margine settentrionale del pianoro, e subito dopo, con una rapidità che fu motivo di sconforto per i siracusani, una fortificazione circolare (Tucidide la chiama “Il cerchio”) nei pressi del suo bordo meridionale, che doveva fungere da fulcro per la costruzione del muro dal cerchio verso una località della costa settentrionale detta Trogilo. I siracusani reagirono impostando un contromuro a sud del cerchio, e l’opera era alquanto avanzata quando fu presa e distrutta con un’improvvisa azione da un corpo scelto di ateniesi. Gli ateniesi si volsero allora a completare il cerchio con una doppia cortina, ma in un confuso scontro nei pressi dell’Anapo perse la vita lo stratego Lamaco. Una parte dei siracusani, partendo dall’interno della città, si slanciò a questo punto verso il cerchio ritenendolo privo di difensori. In realtà qui era rimasto Nicia, impedito di partecipare alla battaglia dalle sue cattive condizioni di salute, e lo stratego ateniese ne sventò la conquista facendo appiccare il fuoco alle macchine e al il Porto Grande, mentre sfavoriva gli ateniesi, che agivano sempre con ampie manovre di sfondamento e aggiramento. Dopo la perdita del Plemmirio, agli ateniesi non restava che la striscia di terra del loro accampamento, mentre i siracusani potevano muoversi per l’intero porto. Il campo ateniese fu simultaneamente attaccato alle due estremità dalle truppe provenienti dalla città. Gli ateniesi allora organizzarono la difesa nel capo e poi equipaggiarono le loro 75 navi per andare incontro alle 80 della flotta nemica. Nella battaglia che fu ingaggiata dopo circa un giorno e mezzo di stallo le navi siracusane ebbero la meglio con la tattica prua contro prua, affondando navi, uccidendo e facendo prigionieri molti uomini. L’arrivo, infine, di Demostene ed Eurimedonte, con 73 navi, 5000 opliti e molti armati alla leggera ebbe il prevedibile effetto di risollevare il morale agli ateniesi. Demostene entrò subito in azione, concentrando i suoi sforzi in un attacco al contromuro siracusano sulle Epipole. Dopo un tentativo operato con le macchine (incendiate poi dai nemici) organizzò un assalto notturno aggregando alle truppe combattenti anche muratori e carpentieri per edificare, in caso di successo, una fortificazione. Gli ateniesi vennero però respinti dal contingente beotico. Di fronte a questa sconfitta, Demostene e Eurimedonte furono dell’avviso che bisognasse partire senza indugio per approvvigionarsi con scorrerie e avere a disposizione il mare aperto per le battaglie navali. Nicia, invece, temeva molto la reazione del popolo ateniese ma riteneva che il tempo avrebbe giocato a loro favore perché i siracusani erano a corto di risorse. Un’eclissi di luna, tuttavia, gettò nel panico la maggior parte degli ateniesi e la partenza venne rimandata. Resisi conto dell’intenzione ateniese di ripartire, i siracusani capirono che il nemico si sentiva in inferiorità rispetto a loro e ripresero l’iniziativa. Attaccarono via terra le fortificazioni ateniesi e vennero a contatto con le 86 triremi nemiche. L’ala destra della flotta ateniese venne annientata con l’uccisione dello stratego Eurimedonte che la comandava. Le altre navi, spinte verso la riva, si trovarono al di fuori della palizzata che proteggeva il campo; Gilippo si lanciò da terra su di esse ma grazie agli Etruschi l’intervento fu respinto e la maggior parte delle navi tratta in salvo. Subito dopo, gli ateniesi riuscirono a stento a salvarsi da un tentativo dei nemici di incendiare il resto delle triremi operato mediante una nave da carico piena di legname resinoso cui era stato appiccato il fuoco e spinta verso il loro campo. Il momento decisivo si avvicina. Emulando Erodoto e Omero, Tucidide fornisce a questo punto un dettagliato catalogo dei popoli e delle città che, a fianco dei due contendenti principali, stavano per affrontarsi nella battaglia che avrebbe determinato l’esito della guerra. I siracusani bloccarono l’imboccatura del Porto Grande, larga un chilometro circa, mettendo di traverso triremi e imbarcazioni di altro tipo, e gli strateghi e i tassiarchi ateniesi decisero in un drammatico consiglio di guerra di tentare il tutto per tutto in un ultimo scontro: ci si avviava su una sorta di battaglia terrestre su navi, in vista della quale si resero necessarie diverse modifiche tecniche e un radicale cambiamento tattico. Sulle triremi agiranno questa volta, insieme agli opliti, arcieri e lanciatori di giavellotto. Nel frattempo, i siracusani reagirono coprendo le navi con pelli su cui i ramponi sarebbero scivolati via senza far presa sul legno. La battaglia, viene raccontata da Tucidide non nel suo svolgimento, bensì attraverso le differenti tipologie di scontro su cui essa diede origine e gli alterni stati d’animo di chi vi assisteva da terra più ancora di chi vi partecipava direttamente – una scelta narrativa che suscita nel lettore un’emozione incancellabile – si estese all’intero porto e vide alla fine la completa vittoria dei siracusani. La leggera superiorità numerica ateniese indusse, tuttavia, Demostene a proporre un ultimo tentativo di forzare il blocco da attuare il mattino successivo. Nicia si lasciò convincere, ma questa volta a rifiutarsi furono gli stessi marinai; non rimaneva che ritirarsi via terra. Pur nel momento della vittoria, il saggio Ermocrate si preoccupava che un esercito delle dimensioni che ancora aveva quello ateniese potesse installarsi in qualche zona della Sicilia e insistette con i magistrati sulla necessità di bloccare tutte le vie di fuga. Poiché gli fu obiettato che i soldati non si sarebbero mossi per via dei festeggiamenti, egli fece ricorso a uno stratagemma: spedì nel campo ateniese suoi amici che, fingendosi informatori di Nicia, consigliarono agli ateniesi di non partire subito, perché le strade erano sorvegliate, ma di aspettare l’indomani. Non sfiorati da alcun sospetto, gli ateniesi si trattennero addirittura anche il giorno successivo e si mossero quando ormai Gilippo e gli altri siracusani avevano presidiato tutti i punti critici lungo le strade che essi prevedibilmente avrebbero percorso. Gli ateniesi, una volta in cammino, provarono più e più volte a penetrare nell’entroterra bloccati di continuo dalle truppe siracusane finchè non si lasciarono attaccare apertamente presso il fiume Assinaro. Nicia si consegnò a Gilippo chiedendo di porre fine alla strage. Tra i sopravvissuti alcuni furono fatti prigionieri da privati che poi li avrebbero venduti, gli altri come prigionieri di stato. Tutti costoro furono portati a Siracusa. Demostene e Nicia furono messi a morte. I rimanenti prigionieri furono gettati nelle latomie, cave di pietra, e lasciati in condizioni deplorevoli per 8 mesi. Gli ateniesi si vendicarono quando, 4 anni dopo, nel corso della guerra ionica, gli equipaggi di 4 navi siracusane catturate verranno spediti ad Atene e rinchiusi nelle cave di pietra del Pireo. 6. La guerra ionica (413-404) Nuovi scenari: la Persia e la crisi dell’impero ateniese (fine 413-inizio 411) Alla notizia della disfatta in Sicilia gli ateniesi reagirono con misure operative non prive di efficacia: un altro segnale di quello spirito di resistenza su cui Tucidide, patriota, si sofferma più volte nella sua opera. Si decise di mettere mano alla ricostruzione di una grande flotta, di fare economia sulle spese interne, di continuare a tenere sotto controllo gli alleati, di fortificare il promontorio del Sunio per proteggere i convogli di navi granarie. Infine – passo rivelatore di una certa sfiducia – fu designata una commissione di anziani, i 10 probuli di cui parlano fonti non tucididee, con il compito di sottoporre a un esame preliminare le misure da adottare. Nel corso dell’inverno 413-412, mentre gli spartani ordinavano alle città della Lega peloponnesiaca di mettere in cantiere altre 100 navi e il re spartano Agide si spostava da Decelea nella Grecia centrale per rastrellare denaro, gli alleati di Atene facevano i primi passi concreti. Le città dell’Eubea prima, quelle di Lesbo subito dopo, si rivolgono direttamente ad Agide. Ma a Sparta si presentarono anche gli inviati di altre due città pronte a defezionare, Chio ed Eritre. Le loro richieste furono spalleggiate da Tissaferne, che da poco era diventato satrapo della Lidia dopo aver posto fine alla rivolta del predecessore Pissutne ed era stato poi investito da una sorta di comando generale dell’area ionica. Incaricato dal re Dario II di esigere dalle città greche d’Asia controllate da Atene i tributi arretrati e di neutralizzare il ribelle Amorge, figlio bastardo di Pissutne che aveva allora la sua base a Caria, Tissaferne puntava a stringere un’alleanza con Sparta, cui prometteva il sostentamento degli equipaggi, come premessa per scalzare il dominio ateniese in Asia minore. Sia Chio che Eritre dovettero affrontare, però, la concorrenza del satrapo della Frigia ellespontica, Farnabazo, che mosso dalle stesse motivazioni di Tissaferne – favorire la rivolta degli alleati di Atene per riscuotere i tributi – con il tramite di due fuoriusciti greci, premeva perché gli spartani dedicassero le loro energie all’Ellesponto. Simili “competizioni intersatrapiche” non erano rare nell’Asia minore achemenide, e comunque i due satrapi, privi com’erano di significative forze militari, non avevano altra scelta che contendersi l’appoggio spartano se volevano ottemperare al mandato loro affidato dal Gran Re. Se in un recente passato le fazioni ostili ad Atene nelle città greche d’Asia avevano più volte chiesto e ottenuto l’aiuto di Pissutne, era questa la prima volta in cui la Persia veniva coinvolta direttamente nel conflitto, ma non la prima volta che una delle due potenze cercava di assicurarsi l’appoggio del Gran Re. Già nel 431 sia Atene che Sparta avevano tentato di mettersi in contatto con Artaserse II. Nel 413 le ragioni di un’alleanza, dal punto di vista spartano, erano sicuramente più forti, visto che solo l’appoggio persiano avrebbe reso economicamente sostenibile l’impegno peloponnesiaco sul fronte marittimo richiesto dalla nuova situazione. Per quanto riguarda la Persia, è del tutto logico che Dario II volesse approfittare della disfatta ateniese in Sicilia per riportare sotto il suo controllo la parte asiatica dell’impero ateniese. Stando all’isolata notizia di Andocide, la Persia aveva poi un’altra motivazione: punire Atene per l’aiuto che essa aveva dato al ribelle Amorge; un episodio, quest’ultimo, a cui forse allude anche Tucidide. La discussione, in una Sparta insolitamente affollata di delegati greci e non greci, fu molto animata, e a far pendere la bilancia nell’immediato a favore di Tassiferne fu l’azione di Alcibiade e dell’eforo spartano Endio, sulla scia dei rapporti di ospitalità che legavano le rispettive famiglie. Gli spartani si allearono, perciò, con le due città ioniche e deliberarono l’invio di una piccola spedizione. La fase del conflitto che ha inizio nell’estate del 412 e si protrarrà fino all’estate del 411, si consuma in una guerra per così dire a bassa intensità. Povera di grandi battaglie, essa è segnata piuttosto dalla necessità per i due contendenti di costruire (Sparta) o ricostruire (Atene) un’adeguata presenza navale. Una prima squadra di navi peloponnesiache si affacciò nel golfo Saronico con destinazione la Ionia. Ma a causa delle esitazioni dei corinzi, che in quel momento celebravano i giochi Istmici e che in questa tattica erano spalleggiati da Agide, Atene ebbe modo di accorgersi di quello che stava succedendo, e reagì allestendo una flotta di 37 navi che bloccò quella nemica a Spireo e le inflisse forti perdite, compresa l’uccisione del comandante Alcamene. L’azione spartana ne rimase momentaneamente paralizzata, e fu solo grazie alle insistenze di Alcibiade che almeno cinque navi compirono la traversata dell’Egeo (con Calcideo al comando e lo stesso Alcibiade). Presentatisi a Chio nel momento in cui il Consiglio della città era riunito e prima che si diffondesse la notizia del blocco di Spireo, essi annunciarono che altre navi erano in arrivo e ottennero in tal modo che questa città ed Eritre, e subito dopo Clazomene, si staccassero da Atene. La notizia della defezione del loro più potente alleato Chio – la cui fedeltà ad Atene non era mai venuta meno – indusse gli ateniesi a mettere mano alla riserva intoccabile di 1000 talenti accantonata dal 431 e a spedire subito nell’Egeo una parte delle navi che bloccavano la flotta peloponnesiaca in Grecia. La piccola squadra che arrivò prima in Ionia si diresse subito verso Teo, una città del continente, ma non riuscì a impedire che anch’essa facesse defezione. La situazione peggiorò per Atene quando Calcideo e Alcibiade, avendo aggiunto delle navi di Chio a quelle di cui già disponevano, indussero alla defezione anche Mileto. Il primo di una serie di trattati di alleanza fu concluso allora fra Tissaferne e Calcideo: da un lato il Gran Re e Sparta e i suoi alleati si impegnavano a condurre in comune la guerra contro Atene e a non stipulare una pace separata, dall’altro Sparta riconosceva il dominio persiano sui territori che il Gran Re e i suoi antenati possedevano di diritto. Subito dopo si staccò anche Lebedo, mentre Efeso si trovava già dalla parte stata caldeggiata da Agide e sabotata per ragioni non del tutto limpide da Alcibiade. Trasillo era subito salpato da Samo con il grosso della flotta ateniese per prevenire Mindaro, ma costretto a una deviazione a Ereso di Lesbo, che nel frattempo aveva fatto defezione, non riuscì a impedire che gli spartani giungessero con un rapido viaggio nella regione degli Stretti. Non appena ne fu informato, egli partì alla volta di Eleunte, dove si ricongiunse alle navi ateniesi di stanza a Sesto, e si preparò alla battaglia, che avvenne cinque giorni dopo. La flotta ateniese, forte di 76 navi, andò a schierarsi lungo la costa del Chersoneso tracico, nel tratto a sud-ovest della città di Sesto che comprendeva il promontorio chiamato Cinossema e nel punto degli Stretti in cui è minore la distanza fra le due rive. Quella peloponnesiaca, forte di 86 unità, era disposta in linea lungo la costa di fronte fra Dardano e Abido. Mindaro sferrò l’attacco al centro dello schieramento ateniese nel momento in cui esso prendeva posizione all’altezza del promontorio, là dove la sporgenza della costa impediva all’ala sinistra degli ateniesi di vedere ciò che avveniva alla loro destra. La mossa di Mindaro, inizialmente riuscì a spingere verso terra le navi ateniesi ma poi, i peloponnesiaci persero l’ordine della loro formazione e Trasibulo, che comandava l’ala destra ateniese, con una rapida manovra di conversione riuscì a mettere in fuga le navi che fronteggiavano il suo settore e in seguito a gettare nel panico e a danneggiare la maggior parte di quelle che erano uscite vittoriose dallo scontro nel centro. Infine, la rotta coinvolse anche l’ala destra peloponnesiaca, dove le navi siracusane avevano già ceduto di fronte a quelle comandate da Trasillo. Una trireme fu mandata subito ad Atene per annunciare la vittoria. Questa fu completata, tre giorni dopo, dalla conquista di Cizico che aveva fatto defezione. Alcibiade, nel frattempo, aveva fatto ritorno a Samo arrogandosi il merito della mancata congiunzione della flotta fenicia con quella peloponnesiaca. Tissaferne, dal canto suo, preoccupato per il rapporto che i peloponnesiaci avevano stretto con Farnabazo, lasciò Aspendo con l’intenzione di raggiungerli nell’Ellesponto per difendersi dalle accuse che essi gli rivolgevano e per denunciare il moltiplicarsi degli atti ostili contro le guarnigioni persiane. La sutura tra la fine della Storia di Tucidide, che si interrompe in questo punto, e l’inizio delle Elleniche di Senofonte non appare perfettamente riuscita: il primo episodio ricordato da Senofonte è la vittoria spartana in una battaglia navale combattuta fra spartani e ateniesi che non sappiamo se collocare nei pressi di Eubea o dell’Ellesponto. In ogni caso, tutte le forze disponibili si concentravano ora nell’area degli Stretti. Mindaro aveva già mandato due uomini in Grecia con l’ordine di richiamare la flotta che si trovava all’Eubea; essa partì subito, ma a quanto sembra fu quasi interamente distrutta da una tempesta. Poco dopo la battaglia di Cinossema – siamo nell’autunno del 411 – arrivò in zona una piccola flotta guidata da Dorieo proveniente da Rodi, dove era stata distaccata da Mindaro per reprimere una rivolta dell’isola. Avvistata da una squadra ateniese che era in vedetta, essa riuscì in un primo tempo a sottrarsi, ma poi fu sospinta verso terra, all’imbocco dell’Ellesponto, dal grosso della flotta ateniese di stanza nella vicina Sesto, che contava 74 navi, ed in suo aiuto accorse da Abido la flotta di Mindaro, forte di 84 navi. La successiva battaglia, lunga e accanita, fu decisa dall’improvvisa comparsa delle 20 navi comandate da Alcibiade, che probabilmente era partito da Samo per inseguire proprio Dorieo. A quel punto le navi peloponnesiache si diressero alla volta di Abido, ma molte furono costrette a toccare terra lontano dalla base, e solo l’intervento delle truppe di Farnabazo in un combattimento ormai diventato terrestre impedì che la sconfitta si trasformasse in una disfatta. Gli ateniesi si impadronirono di un certo numero di navi nemiche e in più recuperarono quelle che avevano perduto a Cinossema. Dopo la battaglia, nel corso dell’inverno 411-410, i peloponnesiaci si preoccuparono di reintegrare le perdite e di procurarsi rinforzi, potendo contare sul denaro fornito da Farnabazo. Quanto agli ateniesi, a Sesto rimase solo una flotta agli ordini di Alcibiade, mentre gli altri generali si mossero in varie direzioni per rastrellare uomini e denaro. Trasillo partì ad Atene per annunciare la vittoria e per richiedere navi e uomini. In risposta, Trasimene subito dopo partì da Atene con 30 navi. Il suo obiettivo immediato era fronteggiare la rivolta dell’Eubea spalleggiata dalla Beozia, ma egli non poté andare oltre qualche azione di saccheggio e proseguì per la sua strada. Dopo aver rastrellato fondi nelle isole Cicladi e deposto il regime oligarchico di Paro, si recò in Macedonia per sostenere il re Archelao nel suo assedio a Pidna e infine raggiunse Trasibulo impegnato anch’egli a raccogliere denaro in Tracia. Alcibiade non rimase sempre a Sesto. Saputo che Tissaferne era giunto nell’Ellesponto, gli fece visita sperando di usarlo a proprio vantaggio. Ma il satrapo, ormai in cattiva luce per gli spartani presso il Gran Re, pensò bene di allontanare da sé ogni sospetto arrestandolo e spedendolo come prigioniero a Sardi. La facilità con cui Alcibiade poi evase di prigione, getta un’ombra sulla reale volontà di Tissaferne di escluderlo dal gioco, e le voci fatte circolare da Alcibiade stesso sulla complicità di Tissaferne per metterlo in difficoltà, dovettero suonare credibili alle orecchie di molti. Da Sardi, Alcibiade si recò a Clazomene, poi a Lesbo, e si trovava nell’isola quando fu raggiunto dall’ordine dei comandanti della flotta ateniese di dirigersi al più presto a Cardia. Qui si era infatti spostata la flotta ateniese di stanza a Sesto per sottrarsi dal pericolo di un attacco improvviso della flotta peloponnesiaca. A Cardia arrivò la notizia che Mindaro e Farnabazo avevano preso d’assalto Cizico dalla terra e dal mare; da qui la decisione di muovere alla volta della Propontide per liberare la città. Gli ateniesi si trasferirono da Cardia a Eleunte; poi, raggiunsero l’isola di Proconneso nei pressi della penisola alla base della quale si trova Cizico. Il mattino dopo, approfittando della fitta pioggia, la flotta si divise in 3 squadre, una delle quali composta da Alcibiade al comando di 40 navi, che indusse alla battaglia la flotta nemica a nordovest della città, facendosi inseguire da essa per un certo tratto. Le altre due squadre, al comando di Teramene e Trasibulo, nel momento in cui Alcibiade invertiva la rotta, sbucarono da dietro un promontorio, che fino ad allora le aveva nascoste alla vista di Mindaro, giusto in tempo per tagliare a quest’ultimo ogni via di ritirata. Molte navi peloponnesiache furono catturate o danneggiate prima che raggiungessero la riva e dopo aver toccato terra, ma con l’intervento delle truppe di Farnabazo a supporto di Mindaro e dei suoi la battaglia si trasformò in un cruento scontro terrestre, deciso dall’intervento dei soldati imbarcati sulle navi di Teramene e Trasibulo aiutati dalle truppe che prima della battaglia avevano preso posizione lungo la costa. Lo scontro ebbe termine con la morte di Mindaro e la rotta delle sue forze. La gravità della sconfitta peloponnesiaca è efficacemente resa nel messaggio che il luogotenente di Mindaro spedì a Sparta: “Navi perdute; Mindaro ucciso; gli uomini hanno fame; non sappiamo che fare”. Grazie a questa vittoria, Atene riacquistò per un certo periodo il quasi completo controllo dello spazio marittimo settentrionale. Ciò consentì il recupero delle città ribelli (Cizico, Perinto) e l’istituzione a Crisopoli di una postazione fortificata al comando di Teramene e Eumaco, che serviva in primis da stazione per la riscossione della decima su tutte le merci che transitavano nel Bosforo e poi da strumento di pressione nei confronti di Calcedone e Bisanzio. A risentirne fu l’approvvigionamento agrario di Atene: non è un caso che in questo stesso anno Agide, vedendo navi mercantili entrare nel Pireo, abbia notato l’inutilità di continuare ad assediare Atene se non si prendeva il controllo delle aree da cui il grano veniva. La portata della vittoria spiega anche perché gli spartani, all’inizio dell’estate del 410, abbiano avanzato una richiesta di pace che prevedeva il congelamento della situazione sul terreno, la partenza delle guarnigioni dai rispettivi territori e lo scambio dei prigionieri. Tuttavia, è comprensibile che Atene abbia respinto l’offerta (su proposta del leader democratico Cleofonte). La conclusione della pace avrebbe sì liberato Atene dalla spina nel fianco rappresentata dall’occupazione di Decelea, ma avrebbe regalato al nemico il controllo almeno parziale degli Stretti, con Bisanzio, Calcedone e Abido ancora in mano spartana, e il possesso di stati di cruciale importanza dell’impero ateniese (Mileto, Efeso, Chio, Rodi). Gli effetti di Cizico si fecero sentire anche sul piano interno. In questi stessi giorni la parentesi oligarchica fu definitivamente chiusa con la fine del regime dei 5000 e la piena restaurazione della democrazia tradizionale; poco dopo fu approvato un decreto che vedeva nemico di Atene chiunque avesse provato a rovesciarla. I pagamenti per la partecipazione al Consiglio e ai tribunali furono ripristinati, e fu introdotta un’indennità giornaliera di due oboli per i più poveri. Infine, a partire dal 409-408, furono ripresi i lavori edilizi sull’Acropoli sospesi dal 415, con il completamento dell’Eretteo e la probabile costruzione della balaustrata che circonda il tempio di Atena NIKE. Intermezzo, nel segno di Alcibiade (estate 410-inizio 407) La ricostruzione delle vicende successive è soggetta a un’incertezza cronologica di fondo dovuta al fatto che nelle Elleniche Senofonte ha annotato in modo esplicito, con una cronologia stagionale di tipo tucidideo, l’inizio di tre differenti anni per registrare eventi che si snodano in un arco di quattro anni, fra la battaglia di Cizico, che ebbe luogo non più tardi del marzo/aprile 410, e la battaglia delle Arginuse, che cade nell’estate del 406. Dove collocare l’anno saltato da Senofonte è materia di accesa discussione da più di tre secoli. In realtà, poiché è quasi certo che la battaglia di Nozio si svolse all’inizio del 406 (gli strateghi della battaglia delle Arginuse sono gli stessi di quelli che furono eletti per la battaglia di Nozio), il problema si restringe agli eventi fra il 410 e il 407. Proprio perché salva la corretta datazione di Nozio (che la cronologia “alta” pone all’inizio del 407) e non lascia trascorrere un illogico intervallo di tempo fra la comparsa di Ciro in Asia Minore e il suo arrivo a Sardi, la cronologia “bassa”, secondo la quale la formula “nell’anno successivo” Senofonte intenderebbe quello che ha inizio nella primavera del 409 (nel 409 cadrebbe dunque la spedizione di Trasillo in Ionia), ha preso decisamente il sopravvento negli studi più recenti e sarà qui seguita. Benché neanch’essa sia scevra di difficoltà è quella che presenta le controindicazioni meno gravi e ha il merito di collocare la lacuna cronologica del resoconto senofonteo il più vicino possibile al punto critico della sutura fra l’opera di Tucidide e le Elleniche. Negli anni 410-408 la Ionia e l’Ellesponto non furono gli unici teatri di guerra. Probabilmente l’inverno 410-409 la colonia spartana di Eraclea Trachinia subì un serio rovescio ad opera dei vicini Etei, con la perdita di 700 coloni e del governatore della città. Ma lo schieramento peloponnesiaco registrò anche due successi: 1. Il più importante fu il recupero di Pilo, tutt’ora occupata dai Messeni, a opera di una forza mista spartana e siceliota; 2. Nel 409-408 i megaresi rientrarono in possesso del porto di Nisea di cui non avevano più il controllo dal 424. Questi due episodi, pur privi di conseguenze in un conflitto il cui centro di gravità si era ormai spostato nell’Egeo, sono tuttavia indicativi di un complessivo ripiegamento di Atene dalle posizioni di forza che era riuscita a città vicina al mondo persiano da tutti i punti di vista, trasformandola in una base navale, dotata di suoi arsenali. L’intesa personale fra Ciro e Lisandro suggellava il nuovo rapporto che si era venuto a creare tra Sparta e la Persia. Il principe diede garanzia a Lisandro che avrebbe impiegato le sue risorse personali per mantenere qualunque numero di navi gli spartani avessero voluto mettere in mare. Questo impegno non modificava la situazione di diritto prevista dal terzo trattato persiano-spartano nel 411 ma rispecchiava la precisa scelta politica da parte del Gran Re di offrire il più completo sostegno a Sparta. Invano Atene tentò di impedire il solido asse spartano-persiano, rivolgendosi - tramite Alcibiade - a Tissaferne perché questo convincesse Ciro a non schierarsi con Sparta: il principe si rifiutò perfino di ricevere gli inviati di Atene. Per di più fu lo stesso Alcibiade a offrire su un piatto d’argento l’occasione a Lisandro per entrare in azione, e con un immediato successo. Nella tarda estate del 407 l’ateniese aveva lasciato la sua città con una cospicua forza militare con l’evidente obiettivo, ora che la situazione nell’Ellesponto era stata normalizzata, di procedere a quel recupero della Ionia che non era riuscito a Trasillo. Dopo aver lasciato una parte della flotta al comando di Conone nell’isola di Andro, che aveva fatto defezione, Alcibiade arrivò a Samo giusto in tempo per prendere atto dell’accordo tra Lisandro e Ciro e per giocarsi le ultime carte con Tissaferne, con il successo che sappiamo. La flotta navale di Alcibiade si stava assottigliando così come le risorse, a Ciro sarebbe bastato assicurare la paga ai marinai della flotta ateniese per portarli dalla sua parte. Così, Alcibiade volle tentare la battaglia a Efeso, ma dal momento che Lisandro si guardò bene dall’accettare la sfida, si trasferì poco più a nord, a Nozio, porto di Colofone. A questo punto, all’inizio del 406, Alcibiade commise una leggerezza che decise del suo destino. Affidata la flotta alle cure del timoniere Antioco con l’ordine tassativo di non assumere alcuna iniziativa, Alcibiade si recò a Clazomene, una delle poche città rimaste fedeli ad Atene e in quel momento bisognosa di aiuto, e a Focea, allora sotto assedio ad opera di Trasibulo. Evidentemente egli intendeva approfittare dell’inazione di Lisandro per portare avanti la riconquista della Ionia. Ciò che, in assenza di Alcibiade, avvenne tra Efeso e Nozio si può ricostruire attraverso il pur frammentario resoconto he leggiamo nelle Elleniche di Ossirinco, più attendibile degli altri che ci sono pervenuti. Antioco fu colpevole non di aver sfidato Lisandro, ma solo di aver abboccato all’esca abilmente confezionata dal navarco spartano che consisteva nel mandare ogni giorno 3 navi in avanscoperta: Antioco cercò di sfruttare a suo vantaggio tale manovra preparando una sorta di imboscata con le sue 10 navi migliori. Ma la piccola squadra spartana assunse improvvisamente l’iniziativa, affondò la nave dove si trovava Antioco, che perse la vita, e inseguì i rimanenti con il resto della flotta nel frattempo uscita dal porto di Efeso; tutte le triremi abbandonarono allora il porto di Nozio per accorrere in difesa di quelle inseguite. Invano Alcibiade, rientrato da Focea, tentò di provocare Lisandro a una nuova battaglia. Non si trattava di una sconfitta rovinosa: se si tiene conto della flotta rimasta ad Andro e di quella di Trasibulo. Ma aggiunta alla mancata presa di Andro e all’insuccesso che tenne subito dietro alla battaglia, con l’esercito ateniese costretto a ripiegare sulle navi dopo aver devastato il territorio di Cuma alleata di Atene, essa ridiede fiato ai nemici di Alcibiade, per i quali fu facile rispolverare le accuse sul suo conto. Ma a nuocergli in particolare misura fu la convinzione diffusa ad Atene che non c’era impresa che Alcibiade non sarebbe riuscito a realizzare se solo l’avesse voluto: pertanto nessun insuccesso gli poteva essere perdonato. Un rapporto viscerale legava Alcibiade ad Atene: come avrebbe detto Dioniso nelle Rane di Aristofane poco tempo dopo, la città “lo brama e lo detesta, e vuole averlo”. La proposta di rimuoverlo dalla carica fu approvata senza esitazione e Alcibiade si ritirò in Tracia, nei castelli di cui era entrato in possesso durante la permanenza nell’Ellesponto. Insieme a lui furono travolti i suoi amici Teramene e Trasibulo che non furono rieletti strateghi. Sul momento il comando della flotta passò a Conone e subito partì per una serie di razzie finalizzate a procurare risorse. L’amaro trionfo delle Arginuse (estate 406) Nella primavera del 406 anche Lisandro uscì temporaneamente di scena sostituito da Callicratida, molto diverso da lui per carattere e per visione politica. Osteggiato dagli “amici” di Lisandro, che lamentavano una sua presunta scarsa abilità ed esperienza, messo in difficoltà dal suo predecessore, che restituì a Ciro ciò che rimaneva del denaro elargito dal principe e dallo stesso Ciro, che rifiutò di mettere a sua disposizione altri fondi, Callicratida si fece invece apprezzare per il comportamento franco e scevro di ogni arroganza che adottò nei confronti degli alleati. Grazie a lui riprese insomma vigore la campagna propagandistica nei confronti delle città greche in nome dell’antico slogan della “liberazione dei Greci”. Ma Callicratida si rivelò anche un buon comandante. Abbandonata Efeso come quartier generale, egli tornò a far base a Mileto, e grazie alle risorse finanziarie e alle navi fornite da diverse città alleate, portò la flotta al doppio di quella che l’ateniese Conone stava organizzando a Samo. Costrinse la guarnigione ateniese a evacuare la piazzaforte di Delfinio infine si diresse a Metimna di Lesbo, fedele alleata di Atene, che riuscì a prendere d’assalto vendendo poi schiavi gli ateniesi della guarnigione. La minaccia che ne derivava per Mitilene, dove il navarco si diresse con la flotta dopo avervi spedito un distaccamento di truppe via terra, costrinse Conone, mossosi inizialmente per difendere Metimna e poi riparato nel vicino arcipelago di Ecatonnesi, a convergere verso Mitilene. La battaglia che si svolse nelle acque di questa città è uno degli episodi militari più problematici della guerra del Peloponneso. Il resoconto di Senofonte diverge in molti punti dalla descrizione di Diodoro, in particolare per ciò che riguarda la finalità tattica delle manovre di Conone e i furiosi combattimenti che avrebbero avuto come teatro i due porti a nord e a sud nei pressi dell’Istmo nei pressi del quale sorge Mitilene, allora collegati da un canale. L’esito fu comunque chiaro: nello scontro che avvenne nelle acque antistanti la città gli spartani si impadronirono di 30 navi ateniesi costrette a toccare terra ma senza gli equipaggi, che si salvarono fuggendo. A stento, grazie a uno stratagemma, due triremi veloci elusero la vigilanza del nemico, e una di esse riuscì a portare la notizia ad Atene. Diomedonte arrivò in soccorso di Conone con dodici navi, ma Callicratida piombò su di lui mentre era agli ormeggi nei pressi del canale e ne catturò dieci. In una situazione che lasciava poche vie d’uscita ad Atene fu compiuto uno sforzo sovrumano. In un solo mese furono approntate 110 triremi. Esse furono equipaggiate reclutando tutti gli uomini disponibili compresi i meteci e gli schiavi, ai quali fu promessa la cittadinanza. Ai costi si fece fronte fondendo le statue auree delle Nikai e altre dediche votive fino a un valore di 2000 talenti d’argento. Con quelle di Samo e degli alleati Atene reclutò una flotta molto grande, comandata da ben 8 strateghi, che prese posizione nei pressi delle isole Arginuse. Callicratida, lasciate 50 navi a Mitilene agli ordini di Eteonico per continuare il blocco, andò incontro a loro convinto di poter compensare l’inferiorità numerica con la migliore qualità delle navi e degli equipaggi. Il preciso andamento della battaglia che ne seguì, definida da Diodoro “la più grande battaglia navale della storia di greci contro greci” non ci è noto perché le fonti non forniscono i necessari dettagli. Senofonte si limita a dire che durò a lungo e che risultò decisiva la morte del navarco spartano seguita dalla rotta prima dell’ala sinistra – dove stavano beoti ed eubei – poi dell’ala destra – dove stavano i peloponnesiaci con gli spartani di Callicratida. La splendida vittoria colta da Atene, nella tarda estate del 406, su un avversario ottimamente addestrato, avrebbe indirizzato le sorti del conflitto su un binario favorevole ad Atene se l’improvviso peggioramento del mare non avesse costretto la flotta ateniese a riparare alle Arginuse, da dove si sarebbe mossa solo per unirsi alle navi di Conone e per rientrare infine tutti a Samo. Pertanto essa non poté completare l’opera attaccando le 50 navi spartane rimaste a Mitilene, che ebbero così il tempo di riparare a Chio e a Pirra di Lesbo, né procedere al salvataggio dei sopravvissuti e al recupero dei morti. Questa seconda mancanza, che suscitò la collera del popolo, fu all’origine di uno degli episodi più drammatici della storia di Atene. Gli strateghi accusarono per lettera i due trierarchi Teramene e Trasibulo, fra i primi a rientrare ad Atene, di non aver obbedito all’ordine che era stato loro dato di procedere al recupero, e i due accusarono a loro volta gli strateghi. Costoro furono convocati ad Atene, e se due di loro si sottrassero con la fuga, gli altri sei furono condannati a morte e giustiziati. Lisandro senza avversari: Egospotami e la vittoria spartana (fine 406- primavera 404) Dato che le Arginuse furono una grande vittoria ateniese, Sparta non tardò ad inviare una proposta di pace con l’aggiunta dell’evacuazione di Decelea. La risposta ateniese fu negativa come nel 410, su istigazione di Cleofonte. Tuttavia, la moltiplicazione di offerte di pace spartane, e di altrettanti rifiuti da parte di Cleofonte, suscita il sospetto che nel clima politico surriscaldato dell’Atene di fine secolo qualcuno abbia cercato di scaricare su un bersaglio molto facile la responsabilità primaria della rovina finale di Atene. Sparta e i suoi alleati dovettero subire il trauma della sconfitta delle Arginuse ben più rapidamente di quello di Cizico. Se nel 410 la flotta peloponnesiaca era andata completamente perduta e il sostegno persiano appariva ancora precario, ora lo schieramento peloponnesiaco poteva ancora contare su un discreto numero di navi e soprattutto sul contributo concesso a suo tempo da Ciro a Lisandro. La reazione fu immediata ed efficace, forse favorita dalle azioni di saccheggio e razzia che Atene stava conducendo in territorio persiano. Nel corso dell’inverno successivo Chio e delle altre alleate di Sparta si riunirono a Efeso e decisero di mandare un’ambasceria a Sparta, alla quale si aggiunsero legati di Ciro, per chiedere agli spartani che il comando della flotta fosse ancora affidato a Lisandro. La richiesta fu accolta, anche se Lisandro partì come vice del nuovo navarco Araco. Il suo rientro nella scena del conflitto (Efeso, 405) ebbe conseguenze di grande portata. Ciro mise a disposizione di Lisandro, come sempre, un grande patrimonio. A Mileto egli collaborò per spazzare via il regime massacrando centinaia di oppositori; in Caria attaccò e rase al suolo Iaso; nel golfo Ceramico si impadronì dell’isola di Cedree, alleata di Atene; incontrò il re Agide in Attica; fece incursioni a Egina e Salamina. Verso la fine dell’estate del 405 giunse alla sua ultima meta: l’Ellesponto. L’obiettivo era di recuperare altre città e impedire che le navi cariche di grano arrivassero ad Atene. La flotta ateniese, perciò, gli andò dietro arrivando fino a Sesto per poi posizionarsi a Egospotami (“fiumi della capra”). Una scelta forse obbligata, se non si voleva rinunciare a sorvegliare le navi di Lisandro, ma sicuramente infelice perché costringeva una grande massa di uomini a percorrere giornalmente lunghe distanze per il cibo. Per quattro giorni di fila la flotta ateniese si