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Riassunto "Letteratura italiana da Tasso a fine Ottocento" - Alfano, Italia, Sintesi del corso di Letteratura Italiana

Riassunto del manuale "Letteratura italiana da Tasso a fine Ottocento, manuale per studi universitri"

Tipologia: Sintesi del corso

2018/2019
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Caricato il 20/03/2019

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Scarica Riassunto "Letteratura italiana da Tasso a fine Ottocento" - Alfano, Italia e più Sintesi del corso in PDF di Letteratura Italiana solo su Docsity! Riassunto Letteratura Italiana ■ La fine del Rinascimento e il Barocco La stagione conclusiva del Rinascimento è un’epoca controversa, di difficile interpretazione; la quale risente dei dettami della Controriforma e a un periodo di crisi generale. Si registra in questi decenni una varietà di percorsi eccezionali per vivacità e sperimentazione filosofica e letteraria (Bruno, Tasso, Campanella) alla sottolineatura di un clima culturale non del tutto segnato dalla politica della Chiesa di Roma, anche se si fa strada una nuova visione dell’uomo che si colloca nel pensiero moderno. La figura di Tasso e le sue opere hanno una funzione esemplare e chiarificatrice, per l’eccezionale capacità del poeta di interpretare le tensioni del suo tempo; la Liberata rappresenta ancora a pieno titolo un capolavoro del Rinascimento. Ma allo stesso tempo, nel secondo periodo della sua vita, raccontare la crisi delle corti italiane, ma in particolare la crisi della poesia che si afferma come “dover essere”. Allo stesso tempo la figura di Marino, attraverso il proprio stile, è in grado di contraddistinguere un’epoca intera, ovvero quella del primo Seicento; questo è reso possibile da una bravura poetica ma al tempo stesso dall’aggressivo temperamento nel muovere le proprie polemiche. Egli accostando la produzione degli idilli e i testi burleschi e osceni riuscirà con la pubblicazione dell’opera L’Adone ad essere riconosciuto come il poema simbolo del Barocco italiano; utilizzando un modello di una poesia a base mitologica che si stacca in modo definitivo dal modello tassiano dall’epica classica e approda alla formula di un “poema di pace” che intende allontanare la stagione di guerre, civili ed europee. I. Torquato Tasso Il secondo Cinquecento è un periodo caratterizzato da una crisi percepita con crescente urgenza, un momento attraversato da inquietudini e incertezze rispetto i paradigmi culturali stabiliti nei primi decenni del secolo. Tutta la sua produzione letteraria è caratterizzata da una strenua difesa del valore della parola letteraria nel più ampio sistema di saperi; centralità dell’esperienza letteraria come momento etico e formativo di primaria importanza per l’uomo. Nella sua biografia si riscontrano due fasi: una prima fase nella quale Tasso pensa a una letteratura che attraverso il velo seducente della finzione coinvolga ed educhi i lettori; e una seconda in cui persegue con lucidità l’obbiettivo di una poesia eloquente, di una letteratura che ambisce farsi espressione della verità filosofica. Tasso nasce a Sorrento nel 1544 da Bernardo noto poeta e cortigiano di professione, la sua giovinezza la trascorrerà seguendo il padre nei suoi viaggi nelle diverse corti italiane; saranno questi gli anni in cui avrà modo di dedicarsi allo studio del pensiero di Aristotele. La prima opera pubblicata sarà Rinaldo (1562, Venezia), opera incentrata sulla gioventù dell’eroe, personaggio caro alla tradizione cavalleresca e personaggio presente nelle opere del Boiardo e di Ariosto. Tasso sceglie di scrivere un prequel, un racconto del periodo giovanile del cavaliere, una sorta di romanzo di formazione che si distacca dallo schema classico del romanzo cavalleresco. Da un lato quindi Tasso dichiara una presa di distanza netta dalla narrativa di Ariosto e dei suoi imitatori, dall’altra manifesta una prudente adesione a un canone selezionato di modelli antichi, in nome della rivendicazione del diletto. Egli vuole trovare un compromesso tra le norme aristoteliche e le modalità narrative tipiche del romanzo moderno al fine di prediligere nel suo romanzo alcuni elementi dell’epica classica come il racconto di un’unica vicenda narrativa. Discorsi dell’arte poetica (1562-64): al centro del trattato è ancora la definizione delle regole del nuovo poema epico-cavalleresco, la riflessione tassiana ancora una volta si concentra sul difficile tentativo di mediare le forme assunte dal poema moderno, in particolare del Furioso, e le regole della Poetica di Aristotele. Il principio che deve guidare la scelta della materia è il “Verosimile”, il poeta deve trattare un argomento vero, storicamente fondato, ma lontano dalla memoria dei lettori, così da consentirgli la licenza di inserire elementi fantastici. Centrale però è l’esperienza di fede del poeta che lo porterà a censurare tutto il meraviglioso tipico dei poemi moderni, la soluzione che propone è di agganciare il meraviglioso al principio della religione cristiana, offrendo così ospitalità nel romanzo ai miracoli e prodigi considerati credibili e reali nella storia del cristianesimo. Tasso adotta la formula della “unità mista”, cioè di un racconto fortemente centrato su una sola storia, ma che nell’insieme accolga una serie più articolata di altri episodi, come parti necessari di un sistema narrativo coerente, nel quale tutti gli elementi concorrono in modo solidale a dare unità al racconto. Questa ideale molteplicità nell’unità viene espressa da Tasso con l’immagine del microcosmo o del “piccolo mondo”. Lo stile più adeguato a un simile poema è quello “magnifico”, con il quale il poeta si prefigge lo scopo, rifuggendo da forme comiche e basse, di coinvolgere il lettore nello spettacolo emotivo e passionale narrato. Tasso immagina che lo stile epico debba in qualche modo assorbire al suo interno latitudini retoriche e stilistiche molto lontane tra loro, da quelle proprie del linguaggio lirico sino all’asperità del linguaggio grave e tragico. Concluso il periodo della prima formazione nel 1565 Tasso entra, grazie all’intercessione del padre, presso la corte degli Estensi a Ferrara; la corte diviene, specie nel primo periodo, quando Tasso si muove con grande libertà in un clima culturalmente vivace. Tale ambiente porterà il poeta, nel secondo periodo, a una vita tormentata fondata su ossessioni e crescente ostilità del mondo. Gerusalemme liberata: La scrittura della Gerusalemme impegna Tasso per un periodo davvero lungo: le prime notizie risalgono al 1559-60 quando il giovane poeta era giunto a Venezia in cui comporrà un primo abbozzo; ma solo nel 1575 sappiamo che il poema era sostanzialmente compiuto e aveva raggiunto una prima forma stabile, in previsione di una futura pubblicazione, si sottopone la “revisione romana”. Sarà quando Tasso verrà rinchiuso presso l’ospedale di Sant’Anna che il poema, non più nelle sue mani, verrà stampato da stampatori amici di Tasso senza il suo controllo diretto. Il testo racconta della prima Crociata (1095-1099) guidata da Goffredo di Buglione, Tasso decide di porre al centro del poema solo le ultime fasi della crociata, da quando l’esercito cristiano arriva in prossimità di Gerusalemme fino alla sua conquista definitiva. Il soggetto del poema è la guerra tra bene e male , quasi con una struttura ad anelli concentrici su tre livelli: tra gli eserciti cristiani e mussulmani, tra Dio e le forze del male, e tra Cielo e Inferno. 1 Figura fondamentale nella storia del pensiero scientifico, responsabile di una svolta epistemologica che segna la nascita dell’età moderna, Galileo è autore che caratterizza in modo profondo anche la storia letteraria del suo tempo. Egli si ritagliò una posizione autonoma, ben distinta dagli sperimentatori che si muovono all’ombra del Marino nei primi decenni del Seicento. Le sue opere si collocano in una linea di deciso rinnovamento delle pratiche letterarie: la formula del dialogo, ripresa da nobili precedenti classici (Platone, Cicerone) e resa efficacemente contemporanea, e soprattutto la scelta del volgare, segnano il punto più alto della prosa scientifica italiana. Galileo nasce a Pisa nel 1564, ed è dunque per cronologia e per formazione ancora un uomo del Cinquecento, dopo la fallimentare carriera a medicina si collocano i primi contatti con la scienza di impostazione aristotelica, che rappresenterà il costante orizzonte di confronto della sua riflessione. Nel 1592 si trasferisce a Padova, presso la cattedra di matematica: inizia così una stagione ricchissima di indagini ed esperimenti; avvertendo sempre più i limiti del sistema aristotelico-copernicano nella spiegazione dei moti e della natura dei corpi celesti. Lo sguardo verso il cielo attraverso l’uso del cannocchiale porterà Galileo a raccogliere tutte le osservazioni in un libretto Sidereus nuncius, scegliendo di impiegare la lingua della comunicazione scientifica internazionale, Galileo adotta un latino semplice nel linguaggio e nella sintassi. A partire dal 1610 la fama di Galileo ha ormai raggiunto le corti di mezza Europa, e lo scienziato è convinto di poter giocare proprio a Roma la partita più importante; cercare di convincere anche le gerarchie pontificie della necessità di rivedere alcuni degli assiomi del sistema aristotelico-tolemaico. In particolare, Galileo cercherà di affrontare il rapporto conflittuale tra scienza e fede cercando di trovare una conciliazione, in quest’ottica si colgono le Lettere copernicane; perno fondamentale dell’argomentazione è la considerazione della Natura come diretta emanazione del magistero divino, di contro la natura metaforica delle Sacre Scritture. Galileo propone dunque di tenere ferma la necessità mostrata dai fenomeni naturali e procedere a una migliore interpretazione delle Sacre Scritture, interrogando nuovamente la loro veste metaforica. Notando come le Sacre Scritture si concentrano su ciò che pertiene direttamente alla salvezza spirituale degli uomini, mentre Dio ha lasciato agli uomini il cogliere le verità ricavabili dalla Natura attraverso i sensi. Questo ultimo pensiero rivela la posizione fiduciosa assunta da Galileo rispetto alla conoscenza umana, alla possibilità degli uomini di attingere alla verità delle cose. Proprio il confronto scienza e fede procura delle reazioni inevitabili da parte delle gerarchie ecclesiastiche, sarà promulgato il “salutifero editto”, con il quale si sancisce la condanna della teoria di Copernico che prevede il movimento della Terra attorno al Sole, proprio in quanto contrastante con la dottrina proposta dalla Scritture. Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo (1632): presenta dunque un confronto tra i due sistemi di Tolomeo e di Copernico, i protagonisti del dialogo sono tre: Sagredo e Salviati (allievi di Galileo) e Simplicio (filosofo peripatetico). I dialoghi articolati i quattro giornate si svolgono a Venezia, e le dinamiche vedono le argomentazioni di Salviati opporsi a quelle di Simplicio, le prime a sostegno del sistema copernicano, le seconde a sostegno del sistema tolemaico. Lo sviluppo degli argomenti all’interno delle giornate prevede numerose digressioni, secondo quel procedimento erratico tipico del dialogo e che consente a Galileo di recuperare all’interno della sua opera scorci delle sue scoperte più antiche. Il principio della vita viene considerato preferibile all’immutabilità statica, a una natura sempre uguale a sé stessa, in nome di una concezione dinamica degli uomini che sovverte uno dei cardini del sistema aristotelico-tolemaico. Sagredo, Salviati e Simplicio danno vita a una sorta di commedia di materia scientifica nella quale i singoli fenomeni vengono letti sia nella prospettiva tolemaica, sia nella prospettiva copernicana. Spesso bersaglio di ironia si schiera la figura di Simplicio, impegnato in dichiarazioni cariche di superbia a favore del sistema tolemaico: più che un personaggio reale, un prototipo di dogmatismo e presunzione. Il disegno dell’opera culmina nella quarta giornata, ove il moto delle maree intende offrire la dimostrazione definitiva del movimento terrestre. E tuttavia, anche al netto del suo valore scientifico, in assoluto o in rapporto ai tempi, il Dialogo rimane un’opera straordinaria sul piano scientifico ed insieme eccezionale sul piano letterario; la precisione e la chiarezza della prosa e la conquista di uno stile come diretta espressione di un ragionamento rappresentano altri aspetti che fanno dell’opera uno dei capolavori del primo Seicento. Dopo la stampa del Dialogo Galileo si trova a dover affrontare un’improvvisa e forse inattesa reazione da Roma: è lo stesso Urbano VIII a scagliarsi contro l’opera; per ordine del pontefice viene istituita una commissione d’inchiesta sul libro e sull’autore, che viene invitato a presentarsi a Roma per sottoporsi a un interrogatorio da parte dell’Inquisizione. Il processo inizia il 12 aprile e arriva alla sentenza di condanna il 22 giugno 1633: come colpevole di eresia, Galileo è costretto all’abiura pubblica dei propri scritti. ■ L’Arcadia, l’Illuminismo e la stagione delle riforme La stagione delle riforme è il ritorno a un’esperienza fondata sulle regole del classicismo che caratterizzano il Settecento si avviano già alla fine del Seicento, quando un gruppo di letterati si riunisce per fondare l’Accademia dell’Arcadia. La reazione alla stagione barocca, identificata nel modello mariniano, è in effetti una delle ragioni all’origine dell’accademia romana; accanto si colloca la necessità di individuare e difendere una tradizione letteraria italiana di valore, rispondendo alle critiche che arrivavano dalla cultura francese. La risposta al Barocco si aggancia dunque a una rivendicazione della bellezza della volgar poesia. Le prime poesie degli arcadii mostrano un’attenzione estrema all’aspetto formale, la ricerca di una eleganza ottenuta attraverso la selezione di un linguaggio misurato e la costruzione-descrizione di immagini raffinate; a partire dai primi decenni del Settecento, si definisce una poesia guidata da una idea misurata in cui si preferisce un ritorno al modello di Petrarca, rispetto che sperimentazioni. Il centro più dinamico e più aperto a una dimensione europea è Milano, la quale vive il passaggio dalla dominazione spagnola a quella austriaca che le permise di aprirsi al dibattito internazionale, e vede il nascere intorno alla metà del secolo di una serie di accademie come l’Accademia dei Pugni. I. Arcadia: Nel contesto del razionalismo europeo e della sua influenza sulla teoria e la pratica letterarie in Italia si creano le condizioni per la fondazione di un soggetto che, raccogliendo i frutti delle iniziative di fine Seicento, è l’adunanza degli Arcadi istituita a Roma nel 1690. Il suo periodo di maggior successo e autorevolezza coincide con la guida di Giovan Mario Crescimbeni, il quale promosse la riflessione sulla specificità della tradizione letteraria italiana. Il ripristino del “buon gusto” infatti implica una rilettura critica del passato e pratiche proposte di riforma letteraria, grazie alle quali di cerca di dare al Settecento una letteratura corrispondente alle sue esigenze. 1 La storia dell’Accademia è fatta di contrasti e fratture: tanto da portare allo scisma del 1771, quella fra la concezione della letteratura come fatto retorico-sociale propria di Crescimbeni, e quella filosofica-civile di Gian Vincenzo Gravina. Il gusto tipicamente arcadico si fondava sulla regolarità formale, la chiarezza e la connessione delle idee, l’evidenza nella descrizione di oggetti, sensazioni e passioni. Emblema dell’Accademia è il flauto a sette canne di Pan cinto da rami d’alloro e pino. La produzione arcadica va verso forme poetiche semplici e contenuti facili, allineando la produzione non tanto agli interessi degli eruditi quanto a quelli, più larghi, della società e dei salotti contemporanei. L’Arcadia diviene così fondamentale infrastruttura culturale, mettendo in comunicazione i letterati d’Italia e d’Europa, sollecitando la formazione di un gusto unitario e unificando gli sforzi di riforma letteraria. Crescimbeni: Nella sua ottica l’Arcadia è il punto d’arrivo dal quale rileggere tutta la storia della poesia italiana: ripercorrere il passato vale quindi a celebrare il presente e dargli autorità (Istoria della volgar poesia, 1698). Egli osserva come il criterio per l’eccellenza poetica consista nell’equilibrio fra la “bellezza esterna” e la “bellezza interna” della poesia. II. Pietro Metastasio Riformatore dell’irriformabile dramma per musica, poeta sensibile degli affetti e del loro controllo, precettore d’élite amato dal popolo. Egli si dedica al teatro per musica: opta per un dramma logocentrico ed antropocentrico; la poesia è guida di tutte le arti che concorrono alla realizzazione dello spettacolo. Centro del dramma metastasiano è poi la vita interiore dell’uomo, analizzata nelle passioni, soprattutto ma non solo amorose, di personaggi grandi ed anime belle: la loro forza tumultuosa fa dell’uomo un essere instabile, un campo di forze contrastanti che solo grazie alla ragione può indirizzare positivamente la propria energia vitale. Egli sceglie una drammaturgia della felicità, sia per il diletto che procura, sia per l’utile che propone mettendo in scena modelli postivi: il teatro musicale diviene un luogo d’educazione. Egli riceve una formazione filosofica-politica all’insegna del razionalismo, in particolare a Cartesio, basilare per l’analisi dell’interiorità e la costruzione dei futuri personaggi e drammi, e a un’idea di monarchia come custodia della pace sociale contro gli egoismi dei singoli. Il quinquennio a Napoli, dal 1707 capitale del Viceregno asburgico, sarà decisivo; impegnatosi come avvocato, si dedica però alla poesia stringendo relazioni con la nobiltà filoasburgica. Queste occasioni teatrali destinate a spettacoli privai per un pubblico aristocratico portano Metastasio sostanzialmente fuori dall’ortodossia arcadica. Sottolineando la primazia non solo della parola ma della necessità di coerenza drammatica rispetto alla musica e alle altre arti che contribuiscono a realizzare lo spettacolo drammaturgico. Didone abbandonata (1724): il dramma è costruito tutto sulla volitiva e impulsiva figura di Didone, dove la sua affermazione di sé è contrapposta alla debolezza dell’irresoluto Enea. La stagione del 1750-1760 è anche quella dei Rusteghi, un capolavoro scritto questa volta in dialetto, che narra dell’opposizione tra quattro mariti “rusteghi”, chiusi in una morale rigida, e le mogli che, nella varietà dei caratteri, offrono il modello di una visione più aperta e intelligente della vita e delle convenzioni in società. Nel 1761 Goldoni progetta una intensa trilogia: Le smanie per la villeggiatura, Le avventure della villeggiatura, Il ritorno dalla villeggiatura. Egli propone un quadro complesso sulla “mania” della villeggiatura, sintomo di un bisogno di sfoggio con cui la borghesia perde la sua natura tutta concreta ed eredita piuttosto le vane abitudini della classe nobiliare; la disillusione goldoniana sembra sospendersi solo davanti alla disincantata prospettiva dei servi, che incarnano una visione dal basso carica di verità. Goldoni approda a Parigi nel 1762 e si trova d’improvviso calato in un contesto assai diverso rispetto al mondo veneziano. Il cammino della riforma portato avanti da Goldoni in Italia deve dunque essere in parte accantonato, in nome di un adattamento a un sistema culturale diverso. Durante questo suo soggiorno avrà modo di incontrare i principali intellettuali francesi (Diderot, Rousseau, Voltaire), allo stesso modo inizierà una serie di spostamenti tra Parigi e Versailles dove svolge l’incarico di insegnante di italiano presso la famiglia reale. Gli ultimi mesi di Goldoni sono turbati dai rivoli dello sconvolgimento rivoluzionario, nel giugno del 1792 la sua pensione reale viene revocata, provvedimento che lo riduce in condizioni di effettiva miseria; morirà a Parigi nel 1793. V. Giuseppe Parini La traiettoria poetica e culturale di Parini occupa l’intera metà del Settecento milanese: formazione arcadica, apertura all’Illuminismo, gusto neoclassico. La sua estrazione provinciale, povera e plebea è all’origine del particolare punto di vista da cui egli osserva la società e gli uomini, e ne immagina la riforma. La sua percezione della strutturale ingiustizia della società, dell’immortalità dei privilegi e delle ricchezze di una aristocrazia neghittosa e corrotta, vantaggi economico-sociali ingiustificabili. D’altra parte, l’orgogliosa consapevolezza d’essere poeta, di far parte di un’aristocrazia spirituale, lo rende consciamente diverso dai cenciosi plebei per nascita e per spirito. Sensibilità per una letteratura che, da un lato, con le armi della satira e dell’ammonimento inviti ed educhi a una riforma razionale e morale dell’uomo e della società, dall’altro, tramite la lode del merito, l’adesione alla verità e la proposta di una bellezza incontaminata, celebri il vero oro e la vera nobiltà dell’esistenza. Del Parini poeta emerge da un lato l’alta coscienza di sé, della propria poesia e il presentarsi e sentirsi separato dal volgo, dall’altro la propria immagine di poeta plebeo e povero e quindi libero; la libertà si esprime nella violenza della denuncia. Dialogo sopra la nobiltà (1757): Parini sottopone a critica l’insensatezza del vanto di una nobiltà di sangue disgiunta da una personale nobiltà di spirito; inscena il dialogo fra due cadaveri, di un poeta e di un nobile, accidentalmente finiti accanto, nonostante la diversità dei rispettivi funerali e sepolture. Il nobile reclama il suo diritto di nascita a stare discosto dal plebeo mentre invece il poeta gli rivela la sua falsità dei suoi convincimenti. 1 La letteratura è chiamata a recuperare la propria dignità e a usare ogni mezzo, anche la satira, per mostrare la verità, indirizzare alla virtù e mettere in atto la sua missione educativa. Discorso sopra la poesia (1761): La componente didattica della letteratura è teorizzata nel testo in cui Parini rivisita l’oraziana mistione di utile e dulce alla luce del coevo riformismo illuminista e d’un estetica sensista. La poesia produce un vero diletto, quanto più il poeta riuscirà a rendere sensibilmente percepibile di ciò che imita, tanto più riuscirà ad essere persuasivo. La vita rustica (1757-58): è la prima ode, il tema, tipicamente arcadico, della libertà agreste, è usato per affermare la superiorità morale del produttivo e pacifico ideale fisiocratico, per presentare una nuova figura di poeta libero da ricatti del potere e del denaro e ad annunciare una nuova poesia. Parini non loda gli ozi campestri, ma l’industriosa intelligenza del contadino capace di migliorare le tecniche agricole e di rendere più produttivi i campi, creando quindi valore e ricchezze. Il ritorno in patria e l’abbandono della città segnano quindi il distacco dai costumi contemporanei e la restituzione a una natura che è ragionevolezza, fonte di vero progresso economico, bellezza e pace. Il Mattino (1763): ha per tema le (in)attività d’un giovane aristocratico ed offre quindi un giudizio globale sulla nobiltà lombarda, nell’opera Parini copre i panni del poeta satirico con quelli del maestro di eleganza e divertimento. Molti dei materiali ideologici provengono dal Dialogo sopra la nobiltà come i riferimenti ironici alla nobiltà di sangue o di moneta. Al fondo della critica pariniana sta il tema del distacco della società aristocratica dalla natura, fonte di vitalità sana e piena, espressione di una razionalità e moralità oggettiva. La mattinata del nobile, risvegliatosi a giorno fatto, sarà tutta occupata alla preparazione di sé per l’uscita in carrozza; il risveglio la colazione, la lunga sosta alla toilette e la vestizione offrono il destro per rappresentare la miriade di oggetti e di persone che gli ruotano attorno; scopo dei preparativi è la comparsa nel bel mondo e soprattutto l’accompagnamento della dama di cui il giovane è cavaliere. Parini lascia non finita la sua opera, e nel tempo modificherà la struttura dell’opera che diviene un poema, Il Giorno, composto da quattro parti: Mattino, Meriggio, Vespro, Notte. ■ Neoclassicismo e Romanticismo L’assetto politico europeo di antico regime si sgretola progressivamente nel corso del Settecento, dalla Rivoluzione francese al successivo assetto napoleonico, eventi che siglano l’irresistibile ascesa dell’epoca borghese, cui le azioni della Restaurazione decise al congresso di Vienna tenteranno di porre un argine. Durante questo periodo travagliato si sviluppano due sensibilità: quella neoclassica, con la sua ripresa della classicità in ambito soprattutto pittorico e scultoreo nei termini di un’algida e nobile compostezza. Viceversa, il Romanticismo guarda sì al passato, ma al passato inesplorato delle saghe medievali, interpretato con originalità dall’artista. Se per Alfieri la lingua italiana è l’obbiettivo da inseguire in solitario nel lavorìo sulla propria opera, all’incirca negli stessi anni il codice linguistico nazionale è al centro di un dibattito che vede impegnati i diversi intellettuali. È ancora Milano che si fronteggia gli esponenti della due tendenze, in particolare sarà famosa la polemica di Madame de Staël, Sulla maniera e l’utilità delle traduzioni, in cui la baronessa sollecita i letterati italiani a tradurre in italiano le opere straniere al fine di vitalizzare i contenuti della letteratura nazionale. Alla de Staël ribatte Pietro Giordani , fautore di un classicismo linguistico e letterario declinato in chiave progressista; in cui solo la perfetta padronanza di tutte le corde della tradizione linguistica italiana può servire alla liberazione socioculturale delle masse. Sarà sotto la rivista “Il Conciliatore” che i principali intellettuali liberali e antiaustriaci saranno mossi dalla comune convinzione che le lettere debbano servire al progresso all’intero consorzio civile. Convinzione illustrata correttamente da Berchet nell’epistola pedagogica Lettera semiseria di Grisostomo al suo figliolo, nella quale si proclama come “la sola vera poesia sia la popolare”. I. Vittorio Alfieri La curva descritta con Vittorio Alfieri con la sua biografia e con la sua opera riassume un secolo, il Settecento, che vede compiersi l’ultimo atto delle società di antico regime e il prologo di un’era nuova, l’era borghese. Viaggiando nell’Europa di quell’ancien régim che da lì a poco verrà ribaltato dai “re plebei” (Vita, III3) della Rivoluzione, e sviluppando un pensiero politico avverso a tutti i tipi di tirannide, da quello di uno solo a quello della maggioranza. Sarà a Torino che Alfieri viene a contato per la prima volta col teatro, osservando il repertorio francese sia tragico che comico messo in scena da una compagnia transalpina. Successivamente inizierà il suo viaggio per l’Italia, toccando Milano, Firenze, Roma, Napoli: ovunque si rechi ha modo di conoscere i sovrani del luogo, riportandone un’impressione di “tirannia” generalizzata. Poi si sposterà in Francia giungendo alla corte di Luigi XV, e successivamente in Inghilterra e in Olanda, di cui apprezza gli ordinamenti politici democratici. Giunge anche alla corte viennese di Maria Teresa in cui arrivò a maturare la sua inclinazione antitirannica. Giornali (1774-77): nel testo emerge la prima scrittura dell’io alfieriana, alla cesura costituita dal cambiamento di codice linguistico corrisponde una cesura strutturale e morale: se nella prima parte a dominare è il racconto dell’amore tormentato, nella seconda il fulcro è invece la gloria letteraria, obiettivo finalmente perseguito con lucidità dopo la rottura del legame amoroso. Antonio e Cleopatra (1774): prima opera drammaturgica dell’autore, dove lo spunto autobiografico del “serventismo” di Antonio ricalca quello di Alfieri nei confronti della Falletti, è controbilanciata dal tema universale del potere tirannico, personificato dai personaggi di Cleopatra e Augusto. Dopo i faticosi anni di apprendistato, la conversione letteraria e politica è finalmente posta in essere; alla ricerca della fama letteraria non è disgiunta quella di una lingua, l’italiano; il “ben dire” deve dunque essere perseguito e ottenuto in lingua italiana e non nella lingua francese. Egli introduce il metodo di lavoro dei “tre respiri”: ideare, stendere, verseggiare. Mirra (1786): 1 A Parigi il poeta dedica alla figura di Lorenzo Mascheroni la Mascheroniana, cantata in terzine dantesche su modello della Bassiviliana: si tratta in questo caso però di una visione laica, che nel celebrare i protagonisti dell’Illuminismo lombardo settecentesco, depreca gli eccessi del periodo del Terrore. Se durante il triennio giacobino Monti intendeva ritrattare i propri versi antirivoluzionari, dopo la battaglia di Marengo vuole invece rivendicare la verità profonda in una profonda avversione del radicalismo incarnato dal Terrore. Monti abbandona presto la cattedra di eloquenza a Pavia per diventare primo poeta del governo italiano (1804) e poi istoriografo del Regno d’Italia (1805) sotto Napoleone; l’apice della celebrazione dell’imperatore è rappresentato dal Bardo della Selva Nera e dall’Iliade. Il Bardo della Selva Nera (1806): è un esperimento di diverse soluzioni formali: nell’incompiuto poema doveva idealmente constare di dodici canti, le imprese napoleoniche, narrate dal soldato Terigi al bardo Ullino, sono calate in un’atmosfera brumosa e sublime, punteggiata di riferimenti alla mitologia germanica. Sermone sulla mitologia: Il percorso poetico di Monti si conclude con il poemetto in endecasillabi sciolti, in questo componimento ribadisce la propria fedeltà al serbatoio di temi e immagini offerto dalla mitologia lamentando lo strapotere dei romantici, colpevoli di aver sottratto alla poesia i suoi tradizionali materiali costitutivi, nella consapevolezza della fine di un intero sistema culturale. Proposta di alcune correzioni ed aggiunte al Vocabolario della Crusca: è esposta la nozione di antimunicipalismo, principio guida della riflessione sulla lingua di Monti. III. Madame de Staël vs. Pietro Giordani La Milano del 1814 sotto la dominazione asburgica è teatro di un ampio scontro intellettuale tra classicisti, legati alla tradizione e all’imitazione; e quello romantico, mirante all’originalità dell’individuo poetante e della creazione poetica, e solitamente di ordine politico liberale. Lo spazio della polemica prende forma su due note riviste milanesi: “Biblioteca Italiana” e “Il Conciliatore”. Il dibattito si apre nel celebre articolo Sulla maniera e l’utilità delle traduzioni della baronessa francese Madame de Staël, la quale è fortemente legata all’Italia per le relazioni di amicizia con: Monti, Pindemonte, Verri e Canova. L’Italia, se posta a confronto con le vicine letterature europee, mostra di non aver recepito la rivoluzione estetica avvenuta soprattutto in Germania e in Inghilterra, lungo le osservazioni sul sublime di Edmund Burke e quelle di Schlegel. Una rivoluzione del gusto che prende il nome di Romanticismo e che è destinato a far saltare l’intero sistema culturale e letterario classicista, fondato sull’imitazione. L’esortazione è quello di leggere e tradurre i testi stranieri, così da assimilare temi e forme capaci di imprimere una decisa sterzata a un panorama letterario statico. Era evidente l’arretratezza della cultura italiana a livello europeo, dovuta a una scarsa attenzione verso quello che accade oltre i confini nazionali; nella convinzione miope e acritica della superiorità storica della propria tradizione culturale. Il primo a rispondere autorevolmente fu Pietro Giordani, affermando come non sia necessario “andare vilmente accattando fuori”, affermando come la cultura classica è una eredità di temi ed immagini da riattualizzare e ridefinire ma assolutamente da non rigettare. IV. “Il Conciliatore” e l’affermazione del Romanticismo È il 3 settembre 1818 quando fa la sua comparsa a Milano una rivista di cultura militante che porta la rassicurante etichetta di “Il Conciliatore”. Promotore di un programma nazional-liberale in funzione antiaustriaca, riunendo nei loro salotti personalità di spicco dell’ambiente culturale più all’avanguardia, italiano e non solo. Il Programma è firmato da Pietro Borsieri, sarà lo scritto teorico del movimento romantico milanese in cui si sostiene la necessità che le lettere, in particolare i suoi generi più popolari, il teatro e il romanzo, si mettano a servizio del progresso della società civile. Si mostra una chiara rottura dal giogo austriaco attraverso la creazione di una classe dirigente emancipata, avveduta e colta, abbandonando l’infeconda letteratura classico-romantica precedente. Un piano di educazione della borghesia milanese nei diversi ambiti di sviluppo della società, nonché nel campo del teatro e del romanzo. Il giornale subirà l’intervento diretto della censura voluta dal governatore, in seguito anche alla convocazione di Silvio Pellico da parte della polizia con minacce di bando, la redazione è costretta a chiudere il periodico il 14 ottobre 1819. Berchet propone una riflessione rinnovata relazione tra produzione letteraria e pubblico borghese; adottando l’espediente finzionale del pedagogo che espone al figlio le teorie estetiche romantiche, per giungere all’ironica palinodia finale in cui lo ammonisce a tenersene ben alla larga restando fedele al sistema classicistico. Il destinatario dei suoi testi è il “popolo” della classe media, che si pone tra i due estremi degli analfabeti (“gli ottentoti”) e dei dotti (“i parigini”). Ecco quindi esposto il precetto romantico per cui la solo vera poesia moderna sia quella “popolare”. Silvio Pellico, uscito dalla fucina del “Conciliatore”, diverrà noto per la sua opera principale Le mie prigioni; egli approda nella narrazione memorialistica in ragione delle vicende di cui è stato protagonista: arrestato in seguito ai moti di matrice carbonara del 1821. L’opera si concentra sull’esperienza carceraria di una reclusione tutta interiore a sua volta chiusa concentricamente dentro al perimetro del recinto penitenziario, una reclusione che viene vissuta grazie al sostegno della fede cattolica. La religione permette di sublimare a un livello trascendente gli ideali patriottici di giustizia, di virtù personale e di uguaglianza sociale; una lettura spirituale della lotta politica. ■ Le tre Corone e la cultura dell’Ottocento Tra la fine del XVIII secolo e i primi quindici anni del XIX, i sommovimenti politici che sconvolgono l’Italia settentrionale, con la calata di Napoleone e la costituzione delle due repubbliche, la Cisalpina e poi la “Italiana”, fino al Regno d’Italia. Napoleone incarnerà la generazione degli scrittori nati negli anni Settanta e Ottanta, un vero e proprio mito classico, tradotto in forme estetiche neoclassiche; emerge la figura ideale di Napoleone come “padre della patria”, nell’immaginario collettivo, più potente della sua figura storica, fino a celebrarne la morte come farà Manzoni. 1 Parallelamente, le Repubbliche e il Regno diventano occasione storica per iniziare a immaginare politicamente la nazione Italia; di una nazione che si riconosce prima di tutto in una comunità letteraria , in una lunga tradizione culturale: nelle forme varie forme dell’unità quella linguistica segna il punto di partenza. I. Ugo Foscolo: Soldato e poeta: in Ugo Foscolo le due componenti, quella attiva, militare e passionale, dello “spirto guerrier” da una parte, e quella, per così dire, contemplativa delle “libere carte” dall’altra. Gli impegni militari e gli scontri politici lo spingono infatti di frequente a cambiare città: un “viaggio sentimentale” che ha la sua origine esistenziale e linguistica nell’isola greca di Zante, il suo polo positivo nella Firenze patria della lingua italiana. Foscolo nasce a Zante (isola greca sotto la dominazione veneziana) nel 1778, egli pur essendo di madrelingua greca non padroneggiava l’italiano, idioma che adotta imparando attraverso una rigida disciplina linguistica. Sarà il trasferimento a Venezia che lo porterà ad intraprendere gli studi (Piano di studi, 1796), sarà presso la città lagunare che incontrerà la figura di Melchiorre Cesarotti di cui diverrà allievo seguendo le lezioni. Le turbolenze politiche di quegli anni si riverberano chiaramente nella prima prova tragica, il Tieste del 1795, dove la dicotomia Atreo-Tieste è qui leggibile come contrapposizione tra l’assolutismo dell’ancien régime da un lato e un atteggiamento riformista e di apertura democratica dall’altro. Successivamente prende la decisione di arruolarsi a Bologna come cacciatore a cavallo della Repubblica Cisalpina; correlativo di questo entusiasmo politico sono le odi, la classica struttura di nove strofe di endecasillabi e settenari si snoda qui ad inseguire la vittoria sui regimi antidemocratici da parte della Libertà, incarnata da “un sol Liberator”. Ma la firma del trattato di Campoformio il 17 ottobre 1797, che sancisce lo smembramento dei territori veneziani dei territori veneziani tra la Francia, l’Austria e la Repubblica Cisalpina, ridimensiona violentemente figura di Napoleone agli occhi di Foscolo. Le ultime lettere di Jacopo Ortis: la storia testuale di questo romanzo ricalca, per così dire, le orme del suo autore, essendo marcato dai luoghi e dalle situazioni in cui Fosco si è trovato implicato. Questo libro non è interamente compiuto, ma l’autore è costretto a dargli l’ultima mano anche se non voleva. La prima edizione del 1798 e consta di quarantacinque lettere: Jacopo Ortis, intellettuale disilluso dagli esiti fallimentari del triennio rivoluzionario, espone per via di lettera all’amico Lorenzo i propri stati d’animo in merito alla politica, alla patria e al suo amore per Teresa. L’edizione bolognese e quella apocrifa sono prontamente sconfessate dall’autore, in ragione delle pesanti cesure operate sul corpo ideologicamente vivo nel romanzo. Nel 1802 Foscolo rimette mano all’opera pubblicandolo per la seconda volta, della trama originale cambiano alcuni aspetti: il triangolo amoroso si conclude tragicamente con il suicidio del protagonista, dopo un viaggio attraverso la penisola, a simbolizzare la disfatta di un’intera generazione di idealisti. L’opera è profondamente ispirata da dei capisaldi del romanzo epistolare, presenti già nel Piano di studi, come Samuel Richardson, Rousseau e naturalmente Goethe; Foscolo dichiarerà di essere “obbligato” a ispirarsi ai Dolori del giovane Werther. Manzoni indica alla letteratura della nazione una strada diversa, recuperando una tradizione realistica che potremmo far risalire alla letteratura di “cose”, al civismo pariniano, e più indietro alla dialettica “mondo- teatro” dell’esperienza goldoniana. Manzoni è ritenuto il primo intellettuale europeo perché esso si è confrontato con tale panorama, infatti la sua attività non è affrontata individualmente, ma coralmente, dentro la storia e non più fuori da essa, e in compagnia dei più innovativi pensatori della modernità europea; come per esempio le figure di Richardson e Walter Scott e il romanzo storico. La realtà politica europea affascinerà il giovane poeta in particolare gli eventi francesi, dove Manzoni vedrà la Rivoluzione come un mito positivo. Successivamente si sposterà a Venezia in cui verrà a contatto con il teatro di Goldoni e si immergerà in una lingua viva e vera; sarà in questo periodo che risale il sonetto autobiografico. Carme in morte di Carlo Imbonati (1806): carme scritto dopo la morte del patrigno Carlo Imbonati, segna una nuova fase della produzione lirica, animata dall’affetto ritrovato della madre. La poesia è una coraggiosa dichiarazione in sostegno alla madre e il riconoscimento pubblico di una relazione a lungo chiacchierata e osteggiata; la risposta del poeta, in un immaginario dialogo con l’ombra dell’Imbonati, sul perché avesse disdegnato la poesia, diventa un elogio su Alfieri, Parini e di Omero. Dal 1805 al 1810 Manzoni vive stabilmente a Parigi dove stringerà una forte amicizia con Claude Fauriel, filologo e storico della letteratura medievale e provenzale, che diventerà il principale interlocutore nel lungo avvicinamento al romanzo. Sempre a Parigi inizierà a frequentare il circolo degli Idélogues, celebri eredi della tradizione illuminista. La corrispondenza con l’amico, sempre in francese, registra le riflessioni, gli entusiasmi, i dubbi letterari e linguistici, costituendo un prezioso strumento di interpretazione dei testi; Manzoni presenta una riflessione acutissima sullo stato delle lettere in Italia, dove la divisione politica, la pigrizia e l’ignoranza generale hanno generato un divario tra la lingua parlata e la lingua scritta, ultima definita quasi morta. I due grandi eventi del periodo parigino, la morte del padre e il matrimonio con Enrichetta Blondel, segnano sotterraneamente un percorso di riflessione spirituale che conduce alla conversione, lo spartiacque che orienterà la vita e l’opera manzoniana. Saranno le celebrazioni delle nozze tra Napoleone e Maria Luisa d’Austria il 2 aprile 1810 a determinare la conversione del poeta dopo aver perso la moglie nella confusione dell’evento. Gli anni dal 1812 al 1815 sono dedicati alla prima opera di argomento religioso, Inni sacri, in cui la poesia deve diventare forma espressiva di contenuti religiosi che possano essere compresi e condivisi da tutti, in forme non solo emotive e sentimentali. Risponde alla volontà di dare espressione letteraria ai contenuti della fede, Manzoni mostra. Però anche una precisa volontà di rinnovamento delle forme religiose, per una poesia che sia veicolo di contenuti teologici ortodossi, ma che possa diffonderli attraverso forme metriche di facile assimilazione, con una lingua poetica nuova. Per avvicinare i contenuti religiosi a un pubblico non solo colto e non solo religioso Manzoni agisce sul metro, prima ancora che sulla lingua, scegliendo strofe e versi brevi, derivati dalla poesia cantata settecentesca. Il risultato è un linguaggio nuovo, libero e forte di impatto, ricco di ornati retorici (similitudini, iperbati, inarcature), che contribuiscono a creare un impasto contemporaneamente popolare, autorevole e arcaico. 1 L’adesione di Manzoni alle nuove idee romantiche , che comincia nel primo soggiorno a Parigi, non è disgiunta dall’influsso del progressismo illuminista, e trova nella conversione religiosa un punto di partenza in sintonia col Romanticismo europeo. Un primo elemento di rottura con l’Illuminismo è costituito dal prevalere di istanze spirituali sull’analisi razionale e scientifica e dal recupero della dimensione sociale e collettiva di tali istanze. La storia diviene così non più soltanto il luogo in cui la razionalità può esprimersi per decifrare i dati della realtà e sottomettere la natura, ma il campo d’azione di una divinità non astratta, ma rivelata nelle Scritture e incarnata nell’uomo. Si intreccia in questo pensiero la vicinanza col pensiero di Vico: le conquiste scientifiche avevano dato l’illusione di aver dominato la natura e carpito i sui segreti; posto che la natura è opera divina, l’uomo ha perfetta conoscenza solo della storia che ha attraversato. Pertanto, sostiene Manzoni, se la storia è una “scienza nuova”, e la Provvidenza si manifesta nella storia, la verità rivelata è la legge trascendente che governa la storia stessa. Altri due temi fondamentali nel pensiero romantico manzoniano sono la nazione e la lingua, dove quest’ultima permette la civilizzazione di una società, intesa come l’espressione di una collettività: degli usi, costumi, abitudini di un intero popolo, di una nazione. Si esprime la riforma del teatro, da affrancare dalla tradizione classica e mitografica alfieriana e da avvicinare al modello shakespeariano, in cui vi è una rappresentazione di vicende storiche e introspezione psicologica. Il rispetto del vero porta subito Manzoni a dichiarare l’impossibilità di seguire le unità aristoteliche, rompendo la tradizione teatrale cinquecentesca. La nuova drammaturgia si basa sull’assunto che lo spettatore, mente esterna al dramma, non può percepirne l’inverosimiglianza a causa della differenza di tempi e di luoghi della tragedia rispetto ai suoi propri, e ne vede, al contrario, l’unità, data dalla coordinata unione delle parti. Solo un’analisi spassionata delle passioni permette all’opera di adempiere al fine didascalico e morale dell’arte, e allo spettatore di formarsi un’opinione ponderata dell’azione rappresentata. Il luogo in cui l’autore potrà riservarsi un “cantuccio” per esprimere il proprio punto di vista è il coro, che costituisce il secondo elemento di novità di questa riforma. Il Conte di Carmagnola (1819): l’opera si svolge tra la Serenissima e il Ducato di Milano nel primo quarto del XV secolo, Francesco di Bussone, nominato da Filippo Maria Visconti conte di Carmagnola, caduto in disgrazia presso i milanesi, e passato al servizio della Repubblica di Venezia. Gli viene affidata la guida dell’esercito contro gli antichi padroni, la sconfitta del Ducato di Milano nella battaglia di Maclodio non basta a fugare i sospetti di tradimento verso il conte, che si rifiuta di liberare i prigionieri e viene richiamato a Venezia per un processo che ne decreterà la condanna a morte. Le intenzioni didascaliche e civili della nuova tragedia, che piega le vicende storiche, nonostante le dichiarazioni di impersonalità, all’ideologia dell’autore. Nella parte finale del coro la condanna di ogni forma di violenza, indirizzata alle guerre tra milanesi e veneziani. Il Carmagnola non è quindi tanto la tragedia di un capitano di ventura stretto tra verità individuale e ragion di stato ma piuttosto una finzione letteraria costruita su una verità storica, per denunciare l’irrazionalità della guerra fratricida, e l’inevitabile accettazione cristiana di un’ingiusta condanna. Nella Lettera a M. Chauvet Manzoni risponde che partendo dal vero storico e dallo scopo della letteratura, approfondisce il ruolo del poeta e il rapporto tra il vero e il verosimile: “prendere insomma tutto quello che manca, ma in modo che l’invenzione si accordi con la realtà, ecco quel che ragionevolmente può essere definito creare”. Si esprime la possibilità dell’autore di colmare i vuoti di rappresentazione, e dare voce ai protagonisti che non hanno voce, ma che incarnano la parte che è andata perduta della storia stessa. Adelchi (1820): nella scelta del periodo storico Manzoni segue l’interesse romantico per il Medioevo, visto come momento fondativo delle nazioni dei popoli, e individua nello scontro tra longobardi e franchi per il dominio sulle intere popolazioni italiche, lo sfondo storico di una vicenda più articolata della tragedia precedente, ricca di personaggi e sfumature psicologiche. Qui viene affrontato il tema della relazione tra le due popolazioni, longobarda e latina, mai veramente fuse e quindi incapaci di gettare le basi di una vera indipendenza; nessuna libertà verrà dalla vittoria dei franchi. Adelchi è descritto molto riflessivo e astratto, simbolo dell’impossibilità di piegare le ragioni della storia al proprio sentire morale. Il 1821 è l’annus terribilis per la convergenza della crisi politica con quella personale, da cui scaturiscono però le due odi civili e l’inizio del romanzo. La poesia di questo periodo non può essere disgiunta dalla situazione politica: il 6 marzo 1821 in Piemonte scoppia una rivolta, che tuttavia, nonostante gli accordi presi con Carlo Alberto (concede la costituzione) fallisce; Manzoni scriverà Marzo 1821, in cui immagina che l’esercito sabauda abbia già varcato il Ticino per unirsi agli insorti lombardi contro gli austriaci. La notizia della morte di Napoleone, avvenuta il 5 maggio 1821 nell’esilio di Sant’Elena, porterà Manzoni a redigere una nuova ode Il Cinque Maggio: affinità formale con la Pentecoste hanno fatto parlare di un vero “inno sacro” fuori dagli Inni sacri, e di un testo in cui Manzoni si pone con rispetto, ma anche con orgoglio, nei confronti del protagonista, rivendicando la propria autonomia di giudizio, senza nascondere la propria esaltata ammirazione. Manzoni prende la parola quando Napoleone è trapassato: “Ei fu”, e dichiara di non aver mai seguito le adulazioni che accompagnarono la sua ascesa al potere, e di aver osservato in silenzio, ma di non potere tacere la sua grandezza. La novità del testo è però costituita dalla rappresentazione di Napoleone, non nella forma oggettiva della prima parte dell’inno, ma in quella soggettiva della solitudine a Sant’Elena. Del tutto nuova e ardita è anche l’introduzione della Provvidenza, celebrando così, nella persona del vittorioso condottiero, il vero e proprio trionfo della Fede, che piega ai piedi della Croce colui che aveva dominato tutta l’Europa. A partire dal 1821 Manzoni si dedicherà alla stesura di un’opera che lo occuperà per un trentennio, il romanzo accoglie anche la necessità di fondare su documenti originali l’indagine sul ruolo delle masse popolari, quel “volgo disperso”. L’Introduzione del romanzo rappresenta il punto di vista popolare del conflitto tra popolazioni, attraverso una storia che ha come protagonisti quelle “genti meccaniche e di piccol affare” che solitamente passano senza lasciare traccia, vittime del flusso della storia. I primi nuclei del romanzo sono molto poco romanzeschi, ma piuttosto storici e politici, il protagonista è il tema della giustizia che rappresenta l’emblema degli errori e delle ingiustizie provocate dal sistema giudiziario, dall’ignoranza dei religiosi e dall’insipienza del popolo. 1 Bruto, il combattente battuto a Filippi, rappresentato nel tragico monologo pronunciato prima di un teatrale suicidio, è l’alter ego con cui Leopardi si è voluto affidare ai posteri, che, dopo l’Unità, hanno preferito travestirlo dei panni lacrimevoli e malinconici di un pessimista esistenzialista. Emerge un Leopardi “progressivo” che è più vicino alla grandezza della propria opera: il poeta che usa l’inesistita giovinezza come innesco di una poesia costruita sul potere immaginativo della memoria, la malattia come formidabile strumento conoscitivo e l’isolamento geografico. Sorprendente paradosso che affiancava all’estraneità al mondo una sperimentata conoscenza dell’animo umano, educata alla lettura dei classici come serbatoio inesauribile di temi, motivi, generi letterari, e di risposte alle grandi domande dell’esistenza. Nel dibattito tra classicisti e romantici, accesso nelle “Biblioteca Italiana”, Leopardi non avrebbe potuto prendere diversa posizione da quella in effetti presa, nell’opera Discorso di un italiano attorno alla poesia romantica mette a fuoco alcuni capisaldi del suo pensiero, a partire dalle ragioni e dalle possibilità di esistenza di una poesia in un’età sommamente impoetica come quella settecentesca, dominata da un orientamento razionalistico che mina alla base il sistema di poesia immaginativa. Per la sopravvivenza moderna della poesia vi è la necessità di non poter più comporre poesia immaginativa, ma solo poesia sentimentale, condizione che Leopardi non partica direttamente, ma che condanna come uno dei frutti dello spirito romantico. In che modo l’uomo moderno può rimanere con la poesia vicino alla natura, pur avendo perso le condizioni di purezza e meraviglia che garantivano tale rapporto? Una prima strada sarà rappresentata dalla finzione dell’antichità, dalla contraffazione di una dimensione originaria irrimediabilmente perduta; la seconda strada parte dalla constatazione che lo stato che più si avvicina a quella stupefazione dell’antichità è per ciascun individuo il tempo dell’infanzia, per mezzo di una poesia della memoria, di quel ricordo del tempo andato. In tale scritto emergono chiaramente l’originalità e l’innovazione del suo itinerario poetico, da una parte la poesia antica (“pellegrina”) e la poesia della memoria (“vaga”). Condanna apertamente la riduzione della poesia al registro del sentimentale e del patetico, tipico dei poeti moderni nell’impossibilità di fare poesia immaginativa, rivendicando invece, istanze politiche e civili. Tali istanze nascono dalla costante lettura dei classici ma soprattutto dall’incontrò che segnerà la propria biografia con Pietro Giordani erudito classicista, con cui inizierà un lungo rapporto epistolare. Sull’Italia: scaturisce dall’esortazione di Giordani e dalla volontà di dare all’Italia una poesia di alta eloquenza e di impegno civile e politico che mancava nel quadro di una letteratura nazionale. Solidamente ancorata nella tradizione petrarchesca, la poesia sviluppa la tradizionale lamentazione sul contrasto tra il destino passato di gloria e il desolato squallore del presente. Si ribadisce la rottura con il passato, impossibile da replicare: Leopardi ricorda i caduti delle Termopili, e li mette a confronto, con gli italiani morti nella campagna napoleonica di Russia, al servizio di una patria straniera. Sopra il monumento di Dante: una meditazione sul sepolcro ancora foscoliana, ma con più sconsolati accenti polemici verso i “perversi tempi”, degli italiani incapaci di alzare il viso e scuotersi di dosso la dominazione straniera; polemica che tuttavia sfocia in una invocazione elegiaca sul destino degli “italiani prodi” morti nelle desolate steppe della Russia. Il 1819 verrà ricordato da Leopardi come l’anno cruciale, suggellato dalla “conversione filosofica”, ovvero il passaggio dal “bello” al “vero”, dalla condizione “antica” alla condizione “moderna”; conduce esperimenti poetici squisitamente sentimentali come le due canzoni funerarie: Per una donna inferma e Nella morte di una donna. Temi che ci dicono prima di tutto come tra i modelli vi fosse presente Foscolo, non indifferente al nuovo gusto romantico, tentando la strada di quella poesia sentimentale. La ricordanza: Il primo idillio scritto da Leopardi risalente al 1819, si affranca dai metri e dagli stili tradizionali, inaugura la poetica del “vago”, mette l’io lirico al centro di una avventura letteraria che, mentre afferma una filosofia negativa, difende la potenza euforica dell’immaginazione, e della facoltà poetica destinata a renderla eterna. La dolorosa contemplazione della luna descritta e ricordata scorre per quindici versi. L’infinito: rappresentazione di una realtà visibile e proiettato in una vortiginosa realtà metafisica, solo la veduta ristretta dal monte Tabor permette al pensiero di estendersi in profondità interiori, toccando la vertigine di un pauroso abisso, dove la voce del vento che muove le foglie e spalanca alla mente la potenza di una vittoria sul tempo: “l’eterno, / E le morte stagioni”. Nel corso del 1820, le riflessioni depositate nello Zibaldone di pensieri diventano quasi quotidiane, e riguardano temi eterogenei, di estetica, linguistica, poetica, sviluppati secondo un percorso individuale e asistematico sollecitato dalle osservazioni della realtà. Ciò che differenzia Leopardi rispetto ai grandi filosofi negativi della modernità (Schopenhauer e Nietzsche) è il ruolo assegnata alla poesia, e quindi alla capacità immaginativa, come portatrice di una forma di conoscenza non inferiore, anzi a volte superiore alla conoscenza scientifica; è per questo che la poesia per sua natura cerca il “bello” e la filosofia cerca il “vero”, pertanto, entrambi devono collaborare. Nello Zibaldone prende corpo la teoria del piacere, secondo cui il desiderio umano di un piacere illimitato provoca una condanna all’insoddisfazione, ma anche una continua tensione a un potenziamento indefinito dell’immaginazione umana. La vocazione alla felicità, la tenacia nel perseguirla nonostante le continue frustrazioni, e poi, con la svolta rappresentata dal Dialogo tra la Natura e l’Islandese, l’individuazione di un principio impersonale ed esterno responsabile di questa “macchina dell’infelicità”. Molto importanti, per l’elaborazione della poetica del “pellegrino” alla base della lingua delle Canzoni, che nell’agosto del 1820, portano a sviluppare una propria “teoria della grazia” basato su ciò che è “fuor dall’uso”; una poetica non neoclassica, che non consiste nell’equilibrio delle parti, ma in una disarmonia tra i vari elementi. Ne deriva la superiorità, nella lingua, di quei modi lontani dalla lingua corrente che Leopardi chiama “pellegrini” e che occorrono frequentemente alla poesia; alla lingua “pellegrina” si affianchi un'altra forma di nobilitazione della lingua letteraria, non più sotto forme di reinvenzione semantica nella tradizione, ma di dissolvimento dei contorni della poesia stessa, che acquisisce tanta maggiore eleganza quanto più riesce a sfumare, evocare, alludere: una lingua “vaga”. La lingua “vaga” della poesia è in grado, non tanto di rappresentare la realtà, ma di esprimere la sua finzione, alternativa alla realtà e indefinita, sia spaziale che temporale. Il 1822 è l’anno del primo viaggio di Leopardi fuori da Recanati, il padre Monaldo acconsentirà il trasferimento di Giacomo presso la Capitale; egli verrà a contatto con il mondo culturale che aveva sempre vagheggiato e che gli avrebbe consentito di procurarsi un lavoro nell’ambito bibliotecario o ecclesiastico. 1 Mal sperimentato nel mondo dei salotti, incapace di quella civile conversazione che era necessaria, Leopardi si trova isolato, inabile a procacciarsi un lavoro; con queste premesse l’insuccesso è sicuro e il ritorno a Recanati inevitabile. L’illusione romana è svanita e Leopardi si trova privo di quella spinta interiore che aveva animato il biennio precedente nella formazione di un nuovo libro di poesie la cui nuova lingua che ricerca l’equilibrio tra “vago” e “pellegrino”. Operette morali: adempiono a un duplice scopo: dotare la letteratura italiana di una “lingua filosofica” e dare alla filosofia un’opera italiana antifilosofica. Inevitabile la scelta del dialogo, utilizzato storicamente per entrambi i temi: dai Dialoghi filosofici di Platone a quelli linguistici. Le Operette vengono composte durante tutto il 1824 al ritmo impressionante di una/quattro al mese; una maratona impressionante per densità di temi e impegno di scrittura, in cui vengono toccati i punti chiave del suo “sistema” già trattati nello Zibaldone. I temi affrontati sono: vizi dei grandi, principi fondamentali delle calamità e della miseria umana, assurdi della politica, morale universale. Dialogo della Natura e di un Islandese, sviluppa un dialogo serrato tra un islandese in fuga e la Natura, donna gigantesca “bella e terribile”, si sviluppa il tema della rinuncia al conseguimento della felicità, l’impossibilità di sfuggire il dolore, l’estraneità della Natura a questo destino di sofferenza. La tenacia dell’Islandese nel cercare strenuamente di procurarsi minore infelicità lo spinge a una ferma misantropia, all’abbandono del consorzio umano per sfuggire ai danni provocati dalla vita collettiva, ma senza risultato. Attraverso la risposta della Natura alla “protesta” dell’Islandese, assurto a emblema di tutto il genere umano, Leopardi espone il terzo elemento cardine della sua riflessione: l’ineluttabilità del male, e anzi la sua necessità. Il mondo non è fatto per l’uomo, la sua felicità o infelicità non sono provocate da azioni volontarie, ma da un principio continuo di produzione e distruzione. Il 1828 è l’anno del “risorgimento poetico” vissuto a Pisa, e il 1829 sotto l’ombra dei “sedici mesi di notte orribile” trascorsi a Recanati; questo periodo presso il “natio borgo selvaggio” coincide con le riflessioni su un accentuato pessimismo, ma da cui sgorga una poesia che, sin dal titolo del libro, rinnova la tradizione letteraria, innestando il “canto” delle origini in una dimensione naturale e popolare. Risorgimento: si mantiene ancora all’interno della canzonetta arcadica, Leopardi intona un Inno profano per un’autobiografia in versi in cui celebrare, con la musicalità di strofe popolari e cantabili, il precipitare dell’animo nella disperazione, e il risorgere in primavera dello spirito che riscatta il dolore nel piacere del ricordo, all’interno di un destino di infelicità. A Silvia: altro celebre canto “pisano-recanatese”, esprime quegli inganni del cuore dove prendono le forme di una illusione amorosa e, dietro un personaggio forse reale, un archetipo della bellezza femminile e della poesia. La nuova disposizione al “canto” si esprime attraverso l’invenzione narrativa di un personaggio delicato e potente, che fornisce a Giacomo un perfetto alter ego della disillusione occorsa, e della morte delle speranze insieme con quella della giovane donna. attraverso la seduzione subita, la nascita e la morte di un figlio, la reintegrazione conclusiva nel suo mondo originario. Nievo riprende in modo esplicito il precedente di Manzoni, e tenta l’operazione di una “letteratura autenticamente popolare”. All’interno del costante programma d’intervento di Nievo nella cultura contemporanea anche il teatro gioca un ruolo importante, consapevole della forza dello strumento per la trasmissione immediata di ideali e valori su un pubblico allargato. Nievo scrittore di teatrale esordisce nel 1854, con la messa in scena degli Ultimi giorni di Galileo Galilei, incentrato sulla figura di Galileo come eroe del pensiero, disposto anche al compromesso e all’abiura. Confessioni d’un Italiano: la stesura del romanzo si svolge lungo circa nove mesi, dal dicembre del 1857 al 1858, l’opera può essere suddivisa in tre momenti: il primo (capitoli I-VII), la fine dell’antico regime, il secondo (capitoli VII- XVII), la stagione delle rivoluzioni; terzo (capitoli XVIII-XXIII), l’Ottocento fino al presente. La struttura rende chiaro l’andamento della narrazione, assai più rapida nella parte conclusiva, in una sorta di dissolvenza che lascia nell’ombra i moti italiani degli ultimi anni; per questo l’opera rimane inedita e pubblicata postuma nel 1867. Le Confessioni si snodano quasi per intero seguendo la passione, il legame ambiguo e fortissimo che stringe Carlino, il narratore ottuagenario che rievoca la sua esistenza, alla Pisana, la contessina di Fratta. Se Carlino è una figura mediana, un osservatore attento del mondo e della storia, la Pisana è invece è una sorta di geroglifico misterioso tutto da decifrare. Carlino vive tutte le tappe fondamentali del suo percorso al cospetto della Pisana, la quale amerà altri uomini e sposerà un vecchio nobile veneziano; il Carlino narratore, che rievoca a distanza di anni, nel ricordare accompagna all’amore, ancora intatto, una riflessione prolungata sull’indole della Pisana. Si tratta di una stratificazione che offre una straordinaria ricchezza, perché nella narrazione si alternano liberamente i pensieri e le emozioni di Carlino giovane con i giudizi e le larghe digressioni morali dell’ottuagenario. L’asse sentimentale rappresentato dagli amori di Carlino e Pisana è intrecciato con l’asse ideologico e politico del romanzo, il cammino verso l’Unità, punto di fuga dichiarato nell’incipit: “e morrò per la grazia di Dio italiano”. Carlino attraversa come partecipe le varie tappe della storia recente: il crollo dell’antico regime, con un grande rilievo assegnato al momento della caduta della Repubblica di Venezia, e poi tutte le sconfitte dell’Ottocento; egli non perde però mai la fiducia che l’Unità sia un traguardo vicino. Lontano da ogni posa eroica, come da ogni elogio delle fiammate rivoluzionarie, Carlino sembra scegliere dunque una prospettiva più lenta, calata sui tempi lunghi della maturazione dei popoli; più che al progetto di una sommossa, la linea che l’ottuagenario propone è dunque quella che mira alla formazione morale di un popolo, in grado di conquistare la propria libertà e la propria nazione. Cruciale l’elemento dell’educazione, la proposta di una legge interiore fondata sul dovere, sulla coscienza, sull’armonica gestione delle passioni; sarà il rinnovamento morale di ogni cittadino a rappresentare la condizione e la premessa per il rinnovamento civile prima, per il rinnovamento politico dopo, dove Carlino rappresenta il modello per mettersi in cammino verso l’Unità. 1 Sin dal titolo le Confessioni di Carlino si ricollegano al romanzo autobiografico settecentesco, e anzi al modello delle Confessions di Rousseau e alla Vita di Alfieri. L’opera contiene dentro di sé: ■ Romanzo di formazione: evidente nell’evoluzione del personaggio di Carlino. ■ Romanzo storico: implicito nel racconto del mondo di Fratta e poi ancora nella resa degli anni convulsi di fine Settecento e quelli di primo Ottocento. ■ Romanzo contemporaneo: che si sviluppa dal lascito del romanzo storico, dove la contemporaneità viene offerta nella forma del romanzo epistolare. Su tutti questi elementi domina il registro umoristico, la tendenza digressiva con la quale Carlino guarda a distanza, con una ironia carica di passione, le vicende narrate. A prevalere nel romanzo è la voce di Carlino che si muove senza ostacoli tra le impennate ispirate e di tono retorico e i tanti scorci di marca colloquiale. Una voce che si muove su un orizzonte antimanzoniano, opponendo alla soluzione monolinguista di Manzoni un plurilinguismo che intreccia forme dialettali e forme derivanti dalla tradizione. I tanti colori linguistici delle Confessioni rappresentano il riflesso di una ideologia complessiva, all’interno di un romanzo che prefigura l’unificazione, e che voleva dunque essere appunto linguisticamente composito, “italiano”. Nievo non solo riprende i testi chiave della tradizione narrativa sette-ottocentesca già citati, da Sterne a Rousseau, Voltaire a Balzac, e soprattutto Foscolo e Leopardi; ma accoglie anche autori più antichi, ripresi e inseriti nelle pieghe degli episodi, come Ariosto e Tasso e con un nuovo ruolo decisivo assegnato a Dante, e anzitutto a Dante della Vita nuova. Nel suo cammino verso il futuro, verso l’Unità, l’eroe di Nievo si muove dunque conservando solide radici nella tradizione letteraria italiana, in un’operazione che continua a destare sorpresa, ove si pensi alla straordinaria rapidità di composizione del romanzo. Nel 1859 avviene la svolta politica, Nievo decide di arruolarsi con i Cacciatori delle Alpi di Garibaldi; ma gli accordi di Villafranca tra Napoleone III e gli austriaci faranno cadere Nievo in una profonda delusione. Successivamente Nievo si imbarca da Quarto con i Mille e prende parte direttamente alle battaglie; egli morirà in un viaggio in piroscafo che affonderà nel viaggio tra la Sicilia e Napoli nel 1861. ■ La letteratura della nuova Italia Nel 1861 viene proclamato il Regno d’Italia, il processo unitario, cui l’élite intellettuale e militare ha in vario modo lavorato dall’inizio del secolo, però non è ancora concluso. Molte sono le resistenze di città e popolazioni che avevano conosciuto per secoli un orizzonte territoriale ristretto, circoscritto dentro aree linguisticamente e culturalmente molto omogenee. Il nuovo Regno mette insieme aree assai diverse tra loro, a partire dagli assetti politici ed economici distinti e dalle conseguenti divergenze dal punto di vista sociale. Ben più gravi sono le implicazioni di tipo politico quando si deve affrontare la necessità di controllare popolazioni analfabete, escluse dalla possibilità di comunicare in italiano, una lingua che a quell’epoca non può che impararsi a scuola. Animata da un progetto moderato, la classe egemone ha di fatto impedito il coinvolgimento diretto dei ceti subalterni nel processo unitario. Ai limiti di prospettiva politica occorre aggiungere il clima di instabilità determinato dalle operazioni militari del sud Italia durante l’operazione dei Mille. Il quadro è reso ulteriormente complicato dalla tradizionale debolezza del potere centrale nelle zone rurali del Meridione, sostanzialmente isolate dal resto del Paese anche perché ancora vincolate all’originario assetto feudale. Il nuovo Stato deve dunque affrontare diverse difficoltà: la difformità delle condizioni socioeconomiche nelle varie parti del Paese; la necessità di ottenere il pareggio di bilancio; la spinta verso la conquista dei territori ancora non italiani; l’urgenza di ottenere un più forte consenso internazionale. Nel 1876 il potere passa alla Sinistra di Agostino Depretis, mentre nel 1882 sorge a Milano, città industriale, il Partito operaio italiano, da cui qualche anno più tardi deriva il Partito socialista italiano. Nasce così il trasformismo italiano, cioè la tendenza dei parlamentari di destra e di sinistra ad accordarsi tra loro per isolare le forze antisistema e allontanarle nelle ali estreme per evitare che arrivino al potere. Insieme a una spinta ulteriore al controllo armato dei territori, anche l’esigenza di realizzare quella modernizzazione del Paese che viene sentita come missione principale dell’Unita politica finalmente raggiunta. L’obbiettivo è di aumentare il movimento delle persone e delle merci, giacché i governi, sia di destra che di sinistra, sono convinti che sia impossibile realizzare un processo di industrializzazione in tutta la Penisola, e che al contrario vadano innanzitutto favoriti gli scambi commerciali nazionali e internazionali. Nel Meridione si sviluppa il fenomeno del brigantaggio, a cui lo Stato risponde con una dura repressione militare, che debella i focolai di insurrezione armata, ma che non contribuisce a mutare il clima di diffidenza reciproca e tanto meno serve a migliorare le condizioni e economiche di quelle regioni. Vengono così istituite delle commissioni per studiare le effettive condizioni economiche e sociali della popolazione; in particolare l’inchiesta di Franchetti e Sonnino col titolo La Sicilia nel 1876, insieme alle Lettere meridionali (1878) di Pasquale Villari. Tra le novità occorre rimarcare i profondi cambiamenti nel mondo cattolico, dopo la presa di Roma, infatti, il papa Pio IX lancia l’appello ai fedeli col “non expedit” del 1874 affinché non partecipino alla vita politica del nuovo Stato, considerati un usurpatore. La situazione scolastica mostra però come, se le opportunità di coinvolgimento sembrano aumentare, e condizioni generali della cultura restano piuttosto depresse; ampio e diffuso infatti l’analfabetismo, soprattutto al Sud e nelle campagne del Nord. Da una parte, l’Italia conosce una evoluzione positiva, tanto che alla fine del secolo la scolarizzazione sarà paragonabile a quella europea; dall’altra, il potere centrale, demandando le responsabilità economiche della scuola elementare ai Comuni, mostra di favorire gli studi superiori e universitari. L’originaria divisione statale della Penisola aveva favorito una forte continuità culturale nell’uso dei dialetti; l’avvenuta Unità rendeva al contrario necessaria l’adozione di una lingua comune, qui doveva intervenire la scuola, che però proprio ai suoi livelli primari veniva lasciata alla responsabilità dei poteri locali, che spesso non avevano risorse necessarie per garantire un’adeguata formazione di base. Questo groviglio di difficoltà e contraddizioni è reso ancora più intricato dalla scarsa incisività con cui si interviene sulla formazione delle maestre e maestri, spesso essi stessi sprovvisti di un’adeguata istruzione linguistica. 1 Grazie al ritmo incalzante, Carducci cerca di ritrarre nei versi appena citati la plasticità fonosimbolica della locomotiva in movimento, rappresentata come un “mostro” antropomorfo che “divora” la terra e procede senza timore nell’oscurità. Giambi ed epodi: andata in stampa nel 1881 per i tipi di Zanichelli, nel titolo Carducci esplicita i due modelli di riferimento principali, rispettivamente il poeta greco Archiloco per i giambi e il poeta latino Orazio per gli epodi; Carducci cerca anche di imitare, senza eccessiva rigidità, il modulo dei metri classici. L’intenzione è apertamente militante, orientata a commentare, in tono polemico e aggressivo, le principali occasioni della realtà sociale e politica italiana; Carducci assume la postura di vero e proprio censore dei costumi e delle decisioni politiche, scagliandosi contro il papa ma anche contro le decisioni del governo. A partire dagli anni Settanta Carducci comincia ad assumere posizioni diverse, meno radicali, orientate ora a un atteggiamento di maggior ripiegamento interiore sul fronte poetico e di maggiore disponibilità a negoziare una posizione politica che diverrà, con il passare del tempo, sostanzialmente filogovernativa. Episodio simbolico di questo diverso orientamento politico è l’ode Per la regina d’Italia, composta nel 1878 composta in occasione della visita della famiglia reale a Bologna; la monarchia, agli occhi del poeta, era l’unico garante dell’unificazione nazionale. Rime nuove: opera nella quale il poeta antologizza il suo mondo poetico, articolato e composto tanto per la straordinaria varietà delle soluzioni formali, quanto per la ricchezza esibita dal repertorio tematico, che spazia dalla dimensione lirico-sentimentali alle intense reminiscenze paesaggistiche, sino alla rievocazione storiche e a lunghi momenti di riflessione sulla lingua poetica. Difficile, e forse criticamente poco proficuo, cercare una sintesi d’insieme della raccolta, mentre più fruttuoso sembra osservare la pluralità del mondo poetico carducciano, aperto a percorsi anche significativamente diversi, ma non per questo tra loro contraddittori. Traversando la Maremma toscana: Carducci proietta nei luoghi della sua infanzia toscana, con i quali sente una sorta di affinità caratteriale, un nostalgico e disilluso sguardo, che denuncia la sconsolata sconfitta dei sogni giovanili, sigillata dalla morte incombente; sul finale del sonetto vi è una nota consolatoria e pacificante, capace di illuminare di una superiore saggezza il pensiero dell’io lirico. Odi barbare: è il grande cantiere della nuova metrica, il cui suo nuovo stile spazia dal metro che è antico all’assenza della rima. I modelli che Carducci guarda sono i classici, soprattutto Orazio, contrapposto con intenzioni polemiche ai poeti greci, ma anche agli elegiaci latini, non dimenticando gli esperimenti di rilievo già attuati nella tradizione italiana. La metrica è definita barbara perché tali poesie al giudizio dei classici greci e latini suonerebbero fortemente diverse dal loro stile. Il poeta insegue una forma poetica capace di valorizzare l’aspetto tecnico dell’arte e, insieme, di dare così risalto all’impegno intellettuale e di pensiero, in nome di una poesia che intenda ancora essere in grado di esprimere una posizione del soggetto lirico nei confronti del mondo e di dare spazio a una riflessione più intimistica e autobiografica. Alla stazione in una mattina d’autunno: nel componimento si fonde, all’interno di un paesaggio novembrino, grigio e caratterizzato da una luce debole, il ricordo di un incontro con la donna amata, Lidia, in procinto di partire col treno. La stessa immagine del treno, rispetto all’Inno a Satana, è del tutto priva di tratti eroici, lontana dall’esaltazione del progresso trionfante; è solo uno strumento, il cui aspetto cupo e minaccioso quasi da mostro mitologico contrasta con l’immagine eterea e sottile della donna. Sul finire degli anni Ottanta Carducci assume sempre più una figura simbolica, “poeta vate” per l’intera penisola, con un conservatorismo filomonarchico sempre più marcato, apparentemente in contraddizione con le scelte giovanili. Carducci può essere considerato un “conservatore sovversivo”, proprio per riconoscere come gli ideali rivoluzionari fossero sempre temperati da una visione politica pragmatica, in nome della quale la monarchia dei Savoia finiva per costituire un elemento unificatori e di garanzia. III. Pedagogia e borghesia Il primo compito che i governanti del nuovo Stato dovettero assumere subito dopo il 1860 fu di creare un assetto istituzionale che sviluppasse quella progressiva uniformità culturale necessaria a realizzare un senso d’identità e di appartenenza nazionale comune. Per quanto riguarda l’esercito, dopo una serie di misure provvisorie, nel 1865 vengono infatti realizzate le prime liste di leva. Nel 1861, in occasione del primo censimento nazionale, emerge infatti il dato preoccupante di un analfabetismo diffuso nel 75% della popolazione; sarà la legge Coppino nel 1877 ad ampliare la durata della scuola elementare a cinque anni e stabilire l’obbligatorietà dei primi tre anni. Ma il sistema scolastico italiano assumerà, ereditando l’assetto istituzionale del Regno sabaudo, un carattere profondamente classista, di stampo militarista ed estremamente antiegualitario. Pertanto, nell’Italia postunitaria il progetto pedagogico è strettamente connesso al progetto di costruire una classe borghese nazionale. Su questa classe viene raccogliendosi intorno all’ideale di liceo classico e della centralità della formazione umanistica; sarà la Sinistra a favorire la creazione di un canale privilegiato tra la sezione fisico-matematica degli istituti professionali e l’università. Dunque, attorno alla scuola si costruisce un progetto complessivo, che va dall’insegnamento linguistico alla realizzazione e diffusione di un racconto che dia identità alla storia della nuova nazione; organizzare l’istruzione scolastica significa inoltre stabilire i rapporti tra le diverse branche del sapere e i precorsi professionali che ne conseguono. All’interno di questo processo gli intellettuali assumono un ruolo significativo, innanzitutto perché il mondo scolastico ha bisogno di professori, cioè di personale qualificato che non può che provenire dai ranghi dell’intellettualità. Francesco De Sanctis, primo ministro dell’Istruzione, affermerà come solo l’istruzione può rendere libero chi proviene dalle classi più basse; l’istruzione deve partire dalle elementari, e queste non possono esistere “senza una scuola normale”, cioè senza che sia stata prevista un’adeguata formazione professionale delle maestre. Decisiva la presenza cattolica nella scuola italiana che tenderà a mantenersi per tutto il periodo postunitario fino agli anni repubblicani. In Italia è stata infatti a lungo preminente una concezione letteraria della lingua, in base al presupposto che la letteratura sia stata il principale elemento di coesione culturale di una nazione che, per quanto divisa dal punto di vista statale, si è però riconosciuta in un comune patrimonio di autori e opere illustri. 1 Si spiega così la parte di rilievo assegnata nei programmi scolastici, sin dai primi anni dell’Unità, alle “lettere italiane”, che insieme alle memorie della Classicità istituiscono una lettura come pratica formativa e per la formazione del buon cittadino. Di questo periodo storico importante è il proliferare dell’associazionismo giovanile in forme del tutto inaudite, che ebbero una profonda ripercussione sul modo di pensare alla vita e alla formazione dei giovani. L’emersione sociale dei fanciulli e degli adolescenti come nuovi soggetti della vita pubblica sollecita ovviamente una grande riflessione scientifica, come mostra il grande dibattitto che coinvolge medici e psicologi, sul modo in cui i giovani vadano guidati e governati. E in una tale discussione un grande spazio viene occupato dalle preoccupazioni attorno alla sessualità, a partire dai turbamenti dell’adolescenza, ma arrivando a contemplare anche il problema delle pulsioni infantili. Il mondo della scuola e della prima giovinezza è centrale nell’attività letteraria di Carlo Lorenzini, in arte Collodi, il quale si interesserà sempre alla letteratura per ragazzi, tanto sul versante dell’intrattenimento quanto su quello dell’editoria scolastica. Il progetto di didattico di Collodi è quello di veicolare l’italiano, la matematica e la geografia, materie di base dell’insegnamento elementare, in una forma spiritosa ed elegante, ma adatta ai bambini. Allo stesso modo di Collodi anche Edmondo De Amicis è stato costantemente interessato al mondo scolastico, in particolare il capolavoro Cuore pubblicato nel 1886; il libro, il cui sottotitolo è “Libro per i ragazzi”, è concepito come il diario scolastico di Enrico, allievo di una scuola elementare di Torino. L’invenzione davvero innovativa di dare voce al ragazzino viene così ricondotta alle regole della gerarchia sociale, in obbedienza a quel paternalismo che è tipico dell’autore in tutte le sue opere. Mescolando tono patetico e attenzione realistica e non tradendo mai il suo saldo orizzonte laico, De Amicis esalta i valori centrale dello studio, del lavoro, del merito, del rispetto delle gerarchie, ma sa anche rappresentare la ricca articolazione sociale di una città già abbastanza evoluta qual era Torino nell’ultimo quarto dell’Ottocento. IV. Giovanni Verga Con la sua biografia distesa tra il 1840 e 1922 Verga attraversa da protagonista la letteratura del secondo Ottocento; di questa lunga parabola l’elemento centrale e costante è rappresentato dalla sua posizione di autore impegnato, da una esperienza narrativa condotta sempre in stretto rapporto con l’osservazione della realtà, con uno sguardo lucido e curvato di pessimismo sulle dinamiche di progresso attive nella società italiana negli ultimi decenni del XIX secolo. Centrale nella riflessione di Verga il suo proposito di realizzare una sorte di scomparsa dell’autore, di deporre la posizione del narratore onnisciente a favore di testi che riflettano senza filtri la realtà. Va sottolineato come Verga sia il primo classico della letteratura nazionale a risentire in modo decisivo delle dinamiche del mercato editoriale: i suoi rapporti con i diversi editori, le richieste di giornali e riviste incidono in profondità sui suoi stessi ritmi e percorsi di composizione. Nato a Catania nel 1840 da una famiglia agiata, Giovanni Verga trascorre nelle campagne siciliane gran parte della sua formazione, questo aspetto lo porterà a una conoscenza diretta del mondo contadino. Nel 1869 si trasferisce a Firenze, all’epoca capitale del Regno, dove viene a contatto con la lingua di riferimento sul piano letterario, seppur ancora vivo, dominava il magistero manzoniano.