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Riassunto Letteratura Italiana (Dalle origini a metà Cinquecento), Appunti di Letteratura Italiana

Storia della poesia italianaStoria della Letteratura EuropeaStoria della lingua italianaCultura medievale

Riassunto del manuale universitario di Letteratura Italiana 1 di Tomasi, Russo, Alfano e Italia

Tipologia: Appunti

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Scarica Riassunto Letteratura Italiana (Dalle origini a metà Cinquecento) e più Appunti in PDF di Letteratura Italiana solo su Docsity! LETTERATURA ITALIANA 1 Di Vincenzo Guasco Le origini La letteratura italiana fa registrare i primi testi di ampia rilevanza culturale solo nel corso del XIII secolo. La letteratura italiana regista una crescita repentina, tanto da riuscire a offrire una varietà notevole di esperienze nel giro di pochi decenni e da assumere un ruolo di guida nell’intera cultura europea già alla fine del Duecento e poi nel periodo delle Tre Corone. Sarà cruciale l’affermarsi di una scrittura volgare in un periodo in cui predominava il latino. Ai margini del latino si fanno strada tentativi di sperimentazione di svariati generi in prosa e in versi, dalle diverse forme della letteratura didattica. Sarà importante anche il recupero della più recente tradizione della letteratura francese, che trasmetterà (la d’oil) il patrimonio del ciclo carolingio e la tradizione arturiana. Più immediata sarà l’influenza della letteratura d’oc, maturata nella Provenza e cruciale per la lirica. La pratica poetica dei trovatori rappresenta un precedente di riferimento per tutto il Duecento ancora fino allo stilnovismo. Le prime testimonianze poetiche italiane hanno caratteristiche peculiari, incorporate in contesti latini, testi che venivano cantati e recitati da giullari e che sono stati trascritti per esigenze di memorizzazione e conservazione: tracce, un residuo di un fenomeno più ampio. Anche il primo documento della lingua italiana, l’Indovinello veronese, è stato considerato un testo poetico, conservato in una pergamena a Verona, si ritiene essere stato trascritto tra la fine dell’VIII secolo e gli inizi del IX, che i versi siano affini all’esametro e che la lingua non sia latina ma un primo tentativo di scrivere in volgare italiano. I ritmi sono testi di argomento religioso con finalità didattiche, caratterizzati da anisosillabismo, legati al mondo giullaresco, trascritti in ambiente monastico e non privi di una certa accuratezza stilistica retorica. La prima poesia d’amore. I ritmi appartengono a una tradizione didattica e religiosa. Fino alla fine del secolo scorso si riteneva che le prime poesie profane di argomento amoroso composte in Italia fossero riconducibili alla scuola siciliana, ma nel 1999 il filologo Alfredo Stussi ha pubblicato la canzone Quando eu stava, versi databile tra il 1180 e il 1210 e rintracciati in una pergamena conservata all’Archivio Storico Arcivescovile. È probabile che la canzone sia stata composta in area padana tra il XII e il XIII e che sia stata trascritta area umbro-marchigiana; oppure secondo la tesi dello storico Arrigo Castellani siano versi interamente settentrionali. È improbabile che il frammento ravennate sia un originale, ma può trattarsi di una copia e questo ci permette di affermare che la data di composizione della canzone è quasi certamente più antica. Le spetta il primato cronologico della lirica profana in volgare italiano: è la traccia più eloquente dell’esistenza di una tradizione poetica precedente la costituzione della Scuola siciliana, tradizione la cui fisionomia precisa è sommersa e impossibile da definire. La canzone riprende modelli della poesia trobadorica. Si individua una fase aurorale della lirica italiana, che è fortemente influenzata dai trovatori e che presenta già molte caratteristiche che si riscontrano poi nei poeti siciliani. Non si può escludere che vi sia stato un rapporto tra la tradizione sommersa che riusciamo solo a intravedere attraverso la canzone Quando eu stava e la tradizione autonoma e strutturata che si affermerà in Sicilia all’epoca di Federico II di Svevia. Dalla Sicilia alla Toscana Alla fine del Duecento si assiste in Toscana a un primo passo di selezione e di conservazione della produzione poetica italiana delle Origini. Quasi tutto quello che conosciamo è contenuto in alcuni codici allestiti tra la fine de XIII secolo e i primi decenni del XIV. 1. Vaticano Latino 3793: ordinamento cronologico sulla base del quale è possibile riscostruire il quadro storico complessivo della poesia duecentesca. 2. Redi 9: canzoniere quasi monografico dedicato a Guittone d’Arezzo. 3. Chigiano: celebra i rimatori che secondo Dante stesso hanno rinnovato la poesia italiana. La produzione poetica dei siciliani ci è nota attraverso questi canzonieri e pochi codici più tardi. Questi discendono da un unico archetipo, un manoscritto perduto la cui esistenza è ipotizzabile a partire dai testimoni disponibili. I poeti siciliani usavano un siciliano illustre, una forma elaborata e aulica della lingua volgare parlata a quel tempo in Sicilia. Il manoscritto che è all’origine dei tre canzonieri era stato scritto da un copista di origine toscana che ha tradotto i testi dei siciliani nel suo volgare, anzi, meglio: adattati. Il fenomeno più rilevante generato da questo adattamento è la rima siciliana. Esistono tuttavia delle deboli tracce di circolazione di poesia siciliana slegate dai canzonieri, tutte localizzabili in area settentrionale: - Il Libro siciliano, manoscritto perduto da cui l’erudito modenese Barbieri ricavò alcune versioni in siciliano delle poesie della Scuola - Un frammento di una canzone di Giacomino Pugliese ritrovato a Zurigo - I sei componimenti presenti nei Memorial bolognesi tra gli anni Ottanta del Duecento e i primi decenni del Trecento - Quattro poesie siciliane trovate a Bergamo nel 2013 trascritte tra il 1250 e il 1270 La Scuola siciliana si sviluppa attorno alla corte di Federico II di Svevia (1194-1250). Molti dei poeti erano giuristi, notai, magistrati e scrivevano in un siciliano illustre ispirandosi alla tradizione trobadorica. Il progetto politico di Federico era creare uno stato solido e unitario dove la cultura doveva svolgere un ruolo cruciale. L’argomento principale della poesia era l’amore, e dai trovatori ereditano la concezione globale di amore e il modo in cui l’amore viene rappresentato in poesia: il rapport tra amante e amata come rapporto feudale di sudditanza. Troviamo i caratteri della poesia cortese: lode della bellezza e della virtù dell’amata, amore come processo di raffinamento dell’individuo attraverso la sofferenza, la descrizione dei vari stati emotivi dell’amante, l’impossibile di amare senza aura, la gioia, l’ostilità delle figure antagoniste. Vi è poi uno spiccato interesse per la descrizione della fenomenologia amorosa, dei sentimenti e del processo di creazione dell’immagine mentale dell’amata. Si riducono i riferimenti alla realtà, alla biografia del poeta e contesto sociale. È una poesia spersonalizzata dove troviamo una profonda analisi delle emozioni individuale. Le forme metriche principali sono la canzone e il sonetto. La canzone è modellata sulla canso trobadorico, il sonetto è un’invenzione di Giacomo da Lentini, usato per di più per le tenzoni. In scuola siciliana, ma di una identificazione: la donna è l'angelo, e non è come un angelo. GUIDO GUINIZZELLI. È l’unico tra i cosiddetti stilnovisti di cui è attestata una presenza significativa nei canzonieri delle Origini: è il solo presente nel canzoniere Vaticano Latino 3793 dove è rappresentato in una posizione rilevante. Guinizzelli è contemporaneo dell’aretino: nato presumibilmente nel terzo decennio del Duecento, da una famiglia della piccola nobiltà di Bologna legata all’ambiente giuridico e di orientamento ghibellino. Figura misteriosa, della quale restano tuttora incerte la data di nascita (intorno al 1230) e quella di morte (forse il 1276), nonché la sicura identità storica, il bolognese Guido Guinizzelli occupa un posto rilevante nella nostra storia letteraria e in particolare all’interno del genere della lirica d’amore, presto divenuto dominante. Attivo nel terzo quarto del Duecento, egli indica infatti la possibilità stilistica e ideologica assai diversa da quella praticata con successo, e vasto seguito, quasi negli stessi anni, da Guittone d’Arezzo. La differenza è tanto più significativa, perché Guinizzelli ha in comune con Guittone sia il genere letterario (e dunque i temi generali) sia la tradizione: quella della poesia d’amore provenzali e della Scuola siciliana. La novità di Guinizzelli fu comunque percepita con prontezza sia dai guittoniani (Bonagiunta da Lucca gliela rimproverò in un sonetto), sia dagli scrittori soprattutto fiorentini della generazione più giovane, i quali non esitarono a farne il maestro del loro Stil novo. Il canzoniere guinizzelliano è composto da venti soli testi integri (cinque canzoni e quindici sonetti). Alcune prove, con ogni probabilità le più antiche, attestano un esordio secondo il gusto di Guittone e dei siculo-toscani; in un sonetto (scritto dopo il 1265) Guinizzelli si rivolge a Guittone con rispetto chiamandolo “padre” e “maestro”. La svolta poetica deve essere intervenuta successivamente, e legata quindi agli ultimi anni di attività del poeta. La nuova poetica evidenzia una semplificazione dello stile, che abbandona i modi ricercati della preziosa retorica guittoniana dell’ars dictandi, aspirando al linguaggio “dolce e leggiadro” che incontrerà le lodi di Dante. D’altra parte, alla limpidezza stilistica corrisponde un maggior impegno strutturale e dottrinario (soprattutto nella canzone “Al cor gentile rempaira sempre amore”). L’accusa di intellettualismo rivolta da Bonagiunta a Guinizzelli dipende semplicemente dalla mutata collocazione, nella poesia di quest’ultimo, dell’impegno intellettuale rispetto alla tradizione guittoniana. Mentre il preziosismo retorico e linguistico dei siculo-toscani si rivolge ad un pubblico borghese educato alle diffuse discipline della retorica, l’impegno intellettuale richiesto dai testi Guinizzelliani esige un lettore esperto di questioni dottrinarie e filosofiche, capace di individuare riferimenti e allusioni retoriche; insomma un lettore di cultura universitaria (e non a caso Guinizzelli vive nella più prestigiosa città universitaria del tempo: Bologna). La novità guinizzelliana riguarda perciò anche la ricezione: la sua poesia non si rivolge al più potenziale vasto pubblico borghese della civiltà comunale, ma a una stretta cerchia, la nascente aristocrazia intellettuale che costituirà il nuovo pubblico eletto degli stilnovisti toscani. Anche in relazione al pubblico la svolta guinizzelliana disegna perciò già lo scenario specifico dello Stilnovo. GUIDO CAVALCANTI. Nato a Firenze, verso il 1259 da una importante famiglia magnatizia, nel 1300 prende parte ad alcuni scontri con i Donati, una famiglia di parte nera avversa ai Cavalcanti, schierati con i guelfi bianchi: per questo condannato all’esilio dai priori. Oltre che un poeta era anche un filosofo, in ragione della complessità della sua canzone più celebre “donna me prega”. Dante gli dedica la Vita Nuova, definendolo il suo primo amico; e i manoscritti e le stampe antiche trasmettono vari testi in dialogo fra i due, tra cui una risposta di Guido al primo sonetto del libro. In questa fase giovanile Dante e Guido sono molto vicini sul piano stilistico, in particolare per le modalità di rappresentazione di alcuni motivi ricorrenti: l’effetto che la donna produce sugli uomini; la dichiarazione dell’impossibilità di esprimere compiutamente la lode dell’amata, la fenomenologia delle emozioni e delle passioni. Tra Dante e Guido si verifica una rottura, forse per motivi ideologici o filosofici. Dante lo pone tra gli epicurei, coloro che credono che l’anima muoia assieme al corpo, scetticismo religioso. In Cavalcanti si accentua la tendenza della poesia romanza a trasferire il discorso dall’esterno all’interno. Nell’anima mia il mondo è quasi cancellato, nessun riferimento alla donna e tutto in una dimensione astratta. Il fulcro è il poeta, con una forte tensione comunicativa e la volontà di cercare un contatto diretto con un pubblico. Sa di avere lettori e di poterli commuovere. LAPO GIANNI. È un poeta prossimo per stile e temi a Guinizzelli e Dante giovane. CINO DA PISTOIA. È uno dei più rilevanti giuristi del suo tempo e ricopre importanti incarichi pubblici; è in Francia, subisce l’esilio e rientra in patria nel 1306 per poi andare a Siena, Marca, Perugia e Napoli. Muore nel 1336. La sua produzione poetica è strettamente intrecciata a quella di Dante: risponde al primo sonetto, scambia con lui dei sonetti, gli scrive una canzone di consolazione per la morte di Beatrice. Usa un lessico, temi e motivi e immagini propri anche di Dante. La Poesia Comico-realistica Invettiva personale, improperio, satira dei costumi, la rappresentazione degli aspetti più materiali e degradati della vita, erotismo osceno, fame, immoralità, la taverna. Dettato poetico verso una direzione espressionistica e paradossale. I due poli del genere tragico e del genere comico coesistono nella tradizione poetica in volgare almeno a partire dalla metà del Duecento. Il codice comico nel Duecento è una delle possibilità espressive che i poeti hanno a disposizione insieme a quello politico, morale, religioso, amoroso… Il rapporto della poesia comico-realistica con quella aulica va visto nei termini di due possibilità alternative, ciascuna delle quali riservata alla porzione di mondo che si intende rappresentare, e che implica il ricorso a un repertorio topico e a una strumentazione stilistico-retorica codificati dalla tradizione. Perciò la loro carica antiletteraria e parodica è nel rifiuto del registro poetico aulico. La preferenza per motivi connotati in senso triviale, la selezione linguistica orientata verso il basso, l’uso oltranzistico di procedure retoriche finalizzate a produrre effetti di paradosso, come iperboli, traslati osceni, equivoci lessicali, non vanno interpretati come un innocuo divertimento o come la replica irridente a un linguaggio poetico, ma come un codice peculiare che riflette un diverso atteggiamento nei confronti della realtà e della tradizione culturale e che si rivolge a quella parte di realtà generalmente accantonata dalla letteratura alta. Cecco Angiolieri. Nato a Siena nel 1260 da un rappresentante dell’agiata borghesia guelfa. Partecipa a diverse iniziative militari dei guelfi senesi, tra cui la battaglia di Campaldino nel 1289. Qui potrebbe aver conosciuto Dante, a cui manda tre sonetti: alcuni di materia burlesca, un altro di seria polemica letteraria. La poesia di Cecco ruota intorno a pochi temi costanti che si richiamano vicendevolmente, formando delle serie che sono dotate di una certa compattezza e coerenza interna. Su tutto domina una tendenza autobiografica che caratterizza la poesia angiolieresca come una compatta e permanente costruzione dell’io. La malinconia per la malasorte, l’ostilità del padre, la crudeltà di Becchina sono i caratteri fondamentali di un unico ritratto autoderisorio e caricaturale, fondato sull’esibizione dell’io del poeta che mette in scena le proprie sventure. I sonetti per Becchina formano un nucleo coerente, incentrato su una rappresentazione grottesca e triviale del sentimento amoroso. Non di rado, il dialogo è il mezzo con cui più efficacemente l’Angiolieri dà voce alla protervia della donna contro le maldestre profferte del corteggiatore, proprio perché qui non è più in gioco l’espressione soggettiva di un sentimento, ma la messa in scena parossistica della varia casistica del rapporto amante-amata. Ci troviamo di fronte a una tipologia diversa rispetto a quelle viste finora: qui il rapporto con il codice cortese è più stretto. All’io nobile e virtuoso della poesia cortese, l’Angiolieri fa subentrare un io degradato e antiesemplare. La poesia allegorico-didattica In area settentrionale si sviluppa fin dalla metà del XII secolo una poesia di carattere didattico il cui documento più significativo è il manoscritto Hamilton 390 della Staatbibliothek di Berlino. Nella poesia medievale si possono individuare altri due grandi filoni: il poema che mette in scena il contrasto tra la personificazione dei vizi e delle virtù sul modelloa della Psychomachia di Prudenzio e il romanzo in versi il cui argomento principale è l’amore ma anche la storia dello sviluppo individuale del protagonista. In Italia questo tipo di racconto allegorico in versi ha come rappresentato il Tesoretto di Brunetto Latini. Brunetto ricoprì importanti incarichi pubblici a Firenze e venne inviato dal Comune come ambasciatore presso il re Alfonso X di Castiglia per chiedere aiuto contro Manfredi di Svevia. Fu maestro del bene parlare, in quanto autore di importanti volgarizzamenti dai classici e in particolare della Rettorica. Dall’altro fu maestro di guidare e reggere la repubblica, poiché il Tresor non è importante solo per la diffusione in volgare di importanti conoscenze filosofiche e scientifiche, ma forse soprattutto perché contiene una sezione dedicata alla politica, cioè alla gestione della cosa pubblica. Il poema è composto in coppie di settenari a rima baciata esemplare sui couplets di octosyllabes che costituiscono il più importante metro del romanzo in versi francese. Il protagonista coincide con l’autore e il racconto contiene numerosi riferimenti autobiografici. Dopo la dedica il protagonista, inviato come ambasciatore presso il re di Spagna apprende sulla strada del ritorno del capovolgimento politico avvenuto a Firenze e, addolorato, si perde in una selva diverse dove incontra la personificazione della Natura che gli narra la storia della creazione, sia dal punto di vista del testo biblico sia dal punto di vista della filosofia naturale; poi Brunetto visita il regno della Virtù, dove alcune personificazioni gli trasmettono una serie di insegnamenti pratici e morali; passa infine nel regno di Amore, dove Ovidio gli raccomanda di confessarsi e di confidare in Dio. Il poemetto si conclude subito dopo l’incontro con Tolomeo, quando Brunetto è in cammino verso l’Olimpo. Dante Alighieri (1265 – 1321) VITA Dante Alighieri è nato a Firenze nel 1265 ed è morto a Ravenna nel 1321. Poeta e prosatore, Dante Alighieri è nato tra il maggio e il giugno del 1265 da una famiglia della piccola nobiltà. Uno degli eventi più importanti della vita di Dante è stato l'incontro con Beatrice, la donna che ha amato ed ha esaltato come simbolo della grazia divina. Beatrice sarebbe realmente vissuta: gli storici l'hanno identificata nella nobildonna fiorentina Beatrice o Bice Portinari, morta nel 1290. Per quanto riguarda la prima parte della vita di Dante non si hanno molte informazioni a proposito della sua formazione, anche se le sue opere rivelano una grande erudizione. A Firenze è stato profondamente influenzato dal letterato Brunetto Latini e sembra che intorno al 1287 abbia frequentato l'Università di Bologna. È stato poeta e prosatore, teorico letterario e pensatore politico, ed è considerato il padre della letteratura italiana. È un fatto che la famiglia Alighieri non appartenesse ai magnates, la nobiltà fiorentina. All’età di 9 anni c’è il primo incontro con Beatrice. Nel 1277 contrae la promessa di matrimonio con Gemma Donati, dalla quale avrà quattro figli. Dante apprende le arti del Trivio (Grammatica, Retorica, Dialettica) presso un doctor gramatice. Il magistero di Brunetto Latini, scrittore e intellettuale fiorentino, che non era né insegnante, né professore universitario, dovette essere personale e occasionale, come del resto Dante stesso afferma nel suo commosso incontro con il maestro. Con le prime prove di rimatore e l’amicizia con Guido Cavalcanti, si rafforza l’interesse per le letterature volgari e presumibilmente anche quello per la filosofia. L’11 giugno 1289 l’esercito guelfo fiorentino sbaraglia i ghibellini aretini a Campaldino. L’umanista Leonardo Bruni racconta che Dante partecipa alla battaglia, schierato in prima fila tra i feditori a cavallo. In ambito politico la lotta passò a designare chi appoggiava l'impero (ghibellini) e chi lo contrastava sostenendo il papato (guelfi). La vicenda politica e intellettuale di Dante si colloca sotto l’amicizia e del magistero di Guido Cavalcanti. Nella Vita Nova fa riferimento a lui come “primo de li miei amici”. Il magistero cavalcantiano è fondamentale per la formazione intellettuale del più giovane amico, cui offre un innovativo modello di poesia, che risemantizzando il linguaggio tradizionale e integrando concezioni derivate dalla filosofia aristotelica, permette di superare la dimensione cortese, in cui rientrano ancora le prime prove liriche dantesche. Il loro rapporto sarà comunque molto problematico e oggetto di innumerevoli discussioni. La Vita Nova approda a una poetica e una concezione dell’amore radicalmente diverse rispetto a quelle di Cavalcanti, in particolare alle idee esposte da Guida nella canzone “Donna me prega”. Il libello dantesco può aver provocato la rottura del sodalizio umano e poetico fra i due, dando luogo a una polemica che Dante avrebbe protratto nelle opere successive. C’è anche da dire, che Dante nel Purgatorio fa riferimento a Cavalcanti come suo legittimo successore, come colui che è stato capace di riprendere e proseguire il cammino aperto dal più anziano amico e maestro, che si è rivolto alla filosofia abbandonando la lirica d’amore. Nel 1295, con la condanna a morte di Giano della Bella, promotore degli Ordinamenti di Giustizia che avevano estromesso i magnati dal potere politico a vantaggio del popolo minuto, Firenze passa sotto il controllo dei membri delle Arti maggiori, cui faceva parte lo stesso Dante. Nello stesso anno entra a far parte del Consiglio Speciale del Capitano del Popolo e l’anno dopo nel consiglio dei cento. Negli anni successivi Firenze è sconvolta dal conflitto, fatto anche di scontri armai tra due grandi famiglie aristocratiche: Neri (Donati) e Bianchi (Cerchi). Dante non si schiera apertamente. Nel giugno 1300 viene eletto Priore, e i Priori decidono di mandate al confine i capi delle opposte fazioni, tra cui Cavalcanti che muore ammalatasi nell’agosto. Il conflitto si infittisce di una dimensione politica. Nell’estate del 1301 il papa Bonifacio VIII, sollecitato dai neri che accusano i bianchi di ghibellinismo, invia il fratello del re di Francia. A fine ottobre il governo fiorentino manda a Roma un’ambasciata guidata da Dante per scongiurare l’intervento francese. Ma all’inizio di novembre Carlo di Valois entra a Firenze, prendendo le parti dei Neri, che si sollevano in armi e instaurano un nuovo priorato. Dante non era a Roma e sfugge alle prime violenze, ma non alla condanna per corruzione e peculato del 1302. Non essendosi presentato a Firenze e marzo, Dante è condannato alla confisca dei beni e al rogo. Dante non farà più ritorno a Firenze. Nell’autunno del 1302 i Bianchi si spostano a Forlì, dove tentano un colpo militare contro Firenze. Nel 1303 Dante è a Verona. Con la morte di Bonifacio VIII, sembrano riaprirsi le speranze per un ritorno. Dante, poi, torna in Toscana. Ma il tentativo di pacificazione fallisce per la ferma ostilità dei Neri. Sconfitta dei Bianchi nella Battaglia della Lastra (1304). Trova rifugio a Treviso e lavora al Convivio e al De Vulgari Eloquentia. Tra il 1307/1308 inizia a comporre la Commedia, che ultimerà a Ravenna nel 1319, dove morirà due anni più tardi. LA VITA NOVA Dante scrive la sua Vita Nuova tra il 1294 ed il 1295 recuperando 31 liriche scritte da lui stesso nei precedenti dieci anni e sulle quali compie un'operazione di riordino e commento analitica, spiegandone le cause, il significato e la struttura: un vero e proprio procedimento di critica letteraria che l’autore compie sulle sue stesse liriche, che riporta nel testo alternandole con parti in prosa. Nei suoi 47 capitoli, la Vita Nuova racconta e ricostruisce l’amore di Dante per Beatrice, e di come questo lo abbia trasformato ed elevato a livello spirituale. Al di là del mero scheletro narrativo, la Vita Nuova è un’opera che offre una quantità notevole di livelli di lettura, di strati di complessità e che presenta diversi aspetti di originalità. A cominciare dalla forma letteraria scelta da Dante, quella del prosimetro, in cui parti poetiche e parti in prosa si alternano armonicamente nel corpo completo del testo. Se le parti poetiche sono, ovviamente, le liriche dello stesso Dante, quelle in prosa sono destinate al commento critico delle prime. Il prosimetro, raramente usato in letteratura, si rivela così ampiamente funzionale all’obiettivo di Dante, cioè definire i parametri di quella nuova poesia che noi chiamiamo stilnovo. La Vita Nuova racconta il processo di maturazione interiore e consapevolezza spirituale del narratore, un percorso unico ed irripetibile, inevitabilmente ancorato all’esperienza personale del protagonista. Non si tratta di un messaggio soltanto implicito, dal momento che l’intero capitolo XXV dell’opera esula dalla narrazione dell’amore trasfigurato di Dante per la sua Beatrice, per sviluppare invece una profonda riflessione sullo stile poetico della lode, sugli stili della poesia volgare e sulla nuova poetica che l’autore sta sviluppando insieme all’amico Guido Cavalcanti, cui dedica l’intera opera. Non meno profondi appaiono i contenuti proposti da Dante, che disegnano un’idea di poetica stilnovista anch’essa originale e in qualche modo diversa da quella del Cavalcanti. Se per quest’ultimo l’amore è un sentimento irrazionale, e perciò indescrivibile, per Dante Amore diventa uno strumento di scoperta interiore capace di elevare spiritualmente l’essere umano; un sentimento che a livello letterario può esprimersi tramite quella lode che nella tradizione cristiana si rivolge primariamente a Dio. Ma nella concezione stilnovistica la donna-angelo trascende la semplice femminilità per farsi espressione e veicolo delle virtù divine: la loro bellezza, non è puramente estetica, bensì riflette quell’armonia e quella gentilezza che rimandano ad un piano di significati che si riferiscono a quello spirituale, e perciò può ben essere destinataria di canti di lode. Questo si evince nel capitolo XXIX, dove Dante sottolinea come il numero 9, che è perfetto, abbia segnato il suo rapporto con Beatrice e la vita di costei: il poeta incontra la sua amata per la prima volta a nove anni e per la seconda a diciotto; Beatrice, invece, muore l’8 giugno del 1290, che è il nono giorno del mese secondo il calendario arabo, mentre giugno è il nono mese del calendario siriaco; allo stesso modo il numero 90 si ricollega al numero sacro tre. Tre è il numero della Trinità, perciò numero sacro e perfetto così come i suoi multipli, sul quale Dante costruisce l’impalcatura della sua opera. Allo stesso modo va letto il nome della donna amata, Beatrice, cioè colei che è beata e in grado di dare la beatitudine. Si tratta, come si può vedere, di una costruzione intellettuale estremamente complessa che risente delle elaborazioni filosofiche duecentesche, e che allontana abissalmente l’ideale di amore e gentilezza stilnovista da quello classico o romanzo. Questa complessità, unita al valore dato all’esperienza personale e allo sviluppo spirituale, costituiscono gli elementi di novità che permeano lo stilnovo e che hanno in Dante la loro massima espressione. La storia del rinnovamento interiore ispirato dall’amore per Beatrice è la storia della poesia di Dante, dagli esordi cortesi alla maturazione di una poetica portatrice di valori inediti e più elevati. Il poeta manifesta il proprio sentimento per ottenere la ricompensa per il proprio sforzo amoroso. Tale ricompensa coincide appieno con la gioia amorosa, il compimento del desiderio. Nel momento in cui il saluto gli viene negato, il suo amore perde il proprio fine e la poesia la propria giustificazione. Dante si rende presto conto che la poesia per questa via finisce in un vicolo cieco, si chiude in una circolarità vizioso. È in questo drammatico momento di impasse che si presenta l’intuizione della lode. Il dialogo con una donna gentile conduce Dante alla presa di coscienza dell’insufficienza di una poesia autoreferenziale, scritta per notificare la propria condizione, e alla scoperta di una lode dell’amata disinteressata, frutto di un del medioevo avevano ereditato direttamente dal mondo classico e che riproponevano ripetendone le forme e i contenuti. Dante però si allontana nettamente da quella tradizione e progetta un'opera ambiziosa e innovativa, ma rimasta incompiuta, dove indaga sulle forme della lingua volgare ricostruendone le origini, in cui descrive le forme dei vari volgari italiani, operando tra questi un'attenta selezione allo scopo di arrivare alla definizione di un volgare 'illustre', cioè adatto ad essere usato in ambito letterario. Altra caratteristica del De Vulgari Eloquentia è quella di essere scritta in latino, cioè nella lingua colta per definizione, la lingua dei dotti e dei trattati universitari, indicativo del fatto che l'intenzione dell'autore fosse proprio quella di redarre un testo di analisi e di prospettiva sull'uso della lingua: in altre parole si può dire che Dante sia stato il primo ad intuire la portata di quel 'dibattito sulla lingua italiana' che avrebbe tenuto banco tra i letterati italiani dal XV secolo in poi. Il primo dei due libri dell'opera si compone di diciannove capitoli e si concentra nell'ambito prettamente linguistico del discorso inquadrandolo, in primo luogo, in una prospettiva storica. Il latino, dice Dante, è una lingua artificiale e inadatta all'uso quotidiano (pensava che persino gli stessi romani usassero un proprio volgare, adibendo il latino a sola lingua scritta). Prima che Dio lo frammentasse in seguito alla distruzione della torre di Babilonia, gli uomini parlavano un unico e identico linguaggio, il prodotto della frammentazione sono i volgari che mutano e differiscono oltre che in base alla geografia e ai popoli che li parlano, anche nel tempo: l'evoluzione della linguaggio su base temporale è la prima grande intuizione dantesca. La seconda è l'aver individuato e distinto i volgari europei in tre grandi gruppi: quello greco, quello germano/slavo e quello occidentale che a sua volta suddivide in tre ceppi: le lingue d'oc e d'oil, parlate in area francese, ed il si, con il quale intende i volgari italiani. Il volgare ricercato da Dante deve essere illustre, nel senso che deve dare decoro a chi lo usa, cardinale, in quanto deve fungere da cardine rispetto alle altre parlate, aulico, cioè degno di poter essere usato alla presenza di un sovrano, ed infine curiale, cioè tanto nobile da poter essere usato a corte; nessuno dei volgari italiani, nemmeno il fiorentino o il toscano, hanno queste virtù e rimangono ancorati ad una dimensione 'municipale' e 'plebea', tuttavia questa lingua così particolare ed elevata si può ritrovare nelle opere di alcuni autori. Più precisamente si può dire che, non ritrovando quelle caratteristiche in nessun volgare, Dante arriva a definirlo attraverso le opere di alcuni autori che ritiene esemplari. E nel secondo libro comincia una sorta di excursus letterario in cui indica quali autori, e in quali opere, hanno espresso meglio i vari argomenti, da quelli morali a quelli amorosi o guerreschi. Ma siccome per Dante la letteratura è soprattutto un fatto linguistico, cioè qualcosa di concreto che esige una sua precisa formalità, indica anche le modalità in cui questo volgare debba esprimersi: e la Canzone risulta senz’altro la forma metrica più adatta per esprimere lo stile tragico, e questa poi va costruita secondo il rigoroso metro dell’endecasillabo o del settenario. L’intenzione alla base del De Vulgari Eloquentia è quella di definire un canone linguistico partendo dalla constatazione della frammentazione delle varie parlate regionali e dell’inadeguatezza di ciascuna di loro ad assurgere al ruolo di lingua nobile e rappresentativa dell’intero contesto italiano, una tensione teorica che si risolve nell’individuazione di esempi letterari che possono fungere da modello per il ‘volgare illustre’. Perciò Dante, ed è qui l’altra grande novità, passa a definire concretamente un canone letterario definito da una serie di scrittori e dalle loro opere, facendo emergere legami tra diverse esperienze letterarie da lui ritenute apprezzabili e lasciandone invece ai margini altre. L’importanza del De Vulgari Eloquentia risiede perciò nell’aver anticipato, in un certo senso, il dibattito attorno all’uso della lingua volgare definendo non solo dei principi teorici, ma anche un canone concreto che si sviluppa attorno ad una precisa linea evolutiva che parte dalla Provenza ed arriva alla Toscana passando per il meridione Normanno-Svevo. La Commedia La Commedia è l’opera più importante scritta da Dante, composta da tre cantiche, ognuna di 33 canti + 1 come prologo dell’Inferno. Probabilmente la prima edizione completa della Commedia fu curata dal figlio Iacopo. Il titolo ora noto è Divina Commedia, che risale al letterato Ludovico Dolce, che lo pubblicò sotto tale intestazione nel 1555, riprendendo la formula da un passo del Trattatello di Boccaccio. Dante per designare il suo poema adopera il solo nome di Commedia. Il genere della commedia permette sul piano della rappresentazione quanto su quello linguistico la massima varietà di stili e contenuti, dall’infimo al sublime, dal comico al tragico. Il titolo Commedia non solo autorizza la scelta di fondo della materia, e quella della lingua volgare, ma risponde alle molteplici e mutevoli esigenze espressive che possono manifestarsi tanto nel degradato abisso infernale, quanto nelle rarefatte atmosfere paradisiache. La struttura tripartita richiama la simbologia cristiana di Trinità. Il valore emblematico del numero tre e del suo multiplo nome ispira anche la toponomastica dei regni ultraterreni ( 9 gironi all’inferno, 9 parti il purgatorio, 9 cieli in paradiso). Infine, il numero tre contraddistingue l’innovativa soluzione metrica della terzina. Se la scelta del verso endecasillabo è in qualche modo prevedibile, l’idea di legarlo in una struttura ternaria con schema rimico ABA, BCB, CDC, è un’invenzione dantesca. Il modo in cui Dante presenta le posizioni di questi regni nell’Universo è ripresa dalla cosmologia medievale: riprendendo il sistema aristotelico-tolemaico si immagina la Terra al centro del Cosmo, divisa in due emisferi dove solo il primo è abitato, e che ha al suo centro Gerusalemme. Sotto Gerusalemme si apre l’Inferno e dalla parte opposta del globo terrestre sorge invece la montagna del Purgatorio. Intorno alla Terra ruotano poi nove cieli e l’Empireo, che è la sede di Dio. Tutto questo è quanto ripropone Dante ma aggiunge a questi concetti di base una gerarchia e una suddivisione dettagliatissime che nessuno prima di lui aveva mai proposto. In questo è un pioniere a dir poco geniale. L’INFERNO: Lucifero, prima uno degli angeli più belli del firmamento, conduce un giorno una rivolta contro Dio spinto dalla superbia. La rivolta fallisce miseramente e questo angelo, ormai dannato, viene fatto precipitare giù dal cielo. Cadendo sulla Terra il terreno è talmente inorridito che si scansa: si apre un’immensa voragine che sarà appunto l’Inferno. La terra spostata si rialza dalla parte opposta del globo formando la gigantesca montagna del Purgatorio (in sostanza il Purgatorio è un calco dell’Inferno, e capiamo subito quanto questi due mondi, a differenza del Paradiso, sono profondamente legati al nostro mondo terrestre). La voragine in cui si trova l’Inferno della Divina Commedia non è un semplice fosso ma un intero mondo sotterraneo con una sua geografia precisa che Dante, canto dopo canto, descrive in modo dettagliato. Questo mondo così disposto è pieno di demoni, bestie mitologiche, personaggi che Dante riprende dalla letteratura classica, dall’epica, dal romanzo cortese o dalla vita reale. Anche gli elementi del paesaggio, fiumi, boschi, rupi, sono tutti recuperati dalla letteratura precedente o dai paesaggi italiani che Dante conosceva bene. Questo è un argomento vastissimo di trattazione per cui si rimanda agli approfondimenti. La legge del contrappasso presente nell'Inferno e, più in generale, nella Divina Commedia di Dante ha dei precedenti nella letteratura classica latina e in quella biblica. Già Seneca ne aveva fatto uso nelle sue opere ma con Dante questa legge raggiunge la perfezione. L’anima dannata è punita con una pena contraria o simile al peccato commesso. Un esempio: le anime dei suicidi sono trasformate in alberi infastiditi da animali rabbiosi. I suicidi hanno trattato il loro corpo come un vegetale, come qualcosa da buttare e non come qualcosa di sacro a Dio: meritano allora di essere delle piante, di non avere più una forma corporea. Dopo il Giudizio Universale, quando ogni anima si potrà ricongiungere al corpo sepolto che risorge, i suicidi non potranno rientrarne in possesso e getteranno il corpo sulle fronde degli alberi. Ogni peccato è punito in questa maniera ed è stimolante la ricerca del significato di ogni contrappasso che possiamo trovare in qu esta cantica. Dante, all'inizio della cantica della Commedia, l'Inferno, ci parla di un viaggio che ha intrapreso in prima persona a partire da un momento della sua vita in cui si era smarrito in una selva oscura. Tre animali, le tre fiere, impediscono a Dante di tornare indietro o di raggiungere un colle dove pare esserci più luce. Queste fiere sono delle allegorie, una figura retorica che Dante usa moltissimo e che è diffusissima, in realtà, in tutta la letteratura medievale, e che implica che si usino oggetti o animali che per le loro caratteristiche, stanno a simboleggiare un’emozione, una problematica, una filosofia. Dante incontra una lonza, un leone e una lupa, che rappresentano rispettivamente la lussuria, la superbia e la cupidigia, cioè i peccati che impediscono al Poeta di vivere serenamente. Dante è sempre più spaventato ma qualcuno giunge in suo soccorso: una guida inviata da Beatrice, dalla Madonna e da Santa Lucia le quali dal Paradiso, vedendo Dante in grande difficoltà, hanno deciso di accorrere in suo soccorso. Questa guida è Virgilio, un poeta latino amatissimo da Dante e in realtà molto importante per il mondo medievale poiché, in una delle sue egloghe, annunciò la nascita di un bambino che avrebbe salvato il mondo: i cristiani videro in questo messaggio una predizione della nascita di Cristo. Virgilio annuncia a Dante che non riuscirà a tornare sulla retta via se prima non intraprenderà un viaggio di conoscenza e salvazione attraverso i tre regni dell’Aldilà. I due si avviano verso Gerusalemme e comincia il viaggio nel regno degli inferi. PURGATORIO: a montagna del purgatorio si trova su un’isola, l’unica terra emersa dell’emisfero australe, per il resto coperto solo di acque, (ricordiamo che si è formata in seguito alla caduta di Lucifero dal paradiso, perché la terra, non volendo essere contaminata dal suo contatto, si è allontanata dal suo corpo, dirigendosi verso la volta celeste, quindi nell’emisfero boreale). E’ costituito da 7 cornici, corrispondenti ai 7 peccati capitali (superbia, invidia, avarizia e prodigalità, gola, lussuria, ira e accidia), e vanno dal peccato più grave a quello meno grave man mano che si sale e ci si avvicina a Dio, al contrario dell’inferno. A differenza dell’inferno, in cui dante era l’unico che, pur essendo seguito dall’intera umanità, si muoveva attraverso i gironi, ora la purificazione è collettiva, infatti l’elemento fondamentale del purgatorio è la coralità, oltre che la mansuetudine (si fa spesso riferimento alle pecore), al contrario di quello dell’inferno che era l’individualità. Qui vi è la ricomparsa del giorno, durante il quale si svolge la purificazione, e della notte (assenza di dio), perché il periodo di purificazione è pur sempre limitato rispetto all’eternità. La parte inferiore della montagna risente ancora dell’atmosfera terrestre, mentre quelle superiore è al disopra e non ne risente. PARADISO: Il Regno del Paradiso, descritto da Dante nella sua Commedia, non è più connesso alla Terra: tutto è eterno ed etereo. Le parti che compongono il Paradiso non hanno una struttura fisica e concreta perché ogni elemento è prettamente spirituale. Riallacciandosi alla cosmologia tolemaica Dante immagina che, oltre una sfera detta “sfera del fuoco”, che divide il mondo terrestre dal Regno del Cielo, intorno alla Terra ruotino nove cieli disposti uno dentro l’altro. Questi cieli sono composti di una sostanza detta etere (qualcosa di simile all’aria) e muovendosi brillano, emettono suoni soavi, e riescono ad influenzare gli avvenimenti che hanno luogo sulla Terra e le persone che la abitano. Nel Paradiso le anime beate non hanno Francesco Petrarca Rappresenta un nuovo tipo di autore, l’immagine di un intellettuale laico, libero da condizionamenti politici, ma attivo nel presente. Rivendica la capacità dell’intellettuale di intervenire sul presente e prendere parola su qualsiasi aspetto sensibile della cultura del suo tempo, in virtù del suo impegno letterario, di una autorevolezza che si fonda su una completa dedizione agli studi umanistici. Due aspetti essenziali: riscoperta del mondo classico e l’affermazione della centralità dell’individuo, del soggetto come centro della riflessione morale. È il primo autore a considerare il proprio io come degno della rappresentazione letteraria: campo di forze in perpetuo conflitto da interrogare ed esplorare nella sua costitutiva frammentarietà. Vuole conoscere sé stesso e ordinare così la propria condotta etica nel mondo presente. Non smette di puntualizzarlo: a nulla vale il sapere se non è vissuto in prima persona, convertito in scelte e comportamenti concreti. È egli stessi e delineare un ritratto incentrato su alcuni degli elementi fondamentali: - Passione per il mondo antico - Esaltazione dello studio solitario - Rapporto con sovrani e nobili - La sua esperienza amorosa L’immagine esemplare con cui Petrarca intende presentarsi alla posterità è elaborata in maniera tale da ruotare intorno al superamento della passione amorosa nutrita per Laura, che rappresenta il cardine della sua esistenza e della sua produzione letteraria: una mutatio vitae sperimentata in virtù del sapere, dell’esperienza e di un rinnovato rapporto con un sentimento religioso visto come attraversamento dell’errore verso la conquista di sé. Francesco Petrarca nasce ad Arezzo il 20 luglio del 1304. Suo padre è notaio e per lavoro si sposta in importanti centri italiani ed europei. Francesco lo segue, ancora bambino, e si troverà nel grande mondo francese, ad Avignone, che in quel periodo era divenuta la nuova sede della Chiesa di Roma. Qui Petrarca entra in contatto con personaggi molto importanti dell’epoca: è bene integrato nella vita politica e culturale del suo tempo, è molto attento a tutto quello che lo circonda, a partire dalle questioni politiche, come il problema di riportare o meno la sede della Chiesa a Roma. Conosce i romanzi francesi, conosce benissimo la poesia di Dante e della scuola stilnovista, inizia a leggere testi religiosi e teologici che approfondirà quando deciderà, più tardi, di prendere i voti. Francesco Petrarca inizia già da subito a tentare di interpretare e rinnovare la letteratura e la cultura contemporanee che gli appaiono insoddisfacenti. Petrarca studia legge (si iscrive all’università ma non porta a termine gli studi anche se, come vedremo fra poco, avrà comunque una “laurea”) ed entra in contatto con autori latini come Cicerone e Virgilio. Per lui il latino è quasi una seconda lingua che usa anche per prendere appunti. Sono quindi tanti e diversi i fattori che influenzano la sua preparazione: un avviamento alla letteratura religiosa, una grande conoscenza della letteratura volgare (cioè stilnovo e letteratura francese), un grande amore per i classici latini: premesse che pongono le basi della sua grande poesia. Nel 1326 dopo la morte del Padre abbandona gli studi giuridici e torna ad Avignone. C’è un personaggio molto legato alla poesia di Francesco Petrarca: Laura. Il poeta racconta di averla incontrata la prima volta il 6 aprile 1327 e di essersene innamorato immediatamente. Questa donna diventerà oggetto della maggior parte delle poesie del Canzoniere. È un periodo non solo caratterizzato dall’amore ma anche da una profonda riflessione spirituale: Petrarca prende i voti e vive come un chierico laico – erano in molti a non condurre una vita monastica, pur essendo uomini di chiesa, in questo periodo – svolge incarichi importanti presso la famiglia Colonna, approfondisce gli studi leggendo vite e opere di Santi ed inizia anche lui a riflettere sulle sorti dell’anima e sul valore della religione. Comincia a raccogliere manoscritti preziosi e trarre frutto dalla visita ad alcune grandi collezioni di codici antichi. A Liegi da la prima delle sue grandi scoperte filologiche: l’orazione Pro Archia di Cicerone, fino ad allora sconosciute. Per Petrarca, Cicerone sarà autore prediletto e modello retorico. Stessi anni in cui scopre il suo altro auctor, che indirizzerò la sua vita: Agostino. Il 26 aprile del 1333 compie con il fratello la famosa ascesa sul monte ventoso, che racconterà nei familiares, evento in cui emerge un dissidio interiore. Non si limita a dichiarare di essere preda di passioni contrastanti, ma imprime nella scrittura le perturbanti oscillazioni del suo animo mediante un continuo andirivieni di affermazioni che si smentiscono reciprocamente. La conversione di Petrarca è un tentativo di approssimazione a Dio, sempre insufficiente. Il proposito diventa quello di guardarsi dentro, di non smettere di investigare il proprio passaggio interiore. Nei primi mesi del 1337, visita Roma e rimane impressionato dalla bellezza delle sue rovine, tracce ancora viventi di una storia illustre che il confronto con l’età presente rivela in tutta la sua magnificenza. Sempre nel 1337 si trasferisce a Valchiusa, sorgente di ispirazione e luogo per eccellenza della solitudine intellettuale, in contrapposizione all’ormai odiata sede papale. La passione di Petrarca per i libri ha un duplice aspetto: la ricerca di opere da raccogliere come testimonianze della cultura passata. I classici sono modelli da cui trarre esempi virtuosi, da cui ricavare valori da riproporre in un dialogo amichevole con uomini sapienti che hanno affrontato gli stessi problemi esistenziali del poeta e possono dargli consigli per aiutarlo a conoscere meglio sé stesso e la storia dell’umanità. Il suo umanesimo segue un approccio scientifico ai testi, la comprensione profonda della loro problematicità storica, non va vista come atteggiamento erudito, ma è condizione necessaria per instaurare con il passato un rapporto vitale, un dialogo fecondo nel presente. Un esempio di questo pionieristico atteggiamento filologico è nell’operazione di restauro degli Ab urbe condita di Tito Livio. Petrarca riesce ad assemblare tutte le deche conosciute allora (I, III, IV), prelevandole da codici diversi che egli stesso trascrive, collazione ed emenda dagli errori. Citiamo anche il Virgilio Ambrosiano, dove sono raccolte le principali opere di Virgilio, dove si trovano gli epitaffi per la morte di Laura nel 1348. Tra il 1338 e il 1339 a Valchiusa comincia a lavorare alle sue prime opere latine: Africa e la raccolta di biografie esemplari De Viris Illustribus. Tutto quello che ha scritto fino a quel momento lo ha reso un personaggio noto e amato tanto che, nel 1341, gli viene conferita la laurea come poeta: Francesco Petrarca verrà incoronato a Roma “ad honoris”. È lui che sceglierà tra Roma e Parigi, per amore della patria e perché in Italia risiede il re Roberto d’Angiò che Petrarca considera l’unico uomo degno di esaminarlo. Roma è capo del mondo e regina delle città. Si propone come erede della poesia latina e prosecutore dell’antica civiltà romana. Dopo l’incoronazione si stabilisce a Parma, dove prosegue l’Africa, che lascerà incompiuto. I modelli sono Livio, per lo sfondo storico, e Virgilio per l’epica classica. L’interesse petrarchesco per la classicità non è in opposizione allo spirito cristiani, ma è il loro connubio a offrirgli un modello universalmente valido nella ricerca di ciò che è umano e comune a tutte le genti, dell’uguaglianza degli uomini di tutti i tempi di fronte ai movimenti dell’anima. Il De viris illustribus prevede inizialmente le biografie di 23 condottieri romani, dell’età repubblicana, dove vi erano i valori del mos maiorum. Dopo l’incoronazione la cambia, aggiungendo altre 12 biografie da Adamo a Ercole. Alla storiografia liviana si associa la riflessione morale di Agostino, che aveva mostrato a Petrarca la via per leggere la storia universale nel piano provvidenziale della storia del popolo di Dio. Dopo un soggiorno presso la corte di Azzo da Correggio, nel 1342 torna ad Avignone dove inizia a scrivere i Rerum memorandarum libri, momento di passaggio dai primi libri romani alla svolta morale, una raccolta in cui si espongono gli aneddoti relativi a personaggi illustri del passato e presente. Nel 1347 la protezione dei Colonna si rivela insufficiente per le sue ambizioni di libertà e prestigio. In più, il suo giudizio sulla curia papale è sempre più negativo. Tra il 1346 e il 1348 scrive le Bucolicum carmen, sulla base delle bucoliche virgiliane. L’architettura interna dell’opera è studiata secondo un disegno di simmetrie e rimandi che consente di suddividerla in tre parti: le prime quattro egloghe hanno al centro il tema della poesia; il secondo gruppo di quattro la politica; il terzo gruppo motivi autobiografici che vanno dal dolore causato dalla pesta all’invettiva antifrancese. Il racconto autobiografico rappresenta il filtro ideale perché attraverso la trasfigurazione allegorica delle vicende più pressanti della sua vita e delle agitazioni che provocano, Petrarca mostra come valori mondani e cristiani condizionino la svolgersi concreto dell’esistenza. Ma sta però per arrivare un periodo decisamente negativo: la peste che nel 1348 devasterà l’Europa e porterà in Petrarca un periodo di profonda inquietudine e tristezza. Laura muore e l’epidemia, così violenta, lo turba profondamente. L'autore riesce a superare questo momento che però lascia una traccia dentro di lui. È qui che si inserisce l’idea di raccogliere in un libro le liriche dedicate alla storia del suo legame con la donna. L’atto di fondazione sta nella nota sul verso del foglio di guardia del V.A. Nelle poesie di Petrarca risalenti a questo periodo possiamo notare un cambiamento verso una tematica più profonda: si interroga sulla natura dell’anima e certe poesie sembrano quasi delle preghiere. In quello che è diventato il suo libro della memoria, annota l’evento della morte di Laura, il cui trauma gli ricorda che il passato è fatto solo di inutili cure e vane speranze. È un momento di svolta esistenziale profonda. Le opere di questi anni riflettono la crisi che Petrarca affronta e a cui risponde attraverso la ricerca di una scrittura che lo svincoli dalle pastoie della storia quanto dal didascalismo dei trattati morai. Incontra e diventa molto amico di Giovanni Boccaccio, un altro grandissimo autore della nostra letteratura che insieme a Petrarca e Dante è conosciuto come una delle “tre corone”, in riferimento proprio alla corona di alloro che veniva all’ora usata per cingere i poeti (appunto laureati). Insieme a Boccaccio, Petrarca riflette sul rapporto fra lingua italiana e latino, un dibattito che a quei tempi era molto sentito. Gli ultimi anni della sua vita Petrarca li vive intorno a Padova, continuando a scrivere e a studiare come ha sempre fatto e muore ad Arquà - in suo onore questa località si chiama oggi Arquà Petrarca - il 19 luglio 1374. Secretum. Il Secretum di Petrarca è un’opera scritta in latino e, attraverso una sorta di confessione in forma di dialogo, mette in scena una profonda riflessione dell'autore sulla sua vita. Non a caso Francesco immagina di compiere il dialogo negli anni 1342-1343, quando sta per arrivare la peste ed egli sente una grande inquietudine. Con chi dialoga Petrarca in questa lunga confessione? Con Sant’Agostino, uno dei santi più importanti della Chiesa Cristiana e fondamentale per le sue dottrine. Questo personaggio è molto importante per la conversione di Petrarca: Sant’Agostino sceglie di lasciare una vita di beni materiali per dedicarsi esclusivamente ad una vita spirituale e alle Sacre Scritture. È autore delle Confessioni, un’opera autobiografica che è, in fin dei conti, quello che si favorevoli. Il trattato è diviso in due libri. Segue ancora la strada della sintesi tra etica pagana e fede cristiana. Il conflitto interiore dell’animo fluttuante è il nucleo centrale del dialogo. Un’infinita sequela di sentimenti e comportamenti antitetici turba la pace dell’anima. La guarigione risiede nel sottrarsi alla molteplicità e consegnarsi all’unico Bene. LE POLEMICHE. Le coordinate essenziali del suo pensiero ricevono una ordinata trattazione in un grippo di opere che possono essere accostate. Al centro c’è l’avversione verso l’aristotelismo, paradigma filosofico dominante nel mondo universitario europeo, nelle due branche della speculazione logico dialettica e delle scienze naturali; di contro la rivendicazione dell’etica come unica vera filosofia. Questi scritti polemici si distribuiscono lungo il ventennio che va dal 1352 al 1371 e prendono le mosse da controversie reali. Nelle quattro invective contra medicum condanna la medicina come ars mechanica, che si prenda cura del corpo e non dell’anima. Il primato tra le arti spetta alla retorica e all’eloquenza, quindi alla poesia. Seguono poi altre invettive, contro il cardinale de Caraman che lo aveva accusato di aver cercato ospitalità verso la tirannide viscontea, o contro de Hesdin che difendeva la legittimità della sede papale di Avignone. Nel De sui ipsius et multorum ignoranza si lancia sul primato dell’etica rispetto alle altre forme di conoscenza, in particolare rispetto a quella scientifica, limitata a fatti esteriori, spesso nemmeno verificabili con l’esperienza, ma solo attraverso libri d’altri. Il discorso petrarchesco si regge sulla rivendicazione del valore filosofico e morale dell’ignoranza e della bontà in quanto espressioni del cristiano consapevole dei limiti della sua conoscenza e disposto a sentire prima e più che a sapere. TRA LATINO E VOLGARE. La scelta di tradurre in latino la novella di Boccaccio Griselda rientra nel pensiero linguistico petrarchesco. In diverse occasioni però ostenta una più bassa considerazione del volgare rispetto al latino. Latino e volgare sono per Petrarca due codici distanti dall’uso comune. La differenza sta nel pubblico di riferimento. Petrarca esprime il suo sdegno verso il volgo ignorante che non sa apprezzare la cura formale della lingua poetica, e reca ai rimatori in volgare la più grave ingiuria che si possa commettere, storpiandone e rovinandone i versi a ogni pubblica recitazione. L’esperienza dell’esule lontano dalla sua patria, e insieme l’esigenza di affermarsi come letterato in una dimensione non solo italiana ma sovranazionale, non possono che trovare nel latino il mezzo privilegiato della comunicazione letteraria, perché esemplato sui grandi auctores della civiltà classica e dotato di un prestigio certo. La recente produzione in volgare viene considerata come parte di una tradizione molto più ampia, che trova le sue radici nella civiltà antica. Comporre rime in volgare significa proporsi come continuatore di questa più recente tradizione tanto quanto di quella latina. Rerum volgarium fragmenta. Sono il più grande capolavoro di Petrarca, e una delle opere più importanti per la tradizione letteraria europea. Petrarca riconduce tutti i diversi testi volgati che nel segreto del proprio scrittoio compone negli anni in relazione alla passione per Laura, secondo quel processo di raccolta e riordinamento di cui parla nel Secretum. La preistoria del libro è rappresentata dai numerosi testi che Petrarca compone fin dai primi anni Trenta. Queste composizioni si accumulano sparse tra le carte petrarchesche per diversi anni, fino al momento decisivo in cui matura l’idea di riordinarle in una struttura unitaria, di disporle a formare un racconto: le tessere ora divengono i tasselli di quella che è stata definita la storia di un’anima. La ricognizione dei dati attraverso cui è possibile seguire i tempi di composizione del libro testimonia di una vicenda tormentata di elaborazione, riscritture, modifiche, una vicenda che va avanti per più di un ventennio. Il vero e proprio progetto dei Fragmenta comincia solo tra il 1347 e il 1350. Inizialmente erano circa 150 componimenti. Poi assume una organizzazione narrativa. La suddivisione dei componimenti è in due parti: una prima e una dopo la morte di Laura; il secondo è la posizione del primo sonetto. La morte di Laura è dunque fondamentale e suggerisce a Petrarca la grande novità del suo libro, l’episodio che innesca la parabola fondata lungo la quale si dispongono i frammenti litici: la rappresentazione di una dinamica di revisione memoriale del passato e tormento penitenziale nel presente: il rapporto tra un prima da recuperare alla memoria e di cui pentirsi; e un dopo in cui raccogliere gli sparsi frammenti della propria anima per restituirle un’unità che sia esemplare. La morte di Laura è il punto di svolta da cui l’idea del libro prende corpo. Il lavoro di assemblaggio del libro si protrae per circa un ventennio, durante il quale aggiunge, aggiusta, elimina, riordina. È un’opera rivoluzionaria. I testi hanno un significato compiuto che consente di leggerli separatamente l’uno dall’altro ma ricchi di interconnessioni e relazioni che intrattengono i lettori. È un testo dunque costruito a posteriori. Formato da 366 liriche, proemio + 1 al giorno. Tolti una trentina, sono incentrati sul tema dell’amore per Laura. La prima parte del libro: innamoramento. Sullo sfondo viene rievocato il mito di Apollo e Dafne, con l’equazione Laura/lauro a sottolineare la sovrapposizione delle due figure. La morte di Laura è annunciata nel sonetto 267. Momento della svolta che costringe il poeta a una revisione di tutta la sua vita ed esperienza amorosa. Da passione irrazionale destinata a non esaudire ma i il desiderio a strumento salvifico di perfezionamento morale, l’amore diventa sentimento negativo, moralmente deprecabile perché allontana l’io da se stesso, lo divide tra opposte tensioni e lo porta a smarrire la strada verso Dio, unico bene. Di qui la conversione verso una vita improntata a una retta condotta morale e a un totalizzante sentimento religioso, espresso dalla preghiera alla Vergine che chiude il libro. A spezzare di tanto in tanto il filo ci sono componimenti a membri della famiglia Colonna, la polemica politica. l’ideale che muove la poesia petrarchesca posa sul motivo del riscatto della decadenza del tempo presente in virtù del recupero dei valori di pace e giustizia universale che avevano sancito la grandezza di Roma. Si vede un protagonista complesso e a tutto tondo, non solo poeta e amante, ma anche uomo di cultura partecipe del suo tempo. Primo sonetto: funzione proemiale per porre le premesse essenziali della vicenda. Il testo presenta lo scavo interiore di un io che dialoga e riflette su sé stesso, configurandosi come unico vero protagonista della storia. Tale riflessione ha l’aspetto del bilancio e si basa sula fondamentale divaricazione tra presente e passato. Al presente della consapevolezza e del pentimento si oppone il passato della vicenda amorosa. L’io lirico registra un radicale cambiamento grazie alla percezione che ha di sé nel tempo. L’esperienza amorosa è descritta nei termini dell’errore, che significa traviamento, ma ha in sé anche il senso dell’erranza, del vagare senza meta in balìa di sentimenti contrastanti e fuori dalla portata di un dominio razionale. Le vane speranze e il vano dolore sono i due poli opposti di queste incontrollabili fluttuazioni. L’amore sarà poi rappresentato come un incoerente oscillare tra questi due sentimenti. La condanna morale dell’amore è totale perché comporta la dispersione di sé in un’infinità di frammenti in cui l’io non è in grado di riconoscersi. Il presente della scrittura coincide con una presa di coscienza. L’uomo del passato è vittima delle perturbazioni dell’animo. Il frutto di questa presa di coscienza è la vergogna, da cui deriva il pentimento, abbandonarsi all’amore è un vero e proprio peccato. Al pentimento subentra la lucida consapevolezza, il conoscer chiaramente quanto sia inutile e pericoloso smarrirsi nelle passioni mondane perché destinate a perire. La sentenza finale è frutto di questo razionale ritorno alla coscienza. S’è vero che quanto piace al mondo è breve sogno, allora all’io lirico va il compito di tornare a guardare la sua esperienza alla luce della certezza della morte e in vista della salvezza dell’animo. Per l’innamorato poeta tornare a guardare l’esperienza del passato significa null’altro che scrivere. La scrittura è mezzo attraverso cui comporre l’anima in tumulto, dare una forma unitaria ai frammenti. Varia è la scrittura perché varia è la coscienza di chi scrive. Solo una volta riconsegnata alla memoria, tale varietà riceve la vestizione ordinata del libro. La storia che si inaugura è quella di un percorso della coscienza che ricerca il dominio di sé. L’io lirico si presenta diverso da quello passato, perché nonostante il pentimento e la conversione, il suo sentimento non si è del tutto estinto. Emerge un ulteriore importante aspetto: l’assunto del libro, e cioè la condanna sul piano etico della storia raccontata, rivela una lacerante esitazione. L’iter del protagonista non lineare e coerente. La sua normale progressione è sempre distorta da ripensamenti, dubbi, ritorni nuovi e cominciamenti. La concezione di amore. L’innamoramento per Laura ha inizio con il loro primo incontro. Il sonetto si apre con la sovrapposizione tra i raggi del sole e gli occhi dell’amata. Questa giustapposizione tra dimensione profana e trascendente dà la prima decisiva impronta a tutta l’impostazione del tema amoroso. Già al momento del primo incontro appare evidente che Laura rappresenta una distrazione per il poeta cristiano, che non partecipa a dolore universale per la passione di Cristo. L’amore è pulsione irrazionale. Su questa pulsione erotica l’io si divide tra la voluttà del desiderio mortale e il suo ripudio. Al primo polo rimandando componimenti di esaltazione delle virtù nobilitanti dell’amata, che tengono legato a sé l’io lirico. Alla condanna morale i componimenti che esprimono la disperazione dell’io su cui signoreggiano Amore e Laura, nei panni di una crudele nemica. Petrarca vuole fornire una giustificazione filosofica dell’amore mondano attribuendogli un valore etico-religioso, sia in quanto espressione concreta dell’universale amore divino, sia in quanto grazia esclusivo viatico per la salvezza dell’anima. La sezione in morte. La canzone 264 I’vo pensando, et nel penser m’assale inaugura la seconda sezione della raccolta. Il testo è importante per due motivi: lo ha scritto in contemporanea al secretum e apre la sezione in morte. Il mutamento del poeta avviene sulla base del tenace dissidio tra volontà e conoscenza. I due soliti pensieri ossessivi gli impediscono una scelta risolutiva: amore e gloria. I due sentimenti sono insopprimibili. Petrarca mette in scena il paradosso di un conflitto irrisolvibile: la consapevolezza della vacuità delle sue passioni, e l’impossibilità di affrancarsene del tutto. Mentre lo assillano il dolore e la vergogna per una vita condotta nella direzione sbagliata, il piacere di questi nodi non lo scioglie dai suoi lacci. Il dissidio rimane e la canzone 264 non può che chiudersi con una disperante sospensione di chi non smette di nutrirsi di una norma razionale. La guarigione è ancora rimandata e il finale del libro è tutt’altro che univoco. A una lettera continuata degli ultimi testi sembrerebbe che la condanna morale non convinca del tutto Petrarca. Il testo più rappresentativo di questa ambiguità è il 360, con un contrasto tra l’amante e Amore, un dialogo di fronte al tribunale della Ragione. Amore è accusato di aver negato la felicità all’io lirico. Risponde alle accuse dicendo di aver consentito al poeta di nutrire il cuore e l’intelletto conquistando la gloria con i versi da lui ispirati. Fuoco del dibattito è il conflitto tra amore sacro e profano, perché se l’amante lamenta che il sentimento carnale lo ha fatto allontanare da Dio, dal canto suo Amore lo rimprovera di non aver saputo riconoscere che quel sentimento e Laura sono scala al Fattor; la passione cioè avrebbe potuto condurlo a quel processo di elevazione spirituale e redenzione che tanto insegue. Ragione viene invitata a dare un giudizio che non è altro che una ulteriore diffrazione. Dunque, le contrastanti voci interiori restano senza risposta. I versi finali stanno lì proprio a denunciare che queste due forze sono facce della stessa medaglia. Sembra allora che l’amore non turba soltanto gli equilibri razionali di chi lo prova, ma è anche il turbamento dell’ordine provvidenziale: è illusorio credere che una creatura mortale possa condurre alla salvezza, perché questo significherebbe anteporre l’amore terreno a quello divino. La storia del Canzoniere si dipana tra presente, passato e futuro; è una conseguenza necessaria della catena narrativa del libro. Alla successione dei componimenti è assegnato il compito di rappresentare il passaggio da una condizione a un’altra. classici latini e ai grandi capolavori in volgare, Dante su tutti. Così, dopo un periodo di formazione da autodidatta, Boccaccio compone la Caccia di Diana (1333- 1334), un poemetto in terzine in lode di alcune nobildonne napoletane. È poi la volta del Filostrato (1335, anche se spesso la datazione delle opere di Boccaccio ha sollevato molti dubbi), poema in ottave che narra le vicende amorose di Troilo, figlio del re troiano Priamo. Il Filocolo (1336-1337) è invece un romanzo in prosa già più maturo, dedicato a descrivere l’amore tormentato di Florio e Biancofiore. Un altro poema d’amore, questa volta di sapore epico (tanto che l'autore recupera la divisione in dodici libri tipica dell'Eneide), è il Teseida delle nozze d’Emilia, composto tra il 1339 e il 1340. Con questo poema rivendica il primato di aver aperto anche al volgare toscano la via della narrativa epica, dedicata all’onore e alla guerra. Le gesta militari di Teseo fanno da sfondo alla contesa amorosa tra Arcita e Palemone, innamorati della giovane Emilia, con continui riferimenti al codice cortese. Caratteristica comune a tutte queste opere (e poi centrale in quasi tutta la produzione boccaccesca) è il sentimento amoroso, non di rado di natura autobiografica. Boccaccio, ad esempio, maschera spesso dietro il nome di Fiammetta una certa Maria d'Aquino, presunta figlia di Roberto d'Angiò e musa d'amore per il giovane scrittore. Nel 1340 Boccaccio, a causa di problemi economici che affliggono il padre, deve rientrare a Firenze, lasciando l'amata Napoli. Qui la vita si rivela subito molto diversa dai continui svaghi partenopei, e Boccaccio, spinto anche dalle ristrettezze finanziarie, si concentra sulla propria produzione letteraria: tra il 1341 e il 1342 scrive un prosimetro, la Comedia delle ninfe fiorentine, e conclude nel 1343 un voluminoso poema allegorico-didattico, intitolato l'Amorosa visione. Tra il 1343 e il 1344 si dedica ad un componimento in cui domina nuovamente il ricordo di Napoli, l'Elegia di Madonna Fiammetta, una specie di lunga lettera in nove capitoli, in cui la protagonista femminile, allontanandosi dalla tradizione letteraria dell’epoca, racconta le proprie sofferenze d'amore, occupando un ruolo decisamente attivo ed originale per il tempo. È il primo romanzo in prosa di tutta la tradizione occidentale in cui una donna narra la propria storia in prima persona: Fiammetta, che esprime il suo dolore per essere stata tradita e abbandonata da Panfilo. Napoli qui gioca un ruolo chiave, in virtù della sua organizzazione narrativa. Con la controfigura di Fiammetta, Boccaccio ripercorre il repertorio amoroso di matrice ovidiana e provenzale. Nel giro di un decennio passa dalla prosa al verso e dalle terzine all’ottava, ma compone opere che spesso non hanno precedenti nella letteratura occidentale, se non dal punto di vista del mero contenuto. Si rivolge sia a Dante che a Petrarca, destinatario della sua seconda epistola in latino. Costretto a tornare a Firenze nel 1340, termina la Teseida e la Fiammetta iniziando poi altri progetti. Abbiamo la Commedia delle ninfe fiorentine, un prosimetro in versi dove si racconta l’incontro del pastore Ameto con sette ninfe. Poi l’Amorosa visione, poema allegorico in terzine che illustra tramite lo schema della visio la sala di un castello dove sono rappresentati i seguaci della Sapienza; coloro che hanno aspirato alla gloria mondana; quanti si sono macchiati di avarizia; e il trionfo di Amore. Agli anni 1344-1346 risale pure il Ninfale Fiesolano, poemetto in ottave sull'amore di Africo e Mensola con cui Boccaccio vuole celebrare, attraverso il mito, la Firenze del tempo antico. Dopo la peste del 1348, inizia il suo capolavoro, il Decameron, che concluderà nel 1351: l'opera, una raccolta di cento novelle raccontate da dieci giovani narratori in dieci giorni, non è solo il testo più celebre dello scrittore fiorentino, ma una vera e propria sintesi di tutto il mondo comunale e mercantile del tempo, e uno dei libri più importanti per l'intera narrativa occidentale. Dopo questa magistrale prova, Boccaccio modifica, almeno in parte, i propri interessi di scrittura: successivo al Decameron, oltre ad opere di carattere erudito, è infatti il Corbaccio (1354-1356), un’aspra invettiva contro il genere femminile, che muta profondamente l’atteggiamento dell'autore rispetto alla tematica amorosa. Mentre comincia a ideare il Decameron, incontra Petrarca, dando inizio a un soadalizio tra i due intenso. Il legame induce Giovanni a seguire Francesco sulla via della riscoperta degli autori latini. L’amicizia non è priva di incomprensioni, soprattutto per quanto riguarda Dante, venerato da Boccaccio ma non da Petrarca. L'ultimo periodo di vita, caratterizzato anche da difficoltà economiche e personali, è insomma per Boccaccio quella della meditazione esistenziale ed intellettuale: alla riscoperta dei classici corrisponde il sempre vivo interesse per Dante, cui Boccaccio dedica un Trattatello in laude (1365, ma la prima redazione è precedente di qualche anno) e una serie di pubbliche letture della Commedia a Firenze. Lo scrittore, ormai anziano e malato, si spegne a Certaldo nel 1375. Il Decameron. Giovanni Boccaccio comincia la stesura del suo capolavoro, il Decameron, a pochissima distanza dalla grave epidemia di peste che devastò l’Europa nel Trecento, intorno al 1349 quindi, e continuando il lavoro di scrittura e revisione fino al 1353. Alcuni dati lasciano intendere che almeno le prime tre giornate, e le rispettive novelle, circolassero già prima della stesura definitiva dell’opera: in apertura della quarta giornata infatti, troviamo un’introduzione dell’autore in cui questo difende il suo lavoro dalle critiche che dovevano essere state rivolte alle prime novelle. Nonostante le critiche, l’opera trova un pubblico immediatamente entusiasta! Fino al XVII° secolo vengono copiati manoscritti di ogni fattura e in ogni ambiente sociale (codici ricchi o poveri, posseduti da mercanti oppure a corte) e con la nascita della stampa il Decameron sarà uno dei testi più diffusi dalle tipografie. Pietro Bembo, nel delicato periodo che nel Cinquecento è noto come “questione della lingua” propone di utilizzare il Decameron come testo a modello della prosa letteraria, una proposta accolta con grandissimo successo. Non fu sempre una storia felice quella della circolazione dell’opera però: nel 1559 venne inserita nell’Indice dei libri proibiti ma continuò a circolare sia in forma clandestina – schivando la censura – sia in strane copie “moralizzate”, cioè mutile delle parti più licenziose e corrotte secondo il giudizio della Chiesa. In riferimento alla struttura narrativa del Decameron si parla di una “cornice” entro cui vengono ad inserirsi le novelle. Questo espediente, è un tipo di struttura molto diffuso nella letteratura medievale (sempre molto attenta a offrire testi ordinati, coerenti e ricchi di richiami interni ragionati). In cosa consiste allora? La cornice è la situazione di base e di partenza del racconto, è la situazione narrativa entro la quale si decide di raccontare novelle che figurano come una seconda situazione narrativa, un secondo grado della narrazione. La cornice viene presentata subito all’inizio dell’opera: un gruppo di giovani, sette ragazze (Pampinea, Fiammetta, Filomena, Lauretta, Neifile ed Elissa) e tre ragazzi (Panfilo, Filostrato e Dioneo) si incontrano a Firenze, nella chiesa di Santa Maria Novella, mentre la città è devastata dalla terribile peste del ’48. Per sfuggire alla malattia e per dimenticare la sofferenza e la desolazione che regna a Firenze, i dieci ragazzi decidono di abbandonare la città e di trasferirsi, un mercoledì mattina, in campagna, in una villa circondata dalla natura, luoghi ameni, e da una pace incontrastata. Per tenere lontano ogni cattivo pensiero e ogni cattiva notizia che potrebbe giungere dall’esterno, i giovani decidono che, a turno, racconteranno ognuno una novella per intrattenersi e riflettere sul significato di ogni storia. A decidere il tema a cui ogni novella dovrà rispondere sarà il re o la regina della giornata: ogni giorno verrà eletto un giovane del gruppo che arbitrerà i racconti. Pensando a questo passatempo dobbiamo ricordarci che le letture e l’ascolto pubblico di novelle, cantari e facezie, era un’attività diffusissima nel medioevo. Immaginare dei ragazzi che si incontrano per raccontarsi novelle e storie fantasiose potrebbe far pensare al prototipo di un gruppo di ragazzi di oggi che si consigliano – e poi vedono assieme – dei film famosi e particolarmente appassionanti! Questa, quindi, la cornice entro la quale si vengono ad inserire cento racconti diversi, ognuno con un proprio tempo, una sua trama, un tema, uno spazio. Non potendo riassumerli tutti ecco di seguito un piccolo schema dove, associato ad ogni argomento del giorno, vengono presentate le novelle più significative della giornata. Ci sono tre livelli principali: 1. Primo (proemio + introduzione alla quarta giornata + conclusione; l’Autore che si rivolge al destinatario dell’opera, cioè le vaghe e delicate donne, quelle dotate di animo sensibile) 2. Secondo (novella portante, in cui i Narratori raccontano a turno una novella rivolgendosi ai compagni di brigata). 3. Terzo (le cento novelle vere e proprie). La novella è quindi divisa in tre cerchi: 1. Più esterno, Autore e Lettrici 2. Il mediano, la vita della lieta brigata 3. Più interno, l’azione delle novelle. Ogni volta che leggiamo una novella dobbiamo ricordarci che è una performance realizzata all’interno del cerchio 2, nonché un momento della comunicazione che avviene nel cerchio 1 tra l’Autore e le Lettrici. Temi e argomento delle novelle sono suggeriti dal re o regina della giornata ma, a prescindere da questa scelta, tutta l’opera è caratterizzata dal ricorso a quattro particolari tematiche che è necessario avere ben chiare:  Le donne: Boccaccio compone il suo capolavoro pensando alle donne, ai loro tormenti amorosi e al fatto che, a differenza degli uomini, queste non hanno modo di distrarsi dalle pene sentimentali se non ricorrendo al piacere del racconto. Oltre a essere delle dedicatarie d’eccezione, le donne sono nel Decameron un personaggio costante. Troviamo donne sensualissime che suscitano desiderio erotico, personaggi invece più timidi e materni e addirittura figure fiabesche e magiche. Attraverso tutte queste sfaccettature è possibile rappresentare ogni possibile angolazione delle femminilità.  Alla donna si accompagna il tema dell’amore e del desiderio amoroso. Anche qui Boccaccio mostra una grande versatilità perché l’amore non è rappresentato in una sola accezione ma lo troviamo a volte comico, altre struggente e passionale, altre ancora casto o idealizzato.  L’avventura è un altro importante tassello in questo gigantesco quadro: la stragrande maggioranza delle novelle si dispiega attraverso la narrazione di viaggi avventurosi che recuperano materiale e ambientazioni dal romanzo francese o dalla fiaba. Non vengono visitati solo mondi terreni ma anche territori magici che mettono l’uomo in rapporto con forze benigne o maligne dando l’opportunità all’autore di riflettere sulla volubilità dell’animo umano e dei vizi. A questo si collega il discorso sul rapporto fra Natura e Fortuna: l’uomo nel suo vagabondare per il mondo avrà sempre a che fare con due forze, una esterna che è la Fortuna, e una interna che è la sua stessa e personale Natura. Gestire questi due stimoli significa saper affrontare la vita.  Tematica religiosa: religione e clero sono elementi centrali intorno a cui ruota tutta la vita del comune uomo trecentesco e medievale in generale. Nonostante questo, e in linea con un certo gusto canzonatorio e polemico, Boccaccio non si lascia scappare l’occasione di criticare, attraverso i personaggi ignobili delle sue novelle, gli atteggiamenti più ipocriti di tanti uomini di chiesa. principali punti qualificanti dell’opera, sono armonizzati dal codice della cortesia, a lungo il principio unificatore del sistema delle virtutes cavalleresche. Boccaccio si immette in questa linea, in un contesto fiorentino caratterizzato da una stratificazione sociale più articolata di quanto non fosse il mondo feudale. Il ceto dirigente delle città italiane è una realtà ibrida, in cui gli esponenti del ceto mercantile convivono coi membri di una più o meno antica aristocrazia cittdina e con le famiglie di ricchi possidenti provenienti dal contado. L’assimilazione del modello aristocratico cortese franco-provenzale contribuisce all’elaborazione di una norma comportamentale fatta propria dal Decameron. Rispondono al modello anche quei casi in cui la non perfetta sovrapponibilità tra la prospettiva feudale e quella comunale produce delle tensioni, sotto il profilo economico. Ma nell’età cortese è fondamentale la misura, il controllo razionale, la ponderazione della situazione e delle persone con cui si ha a che fare. Consideriamo anche il carattere relazionale e contestuale della cortesia, che contribuisce a regolare i rapporti tra gli individui, stabilendo una rigida contrapposizione con la villania e l’avarizia. La centralità della cortesia è confermata anche nel registro comico. Ma il trattamento più complesso riguarda la X giornata, dedicata alla magnaminità, alla grandezza d’animo, le novelle illustrano come la cortesia sia una virtù che presiede alle forme dell’interrelazione umana. Ha una natura politica. Rapporto tra chi esercita la magnificenza e chi ne viene gratificato. Un’epopea dei mercatanti, espressione di Vittore Branca. Il Decameron è testo di origine del Rinascimento, perfetta rappresentazione della nuova età dei Comuni, con i suoi statuti scritti, la sua alta conflittualità, l’intraprendenza dei nuovi ceti che si differenziano dal sistema feudale chiuso in tre status sociali tra loro impermeabili. Un mondo nuovo, dove si esaltano quelle doti umane della giovinezza e della reattività. La conoscenza che Boccaccio aveva dell’ambiente dei commerci e della nuova realtà economica è evidente. Ci invita però a considerare la letteratura con regole autonome. Si possono individuare dei rapporti di omologia tra la vita materiale del tempo e le strutture formali dell’opera. Ma questo non ci autorizza a dedurre che gli aspetti artistici derivino dalla condizione storica. L’epopea dei mercantanti appare adeguata se pensiamo alla preminenza quantitativa di questo tipo di personaggi. Il sistema di valori proposti dalla raccolta boccacciana non può coincidere con la pratica del commercio e l’accumulazione di ricchezze: l’avarizia è sinonimo di cupidigia, caratteristica specifica del mondo mercantile non compatibile con la cortesia. L’arte della parola. Il Decameron è esaltazione delle capacità espressive dell’uomo. L’arte della parola coinvolge tutti e tre i livelli. L’abilità espressiva è centrale soprattutto nel terzo cerchio, visto che quasi la totalità delle novelle si basa sulla capacità di utilizzare le risorse del linguaggio. Ma i massimi vertici dell’arte della parola sono raggiunti nell’ambito comico, tanto nelle novelle di motto, in cui l’intelligenza umana si concentra in poche battute, sia in quelle di beffa in cui la macchinazione operata ai danni dello zimbello viene realizzata grazie all’arte del discorso. La parola umana è ambigua e ambigui ne sono gli usi e le conseguenze possibili. Nella Conclusione, infatti, Boccaccio si sofferma sulla responsabilità dell’interpretazione. Le donne devono mostrare di sapersi abbandonare al piacere dell’ascolto narrativo e devono saper comprendere le coordinate culturali, etiche e sociologiche delle novelle. Le donne ammesse nel circuito dell’opera devono mostrarsi capaci di interpretare i racconti, di stabilire con le narrazioni non solo una relazione empatica, ma anche un rapporto ermeneutico, di comprensione e messa a distanza, nonostante il coinvolgimento emotivo, fondamentale per comprendere il significato profondo di una storia. Le opere in latino. Negli anni del Decameron risale il precisarsi di un nuovo progetto letterario, segnato dall’influenza di Petrarca e caratterizzato dall’impiego della lingua latina e dall’interesse erudito. Le opere che rientrano in questa esperienza mirano al recupero dei modelli antichi e ambiscono a una grande sintesi, capace di collegare il mondo classico e la tradizione biblica alle esigenze del presente. A questo scopo, Boccaccio si impegna su due fronti di scrittura: 1) le opere erudite; 2) le raccolte narrative d’impianto storico. Il Corbaccio. Operetta allegorica del 1366, narrata in prima persona da un protagonista disperato per l’amore non corrisposto di una vedova. Invocata la morte, riceve l’apparizione del defunto marito della donna mandato da Dio per salvarlo dal labirinto d’amore in cui è caduto. Forte è l’invettiva all’amore che risponde a precisi modelli medievali. La poesia del Trecento L’esperienza petrarchesca sarà destinata a rimanere isolata e senza epigoni almeno fino alla fine del Trecento. È invece la prima circolazione della Commedia a costituire uno spartiacque decisivo nella tradizione letteraria a cavallo tra XIII e XIV secolo. La Commedia rappresenta anche la suprema autorizzazione e il principale vettore di promozione di quell’eclettismo tematico e stilistico che è stato da tempo riconosciuto come il tratto più appariscente di questa stagione poetica. Il libro di poesia del Trecento presenta quasi mai un ordinamento interno che consenta di intravedere un pur embrionale sistemazione storico-letteraria. Il mutato quadro politico e sociale non poteva non comportare conseguenze anche sul piano degli ambienti della produzione culturale. Lo status dei rimatori era di funzionari di corte, professionisti al soldo delle istituzioni o uomini di estrazione popolare. Importante fu anche il moltiplicarsi dei luoghi di produzione e di circolazione della letteratura. La dispersione geografica di un gran numero di letterati determina l’assenza di scuole riconoscibili e il proliferare di esperienze individuali, radicate nelle realtà municipali di provenienza, che procedono e si sviluppano in totale autonomia le une dalle altre. Il tema amoroso non è più esclusivo, ci sono anche: la politica, la morale, l’autobiografia, l’allegoria, la narrativa. Le più vistose novità sono legate all’affacciarsi sul panorama letterario di un pubblico nuovo di estrazione borghese e cittadina, che favorisce la sperimentazione di inedite forme d’espressione. Il Trecento è il secolo della canonizzazione dello Stilnovo, in Veneto e Toscana. Il Veneto rappresenta punto di accoglienza ideale di molti fuoriusciti toscani, a cominciare da Dante. Si assite a un trapianto della cultura letteraria toscana in area veneta che vede la sua prova più eloquente nei codici di rime prodotti nel triangolo tra Padova, Treviso e Venezia. Nicolò de’ Rossi: Due codici dove si riconosce un progetto editoriale coerente addebitabile a un unico responsabile che insieme divulga un canone di poeti e suggerisce un programma letterario. La rappresentazione della varia casistica amorosa si svolge in termini singolari. Tende a far incrociare la selettività linguistica e la raffinatezza retorica della tradizione alta con modalità espressive che virano verso un registro comico. Il tema cortese dell’innamoramento che passa attraverso lo sguardo è svolto in termini drammatici: l’angoscia e il tormento che stringono l’amante, la reiterata metafora bellica, il disfacimento dell’essere come conseguenza d’amore (Dante e Cavalcanti). Giovanni Quirini: il primo imitatore veneto di Dante, attivo nei primi decenni del secolo ed è autore di un centinaio di componimenti tra amore e didattico-religione. La diffusione della Commedia ha effetti anche sulla fortuna del genere allegorico- didascalico. I primi lettori della Commedia ne valorizzano il carattere di summa encicolpedico-dottrinale e repertorio storico-mitologico. Essa diventa un grande serbatoio di temi e immagini facilmente esportabili. La terza rima risulta molto presto una veste metrico-strofica di notevole versatilità e adattabilità a contesti narrativi differenti, replicabile per fornire ai testi un ritmo calcolato e una forma variabile secondo un gusto o un’intenzione particolare. Fuori dall’alveo della lirica d’amore di matrice stilnovista, la poesia breve assume forme nuove e diversificate. La poesia cortese si abbassa a una tonalità meda e il linguaggio comico viene adottato per trattare di argomenti più elevati, come l’amore o la morale, tradizionalmente appannaggio della lirica. Si assiste a una vera e propria fusione degli stili che pervade generi metrici e tematici diversi. Cronaca politica, precettistica morale, autobiografia, vita quotidiana trovano espressione in una sorte di registro intermedio che doveva trovare maggiore circolazione e apprezzamento presso un nuovo pubblico cittadino e borghese. L’allargamento del pubblico della poesia è uno dei principali vettori di innovatività nella storia letteraria trecentesca. Non è un caso se è proprio in questa regione della produzione poetica trecentesca che si registrano le principali novità del secolo. Lo sviluppo del capitolo ternario è tra i fenomeni più appariscenti. Il successo della commedia si manifesta anche al di fuori della forma poema. La terzina viene adottata da non pochi rimatori per componimenti relativamente brevi caratterizzati dalla sovrapposizione tra il racconto in prima persona e una narrazione che procede per stazioni o quadri che si susseguono senza soluzione di continuità. È in questa fase che il capitolo ternario diventa un modello adatto a ospitare usi espressionistici prima ignorati, improntato a un procedimento seriale-argomentativo, sostenuto da formule fisse ripetitive, aperto a contenuti eterogenei e a un registro medio-basso. Questo passaggio importante getta le basi per la fortuna che nel Cinquecento il ternario conoscerà come metro specifico del genere satirico. L’Umanesimo Due elementi riguardano la nuova stagione: le forme che gli intellettuali individuano per la loro azione culturale, un’azione sentita come collettiva. Il secondo riguarda l’attrazione dei detentori del potere realizzata dagli umanisti, che pur restando sempre subordinati rispetto ai Signori e ai potenti del loro tempo acquistano una autonomia di azione che si trasforma in capacità di indirizzo politico. L’Umanesimo è la grande stagione del ritrovamento dei manoscritti che conservano le opere dell’antichità classica, rimaste sepolte nelle biblioteche di monasteri remoti. Sono degli antichi tesori. La frontiera umanistica consiste nello stabilire una linea di demarcazione che separa il secolo in cui vivono i nuovi intellettuali dai secoli passati, i cui valori vengono rifiutati. Lo schema temporale: età presente, medioevo, età classica. Grazie al recupero dei manoscritti antichi e alla loro fedele copiatura, gli umanisti restituiscono l’articolati sistema conoscitivo proveniente dal mondo antico, che andava dall’ambito tecnico a quello teorico, dai capolavori della poesia alle vette del pensiero scientifico. Ci si serve della retorica, del primato della parola umana, che ambisce ad estendere le proprie conoscenze ai più diversi settori del sapere. È il caso delle scienze matematiche, ritenute fino ad allora sussidiarie e limitate all’applicazione della vita pratica, che ora assumono una grande importanza. I modelli antichi sono modelli concreti che vanno incarnati nel quotidiano. La passione per gli antichi si presenta come un ideale culturale, un modo per differenziarsi rispetto alle generazioni precedenti. Gli umanisti sono esperti conoscitori delle lingue e delle letterature classiche, come dimostra il significato della stessa parola umanista che nel 400 significa professore di lettere. L’umanista è un retore che evince dalla lettura delle opere antiche anche dei contenuti morali, un ammaestramento valido per la vita attiva di ogni giorno. Gli studis humanitatis sono basati sul concreto lavoro di riscoperta, lettura e comprensione di un insieme molto preciso di testi. L’Umanesimo è dunque un grande processo di riappropriazione dei testi antichi, vissuti come modelli di vita. Il rapporto con gli antichi non è però privo di contraddizioni. La grande stagione greco-romana si è sviluppata prima di cristo, e la quasi totalità dei testi ammirati sono stati scritti da autori pagani. Si crea la necessità di distinguere la bellezza dello stile e la verità delle loro affermazioni. Il latino dei classici era poi diverso da quello biblico. Nel corso del 1400 allora gli umanisti venivano accusati di paganesimo, e la loro ammirazione era giudicata con sospetto. Importante fu l’UniPd, dove spicca l’azione culturale di Lovato dei Lovati. L’importanza dell’ambiente padovano va considerata in rapporto con i massimi autori del nostro Trecento. Al versante universitario padovano si può contrapporre la dimensione civile del mondo fiorentino, dov’è fondamentale la stretta connessione tra cultura umanistica e gestione dell’amministrazione pubblica. L’esperienza di Firenze non rappresenta un esempio tipico del rapporto tra umanisti e potere politico. Rispetto all’età comunale, la nuova età signorile vede una varietà di posizione degli umanisti rispetto all’azione di governo. La stessa scelta linguistica rappresenta un sintomo della loro condizione: se infatti scrivere in latino significa avvicinarsi ai grandi modelli classici anche nelle cose che riguardano la vita di tutti i giorni, d’altra parte ciò significa allontanarsi dalle consuetudini dei propri contemporanei e presentarsi come un’entità ben distinta all’interno del complessivo corpo sociale. Al tempo stesso nella nuova realtà signorile incentrata sul sistema della corte gli umanisti svolgono la loro attività stringendo un maggiore accordo coi detentori del potere. Caso interessante è anche quello delle corti padane, emiliane e romagnole dove l’Umanesimo orienta in modo profondo le pratiche culturali più diffuse, dalla edilizia laica e religiosa all’urbanistica, dal gusto archeologico per le immagini antiche alla riscoperta del teatro. Le accademie si presentano come centri in cui gli umanisti organizzano lo scambio intellettuale sul principio dell’otium, ossia delle indipendenze rispetto agli impegni quotidiani. Viene così rafforzata la sodalitas, ossia il riconoscimento reciproco degli intellettuali come corpo separato rispetto al potere e caratterizzato dall’amore per lo studio e per la discussione disinteressata, libera dagli obblighi della dipendenza gerarchica. Non si propongono come strutture nelle quali ci si dedica a questioni astratte, gli umanisti conservarono un interesse pragmatico e concreto verso il mondo, tanto più che questa è l’età della decompartimentazione del sapere. Cercano di coltivare tutto il sapere. Questa apertura disciplinare e la conseguente ambizione a liberare lo studio dal vincolo della dipendenza da un signore vengono viste con sospetto da chi controlla il potere politico. Col tempo le accademie verranno sottoposte a un controllo più serrato, con l’irrigidimento delle strutture e dei protocolli che regolano l’accesso, limitandone la facilità e imponendo degli esami di ingresso. Il nuovo sistema delle accademie ha un corrispettivo letterario di estremo interesse. Al pari dell’effettiva esperienza storica, che vede gli umanisti organizzarsi in un sistema di scuole e circoli di condivisione del sapere, anche per le soluzioni espressive offrono un’evidente rappresentazione dell’ideale di comunicazione paritaria tipica di questa epoca culturale. L’epistola, scritta in latino e ispirata ai modi del rapporto di amicizia, appare diversa dalla produzione tipica delle cancellerie e segreterie medioevali, quando le lettere erano modellate sulla rigida formulistica della Artes dictaminis. Ora la lettera è espressione di un ideale di familiarità, frutto dell’appartenenza a un comune orizzonte di valori morali e stili di comportamento, che trova adeguata corrispondenza nella lingua e nello stile. Un colloquio diretto, parole che al tempo stesso sono il segno di una cultura profonda e di un sentimento d’intimità tra i due interlocutori. Si può dire lo stesso col dialogo, un genere letterario caratterizzato da una forte teatralità, giacché vengono rappresentati dei personaggi che discorrono tra di loro. Se si ricorda che l’umanesimo è basato sulla centralità della parola (oratio), si comprende bene l’apprezzamento che gode in questo periodo un genere letterario in cui lo sviluppo dell’azione è affidato allo scambio discorsivo. Alla scoperta degli antichi. Il rapporto diretto col mondo antico (romano e poi greco) è elemento centrale della cultura umanistica. Gli intellettuali elaborano un pensiero e un modello di riferimento comuni, i cui elementi basilari consistono nell’imitazione degli autori classici. Scoprire gli antichi significa leggerne le opere, operazione non semplice date le scarse biblioteche. Si mettono quindi alla ricerca di un patrimonio letterario che sanno essere enorme ma che è andato disperso. Per gli intellettuali attivi nei decenni centrali del 1300 ripercorrere le strade battute dai grandi scrittori latini costituisce un’impresa d i renovatio, rinnovamento integrale. Nasce così la metafora di rinascita con cui gli autori descrivono la propria epoca, seguita al periodo tetro e oscuro durante il quale il rapporto con la cultura classica è venuto meno e il latino si è imbarbarito. È Petrarca a chiarire questa condizione, quando raccoglie nel libro XXIV delle sue Familiares una serie di lettere inviate a illustri personalità del passato, tra cui Cicerone, Seneca e Tito, Livio, Viriglio e Omero. Si vede l’idea di una letteratura come conversazione, scambio paritario tra autori che, grazie alle loro opere, stabiliscono un rapporto reciproco attraverso i secoli. La lettera di Petrarca a Cicerone mostra bene l’intreccio di un sentimento di orgoglio di sentirsi eredi diretti della latinità con l’emergere di una nuova sensibilità storica, che concepisce il tempo come un flusso rettilineo rispetto al quale gli uomini hanno la responsabilità di prendersi cura di ciò che loro giunge dal passato. Nel giro di pochi anni renovatio e restauratio diventano i due assi principali della cultura umanistica. Le lettere di Cicerone all’amico Attilio forniscono il modello per un nuovo modo di stabilire il contatto reciproco all’insegna dell’amicizia e dell’eleganza formale. Si crea un primo barlume di quella che sarà poi la Repubblica delle Lettere, di quel sistema reticolare di rapporti che a partire dal 1500 attraverserà l’italia e tutta l’europa tenendo insieme il mondo dei dotti e degli artisti. Le lettere permettono agli umanisti di riconoscersi in un sistema condiviso, che nel giro di pochi anni si precisa anche come rapporto di compresenza. Ciò avviene nei cenacoli, che sono aggregazioni private, solitamente svincolate da regole e obblighi ufficiali. Questa libertà costituisce la sodalitas umanistica, aggregazione intellettuale autonoma basata sul riconoscimento reciproco. Poesia e Prosa latina del Quattrocento Dopo la grande stagione delle Tre Corone, chiusasi nel 1375 con la morte di Boccaccio, è ancora Firenze a giocare un ruolo centrale nella promozione della grande stagione dell’Umanesimo. COLUCCIO SALUTATI: Sarà cancelliere della Repubblica di Firenze nel 1375. Centrale sarà la produzione epistolare e lo scambio, come strumento di dialogo e di confronto. Nel 1399 si indirizza al monaco Giovanni da San Miniato, componendo un elogio della poesia classica e difendendo così la necessità di studiarla contro le accuse di chi la riteneva segnata dall’orizzonte pagano. L’elemento più importante del rilancio della lezione di Petrarca nel nuovo secolo che Salutati compie riposa nell’accento posto sulla prospettiva morale, sulla riflessione etica come fondamento primo nella conoscenza dell’uomo. Un testo esemplare è il DE FAT ET FORTUNA, opera incentrata sul rapporto tra la libertà del volere umano e il dogma di onniscienza e prescienza divina. Di argomento politico sarà il DE TYRANNO, che ragiona sulla legittimità dell’eliminazione del tiranno, concentrandosi sull’antico esempio di Giulio Cesare. Ha il valore di testamento l’ultima lettera scritta al cardinale Giovanni Dominici, nel 1405, mirata alla difesa della poesia classica. Segna una limpida affermazione dei valori dell’Umanesimo nella risposta al Lucula noctis di Dominici: non c’è nessun contrasto tra la lettura dei pagani classici e quella dei testi sacri, perché anche i secondi sono caratterizzati da una scrittura di natura poetica e la loro interpretazione trae giovamento dalla conoscenza della letteratura antica. Salutati arriva a proporre una sorta di giunzione tra orizzonte classico e fede cristiana, una mediazione che sarà messa in dubbio da alcuni dei suoi discepoli. Poggio Bracciolini e Leonardo Bruni, figure che si inseriscono in questa cultura latina, allievi di Salutati. Grandi scuole e ideali dell’umanesimo. Nel 1397 Manale Crisolora tiene a Firenze corsi di lingua e cultura greca. È il primo protagonista dell’inserimento della cultura greca nel panorama dell’umanesimo italiano. Tiene una serie di corsi che consentono una conoscenza della lingua, come premessa di una nuova ricezione della tradizione antica. Tradurrà in latino la Repubblica di Platone, avviata a Pavia. Inizia una riappropriazione della filosofia classica che passerà attraverso nuove e più corrette traduzioni delle opere di Platone ed Aristotele, anche in anticipo sulla grande operazione avviata da Ficino nella seconda metà del secolo. La formazione di matrice umanistica viene ritenuta un passaggio necessario per la formazione delle nuove classi dirigenti. Le conoscenze di lingua e di retorica si congiungono con lo studio dell’etica condotto attraverso le letture delle opere morali di Aristotele e Cicerone, per determinare una formazione organica, nella quale possano intrecciarsi una solida competenza retorica e una conveniente crescita della persona e del carattere. Gli studi letterari si dispongono come primo gradino per una formazione organica; convenienti e necessari ad ogni genere d’uomo fondamentali per gli uomini di lettere, orientati al recupero della memoria dell’antico. medievali si diffondono grazie ai romanzi in prosa, genere di cui il maggiore esponente è Andrea da Barberino. I suoi romanzi sono indirizzati a un pubblico borghese di mercanti e incontrano un notevole successo: Guerrin Meschino, i Reali di Francia. La letteratura religiosa rispecchia un duplice atteggiamento: ascetismo e impegno sociale espresso per mezzo della predicazione. Si fa strada un rigoroso evangelismo con accenti mistici. POESIA. Grazie all’iniziativa di Alberti, il 22 ottobre 1441 si tiene a Firenze il Certame Coronario, una gara di poesia in volgare dedita a rilanciare l’uso del volgare come lingua della cultura. Il tema principale è l’amicizia, nessun vincitore, i testi non sono ritenuti all’altezza. Importante sarà l’intervento di Lorenzo de Medici, che promuoverà il volgare come strumento di affermazione politica. Risuonano gli echi del petrarchismo, come modello tra i tanti. Intorno alla metà del 1400 nasce la prima forma di petrarchismo lirico di ambito cortigiano e nella seconda metà del solo la lirica finisce per coincidere col patriarchismo. Tra i primi a inaugurare questo percorso c’è Giusto de’ Conti, letterato itinerante fra vari poli culturali della penisola e tra i principali esponenti della lirica di corte al di fuori dell’area toscana. Nel 1400 la poesia volgare conosce un tentativo di celebrazione ufficiale grazie ad Alberti. La produzione della rimeria comico-realistica, legata a una dimensione popolareggiante, è segnata da una certa continuità con l’esperienza trecentesca, come testimoniano anche i vari rifacimenti di testi, in special modo di sonetti. Burchiello, si colloca nella tradizione locale che aveva fatto del motto, dell’arguzia e della passione linguaiola alcuni dei suoi vessilli. I sonetti alla burchia (14 endecasillabi e una coda) mettono in scena situazioni caotiche, paradossali, parodiche, e irreali facendo leva sulle potenzialità della lingua e su un uso di termini rari, oscuri, gergali, di ascendenza popolare, nonché su metafore talvolta di non acie interpretazione. L’effetto è uno disorientamento che il lettore subisce. LA CULTURA DELLE CORTI Nel corso della seconda metà del Quattrocento, c’è una lunga stagione di stabilità, il cui avvio si individua nella pace di Lodi del 1454. Il policentrismo politico è anche terreno sociale politico che consente lo sviluppo di una cultura di eccezionale livello nelle singole corti, che divengono così luoghi di elaborazione di modelli culturali destinati a costituire per almeno due secoli i fondamenti della società dell’Antico regine in tutta Europa. La corte diventa centro di irradiamento di una nuova cultura che ha il compito di offrire un ritratto idealizzato e splendido delle singole realtà politico, come anche di proporre paradigmi culturali, etici ed artistici che divengono una sorta di collante ideologico di un’intera società. La corte è soggetto della letteratura e delle diverse manifestazioni artistiche, che ne descrivono con grande efficacia i valori, e il suo destinatario ideale, perché grazie alla rappresentazione artistica e letteraria si consolida progressivamente un terreno comune. Il nuovo rapporto gerarchico tra lingua latina e volgare. Nella seconda parte del solo si assiste alla crescita marcata del prestigio del volgare, considerato strumento espressivo d’eccellenza, legittimato a stare alla pari con il latino, che resta comunque lingua di prestigio. Un secondo mutamento riguarda la diversa definizione del ruolo che ‘intellettuale è chiamato a interpretare rispetto al potere politico, perché ora tale relazione è definita soprattutto attraverso le forme del mecenatismo. Si assiste infatti a un progressivo passaggio verso una maggiore subordinazione dello scrittore, ora impegnato in una attività culturale che ha come principale obiettivo la celebrazione della corte presso la quale è ospitato e, più in generale, della Signoria in cui opera. È importante ricordare che la geografia, politica, segnata come abbiamo visto da un forte policentrismo, ha come conseguenza che le medesime istanze culturali siano declinate in modo diverso nelle varie realtà. Si viene così disegnando, nella mappa dell’Italia del secondo Quattrocento, un vivacissimo quadro di espressioni culturali affini ma non identiche, spesso in un rapporto di sottile competizione tra loro. Di assoluta centralità resta in questo periodo la politica culturale di Firenze, promossa e sostenzialmente diretta da Lorenzo de’ Medici detto il Magnifico. Una prima è costituito dallo sviluppo della riflessione filosofica che si può ricondurre all’Accademia di Marislio Ficino. Attraverso la sua opera speculativa non solo si ridefiniscono alcune esperienze letterarie, specie la poesia di amore, che acquista un senso del tutto nuovo, ma si profila anche la possibilità di ripensare il rapporto con il pensiero cristiano. Una seconda direttrice è sostenuta da Lorenzo in prima persona, è costituita da una forte rivendicazione di una letteratura volgare a baricentro fiorentino, che va da Dante sino ai contemporanei, autorevole quanto quella latina: eccezionale testimonianza di questa istanza è la cosiddetta Raccolta aragonese, una antologia manoscritta, nella quale si disegna di un’intera generazione di letterati. Ma il tratto veramente distintivo della cultura. È soprattutto il fitto dialogico che si instaura tra le linee appena precisate, in nome del quale cultura filosofica, poesia volgare e grande patrimonio della classicità si intrecciano virtuosamente. Napoli aragonese: molto significativa l’importanza del latino; Ferrara: un dialogo più sperimentale tra il portato della scuola umanistica e la proposta di opere in volgare, tanto nella forma più diretta del volgarizzamento o traduzione, tanto nella forma più diretta del volgarizzamento o traduzione, come avviene per il teatro, quanto nell’innesto di elementi classici in generi tradizionalmente volgari, come la lirica o il romanzo cavalleresco. Un processo di fondazione di una culturale in lingua volgare che ambisce a dare voce a una nuova realtà politica e sociale, a costituire un vero elemento di coesione e di riconoscibilità. In primo luogo le Accademie, cenacoli letterari non sempre rigidamente regolamentati, come saranno invece nel secolo successivo, e spesso in diretto rapporto con il potere politico che ne legittima l’esistenza. L’Accademia platonica di Firenze, che vede come figura centrale Marsilio Ficino, o quella napoletana retta da Pontano rappresentano in questo senso delle esperienze culturali d’avanguardia. È importante una rivoluzione inavvertita che agisce con crescente forza nel corso dei decenni: si tratta dell’invenzione della stampa a caratteri mobili, in virtù della quale di produce, grazie a un nuovo modo estremamente economico e capace di garantire una riproducibilità dei testi insieme efficace e rapida. La tipografia infatti richiede competenze squisitamente tecniche e abilità filologiche, così che tra i torchi delle stamperie si ritrovano umanisti di primo piano accanto a intelligenti interpreti del nuovo strumento tecnologico, soprattutto a Venezia, che ben presto assume una posizione di assoluto rilievo. Bisogna sottolineare che alcuni generi costituiscono delle esperienze privilegiate, in virtù della loro spiccata capacità di farsi lingua comune e quindi elemento unificante. In questo senso la lirica è senza dubbio il genere che conosce la fioritura più rilevante. Si tratta di una ripresa del modello petrarchesco che è sì esibita ed evidente, ma che spesso ne tradisce il senso più profondo, perché da parte dei poeti quattrocenteschi non viene più posto l’accento sul sofferto scavo dell’interiorità a detrimento di tutti gli aspetti del mondo esterno. In questi anni l’imitazione di Petrarca si realizza dunque attraverso una sorta di lessicalizzazione. Se la lirica viene quindi piegata alle esigenze della corte, questa medesima spinta motiva anche la nuova attenzione che si registra per il teatro, inteso come momento di spettacolarizzazione della cultura. Viene infetti prendendo forma una vera e propria pratica teatrale, attenta a tutti gli aspetti tecnici, capace di avanzare una prima mediazione tra la tradizione antica e le forme del moderno. Il passaggio dal manoscritto alla stampa Una mirabile invenzione. La stampa a caratteri mobili può essere considerata una delle grandi innovazioni tecnologiche del mondo occidentale moderno. L’invenzione andrebbe in realtà attribuita a un artigiano cinese. A buon diritto la paternità va riconosciuta a Gutenberg, egli fu il responsabile dei due principali accorgimenti che rivoluzionarono il mondo del libro. Creò i caratteri tipografici, piccoli parallelepipedi di legno, alla cui sommità viene modellata la forma della lettera desiderata. Fornisce alta libertà dietro la lavorazione del libro. Modifica anche la formula chimica dell’inchiostro, portandolo a un nero lucido. Con la stampa si apre la possibilità di ricavare centinaia di esemplari uguali dalla stessa matrice, si passa al regime tipografico dove vige il principio dell’identità delle copie. In italia la novità fu esportata da dei chierici tedeschi, portando ad accrescere le ambizioni editoriali. Viene anche innovata la grafica, con l’imitazione dell’antiqua, la tipica scrittura umanistica. L’officina tipografica è un luogo in cui vigono i procedimenti dell’industria. Abbiamo: il libro da banco, pergamena e formato grande, grafia gotica su due colonne; il libro umanistico, di formato e materiale vario, una colona; il libro da bisaccia, di formato piccolo, di carta, trascurato, senza margini e due colonne. Il sistema dei libri a stampa si organizza su quello dei manoscritti, sicché i volumi di classici antichi o di opere moderne degli umanisti si presentano in formato medio, col testo a piena pagina e i margini ben calibrati. La compresenza di forma manoscritta e veicolo tipografico è dunque determinante anche per la storia del libro in volgare. Luglio 1501: il raffinatissimo stampatore Aldo Manuzio pubblica le cose volgari di messer Francesco Petrarcha, un libro in formato piccolo col testo stampato su una sola colonna, margini discreti e un nitido carattere corsivo. Il nuovo libro appare preciso nell’allineamento delle righe, rigidamente incolonnato, coi caratteri ben distinti tra loro. La novità infastidisce i lettori abituati al vecchio modello. L’irritazione nasce di fronte al massiccio uso di apostrofi e segni diacritici, cioè di quell’insieme di convenzioni grafiche che segnalano gli accenti, le elisioni, la caduta o la contrazione di lettere e sillabe. Il lavoro in tipografia spinge dunque a una certa normalizzazione dei criteri grafici e delle forme testuali, con effetti importanti anche sul tessuto linguistico, che tende ad assumere una fisionomia uniforme nei vari centri di prodizione. Le opere vengono sottoposte a un processo di revisione che va dall’intervento sulla morfologia delle parole alla loro resa grafica e al sistema dell’interpunzione. L’effetto complessivo è quello di una progressiva semplificazione, che favorisce la stabilità delle forme linguistiche. Se la stampa è un fattore di mutamento culturale, a essa si deve la nascita dell’età moderna, ciò accade dunque per l’impianto ottico del nuovo supporto librario, basato su spaziatura, linearità e omogeneità. Il dominio dell’occhio nella fronte si accompagna così a quello dell’occhio nel cervello, favorendo il primato di un vedere profondamente intellettuale. L’ambiente laurenziano Lorenzo de Medici è l’abile regista della vita intellettuale fiorentina del suo tempo, capace di fare del rinnovamento culturale un elemento fondamentale dell’arte di governare. È anche la poliedricità la sua cifra peculiare dell’attività letteraria e della personalità di Lorenzo, avvalorato dal parere espresso nel libro ottavo delle Istorie Fiorentine, da Niccolò Macchiavelli, che afferma che si vedeva in lui essere due persone diverse, quasi con impossibile congiunzione congiunte. Lorenzo riceve una educazione umanistica, però preferisce la letteratura volgare e si dedica allo studio della tradizione toscana. Quando è ancora adolescente scrive l’operetta mitologica in terzine Corinto, sull’amore non corrisposto del pastore Corinto per la ninfa Galatea, e comincia a comporre litiche di ispirazione petrarchesca. La posizione e l’incolumità di Lorenzo vengono messe in pericolo dalle mie espansionistiche di Girolamo Riaro, signore di Imola. La famiglia dei Pazzi sfrutta infatti l’occasione per accordarsi con l’arcivescovo di Pisa Francesco Salviati e con il placet del papa per ordire una congiura che sfocia, il 26 aprile 1478, nell’uccisione nella cattedrale di Santa Maria del Fiore di Giuliano (RIP Giulià, ti abbiamo voluto bene ☹). È il primo dramma profano in lingua volgare, e dimostra la grande capacità di Poliziano di sperimentare. Il testo offre una mobilità virtuosistica anche dal punto di vista dei metri, che si alternano e si intrecciano secondo un principio di varietas, declinando i modelli classici silenziosamente riscritti da Poliziano. Sylvae: ciascuna elaborata dall’esordio di un ciclo di lezioni riservato ai classici. L’estrazione accademia e il confronto diretto con i classici comportano una stratificazione ancora più marcata della componente erudita, accentuano la riscrittura dei modelli che vengono ora ripresi da autori maggiori e minori, latini e greci, andando a pescare nei territori più impervi grazie a una padronanza della tradizione classica che negli anni è diventata sempre più solida. Sono un manifesto del valore nobile e quasi sacro della parola poetica, capace di portare al suo interno dottrina e conoscenza, e dunque civiltà. Mette a punto un metodo filologico che mira al recupero della parola originaria degli antichi, sanando le corruttele depositate da una tradizione secolare. L’ambiente ferrarese e Boiardo La Ferrara estense. Sotto la casa d’Este, la cultura ferrarese si trasforma: subisce una svolta nel 1429 con l’arrivo di Guarino Guarini, chiamato da Niccolo III come professore universitario: grecista, fonda una scuola che diverrà un posto celebre, con studenti da tutta Europa richiamati dalla sua persona e da un modello educativo che punta a una formazione graduale dell’uomo. Dall’incontro fra classicismo guarniano e tradizione cortese nasce il peculiare gusto del Rinascimento ferrarese. E sarà assecondando anche il gusto e le necessità degli Este che Boiardo scriverà l’Innamoramento di Orlando. Matteo Maria Boiardo. Egli è un uomo di corte, quindi il nesso fra politica e servizio cortigiano e poesia sta alla base dell’esercizio di Boiardo e all’origine delle sue opere. La sua attività letteraria si concretizza in opere chiuse, dall’architettura perfetta, caratterizzate da studiatissime simmetrie e proporzioni numeriche, e al tempo stesso aperte, mosse da una prodigiosa capacità narrativa, animate da una vitalità che si radica nel grande valore attribuito all’amore, fonte e culmine degli ideali cavallereschi e letterari, e dall’esuberante e raffinata humanitas boiardesca. La sua carriera letteraria è in continuo rapporto con la corte di Ferrara dove si trasferisce tra il 1461 e il 1462, stringendo subito un rapporto privilegiato con Ercole, governatore di Modena dal gennaio 1463, di cui Boiardo sostiene sempre la successione a Borso. L’esordio poetico: Carmina e Pastoralia, formata da un carme di dedica e 10 testi per celebrare le imprese napoletane di Ercole e il suo ritorno a Ferrara grazie a Borso. Con l’alternarsi dei metri costruisce la raccolta, con una costruzione accurata che gli consente di ostentare virtuosismo e uno sperimentalismo metrico che lo pongono all’avanguardia fra i poeti latini del momento. Pastoralia: 10 ecloghe, come le Bucoliche di Virgilio, ma di 100 versi ciascuna, una costruzione inedita per il tempo, che lo fanno risalire all’archetipo del genere (Virgilio) e inserendosi nella recente tradizione bucolica ferrarese (Strozzi). Si presenta come rifondatore del genere bucolico, altrove come poeta ispirato da Amore. Celebra la coppia estense Borso-Ercole e poi esalta il valore di Ercole per le sue imprese nel sud Italia. Epigrammata: uno scenario di guerra, sono 11, tutti per Ercole. In questi anni, su commissione di Ercole, traduce alcune opere classiche o medievale (De viris illustrius, Ciropedia, Istoria imperialis, le Storie di Erodoto, le Metamorfosi di Apuleio). Nel gennaio 1476, Ercole chiama MMB come suo compagno a Ferrara. A corte ha un incarico legato alle opere letterarie iniziate e ad altre nuove: i volgarizzamenti, la stesura dell’Innamoramento di Orlando, e una canzone lirica in volgare. Amorum libri tres: una storia di amore ricambiato, disillusione, malinconia e pentimento che si svolge tra la primavera del 1469 e la fine di quella del 1471. La narrazione è legata a un evento storico che colloca gli AL prima che Boiardo superi il limite estremo per rendere accettabile una folle passione amorosa. Estremizza e regolarizza le forme petrarchesca: i modelli metrici dei Fragmenta sono complicati in modo sperimentale e virtuosistico e la struttura del canzoniere è più evidente ed esattamente simmetrica. Raccontano di una storia poiché i tre libri corrispondono a tre diversi momenti di una vicenda fatta di eventi, personaggi, luoghi. La prima ad essere nominata è l’amata, il cui nome e cognome sono dichiarati nell’acrostico composto dalle iniziali dei primi 14 testi e da quello dell’iniziale dei 14 versi del sonetto: Antonia. Il racconto inizia con una felicità in un sonetto che descrive l’approssimarsi dell’amante a Reggio. L’acme amorosa fa subito seguito la rottura con Antonia che respinge l’amante. Da qui i dolori dell’amante perdurano per tutto il libro II, dove Antonia lo tradisce. Va via da Reggio per poi tornarci, ritorno che coincide con la primavera, anniversario dell’amore e memoria della passione di Cristo che invita a un pentimento. Nel terzo libro l’amante persevera nell’amore e Antonia gli si mostra pietosa. Le fa seguito la dolorosa separazione da Antonia per seguire Borso a Roma. L’inquietudine data dalla vanità dei piaceri terreni e la consapevolezza del mutare d’età danno luogo a una riflessione sul cattivo impiego del tempo trascorso che culmina con la conclusiva preghiera a Dio. La visita a Roma durante la Quaresima motiva il pentimento religioso che sigilla gli Amorum libri in un modo che è stato ritenuto forzoso. Al di là dell’anticipazione del II libro si nota che gli AL narrano una piccola porzione della vita dell’io lirico e sono estranei al lavoro memoriale petrarchesco: sono un’opera provvisoria, primaverile, una poesia estroversa. Il pentimento chiude una fase dell’esistenza, chiude il libro ma il libro non chiude la vita che prosegue verso altre età e altre esperienze. Amore è connaturato alla gioventù come il ben sole (idem in Rvf 1), il caldo e i fiori della primavera: errore sarebbe stato vivere senza di esso nell’età adatta. Il rimpianto è legato alla propria ingenuità, agli inganni, alla amara fede che ha provocato lo sdegno, non all’aver amato. Boiardo propone un itinerario modello a un pubblico di cortigiani, letterati e uomini d’arme, di cui costruisce e celebra l’ethos, cioè i rituali mondani: la società cortigiana è lo sfondo delle gioie e pene narrate negli AL. Come nella felicità così nel dolore, la donna e le corte sono unite nella prospettiva di Boiardo, durante la permanenza a Roma Ercole è evocato assieme all’amata. All’uomo maturo resteranno solo gli Este che non mancano all’appello neppure alla meno ufficiale delle opere boiardesche. L’Innamoramento di Orlando: lasciato incompiuto per la morte di Boiardo. È caratterizzato da una dizione orale, solo in parte fittizia, che determina alcune fondamentali peculiarità del poema. Fa riferimento a una modalità romanza non classica di produzione e fruizione dell’opera: il modello di riferimento non sono qui le opere scritte dagli antichi, ma le recite di cantari cavallereschi dei cantimbanchi sulle piazze delle città italiane del Quattrocento. L’attenzione di sposta dallo stile all’invenzione, alle cose nove che sono dilettose. Il continuo succedersi di storie diverse, portate avanti contemporaneamente, il cui racconto si interrompe sempre sul più bello per passare al racconto di un’altra vicenda narrativa: entrelacement, ereditata da Boiardo dai romanzi francesi. Il passaggio da una storia all’altra dipende dal capriccio del poeta e dal suo rapporto col pubblico. la figura del poeta assume un ruolo e una presenza costanti nel testo, commentando la storia. La novità è l’ossimoro di un Orlando innamorato: il paladino per eccellenza, devoto e casto alla guerra, memoria di un eroe cristiano, inserito in un contesto amoroso a lui estraneo. Personaggi carolingi che vivono nell’universo letterario del ciclo bretone. La grande tradizione poetica italiana aveva sempre declassato il mondo cavalleresco arturiano come immorali menzogne. Boiardo fonda il primato della corte arturiana sull’Amore, che viene il valore fondamentale dell’ethos guerriero e cavalleresco. Amore è un’inarrestabile forza naturale, cosmica, civilizzatrice, che risveglia l’uomo e lo conduce al bene per sé e per gli altri, a una vita lontana dal vile attaccamento ai beni materiali, piena e intensa. Tuttavia lo stesso amore se perseguito in modo ossessivo può essere fonte di smarrimento per l’uomo. Il poema è concepito in funzione delle esigenze politico-dinastiche estensi. Dal libro II introduce Rugiero, che discende dal mitico eroe troiano Ettore, destinato a sposare Bradamente, a morire giovane, ma ad essere il progenitore degli Este. La discendenza da un eroe troiano è innovativa, e significativa poiché tutte le case regnanti d’Occidente si mettevano al paio degli Imperatori romani la cui gens discendeva da Enea. Consente agli Este di porsi allo stesso livello e di dotarsi di una nobile ascendenza storico-mitologica. Il romanzo si interrompe sull’innamoramento di Fiordispina per Bradamante, con un’ottava che registra la rovina d’Italia. Ottava emblematica perché mostra che in Boiardo l’incanto del racconto è cosa distinta ma non distante dalle lotte dinastiche e dalle crisi politico-militari del tempo. L’ambiente napoletano Nel 1442 Alfonso V d’Aragona prende il controllo del Regno di Napoli e assume il titolo di Alfonso I re di Napoli. Comprende presto il ruolo di legittimazione che alla nuova corona può derivare da una corte di letterati: coglie il valore politico di un mecenatismo che porta avanti lungo i due decenni centrali del secolo. Numerose opere che mirano alla celebrazione del principe, che ingigantiscono la figura di Alfonso e l’umanesimo aragonese assume una forte impronta monarchica: nasce il mito del Magnanimo, di un sovrano virtuoso e illuminato, sostenitore delle lettere e ripagato da una celebrazione in chiave di principe ideale. Panormita. La sua esperienza presso la corte aragonese si delinea sotto il segno dell’assunzione del ruolo di intellettuale impegnato nell’azione di governo. Si avvia un ventennio di collaborazione con Alfonso e insieme di celebrazione del sovrano che assume forma più organica dopo il 1442. Alla morte di Alfonso si sposta al servizio di Ferrante, modello di principe di un opera encomiastica (liber rerum gestarum Ferdinandi regis), un racconto della giovinezza del principe ricalcato in questo caso sul precedente della Ciropedia di Senofonte. Il Panormita lascia un segno profondo nella Bembo contribuì a determinare le regole della lingua italiana e i modelli culturali e le forme di una nuova civiltà letteraria. Mette a fuoco un progetto nitido, tale da permettere la fondazione di una cultura capace di cogliere le eredità dell’Umanesimo, ma di proiettarle in una dimensione aperta a una modernità che aspira a diventare classica sotto il segno della lingua volgare. È proprio la scelta consapevole di puntare tutte le sue risorse sul volgare la chiave del grande consenso che arride alla sua proposta. Bembo riceve una educazione umanistica, grazie alla vigile attenzione del padre, appassionato studioso e possessore di una straordinaria biblioteca di classici latini e greci. De Aetna (1496): prima opera data alle stampe, che offre un’immagine quanto mai eloquente dei suoi interessi, come anche della sua personalità, tratteggiata in rapporto sottilmente contrastivo con quella del padre. Il dialogo ha un forte sapore erudito, con una fitta trama di prelievi da autori classici, a testimonianza di una spigliata conoscenza del patrimonio antico, arricchita con riprese da Petrarca e si osserva una prima messa in scena elle differenze tra padre e figlio. Sarà stampato da Aldo Manuzio, editore con cui allestirà una collana di classici latini e greci, cui Bembo affiancherà Petrarca e Dante, collocati sul medesimo piano dei modelli antichi, segno di una loro riconosciuta appartenenza al canone dei grandi classici. Bembo lavorerà con una piena fiducia nella filologia, portando correzioni del Canzoniere a lezioni errate, suddividendolo in due parti e arricchendolo di elementi grafici. Gli Asolani (1505): scritti a Ferrara, si tratta di un dialogo sul tema amoroso che si inserisce nella ricca tradizione che su questo argomento si era venuta producendo già sul finire del Quattrocento. Ambiento ad Asolo, presso la corte della nobildonna Caterina Cornaro, si celebra il matrimonio di una giovane coppia di aristocratici. Nelle pause dei festeggiamenti nuziali, tre giovani e alcune donne avviano una discussione sul tema dell’amore e i suoi effetti, in una cornice di stampo boccacciana. Il dialogo è diviso in tre libri: amore infelice, amore felice, confutazione delle due interpretazioni, rilettura del fenomeno amoroso secondo linee neoplatoniche, riconoscendo in esso una strada di perfezionamento dell’uomo. Il problema dell’esperienza amorosa è di carattere filosofico, dato che questa passione è compresa nella sua vera essenza solo da pochi eletti: a questi si apre la strada per un camin dritto e securo, la scala di perfezionamento di ascendenza neoplatonica. La morte del fratello lo segna al punto da scrivere Alma cortese, che dal mondo errante, atto di nascita del classicismo petrarchesco: un lessico e una struttura metrica di Petrarca + modelli classici come Catullo. L’esperienza a Roma sarà molto significativa in quanto centro del dibattito riguardo l’imitazione avuto con Pico della Mirandola. Il centro è la determinazione del canone degli autori giudicati esemplari: imitazione di modelli plurali (Pico) o un modello assoluto (Bembo: Viriglio e Cicerone)? L’ipotesi di Bembo è in nome di un processo imitativo che è un momento educativo, di apprendimento stilistico ed etico. Prose della volgar lingua (1525): un trattato in forma dialogica, nel quale affronta il problema della lingua italiana per definire una norma grammaticale e individuare i modelli eccellenti da imitare. Il dialogo si ambienta a Venezia nel 1502 e vede come protagonisti alcuni amici di Bembo a cui ognuno è assegnato un ruolo. Si articola in tre libri: nel corso dei primi due viene discussa e proposta la scelta del canone e dei criteri stilistici che permettono di determinarlo, nel terzo si procede una illustrazione più analitica delle norme grammaticali proposte. L’esigenza da cui prende le mosse la trattazione di Bembo è la necessità, sentita con drammatica urgenza, di uscire da una situazione di crisi legata al particolarismo delle lingue cortigiane, condannate per il loro radicamento nelle contingenze storiche e geografiche che le originavano, alla precarietà e all’oblio. Questa necessità risponde alla volontà non solo di affermare la piena maturazione della cultura volgare, ma di volerne promuovere la supremazia. Le Rime sono un atto fondativo di una lingua, di una letteratura e di una società che si poteva rappresentare attraverso la lingua. Bembo dichiara in apertura del dialogo di volersi occupare della lingua scritta e partire dall’assunto che non esista una lingua se alle sue spalle non v’è una letteratura che la forma e la legittima. Nei primi due libri: discussione sul canone allo scopo di indicare i modelli eccellenti che avrebbero poi costituito le basi per definire la norma definitiva del volgare. Il terzo libro: illustrazione delle norme linguistiche e grammaticali. Rime (1530): intende offrire un modello concreto, un campione esemplare della nuova lingua poetica. La stampa delle Rime rappresenta il meditato bilancio di una lunga stagione, il risultato di una attività di poeta quasi quarantennale. Confeziona un libro di Rime che deve proporsi come esemplare applicazione delle norme stilistiche e linguistiche descritte nelle Prose e divenire modello di un nuovo canzoniere. Il profilo ultimo del libro vede 146 testi, strutturato in una lunga parabola che include il tema amoroso, in versi in morte del fratello e l’ampio insieme dei componimenti indirizzati ai suoi sodali. Importante è la volontà di dare al libro in rime un valore esemplare di modello, con un lavoro di raffinamento dell’imitazione petrarchesca, e la propensione ad accogliere con maggiore disponibilità temi e tessere della grande poesia classica. Iacopo Sannazzaro Iacopo Sannazzaro è una figura esemplare per comprendere il passaggio della cultura letteraria e linguistica italiana dal Quattrocento al Cinquecento e la ripresa del classicismo. Grazie a lui la cultura napoletana si proietta in una dimensione europea. Tutta la produzione di Sannazzaro fa tesoro della lezione dei classici, alcuni dei quali riscoperti e studiati, e rinnova dall’interno generi tradizionali. La formazione intellettuale avviene nella Napoli aragonese, seguendo due direttrici: latino e volgare, e la conoscenza del greco arricchisce le sue competenze e la possibilità di esplorare la cultura antica. L’Arcadia: è un prosimetro di natura pastorale, fitto di richiami classici e intriso di elementi simbolici. I modelli: Vita Nova, Commedia delle ninfe fiorentine e Decameron. Divisa in 12 parti, precedute da un prologo e concluse da un congedo. L’alternarsi di prosa e poesia permette al narratore di muoversi fra due differenti modalità: nella prosa si concentra l’aspetto più narrativo, nella poesia più lirico. È una letteratura dell’utopia, un rifugio alternativo alla realtà e vicino alla mitica età dell’oro, che nel finale viene smentita. Nelle prime parti viene descritta la regione dell’Arcadia, dove vivono alcuni pastori che si cimentano in gare di canto. Nella settima prosa apprendiamo che anche lì ci sta il narratore-autore, Sincero, che vive tra i pastori. L’apparente serenità del luogo non riesce a far dimenticare le angosce al protagonista, turbato da continui segni inquietanti e la stessa Arcadia appare come una prospettiva deludente incapace di porsi come alternativa al mondo ideale. Nella dodicesima prosa: viaggio infernale al termine del quale torna a Napoli e apprende della morte dell’amata. Il romanzo mette a fuoco una crisi collettiva. Tema dell’esilio, del desiderio di un luogo paradisiaco a fronte di una realtà minata da pericoli, guerre e instabilità; tema della morte che percorre il testo e si manifesta in modo tangibile nel finale. Rappresenta il prodotto di un raffinato scavo tra gli autori classici e i maggiori letterati del Trecento. Il racconto si presenta come espressione di un mondo umile e naturale, eppure nasconde una complessa e raffinata operazione di intarsio delle fonti e un lavoro sulla lingua. Può essere letto come un percorso interiore. Sonetti et canzoni: inciderò su tutta lirica cinquecentesca. L’opera è espressione di un colto e raffinato petrarchismo napoletano. Nel sonetto di apertura c’è nello sfondo la caducità della vita, la riflessione continua sulla capacità della poesia di innalzare e sulla sua funzione eternatrice, preannunciando alcuni dei temi affrontati nelle liriche: gloria e fama. Ludovico Ariosto Ariosto lavora guidato dalla convinzione di un assoluto primato del fare letterario come sede per la celebrazione degli ideali più alti (la bellezza, la virtù, l’amore) e insieme luogo di disvelamento delle loro cadute, di infrazioni, limiti e debolezze dell’agire umano. La sua è una poesia capace di celebrare e immortalare la grandezza ma anche di cogliere e osservare bassezze e vizi, con uno sguardo ora sdegnoso, a una vena di disincantato che rende spesso sfuggente e inafferrabile la posizione dell’autore. Ariosto può essere considerato l’ultimo rappresentante di quel glorioso sogno dell’Umanesimo che aveva attraversato le esperienze più alte del Quattrocento. Nasce a Reggio Emilia nel 1474, a Ferrara inizia una fase di apprendistato che rimane abbastanza in ombra, dove si collocano le prime prove poetiche, in latino e volgare, ma che è soprattutto segnata dallo studio condotto alle lezioni del maestro Gregorio da Spoleto. Al servizio degli Este, vede la sua esistenza mutare profondamente dopo la morte del padre, nel 1500, e lo vedrà assumere il ruolo di capofamiglia e da qui in avanti deve orientare le sue scelte pensando al mantenimento di una famiglia ampia. Accetta una serie di mansioni dentro e fuori Ferrara, e nella seconda metà del 1503 entra al servizio del cardinale Ippolito d’Este. Ariosto stringe con lui un rapporto di dipendenza cortigiana destinato a durare quindici anni. L’impego a corte gli garantisce una prossimità costante al cardinale ma non una prosperità economica, lasciando in una condizione di bisogno che lo costringe a prendere gli ordini minori, per ottenere alcuni benefici ecclesiastici. Progetta di comporre un poema in terzine a celebrazione della casata: nasce l’Obizzeide, mirato a celebrare le imprese di Obizzo d’Este, eroe della dinastia vissuto nel primo Trecento. Le Rime: Dimostra una conoscenza approfondita della lirica latina, una posizione sospesa tra classicismo e petrarchismo. La sua lirica percorre molti dei tasselli tradizionali del patrimonio petrarchesco, con esiti solo a tratti felici, e che possono sembrare ancorai ai modi della poesia cortigiana. Sulle Rime grava una duplica ipoteca: la mancanza di un’edizione a stampa e la assenza di una volontà strutturale da parte dell’Ariosto riguardo le proprie rime, la mancanza di un impianto di macrotesto sul modello petrarchesco. Il primo Furioso (1516): Sotto il segno di Ippolito, esce la prima edizione del suo poema, destinato alla lettura nelle corti, la cui produzione e legame con l’Innamoramento suscita molto interesse. L’opera subirà numerose revisioni e correzioni e all’inizio lui è l’unico a capirla. L’edizione del 1516 ha già un impianto definitivo, sia per la proposta della materia della prima ottava, materia imperniata sulla guerra tra Carlo e i Mori, sia per la novità inaudita della follia di Orlando per amore, elemento che porta all’iperbole l’Innamoramento di Boiardo. È già fissata l’equivalenza tra la follia di Orlando e quella del narratore, con un riferimento autobiografico relativo alla passione per Alessandra Benucci. È già un capolavoro di valore assoluto, distinto dall’edizione del 1532. Il poema lascia intravedere un rapporto stretto con le vicende contemporanee, dalle battaglie che scandiscono le guerre di Italia alla corruzione e alla crisi del clero alla vigilia delle tesi di Lutero. Si omaggia ora Ippolito, ora Alfonso d’Este, ora Francesco I, divenuto re alla vigilia della stampa. Baldassare Castiglione Il percorso di Baldassare Castiglione è legato alla corte. Frequenta da cortigiano e diplomatico alcune tra le più importanti corti dell’Italia centrale e settentrionale e d’Europa, osservando le complesse dinamiche del potere che si manifestano. Sperimenta si prosa che poesia, spesso con prove di natura occasionale e a fini encomiastici. Nel 1507 pubblica il Cortegiano, che ha come finalità la ricerca di un’idea di perfezione, di un codice di comportamento, di un modello. L’individuazione del perfetto cortigiano, uomo al servizio del principe, è l’esito di un processo dialettico, graduale e articolato che si snoda lungo i capitoli del libro, al cui interno trovano posto riflessioni su argomenti appartenuti alle civiltà del tempo; ne emerge una grammatica del comportamento, costituita da una serie di aspetti che il cortigiano deve fare propri: grazia, buon giudizio, sprezzatura. A Milano, negli anni 90 del 1400, avrà la sua formazione umanistica e inizia ad essere affascinato della corte sotto Gonzaga a Milano. Nel 1503 a Roma scrive un sonetto che racconta della visione dei resti dell’Antica Roma. Le sue rime risentono dell’esperienza di Petrarca e saranno scritte durante il soggiorno a Roma, quando nelle corte sarà presente Bembo. Nel 1504 entra al servizio del duca di Urbino, e lavora a una favola pastorale con il cugino, un’egloga che si delinea come una poesia celebrativa. Nel 1528 pubblica il Libro del Cortegianato: un trattato in forma dialogica ambientato alla corte di Urbino nel 1507. Il dialogo, di derivazione platonica e ciceroniana, permette di dare vita a varie voci e presentare differenti punti di vista. Nel libro I: immagine del perfetto cortigiano; nel libro II: si illustra in quale modo e in quali tempi il cortigiano debba impiegare le proprie capacità; nel libro III: Giuliano de Medici addita l’ideale della donna di palazzo; nel libro IV: Bembo personaggio tratta dell’amore come mezzo per accedere al divino. La collocazione del dialogo a Urbino si legge come omaggio alla corte dove ha trascorso molto tempo, riconoscimento di una dimensione ideale che trascende anche le motivazioni di stampo personale. Vari sono i percorsi tematici: il problema della cortigianeria, ossia la definizione del cortigiano e della sua funzione, costituisce una risposta a una situazione contingente, poiché la figura del cortigiano esisteva, ma era priva del rispetto da parte dei principi. Si tratta di una regolamentazione e di una riqualificazione del ruolo di cortigiano, raggiungibile solo a costo di seguire regole ferree e precise che conducano a un comportamento equilibrato, aggraziato e disinvolto in ambiti della vita a corte. Il concetto di sprezzatura indica il comportamento che il cortigiano deve adottare: deve mostrarsi disinvolto, e questa disinvoltura naturale va costruita con lo studio e l’artificio. Il fine ultimo del cortigiano è la professione delle armi. Affronta anche la questione della lingua: deve costituire una sintesi tra l’uso contemporaneo e le varietà presenti in Italia, un’osmosi tra orale e scritto, senza vincolo della tradizione letteraria. Il tema dell’amore è affrontato nel libro III, visto come un gioco, una messa in scena con delle regole; nel libro IV si evidenzia la natura fallace dell’amore sensuale, per illustrare l’amore divino alla ricerca della bellezza sola. Il Cortegiano appare come un’opera attraversata da tensioni di vario tipo e presenta una mancanza di equilibrio. L’assenza di omogeneità è rappresentata dalla distanza tra il I e il IV libro, che sembra rispondere a esigenze differenti, esibendo un discorso morale e introducendo concetti diversi rispetto a quelli precedenti. Avrà grandissimo successo. Niccolò Macchiavelli Niccolò Machiavelli nacque a Firenze nel 1469 da un famiglia modesta e di buona cultura: il padre Berardo era un uomo di legge, possessore di una biblioteca e autore de I Ricordi famigliari; la madre Bartolomea era autrice di rime sacre. Machiavelli ebbe un’educazione umanistica, ma non apprese il greco. Un documento importante per capire la sua formazione è il De rerum natura di Lucrezio che testimonia il suo interesse all’epicureismo, cultura avversa alla religiosità del tempo di Savonarola. Il suo indirizzo è laico. Nel 1498 concorse alla segreteria della seconda cancelleria del Comune, ma non ottenne il posto finché non morì il candidato del partito savonaroliano che lo aveva superato in graduatoria. In seguito divenne segretario della magistratura dei “Dieci di libertà e pace”. Aveva molte responsabilità sulle decisioni di politica estera e interna, missioni diplomatiche e una fitta rete di corrispondenze, così ebbe una grande esperienza diretta della realtà politica e militare. Nel 1499 a Pisa riconquistò la città ribelle, nel 1500 considerò la monarchia di Luigi XII un modello da seguire. Nel 1502 compì una missione presso Cesare Borgia, duca Valentino, che con l’appoggio del padre, Papa Alessandro VI, aveva conquistato Urbino. Egli restò colpito da Cesare tanto da citarlo come modello nel Principe: vide la sua capacità politica nel 1503, quando spietatamente uccise i partecipanti di una congiura contro di lui. Colpito, stese una relazione dal titolo Del modo tenuto dal duca Valentino per ammazzare Vitellozzo Vitelli. Nello stesso anno morì Alessandro VI: successivamente avverrà la caduta di Cesare. Intanto Machiavelli scrisse una cronaca delle vicende italiane tra il 1494 e 1504: Decennale primo, dove esponeva la necessità di evitare le milizie mercenarie. Nel 1507 compì un missione in Tirolo con l’amico Francesco Vettori e ammirò la compattezza dell’esercito germanico e scrisse Rapporto delle cose della Magna. Nel 1511 ci fu lo scontro tra Francia, alleata di Firenze, e la Lega Santa del Papa. I Francesi furono sconfitti così anche i Fiorentini e Machiavelli dopo il ritorno dei Medici fu licenziato. Nel 1513 fu accusato di aver preso parte di una congiura e fu torturato e imprigionato, liberato in seguito grazie alla venuta del Papa Leone X. Si dedicò agli studi ad Albergaccio, mantenne però i contatti con la vita politica grazie all’amico Vettori. In questo periodo scrisse il Principe e i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio e la commedia Mandragola. Tentò un riavvicinamento alla politica tramite i Medici, dedicando a Lorenzo il Principe, e tramite un gruppo di aristocratici che si riuniva nel giardini del palazzo Rucellai, a due di essi Buondelmonti e Cosimo Rucellai dedicò i Discorsi. Morto Lorenzo, salì al potere Giulio (che divenne poi Papa Clemente VII) che lo incaricò di scrivere la storia di Firenze, ottenne poi incarichi in collaborazione con Guicciardini. Nel 1527 si instaura la Repubblica è per il suo riavvicinamento ai Medici, Machiavelli fu emarginato. Morì improvvisamente il 24 giugno 1527. Il Principe: Il 10 dicembre 1513, in esilio in Albergaccio, compose un opuscolo De Principatibus, dove trattava cosa fosse un principato. Ci sono alcuni problemi di datazione, quando sia stato composto e se unitariamente o in fasi diverse e i rapporti che lo legano ai Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio. Si colloca la composizione tra luglio e dicembre 1513 in un'unica stesura, posteriormente ci fu la dedica a Lorenzo (1516). La stesura di quest’opera è stata interrotta, per la composizione del Principe, nel punto in cui si parlava della decadenza degli Stati e dei rimedi. Qui infatti si inserisce il Principe, che dà una soluzione a tali problemi. La dedica ai Medici testimonia un tentativo di avvicinamento e di collaborazione. Il trattato non fu stampato e circolò in una cerchia ristretta, fu pubblicato postumo nel 1532, dando molto scalpore. Pur essendo un'opera rivoluzionaria nel pensiero, si collega alla tradizione della trattatistica politica, anche nel medioevo erano diffusi trattati politici chiamati specula princeps, in quanto dovevano fornire al principe lo specchio in cui riflettersi. Se da un lato il Principe di Machiavelli si riallaccia a questa tradizione, da un altro lo rovescia: mentre i trattati davano un’immagine ideale, egli proclama di voler guardare alla verità effettuale della cosa, propone al principe i mezzi per il mantenimento dello Stato, consigliandogli anche la crudeltà e la menzogna quando le esigenze lo impongono. L’opera ha radici anche nei promemoria che venivano inviati al principe. Con il ritorno dei Medici il genere aveva ricevuto uno stimolo. Il Principe è un trattatello breve di 26 capitoli, in forma concisa e incalzante e densa di pensiero. La materia è divisa in diverse sezioni: capitoli 1-9 esaminano i vari tipi di principato e i mezzi per conquistarlo, distingue quelli ereditari (2) e nuovi (3) che possono essere misti (aggiunti come membri allo stato ereditario) o nuovi del tutto (4 e 5), conquistati con le proprie armi (6) o grazie alla fortuna (7), ancora conquistati con scelleratezza (8) e qui distingue la crudeltà bene e male usata (la prima è per necessità, la seconda cresce col tempo per vantaggio del tiranno). Nel capitolo 9 tratta del principato civile, dove i poteri vengono conferiti dai cittadini; nel 10 esamina la misurazione della forza dei principati. I capitoli 12-14 sono dedicati al problema delle milizie, giudicando negativamente quelle mercenarie che combattono per denaro e che sono causa della debolezza dello Stato. I 15-23 trattano i modi di comportarsi del principe con sudditi e amici, Machiavelli invece che consigliare virtù, va dietro alla verità effettuale della cosa perché gli uomini sono malvagi e il principe deve imparare ad essere non buono, guardando al fine. Il 24 esamina le causa della perdita di alcuni stati, l’ignavia. Il 25 il rapporto tra virtù e fortuna. Il 26 è un’esortazione al principe a liberare l’Italia dai barbari. Il trattato offre la profonda cognizione delle azioni degli uomini grandi, imparata con una lunga esperienza delle cose moderne e una continua lezione delle antiche. È un sistematico sunto di prassi politica, di conoscenze storiche, militari e morali. Il blocco compatto dei capp. 3-10 indica che l’opuscolo è adatto a un principe nuovo, la domanda centrale è come si possa conquistare e mantenere uno stato che non si possedeva. “Volendosi mantenere” è il refrain dell’analisi machiavelliana: la conservazione dello stato impone al principe di porre il suo potere su basi solide che lo rendano autonomo e non dipendente da altri. Ciò significa buone legge e buone arme, ovvero un durevole fondamento legale e un esercizio proprio. Macchiavelli critica l’impiego da parte dei principi italiani delle milizie mercenarie che sono utili e periculose, disunite, ambiziose, senza disciplina. I capitoli scandalosi del Principe, in cui sono consigliati la parsimonia, l’uso della crudeltà se necessaria, l’essere temuto, la simulazione e lo spergiuro dipendono dalla guerra come azione virtuosa. Fra virtù politica e virtù morale non c’è compensazione ma antinomia. Nell’inconciliabilità di fini tra l’uomo buono e il buon politico, nella scelta, imposta dalla realtà conflittuale della storia, fra salvezza dello Stato o della propria anima sta la tragicità della figura del principe, necessitato a essere come un centauro mezzo bestia e mezzo uomo, a sapere cioè combattere con le legge e con la forza bruta perché l’una sanza l’altra non è durabile, bisogna valersi della frode e della violenza, mezzi interdipendenti giacché coloro che stanno semplicemente in su lione non se ne intendano. Macchiavello prospetta un atteggiamento agonistico nei confronti della realtà, accettando la sfida che essa lancia alla ragione e alla prudenza, giacché l’agire politico sta nell’assunzione del rischio di una scelta, difficile ma preferibile all’inazione causata dal tumore. L’azione prudente nasce da un calcolo che permetta di confrontarsi attivamente con le forze in campo. Per ridurre i margini di rischio di quel calcolo serve individuare leggi storico-politiche e di comportamento sempre valide e la presentazione di esempi che la incarnino. Nel Principe figure ed eventi, moderni e antichi, sono ridotti al loro essenziale contenuto politico. Valorizzare l’azione umana significa circoscrivere l’importanza annessa al caso. È centrale il tema del raffronto fra virtù e fortuna. La conquista o il mantenimento dello Stato, il successo o l’insuccesso dipendono dall’abilità di prevedere e indirizzare a proprio favore Machiavelli non è diabolico consigliere come spesso si è voluto far credere nel teatro elisabettiano fino ai romanzi gotici (tuttora per machiavellico si intende ingannevole). Comportamenti malvagi per la morali sono giusti per la politica: è il caso dell’uccisione dei nemici, ad esempio. Machiavelli non fonda una nuova morale, ma individua giudizi che sono regolati secondo i criteri dell’utile e del danno politico. Si dice che il suo pensiero si riassuma nella frase il fine giustifica i mezzi, ma è inesatto, perché Machiavelli non giustifica, constata solo che certi comportamenti servono per mantenere lo Stato. Egli distingue inoltre tra tiranno e principe: il primo opera a suo vantaggio ed è crudele senza necessità, il secondo lo è per la necessità dello Stato. Lo stato costituisce un rimedio alla malvagità dell’uomo: essa può essere ordinata nella repubblica, il cui fine è la cosa pubblica: la durezza del principe deve avere per fine questo bene pubblico. Sono indispensabili perciò patriottismo, solidarietà e onestà, ma gli uomini non essendo buoni hanno anche bisogno di precise istituzioni: la religione, le leggi, le milizie. Machiavelli non è interessato alla religione concettualmente, ma solo in quanto strumento di governo: essa infatti obbliga al rispetto reciproco, o almeno questa era la sua funzione per i Romani, oltre che indurre al coraggio. Nei Discorsi Machiavelli rimprovera la religione di aver indotto gli uomini alla mitezza. Le milizie sono invece il fondamento dello Stato e devono essere composte da cittadini fedeli alla loro patria: ciò rinsalderebbe i legami fra cittadini e patria. La forma di governo migliore è la repubblica e il principato è un’eccezione provvisoria; la repubblica non si basa sulle doti di uno solo ma su istituzioni stabile, questa è la sua forza. Il sistema logico della politica di Machiavelli è un vero sistema scientifico, la cui origine è data dall’urgenza di una soluzione pratica che da lo stimolo alla formazione del pensiero scientifico, che induce ad aderire alla verità effettuale introducendo pure una componente passionale. In lui l’impeto eroico gli da lo slancio volontaristico, non fermandosi al puro calcolo scientifico. Nell’ultimo capitolo del Principe la situazione disperata dell’Italia diviene la situazione ideale per un principe di mettere in atto le sue capacità; il popolo aspetta il suo messia. In questo capitolo, all’analisi scientifica si sostituisce un atteggiamento profetico e passionale. La sfasatura tra l’utopia di un principe e la verità effettuale mette in luce una profonda sfasature tra il pensiero machiavelliano e il contesto storico: egli costruisce le basi per uno Stato moderno ma le condizioni per ciò non esistevano più in Italia. In Machiavelli troviamo uno stile originale: egli rifiuta lo stile aulico ciceroniano del genere trattatistico rinascimentale. Questa scelta deriva dal rapporto che l’opera vuole avere con la realtà: per incidere sul reale non servono ornamentazioni, ma occorre una prosa chiara e immediata. Lo stile è secco e conciso, il periodare è energico e incalzante, il lessico è libero e vario, dove si mescolano latinismi e parole comuni. Una funzione essenziale è data dai paragoni e dalle metafore. Le istorie fiorentine: narrano in otto libri gli avvenimenti dal 1434 al 1492, poi riprende dal 1215, inizio delle lotte fra guelfi e ghibellini. Macchiavelli è interessato al contenuto politico degli avvenimenti e alla dimostrazione della tesi che Firenze deve essere riformata da un uomo (Giulio de’ Medici) che costituisca un governo misto, nel quale ottimati, popolo e istanza monarchica abbiano ciascuno il proprio ruolo e posto. Clizia: la sua ultima opera letteraria, commedia in cinque atti che mette in scena l’amore di un vecchio padre e di un giovane figlio per la trovatella Clizia. Centrale nella commedia è il ruolo della fortuna che favorisce il giovane figlio Cleandro, pur incapace d’azione, scombinando le macchinazioni del padre Nicomaco e imponendogli l’impossibilità di dar orso alla gran mutazione d’indole e azioni causata dall’impazzimento amoroso. Mette in scena anche se stesso nel personaggio di Nicomaco e il proprio senile innamoramento per la cortigiana e cantante Barbara Salutati Raffacani. Francesco Guicciardini Guicciardini è un patrizio e un giurista fiorentino. La scrittura per lui ha un ruolo ancillare e di co-protagonista, funzionale all’attività politica e dedicata all’analisi politico-costituzionale, alla storiografia e alla memorialistica. Le lettere e lo stile divengono espressione dell’ostinata volontà di comprendere e descrivere per via razionale l’imprevedibilità del reale e le sue cause ovvero la miriade di desideri, calcoli, circostanze casuali di cui la storia è impastata. La tensione intellettuale verso l’irrazionalità del mondo e della storia fu dell’opera di Guicciardini uno degli specchi più nitidi della crisi d’Italia primo-cinquecentesca e della sua coscienza. Fin dalla giovinezza si distingue per le ambizioni civili e si dedica all’accurata ed energica costruzione della propria carriera senza corruttela alcuna, non alcuna leggerezza, non perdita di tempo. Riserbo e severità divengono i tratti salienti del suo carattere. Nel 1508 inizia a scrivere per necessità personali e familiari: le Ricordanze, registro delle cose notevoli della sua vita privata e professionale compilato fino al 1527, e le Memorie di famiglia, legate al presente della dimensione individuale e al passato di quella familiare, orientate alla formazione dei futuri Guicciardini. Tra il 1508 e il 1510 compone senza concluderle le Storie fiorentine, dove descrive la crisi dell’aristocrazia fiorentina dal tumulto dei Ciompi fino all’assedio di Pisa. Con l’ottobre 1511 inizia la sua carriera politica, eletto ambasciatore presso il re di Spagna, Ferdinando il Cattolico; ma dopo la vittoria francese a Ravenna, l’esercito spagnolo viene riorganizzato e impiegato per rimuovere il governo di Soderini e consentire il rientro dei Medici. La scarsa attività politica di questi mesi lascia spazio alla redazione di varie opere, e ne inizia una, composta per sé e per la famiglia, che consiste di una serie di regole ricavate dalla propria esperienza politica ed esistenziale che consentono dall’autore-lettore di conoscere la realtà e orientarvisi. È il primo nucleo dei futuri Ricordi. Con il Discorso del mondo di ordinare il governo popolare: la forma dell’assetto costituzionale fiorentino proposta è asincrona rispetto agli eventi che accadono a Firenze e che Guicciardini conosce parzialmente. È un’importante sintesi del suo pensiero politico-istituzionale e della sua idea di buon governo repubblicano. Alle ragioni economico-politiche e morali della debolezza di Firenze è contrapposta una soluzione sul piano istituzionale. Le magistrature esistenti e le esigenze di rappresentanza e di governo cui corrispondono formano per lui un sistema incompleto, messo a rischio dalle pulsioni tiranniche del singolo e dall’ambizione dei molti, da integrare introducendo un Senato, sul modello veneziano del Consiglio dei Pregasi, espresso dagli ottimati, dotato di poteri di consiglio e di condivisione del governo col Gonfaloniere. Il rientro a Firenze e il legame con i Medici sono i presupposti dello sviluppo della riflessione guicciardiniana sul regimento cittadino, affidato al ragionamento privato. Del modo di assicurare lo stato alla casa de ‘Medici: discutendo di virtù e fortuna mostra di aver letto il Principe e riflette sui cattivi risultati del governo mediceo, vissuto come inevitabile e propone che la famiglia dominante faccia del rapporto con altre famiglie patrizie la base del suo consenso ed esercizio del potere. Il 18 novembre 1523 Giulio de’ Medici è eletto papa come Clemente VII: il mese seguente Guicciardini è nominato presidente della Romagna. Qui si inserisce la composizione dei Ricordi: redazione più ampia, denotando una consapevolezza maggiore circa la fisionomia e l’autonomia dell’opera. Il ricordo era presenta anche nella prima serie, ma diviene adesso evidente che il lettore ha in mano una serie di regole le cui modalità di applicazione non possono essere insegnate se non affinando la propria capacità di diretta conoscenza della realtà. La clamorosa vittoria imperiale a Pavia contro i Francesi nel 1525 impone all’Italia il predominio di Carlo V. Il desiderio di impedire la fine della libertà italiana spinge Guicciardini a muovere una lega per contrastare le forze imperiali, quella di Cognac. Guicciardini è il luogo tenente generale dell’esercito papale e cerca di liberare Milano dagli spagnoli. A Firenze l’esto rovinoso della politica papale provoca la cacciata dei Medici e la restaurazione della Repubblica. Rientra allora a Firenze. Nell’autunno compone un trittico di discorsi dove la scrittura torna a essere specchio di sé. L’indagine storica viene portata avanti con le Cose fiorentine, che avrebbero dovuto narrare la storia di Firenze dalla sua fondazione, ma che resta allo stato di abbozzo. Nell’ottobre 1529, in seguito alla pace di Barcellona del 1529 fra il papa e Carlo V, le truppe imperiai assediano Firenze per restaurare il regime mediceo. Negli stessi mesi Guicciardini riscrive i Ricordi, con un andamento più meditativo e una struttura macrotestuale che iniziano dall’assedio di Firenze. Emerge il conflitto tra saggezza e pazzia, il tentativo di spiegare razionalmente il successo di ciò che va contro a ogni ragione del mondo. Si alimentano della caparbia volontà della ragione di confrontarsi con una realtà disgregatasi in una miriade di particolarità, di circostanze singole sottoposte all’arbitrio del caso, con l’impossibilità di trovare leggi di comportamento sempre valide. Non più regole, ma laiche meditazioni per individuare i principi che regolano l’agire dell’uomo nella storia. Sono il distillato della saggezza, il frutto dell’esperienza e la guida nel giudizio della storia e dei suoi personaggi, e sono perciò il centro nevralgico della sua intera opera e riflessione, arricchitasi anche dal confronto con quella di Macchiavelli. Dopo la perdita del governatorato bolognese, si ritira a vita privata e scrive la Storia d’Italia, dal 1490 al 1534. L’età aurea dell’Italia si fonda su un difficilissimo equilibrio fondato sulla deterrenza reciproca fra i principi italiani. Sono le ambizioni, le ipotesi, i calcoli, gli interessi particolari, i caratteri individuali che determinano i rapporti fra gli stati e i loro governanti. All’incipit è sotteso un giudizio di responsabilità politico- morale. Una mostruosa assurdità è causa dello sfacelo di italia perché sono stati i nostri principi medesimi a distruggere la propria libertà, a introdurre una serie di turbazioni dagli effetti incontrollabili che hanno trascinato i popoli alla rovina. La singola mancanza di discrezione diventa la minuscola origine di enormi disastri. E proprio questa sproporzione fra azioni ed esiti mostra che gli uomini non sono gli artefici consapevoli della storia, ma sono inseriti in una serie di case che appaiono susseguirsi in modo necessario e sbalorditivo. MACCHIAVELLI Vs GUICCIARDINI Machiavelli è segretario della Seconda Cancelleria presso la Repubblica di Pier Soderini. Compie importanti viaggi presso Luigi XII re di Francia, Massimiliano d'Asburgo, Cesare Borgia. Scrive relazioni a proposito di queste esperienze politiche, ma non ha responsabilità diplomatiche ufficiali per conto della città di Firenze. Nel 1512, al ritorno dei Medici, cade in disgrazia: è esiliato a S.Casciano. Scrive il Principe nel 1513 ( dove pensa ad un principato nuovo ) interrompendo i Discorsi sopra la prima Deca di Tito Livio di ispirazione repubblicana. Nel 1527 c'è prevalere occasioni narrative, spunti per definire i personaggi, singole battute o sentenze memorabili. La struttura in cinque atti viene adottata universalmente per dare una scansione regolare allo sviluppo degli avvenimenti, con il primo atto deputato a presentare agli spettatori la situazione, il blocco centrale, dal secondo al quarto riservato al complicarsi della trama, sino al suo scioglimento nel quinto atto. In prima istanza si poneva una alternativa tra l’adozione del verso e quella della prosa. C’era anche una forma di plurilinguismo, con dosaggio e gradazioni differenti. Tratti che differenziano i vari teatri: 1. Organizzazione politico degli Stati 2. Le tradizioni locali LA TRAGEDIA. Sotto il segno della classicità e nel desiderio di ridare vita a uno dei generi più alti della tradizione letteraria antica si muove la sperimentazione del genere tragico. La fortuna delle realizzazioni teatrali dei testi tragici è molto più stentata e diventa una pratica diffusa solo nella seconda metà del secolo. I diversi testi che si succedono nel tempo assumono anche il compito di fondare una nuova tradizione, alla luce di un confronto non ovvio con i modelli antichi greci e latini, data la loro autorevolezza, e sempre con il desiderio di trovare delle mediazioni con il gusto moderno, così da rendere spendibile in un nuovo spazio culturale un genere di cui si avverte il prestigio, ma che richiede un importante lavoro di mediazione per conformarlo al mondo cortigiano. La poesia del Cinquecento La lirica è il genere letterario nel quale si viene affermando con maggiore decisione nei primi anni del Cinquecento la promozione di un nuovo classicismo volgare e della lingua più adatta ad esprimerlo. Sul finire del Quattrocento la poesia era divenuta una delle espressioni più rappresentative della cultura delle corti, una sorta di linguaggio condiviso fortemente legato però alle contingenze, ben preso da parte di un’intera generazione di letterati si determina l’intenzione di ripensarne gli statuti allo scopo di dar vita a una poesia capace di confrontarsi con piena legittimità con le forme classiche. La soluzione normativa del letterato veneziano offre la possibilità di dar forma a una poesia sostanziata dal mondo mentale, affettivo e stilistico di Petrarca, eletto a modello principe, ma capace di esprimere un io lirico autonomo e screziato. Così facendo la poesia rinascimentale si pone con forza sotto il segno di Petrarca. La spinta verso la fondazione di una lirica ispirata ai principi di un classicismo volgare è animata in prima istanza dalla volontà di superare la poesia cortigiana di fine Quattrocento. È necessario un radicale ripensamento del canone letterario, come anche del principio di imitazione sul quale fondare il nuovo linguaggio. Al termine di questa stagione vengono date alle stampe diverse importanti edizione di raccolte di litica d’autore, esiti finali del lavoro di sperimentazione condotto nei decenni precedenti. Del resto, diverso è però il rapporto che ciascuno stabilisce con l’intera tradizione classica e volgare. Nelle Rime del vicentino Trissino si registra un classicismo disponibile, anche dal punto di vista metrico, a integrare nella tradizione letteraria italiana forme della poesia antica, come le odi pindariche e oraziane, ma anche l’epigramma e l’egloga, senza dimenticare che anche sul fronte della tradizione volgare al modello petrarchesco di affianca quello dei poeti della tradizione italiana del Due e Trecento. Pietro Bembo. Alla disponibilità verso un atteggiamento più inclusivo nei confronti del canone antico e moderno testimoniato dai poeti ricordati, risponde il criterio più elettivamente selettivo di Pietro Bembo, che dimostra una fedeltà quasi assoluta a Petrarca e che si afferma come il modello destinato a godere di maggiore fortuna. Resta il fatto che la centralità di Petrarca nel sistema culturale italiano viene rafforzato a partire dai primi decenni del secolo, tanto che lo studio e l’imitazione della sua poesia diventano due pratiche culturali che si intersecano tra loro in modo sempre più fitto, come non tardano a cogliere anche diversi letterati che confezionano libri mirati a facilitare l’interpretazione e il riuso della poesia petrarchesca. Godono di grande fortuna i commenti del Canzoniere allestiti nella prima metà del secolo, nei quali i singoli commentatori oscillano tra una lettura del libro come vero e proprio romanzo d’amore o tradendo la struttura dell’originale come nel caso di Alessandro Vellutello nel 1525. Petrarchismo. Questa nuova forma della poesia volgare che si viene elaborando nei primi decenni del secolo diventa anche una pratica sociale condivisa in nome di un utilizzo sempre più diffuso del linguaggio lirico come strumento di espressione disponibile anche per i poeti meno esperti, tanto che anche a figure sociali spesso lasciate ai margini del sistema letterario viene concessa in questa stagione cittadinanza. Si assiste alla nascita di una sorta di moda, una letteratura di massa che incide anche sui modi dell’imitazione. Fiorisce negli anni Quaranta il genere delle antologie liriche, delle raccolte cioè di autori moderni. La lirica spirituale. La lirica di carattere spirituale acquista nel corso del secolo una posizione di crescente centralità all’interno dell’ampia galassia della poesia cinquecentesca. Il tema spirituale trova un nuovo spazio sino a divenire un fenomeno editoriale di primaria rilevanza. Un primo sintono del desiderio di omologare la poesia petrarchesca in una dimensione esclusivamente religiosa si riscontra nel Petrarca spirituale di Malipiero, edito per la prima volta nel 1536. Si tratta di un tentativo di convertire la poesia petrarchesca da amorosa a spirituale, non quindi una condanna di quella voce lirica ma un richiamo alla necessità di riscrivere quell’esperienza sotto il segno della pratica devozionale. Tutti i testi di Petrarca vengono riformulati trasformando la passione amorosa in occasione di preghiera per via lirica. Vittoria Colonna. Una delle poetesse più capaci di padroneggiare con maturità il codice lirico, ma protagonista di un percorso religioso profondamente interiorizzato, frutto di una sofferta e meditata adesione alla fede. Più in particolare sarà la sua appartenenza al cosiddetto circolo degli spirituali, intellettuali e poeti stretti attorno a figure quali il cardinale Reginald Pole e il teologo spagnolo Juan de Valdes, a spingere la Colonna verso una poesia esclusivamente spirituale, pensata in prima istanza come esercizio di una privata meditazione religiosa. La poesia della Colonna recupera da Petrarca lessico e forme, ma li reimpiega per temi e armoniche rivolte allo scavo interiore e alla meditazione sui grandi misteri teologici della cristianità, giungendosoluzioni del tutto inedite rispetto al modello. Michelangelo. Autore di un discreto numero di liriche di argomento religioso che si affiancano a quelle di tema amoroso. L’esercizio lirico diventa per Michelangelo un impegno duraturo e continuo, nel senso di una poesia che ambisce a farsi riflessione intima e sofferta, talvolta sottoforma di semplici abbozzi o testi incompiuti. Dimostra di conoscere la lirica petrarchesca, anche se appare ben disponibile a integrarla soprattutto con memorie della tradizione toscana e dantesca. Sono testi caratterizzati da un espressionismo rude a specchio di una poesia di pensiero che fatica a svolgere le sue riflessioni e preferisce addensamenti e accumulazioni a forme più distese e riflessive. La crescita esponenziale della poesia spirituale nel secondo Cinquecento è anche la conseguenza di un nuovo clima culturale e religioso, per cui accanto allo stringersi progressivo delle maglie della censura ecclesiastica, si accompagna il tentativo di dare vita a una nuova letteratura devozionale, rispettosa dei dettami della Chiesa cattolica e capace di trovare un compromesso con le forme della poesia moderna. Le voci femminili. Le poetesse negli anni centrali del Cinquecento fanno gruppo, rappresentano cioè non poche voci isolate, ma un più esteso fenomeno in nome del quale per la prima volta nella storia letteraria italiana si riscontra una presenza femminile di grande rilievo sia per la quantità delle figure coinvolte, sia per la qualità delle esperienze liriche testimoniate. Alla donna non è più quindi riservato solo il ruolo di oggetto delle attenzioni poetiche altrui, ma diventa protagonista attiva in una cultura che aveva messo il tema della condizione femminile al centro di un’ampia trattatistica. La possibilità di fare poesia per le donne deriva dal convergere di più elementi, tra i quali almeno due sembrano avere un peso decisivo: la convinta promozione del volgare a lingua della cultura, scelta che permette l’accesso a una più ampia biblioteca di letture anche a un pubblico privo delle conoscenze della lingua latina. Non è un caso che molte delle traduzioni di opere di autori classici in lingua italiana abbia come destinatario ideale proprio il pubblico femminile. Sono poi le caratteristiche stesse della lingua lirica cinquecentesca a consentire una praticabilità della poesia a una più estesa platea di praticanti; nel caso delle voci femminili l’imitazione di Petrarca può aprire lo spazio per uno slittamento sottile di accenti all’interno di un registro lirico riadattato a un diverso vissuto. Gravitas. Come si è ricordato, vero la metà del secolo si assiste a un momento di straordinaria diffusione della poesia, specie in quella di marca bembiana che coincide con la sua evoluzione in una sorta di fenomeno di moda, con il conseguente rischio di far scivolare l’esercizio lirico verso forme sempre più corrive e stereotipate. Prende vita allora una lirica fortemente orientata a enfatizzare gli aspetti stilisticamente più difficili e complessi, espressione conveniente di una pensosa e sofferta analisi interiore, si direbbe in consonanza con il progressivo mutare del clima culturale. A partire dai primi anni Quaranta prende forma una poesia nettamente sbilanciata sul fronte della gravità, una soluzione stilistica che comporta la ricerca di sonorità aspre, e la programmatica asimmetria tra periodo sintattico e misura metrica, con la conseguenza di privilegiare figure come l’enjambement. Si viene così creando un gioco di tensioni, rallentamenti ed estensioni che diventa principio costitutivo del linguaggio lirico, sempre più lontano dalle disciplinate forme dell’armoniosa simmetria così come le aveva prefigurate Bembo. Giovanni Della Casa. La poesia di Dalla Casa esibisce un fine recupero di modelli classici e temi non previsti dal codice petrarchesco, come succede nel caso del sonetto dedicato alla gelosia, tema escluso da Petrarca. La gelosia diventa un fantasma della mente che inquina l’animo dell’io lirico e lo induce a scagliarle contro una vera e propria maledizione. Usa la gravitas. Il petrarchismo meridionale. Nel corso del secolo si assiste a un dialogo costante tra le istanze del nuovo classicismo proposto da Bembo e alcuni orientamenti stilistici e tematici propri della cultura e delle corti meridionali, tra cui andrà sicuramente annoverata una larga disponibilità a un confronto aperto con i modelli classici e un gusto spiccato per la ricerca di un’artificiosità stilistica e retorica via via più sottile e preziosa. JACOPO SANNAZZARO: Un libro di rime che raccoglie l’esito di un lungo percorso, una lingua lirica che aspira a farsi classica, disponibile a una attenta imitazione di Petrarca ma orientata verso un petrarchismo aperto, capace di raccogliere dalla cultura umanistica temi e forme. GIROLAMO BRITONIO: Nel 1519 dà alle stampe un’opera intitolata gelosia del sole, un canzoniere di impronta petrarchesca dove viene riproposta la topica della poesia del modello in nome di un testimoniano il sistema di rapporti politici, diplomatici e intellettuali allacciati nel tempo. Matteo Bondello. L’autore settentrionale più rappresentativo del genere nel Cinquecento. L’interesse di Bandello nei confronti della novella si manifesta ufficialmente nel primo decennio del secolo. Sullo sfondo delle concitate vicende belliche che interessano la penisola, Bandello si sposta fra Mantova e Milano. Nel 1531 compone le Tre Parche, tre capitoli in terza rima scritti a fini encomiastici e dedicati a Guido Rangoni. Ma sono le Novelle l’opera a cui deve la fama. Ne scrive 214. Manca una cornice. Ciascuna novella è preceduta da una lettera dedicatoria a personaggi rilevanti della società di allora, il che contribuisce ad ancorare così un binomio indivisibile: nella prima l’autore illustra le ragioni della narrazione alla realtà. Lettera e novella formano un binomio indivisibile: in particolare l’autore illustra le ragioni della narrazione e riflette su un evento accaduto. Le novelle corrispondono a storie con caratteristiche straordinarie che si prefiggono due principali obiettivi: la meraviglia e l’insegnamento etico esemplare. Della Casa. È autore del celebre Galateo overo d’ costumi, un trattamento destinato a guadagnare una fama europea. Il titolo Galateo corrisponde alla latinizzazione del nome di battesimo di Galeazzo Florimonte, ecclesiastico amico di Dalla Casa: una figura che viene scelta come interlocutore ideale del trattato che viene però indirizzato a un giovane destinatario con l’obiettivo di indicare le regole per essere costumato e piacevole e di bella maniera. Mira a regolare il comportamento raffinato dei gentiluomini nelle relazioni, senza indicare un preciso contesto d’azione come avveniva nel Cortigiano. Lo scopo è di individuare la comunicazione e il comportamento adeguati nella società. Si aggiunga che i precetti illustrati riguardanti gli atti sono frequentemente offerti per via di negazione, sottolineando le pratiche da evitare, gli errori da non commettere. Il trattato si è imposto rapidamente come modello e ha agito come testo di civilizzazione. Il titolo è passato a indicare l’insieme dei comportamenti e delle buone maniere da tenere in società. Le scritture d’arte tra Quattro e Cinquecento Tra Quattro e Cinquecento la produzione inerente all’arte e la trattatistica conosce un’evoluzione significativa che contribuisce a restituire una più alta dignità sociale e maggiore valore alle opere e alle figure in precedenza legate all’ars mechanica. L’opera dell’artista può finalmente competere con la letteratura. Si approda a una considerazione dell’attività artistica come ars liberalis. La mutazione che interessa la figura dell’artista va di pari passo con l’importanza che acquista l’arte nella vita civile e religiosa e con le richieste sempre più frequenti dei committenti. Le arti iniziano ad essere concepite alla stregua di scienze e come tali necessitano di una preparazione rigorosa e di un linguaggio tecnico e puntuale che le sostenga e le legittimi. Cennino Cennini. Il libro dell’arte, primo trattato redatto in lingua volgare volto ad affrontare aspetti tecnici e materiali della pittura; al suo interno trovano spazio alcune riflessioni critiche delle quali si può intravedere l’inizio di una differente concezione dell’artista, ora paragonabile a quella del letterato. Lorenzo Ghiberti. Scultore che interessa in questa sede per i suoi Commentarii, trattato incentrato sulla storia dell’art e sulle teorie a esse relative e rimasto incompiuto al terzo libro. I Commentarii prendono l’avvio dell’arte antica, attingendo a due auctoritates familiari all’autore, ossia Vitruvio e Plinio: nella prospettiva pienamente umanista di Ghiberti l’arte antica ha raggiunto il punto apicale ed è insuperabile. Il secondo libro tenta di offrire un compendio dell’arte moderna iniziando da Giotto grazie al quale l’arte sarebbe rinata. Ghiberti mette in campo la propria esperienza e passa in rassegna le biografie degli artisti. Infine il terzo libro affronta questioni di natura tecnica, frutto di compendio di altri scritti. Leon Battista Alberti. La riflessione sull’arte non può prescindere da quella etica e filosofica. L’artista si fa creatore e può avere il dominio sulla natura. Detto in altri termini, la pittura non si limita a riprodurre solo la natura, ma la riorganizza razionalmente. Di rilievo è il De pictura, redatto in latino e poi tradotto in volgare. Nell’opera gli aspetti tecnici e pratici si intrecciano saldamente a una concezione nobile dell’attività pittorica, che deve saper armonizzare l’aspetto interiore e quello esteriore della figura ritrattata; ne terzo libro si insiste su un altro concetto peculiare della visione albertiana, ossia sulla formazione culturale a tutto tondo che renda il pittore un uomo completo. Gli insegnamenti tecnici assumono veste di trattato e l’opera stessa dell’artista deve fondarsi su basi scientifiche: è aperta la strada per le riflessioni che si svilupperanno da lì a poco. Leonardo da Vinci. Contribuisce con i suoi scritti al dibattito sull’arte, con una posizione che si presenta con caratteristiche originale. Si definisce omo sanza lettere, a digiuno dal latino e dal greco che gli avrebbero permesso di avere accesso diretto alla produzione tecnica più importante e alle fonti antiche della matematica e geometria. La produzione di Leonardo, letteraria e scientifica, è affidata a fogli manoscritti, costellati di appunti sparsi e mai in una forma definitiva, che spesso hanno valore autoreferenziale. La forma che più si avvicina a questo tipo di scrittura è lo zibaldone, diffuso in ambito umanistico. La scrittura di Leonardo costituisce l’esito dell’esperienza coniugata col pensiero. L’esperienza artistica dialoga con quella scientifica. Nei suoi scritti Leonardo fa emergere il bisogno di ricercare e acquisire un linguaggio tecnico e specifico, accostandosi ai modelli espressivi che caratterizzavano la cultura umanistica in latino, come Alberti. Leonardo progetta e riordina appunti, per dare consistenza e forma scritti su argomenti specifici, ossia sugli uccelli, aria, acque e pittura. Giorgio Vasari. La sua figura si muove su più fronti del versante artistico: trattatistica, pittura, architettura, poesia. A Roma lavora alle Vite, che richiama un genere diffuso nell’antichità, un genere di biografia umana, che dialoga con la critica dell’arte e la trattatistica storica. Lo scopo dell’opera consiste nel fissare la memoria dei migliori architetti, pittori e scultori che costituiscono modelli a fini educativi. Vasari riesce a recuperare un’ampia quantità di materiale e di aneddoti, ritessuta nel testo attraverso una notevole capacità narrativa. Le Vite tracciano una storia del progresso nel campo artistico che da Giotto trova rinascita dopo la rozzezza del Medioevo, giunge a Michelangelo, in un iter di perfezionamento nel quale si arriva a eguagliare la natura nella bellezza. È Michelangelo a rappresentare la sintesi perfetta fra le arti. Un’edizione successiva del 1568 conosce una revisione linguistica in vista di una maggiore precisione e scientificità e guadagna una componente letteraria più definita e un ampliamento del numero delle biografie e delle opere illustrate e descritte. Nella seconda edizione la prospettiva storica sembra più matura e articolata, grazie anche a un’attenzione verso le esperienze artistiche regionali. Le Vite hanno il merito di codificare il genere della biografia d’artista, imponendosi come un classico. Benvenuto Cellini. Durante il Sacco di Roma racconta di aver ucciso il conestabile di Borbone. Egli enfatizza gli eventi e colloca sé stesso al centro della narrazione, descrivendosi come figura assolutamente straordinaria rispetto alle altre. Nel 1540 a Siena Cellini di macchia di omicidio: ripara in Francia, dove è ospitata di Francesco I, per il quale realizza la celebre e preziosa saliera d’oro. L’autobiografia consiste nella narrazione delle vicende biografiche, stese dalla persona stessa che le ha vissute: non mancano i modelli antichi e quelli medievali, come la Vita nova dantesca e anche i Rerum vulgarium fragmenta, autobiografia in versi. La Vita scritta per lui medesimo, dove l’artista parla di sé, proponendosi come modello. La vita personale è riletta in un percorso esemplare in cui non solo le circostanze legate all’espressione artistica a segnare le tappe dell’esistenza, ma tutti gli altri avvenimenti vissuti, ai quali è assegnato un valore formativo. Insiste sulle proprie virtù, che lo rendono un uomo d’eccezione, e sulla rivendicazione della libertà di comportamento e di espressione, dando voce al difficile rapporto tra l’artista e il committente.