Scarica RIASSUNTO LETTERATURA ITALIANA DALLE ORIGINI AL CINQUECENTO - ALFANO, ITALIA, RUSSO, TOMASI e più Sintesi del corso in PDF di Letteratura Italiana solo su Docsity! LETTERATURA ITALIANA 1 – MANUALE EPOCA 1: le Origini - INTRODUZIONE La letteratura italiana registra i primi testi di ampia rilevanza culturale solo nel 13 secolo ma ebbe una crescita repentina, tanto da riuscire ad offrire una varietà notevole di esperienze nel giro di pochi decenni tanto da assumere un ruolo di guida nella letteratura europea già alla fine del Duecento e nel secolo delle Tre Corone (Dante, Boccaccio e Petrarca). Gli elementi che condizionano la letteratura delle Origini in modo incisivo sono i generi e i temi presenti nella letteratura latina, che sono ancora un patrimonio di riferimento proveniente sia dai classici sia da sia dalla produzione medievale (sia tematiche religiose sia profane) ed è la dinamica tra il modello consolidato del latino e i primi tentativi di scrittura in volgare a rappresentare il nodo centrale della letteratura duecentesca, le origini infatti non possono essere separate dalla prima definizione di una lingua italiana. Il latino rimane la lingua della comunicazione e della cultura ma si fanno spazio anche dei primi esperimenti di svariati generi in prosa e in versi, dalle diverse forme della letteratura religiosa a quella didattica, dalle prime prove storiografiche alla poesia comica. Va inserito in questo quadro anche il recupero della più recente tradizione della letteratura francese che incide profondamente sulla letteratura delle origini. La lingua d’oil trasmette il patrimonio carolingio e il roman de la rose mentre la letteratura in lingua d’oc, maturata in Provenza, è cruciale soprattutto sul versante della lirica e la pratica poetica dei trovatori rappresenta un riferimento per tutto il Duecento. La lirica del Duecento conosce la maggiore ricchezza di esperienze, che si sviluppano in uno stretto giro di anni in dialogo con contesi storico-sociali assai diversi, la poesia inaugurale matura intorno alla corte di Federico II di Svevia. La teorizzazione sull’amore conosce una fortunata codificazione nei tre libri del De Amore di Andrea Cappellano, scritti alla fine del 12 secolo, dove viene recuperata l’ideologia dell’amor cortese e la struttura gerarchica che lo caratterizza, i poeti della corte federiciana si dedicano in modo esclusivo alla tematica amorosa e producono un patrimonio di testi fondativo sotto l’aspetto metrico e stilistico. Il sonetto è stato attribuito a Giacomo da Lentini con la definizione di una struttura in versi chiusa e insieme sufficientemente ampia da consentire scansioni e articolazioni interne del discorso lirico. I siciliani utilizzano uno stile alto (siciliano illustre): l’estrema concentrazione tematica sull’amore si accompagna ad un’azione di selezione e nobilitazione della lingua poetica. La poesia siciliana ci è nota attraverso manoscritti antichi dove le liriche erano presenti in una veste già toscanizzata e questo non comporta solo un trapasso linguistico ma anche opportuni adattamenti e allargamenti tematici. Nel contesto comunale la lirica si allarga a tematiche non solo d’amore, sarà soprattutto Guittone che aprirà la strada alle tematiche più civili e politiche arrivando a commentare l’esito della battaglia di Montaperi nel 1260 che aveva visto il trionfo dei ghibellini. Inoltre, Guittone interpreta in forma diversa la poesia amorosa, fuori dall’ideologia cortese passando da una fase dove la sua produzione è fatta di testi amorosi ad una fase strettamente morale e religiosa. Il Duecento è la stagione della grande poesia religiosa: dopo San Francesco, accanto alla parabola di Fra Guittone, si registrano i versi di Iacopone da Todi dove le laudi si intrecciano agli ordini mendicanti fino ad arrivare ad un estremismo insieme ad un grande cambiamento linguistico. Dal modello di Guittone si distaccano i primi esponenti dello Stilnovo e sono ancora i grandi canzonieri delle origini a dare conto di una nuova ondata di poesia che ha in Guinizzelli il primo modello e poi in Cavalcanti e in Cino. A raccordare i protagonisti dello stilnovo sia la proiezione sull’esperienza di Amore di un valore nobilitante, l’approfondimento della dimensione intellettuale di quella passione per creare una schiera eletta di fedeli d’Amore. Accanto alla poesia alta si registrano le prove di Rustico Filippi e di Cecco Angiolieri, giocate su un versante umile e spesso mirate a un ritratto immediato di un contesto comunale. È molto chiara la tensione aggressiva di questa poesia, mirata alla polemica e alla contestazione dei valori, è una poesia che convive con la lirica alta spesso nella produzione degli stessi autori. Le prime prove della prosa muovono verso la tradizione latina e in particolare delle artes dictandi, a Guido Faba si devono sia un trattato con modelli di scrittura sia una raccolta di Parlamenta et epistole, mentre a Brunetto Latini si deve la Rettorica, una riscrittura del De Inventione di Cicerone. È un segnale di investimento sul volgare a partire dalla base latina e quando Brunetto decide di scrivere la sua maggiore opera in volgare, la retorica rimane il perno essenziale. I volgarizzamenti sono la chiave per recuperare e acquisire anche le tradizioni narrative francesi (sia poemi cavallereschi sia racconti antichi), essi rappresentano anche un laboratorio per osservale le diverse varietà di volgare che man mano si sviluppavano nella penisola. La tradizione narrativa conosce una prima e notevole prova nella raccolta del Novellino: è un’esperienza unica sia per la presenza di due diverse redazioni sia per la natura eterogenea delle novelle, dominante è la caratura morale dell’opera. A fine Duecento la realtà inizia a premere sulle pagine del Milione una realtà carica di meraviglia e di esotismo per la parabola eccezionale di un viaggio e di un’esperienza nel lontano oriente, nata dalla collaborazione tra Marco Polo e Rustichello da Pisa. CAPITOLO 1 Le prime testimonianze poetiche italiane hanno caratteristiche simili. Sono sempre incorporate in contesti latini e la forma scritta non è la destinazione primaria, sono testi cantati e recitati da giullari, trascritti per esigenze di memorizzare e di conservazione. Si parla quindi di tracce perché sono solo il residuo di un fenomeno più ampio e sono sempre in testimonianza unica e tutte quante riprendono i modelli galloromanzi, senza particolare originalità. Il primo documento della lingua italiana è l’indovinello veronese, considerato testo poetico, non ci sono certezze né sulla datazione né sull’interpretazione né sulla lingua, alcuni ritengono sia stato scritto tra la fine del 8 secolo e gli inizi del 9, è un primo tentativo di scrivere in volgare italiano ma per altri è una forma di latino meno sorvegliata e corretta. Le prime tracce certe del volgare compaiono solo tre secoli dopo, tra la fine del 12 secolo e gli inizi del 13 secolo sono attestati ritmi (testi di argomento religioso con finalità didattiche) forse legati al mondo giullaresco e non privi di una certa accuratezza stilistica e retorica. 1. Il libro siciliano, un manoscritto perduto da cui Barbieri ricavò alcune versioni in siciliano delle poesie della scuola. 2. Un frammento di una canzone di Giacomino Pugliese 3. Sei componimenti presenti nei Memoriali Bolognesi (atti pubblici dove i notai bolognesi scrivevano componimenti poetici) 4. Quattro poesie siciliane rinvenute a Bergamo nel 2013 Vaticano Latino 3793 Il Vaticano Latino è composto da 190 fogli per 26 fascicoli complessivi e la maggior parte di essi è stata scritta da una singola mano ma in alcune carte compare una seconda mano. La prima è una scrittura corsiva definibile mercantesca (individuo di alta cultura), la seconda è una cancelleresca, entrambi fiorentini ed hanno lavorato tra il 13 e il 14 secolo. Il codice è diviso in due parti secondo un criterio metrico: prima le canzoni e poi i sonetti; la canzone è il genere metrico più importante, seguita dalla ballata e poi dal sonetto. La successione dei fascicoli sembra seguire un disegno storiografico preciso ricondotto alla volontà del copista, infatti la successione dei testi rispecchia in maniera fedele la cronologia reale: prima ci sono i poeti della scuola siciliana, poi i siculo-toscani che rappresentano la fase di transizione tra la Sicilia e la Toscana e poi i poeti dell’Italia municipale e i toscani, fino ai poeti fiorentini della generazione appena precedente a quella di Dante. Nella sezione dei sonetti il disegno storiografico è molto meno preciso ma coerente con quello delle canzoni. Dopo l’indice che occupa il primo fascicolo, il secondo si apre con Giacomo da Lentini (protagonista della scuola siciliana), il terzo si apre con Rinaldo d’Aquino. Il quarto si differenzia dai primi tre perché contiene testi di livello stilisticamente meno elevato, si apre con un contrasto attribuito a Cielo d’Alcamo e ospita testi di carattere giullaresco o popolareggiante, il quinto contiene rimatori leggermente più tardi che hanno relazioni con la tradizione poetica peninsulare: Mazzeo di Ricco, Percivalle Doria e Re Enzo, figlio di Federico II. Con il quinto si passa dai poeti certamente attivi alla corte di Federico II a quelli che parteciparono al passaggio in Italia della scuola siciliana. Il sesto si apre con Guido Gunizzelli e ospita anche Bonagiunta Orbicciani al quale viene attribuito un ruolo di spicco nel processo di trasmissione dei modi della scuola siciliana nell’Italia municipale. I fascicoli successivi sono dedicati prevalentemente a Guittone d’Arezzo (protagonista assoluto del codice laurenziano) e a Chiaro Davanzati e Monte Andrea. Alla fine della sezione delle canzoni, il secondo copista trascrive un singolo testo di Dante: Donne ch’avete intelletto d’amore, eppure il poeta dal vaticano è totalmente escluso che ricopre un ruolo primario nel manoscritto Chigiano. Scuola Siciliana La scuola siciliana si sviluppa attorno alla corte, o Magna curia, di Federico II di Svevia, re di Sicilia dal 1198 e imperatore del Sacro Romano Impero dal 1220. Molti dei poeti di questo movimento erano giuristi, notai, magistrati e ricoprivano cariche pubbliche nella corte. La scuola siciliana era dunque un gruppo di poeti che condividevano la stessa estrazione sociale, legati a un contesto politico preciso, utilizzano una stessa lingua (siciliano illustre), compongono testi tra loro affini per temi e stile ispirandosi alla tradizione trobadorica e sono stati raccolti negli stessi manoscritti. La nascita della scuola potrebbe far parte di un progetto politico teso alla creazione di uno stato solido e unitario dove la cultura svolgeva un ruolo cruciale. Federico per evitare che i suoi sudditi si recassero a studiare a Bologna o a Parigi, aveva fondato lo studium napoletano che poi diventerà l’università. L’imperatore aveva quindi deciso di patrocinare la nascita di un movimento politico autonomo e originale che si esprimeva in lingua locale dato che nella magna curia erano attive anche altre tradizioni culturali come quella latina e quella greca. L’argomento principale della poesia siciliana è l’amore e rispetto ai trobadori operano una radicale selezione dei temi; la politica e la propaganda alla corte di Federico erano riservate alla poesia latina. Dai trovatori i siciliani ereditano invece la concezione globale dell’amore e il modo in cui viene rappresentato: il rapporto tra amante e amata è concepito come un rapporto di feudale sudditanza e si ritrovano anche tutti gli altri motivi della poesia cortese (lode della bellezza e della virtù della donna, l’amore come processo di raffinamento dell’individuo attraverso la sofferenza, la necessità di tenere segreto l’amore…). I siciliani attingono pienamente al repertorio di immagini e di metafore naturalistiche della tradizione dei bestiari e dei lapidari. Vi è inoltre uno spiccato interesse per la descrizione della fenomenologia amorosa, dei sentimenti e del processo di creazione dell’immagine mentale dell’amata; rispetto ai trovatori si riducono nettamente i riferimenti alla realtà, alla biografia del poeta e al contesto sociale, è del tutto spersonalizzata. I poeti sembrano più interessanti alla rappresentazione degli aspetti universali dell’amore e introducono una riflessione di carattere filosofico. Questi tre elementi ovvero: spersonalizzazione, universalità e approfondimento filosofico, consentono di svolgere attraverso la poesia lirica una più profonda analisi delle emozioni individuali. Le forme metriche principali sono la canzone e il sonetto, se la canzone è modellata sulla canso trobadorica, il sonetto è un’invenzione locale forse legata direttamente a da Lentini. Tra le varie opzioni della spiegazione della sua nascita la più convincente è quella che la lega alla cobla sparsa dei trovatori: la cobla è l’equivalente di una stanza e una canzone occitana è normalmente composta da più coblas ma i trovatori possono utilizzare la cobla anche da sola (cobla esparsa) come un breve testo lirico, tuttavia queste hanno una misura metrica variabile e solo alcune presentano una struttura sovrapponibile a quella del sonetto. Esso è il metro utilizzato dai siciliani per il genere della tenzone e in questo contesto si stabilizza l’endecasillabo. Non c’è alcuna traccia di melodie legate ai testi della scuola siciliana e per questo si è formulata l’ipotesi di un divorzio tra poesia e musica, sancito proprio dalla magna curia infatti nella tradizione trobadorica tutti i testi erano accompagnati dalla musica ma essa era una semplice modalità esecutiva del testo verbale ed era in esso funzionale. Nei trovatori più tardi vi è una forte tendenza verso l’autonomia del testo poetico rispetto alla musica. Il sonetto: è una forma metrica fissa. È costituito da 14 endecasillabi ed è diviso in due parti: una fronte di 8 versi (ottava) e da una sirma di sei (sestina). Lo schema delle rime è variabile, i più utilizzati sono ABAB ABAB e ABBA ABBA, usato alla fine del Duecento. Giacomo da Lentini Nato in Sicilia da una famiglia di origini normanne, è un notaio attivo alla corte di Federico tra gli anni 30 e 40 del 13 secolo. È il primo o uno dei primissimi poeti della scuola e il più influente sia per la scelta esclusiva del tema amoroso sia per l’invenzione del sonetto. I poeti siciliani prendono dai poeti di lingua d’oc le forme, gli istituti e gli artifici metrici, i temi, le immagini e il vocabolario. Dai siciliani l’amore è definito fino, cioè perfetto come nell’espressione occitana fin’amors. La letteratura galloromanza si diffonde in Italia attraverso i manoscritti e alcuni di essi arrivano in Sicilia. Il vaticano latino si apre con la poesia Madonna dir vo voglio di da Lentini che è una traduzione di un testo trobadorico di Folchetto di Marsiglia, uno dei maggiori trovatori e attivo tra la fine del 12 secolo e morto nel 1231. Ha avuto successo come poeta profano ma dopo la sua conversione divenne vescovo di Tolosa. Nel Medioevo le traduzioni sono intese sia come operazioni nella quale il traduttore è il più possibile fedele al testo originario, sia come quella offerta dal notaro, oggi considerate a metà tra la traduzione e la riscrittura. Nella canzone Madonna dir vo voglio si possono individuare una serie di elementi che caratterizzeranno gran parte della poesia italiana fino a Petrarca: 1. Il poeta si rivolge direttamente all’amata e mette in versi il proprio innamoramento 2. La donna è insensibile 3. L’amore trascina il poeta in uno stato doloroso descritto come in bilico tra la vita e la morte 4. Il sentimento amoroso è talmente forte da non poter essere tradotto a parole 5. Il canto d’amore è un modo per dar sfogo alla sofferenza 6. La condizione dell’amante e il processo di innamoramento vengono descritti utilizzando come metodo di comparazione gli animali dei bestiari medievali, o più in generale il mondo naturale. Non c’è solo una descrizione della bellezza della donna ma anche un’analisi degli effetti che il sentimento provoca nel soggetto e una riflessione sui limiti del linguaggio poetico, incapace di esprimere compiutamente le emozioni. La poesia dei trovatori aveva una componente fortemente dialogica e lo strumento metrico di questo dialogo è la cobla: i trovatori si scambiano coblas che si organizzano in tenzoni. Una tenzone è quindi uno scambio di due o più coblas tra due o più trovatori; i contenuti sono molto vari: politica, morale, religione, denaro, sesso, poesia e amore. I siciliani ereditano questa vocazione dialogica ma limitano gli argomenti: le tenzoni siciliane sono dei dibattiti sull’amore, esse devono molto alla tradizione della quaestio cioè la discussione tra maestri e allievi che avevano delle regole ben precise. La tenzone più importante della scuola siciliana è trasmessa dal Barberiniano Latino 3953, trascritto negli anni 1325-1335. (anche nel vaticano ce ne sono alcune) È la tenzone di Giacomo da Lentini, Pier della Vigna (nato nel 1200, giudice, poi cancelliere e legislatore di Federico II) e Iacopo Mostacci (falconiere di Federico II, divenuto poi un cavaliere). La discussione sull’amore ha avuto successo e anche il trattato De amore di Andrea Cappellano si apre con gli stessi interrogativi: cos’è l’amore, perché si chiama così, quali sono i suoi effetti ecc… Il quarto fascicolo del vaticano si apre con il contrasto Rosa fresca e aulentissima di Cielo d’Alcamo, è un dibattito tra un canzoneri (giullare) e una villana; il personaggio maschile corteggia la donna, ritrosa ma che alla fine cede. È considerato un testo anonimo ma per convenzione si attribuisce a Cielo d’Alcamo, è databile prima della morte di Federico II nel 1250. Lo schema è adottato anche dai trovatori, specie nella pastorella, genere che racconta del tentativo di seduzione del poeta-cavaliere nei confronti di una giovane pastora. La scuola siciliana ebbe una rapida influenza in tutta la penisola, forse in parallelo con le vicende politiche di Federico e dei suoi eredi e dei loro rapporti con il mondo comunale e corti dell’Italia del centro-nord. Il mutamento però fu graduale: Gunizzelli (1230-1274) è l’unico tra gli stilnovisti di cui è attestata una presenza significativa nei canzonieri delle origini, si conservano solo 5 canzoni e 15 sonetti. Nato nel 1230 circa da una famiglia della piccola nobiltà di Bologna legata ai ghibellini (impero), esercita la professione di giudice e si sposò due volte. Nel 1274 quando una famiglia guelfa vince contro una famiglia sostenuta dal poeta è condannata all’eslio e anche i loro sostenitori si deve allontanare dalla sua città ma non si sa se lo fece o morì poco prima di lasciare Bologna. In uno scambio di sonetti fra il poeta e Guittone, Guinizzelli gli rivolge l’epiteto di padre e si pensa che Guido metterebbe in dubbio l’autorità di Guittone ironizzando sui suoi vizi individuali e su quelli dell’ordine dei Gaudenti. Questo è il primo segno di conflitto tra antichi e moderni ma una traccia più importante di conflitto è la tenzone tra Bonagiunta e Guinizzelli, dove il primo lo rimprovera per aver mutato il modo in cui si compongono le poesie d’amore puntando sull’oscurità e su contenuti difficili di carattere filosofico o teologico. La tenzone testimonia il cambiamento in atto e il distacco di Guinizzelli da Bonagiunta e dagli altri poeti della vecchia maniera come Guittone. Nella produzione di Gunizzelli ritroviamo molti temi tipici della tradizione poetica romanza: la descrizione dell’innamoramento, il servizio d’amore per la donna, la passione che conduce alla morte… ma si possono individuare anche temi che pur non essendo esclusivi di Guinizzelli, avranno particolare fortuna tra gli stilnovisti come l’elogio della donna amata. Per Guinizzelli la donna è capace di convertire un infedele, alcuni concetti sono già presenti nel De Amore specie dove si dice che l’amore rende umili i superbi. L’amore per Gunizzelli e per gli stilnovisti è un fenomeno che conduce ad un rinnovamento interiore rendendo degni di accedere a una nobiltà spirituale. Nel Duecento la civiltà italiana muta profondamente e la nuova borghesia, legata al commercio, aspira a posizioni di potere e di egemonia culturale e cerca una legittimazione sociale che non dipenda dai legami familiari e di sangue. Gli stilnovisti infatti si fanno interpreti di questo e teorizzano la superiorità della nobiltà interiore sulla nobiltà di sangue; concepiscono un nuovo tipo di aristocrazia fondata sulla virtù e sui meriti individuali. L’amore e l’animo nobile sono una cosa sola e questo viene espresso da Guinizzelli nella canzone Al cor gentil, manifesto dello stilnovo. La canzone ha un ricco sistema di comparazioni, un linguaggio limpido e preciso ed espone i due concetti fondamentali: amare nobilmente significa possedere delle qualità morali individuali che ci distinguono da tutti gli altri uomini e questo tipo d’amore scatta solo se c’è la mediazione di una donna che ha l’aspetto e la virtù di un angelo. Nel corpus di Guinizzelli troviamo altri due tipi di componimenti: il registro tragico e doloroso (tipico di Cavalcanti) e dei sonetti di registro comico. Guido Cavalcanti Nel Chigiano, vicino a Dante c’è Guido Cavalcanti. Nato a Firenze verso il 1259 da una importante famiglia, nel 1300 prende parte ad alcuni sconti con i Donati (guelfi neri) dato che lui era di parte bianca: è per questo condannato all’esilio dai priori nell’agosto del 1300. Le fonti antiche lo descrivono come un filosofo per la complessità teorica della sua canzone più celebre Donna me prega. Dante gli dedica la Vita nuova descrivendolo come il suo primo amico. Infatti in questa fase giovanile i due sono molto vicini sul piano stilistico ma ad un certo punto vi è una rottura ma non si sa la ragione. Dante colloca quindi il padre di Cavalcanti all’Inferno nel girone degli epicurei (l’anima muore con il corpo) alludendo allo scetticismo dell’amico in materia religiosa e anche in una novella del Decameron figura come seguace di Epicureo al tal punto che il popolo si era convinto che tutti i suoi ragionamenti fossero volti alla ricerca della non esistenza di Dio. Nel sonetto Chi è questa che ven, dopo aver dispiegato le più alte lodi possibili (la donna è umile, si oppone alla superbia…), pone l’accento su un altro aspetto: l’incapacità del poeta di descrivere compiutamente il fenomeno al quale assiste. Accanto alla donna compare la personificazione di Amore, diffusa in tutta la poesia romanza ma che solo in Cavalcanti e negli altri stilnovisti assume i tratti di un personaggio. In Cavalcanti si accentua la tendenza di trasferire il discorso dall’esterno (lode della donna) all’interno (stati d’animo del poeta). Nel sonetto L’anima mia in mondo è quasi cancellato, tutto si svolge in una dimensione astratta. I personaggi principali sono l’anima, il cuore e gli spiriti e l’unico evento descritto è la battaglia che si svolge tra loro. Gli stilnovisti rispetto ai loro precedenti usano maggiormente una terminologia scientifica e filosofica; questo fenomeno trova il suo culmine in Donna me prega, citata da Dante nel De vulgari come esempio sommo di composizione. Nella poesia italiana il discorso in versi sulla fenomenologia amorosa era svolto principalmente in forma di tenzone. La descrizione di Amore era tra i temi irrinunciabili per un poeta d’amore volgare. Ma la produzione degli stilnovisti si contraddistingue anche perché parla spesso in versi di cose vere come l’amicizia e di eventi reali dei quali non sappiamo più nulla. La poesia medievale non è influenzata solo da modelli letterari ma anche da testi scritti come lettere, testamenti ed epitaffi. Lapo Gianni e Cino da Pistoia Nel Chigiano sono presenti anche questi due autori: Lapo era un notaio e giudice fiorentino attivo in Toscana, Bologna e Venezia tra gli anni 90 del Duecento e il 1328. È un poeta prossimo, per temi e stile, a Guinizzelli e al Dante giovane. Cino nato a Pistoia attorno al 1270 da una ricca e nobile famiglia di parte nera, studiò a Bologna e divenne giudice e ricopre importanti incarichi pubblici. In Francia subisce l’esilio e ritorna in patria nel 1306 per poi muoversi verso Siena, Perugia e Napoli. Muore nel 1336. La sua produzione poetica è intrecciata a quella di Dante e utilizza un lessico, temi, motivi e immagini che sono propri anche di Alighieri, dal quale viene elogiato nel De vulgari ed è proprio attraverso di lui che Petrarca riprende e sviluppa la tradizione lirica duecentesca. Nella canzone per la morte di Dante, Cino offre un’immagine di sintesi tra il poeta d’amore della poesia lirica e il poeta divino del poema sacro. È anche una preghiera rivolta a Dio affinché l’anima di Dante possa trovare posto in Paradiso accanto a Beatrice. Cino invia il testo a Firenze accusando la città di aver cacciato il poeta ed elogiando Ravenna perché conservi le sue spoglie. La frattura tra antico e nuovo sancita nel Chigiano non è definitiva: Guittone e i siciliani continueranno ad avere un peso rilevante nel Trecento. I poeti preferiti del Chigiano sono quelli che influenzano maggiormente Petrarca come la Vita nuova che è su questo modello che poi modellerà il suo Canzoniere, riprendendo l’idea di cantare prima in vita e poi in morte della donna amata. CAPITOLO 5 Accanto alla lirica cortese procede parallela una poesia che predilige tematiche e soluzioni linguistico-stilistiche eterodosse dove sono protagoniste le invettive personali, la satira dei costumi e la rappresentazione degli aspetti più materiali della vita come l’erotismo, il sesso, la fame e l’immoralità, il linguaggio è espressionistico e paradossale. La poesia italiana è caratterizzata da questo bifrontismo; i due poli coesistono nella tradizione poetica volgare dalla metà del Duecento. La poesia comica è trasmessa dagli stessi grandi canzonieri della lirica cortese predantesca e di quella stilnovistica. Il Vaticano latino riporta il contrasto Rosa fresca aulentissima, il primo componimento comico italiano. Il codice comprende due serie di sonetti del fiorentino Rustico Filippi, il primo rimatore a dedicare al registro comico un impegno apprezzabile anche dal punto di vista quantitativo (58 componimenti: metà liriche amorose, metà sonetti comici), nel Chigiano, invece, vi è una sezione riservata ai sonetti di Cecco Angiolieri e Meo dei Tolomei. Questi esempi di commistione documentano due aspetti importanti per comprendere il fenomeno nel Medioevo: la convivenza tra i due versanti; le due opzioni stilistiche avevano pari dignità letteraria e potevano essere indirizzate allo stesso pubblico e il fatto che la poesia comica duecentesca non abbia mai conosciuto una tradizione autonoma, essa non ha mai conquistato una circolazione esclusiva, confluendo sempre negli stessi canali di trasmissione della lirica aulica. Il codice comico nel Duecento è una delle possibilità espressive che i poeti hanno a disposizione insieme a quello lirico, morale, religioso e amoroso infatti molti dei più illustri rappresentanti della poesia “alta” si mostrano disponibili verso esperimenti comici. Il rapporto tra questi codici è concomitante, non oppositivo o polemico dal punto di vista ideologico. Motivi e procedimenti stilistici costanti nella produzione italiana duecentesca si ritrovano frequentati nella poesia goliardica latina, la preesistenza di retoriche di origine mediolatina dimostra che quanto si produce in Italia vada interpretato anche in base alle relazioni che intrattiene con filoni affini che si sviluppano contemporaneamente in altre aree romanze come la satira anticlericale di Perie Cardenal, i fabliaux o il Roman de Renart. Il rapporto tra la poesia comica e quella aulica ha due possibilità alternative, ciascuna delle quali riservata alla porzione di mondo che intende rappresentare. L’uso di una lingua bassa, di procedure retoriche con effetti di paradosso come iperboli o equivoci lessicali, non vanno interpretati ne come un innocuo divertimento ne come la replica irridente a un linguaggio poetico ma come un codice peculiare che riflette un diverso atteggiamento nei confronti della realtà e della tradizione culturale che si rivolge a quella realtà generalmente accantonata dalla poesia alta. Rustico Filippi Nato tra il 1230-40 e morto tra il 1290-1300 è il primo a dedicarsi al comico in maniera non esclusiva ma sistematica. È specializzato nell’invettiva: aggressioni verbali indirizzate a vittime ben individuate. L’origine risiede nelle tenzoni occitane in cui giullari e trovatori inscenavano contrasti fittizi nelle corti ma il trapianto in Italia porta alla perdita della dimensione performativa e così l’invettiva assume forma monologica. Cecco Angiolieri Rustico ha una funzione modellante per molti rimatori coevi e la sua influenza si nota nelle rare prove comiche di autori “seri”. Cecco Angiolieri è il primo a consacrarsi in maniera esclusiva al comico, degli oltre 100 componimenti conservati, solo in 4 il tema dell’amore è trattato in maniera cortese. Nasce a Siena nel 1260 da una famiglia borghese guelfa ma di lui non si hanno più notizia dopo il 1313. Partecipava a iniziative militari dei guelfi e probabilmente in una battaglia aveva conosciuto Dante. L’autore più rappresentativo è Iacopone da Todi (1230-1306) al quale si attribuiscono circa cento laudi trascritte in molti testimoni. Prima di lui la lauda si definisce solo in funzione della destinazione alla pratica religiosa e sempre anonima, dopo di lui la lauda tende a coincidere con la ballata. Si ritiene invece che l’inventore della lauda di tipo umbro-toscano sia Guittone che compose alcune ballate di materia sacra dove ci sono temi propri di Iacopone. Il poeta è un convertito: dopo la morte della moglie entra a far parte dei frati minori e aderisce alla corrente degli spirituali, molto rigorosi nel seguire la regola della povertà. Si ritrovano temi del disprezzo del corpo e del distacco dal mondo terreno che non significava l’allontanamento dagli eventi mondani infatti la parte più interessante della sua produzione è costituita dalle poesie di vicende politiche e religiose del suo tempo, nelle quali il frate fu direttamente implicato. Il principale bersaglio delle sue invettive è Bonifacio VIII che per il poeta è il prototipo del peccatore, il traditore della missione pontificia che si è macchiato di ogni vizio: perversione, magia, superbia e blasfemia; in una lauda viene paragonato a Lucifero. La sua produzione si caratterizza per il rifiuto della misura: l’esperienza mistica e religiosa non ha bisogno di saggezza e di misura, il suo amore per Dio vuole essere smisurato. Il centro della produzione è fatto di testi di argomento religioso il cui momento più alto è la lauda Donna de Paradiso, strutturata su 4 voci diverse: Gesù, Maria, il popolo che chiede la crocifissione e colui che annuncia la cattura di Cristo. La sua produzione si caratterizza per la sintesi di elementi della tradizione religiosa e di quella laica, di definisce giullare di Dio ma anche un poeta estremamente raffinato, adotta una lingua che si fonda sulla contrapposizione tra due mondi linguistici: quello teologico-mistico e quello del reale e del quotidiano. La ballata: inizialmente legata all’esecuzione musicale, si afferma nella penisola dalla metà del Duecento ed è utilizzata dagli stilnovisti. È divisa in strofe (simili alla canzone) ma vi è la ripresa, un ritornello che nei manoscritti precede il testo e che doveva essere cantato alla fine di ogni stanza. La strofa si divide in due: la prima (a sua volta divisa a metà in mutazioni) di 2,3,4 versi, la seconda si chiama volta e ha la stessa struttura della ripresa. Si usa l’endecasillabo o il settenario. CAPITOLO 8 La nascita e l’evoluzione della prosa volgare sono legate ai modelli latini e oitanici. Nel Duecento scrivere in prosa significa volgarizzare, cioè trasporre un testo in volgare italiano, la maggior parte delle opere in prosa delle origini e del Duecento sono caratterizzate da fenomeni di ampliamento e trasmesse da manoscritti miscellanei e le due aree principali di diffusione sono Bologna e Firenze. A Bologna si può situare la nascita della retorica in volgare in stretta connessione con quella latina. A Firenze i protagonisti sono Brunetto Latini la cui fama è legata ai volgarizzamenti delle orazioni di Cicerone di argomento cesariano ma soprattutto della Rettorica, scritta in Francia nel 1260, è una traduzione e rielaborazione del De inventione di Cicerone a cui si affianca il commento del poeta, l’opera ha due autori: Cicerone e lo sponitore (Brunetto) ovvero colui che espone il testo ai lettori; il suo fine è quello di insegnare a comporre orazioni e componimenti letterari vari, ciascun capitolo è strutturato in due parti: la prima il volgarizzamento e la seconda con lo sponitore, le cui parti sono un’espansione del testo ciceroniano e Bono Giamboni (1240-1292). Nel Duecento la poesia d’amore poteva essere concepita come una tenzone tra l’amante e l’amata. La diffusione del romanzo francese in Italia fu profonda e produsse una vasta serie di volgarizzamenti, si divlugarono sia la materia troiana (roman de Troie) sia la storia di Roma (Li faits de roman, una rielaborazione della Pharsalia di Lucano ampliata sulla base di altri storiografi latini). Dalla Francia, gli italiani ereditano anche il romanzo di materia bretone come la storia di Tristano e Isotta, la più antica versione della storia è racchiusa in un manoscritto con il nome di Riccardiano 2543, noto come Tristano Riccardiano e la riscrittura della storia è influenzata dalla ricezione nel contesto comunale. L’influenza della tradizione oitanica è più evidente nelle opere scritte in francese da autori italiani come il Tesor o il Milione, collaborazione tra due autori, è la narrazione del viaggio del mercante Marco che tra il 1271 e il 1295 attraversa il regno dell’imperatore mongolo Khan; qui si intrecciano autobiografia, cronaca, romanzo d’avventura, novellistica e trattato didattico-scientifico. Il primo epistolario della letteratura italiana è quello di Guittone d’Arezzo, che apre il corpus del poeta nel canzoniere laurenziano, e sono una trentina di testi, la maggior parte indirizzati ai frati gaudenti che trattano questioni morali e religiose, la raccolta contiene però anche lettere in versi. La storiografia compie solo molto tardi il passaggio al volgare, le più importanti cronache del Duecento sono ancora in latino ma in Toscana nasce la storiografia in volgare. Le prime esperienze, come la Cronichetta lucchese, hanno andamento annalistico e si limitano alla registrazione degli eventi, mentre l’anonima Cronica fiorentina è molto più ampia. Il primo vero storico è il fiorentino Dino Compagni (1260- 1324), guelfo bianco e priore nel 1301, scrive la Cronica tra il 1310 e il 1312 e racconta in prima persona le vicende delle quali fu protagonista nei primi anni del Trecento. Il latino resterà a lungo la lingua della scienza, nel Duecento l’unica eccezione è Restoro d’Arezzo che nel 1282 conclude un trattato che illustra il come e il perché della struttura del mondo e sui movimenti del cielo, delle costellazioni e dei segni zodiacali, il manoscritto più antico è il Riccardiano 2164. Restoro proclama l’eccellenza dell’uomo al fine di giustificare l’idea che sia fatto per conoscere le mirabili operazioni di questo mondo perché solo attraverso di esse si può conoscere Dio. Nel Duecento non esiste ancora il romanzo in volgare, si sviluppa però una ricca tradizione di narrativa breve in prosa. Il capolavoro è il Novellino, una raccolta di 99 novelle rielaborate da fonti galloromanze e latine, gli argomenti sono le azioni nobili, le risposte argute e le azioni generose compiute da uomini di valore. Compaiono numerose figure bibliche ma soprattutto agiscono personaggi storici antichi, uomini nobili sia per stirpe sia per dote individuale e l’immagine che si vuole offrire al lettore è molto netta: il mondo della cortesia con i suoi valori. Il Novellino si attiene al gusto dell’exemplum tipico della letteratura medievale, dove usa storia deve sempre avere un significato esemplare ma vuole anche divertire. La sua struttura è complessa dato che si distingue tra testo vulgato costituito da 99 novelle (inizio Trecento) e denominato così nel Cinquecento sotto l’influsso del Decameron e un Ur-novellino che era quello originario che conteneva sezioni narrative di carattere morale e didascalico. Il capolavoro della prosa duecentesca però è la Vita nova di Dante. EPOCA 2: le Tre Corone e la cultura del 1300 – INTRODUZIONE Il Trecento rappresenta una stagione eccezionale nella tradizione letteraria, negli scritti delle Tre Corone si realizza una sintesi della tradizione duecentesca, e insieme un suo superamento. In questa stagione viene ribadita la centralità di Firenze e di tutta la Toscana. Dante interpreta subito gli stimoli della più avanzata cultura fiorentina e già con la Vita nova realizza un’opera che determina uno scarto profondo nella concezione tradizionale dell’amore e nel ruolo della lirica, attraverso la vicenda di vita e morte di Beatrice intraprende un cammino più ambizioso, rinviando a un’altra opera una conveniente lode di Beatrice, come avvertendo che aveva bisogno di un’altra cornice per tentare un’operazione di portata maggiore. Accanto alla lucidità teorica, è la sperimentazione la chiave per intendere la ricchissima produzione dantesca. La storia delle divisioni in fazioni occupa in larga parte le poche epistole dantesche pervenute ma segna le biografie degli autori principali e dei comprimari: l’ipotesi imperiale di Arrigo VII e lo spostamento della corte papale ad Avignone, eventi che si riflettono prima nelle opere dell’esilio di Dante e poi passano a Petrarca. La composizione del Convivio e del De vulgari eloquentia sono pensate a sostegno di un innalzamento del ruolo e della dignità del volgare, il De vulgari apre le pagine dantesche alle varietà della lingua sparse sulla penisola e a uno sguardo sulla cultura italiana degli ultimi decenni. Negli ultimi anni di vita nasce la Commedia e diventa immediatamente un’opera di riferimento. La presenza di protagonisti della vita politica contemporanea, il recupero della filosofia di Aristotele e una organica costruzione allegorica fanno della Commedia la sintesi di un’intera cultura. Una schiera di commentatori nel Tre-Quattrocento cercherà di interpretare l’immensa cultura dantesca e l’ambiguità delle sue allusioni. Il poema offre una sintesi inarrivabile di lingua e di stile definito come plurilinguismo dantesco, dai toni più bassi dei cerchi infernali alle gradazioni di luce dell’Empireo, il cielo più prossimo a Dio. Viene confermata quell’alternativa tra il prestigio dell’antica lingua regolata dei classici e il volgare della nuova cultura. Alla morte di Dante nel 1321, Petrarca aveva già avviato il proprio apprendistato: una formazione condotta ad Avignone, a margine della corte papale, attraverso lo studio di codici che andranno a costituire la più importante biblioteca privata del secolo. Nelle sue prime prove poetiche lo si vede chiaramente schierarsi dalla parte del latino, viene ad affermarsi così un intellettuale capace di dialogare con gli antichi, di recuperarne i frammenti perduti e per questa sua eccellenza letteraria garantito di una posizione protetta. Importante è la polemica che Petrarca condusse contro i rigori e i formalismi della scolastica, ponendo l’accento sulla dimensione etica, su una ricerca di ordine morale e che trova piena espressione nella composizione del Secretum e a partire da qui si muovono le prime linee del Canzoniere, passo che mentre l’Europa si sposta su un versante volgare, lui va in direzione profondamente diversa rispetto al modello di Dante. Nella formazione di Boccaccio, invece, concorrono in maniera intrecciata sia la matrice napoletana di stampo cortese sia la matrice fiorentina, rivoluzionata dagli effetti del modello dantesco. Boccaccio rifonde le tessere di questa formazione su generi diversi, dal poema epico alla prosa elegiaca, dal romanzo in prosa al poemetto allegorico. Riconosce in Petrarca lo status di guida e instaura un dialogo a distanza che è anche scambio di manoscritti, mirato al recupero della lezione degli antichi. Boccaccio con la composizione del Decameron, impiega la sua posa complessa, di conio latineggiante, sulla realtà dell’Italia del suo tempo, percorsa nelle diverse città e nei diversi strati sociali in un affresco di eccezionale vivacità. Nasconde ambizioni alte, dietro l’apparente leggerezza della materia e dei racconti, viene assemblata un’opera che reagisce alla dissoluzione devastatrice della peste del 1348, che propone ideali e valori terreni e concreti ma che assegna un valore altissimo alla parola letteraria e allo statuto del poeta di guida e interprete. del 1294-1295. L’identificazione della donna gentile con la Filosofia è inconciliabile con la sua condanna come malvagio desiderio nella stessa Vita nova. La collocazione delle liriche all’interno della lirica non sempre rispetterà i tempi e le occasioni originarie di composizione: la ballata che Dante invia a Beatrice dopo la perdita del saluto ha tratti arcaici e potrebbe essere un componimento giovanile rifunzionalizzato all’interno del libello. È evidente che il poeta nella prosa introduttiva tenda a forzare i significati originari delle poesie e non si può escludere che alcuni componimenti sono stati composti, per esigenze narrative, appositamente per la Vita nuova. Dante introduce la storia del suo rinnovamento spirituale come una trascrizione del libro della memoria di cui si ripromette di riportare il loro significato esemplare. A 9 anni avviene il primo incontro con Beatrice, da allora Amore domina la sua mente ma assistito dalla ragione. Nove anni dopo la fanciulla concede il saluto a Dante, il poeta ha un sogno premonitore che decide di raccontare in un sonetto che invia ai poeti più famosi del tempo ma nessuno è in grado di interpretare il sogno. Dante non è in grado di celare i segni della passione amorosa e finge di essersi innamorato di un’altra donna (per non compromettere Beatrice) a cui dedica le sue liriche. Ma dopo questa sua condotta Beatrice gli toglie il saluto che getta Dante nel più profondo sconforto. Amore, così, gli suggerisce di scrivere una ballata di scuse ma la richiesta cade nel vuoto. Ad un banchetto di nozze alla vista della donna è preso da un attacco di panico, suscitando il riso di Beatrice e delle sue amiche (gabbo) e allora Dante non può far altro che scrivere sonetti in cui denuncia la sua condizione di angoscia. Il superamento di questa crisi avviene grazie al colloquio con delle donne gentili che porta Dante a comprendere come sia necessario riporre ogni felicità nelle parole stesse che lodano Beatrice, espressione di un amore disinteressato e autosufficiente. Muore il padre della fanciulla e Dante in preda ad un delirio della febbre ha una visione che preannuncia la prossima morte della stessa Beatrice, tempo dopo Dante ha un incontro con la fanciulla e l’amica (donna di Cavalcanti), preannunciate da Amore, che gli spiegano il significato della visione. Dopo una digressione su questioni di poetica, Dante compone due sonetti in cui descrive la natura miracolosa di Beatrice. La morte improvvisa di Beatrice inaugura la terza parte del libello e a un anno di distanza dalla sua scomparsa il dolore in Dante è ancora vivo e l’inattesa compassione di una donna gentile susciti un intimo diletto in lui ma avverte che la passione per questa donna sia inconciliabile con l’amore sorretto dalla ragione per Beatrice. Il dramma interiore è risolto da una apparizione di Beatrice che lo fa vergognare del malvagio desiderio e lo restituisce alla ragione. Il poeta rivolge un componimento a Beatrice e ad alcuni pellegrini di passaggio per Firenze e rispondendo alla richiesta di due donne compone un ultimo sonetto in cui contempla l’anima di Beatrice che risplende nell’Empireo. Il libello si conclude con l’annuncio di una nuova opera, nella quale Dante promette di dire di Beatrice quello che non è mai stato detto di nessuna. Per quanto l’immagine dell’amata occupasse la mente del poeta, il potere di Amore è così nobile da non esercitare mai il proprio dominio senza la guida della ragione, Dante invece racconta che vuole amore e ragione come due forze opposte e inconciliabili. Una volta privato del saluto il poeta ha perso quel segno esterno di benevolenza in cui egli aveva riposto tutta la sua beatitudine. Paragonandosi al centro del cerchio, da cui i punti della circonferenza sono equidistanti, il dio spiega invece come l’amore debba avere in sé il proprio centro, cioè la propria perfezione, è non ricercarla al di fuori di sé. Il poeta riesce a maturare dentro di sé, grazie al colloquio rivelatore con una donna, un sentimento di disinteressamento assoluto, questo perfetto equilibrio interiore viene messo in crisi dalla morte di Beatrice, che espone il poeta a nuove tentazioni amorose. L’attrazione per la donna gentile è inconciliabile con l’amore assoluto per Beatrice. Il problema oltre a tradire la memoria di Beatrice è anche quella di ricadere nelle insidiose geometrie di una passione terrena. Ma alla fine una apparizione interiore dell’amata restituisce a Dante la ragione e scaccia il desiderio “malvagio”. Prima di dedicare il finale del libello alla visione celeste dell’amata, Dante celebra il trionfo della ragione. La poesia della lode rappresenta la conquista di un nuovo ideale linguistico e retorico, improntato al supremo valore della dulcedo come Dante stesso ribadirà nell’incontro con Bonagiunta. Ma la svolta delle rime nuove è prettamente ideologica, che rivendica la superiore assolutezza di una poesia frutto di un’ispirazione interiore. Sin dai primi trovatori il canto poetico viene concepito come una richiesta amorosa rivolta alla donna: il poeta manifesta il proprio sentimento per ottenere la ricompensa per il proprio servizio amoroso che coincide con la gioia amorosa, il compimento del desiderio. Quando Dante compone le sue poesie al fine di ottenere il saluto di Beatrice, porta avanti questo modello culturale di origine trobadorica. Nel momento in cui il saluto gli viene negato, il suo amore perde il proprio fine e la sua poesia la propria giustificazione e il poeta entra così in una fase “cavalcantiana”, in cui non può far altro che denunciare il proprio stato d’angoscia ma si rende conto che questa poesia finisce in un vicolo cieco ed è proprio in questa fase di crisi esistenziale che si presenta al poeta l’intuizione della lode dell’amata disinteressata, frutto di un amore autosufficiente che non brami più ricompense terrestri ma che abbia in se la propria beatitudine. Dante accenna nei paragrafi finali alla Commedia e la Vita nova è il suo presupposto per l’eccezionalità della propria vicenda autobiografica, per l’intuizione di un amore che trascende la dimensione terrena, per il potere salvifico attribuito a Beatrice assunta in cielo e per la scoperta della poesia come supremo strumento euristico. Politica ed esilio Nel 1295 con la condanna a morte di Giano della Bella, promotore degli Ordinamenti di Giustizia, Firenze passa sotto il controllo dei Villani ovvero dei membri delle Arti principali. Tra questi c’è anche Dante, iscritto all’Arte dei medici e degli speziali in virtù dei suoi studi filosofici, che al tempo includevano il sapere medico e nel novembre del 1295, diviene membro del Consiglio speciale dei Cento. Negli anni successivi la città è sconvolta dal conflitto tra due famiglie aristocratiche: i Donati (antichi di sangue, neri) e i Cerchi (vicini al popolo e ostili a Bonifacio VIII, bianchi), Dante non si schiera apertamente dato che la moglie era una Donati e Cavalcanti era uno dei maggiori esponenti della fazione dei Cerchi. Nel giugno del 1300 viene eletto priore e per cercare di pacificare la città, i priori decidono di mandare al confino capi delle opposte fazioni. Nell’estate del 1301 Bonifacio VIII, invia come paciaro Carlo di Valois (in Italia per riconquistare la Sicilia agli Aragonesi). Ad ottobre il governo fiorentino manda a Roma un’ambasciata guidata da Dante per cercare di scongiurare l’intervento francese. A novembre, Carlo entra a Firenze prendendo le parti dei Neri che instaurano un nuovo priorato; Dante sfugge alle prime rappresaglie ma nel 1302 viene condannato al confino per corruzione, alla confisca dei beni e al rogo. Trova ospitalità presso Arezzo poi a Forlì e nella primavera del 1303 è ospite a Verona presso Bartolomeo dalla Scala, alla sua morte ritorna a Firenze ma il tentativo di riappacificazione fallisce per l’ostilità dei Neri. I Bianchi tentano con le armi che vengono sconfitti nella Battaglia della Lastra del 20 luglio 1304 ma Dante a quella data aveva già rotto i rapporti con i Bianchi. Dopo tale sconfitta Dante avrebbe rivolto ai fiorentini un’epistola dolendosi dell’esilio ma essa non ci è pervenuta ma a nome del poeta ci sono giunte 13 epistole comprese tra il 1304 e il 1320, che documentano gli anni dell’esilio, ai fini della ricostruzione dei rapporti personali e politici di Dante. La più rilevante e discussa è quella indirizzata a Cangrande della Scala. Nell’estate del 1304 Dante trova rifugio in Veneto, nella Treviso di Gherardo del Camino, in quello stesso anno inizia a lavorare al Convivio e al De vulgari eloquentia, nella speranza di riaffermare il proprio ruolo di poeta e filosofo impegnato nella formazione culturale dell’aristocrazia italica. Nel 1306 si trova in Lunigiania come procuratore della pace con il vescovo di Luni per conto di Franceschino Malaspina, dove rimane fino al 1308. Dante non interrompe mai la strada della sperimentazione poetica, continuando fino agli anni inizierà a porre mano al poema sacro. Dante nel Convivio afferma che le rime d’amore composte per la donna gentile da cui è attratto alla fine della Vita nova hanno un significato allegorico ed esprimono il suo amore per la Filosofia ma non si è sicuri che il significato originario fosse tale. Dante negli anni della maturità si presenta come un cantor rectitudinis e non più come un poeta d’amore. Rappresentano un capitolo a parte le “rime petrose”, distaccandosi dall’armoniosa dulcedo stilnovista, Dante sperimenta per la prima volta un linguaggio lirico fortemente artificioso ed espressivo. Gli studi filosofici e le vicende biografiche lo inducono verso la trattazione di tematiche morali come la leggiadria e la nobiltà. Nei primi anni dell’esilio Dante assume le vesti del cantore della rettitudine con canzoni sostenute da uno stile più elevato e da un forte impegno parenetico. Convivio Il Convivio è un autocommento alle canzoni composte negli anni precedenti, l’operazione appare analoga a quella della Vita nova ma Dante ne rimarca le distanze nel capitolo introduttivo del trattato. È profondamente diverso dal libello giovanile sia per i contenuti filosofici sia per le finalità didascaliche dichiarate fin dal titolo, “banchetto della conoscenza”. La stesura dell’opera si colloca nei primi anni dell’esilio, si può ipotizzare che il primo libro risalga al 1304, mentre il quarto, con il quale il trattato si interrompe, dovrebbe essere stato composto tra il 1306 e il 1308. La scelta di comporre un trattato filosofico in volgare con intento didascalico si spiega con la situazione in cui Dante si viene a trovare nei primi due anni dell’esilio: escluso dalla politica, isolato e temendo compromesso il proprio nome di intellettuale si affida alla possibilità di riaccreditarsi, presso le corti del centro-nord che lo ospitavano, come intellettuale impegnato nella formazione culturale dell’élite italiane. Il De Consolatione Philosophiae di Boezio costituisce un modello di riferimento per la struttura di fondo che prevedeva parti in prosa alternate a carmi filosofici e la personificazione della Filosofia. Altra opera influente è il Tesor, con cui Dante condivide l’intento divulgativo di trasmettere il sapere alle nuove classi dirigenti, però polemizza condannando apertamente la scelta di aver adottato un volgare straniero e non quello italiano. Per quanto riguarda i contenuti filosofici, mostra una grande conoscenza dell’opera aristotelica e gli elementi neoplatonici derivano dal Liber de causis (trattato di metafisica del 12 secolo). Infine, come modello, vi sono anche le Etimologie di Isidoro di Siviglia, il Liber derivationum di Uguccione da Pisa e lo Speculum naturale Vincenzo di Beauvais. Dante non porta a termine il Convivio per dedicarsi alla Commedia. Ci sono giunti 4 libri: Il primo è l’introduzione dell’opera; La sequenza dei tre fiorentini che conobbero l’eccellenza del volgare è ricalcata dal sonetto Guido, i’vorrei che che tu e Lapo ed io, aggiungendo come unico non fiorentino, Cino da Pistoia. Dante non perde occasione di ricalcare i limiti della poesia di Guittone e dei suoi seguaci, relegandola ad un ambito municipale ma l’attacco vero e proprio arriva nel secondo libro dove, dopo aver citato come modelli una serie di canzoni provenzali, francesi ed italiane, condanna aspramente i seguaci di Guittone accusandoli di ignorantia e di plebescere, ribadito poi nel Purgatorio. Più controverso è il riconoscimento di Cino da Pistoia come miglior poeta d’amore, scelta che pare andare a detrimento proprio dell’amico Cavalcanti e si attribuisce a tale scelta un significato polemico che confermerebbe la rottura del rapporto tra i due. Anni della Commedia: 1308-1321 La salita al trono imperiale di Enrico VII di Lussemburgo suscita tra ghibellini italiani forti attese che sembrano trovare compimento quando l’imperatore scende in Italia nel 1310 per riaffermare l’autorità dell’Impero ed essere incoronato a Roma dal Papa. Anche Dante ripone nell’azione politica e militare le proprie speranze di rivedere ripristinati l’ordine e la giustizia, infatti è possibile che si rechi a rendere omaggio ad Enrico nel dicembre del 1310 a Vercelli o nel gennaio del 1311 a Milano quando riceve la corona del Regno d’Italia. Tra i comuni guelfi più risoluti a resistere all’Imperatore c’è Firenze e Dante nel marzo del 1311 scrive una durissima lettera agli abitanti di Firenze, minacciando un castigo per la città (epistola 6) e la lettera successiva esorta Enrico a rivolgere con decisione la sua azione militare contro Firenze. Dopo aver ricevuto la corona imperiale, nel settembre del 1312, Enrico pone l’assedio a Firenze ma non riuscendo ad entrare nella città. Nell’estate 1313 decide di muovere verso il meridione ma a Siena, l’imperatore muore di malaria facendo svanire il sogno di Dante di una pax augusta e la speranza di un prossimo ritorno a Firenze. Monarchia Dante decide di comporre la Monachia, in cui legittima sul piano teologico, storico e filosofico l’autorità imperiale, proprio durante l’ascesa di Enrico VII. Nei tre libri del trattato vuole dimostrare che l’Impero universale è necessario per il buon ordinamento del mondo, che i Romani costruirono l’Impero a buon diritto e in accordo con la volontà divina e che l’autorità imperiale deriva direttamente da Dio e non dal pontefice. Dante interviene nel dibattito su chi tra imperatore e papa avesse il primato del diritto affrontando il problema su un piano filosofico e storico, mediante il ricorso all’autorità di Aristotele. Inoltre, si richiama ai poeti latini come Virgilio con cui rivendica la natura provvidenziale dell’Impero Romano. La Monarchia è utile ai fini della comprensione d fondamentali temi e concetti espressi nella Commedia. Nella primavera del 1314 scrive l’epistola 11 ai cardinali italiani per esortarli ad eleggere un papa italiano come successore di Clemente V per riportare la sede papale da Avignone a Roma. Nel maggio del 1315 i nuovi governatori di Firenze emanano un provvedimento di amnistia, al prezzo di una multa e un rito umiliante che Dante respinge. Dante lascia la Toscana e torna a Verona da Cangrande della Scala, dai suoi rapporti privilegiati è prova l’epistola 13 con cui Dante gli dedica il Paradiso, lettera che da sempre fonte di discussioni circa la sua datazione, luogo di composizione e la sua autenticità. Alla dedica, che occupa la prima parte della lettera, segue un’introduzione generale alla Commedia e un’esposizione dei primi versi del Paradiso. Nel 1319 Dante si trasferisce a Ravenna, presso Guido Novello da Polenta e qui lavora completamente al Paradiso. Nel gennaio del 1320, dopo un viaggio a Mantova, torna a Verona per presentare nella chiesa di Sant’Elena la Quaestio de aqua et terra in cui affronta una questione filosofica sul rapporto tra la sfera delle acque e quella della terra. Nel 1320 Giovanni del Virgilio, invia a Dante un’epistola metrica in cui gli rimprovera la scelta del volgare per la Commedia e lo invita a cantare in latino i recenti avvenimenti bellici italiani. Dante risponde con un’egloga in esametri sul modello delle Bucoliche di Virgilio, in cui rivendica la sua fiducia nel poema, Giovanni gli risponde con un’egloga invitandolo ad andare a Bologna ma il poeta declina l’invito a causa della presenza di un personaggio crudele (Fuliceri da Calboli) ma non fa in tempo ad inviare l’egloga perché tra il 13 e il 14 settembre del 1321, tornato da un’ambasceria a Venezia per conto dei da Polenta, si ammala e muore a Ravenna. Commedia Si hanno poche certezze sui tempi di composizione dell’opera ma gli studiosi sono concordi nel far coincidere l’interruzione del Convivio e del De vulgari eloquentia con l’inizio della composizione del poema, quindi intorno al 1307-1308, in concomitanza con il risorgere del sogno imperialie a seguito dell’elezione di Enrico di Lussemburgo. Le tre cantiche furono comunque scritte e pubblicate in tempi diversi, le prime due potrebbero essere state oggetto di revisione comune e l’ultima che impegnò il poeta fino alla sua morte. È probabile che gruppi di canti iniziassero a circolare presso amici man mano che venivano composti. Per la circolazione dell’Inferno appare rilevante la testimonianza di Francesco da Barberino che cita la cantica in una glossa dei suoi Documenti d’amore (1314), più controversa è la profezia della morte di Clemente V avvenuta nell’aprile del 1314 che implicherebbe che il lavoro sulla prima cantica si sia protratto almeno fino all’anno precedente. Per il Purgatorio si hanno due date: la sconfitta subita da Firenze per mano dei ghibellini (Montecattini, 1315) e una citazione dal II canto contenuto nel volgarizzamento dell’Eneide che prova che il Purgatorio fosse già noto nel 1316. La stesura dell’ultima cantica del Paradiso è ancora in corso nel 1320 e proseguì fino alla morte del poeta. La prima edizione completa della Commedia fu curata dal figlio Jacopo che ricongiunse i canti ravennati e veronesi del Paradiso alle due cantiche già pubblicate. Il titolo Divina Commedia risale al letterato Ludovico Dolce nel 1555, riprendendo la formula da un passo del Trattatello di Boccaccio. Dante per designare il suo poema usa solo il nome Commedia (nella forma comedìa, con accentazione greca). L’assunzione di un titolo che indica un genere letterario si spiega facendo riferimento alla teoria degli stili propria della retorica medievale, cui allude anche l’epistola a Cangrande. Secondo i grammatici medievali, il genere della commedia, al contrario della tragedia che aveva registro e materia elevati, permette sia sul piano della rappresentazione sia su quello linguistico la massima varietà di contenuti e stili. Nel caso del poema il titolo Commedia autorizza la scelta di fondo della materia (protagonista è un peccatore) e della lingua volgare (e non latino, usato per le tragedie), ma risponde alle molteplici e mutevoli esigenze espressive che vanno dall’abisso infernale alle atmosfere rarefatte del Paradiso. La Commedia si compone di 3 cantiche che corrispondono ai 3 regni oltremondani visitati dal protagonista: Inferno, Purgatorio e Paradiso. Ogni cantica prevede 33 canti, a cui si aggiunge un proemio che coincide con il I canto dell’Inferno, per un totale di 100 canti e di 14.233 versi complessivi. Questa architettura numerica richiama la simbologia cristiana della Trinità, il valore del 3 e del suo multiplo 9 è già operante nella Vita nova e ispira anche la toponomastica dei regni ultraterreni (il fiume Stige che disegna 9 giri attorno agli inferi, l’Inferno è diviso in 9 cerchi, il Purgatorio in 9 parti, il Paradiso in 9 cieli) e il loro ordinamento morale (dannati divisi in 3 grandi categorie in base alla natura del loro peccato). Ritorna in numerose immagini e soluzioni narrative (3 fiere, 3 giri che la barca di Ulisse fa prima di affondare). Il 3 contraddistingue l’innovativa soluzione metrica della terzina, se l’endecasillabo è l’unico verso della tradizione italiana in grado di riflettere la varietà dell’esametro latino, l’idea di legarlo in una struttura ternaria con schema ritmico ABA, BCB, CDC è un’invenzione dantesca che garantendo ritmo e solennità, accompagna la narrazione senza cadere nella monotonia. Inferno Dante immagina l’Inferno, collocato sotto Gerusalemme, come una voragine a forma di cono rovesciato che degrada, attraverso gironi circolari sempre più stretti, fino al centro della Terra. Passata la porta dell’Inferno si incontrano gli ignavi (in vita non scelsero né bene né male), attraversato il fiume Acheronte si inizia a discendere lungo il baratro infernale. Il primo cerchio è il limbo, dove ci sono gli innocenti non battezzati come Virgilio, che guida Dante attraverso i regni. Negli otto cerchi successivi si puniscono, mediante la pena del contrappasso che richiama per analogia la colpa commessa in vita, i peccati di incontinenza, violenza e frode secondo un ordine di gravità crescente. Nel secondo, terzo, quarto e quinto cerchio, custoditi da demoni presenti nella mitologia classica (Minosse, Cerbero, Pluto…), vi sono rispettivamente i lussuriosi (bufera), i golosi (pioggia e Cerbero), gli avari e i prodighi (massi), gli iracondi e gli accidiosi (fango). Circondate dalla palude del fiume Stige, le mura della città di Dite racchiudono i peccati più gravi, nel sesto cerchio ci sono gli eretici, nel settimo i violenti: contro il prossimo (sangue), contro sé stessi (cagne) e contro Dio, l’arte e la natura (pioggia di fuoco). Dopo una ripa discoscesa, custodita da Gerione, si entra nell’ottavo cerchio dove sono puniti i fraudolenti contro chi non si fida, distribuiti in 10 bolge concentriche: seduttori, adulatori, simoniaci, indovini, barattieri, ipocriti, ladri, consiglieri fraudolenti, seminatori di discordia e falsari. Nel nono cerchio, custodito da Giganti, sono puniti i fraudolenti verso chi si fida: i traditori dei parenti, della patria, degli ospiti e dei benefattori tra cui anche Bruto, Cassio e Giuda maciullati nelle 3 bocche di Lucifero, al centro del pozzo infernale. Purgatorio Agli antipodi di Gerusalemme, generata dal ritirarsi della Terra inorridita dalla caduta di Lucifero, sorge, circondata dall’Oceano, la montagna del Purgatorio, sulla cui cima si trova il Paradiso Terrestre. Accoglie gli spiriti dei peccatori che si pentirono prima di morire guadagnandosi la possibilità di accedere al Paradiso. Il Purgatorio è preceduto dall’Antipurgatorio che ospita gli scomunicati e i negligenti che devono attendere del tempo prima di accedere al monte vero e proprio, ed è diviso in 7 cornici. I 7 peccati capitali, derivati dalla morale cristiana, sono intesi come deviazioni dall’amore naturale e vanno dal più grave al meno grave, le anime nel loro cammino di espiazione percorrono tutte le cornici, come fa Dante, sulla cui fronte vengono tracciate dall’angelo 7 P che si cancellano al passaggio da una cornice all’altra. Giunte sulla spiaggia traghettate da un angelo nocchiero, le anime sono accolte da Catone l’Uticense. Nelle prime 3 cornici si purifica l’amore rivolto verso il male: superbia, rabbia e ira, nella quarta si trovano gli accidiosi che ebbero scarso amore verso il bene, nella Il protagonista della Commedia non è un eroe classico ma un Io cristiano che narra in prima persona la propria esperienza esistenziale, per questa impostazione si avvicina alle Confessioni di Agostino, storia di una conversione che costituisce l’archetipo dell’autobiografismo cristiano. Agostino viene citato nel Convivio per giustificare la scelta autobiografica del parlare di sé, lecita a un cristiano medievale solo quando comporta agli altri una grandissima utilità. La prima persona di Dante riflette però un Io complesso, è importante distinguere il Dante-autore da Dante-personaggio. Il primo è l’auctor che racconta, come narratore onnisciente, il viaggio come un’esperienza vissuta e conclusa, in tali vesti può intervenire per rimarcare l’irriducibile difficoltà di riferire ciò che ha visto o per tenere viva l’attenzione del lettore. Il secondo è il viator, il personaggio protagonista del viaggio la cui prospettiva è interna al racconto e muta con il progredire della narrazione. Questa distinzione sarebbe apparsa incomprensibile a Dante che per tutto il poema si sforza di rinsaldare la propria identità con il protagonista del viaggio, ovvero ribadire la veridicità del suo racconto. Emblematico è il motivo dell’emozione rivissuta in cui Dante-autore rievocando un evento afferma di risperimentare la stessa emozione provata allora. La dimensione autobiografica si impone sin dal primo verso (mi ritrovai). A fondamento del viaggio ci sono persone appartenenti alla vita e alla formazione del poeta. Il privilegio di visitare da vivo i regni oltremondani gli è stato concesso grazie a Beatrice che esorta Virgilio a soccorrerlo, è lei che lo accoglie sulla cima del Purgatorio e lo guida attraverso i cieli del Paradiso. Fin lì Dante è stato condotto da Virgilio: la sua fama è universale ma Dante nel riconoscerlo gli si rivolge come il suo maestro e autore. Tra le anime incontrate numerosi sono gli amici e i concittadini come Brunetto, il musico Casella, Forese Donati. Non mancano riferimenti alla vita del poeta, dalle profezie post eventum riguardanti il suo esilio, il ricordo della sua partecipazione alla battaglia di Caprona, fino ad aneddoti minori. Dante-personaggio intende sempre essere Dante Alighieri in carne ed ossa. Le tre fiere che incontra nel proemio rappresentano i tre vizi che hanno rischiato di perderlo, prima che i tre vizi di tutta l’umanità. Le stesse reazioni del viator di fronte ad alcuni peccati nell’Inferno e nel Purgatorio riflettono la personale esperienza del poeta, rivelandone l’urgenza di espiazione. Il poeta si mostra molto appassionato, prova forti emozioni come la paura e la compassione soprattutto quando è costretto a confrontarsi con peccati che riconosce come propri. La pietà che Dante manifesta verso Paolo e Francesca esprime il rimorso di essersi macchiato della stessa colpa. Il viaggio dantesco intende farsi portatore di un messaggio universale, Dante- personaggio vuole essere al tempo stesso qualsiasi uomo: la sua esemplare vicenda di salvezza riguarda l’umanità intera. Nell’immensa costruzione della Commedia ogni uomo deve riconoscere la propria vicenda terrena per imparare ad emanciparsi dai propri vizi e aspirare alla ricompensa divina. L’esperienza dantesca non richiede una vera e propria identificazione, Dante presenta il suo viaggio come un’esperienza unica e irripetibile. Il poeta è colui che ha avuto eccezionale privilegio di vedere cose straordinarie e di trasmetterle all’umanità per la salvezza universale. Il poema, nelle intenzioni dell’auctor, va interpretato come una mera finzione letteraria o come una sorta di esperienza mistica? Dante si riteneva un poeta o un profeta? Nella cultura medievale questi due ruoli non sono affatto alternativi, non ci sono dubbi sul fatto che Dante nella Commedia assuma un’attitudine profetica. Oltre che numerose profezie post-eventum, riguardanti eventi biografici o storici che sono già accaduti al momento della composizione, Dante formula le enigmatiche profezie sull’avvento di un Salvatore che in un futuro prossimo giungerà in soccorso dell’umanità. Il poeta si fa esplicitamente investire di una missione profetica in una serie di incontri cruciali: da Beatrice sulla montagna del Purgatorio, dall’animo del suo avo Cacciaguida in Paradiso e infine da San Pietro che gli affida le sue verità provvidenziali perché le riveli al mondo corrotto. Non pare ammissibile che Dante attribuisse alla sua Commedia soltanto il valore artistico della fictio letteraria e non quello spirituale-profetico proprio della visio. Immagini, sogni e visioni veritiere erano ammesse nella letteratura religiosa ma anche dalla tradizione filosofica aristotelica. Anche se mancano elementi formali e strutturali per riconoscere nel poema una vera e propria visione mistica, non è inverosimile pensare che Dante, per quanto costruisca il suo capolavoro sfruttando ogni artificio letterario ritenesse la sua parola profetica come quella di molti altri biblici, ispirata dallo Spirito Santo. Al pari di quando, interrogato sulla sua esperienza di poeta volgare, risponde di limitarsi a scrivere quello che Amore gli detta interiormente (scriba Dei). L’impianto dottrinale della Commedia implica un confronto costante con la tradizione filosofica e teologica. Dante non solo rielabora le soluzioni del pensiero antico e medievale riguardo alla gerarchia dei peccati e dei meriti ma affronta tutte le questioni filosofiche dibattute al suo tempo: la predestinazione della grazia, il libero arbitrio, la natura e le funzioni dell’anima umana. Il risultato è un personale sincretismo Il risultato è un personale sincretismo che prosegue l’intento di Alberto Magno e di Tommaso d’Aquino di conciliare la fede cristiana con la filosofia di Aristotele che Dante definisce come maestro di color che sanno e lo raffigura tra gli spiriti magni del nobile castello del Limbo. Una questione dell’aristotelismo medievale riguarda le facoltà intellettive dell’anima umana. Averroè, nel suo commento al De Anima di Aristotele aveva sostenuto che l’intelletto possibile, eterno e incorruttibile fosse unico per tutti gli uomini con la conseguenza che l’anima individuale fosse soltanto quella sensitiva, destinata a morire con il corpo e Dante affida a Stazio nel Purgatorio la spiegazione dottrinale della genesi e delle facoltà dell’anima. Egli denuncia come erronea la dottrina che vuole l’intelletto possibile separato dall’anima e spiega come l’anima venga infusa direttamente da Dio in modo che abbia in sé tutte e tre le funzioni: vegetativa, sensitiva e intellettiva. L’esperienza dell’esilio, intrecciata con la stesura del poema, determina la tensione e la passione che alimentano la tematica della politica, nel suo oscillare tra indignazione per lo stato di degenerazione e la stenua fiducia in un imminente intervento provvidenziale. Per Dante il nocciolo della questione politica è non solo ideologico ma etico come emerge dal colloquio con Marco Lombardo nel Purgatorio: è legato con la missione di fondo del poema di indicare la via per la salvezza universale. La voce dell’esule risuona forte per l’agognata Firenze, maledetta per la sua scellerata condotta e rimpianta dolcemente. In Paradiso il suo avo Cacciaguida, nel rivelare la sua identità, può invece rievocare l’armonia di un’ideale Firenze. La corruzione e la decadenza di Firenze riflettono una rovina morale e politica che oltrepassa i confini municipali e pervade l’intera penisola che Dante vede abbandonata alla casa imperiale tedesca nelle mani dei francesi Angioini. Di fronte a un unico inarrestabile sfacelo che pare universalmente travolgere la città, papato e impero, la fede del poeta sembra incrinarsi. Lasciando affiorare l’inquietudine che si insinua in ogni grande visione, quale quella dantesca in un mondo illuminato da due soli: un imperatore in grado di amministrare la giustizia e garante della felicità naturale e un papa disinteressato alle cose terrene e ispirato da Dio nella sua missione spirituale, garante della felicità eterna. Il viaggio oltremondano è anche un viaggio letterario in cui il poeta ripercorre la sua formazione e la sua storia. Non avviene solo sul piano implicito dell’intertestualità con il confronto e attraverso le pratiche dell’imitatio e dell’allusione con auctores latini e volgari ma anche sul piano esplicito della costruzione narrativa: la Commedia pullula di anime di poeti antichi e moderni con cui il viator si ferma a parlare. Le ragioni sono evidenti: a Dante preme pronunciare una parola definitiva circa il proprio ruolo e primato all’interno della più alta tradizione letteraria volgare. Nel quarto canto dell’Inferno vede un gruppo di anime distinte che li accolgono tra loro onorando il poeta latino, sono i rappresentati della bella scola dei poeti antichi, guidati da Omero. In questo episodio Dante fissa il proprio canone di autori classici che include Omero (massimo poeta dell’antichità), Orazio satiro (le satire sono apprezzate nel Medioevo per il loro significato didattico-morale), Ovidio (poeta più celebre e influente in età medievale), Lucano e Stazio che Dante incontrerà nella quinta cornice del Purgatorio, immaginandolo convertito al cristianesimo. Dante dialoga di poesia con gli spiriti di poeti d’amore contemporanei, italiani e provenzali, riprendendo questioni e polemiche della sua militanza stilnovistica, offrendo una rilettura della lirica amorosa. Nel canto 24 dell’Inferno Dante incontra Bonagiunta che è chiamato a rappresentare la vecchia scuola in virtù della sua polemica contro la nuova maniera di Guinizzelli. La ricostruzione dantesca offre due dati: a. la personale rivendicazione di un’ispirazione amorosa interiore e assoluta, ossia una superiore intellezione lirica che richiama la scoperta dell’autosufficienza della poesia posta a fondamento della poetica della lode; b. l’individuazione di un preciso e irriducibile discrimine che separa l’innovativa lirica di un gruppo di poeti (Dante, Cavalcanti, Lapo e Cino) dalla precedente tradizione cortese (da Lentini e Guittone). Nella cornice dei lussuriosi sono presenti i nomi dei più alti rappresentanti della lirica volgare: Guinizzelli e il provenzale Arnaut Daniel. Un aspetto che spiega il perdurare della Commedia è la dimensione profondamente umana e terrena della rappresentazione dantesca. I personaggi danteschi, a differenza delle personificazioni e delle allegorie medievali, sono umanamente vivi, in un luogo senza tempo e senza immanenza le ombre della Commedia mantengono tutta la loro individualità storica di esseri umani in carne ed ossa. Gli incontri con le anime sono messi in scena con una tecnica teatrale. Quali sono stati da vivi così gli spiriti danteschi sono sempre fissati nella morte, la loro vita diviene “figura” della loro condizione oltremondana che, a sua volta, riproduce i tratti psicologici e caratteriali propri della realtà mondana. L’aldilà diventa teatro dell’uomo e delle sue passioni, descrivendo lo status animarum post mortem, mette in scena il mondo dei viventi, una rappresentazione dell’umanità con le passioni, i dilemmi e gli errori. L’intrinseca varietà della materia esige un linguaggio altrettanto mutevole e plastico, capace di rappresentare tanto la realtà infernale quando la trascendenza delle sfere celesti, Dante recupera e mette a frutto la sua precedente esperienza lirica. La componente più evidente del plurilinguismo dantesco è il lessico, che sperimenta tutte le possibilità espressive a disposizione ricorrendo anche a lingue diverse. La base linguistica è il volgare fiorentino che viene usato in tutte le sue varianti alternando forme arcaiche e moderne, termini dotti e popolareggianti. In questa dimensione rientrano anche i dialettismi prelevati da altri volgari, talvolta per esigenze mimetiche. All’opposto registro colto rimanda invece l’uso della lingua latina sia Di questi due aspetti complementari si sostanzia quello che è chiamato l’umanesimo di Petrarca ovvero l’approccio scientifico ai testi, la comprensione profonda della loro problematicità storica che non va visto come atteggiamento erudito ma è la condizione necessaria per instaurare con il passato un rapporto vitale e un dialogo che sia fecondo nel presente. Fa un grandissimo lavoro sui codici e lo si sa dalle numerose postille che pone ai margini dei testi che studia, commenti, rimandi intertestuali. Si procura più copie di una stessa opera per confrontare diversi esemplari, un esempio è l’operazione di restauro degli Ab urbe condita di Livio dove assembla tutte le deche allora conosciute prelevandole da diversi codici che trascrive, collaziona ed emenda dagli errori. Fa un lavoro filologico anche con altre opere latine: Achilleide di Stazio, l’Ars maior di Donato e alcune odi di Orazio. Un intento simile lo ha anche con il manoscritto Virgilio Ambrosiano in cui sono raccolte le principali opere di Virgili (Eneide, Bucoliche e Georgiche) corredate dal commento di Servio. È il libro che più aveva caro tanto da chiedere al pittore Simone Martini di realizzare una miniatura iniziale raffigurante l’allegoria delle tre opere virgiliane. Lo porta sempre con sé e lo postilla per tutta la vita facendone una raccolta variegata della sua cultura ma anche una sorta di diario personale, tanto che nei fogli guardia scrive gli epitaffi per la morte di Laura e del figlio Giovanni. Opere latine Tra il 1338 e il 1339, a Valchiusa, inizia a lavorare alle sue prime opere latine: il poema epico in esametri Africa sulla 2 guerra punica e sulla figura di Scipione l’africano e la raccolta di biografie esemplari De viris illustribus che include le vite dei più famosi condottieri romani, l’emulazione di Tito Livio e Virgilio è evidente. Petrarca vuole presentarsi al pubblico come cultore dell’antichità classica. Il primo settembre 1340 riceve due inviti a essere insignito della laurea poetica: il primo viene dal senato di Roma a nome di Re Roberto d’Angiò e il secondo dallo studium di Parigi. Nelle Posteritati e in alcune lettere del IV libro delle Familiares, il poeta riconosce l’evento come momento fondativo della propria fama internazionale. Parigi e Roma sono due poli opposti della cultura del tempo, la prima è la capitale della cultura accademica medievale, la seconda è la città simbolo del mondo classico, la culla della civiltà che Petrarca vuole far rivivere. La scelta ricade su Roma per amore della patria e per il fatto che ritenesse Re Roberto l’unico uomo degno di esaminarlo ma ha anche un importante valore ideologico, Roma fa assumere alla cerimonia un significato universalistico: è definita capo del mondo e regina delle città, inoltre consente a Petrarca di proporsi come erede della poesia latina e ideale prosecutore dell’antica civiltà romana. L’8 aprile 1341 ha luogo la cerimonia in cui Petrarca viene incoronato poeta in Campidoglio, la collatio laureationis è un’autentica autoinvestitura: la sede mitica dei poeti è abbandonata e spetta a lui rinnovare la memoria e conquistare l’immortalità della gloria. Africa Dopo l’incoronazione si stabilisce un anno a Parma e riprende a lavorare alle due opere iniziate a Valchiusa. L’Africa è un poema epico giunto a noi incompleto, dei 12 libri previsti sul modello dell’Eneide, ne compone 9. È molto complessa la storia redazionale dell’opera, fatta di continue revisioni spalmate in un arco temporale molto ampio (1338-1353). La conversione porta il poeta a essere sempre diviso se completare l’opera e l’incertezza del suo valore letterario ed etico. Non consentirà mai in vita che venga pubblicato l’intero testo ma solo qualche brano autonomo. I modelli sono Livio e Virgilio, il primo offre lo sfondo storico in cui ambientare la storia e il secondo il modello stesso dell’epica classica. Trama: Libri I-II: ispirati al Somnium Scipionis di Cicerone. Il padre e lo zio di Scipione gli compaiono in sogno all’eroe predicendogli le sue vittorie. Libro III e parte superstite del IV: rievocazione della storia di Roma e elogio di Scipione Libro V: si focalizza sulla relazione amorosa tra il re Massinissa (successore di Siface e alleato di Roma) e Sofonisba (moglie di Siface, alleato di Cartagine). Il matrimonio tra i due è osteggiato da Scipione. Libro VI: si apre con la discesa agli inferi di Sofonisba tra le vittime d’amore, prosegue il racconto con la partenza di Annibale per l’Italia e si conclude con la morte di Magone, fratello del condottiero cartaginese. Libro VII e VIII: raccontano degli eventi che vanno dal primo incontro di Scipione e Annibale alla battaglia di Zama. Libro IX: è ambientato a Roma dove Scipione dialoga con Ennio che gli riporta la visione profetica di Petrarca che dopo molti secoli sarà chiamato a cantare la gloria dell’eroe. Il libro si conclude con il trionfo di Scipione e la dedica alla tomba di Roberto d’Angiò (morto nel 1343). L’interesse petrarchesco per la classicità non è in opposizione allo spirito cristiano ma è il loro connubio a offrirgli un modello universalmente valido della natura umana. Il classicismo ricerca ciò che è umano e comune a tutte le genti. Nell’Africa vi è già il nerbo essenziale dell’umanesimo di Petrarca, secondo il quale il recupero dell’antico non è che l’altra faccia di un cristianesimo più aperto: l’uno fornisce risposte alle più segrete e universali interrogazioni dell’anima umana, l’altro è pronto ad assorbire in sé la virtus pagana. De viris illustribus A un intento simile risponde il disegno dell’altra opera latina, il De viris illustribus cominciata nel 1338 e comprende le biografie di 23 condottieri romani di età repubblicana. Le notizie vengono in gran parte da Livio, modello sia per la modalità della narrazione sia per la concezione moralistica della storia che lo caratterizza. La scelta dell’età repubblicana rispecchia la prospettiva ideologica di chi non crede più in una possibile continuità dell’istituzione imperiale ma risale alle origini del mos maiorum: attaccamento alla patria, sacrificio, l’uso virtuoso del potere e della forza. Petrarca torna sull’opera dopo la sua incoronazione e poi nei primi anni 50 modificandone profondamente l’assetto. La galleria romana viene portata indietro aggiungendo altre 12 biografie, da Adamo a Ercole, si capisce che questi inserti mutano radicalmente la prospettiva di fondo. Alla storiografia liviana si associa la riflessione morale agostiniana, che aveva mostrato a Petrarca la via per leggere la storia universale nel piano provvidenziale della storia del popolo di Dio. Resta incompiuto ma lavora fino alla maturità alle biografie a cui teneva di più come quella di Scipione e quella di Cesare che dopo il 1366 diventa un’opera autonoma: De gestis Cesaris. Rerum memorandarum libri Nel 1342 Petrarca torna ad Avignone e comincia la stesura dei Rerum memorandarum libri, rappresenta un momento di passaggio dai primi libri alla svolta morale. È una raccolta ordinata sul modello dei Factorum et dictorum memorabilium di Valerio Massimo, in cui si espongono aneddoti relativi a personaggi illustri del passato e del presente, i fatti sono suddivisi sulla base delle 4 virtù cardinali (prudenza, giustizia, fortezza e temperanza). Ogni virtù è suddivisa in diversi argomenti, per ciasuno c’erano degli exempla provenienti dal mondo antico e dal mondo moderno, tra i quali spicca la figura di Roberto d’Angiò ma viene ultimata solo una minima parte, abbandona l’opera nel 1345 quando i Viconti e i Gonzaga assediano Parma costringendolo a fuggire. Al 1343 risalgono 2 avvenimenti traumatici per la sua vita: muore re Roberto d’Angiò e il fratello Gherado entra nell’ordine dei Certosini. Emergono con forza le inquietudini che scandiscono tutte le grandi raccolte. I miti che avevano caratterizzato il suo primo impegno intellettuale vanno incontro ad un riesame, alla luce di una nuova e pressante preoccupazione morale. L’idea della morte che incombe su ogni uomo e la fugacità del tempo che consuma l’esistenza diventano i temi portanti della sua produzione. L’interrogazione di sé, la meditazione sul senso della propria esistenza si impongono nella scrittura. De vita solitaria Alla fine del 1345 torna in Provenza. A Valchiusa scrive una prima versione del trattato De vita solitaria che arricchisce per oltre due decenni. Nel primo libro l’ideale di una vita appartata viene difeso attraverso un’esposizione sotto forma di trattato filosofico a cui si allega nel secondo libro una lunga serie di exempla di vita solitaria di cristiani e pagani. Il modello di realizzazione è quello dei Rerum ma è diversa la prospettiva di fondo. La ricostruzione storico-erudita trova ora la sua ragion di essere su un fondamento convintamente cristiano. Solo in un quadro ideologico che preveda la Rivelazione di Cristo e su di essa fondi ogni precetto etico l’antica sapienza pagana si invera e acquista una validità universale. Il primo libro, di impostazione sapienziale, pone le condizioni di esistenza del secondo che ne presenta le concrete realizzazioni nella storia. I temi portanti che caratterizzano la scrittura petrarchesca della maturità sono solitudine, dedizione completa alle lettere, lo studio degli antichi e la coscienza del valore effimero e transitorio delle cose del mondo e l’anelito verso Dio, l’importanza della memoria come unico modo per vivere il presente e la percezione di sé come più autentica forma di conoscenza del mondo. I nuclei di senso che innervano la produzione petrarchesca vanno sempre interpretati in rapporto con l’esperienza della passione amorosa per Laura, che corre parallela durante tutti gli anni, tanto nella vita quanto nella scrittura. De otio religioso Sugli stessi temi è incentrato il De otio religioso, iniziato nel 1347 dopo una visita al fratello in onastero, con aggiunte e revisioni che arrivano fino alla fine degli anni 50. La struttura è la stessa del De vita solitaria, i cui temi del ritiro meditativo e della vita appartata hanno una più precisa caratterizzazione in senso cristiano, al centro vi è l’apologia della vita monastica. La forma del libro è quella del sermone a commento del versetto biblico “vacate et videte”, l’invito di Dio al popolo di Gerusalemme a liberarsi dagli affanni e a guardare unicamente al bene celeste. Attraverso una serie di citazioni tenta la strada della sintesi tra sapienza antica e verità cristiana, l’unione è evidente dal titolo che fonde il concetto pagano dell’otium cioè l’operosità solitaria e il suo inveramento cristiano. Il discorso è fondato sul principio che l’emancipazione dalle tentazioni mondane può darsi solo a patto che il monaco combatta la propria umana debolezza e resista agli assalti dei vizi dedicandosi a un’inesausta meditazione sulla morte che è la sola che può liberare l’anima. Tale meditatio mortis consente a Petrarca la sintesi pagano-cristiana del suo pensiero. Il precetto già pagano del “conosci te stesso” ha un fondamento solo parziale se visto in un orizzonte senza Dio perché è tutto schiacciato sull’esistenza mondana. La conoscenza di Dio, l’avvertimento del dolore e del sacrificio di Cristo consentono di realizzare quel precetto dal momento che, in un mondo destinato a finire, solo la salvezza dell’anima e tutto ciò che in vita è orientato a quella salvezza, acquistano un senso. al disprezzo del corpo e alla meditazione sulla nostra natura mortale, Francesco sarà incapace di dirigersi verso il vero bene finché non si libererà delle passioni terrene. Si nota l’insistenza sul tema del dissidio, oppresso da questo conflitto l’uomo si trova nella drammatica situazione del naufrago in balia delle onde. Solo la presa di coscienza sulla usa natura mortale e la meditazione sulla morte può portarlo in salvo. La rinuncia richiede fermezza ma Francesco non è ancora in grado di arrivarci. Nel secondo libro si entra nel vivo dell’interrogazione di Agostino che sottopone l’allievo ad un serrato esame dei suoi peccati costringendolo ad ammettere di essere vittima di ciascuno di essi: la superbia, il desiderio dei beni terreni, la lussuria e l’accidia. In questa, cioè l’aspirazione al bene che però non supera mai uno stato incerto, risiede l’inquietudine che logora il soggetto perché non riesce a riconoscere niente come valore. Il terzo libro è dedicato ai due principali valori a cui il poeta ha consacrato la sua esistenza che Agostino riconosce come i più rovinosi peccati: l’amore per Laura e la brama di gloria. Francesco difende il suo amore per Laura come il più nobile e puro dei sentimenti. Le virtù di Laura e la sua bellezza rappresentano i mezzi per elevare la sua conoscenza della verità celeste. Agostino chiarisce che il suo sentimento è la prima causa del suo traviamento morale perché è il desiderio verso una creatura mortale che acceca e allontana l’uomo da Dio. Sul desiderio della gloria tra gli uomini verte l’ultima parte del dialogo e Agostino obbliga Francesco ad analizzare e mettere in discussione la legittimità e il significato più profondo del suo impegno letterario. Gli rimprovera che pur avendo speso tutta la vita a studiare gli autori antichi non ha mai seguito i loro insegnamenti nella sua concreta condotta. E che se ha voluto presentarsi come scrittore erudito e modello di superiore moralità lo ha fatto solo per eccesso di superbia, dal momento che non è stato in grado di assumere nella sua vita la vitù che andava predicando. La conclusione del Secretum è ambigua e tutt’altro che risolutrice. Agostino invita Francesco ad abbandonare per sempre tutte quelle imprese poetiche da cui spera di ricavare fama e di porre unicamente sé stesso al centro delle sue scelte. Francesco è giunto alla consapevolezza di ciò che lo affligge, dichiara di essere convinto del consiglio del maestro di riappropriarsi di sé. Agostino lo invita ad annullare le passioni nell’unico pensiero di Dio ma il poeta si dichiara ancora incapace di risolversi a rinunciare agli impegni già intrapresi, sa che la via della salvezza sarebbe quella da intraprendere ma non sa rinunciare al desiderio. Non si ha una salda e definitiva conversione. Agli sproni incalzanti di Agostino rispondono le acquisizioni di Francesco che portano ad altre sollecitazioni. Non ci si ferma mai ad uno stato di certezza ma si assume piuttosto una serie di successive conversioni, ognuna delle quali è un incremento di conoscenza, una conquista ma mai definitiva. Nel Secretum vi è citata l’anticipazione del titolo latino e originario del Canzoniere (Rerum), Petrarca sta anticipando il progetto del suo libro di versi e proietta nella raccolta dei Fragmenta l’autentica risposta agli inviti di Agostino. Il santo ha mostrato a Francesco che la frammentarietà della sua anima, soggetta alle pluralità minacciosa dei fantasmi del mondo, è la causa del suo male. Raccogliere questi frammenti per ricondurli a un’essenziale integrità e al pensiero della morte e di Dio, è il proposito finale del Secretum. Un analogo proposito di raccolta presiede gli altri grandi progetti di raccolta che Petrarca avvia in questo stesso frangente, quelli delle Familiares e delle Epystole. Al 13 gennaio 1350 è datata la lettera proemiale del Familiarum rerum liber, indirizzata all’amico musicista van Kempen (chiamato Socrate). Allo stesso anno risale anche la missiva in versi a Barbato da Sulmona che apre il libro delle Epystole metrice. Sebbene entrambe le opere rimaranno aperte e modificate fino al1366, i due brani attestano che a questa data risale il progetto di Petrarca di raccogliere una parte consistente della corrispondenza epistolare che tiene con amici e familiari. Questo progetto ha forse una radice in un importante ritrovamento: nel 1345 nella biblioteca di Verona, Petrarca ha scoperto buona parte dell’epistolario di Cicerone e questa è la prima ispirazione della raccolta dei 24 libri delle Familiares. Familiares Come sarà per il Canzoniere, la cui architettura prende forma proprio in questi stessi anni anche le raccolte epistolari sono costruite per frammenti, cioè formate da scritti occasionali che hanno una loro autonoma diffusione. Petrarca scrive le sue lettere in due copie: una viene destinata alla spedizione e l’altra viene conservata. L’opera è una selezione di 350 lettere divise in 24 libri secondo un ordine che non è cronologico, la raccolta impone a Petrarca interventi di vario genere che si possono documentare grazie alla conservazione delle redazioni di più tua lettera. Si va dalla parziale riscrittura alla soppressione di parti, dall’unione di pezzi originariamente autonomi alla stesura ex novo di lettere fittizie incastrate in luoghi cruciali, questo complesso organismo da all’opera una straordinaria coerenza interna che si fonda su un doppio binario di lettura. Da un lato le lettere sono organizzate per dare un effetto di realtà all’insieme, ogni lettera è corredata da elementi para testuali che la contestualizzato nella biografia di Petrarca: le rubriche informano sul destinatario, sul contenuto e sull’occasione compositiva ma anche sui congedi, sulla data e il luogo di scrittura. D’altro canto, il montaggio non è occultato ma esibito perché concorra alla costruzione dell’autobiografia. La centralità dell’autore che si offre alla rappresentazione di sé rende le Familiares il primo esperimento nella letteratura italiana di prosa autenticamente soggettiva perché l’io si affaccia nella scrittura nel momento stesso in cui si percepisce come soggetto dell’esperienza. L’epistola Proemio Ale a Socrate ha una funzione programmatica, illustra la concezione del libro e i motivi che hanno spinto l’autore a confezionarlo, esibisce i criteri di cernita revisione e montaggio, chiarisce il ruolo assunto dal soggetto. È il trauma della peste del 1348 che innesca la necessità della scrittura. Il sentimento della morte che incombe è il grande tema che presiede tutto il libro. Petrarca ha imparato dalle confessioni di Agostino l’inconsistenza del tempo umano rispetto all’eternità del regno di Dio. Se il tempo è consumazione universale la scrittura serve ad affidare alla memoria ciò che irrimediabilmente da perdendosi: l’immagine di sé. Questo Petrarca riferisce di’ a prestarsi a preparare le valigie, facendo un bilancio per distinguere cosa salvare dal naufragio della memoria. Trova casse di lettere ma la gran parte andrà bruciata, ma in altre crede di poter trovare una testimonianza con cui riappropriarsi del passato. Da qui parte l’esigenza di ricostruire tramite il libro un movimento esistenziale non lineare, caratterizzato dalla pluralità delle occasioni, delle disposizioni dell’animo dell’autore, degli interlocutori chiamati a custodirne un pezzo di coscienza. La molteplicità dell’esperienza è l’asse portante del travestimento letterario, perché riflette la varietà degli stati d’animo da recuperare alla scrittura. Il libro è fatto di cose tra loro disparate e contraddittoria, stese in stili diversi e sotto la spinta di diverse emozioni da un animo disposto sotto l’influenza delle diverse circostanze. La varietà dei testi è elemento costitutivo dell’economia dell’intero libro. L’obiettivo di raccogliere testi scritti di far conoscere, attraverso questa varietà di esperienze e di scritture, “l’effigie del mio animo, quale che sia, e quel ritratto del mio ingegno che ho inseguito con tanta fatica”. Libro vuole essere la testimonianza di una vita passata tra le tempeste, non riuscendo mai a gettare a lungo l’ancora in alcun porto. L’immagine dell’autore-naufrago lontano dalla tranquillità del porto e soggetto all’incontrollabili rivolgimenti del tempo è quella su cui si regge l’impalcatura delle Familiares. Al primo libro (turbamenti della formazione giovanile) corrisponde il libro 24 (sull’incredibile fuga del tempo) e si sviluppa una serie di missive indirizzate ai principali autori dell’antichità (Cicerone, Seneca, Virgilio, Omero…) È la realizzazione più compiuta di quel colloquio con gli antichi da sempre ricercato dal poeta, che gli si rivolge come a interlocutori presenti davanti all’lui. Epystole Tra i materiali selezionati per la composizione del libro, le lettere in prosa si alternano a quelle in versi che vengono riunite in un’altra grande raccolta, dedicata al napoletano Barbato da Sulmona. Le Epystole sono una raccolta di 66 lettere in esametri suddivise in tre libri. La loro architettura è più composita e variegata rispetto alle altre raccolte petrarchesche, l’intento è quello di far conoscere i vari aspetti del poeta, attraverso gli avvenimenti e le circostanze che hanno segnato il suo percorso biografico e questo principio motiva la varietà relativa a toni e contenuti. I componimenti hanno genesi e occasioni molto diverse: la morte della madre, la poesia patriottica, brevi comunicazioni personali, impegnative indirizzate ai papi Benedetto XII e Clemente VI per il ritorno della sede papale a Roma. I 14 Ad seipsum (a sé stesso) parlano dell’analisi interiore e del dialogo tra Leo lirico e la propria anima perché si rechi in salvo dal dissidio tra la paura della morte e il compiacimento delle lusinghe del mondo terreno. Scrive negli stessi anni altre lettere, che raccoglierà solo più tardi, tra il 1359 e il 1361, tutte dedicate alla polemica avignonese con toni di satira contro la corruzione dei costumi delle gerarchie ecclesiastiche e dei papi francesi. Sono segnate con il nome di sine nomine, volto a proteggere tanto l’autore quanto i destinatari, sono una prova singolare dello sperimentalismo linguistico petrarchescamente, improntati all’ironia e all’invettiva. Tra il 1351 e il 1353 si colloca l’ultimo soggiorno in Provenza. Dopo aver assistito alla rovina dell’utopia romana, vabbè rotto con i Colonna che per anni lo avevano protetto, decide di abbandonare la Provenza per stabilirsi in Italia. La sua intenzione è di trovare una protezione che gli garantisca indipendenza e libertà di studi e di partecipare dall’interno ai rivolgimenti politici in atto. Si stabilisce a Milano presso i Visconti, questa scelta provoca dure reazioni da parte degli amici fiorentini, in particolare Boccaccio che lo accusa di essersi asservito al potere di una tirannia nemica di Firenze. La protezione viscontea gli garantisce quella libertà di azione che, se lo tiene impegnato in attività pubbliche, gli consente allo stesso tempo di lavorare con agio alle sue opere. Rimane a lungo a Milano fino all’ultimo decisivo spostamento che lo porta in Veneto: dal 1368 si stabilisce a Padova sotto la protezione di Francesco I da Carrara che gli dona un rifugio ad Arquà. Seniles Inaugura questa fase una nuova raccolta epistolare: le Seniles. La lettera proemiale all’amico Francesco Nelli (Simonide) datata 1361 e quella conclusiva 1374, entrambe inviate da Padova. Petrarca decide di raccogliere l’epistolario dell’ultima parte della sua vita in un’opera di 17 libri contenenti 127 lettere. Processo di ordinamento è lo stesso delle Familiares, non mancano lettere su temi politici o polemiche di ordine culturale, ma gli argomenti privilegiati sono quelli della vecchiaia e della morte. Lettera autobiografica a Guido Sette, arcivescovo di Genova, è il più dettagliato resoconto che Petrarca abbia lasciato della sua vita, più approfondito dell’altra, autobiografia che doveva da sola l’ultimo libro delle Seniles: la Posteritati. Al 1370- 1372 risalgono gli ultimi interventi sulla lettera che non sarà mai conclusa, arrestandosi al 1351. Petrarca esprime il suo sdegno verso il volgo ignorante che non sa apprezzare la cura formale della lingua poetica. L’esperienza dell’esule e insieme l’esigenza di affermarsi come letterato in una dimensione sovra nazionale trovano nel latino il mezzo privilegiato della comunicazione letteraria. Il poeta, però, non può ignorare la storia letteraria recente, che gli dimostra le straordinarie potenzialità espressive del volgare. La recente produzione volgare è considerata come parte di una tradizione molto più ampia che trova le sue radici nella civiltà antica. Comporre rime in volgare significa porsi come continuatore di questa più recente tradizione, l’uso della lingua volgare come di una lingua regolata, al pari della locutio atrificilis latina. Scrivendo in toscano poteva trasferire anche a questo dominio linguistico il suo ideale classicista. Rerum vulgarium fragmenta - Canzoniere I Rerum vulgarium fragmenta sono il grande capolavoro di Petrarca e una delle più importanti opere per la tradizione letteraria europea e viene portata avanti in parallelo alla ricchissima produzione di testi latini. Ai Fragmenta Petrarca riconduce tutti i diversi testi volgari che nel segreto del proprio scrittorio compone negli anni in relazione alla passione per Laura. “Recolligere fragmenta” è quello che il poeta promette ad Agostino alla fine del dialogo: disegnare un’immagine compiuta disse accostando tasselli passati, ripetuti e messi in ordine in un assetto stabile. Rientrano in questo piano i grandi epistolari latini. La Prey storia del libro è rappresentata da numerosi testi che Petrarca compone sin dai primi anni 30 in parallelo con l’Africa e il De viris. A margine ma con continuità scrive in volgare testi nutriti dall’amore per Laura che si accumulano fino al momento decisivo in cui matura l’idea di riordinarli in una struttura unitaria, di disporle a formare un racconto. La composizione del libro testimonia una vicenda tormentata di elaborazione, riscritture, modifiche che va avanti per più di un ventennio. Il primo dato concreto che lasci intravedere un progetto di ordinamento risale al 1342 da dove è possibile ricostruire alcuni dei passaggi grazie al Vaticano Latino 3196, “codice degli abbozzi”, autografo di Petrarca. È un codice di uso privato composto da 20 carte sciolte, contenenti componimenti trascritti in brutta copia e poi cancellati e numerose postille in latino, relative alle date di trascrizione e correzione dei testi. Una di queste postille Petrarca dà notizia del fatto che il sonetto di invocazione Apollo, s’anchor vive il bel desio, era stato trascritto in un altro codice come componimento proemiale della raccolta che si andava formando. Il poeta ha in mente una prima silloge di componimenti, una raccolta fatta di pochi testi che a spirito e obiettivi molto diversi dal libro che diventeranno i Fragmenta. Il vero e proprio progetto dell’opera inizia a formarsi tra il 1347 e il 1350 non è formato da circa 150 componimenti. Da qui in avanti il libro perde il criterio tematico e assume un’organizzazione narrativa per due motivi: il primo è la suddivisione dei componimenti in due parti, l’una precedente e l’altra successiva alla morte di Laura, il secondo è la collocazione del sonetto proemiale Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono. Sto passaggio risulta fondamentale la morte di Laura avvenuta il 6 aprile 1348, durante la peste. È un evento decisivo sia sul piano personale sia letterario dell’autore, i fragmenta diventano la grande raccolta in cui ricomporre la storia dell’amore per Laura nei suoi diversi passaggi, durante la sua vita e poi anche dopo la sua morte. La morte di Laura suggerisce a Petrarca la grande novità del libro strutturato in due tempi e l’episodio che innesca la parabola lungo la quale si dispongono i frammenti lirici è il rapporto tra un prima da recuperare alla memoria e di cui pentirsi, e un dopo in cui raccogliere gli sparsi frammenti della propria anima per restituirle un’unità che sia coerente ed esemplare. La morte di Laura è il punto di svolta da cui l’idea del libro prende corpo perché essa rappresenta per il poeta il punto esterno ed elevato da cui osservare l’esperienza passata per tradurla in racconto, dal momento che il passato può ora oggettivarsi in documento sul quale riflettere e far riflettere. Petrarca lavora a quest’opera con una certa continuità, nel 1357 fa trascrivere 161 componimenti in un manoscritto in pergamena da regalare ad Azzo da Correggio di cui si ha solo qualche notizia indiretta. Conserviamo il manoscritto Chigiano L V 176 in cui, intorno al 1363, Boccaccio trascrive la quarta forma del canzoniere con 44 componimenti in più, è ormai definitiva la bipartizione tra rime in vita e rime in morte come dimostra il fatto che tra luna e l’altra Boccaccio abbia lasciato una carta bianca. I’vo pensando, et nel penser m’assale posta in apertura della seconda parte del libro e la sua collocazione resterà invariata. Tra il 1366 e il 1367 fa allestire un nuovo esemplare di libro: produce un nuovo fondamentale codice (lavoro di 4 anni), Vaticano Latino 3195, il manoscritto definitivo, si tratta di un codice ideografico perché vergato in parte da un copista e in parte dallo stesso Petrarca. Il poeta interviene spesso sul suo codice con correzioni, aggiunte, postille, gli ultimi interventi risalgono al luglio del 1374, questa è la veste definitiva del libro rappresentata dall’ultima forma del Vaticano Latino 3195 con il titolo di Francisci Petrarchae laureati poete rerum vulgarium fragmenta, conosciuto con il titolo di Canzoniere. Il lavoro di assemblaggio del libro si protrae per circa un ventennio, questa attenzione per la forma-libro è indicativa di una precisa volontà di pubblicazione. Petrarca vuole creare un progetto unitario che leghi insieme, secondo un rigoroso sistema di relazioni, i testi. Il Canzoniere è un’opera rivoluzionaria, per la prima volta i singoli componimenti che lo costituiscono sfuggono a una lettura isolata. Essi hanno un significato in sé compiuto, che consente di leggerli separatamente l’uno dall’altro, ma hanno un valore ulteriore dalla posizione che ogni testo ha all’interno della raccolta, una rete di relazioni che intrattiene con i testi immediatamente precedenti o successivi oppure con altri testi che possono essere richiamati a distanza mediante connettivi tematici o lessicali. Due momenti di selezione e distribuzione del materiale lirico diventano costitutivi del genere canzoniere che è definito “a posteriori”. Azione e distribuzione delimitano uno spazio testuale compiuto, dotato di una sua autonomia, fondato sulla narrativizzazione dei frammenti lirici in funzione di un racconto. Fra il 13 e 14 secolo non erano poi i mancati tentativi di raccolta di materiali lirici entro una struttura che riunisse, in Italia qualcosa del genere è stato riconosciuto nel manoscritto Laurenziane Rediano 9, in cui i testi di Guittone d’Arezzo sono disposti secondo la divisione tra una parte dedicata esclusivamente al tema erotico e una dedicata alla negazione dell’amore. Il poeta trevisano Nicolò de Rossi, avevano iniziato nel suo autografo Colombinino 7132 un’aggregazione di 100 componimenti dedicati a una unica donna per formare una vicenda progressiva. Il precedente più diretto è la Vita Nova, Dante era stato il primo a radunare alcuni dei suoi componimenti amorosi in un’opera unitaria con Beatrice come personaggio principale di una vicenda individuale che funzionasse come autobiografia esemplare. Nella Vita Nova la catena narrativa è assicurata dalla presenza delle prose che chiariscono le occasioni compositive dei testi seguendo uno sviluppo progressivo sia cronologico sia morale. L’opera fornisce al poeta l’ispirazione di un libro che avesse al centro un movimento di transizione dell’io lirico condizionato prima dalla presenza, poi dalla morte, poi dal ricordo della donna amata. L’eliminazione delle prose fa sì che lo sviluppo narrativo dipenda solo dalla scelta e dall’organizzazione dei componimenti. Il canzoniere è formato da 366 liriche, un sonetto proemiale e da 365 testi che scandiscono la durata simbolica di un anno (317 sonetti, 29 canzoni, 9 sestine, 7 ballate e 4 madrigali). I componimenti 1-263 fanno parte della sezione di testi in vita di Laura, i componimenti 264-366 di quella in morte. È esclusa una trentina di testi tutti gli altri sono incentrati sul tema dell’amore per Laura. Oltre all’elemento strutturale e tematico, ve n’è uno anche retorico intorno al quale si organizza il libro: il dialogo ideale e ininterrotto tra Leo lirico e la sua ispiratrice. La prima parte ha al centro la vicenda dell’innamoramento per Laura I testi ne seguono lo svolgimento che prende piede dal primo fatale incontro il 6 aprile 1327, passa attraverso le circostanze dell’innamoramento, che è una passione destinata a rimanere inappagata, assoggettando l’animo del poeta in preda ai suoi ardori sensuali, infatti viene evocato il mito di Apollo e Dafne. Petrarca allude al mito attraverso l’equazione Laura/lauro a sottolineare la perfetta sovrapposizione delle due figure: da una parte la scrittura poetica che scaturisce dalla passione amorosa e risarcisce la delusione del rifiuto e dall’altra parte l’identità in negativo tra il sentimento amoroso e la ricerca della gloria poetica come fattori disgreganti dell’io. Vi è un’ombra lungo il racconto della prima parte: è il presentimento della morte di Laura. Anticipata alla crisi morale avvertita dell’io lirico e rappresentata nei testi 264- 266, la morte di Laura viene annunciata nel sonetto 267 e si rivela in tutta la sua drammaticità nella canzone 268. È questo il momento della svolta che costringe il poeta a una revisione radicale di tutta la sua vita e della sua esperienza amorosa, da questo momento in poi tutto è riletto alla luce di una nuova consapevolezza dell’inanità delle cose del mondo, della fragilità dell’uomo di fronte al tempo fugace e alla morte incalzante. Parte una profonda rivalutazione della natura stessa dell’esperienza amorosa: da passione irrazionale destinata a non esaudire mai il desiderio a strumento salvifica di perfezionamento morale, l’amore diventa poi sentimento intrinsecamente negativo, moralmente deprecabile perché allontana Leo da se stesso portandolo a smarrire la strada verso Dio, da qui avviene la conversione verso una nuova vita improntata a una retta condotta morale e un totalizzanti sentimento religioso, espresso dalla preghiera alla vergine che chiude il libro. Non mancano componimenti incentrati su temi diversi: testi occasionali indirizzati a membri della famiglia Colonna o il sonetto 92 in morte di Cino da Pistoia, in altri testi è esplicita la polemica politica, specialmente i sonetti da 136 a 138, contro la curia papale di Avignone definita Babilonia, immagine biblica della città corrotta che nell’apocalisse appare come metafora del male, destinata all’annientamento eterno in contrapposizione con la Gerusalemme celeste. Tre grandi canzoni politiche puntellano il percorso del libro ovvero la canzone 28, incitamento alla crociata progettata nel 1333 dal re di Francia Filippo VI di Valois e indetta da Giovanni XXII, la 53 indirizzata a Bosone da Gubbio perché intervenga a fianco di colonna nelle controversie delle famiglie aristocratiche romane e si impegni per la rinascita della città e la 128, un messaggio di pace contro l’uso di truppe mercenarie da parte dei signori italiani, invitati a desistere dalle guerre e tornare alla civiltà di cui ereditano la grandezza. L’ideale che muove la poesia politica di Petrarca posa soprattutto sul motivo del riscatto della decadenza del tempo presente in virtù del recupero dei valori di pace e giustizia universale dell’antica Roma. La sua posizione è interessante perché rivendica la funzione dell’intellettuale che si fa portatore di una testimonianza storica e morale che si propone come guida. Questi componimenti contribuiscono a intensificare l’effetto di singolarità della vicenda soggettiva che si sviluppa nel libro, vedendo il protagonista come un personaggio complesso e a tutto tondo, non solo poeta e amante ma uomo di cultura partecipe del suo tempo. futuro è rimandata la possibilità di una conversione che sola può portare alla salvezza. Il presente È il tempo della scrittura e riporta alla memoria ciò che non è più e restituisce alla memoria il frutto di tale percezione. Petrarca plasma il suo sentimento del tempo come era stato elaborato nelle confessioni di Agostino, secondo il quale il passato e futuro possono essere pensati solo come esperienze emotive del presente: il passato come memoria, il futuro come attesa. Eredita da Agostino anche il concetto di tempo come qualcosa che non esiste al di fuori del soggetto che lo percepisce. Ristabilire la giusta scala di valori, non è possibile passaggio che non affini la sua salvezza addio e, come nel finale della Commedia dantesca, addio si può ascendere solo per il tramite di un’accorta invocazione alla Vergine. La canzone 366 rappresenta l’esito necessario del percorso penitenziale del poeta, in cui gli attributi di Maria si sovrappongono a quelli di Laura, suggerendo il subentro della Caritas all’eros e così la sostituzione dell’oggetto d’amore. La compattezza strutturale del libro è l’elemento principale che Petrarca utilizza per risolvere in un corpo unitario le contraddittorie agitazioni oggetto della rappresentazione. Il volgare del canzoniere era altra componente fondamentale che consente quella reductio ad unum chi è condizione necessaria alla tenuta del racconto. All’unità del libro corrisponde l’unità delle soluzioni linguistiche adottate. Quello di Petrarca è un volgare aulico o trascendentale, la sua ricerca è orientata a plasmare una lingua equilibrata, limpida, armoniosa, perché in questa forma possono giungere a risoluzione le tensioni interne cui dà voce. L’operazione che fa è una depurazione di tutti gli elementi che possono connotare la lingua poetica in maniera concreta o troppo realistica ed espressiva. L’uniliguismo petrarchesco, in opposizione al plurilinguismo della Commedia. Dante convoglia nella rappresentazione tutti i molteplici aspetti della realtà, riflettendo questa pluralità della materia in una varietà linguistica e stilistica che prevede l’unione delle lingue e dei registri stilistici. Petrarca invece opera una rigorosa selezione degli aspetti della realtà e vocati nella scrittura, conferendole un effetto di uniformità di toni che si risolve nella scelta di una dizione aulica applicata stabilmente alla materia. Dal punto di vista sintattico, l’effetto è ottenuto con una costruzione del periodo caratterizzata da un andamento sempre piano, con un’orditura lineare, dove la struttura metrica e la struttura sintattica tendono a coincidere per garantire scorrevolezza e fluidità ritmica alle strofe. Per il lessico ricorre a un vocabolario limitato, che evoca un microcosmo interiore. Vengono espunti tutti i dettagli che rinviano ad aspetti troppo realistici: rimane il nucleo di un’esperienza interiore, che si nutre della realtà ma la sottopone a una trasfigurazione che la rende rarefatta, incorporea e questo effetto si ha con l’applicazione costante di un filtro letterario. Per il poeta la poesia non è il luogo dell’espressione immediata e diretta dei sentimenti: formule, soluzioni stilistico-retoriche, immagini hanno sempre autorevoli precedenti letterari. La maggioranza degli aspetti nell’opera è condizionato da memorie culturali di vario genere, dalle fonti classiche a quelle scritturali a quelle della poesia volgare. Il classicismo volgare di Petrarca consiste nel convogliare il materiale offerto dalla tradizione letteraria antica e moderna dentro una nuova e più equilibrata struttura, che consenta di risolvere i dissidi interiori informe già codificate dalla tradizione e rielaborate in una ricerca di perfezionamento formale. Triumphi Petrarca lavora a quest’opera negli ultimi anni della vita, senza però riuscire a concluderla. L’avvio del progetto risale ai primi anni 50. È un poema allegorico- narrativo in terza rima in cui l’io narrante riceve sei visioni. Il titolo deriva dal nome delle cerimonie celebrate a Roma in occasione delle vittorie militari, dove il generale dell’esercito marciava attraverso la città fino al Campidoglio, accompagnato dal corteo dei suoi soldati che trasportavano i prigionieri. La processione seguita dalle acclamazioni del popolo fornisce a Petrarca l’impianto strutturale dell’opera, dove le visioni del personaggio-narratore consistono nell’avvicendarsi di cortei di personaggi celebri guidati dai carri trionfanti delle figure allegoriche che rappresentano i temi più cari alla scrittura di Petrarca: l’amore, la pudicizia, la morte, la fama, il tempo, e l’eternità. I trionfi: Triumphus Cupidinis (4 parti); Triumphus Pudicitie; Triumphus Mortis (2 parti); Triumphus Fame (3 parti); Triumphus Temporis; Triumphus Eternitatis. Nel Triumphus Cupidinis, il narratore vede il carro di Amore, vestito come un condottiero romano dietro la quale vi è il corteo dei suoi prigionieri: gli amanti celebri di età classica, della Bibbia e del Medioevo. A questo punto appare Laura, di cui il narratore si innamora, entrando così a far parte della parata di amore. Infine, ci sono i poeti d’amore sia classici (Ovidio, Catullo) sia medievali. Nel Triumphus Pudicitie, la Pudicizia è impersonata da Laura, che trionfa su Amore costringendolo alla prigionia e dirotta il corteo fino a Baia, dove c’è la villa di Scipione. Segue il Triumphus Mortis, dove sopraggiunge la Morte a uccidere Laura. Dopo la morte, la donna appare in sogno al narratore confessando di averlo sempre amato ma costretta a dissimulare il suo sentimento per decoro su e dell’amante. Nel Triumphus Fame subentra la Fama a rassicurare gli uomini perché è in grado di sconfiggere la morte. Il corteo è formato da personaggi illustri per azioni e per le opere di ingegno. Nel Triumphus Temporis, il Sole è indignato per l’arroganza della Fama e accelera sensibilmente il suo corso, velocizzando lo scorrere del tempo al punto da cancellare ogni cosa e dimostrare così che tutto procede inesorabilmente verso la morte. Nel Triumphus Eternitatis, l’io narrante, di fronte alla consapevolezza della fine a cui la vita e il tutto sono destinati, si chiede anche cosa affidare il proprio spirito e si rende conto che solo Dio può assicurare la pace. Sul tempo trionfa l’eternità, la morte terrena è preludio alla visione paradisiaca in cui ogni cosa trova la sua stabilità. Il libro si apre e si chiude con la figura di Laura, ripercorrendo a ritroso il percorso svolto con il Fragmenta ma con una prospettiva diversa, comprensiva dell’intera esperienza umana. I trionfi sono l’ideale continuazione della vicenda dell’io dei Fragmenta. Il Dio a cui Petrarca si rivolgeva nell’ultima canzone perché gli indicasse la strada della salvezza diventa garante supremo dell’armonia della città celeste che trionfa sulla violenza della consumazione del tempo e della morte. La visione che chiude il libro è la vittoria dell’eternità come luogo in cui lo spirito sottratto al tempo si ricongiunge con il corpo, potenziandosi e salvandosi nel giudizio universale. La città celeste è la realizzazione di una pace finalmente possibile nell’aldilà, vissuta dalle anime che con la resurrezione hanno ripreso la loro veste corporea, finalmente libere dall’assoggettamento della morte. Qui campeggia la figura di Laura, su cui si chiude il libro, a testimonianza ulteriore della centralità del tema dell’amore: il ricordo si trasfigura in un’apoteosi. L’avvenuta resurrezione consente alla donna di recuperare la sua bellezza dell’azione consuntivo della morte, riscattandone il valore salvifica e dimostrando così che ciò che dell’umano la morte consuma nella resurrezione si restituisce alla vita eterna. L’esito della visione di Petrarca sta nel mistero della resurrezione, dove il tempo e la morte vedranno annullata la loro azione, e le anime, passate attraverso tribolazioni della vita terrena, non potranno più patire i morsi del tempo. La bellezza, la giovinezza, la fama potranno tornare a risplendere nella città celeste, dove la morte è stato finalmente sconfitta. Nella citata lettera di qualche mese prima, in cui risponde a Boccaccio che lo invita al riposo, Petrarca risponde con l’auspicio “che la morte mi trovi intento a leggere e a scrivere, o, se Dio voglia, a pregare e a piangere”, le sue condizioni vanno peggiorando e tra il 18 e il 19 luglio del 1374, muore. CAPITOLO 3 – GIOVANNI BOCCACCIO Giovanni Boccaccio nasce nel 1313 a Firenze o più probabilmente a Certaldo. È figlio naturale di Boccaccio di Chellino, agente della compagnia mercantile dei Bardi, a Firenze trascorre l’infanzia, e inizia la formazione scolastica fin quando, nel 1327 segue il padre a Napoli, dove è avviato alla pratica mercantesca. Si manifesta però in lui la vocazione agli studi letterari, favorita dalla possibilità di entrare in contatto con l’aristocrazia napoletana e con la corte di re Roberto d’Angiò, di cui il padre diventa consigliere nel 1328. Lavora per sei anni come apprendista in campo giuridico, ma mostra in maniera evidente la propria passione per la poesia, chiara già da prima di aver compiuto sette anni, arrivando a scrivere qualche racconto senza conoscere bene le prime regole grammaticali e come si legge in una sua opera senile, diventato maggiorenne, inizia lo studio della letteratura. Questo racconto biografico fornisce due preziose indicazioni che rivelano la matrice fiorentina della sua formazione: la conoscenza diretta del mondo mercantile, e l’avviamento allo studio del diritto canonico. Aspetti che avrebbero lasciato il segno nella sua scrittura della maturità, sia dal punto di vista tematico sia ma quello stilistico. A Napoli è infatti folta in quegli anni della presenza dell’aristocrazia di origine francese, il cui comportamento è improntato al codice cortese, rappresentato da opere letterarie di grande successo, come la storia di tristano e Isotta, il modello cortese si era formato in Francia tra il 12 e 13 secolo, esaltando le virtù della liberalità, della magnificenza e della convivenza festosa valorizzando l’esperienza d’amore, intesa come perfezionamento progressivo dell’amante nel servizio della donna amata, questi valori formano l’ossatura ideologica e formale delle sue prime opere. Napoli è centro di produzione culturale di primordine, grazie alla presenza di dotti del livello di Giovanni Barili e Barbato da Sulmona, con i quali Boccaccio entra in contatto. Le sue letture giovanili sono assai ricche, come dimostra lo Zibaldone autografo, in cui egli copia alcune delle opere latine che lo appassionano di più. Nella formazione di Boccaccio agiscono congiuntamente due ambienti diversi: da una parte, il mondo fiorentino, in lingua volgare, ma sabato sulla diretta conoscenza delle attività pratiche; dall’altra, quello napoletano, dove sono compresenti il codice cortese di impronta aristocratica e il livello erudito degli studi universitari e dell’alta cultura latina. Nella scrittura di Boccaccio si rivela per prima quella aristocratica, come mostra la Caccia di Diana (1334), un poemetto in terzine di endecasillabi diviso in 18 brevi canti, che trasfigura la corte angioina in una cornice mitologico-allegorica. Riprendendo la contrapposizione tra Diana e Venere, celebra le donne napoletane basandosi sullo schema dei poemi francesi che rappresentavano donne eleganti impegnate in un dibattito teorico su problematiche cortesi. L’attrazione per quella cultura è evidente in Filostrato (1335), che è il primo poema della letteratura italiana scritto in ottave, forma che inventò ispirandosi probabilmente sia agli huitains della letteratura francese, sia alla poesia popolare che circolava in forma orale. La storia è l’infelice amore di Troilo per Criseida, tratta da un episodio della guerra troiana, argomento particolarmente amato dall’aristocrazia locale. anche reinterpreta l’antico modello delle Bucoliche di Virgilio in chiave politica. Nei 16 carmina che compongono l’opera, trascrive in chiave allegorica la propria posizione rispetto ai fatti che agitavano il regno di Napoli, dichiarandosi prima a favore di Luigi d’Ungheria (pretendente al trono di Napoli sceso in Italia per combattere la regina Giovanna) e poi fedele alla regina. La scrittura di questi testi si protrae per 20 anni, a partire dalla metà degli anni 40: questo lavoro mostra la volontà dell’autore di partecipare alle vicende del mondo angioino, cui era legato e nel quale avrebbe trovato una sistemazione più durevole e sicura di quanto non fosse quella a Firenze. Gli eventi storici e collettivi che caratterizzano la metà del secolo incidono sulle coordinate culturali e psicologiche del lavoro letterario di Boccaccio, è un’epoca di trasformazione radicale della sua opera. La peste e l’incontro con Petrarca lo spingeranno a impegnarsi in progetti di tipo nuovo che faranno di lui una figura di riferimento nei secoli a venire. La peste nera che provenienti da oriente, si sviluppa rapidamente, a partire dal 1347, cambia il volto del continente europeo, la cui popolazione si riduce di quasi un quarto in meno di quattro anni. Arriva a Firenze nella primavera del 1348, devastandola in profondità, è una catastrofe culturale che spinse la popolazione ad adottare comportamenti esasperati, che riguardano tanto la violenza xenofoba quanto lo svolgimento delle attività quotidiane, come le processioni, il fervore del culto di santi vecchi e nuovi, a cui si affida la propria salvezza. La peste nera produsse uno shock cognitivo: l’epidemia era un fenomeno naturale o soprannaturale? Era il segno dell’ira divina? In nessun luogo del mondo i medici riuscirono a spiegare e a curare il fenomeno, che si affidassero alle conoscenze teoriche, all’arte pratica o al calcolo delle stelle. Da qui parte Boccaccio quando inizia a raccogliere quei materiali narrativi che avrebbero dato vita al Decameron. Le 100 novelle sono contenute dentro un racconto esterno, che offre una rappresentazione dettagliata del morbo e dei suoi effetti sugli esseri umani, e ne fa il presupposto dell’opera. L’autore definisce “orrido cominciamento” le prime scene del Decameron, che paragona a una “montagna aspra e erta”, cui segue un “bellissimo piano e dilettevole”, similitudine che ha origini classiche e bibliche, ma soprattutto riprende lo schema narrativo della Commedia. Al pari di Dante-personaggio, costretto a fare un lungo viaggio, pauroso e faticoso per potersi salvare, i 10 giovani della brigata, protagonisti della sua opera, devono impegnarsi in un percorso conoscitivo. Al posto della selva c’è la peste, un evento storico preciso, che assume un profondo significato morale. L’introduzione della prima giornata è dedicata alla descrizione della peste, sono evidenziati gli aspetti medico mattina parentali ma soprattutto gli effetti politici. Le reazioni sono le più diverse: chi si chiude in casa con amici con cibo e vino; chi invece ritiene che l’unica medicina sia il bere molto e andare in giro divertendosi. La profonda incertezza è aggravata dall’indebolimento degli istituti civili e religiosi. Usando un linguaggio tragico, con uno stile elevato, piena di latinismi e di forme complesse, Boccaccio spiega che durante il contagio la religione e le leggi hanno perso ogni autorità, ognuno fa quello che vuole. Il lungo brano dedicato da Boccaccio alla peste è debitore della letteratura precedente. L’intertestualità non va però verso i modelli elevati di Lucrezio, perché all’epoca i codici che tramandano quelle opere non erano ancora conosciuti. Il modello di Boccaccio è l’Historia Langobardorum di Paolo Diacono, nel cui secondo libro è raccontata la veste del VI secolo d.C. Qui è rappresentato quello spettacolo di paura e disperazione cui egli stesso ha assistito: le case vuote; città immerse in un grandissimo silenzio; i cadaveri insepolti dei genitori, da cui figli scappano; o bambini abbandonati dei padri e delle madri. L’opera di Boccaccio e quella di Paolo diacono appartengono però a due mondi molto diversi, la società di Paolo è agraria e pastorale, le case vuote contano meno delle greggi rimaste sole nei pascoli. L’ottica di Boccaccio è urbana, con epicentro Firenze: gli ammalati sono lasciati soli, le funzioni funebri non sono più celebrate per la paura del contagio, ci si barrica in casa mentre le compagnie di gaudenti impazzano. In questo quadro avviene la scena dell’incontro di sette giovani donne in Santa Maria novella, con la loro decisione di andare a rifugiarsi in una villa di campagna e l’invito a tre giovani amici a partire con loro. La descrizione della peste di Boccaccio serve per fondare la cornice del Decameron, la formazione della brigata di 10 giovani e la loro vita in comune. Incontro in chiesa sigla il passaggio dalla peste alla vita lieta, dalla distruzione alla ricostruzione, la vita della brigata è un’esperienza di rifondazione basata su leggi condivise. Alla devastazione del contagio, Boccaccio contrappone l’organizzazione civile, lieta e condivisa della vita in comune. Mentre Boccaccio è segnato dalla peste, inizia a ideare il progetto del Decameron, egli conosce finalmente Petrarca. L’incontro, caduto nel 1350, dovette essere importantissimo, se pensiamo che egli aveva ammirato Petrarca sin dagli anni giovanili, arrivando a scriverne la biografia. Il sodalizio dei due autori e subito intenso e si stringe ulteriormente negli anni successivi, Boccaccio va spesso a trovare Petrarca. Il legame induce Giovanni a seguire Francesco sulla via della riscoperta degli autori classici, spesso chinandosi insieme all’amico sui medesimi codici antichi. Il loro scambio intellettuale è molto intenso: Petrarca offre in lettura all’amico i suoi preziosi volumi, Boccaccio gli passa alcuni dei tesori conservati nella biblioteca del monastero di Montecassino. L’amicizia non è priva di incomprensioni, soprattutto per quanto riguarda il rapporto con Dante, che Boccaccio venera e che Petrarca guarda con sospetto. Intorno alla memoria e al modello dantesco si gioca il senso stesso della letteratura in volgare, che con Dante aveva trovato il suo apice, divenuto però rapidamente superato, non più praticabile in un’epoca attratta dalla cultura antica. La presenza di Dante è ingombrante e in adatta a rappresentare una nuova coscienza moderna. Due scritti testimoniano la chiara contrapposizione tra i due amici: gli esametri con cui Boccaccio accompagna nel 1351-1353 il dono a Petrarca di una copia della commedia, e la familiare 15, risposta di Petrarca, che prende le distanze da Dante. Boccaccio compone il carme latino per Francesco negli stessi anni in cui è impegnato in una missione a Ravenna per consegnare alla figlia di Dante, suor Beatrice, il simbolico risarcimento di 10 fiorini d’oro inviato da rappresentanti politici fiorentini. Inoltre, compone il Trattatello in laude di Dante, una biografia che ricostruisce la vita e celebra la grandezza del poeta fiorentino. Nello stesso periodo Boccaccio appronta un manoscritto in cui copia la Commedia e il Canzoniere di Petrarca (inizialmente un codice unico, oggi due codici distinti: Chigiano LV 176 e Chigiano LV 213). Nonostante le divergenze, la mia azione di Boccaccio per l’amico resta saldo nel tempo. Nella Genealogie deorum gentilium Boccaccio ne propone il lusinghiero parallelo con Virginio: il poeta moderno e quello antico hanno scelto entrambi la libertà dal giogo delle alte protezioni, luno andando via Roma, l’altro lasciando Avignone; dedicandosi entrambi una vita tranquilla uno Pozzuoli e l’altro a Valchiusa. Muovendosi tra l’ammirazione per Dante e l’amicizia per Petrarca, Boccaccio riesce a tenere unita la tradizione poetica: il mondo antico di Virgilio e Ovidio a quello moderno di Dante, Petrarca e lui stesso. Decameron La peste assume un ruolo decisivo nel Decameron, in quanto è alla base della scelta delle sette donne e dei tre uomini di lasciare Firenze e di recarsi in campagna. È possibile che Boccaccio abbia iniziato a scrivere le novelle prima della diffusione del morbo, è solo dopo la peste egli decide di organizzarle all’interno di una cornice. La scrittura dell’opera inizia dopo il 1349 e si è conclusa nel 1360; i formati dei testi, le condizioni materiali della loro esistenza e i modi della loro circolazione sono fondamentali per capire la storia letteraria. Negli stessi anni, Boccaccio copia il proprio capolavoro in un codice autografo sul modello del libro universitario. La tradizione successiva, pur non accogliendo questo carattere colto, si mostra rispettosa dei principali aspetti strutturali dell’opera (in particolare la presenza della cornice e la distribuzione delle novelle in giornate). Gli interventi dei copisti sul testo furono modesti, o almeno restarono isolati e non sistematici. Questa constatazione è importante perché il Decameron è caratterizzato dal tenace impegno di copisti per passione, i quali avrebbero copiato l’opera è proprio piacere personale, inserendovi note, conti, osservazioni. Questi manoscritti scritti per passione sono numerosi, ma anche il gruppo dei manoscritti a prezzo, realizzati da professionisti, ha una consistenza almeno paritaria. Questi aspetti ci permettono di identificare meglio coloro che furono gli antichi lettori del Decameron. I lettori provengono sia dal mondo dei mercanti sia da quello dei funzionari e degli amministratori della res pubblica e vi sono anche presenze aristocratiche. La diffusione geografica dell’opera mostra l’importanza dell’asse Firenze-Napoli: cosa che conferma la centralità delle due città nella vita di Boccaccio. Pur avendo provato inventato tanti generi, non si era ancora esercitato nella narrazione breve; nel filologo aveva ripreso il modello retorico della quaestio, con narrazioni sintetiche che illustrano i due poli contrapposti di un dilemma; ma nemmeno in quel caso erano racconti brevi autonomi. La cosa era normale: la narrativa aveva di solito dimensioni maggiori, la brevità era riservata alle necessità della comunicazione ordinaria ed è rivolta a scopi ludici o didattici. Narrativa breve medievale: Narrazioni biografiche (vita di religiosi, uomini illustri, e poeti provenzali); Aneddoti e narrazioni storiche; Narrazioni di registro comico (fabliaux, racconti sibaritici, favole milesie); Storie di maggior sostenuto Dezza espressiva con contenuto tragico (lais); Racconti a sfondo morale; Fiabe animali (tradizione esopica incrociata con la produzione indiana e persiana); Come chiarisce il Proemio, Boccaccio attinge a questa ricca diversità di forme in un’opera che raccoglie piacevole e aspri casi d’amore e altri fortunati avvenimenti. Non si limita a enunciare i due temi principali (amore e fortuna), ma segnala la molteplicità dei casi che verranno narrati. La raccolta è ispirata alla varietà: temi, tipo di personaggio, stili e registri espressivi; tutto dovuto a una certa apertura enciclopedica di Boccaccio. Ma si spiega anche con la diffusione di tanti diversi testi medievali del punto gli exempla, i fabliaux comici e le favolette mitologiche, le vidas dei poeti provenzali. A questa varia tipologia accenna lo stesso autore, dove afferma di aver voluto raccontare 100 novelle o favole o parabole o istorie. Non è facile capire se questi termini sono sinonimi di novelle o se sono sottogruppi. La convergenza semantica tra questi termini era già venuta prima del Decameron. Nella Rhetorica ad Herenium si distinguevano tre generi narrativi: historia (res gestae), l’argumentum (cose che potrebbero avvenire), la fabula (racconti non veri e non possibili). La novella indicava il racconto di un evento caratterizzato dalla novitas (un fatto inaudito) e funzionalizzato a un progetto educativo, ciò accadeva in maniera tipica nell’exemplum, inserito dal predicatore nel suo discorso dal pulpito al fine di illustrare un progetto o un comandamento. Rispetto a una simile riduzione del racconto a Il terzo luogo è la conclusione dell’autore, con la difesa preventiva contro alcune questioni che le lettrici malevole potrebbero rivolgermi. L’autore rivendica una piena autonomia stilistica, affermando che la letteratura non risponde a criteri morali, ma alla qualità delle novelle. Nella conclusione si torna sul ruolo fondamentale del destinatario: così come i giovani della brigata dialogano tra di loro attraverso le novelle, esprimendo il loro giudizio su quanto hanno ascoltato, allo stesso modo, nel rapporto con il libro (cerchio 1), le lettrici sono responsabili dell’interpretazione, che dipende dal loro orizzonte culturale e morale. Difendendosi dall’accusa di immoralità per l’eccessiva indulgenza nella trattazione del tema erotico, l’autore fa riferimento alla presenza di rubriche (riassunti) collocate all’inizio delle novelle. Rubriche e novelle rispondono a due principi narrativi opposti, le prime sono orientate verso la conclusione dell’evento narrato, le seconde si concentrano sulle cause e le motivazioni che conducono a questa conclusione. Quale che sia il rapporto con i corrispondenti testi narrativi, è opportuno considerare che l’esistenza stessa delle rubriche, collocate negli spazi che separano le novelle e le giornate tra di loro, a forza di identità del Decameron come libro, cioè come manufatto unitario è strutturato al suo interno in maniera coerente. Secondo cerchio: la brigata tra onestà e piacevolezza Se la cornice serve per tenere insieme racconti di diverso tipo, Boccaccio collega questa necessità alla vita della brigata e alla sua evoluzione. I 10 giovani decidono di condurre una vita piacevole, affidando ogni giorno a uno di loro il compito di organizzare le attività in comune, compresa la scelta del tema delle novelle. Il novellare si caratterizza come attività regolata e come attività non conflittuale, la decisione di concedere a Dioneo il privilegio di non seguire il tema prescelto, conferma l’armonia del gruppo, giacché l’eccezione è il risultato di una scelta condivisa che garantisce la varietà ed evita il rischio della monotonia. Anche la sera quando, i giovani si intrattengono insieme ascoltando una ballata che ciascuno di loro, uno per ogni giornata narrativa, canta alla presenza degli altri. Il sistema di regole e presentato nel lungo discorso dove Pampinea, la più autorevole delle donne, convince le sue compagne a spostarsi in campagna. La decisione di lasciare la città è presentata con una serie di termini di grande rilievo: allegrezza, piacere e festa saranno le condizioni per vivere in comune, tenute sempre sotto il segno della ragione tutto ciò è condensato nell’avverbio onestamente, ripreso all’inizio, al centro e alla fine della proposta di Pampinea. Onestà è un lemma di grande importanza nello sviluppo di tutta l’opera, al quale i giovani si impegneranno ad aderire anche nei momenti di conflitto. Le tensioni mostrano che la cornice non risponde solo a una ragione architettonica, ma anche una funzione dinamica: rappresenta la tensione tra il principio dell’onesto e la ricerca del piacevole. La compresenza delle due dimensioni e l’obiettivo del nuovo ordine. La vita della brigata si rivela un processo di conoscenza (morale e retorica; comportamentale e situazionale), basato su delle regole che non si informano a una tavola della legge, ma al principio dinamico della circolazione narrativa, basata sulla collaborazione e il dialogo. Sebbene la diversa personalità dei giovani, il comune rispetto delle regole permette di trasformare le loro incomprensioni e i loro scontri in scambi linguistici e narrativi in cui ciascuno può mostrare la sua eleganza intelligenza. Terzo cerchio: le novelle Temi Il Decameron ibrida il modello orientale, basato sul dialogo e l’evoluzione della storia principale, con il modello occidentale, del tipo tematico. La prima e la nona giornata sono a tema libero, nel corso del novellare si affrontano otto argomenti. Due giornate hanno per tema l’amore, in chiave tragica (4) e con lieto fine (5); tre giornate sono dedicate alla comicità (6,7,8); la seconda giornata dà rilievo alla fortuna; la terza si basa sul valore individuale; l’ultima verte sulla liberalità e magnificenza, le virtù più alte del codice cortese. Le novelle ibridano spesso questi macro-temi: i discorsi della brigata vertono su alcune grandi questioni, in particolare amore e fortuna, trattati secondo i prevalenti registri espressivi del tragico e soprattutto del comico. Personaggi In questa ampia raggiera tematica si collocano le vicende di un gran numero di personaggi, rappresentanti di una ricca stratigrafia sociale. Il Decameron si rivela qualcosa di più articolato che il semplice rispecchiamento della società fiorentina medievale, presentandosi come un’organica raffigurazione, ideologicamente orientata, della realtà contemporanea. La tipologia sociale prevalente è la classe mercantile, rappresentata anche con le caratteristiche meno esemplari, lo si vede nella celebre novella di apertura in cui ser Cepparello, un violento dissoluto che sfrutta la professione di notaio. La raffigurazione di mercanti, che ne fa i campioni dell’attivismo e della disponibilità all’avventura, non impedisce che il giudizio su di loro possa essere anche negativo. La categoria più frequentemente descritta in termini negativi è quella dei religiosi. Tranne poche eccezioni frati, monaci e abati agiscono per fini del tutto mondani, indifferenti alle regole del sacerdozio e pronti a infrangere le leggi della civile convivenza, la loro principale caratteristica è l’ipocrisia. Questa invettiva antifratesca, riproduce motivi ampiamente diffusi all’epoca, quando nelle città italiane, si agitava un profondo conflitto tra la prospettiva laica, che aveva sorretto la nascita e il rafforzamento delle realtà urbane, e l’orizzonte degli ordini mendicanti, sorti proprio per agire nelle città, con l’obiettivo di contrastare la laica cultura comunale. Insieme all’ipocrisia, quelle che più caratterizza i personaggi del Decameron del clero, è la lussuria, la spinta d’amore consente a volte il riscatto di alcuni religiosi. Il sesso caratterizza anche il mondo religioso femminile. Nel grande affresco delle classi sociali contemporanea realizzato da Boccaccio non mancano gli strati più umili. Nelle novelle sono numerosi i personaggi provenienti dal mondo dei lavoratori, di cui l’autore registra i differenti tipi professionali: l’ortolano, lo stalliere, il contadino, il fornaio, anche i servi come il domestico o il cuoco; infine troviamo i parassiti e gli approfittatori. Una figura professionale che nell’opera di Boccaccio gode di un particolare privilegio è quella degli artisti, di cui sono messi in evidenza l’ingegnosità e l’abilità intellettuale. Nella sesta giornata, dedicata ai motti, appare Guido Cavalcanti, il cui trattamento letterario da parte di Boccaccio presenta elementi analoghi a quello di Giotto, con in più il particolare inquietante dello scambio di battute all’interno di un cimitero. Realismo Il Decameron è caratterizzato da un deciso orientamento sul presente, vale sia per la conversazione interna alla brigata sia per la comunicazione con il lettore, che obbedisca ancora un modello retorico e narrativo, basato sulla regolare presentazione dei personaggi in una dimensione cronotopica precisa. Nell’incipit della prima novella, Panfilo spiega che gli abitanti di Parigi, non comprendono il nome del protagonista, ser Cepparello. Questa osservazione serve per sottolineare quella dissociazione tra parola e cosa che caratterizzano la storia fino alla conclusione quando il ser (termine delle professioni), si trasforma in san (titolo onorifico religioso). In questa particolare interpretazione dei nomi è interessante perché viene giustificata da Panfilo con una spiegazione linguistica. La collocazione della vicenda in un preciso ambiente sociale e linguistico presenta subito tutti gli elementi del successivo sviluppo, fino alla paradossale conclusione che trasforma il farabutto in un santo. Si capisce perché le novelle siano ambientate in luoghi e in tempi vicini, così da essere facilmente integrabili nelle strutture concettuali e comportamentali della brigata che delle lettrici, che costituiscono il presente nei quale i racconti sono fruiti. Lo conferma il fatto che nell’opera è piuttosto ricorrente la formula “come noi veggiamo assai sovente avvenire”, ricondotto a una attestazione collettiva, a un riferimento condiviso, il lettore riconosce nel libro qualcosa che crede essere davvero presente nella realtà. La questione del realismo di Boccaccio non riguarda soltanto un ampliamento della gamma degli oggetti, delle situazioni o dei tipi di personaggio, ma è considerata come una questione modale, in cui agiscono le scelte della retorica, l’invenzione dei personaggi e l’arte figurale. È questo il senso della conclusione dove, l’autore rivendica la piena autonomia stilistica, affermando che il linguaggio letterario deve adeguarsi solo alla qualità delle novelle, cioè l’organizzazione tematica e narrativa. Accusato di aver manipolato i racconti, l’autore spiega che la letteratura, come la retorica, è basata sul riciclaggio, sulla ripresa di materiali tradizionali che vengono adattati alle nuove necessità. Gli originali non esistono, così come non esiste un referente storico preciso cui le storie rimandino. L’opera, quando riporta i nomi di luoghi e persone, allude alla realtà attraverso modalità proprie che riguardano la lingua, lo stile e le scelte formali. Questa attitudine realistica rappresenta il mondo quotidiano in maniera sia comica che seria. Nonostante la saltuaria nobilitazione, i personaggi uomini sono però rappresentati prevalentemente nel registro comico. Firenze occupa un posto importantissimo nel Decameron, vi si ambienta quasi un quarto delle novelle, la città stabilisce anche l’orizzonte culturale, etico e ideologico che dà senso alla pratica narrativa della brigata. Va considerata la contrapposizione netta col contado, secondo una tradizione antichissima, presente già in latino e rinvenibile nella descrizione aristotelica della persona poco elegante. La realtà materiale del mondo contadino è presentata con curiosità, resta chiaro il distanziamento comico. È un gioco letterario non aggressivo, coi contadini come personaggi un po’ buffi, ridicoli e innocui. La contrapposizione è forte anche nei confronti delle città rivali, come mostra una novella dove il fiorentino Maso organizza una beffa oltraggiosa a un giudice marchigiano, cui riesce a calare le brache in pubblico. Il senso dello scherzo è svelato nell’introduzione, dove si afferma che i podestà marchigiani sono uomini di povero cuore. È interessante osservare il peculiare andamento di questa presentazione, in cui, dopo aver contrapposto il rozzo e avaro mondo marchigiano alle consuetudini disinvolte dei fiorentini, il fuoco narrativo si concentra su maso, attraverso i cui occhi sono descritti la figura e l’atteggiamento del giudice. La brigata e i lettori, in questo modo, sono indotti ad assumere il punto di vista del beffeggiatore, questa beffa è un’impresa collettiva, data dalla solidarietà Fiorentina. L’aggressività contro l’intruso è condivisa è sia condivisa dalla brigata sia sottolineata anche nella rubrica. Si vede qui la coerenza ideologica dei tre cerchi: i valori adottati nel cerchio interno della novella sono condivisi dalla brigata e dalla coppia è formata dall’autore e dalle sue lettrici. L’attenzione onomastica, la precisione topografica, l’orientamento polemico e situazionale, con frequente rimando ai pettegolezzi e alla trasmissione orale di racconti e notizie, rendono queste novelle particolarmente calde: un sistema allusivo stabilisce il netto confine tra fiorentini e forestieri. La cortesia rappresenta il perno etico e ideologico del Decameron. La prontezza di ingegno, la giovinezza, la disponibilità all’amore sono infatti armonizzati del codice della cortesia, principio unificatore del sistema delle virtù cavalleresche, elaborato a partire dal XII secolo. Boccaccio si mette in questa linea adattandola al contesto fiorentino, caratterizzato da una stratificazione sociale più articolata. In ceto dirigente delle città italiane è una realtà ibrida, dove gli esponenti del ceto mercantile convivono con i membri di una più o meno antica aristocrazia cittadina e con le famiglie di ricchi possidenti provenienti dal contado. latina e dell’interesse erudito. Le opere che rientrano in quest’esperienza mirano a recupero dei modelli antichi e ambiscono a una grande sintesi, capace di collegare il mondo classico e la tradizione biblica delle esigenze del presente. Si impegna e quindi su due fronti di scrittura: le opere erudite e le raccolte narrative di impianto storico. Il primo gruppo è costituito dalla Geneaologia deorum gentilium, un trattato di mitologia a cui lavorò per oltre venti anni (1350-1370), e dal De montibus, silvis, fontibus, lacubus, fluminibus, stagnis seu paludibus et de diversis nominibus maris (1355-1374), geografico basato su fonti sia classi che sia medievali. Gli elementi che accomunano le due opere risaltano la lunga durata della composizione e la validità della metrica. La genealogia è un’opera di impianto ricchissimo, che in 15 libri raccoglie l’intero patrimonio mitologico classico, si fa portatore autonomo di valori morali universali. Nel penultimo libro svolge la teoria del racconto, con la quale illustra l’importanza della narrazione nella vita degli esseri umani, fatto che giustifica l’eccellenza il poeta e della sua funzione, cui è dedicato il libro conclusivo. E il progetto è apprezzato subito dei lettori del tempo, a partire da Napoli, presso i quali l’opera un’opera sua prima diffusione. Il secondo gruppo comprende invece il De casibus virorum illustrium (1361-1365), che raccoglie exempla morali tratti da biografie di uomini illustri, e il De mulieribus claris (1361-1374), nata su ispirazione del petrarchesco De viris illustribus, È costituita da 106 biografie di donne divenute il celebre per la scelleratezza o per la grande virtù. Queste opere confermano il rapporto con Napoli, forte fino alla tarda età. Lo mostra il sistema delle dediche, la prima dedicata a Mainardo Cavalcanti, che aveva importanti ruoli istituzionali a corte, la seconda è dedicata ad Andreola Acciaiuoli, sorella di Niccolò (amico e poi rivale dell’autore). L’orientamento verso il mondo napoletano si rivela anche nell’impianto strutturale. Nel De Casibus, i 159 capitoli raccolto in nove libri culminano nell’impresa di Gualtieri di Brienne, duca di Atene e nel tentativo politico di Filippa di Catania, eventi strettamente collegati alla politica di Napoli. Nell’altra opera sono distribuite le biografie femminili, da Eva alla vita della regina Giovanna, che Boccaccio ne decanta la lieta bellezza e le numerose virtù, tra cui la pacatezza fare, la maestra virile eppur dolce la pietà e l’umanità. Fa anche un preciso riferimento alla complessa situazione del Regno. Napoli resta sempre presente nell’orizzonte culturale e letterario di Boccaccio ma anche la figura di Dante, il quale attinge anche per queste opere che appaiono a prima vista come diretto effetto della lezione di Petrarca. Il De Casibus, in racconti sono inquadrati in una cornice epico-narrativa nel quale lo scrittore immagine che le ombre dei personaggi illustri gli appaiono, chiedendogli di essere ascoltati e tramandati alla memoria dei posteri. L’impianto è di impronta dantesca, confermata dal capitolo nono dove è lo stesso Dante ad apparire al protagonista-narratore. Corbaccio La nuova prospettiva intellettuale, di alto profilo è rivolta al pubblico colto, non contraddice la frequentazione della lingua e della tradizione letteraria volgare a cui Boccaccio è fedele, sebbene non manchino anche qui nuovi elementi. Il Corbaccio è un’operetta allegorica risalente al 1366 e narrata in prima persona, il cui protagonista, disperato per l’amore non corrisposto una vedova, invoca la morte. Il protagonista riceve in sogno l’apparizione del defunto marito della donna, che gli rivela di essere stato inviato da Dio, per intercessione della Madonna, al fine di salvarlo dall’avere into d’amore. Lo spirito rimprovera al protagonista la passione in cui è caduto, facendogli osservare quanto sia di sedicente dedicarsi all’amore alla sua età, soprattutto quando si è passata una vita intera negli studi Il Corbaccio è un’operetta allegorica risalente al 1366 e narrata in prima persona, il cui protagonista, disperato per l’amore non corrisposto una vedova, invoca la morte. Il protagonista riceve in sogno l’apparizione del defunto marito della donna, che gli rivela di essere stato inviato da Dio, per intercessione della Madonna, al fine di salvarlo dal labirinto d’amore. Lo spirito rimprovera al protagonista la passione in cui è caduto, facendogli osservare quanto sia di sedicente dedicarsi all’amore alla sua età, soprattutto quando si è passata una vita intera negli studi. L’invettiva contro Amore risponde a precisi modelli medievali, che Boccaccio conosceva fin dalla giovinezza, quando trascrisse nello Zibaldone Laurenziane XXIX 8 il frammento di Teofrasto. Negli ambienti colti del tempo, quasi esclusivamente maschili, questi testi erano assai diffusi: appartenevano alla cultura medievale latina, dove erudizione antica, interesse astrologico e misoginia confluivano in una posizione comune, che ribadiva la separatezza dell’intellettuale dagli impegni sociali. Questo approccio caratterizza la produzione matura di Boccaccio, non deve stupire la polemica misogina del Corbaccio, dove si legge una celebre accusa alle opere in cui si narrano le imprese amorose di Tristano, Lancillotto e dei compagni erranti. Si legge nell’epistola inviata dall’autore nel 1373 a Mainardo Cavalcanti, che sconsiglia di far leggere il Decameron alle donne di casa. Con questa dichiarazione l’autore sembrerebbe smentire il Proemio dell’opera, dove è contenuta la dedica alle donne innamorate. La lettera non è una condanna della raccolta di novelle, di cui ribadisce la destinazione di un pubblico colto. Boccaccio sembra distinguere tra le parenti di Cavalcanti, alle quali il libro va interdetto, e Mainardo stesso, cui si rivolge in maniera scherzosa, invitandolo a leggere le sue novelle. L’epistola sembra dunque proporre un atteggiamento duplice: impone il controllo della lettura, ma anche prefigura un lettore aperto, disponibile e consapevole delle proprie responsabilità. In quegli stessi anni l’autore realizza il codice autografo del Decameron noto come Hamilton 90 e oggi custodito Berlino. Nonostante la perdita di alcune carte del manoscritto, il codice appare è strutturato come un libro universitario del tardo medioevo: un’impostazione che mostra l’intenzione di Boccaccio di innalzare la raccolta di novelle al livello di un’opera di elevato impegno stilistico e di grande rilievo intellettuale. Un libro di intrattenimento avrebbe avuto caratteri diversi: piccolo e maneggevole, da potersi portare appresso e leggere con comodo anche in compagnia. Realizzare un libro da banco significava prefigurare 1:00 tipologia direttore: non la dama cortese, non il mercante chi si distrai per qualche ora dagli affari, ma l’intellettuale che legge e ragiona, che si impegna in un processo di interpretazione, dialogando con un testo che va preso sul serio. Realizzò il codice Hamilton intorno al 1370, pochi anni dopo la revisione della Genealogia di cui il libro 14 propone una teoria generale del racconto: l’autore vi sostiene l’utilità di scrivere racconti, respingendo l’accusa che poeti siano dei chiacchieroni e al contrario difendendo il valore civile della narrazione, capace di tenere gli uomini uniti nel vincolo sociale. Il modello scrittoio del libro da banco e la teorizzazione in latino all’interno di un’enciclopedia erudita, erano i volti di un medesimo progetto culturale, orientato a rivendicare le alte ragioni della poesia, in latino in volgare che fosse. Un progetto in cui Boccaccio rimase sempre coerente, dalla giovinezza fino al 21 dicembre del 1375, quando la morte lo raggiunse. CAPITOLO 4 L’esperienza di Petrarca resta isolata e senza discendenti almeno fino alla fine del Trecento. La prima circolazione della Commedia, invece, costituisce uno spartiacque nella tradizione del 13 e 14 secolo, È un modello per le generazioni di poeti successivi a Dante in particolare per la lingua. Il prestigio raggiunto da Dante consente di avviare per la prima volta un processo di toscanizzazione della lingua poetica. La commedia rappresenta anche la suprema autorizzazione e il principale vettore promozione dell’eclettismo tematico e stilistico riconosciuto come tratto di appariscente di questa stagione poetica. Pubblica la possibilità di disegnare una storia della poesia trecentesca lineare, l’immagine che abbiamo della poesia prima di Dante coincide in grossa parte con la ricostruzione che Dante stesso suggerisce in più luoghi della sua opera, ed è un’immagine confermata dalla testimonianza dei grandi canzonieri di fine Duecento. Le tendenze e i filoni che si trovano nel Duecento subiscono una deflagrazione lungo il secolo successivo, il libro di poesia del Trecento non presenta quasi mai un ordinamento interno che consenta una sistemazione storico-letteraria. La norma consiste in grosse raccolte antologiche aperte ad accogliere testi di diversa provenienza e datazione, senza un principio ordinatore. Il mutato quadro politico e sociale non poteva non comportare conseguenze anche sul piano degli ambienti della produzione culturale. I rimatori non sono più solo borghesi d’alto rango, ma funzionari di corte o uomini popolari. L’attività letteraria conosce un fenomeno di progressiva professionalizzazione in direzione cortigiana, e i prodotti letterari si propongono spesso come prodotti occasionali, di immediato consumo. A questo si aggiunge un altro fenomeno di lunga durata: il moltiplicarsi dei luoghi di produzione e di circolazione della letteratura. Prima la poesia si scrive e si legge in pochi centri culturali e all’interno di gruppi ideologicamente connotati, dopo, la dispersione geografica di un gran numero di letterati determina da un lato l’assenza di scuole riconoscibili, dall’altro il proliferare di esperienze individuali, radicate nelle realtà municipali di provenienza e si sviluppano in totale autonomia. Questo facilita la frammentazione di indirizzi e tendenze. Il tema amoroso non è più esclusivo, esso perde gran parte delle sue implicazioni ideologiche. Nuovi contenuti acquistano uno spazio più largo: la politica, l’ammaestramento morale l’autobiografismo, la visione didattico-allegorica, la narrativa; dopo una grande varietà di temi si amplia anche quello delle forme: si afferma la poesia per musica, prendono piede mezzi del tutto nuovi come la caccia, la frottola, e i capitoli ternari, si diffonde la poesia narrativa dei cantari in ottave. Vistose novità si affacciano sul panorama letterario di un pubblico nuovo, di estrazione borghese cittadina, che favorisce la sperimentazione di forme d’espressione. Il 300 è il secolo delle canonizzazioni dello Stilnovo. La tradizione della poesia stilnovisti si irradia molto precocemente, oltre che in Toscana, in area centro-nord, in particolare in Veneto da cui provengono le sillogi più antiche. Il Veneto rappresenta in questi anni il punto di accoglienza ideale di molti fuoriusciti toscani. Tali fenomeni migratori, uniti ai continui rapporti commerciali tra città venete e toscane, favoriscono scambi culturali di vario genere, promuovendo la circolazione dei libri e le interferenze linguistiche. Le tre maggiori città di produzione di codici di rime sono Padova, Treviso e Venezia. La più antica testimonianza di questo ramo risale agli anni 1325-1335, è il manoscritto Barberiniano latino 3953, uno dei tre copisti che lo hanno compilato, è il poeta Nicolò de Rossi. È un’ampia antologia della maggiore poesia stilnovista, che raccoglie componimenti di Guinizelli, Dante, Cavalcanti, Cino, Lapo Gianni, insieme ad alcuni rappresentanti del versante comico come Cecco Angiolieri. Questo manoscritto non è solo un’antologia di poeti, infatti è presente la produzione proprio dello stesso Nicolò, con quattro canzoni e più di 400 sonetti. La composizione stessa della silloge ci restituisce un progetto editoriale dove l’opera del copista e quella del rimatore corrispondono, rivelando l’intenzione di Niccolò di esibire un canone delle proprie personali auctoritates a ideale convalida a e legittimazione della sua attività di rimatore. Niccolò de’ Rossi Niccolò de Rossi nasce a Treviso intorno al 1290 e non si hanno notizie dopo il 1348. A Bologna entra in contatto con Cino da Pistoia e svolge incarichi pubblici a Treviso, ad Avignone e a Venezia. La sua attività di rimatore è testimoniata da due codici, il Colombino 7132 contiene la totalità della sua produzione, è situato a Siviglia ed è databile intorno al 1330, parzialmente autografo. Le due raccolte manifestano tutti i quotidiana trovano espressione in una sorta di registro intermedio che ha maggiore circolazione e apprezzamento presso un nuovo pubblico cittadino e borghese. Bindo Bonichi Il corpus di rime del mercante senese Bindo Bonichi esemplifica in concreto questa nuova maniera poetica. Nasce intorno al 1260 e muore nel 1338, la collocazione del poeta tra i minori del Trecento si deve a ragioni culturali più che cronologiche. A lui sono attribuiti una cinquantina di componimenti tra sonetti e canzoni, quest’ultime compongono un trattato etico-civile in versi. I sonetti ebbero fortuna editoriale, tra i caratteri più vistosi, vi è la totale assenza di poesie d’amore. La lezione di Dante e dello Stilnovo è ignorata dal poeta che predilige temi legati alla morale e alla vita pratica della realtà cittadina. La sua poesia è concentrata su questioni di morale elementare e magra riflessione sulla vita quotidiana. Il tema dell’incontentabilità dell’uomo è trattato con un punto di vista laico, un linguaggio triviale e una certa ripetitività. Usa in modo insistente espressioni epigrammatiche o proverbiali che nel giro di breve del sonetto gli consentono di costruire piccoli e spesso arguti trattatelli di precettistica a uso di un largo pubblico di varia estrazione. L’allargamento del pubblico della poesia è uno dei principali vettori di innovatività nella storia letteraria trecentesca. Tra fenomeni più appariscenti, c’è lo sviluppo del capitolo ternario. Il successo della Commedia si manifesta infatti anche al di fuori della forma poema. La terzina è adottata da molti rimatori per componimenti brevi caratterizzati dalla sovrapposizione tra il racconto in prima persona e una narrazione che procede per stazione che si susseguono senza soluzione di continuità. In questa fase il capitolo ternario diventa un modello adatto a ospitare usi espressionistici prima ignorati, sostenuto da formule fisse ripetitive, aperto a contenuti eterogenei e a un registro medio-basso. Si gettano le basi per la fortuna che soprattutto nel 500 il ternario conoscerà come metro specifico del genere satirico. Antonio Pucci Tra gli esperimenti più innovativi ci sono quelli di Antonio Pucci, nasce a Firenze nel 1310 e lavora come campionario e poi banditore al servizio del Comune che gli consente di essere in rapporto con gli strati bassi della popolazione, a questa attività è legata larga parte della sua produzione. Pucci non è solo autore di un cospicuo canzoniere che affronta temi quotidiani di morale e vita sociale in maniera simile a quella di Binda bonifici, ma sperimenta anche i generi più disparati. In terzine sono anche due tra i suoi componimenti più originali: le Noie, dove si enumerano i cattivi costumi dei fiorentini del suo tempo e le Proprietà di Mercato Vecchio, un divertente quadretto della vita del popolo fiorentino e delle attività che si svolgono nella piazza del mercato. Franco Sacchetti Un linguaggio integralmente comico-realistico è quello del fiorentino Franco Sacchetti, autore di un canzoniere ordinato secondo un progetto compositivo organico, tentativo di organizzazione a posteriori di un corpus di rime piuttosto ampio. La poesia di Sacchetti è tra i frutti più innovativi dello sperimentalismo della seconda metà del secolo. È autore del cosiddetto potassio, una raccolta di riboboli, frasi proverbiali, espressioni dialettali, senza un apparente tangibile nesso logico, che con doppisensi osceni, vuole raccogliere materiale linguistico eccentrico diffuso presso i parlanti fiorentini e disporlo in un dialogo ritmato. Nasce anche un nuovo genere metrico ovvero la frottola, composta dal libero alternarsi di versi lunghi e brevi, priva di organizzazione strofica e con schemi ritmici estremamente variabili e ha una struttura ambigua. La lingua nuova è uno dei testi più originali di Sacchetti, in cui si enumerano molti stanno i vocaboli dei fiorentini. Antonio Beccari Al medesimo gusto che coniuga intento comico e linguaggio furbesco rispondono diverse esperienze poetiche anche fuori da Firenze. Rimatore tra Toscana, Veneto e Romagna, è per esempio maestro Antonio Beccari da Ferrara, di umilissime origini, nasce nel 1315 e incarna il profilo del poeta professionista al servizio di signori e potenti. Ha una vita piuttosto irregolare: si attestano processi per rissa ma anche i non pochi spunti autobiografici disseminati nei suoi testi. La sua produzione poetica è divisa tra rime amorose, religiose e morali, ma in cui trovano anche espressione le vicissitudini della vita quotidiana. Si deve a lui l’invenzione di uno dei generi tematici più fortunati fino al Seicento: la disperata, non è una tipologia del tutto nuova ma nel Trecento acquista connotati specifici che si rinvengono costantemente negli autori che lo coltivano, dallo stesso Sacchetti a Simone Serdini, detto il Saviozzo. Il poeta descrive le sue sciagure, lamentandosi della sua cattiva sorte e maledicendo il mondo, la società, il destino, che lo costringono a vivere nella miseria. La canzone Le stelle universali e i ciel rotanti è l’archetipo di questa maniera. La nascita, l’adolescenza, la famiglia, persino gli sforzi del padre per assicurargli un’istruzione, sono oggetto degli strali del poeta che costruisce una drammatizzazione dell’io lirico che si espone di fronte a tutti snocciolando le sue miserie in un interminabile lamento, esibendole in maniera così enfatica da assumere dimensioni quasi surreale. Il componimento è emblematico di quella mescolanza di registri di cui si è detto, esibendo un’escursione stilistica che va da un polo alto a uno basso. Nella letteratura popolareggiante, luogo di mediazione fra la tradizione colta e il gusto e l’esigenza di lettura di strati sempre più larghi lettori di provenienza sociale medio- bassa, prendono piede alcune delle principali novità del secolo. La poesia profana per musica e per danza è destinata a fortuna più duratura, i primi esperimenti sono legati ai più recenti sviluppi nella direzione musicale medievale che intorno alla metà del Trecento conosce l’avvento della polifonia. Questo comportava la necessità di fermare su supporto scritto le notazioni musicali. Le aree di produzione e circolazione di manoscritti di questi testi con una vestizione musicale sono due: Lombardia e Veneto, e successivamente la Toscana. Molti sono i componimenti originariamente non destinati al canto che a distanza di anni conobbero una circolazione popolare grazie alla messa in musica di esecutori divenuti ben presto celebri come Francesco Landini. La maggioranza dei testi è giunta a noi in forma anonima o se ne conosce solo il responsabile della musica. Tra i nomi superstiti, quello di Nicolò di Neri Soldanieri si impone per l’ampiezza del suo corpus. Fiorentino di nobile famiglia ghibellina, morto negli anni 80, è autore di canzoni, ballate e madrigali di argomento amoroso e anche di cacce, la cui invenzione è forse da addebitare allo stesso Soldanieri o a Franco Sacchetti. Può presentarsi nella forma della ballata o del madrigale, ma ha più spesso la struttura metrica libera, con strofe composte diversi di misura varia e con schema ritmico discontinuo, rappresentanti scene animate e collettive come cacce, incendi, temporali… Un’altra invenzione trecentesca sono i cantari in ottava rima. Un genere che conoscerà un’enorme fortuna almeno per i due secoli successivi, visto che è da qui che prende le mosse il genere del poema cavalleresco di autori come Boiardo o Ariosto. I cantari sono poemetti narrativi di lunghezza variabile, destinati alla recitazione orale accompagnata dalla musica da parte di giullari. La tradizione canterina nasce nella seconda metà del secolo in Toscana con autori come Antonio Pucci e Pietro da Siena, ma avviene precocemente assunta a livello colto, il Filostrato di Boccaccio è l’esperimento di gran lunga più fortunato. La tradizione manoscritta è caratterizzata da un altissimo tasso di rielaborazione da parte di copisti per passione, che intervengono sul testo per modificarne la forma e attualizzarne i contenuti. La materia narrativa deriva dalla più raffinata tradizione letteraria medievale e classica, adattate alle esigenze di un nuovo pubblico borghese desiderosa di belle storie da leggere ed ascoltare, come storia del Vangelo, vite di santi, avventure cavalleresche ispirate alle canzoni di gesta o ai romanzi arturiana, racconti tratti dal mito classico come il toscano Cantare di Priamo e Tisbe, riscritture anonima del racconto del quarto libro delle metamorfosi di Ovidio. Il linguaggio, asciutto e privo di particolari escursioni stilistiche, si avvale soprattutto della retorica dell’amore cortese al fine di attualizzare il racconto mitologico entro un codice ormai diffuso e noto al nuovo pubblico cittadino. CAPITOLO 5 Nel 14 secolo raggiunge piena maturazione il processo di emancipazione dei volgari dal latino che si era già avviato nel secolo precedente. Il latino rimane la lingua ufficiale della cultura, il volgare acquista il primato, in ambiti diversi della comunicazione pratica e letteraria. La nuova cultura della classe borghese si propaga grazie ai continui scambi. Al dinamismo di questa classe, laica e cosmopolita, corrisponde alla ricerca di una legittimazione culturale da parte di chi è interessato a darsi una formazione scolastica e avverte l’esigenza di appropriarsi di quella produzione che fino ad allora era stata quasi esclusivamente degli aristocratici o del clero. Al centro di questo processo vi è la fervida attività di volgarizzamento dei testi latini di età classica, vengono proposte come esempi di insegnamento morale che costituiscono il principale veicolo della crescente alfabetizzazione e della estensione del volgare a un raggio sempre più largo di usi scritti. Vengono volgarizzati autori letterari come Ovidio, Virgilio, lucano ma anche storiografi come Livio e trattatisti come Cicerone. Gli autori sono spesso anche scrittori in proprio come Boccaccio, traduttore di Livio oppure Andrea Lancia, traduttore di Virgilio, Ovidio, Seneca e altri. Firenze è il centro propulsore di questa produzione, lampi circolazione di volgarizza menti può essere considerata uno dei principali fattori di espansione del toscano sugli altri volgari. Nella prosa i volgari locali sono molto più resistenti, anche per la mancanza di modelli autorevoli, sia in Veneto sia che nel Regno angioino la scrittura in prosa si avvale ancora delle tradizioni linguistiche autoctone. Il proliferare di volgarizzamenti comporta conseguenze rilevanti per la storia dell’italiano letterario, svolgendo un ruolo di primo piano nel consolidarsi della prosa, che progressivamente si arricchisce sul piano lessicale e si irrobustisce su quello della sintassi, plasmata sulle salde strutture della prosa latina. Nel Trecento si sviluppa la letteratura religiosa, raccolte di predicatori come i toscani Giordano da Pisa o Domenico Cavalca rispondono all’esigenza di divulgare, con un linguaggio semplice ed efficace, il messaggio evangelico presso strati della società laici e illetterati. La tipologia maggiormente usata è l’exemplum, genere ormai ampiamente codificato nella tradizione medievale, è lo strumento più adeguato a proporre modelli di comportamento o dimostrare verità teologiche a un pubblico non specializzato. Il discorso esemplare penetra in una grande quantità di generi differenti, da quello novellistico a quello storiografico. La fortuna del Decameron ha un duplice effetto nella produzione narrativa del Trecento, da un lato costituisce una spinta propulsiva però per azioni simili, il genere della novella acquista una dignità letteraria e formale autonoma rispetto agli altri generi a cui si trovava asservito. D’altro canto, l’imitazione del modello comporta l’attenuazione dei suoi caratteri più innovativi, vengono preferite strade più convenzionali in quanto a scelte stilistiche e organizzazione del materiale narrativo, riportando in genere dentro coordinate ideologiche meno controverse rispetto a quelle di Boccaccio. La libera mescolanza degli stili tragico e comico, l’ambiguità morale dei contenuti, la critica organica all’ideologia cortese, subiscono un forte ridimensionamento presso gli autori del 14 secolo. Ciò che distingue la sua opera da quelle precedenti e coeve è l’amplissima messe di notizie, di informazione su protagonisti e comprimari, precise indicazioni statistiche, geografiche, cronologiche, documentazione puntuale su risvolti economici delle vicende politiche. Si ha una gran quantità di dati, organizzati all’interno di un’architettura discorsiva schematica ma coerente e unitaria. L’interpretazione della storia risente di una certa ideologia provvidenzialistica, che gli avvenimenti siano condizionati dalla presenza e dal volere di Dio nella storia. L’incastro dell’analisi storica e politica con altri saperi (teologia, astrologia, morale, filosofia) è lo strumento che consente all’autore di andare al di là della descrizione statica delle vicende per rintracciare il valore dei fenomeni che le collegano tra loro. EPOCA 3: la stagione dell’Umanesimo – INTRODUZIONE I fenomeni culturali di questa stagione si riconoscono per il modificarsi di alcuni aspetti, il mutare delle abitudini, dei comportamenti, dei modi di concepire la vita. I caratteri più tipici dell’umanesimo trovano riscontro anche in altri momenti della cultura italiana, nel loro complesso, illustrano in modo appropriato il periodo che corre tra gli ultimi decenni del XIV secolo e la fine del XV secolo, fino alla svolta del 1494, quando con l’invasione di Carlo VIII re di Francia e il crollo del sistema politico italiano, si realizza una situazione diversa. Sono due gli elementi che vanno annoverati tra quelli caratteristici: il primo riguarda le forme che gli intellettuali individuano per la loro azione culturale, che è un’azione sentita come fortemente collettiva, il secondo riguarda l’attrazione nei confronti dei detentori del potere realizzata dagli umanisti, che, seppur subordinati rispetto ai signori e potenti del loro tempo, acquistano però una autonomia di azione che si trasforma a volte incapacità di indirizzo politico. L’umanesimo è la grande stagione del rinnovamento dei manoscritti che conservano le opere dell’antichità classica. Seguendo l’esempio di Petrarca, che per primo svolge un’azione di ricerca e identificazione di questi antichi tesori, gli intellettuali italiani si impegnano in un’imponente attività di recupero. I ritrovamenti in questo ambito appaiono nel complesso non di grandissimo rilievo, ad eccezione della scoperta del De Rerum Natura di Lucrezio. Più numerosa e significativa è la restituzione di testi di altro tipo: orazioni, opere retoriche, libri filosofici, commenti letterari, trattati di architettura, di arte militare o della coltivazione agricola, manuali dedicati alla medicina, alla magia e alla matematica. L’apertura verso il mondo della natura con il nuovo interesse per i testi scientifici e pratici si accompagna a una revisione del mondo della storia. La frontiera umanistica consiste nello stabilire una linea di demarcazione che separa il secolo in cui vivono i nuovi intellettuali dei secoli passati, il cui valori vengono nettamente rifiutati. Lo schema temporale è tripartito: A. Età presente B. Medioevo C. Età classica Tale ripartizione si sviluppa su due coppie asimmetriche: la prima stabilisce la contrapposizione tra età presente età medievale (a vs b); la seconda fissa il rapporto di imitazione tra età presente ed età antica (a=c). Il passato romano e greco si costituiscono in questo modo come depositi della pristina forma, cioè di quelle forme originarie che gli umanisti intendono restaurare come riferimento per i diversi campi dell’azione umana. I contemporanei hanno bisogno di risalire a questa epoca in quanto tra il loro mondo e quello degli antichi si frappone un periodo intermedio, sentito come oscuro e negativo. Su questa base possono costruire il mito della rinascita: il presente è considerato positivo perché contrapposto al vicino passato medievale e ispirato all’antico passato greco-latino. Grazie al recupero dei manoscritti gli umanisti restituiscono l’articolato sistema conoscitivo proveniente dal mondo antico, che andava dall’ambito tecnico a quello teorico, dalla poesia al pensiero scientifico. Questa cultura non si limita alla esclusiva valorizzazione delle discipline letterarie attraverso la retorica cioè il primato della parola umana, ambisce a estendere le proprie conoscenze ai più diversi settori del sapere. È il caso delle scienze matematiche che fino a quel momento erano limitate all’applicazione nella vita pratica, assumono una grande importanza nel corso del Quattrocento, come rivelano le ricerche sulla proporzione e di studi dedicati alla prospettiva. La magia che, ricevuto il nuovo impulso dalla riscoperta dei testi della tradizione ermetica greca, collabora a scardinare l’impostazione aristotelica che distingueva rigidamente tra mondo celeste e mondo sublunare e a gettare le basi Per una concezione dinamica della natura, incentrata sulla trasformazione di cui gli intellettuali si impegneranno a comprendere le leggi profonde. L’umanesimo è un periodo in cui la ricerca erudita e gli sforzi del sapere vengono ricondotti all’intervento effettivo nelle vicende degli uomini, antichi non sono ideali staccati dalla prassi, ma modelli concreti che vanno incarnati nei comportamenti quotidiani. La passione per gli antichi si presenta come un ideale culturale, come un modo per differenziarsi rispetto alle generazioni precedenti. I nuovi giovani intellettuali realizzano i loro modi di scrivere, vestirsi e comportarsi sulla base del passato greco- romano. Il continuo riferimento ai testi antichi impone una conoscenza diretta di questi testi, la cui lettura e comprensione viene affidata a degli specialisti della lingua latina e greca. Gli umanisti sono esperti conoscitori delle lingue e delle letterature classiche, la parola umanista significa professore di lettere, colui che insegna i testi a un livello più alto della semplice spiegazione letterale del testo (compito del grammatico). L’umanista è un retore che evince dalla lettura delle opere antiche anche dei contenuti morali. Gli studi umanitari sono basati sul concreto lavoro della riscoperta, lettura e comprensione di testi a partire da Cicerone, Livio, Sallustio. Da loro i giovani devono attingere l’arte dell’eloquenza e a tal fine occorre leggerli ripetutamente e memorizzarli. Il programma è prevalentemente letterario, e tuttavia, se l’obiettivo prioritario è di cercare la perfetta lingua latina occorre conoscere anche gli altri autori, dai quali si devono acquisire altre scienze. L’età dell’umanesimo vede un grande sviluppo nella relazione pedagogica tra maestro e allievo, non più basata sui principi dell’autorità e della costrizione ma sulla persuasione e sul rispetto reciproco, il maestro diviene un secondo padre. Si sviluppa l’attenzione per una nuova categoria sociale: l’infanzia. Vengono scritti una grande quantità di libri sull’argomento pedagogico in questi decenni, da autori come Pier Paolo Vergerio, Leonardo Bruni, Matteo Palmieri, Francesco Barbaro, Leon Battista Alberti, e più tardi, nel Regno di Napoli, Antonio De Ferrariis scriverà il De Educatione al quale segue il trattato di Erasmo, con il quale l’umanesimo diventa un grande patrimonio comune a tutta Europa. Questo movimento non è circoscritto alla sola Firenze ma è condiviso da tutto il mondo padano, da Milano, Venezia, Verona, la grande area emiliano-romagnola con Ravenna, Forlì, Bologna, Ferrara e Mantova. Un movimento esteso all’intera penisola, cui partecipa anche il regno di Napoli. L’umanesimo è un grande processo di riappropriazione dei testi antichi vissuti come modelli di vita che impone una conoscenza approfondita della lingua attiva di cui si deve avere la competenza attiva. Il latino non è più una lingua madre, gli intellettuali del tempo non possono che a prenderlo dei testi che ammirano così fervidamente; di conseguenza, il latino che essi scrivono è esemplato su quello che nel frattempo leggono nelle opere del passato. Nasce così il concetto di imitazione, intesa come volontà di tare la lingua antica, abbandonando il proprio mondo linguistico per entrare in quello dell’antichità. Petrarca invita a leggere i classici, raccomanda però di scrivere senza imitare alla lettera, ma trovando un proprio modo personale di esprimersi, così da assomigliare agli antichi come figli assomigliano i padri. A questo scopo bisogna servirsi dell’ingegno e dei colori altrui, ma non delle parole. Lo stretto rapporto con la lingua del modello, a causa della sua stessa natura di modello, finisce col modellare lo stile di colui che imita. A poco a poco il sistema finisce così con l’irrigidirsi, mentre vengono individuati due principali riferimenti stilistici che diventano obbligatori: Cicerone per la scrittura in prosa e Virgilio per quelle in versi. Il principale motore del mutamento stilistico del XV secolo sono le orazioni ciceroniane, E scomparsi da secoli gli umanisti si accorgono che la lingua latina non è un unico blocco omogeneo sempre uguale nel tempo e nello spazio. La varietà di forme ed espressioni è dovuta a differenze stilistiche e geografiche, queste differenze sono dovute alla variazione diacronica: la lingua di Ennio non è quella di Virginia e non è quella di Stazio. Il senso del tempo storico è il frutto dell’esperienza concreta di ricerca e studio delle opere. Il rapporto con gli antichi non è però privo di contraddizioni. La grande stagione greco-romana sì è sviluppata in gran parte prima di Cristo, e la quasi totalità dei testi sono stati scritti da autori pagani. Si crea di conseguenza la necessità di distinguere tra la bellezza dello stile e la verità delle loro affermazioni, separare il valore morale di quanto si legge in quelle opere dell’orizzonte religioso che le caratterizza. Il riferimento a una pristina forma a cui adeguarsi fedelmente portava inevitabilmente ad assumere comportamenti, abitudini, opinioni che non erano assimilabili in prospettiva religiosa. Il primo problema era di natura linguistica: il latino dei classici era diversissimo da quello biblico. Un altro problema sorgeva dall’idea stessa di renovatio: far rinascere le forme antiche significava ripristinare anche forme della socialità precristiana. È il caso dell’Accademia di Careggi che si dedicava allo studio della filosofia di Platone, riprendendo anche il modello dell’antica Accademia platonica di Atene, anche i papi volevano l’antico volto imperiale dal punto di vista architettonico e urbanistico. Le rappresentazioni teatrali sono mancate nel corso del medioevo ma nel giro di pochi decenni con il De architectura di Vitruvio torna rinascere il teatro regolare. Nel corso del 400 gli umanisti vennero accusati di paganesimo, divenne predominante la profonda convinzione che la disciplina intellettuale imposta dallo studio della cultura classica fosse fondamento di un processo di miglioramento anche morale dell’essere umano dato che smisero di preoccuparsi di fondere la loro fede con la letteratura pagana. Rispetto alla tradizionale centralità di Firenze anche Padova spicca per l’azione culturale di Lovato dei Lovati, ispirata nel 1290 ai verterum vestigia vatum, le impronte degli antichi che devono essere fedelmente calpestate. L’importanza dell’ambiente padovano e dell’ampia presenza di una cultura incentrata sull’intenso rapporto con gli antichi va considerata anche il rapporto con i massimi autori del Trecento. Decisivo il rilievo della realtà padana nella vita di Petrarca che trascorre gli ultimi anni della sua vita tra Padova e Arquà. A Firenze è fondamentale la stretta connessione tra cultura umanistica e gestione dell’amministrazione pubblica. La centralità di figure come con Coluccio Salutati e Leonardo Bruni mostra come a Firenze l’azione intellettuale non si sia mai separata dalla gestione del governo. Humanitas non è dunque un fatto solo culturale, nelle litterae sono mera retorica, ma devono sempre ispirare l’azione concreta. Bruni spiega perché si può paragonare lo stile di Cicerone alla Repubblica di Firenze: l’uno e l’altra rappresentante espressione massima raggiunta nei rispettivi ambiti, nelle parole dell’autore non si era visto mai tanto ordine, tanta eleganza, tanta sintesi euritmica. La laudatio bruniana viene composta nel 1404. Una simile concezione dell’ideale di pubblicarlo fiorentino trasforma la concreta esperienza cittadina in una realtà dei testi antichi. Nel 1415 trova nell’abazia di Cluny delle orazioni ciceroniane, anni dopo ne trova altre due e poi altre sette nella biblioteca del Duomo di Colonia. Nello stesso 1417 Poggio si imbatte nel de Rerum natura di Lucrezio, di cui si conosceva l’esistenza ma che nessuno aveva più potuto leggere da secoli. Poggio, oltre che è una eccellente copista, è un esperto di libri e scritture del passato. Fa visita ai monasteri della Svizzera, della Germania e della Francia, consultando carte e libri rimasti chiusi da secoli e spesso danneggiati dagli insetti e dall’interventi. In una lettera del 15 dicembre 1416 comunica a Guarino veronese, filologo umanista, la scoperta di una copia integrale delle Institutiones oratoriae di Quintiliano. Qui si trovano tutti i caratteri fondamentali della stagione umanistica: la spinta alla ricerca, la curiosità per i depositi di libri, il senso di dignità riconosciuto delle opere intellettuali, assimilate esseri umani. Poggio lamenta che i libri siano stati abbandonati in una cantina come fossero prigionieri. Questa immagine diviene tipica per biasimare la lunga epoca lungo la quale l’antichità è stata ignorata e perseguitata. In epoca di regime manoscritto, quando le opere recano sempre il segno concreto della mano che le ho trascritte, i lettori sono abituati a trarre informazioni importanti dagli aspetti grafici. Alla fine del Trecento le due principali forme di scrittura, cioè la minuscola cancelleresca e la gotica libraria, sono utilizzate in campi del tutto differenti: la prima per turbamenti pratici e la seconda per i libri universitari ma nessuna delle due poteva soddisfare la nuova esigenza di trasmettere che opere letterarie scritte in latino elegante, modellato sui grandi esempi classici. Se i moderni volevano essere all’altezza degli antichi, i loro testi avrebbero dovuto competere con quelli dei predecessori sia dal punto di vista linguistico che stilistico ma anche della resa scrittoria. La littera antiqua, la grafia all’antica, diventava prova della renovatio intesa come consapevole ritorno alla pristina forma. Per gli intellettuali attivi nei decenni centrali del 14 secolo, ripercorrere le strade battute dei grandi scrittori latini costituisce un’esperienza di renovatio, di rinnovamento integrale. Da qui nasce la metafora di rinascita con la quale questi autori descrivono la propria epoca, seguita al periodo oscuro durante il quale il rapporto con la cultura classica è venuto meno e il latino si è imbarbarito. Sono i barbari, i selvaggi e violenti Goti, responsabili della caduta di Roma, ad aver causato l’impoverimento culturale durato per secoli, i moderni adesso si trova nuovamente in condizione di rivolgersi agli antichi in maniera diretta. Petrarca chiarisce questa condizione, quando raccoglie nelle sue Familiares delle lettere inviate a illustri personalità del passato tra cui Cicerone e Seneca. È l’esempio perfetto di una idea di letteratura come conversazione, come scambio paritario tra autori che stabiliscono un rapporto reciproco attraverso i secoli. La lettera è nata come strumento per comunicare da lontano, permette adesso di superare anche la distanza temporale. Lo mostra la seconda lettera a Cicerone, dove è espresso con chiarezza il lamento per i danni prodotti durante i secoli medievali, durante i quali i tesori della classicità sono stati abbandonati, a mano a mano che ci si allontanava dall’armonia e dalla purezza della lingua e dello stile antichi. A questo imbarbarimento risponde una restauratio, cioè un restauro delle opere ispirato alle regole precise della filologia: dopo aver recuperato i codici, le diverse varianti andranno confrontate (collatio) al fine di ricostruire il testo corretto. La lettera a Cicerone mostra bene l’intreccio del sentimento di orgoglio di sentirsi eredi diretti della latinità con l’emergere di una nuova sensibilità storica, che concepisce il tempo come un flusso rettilinea rispetto al quale gli uomini hanno la responsabilità di prendersi cura di ciò che giunge dal passato. In pochi anni la renovatio e la restauratio diventano i due assi principali della cultura umanistica, lo dimostra il manifesto dell’umanesimo ovvero la Praefazio di Lorenzo Valla ai suoi Elegantiarum latinae linguae, in cui si rivendica la grandezza di Roma e della lingua latina, fondamento della civiltà occidentale. Valla lamenta che lo studio, un tempo fiorente, sia ormai decaduto a causa dell’imbarbarimento della lingua. Valla chiarisce il principio fondamentale della cultura umanistica, saldando in maniera definitiva la retorica con la filologia. Il restauro dei testi antichi farà tutt’uno con limitazione della loro lingua e del loro stile, mentre la letteratura diventa la base della convivenza umana e la garanzia della stessa identità collettiva. Le lettere di Cicerone ad attico forniscono il modello per il nuovo modo di stabilire il contatto reciproco all’insegna dell’amicizia e dell’eleganza formale. Si crea un primo barlume della repubblica delle lettere, il sistema reticolare di rapporti che a partire dal XVI secolo attraverserà l’Italia e tutta l’Europa tenendo insieme il mondo dei dotti e degli artisti. Tra documenti ufficiali, relazioni ai superiori e corrispondenza ordinaria, gli umanisti quattrocenteschi si ritrovano costantemente con la penna in mano per ragioni professionali ma si ritagliano lo spazio privato delle lettere familiari, caratterizzate da un uso sapiente della lingua latina, dalle frequenti citazioni letterarie, dalla imitazione stilistica degli autori antichi. Ne sortisce un dialogo tra pari, che si misurano sul loro la rapporto col mondo classico, a partire dalle scoperte di nuove opere provenienti dal passato. La comunicazione epistolare va così di pari passo con la circolazione dei libri. Attraverso questa circolazione e questo studio, i moderni scoprono pertanto l’affinità tra di loro, il loro riferirsi a un patrimonio comune, fatto di oggetti concreti (i manoscritti) e di pratiche precise, a partire dallo scambio epistolare, che costituisce uno strumento di coesione del ceto intellettuale. Le lettere permettono infatti agli umanisti di riconoscersi in un sistema condiviso, che nel giro di pochi anni si precisa anche come un rapporto in compresenza. Ciò avviene nei cenacoli, aggregazioni private svincolate da regole e obblighi ufficiali. Questa libertà che trova espressione anche nella preferenza del genere del dialogo, costituisce la sodali tassa umanistica, aggregazioni intellettuale autonoma rispetto alla gerarchia di rapporti lavorativi e basata sul riconoscimento reciproco. L’effetto più esaltante della riscoperta degli antichi è l’individuazione di un modello espressivo e comportamentale che consiste nella convivenza tra pari, i quali possono sentirsi indipendenti rispetto alle pressioni del mondo esterno. CAPITOLO 2 Colluccio Salutati Firenze gioca un ruolo centrale nella promozione dell’umanesimo. Una serie di figure riprendono il magistero di Petrarca e Boccaccio sullo studio dei classici e della scrittura latina tra questi Colluccio Salutati. Salutati nasce vicino a Pistoia nel 1331 e i suoi studi legali gli consentono di esercitare la professione di cancelliere a Lucca e poi notaio a Firenze, viene nominato cancelliere della Repubblica Fiorentina nel 1375. Da questo momento fino alla morte nel 1406 ha una funzione centrale nella vita politica della città che sta subendo la forza espansionistica di Gian Galeazzo Visconti. Salutati tiene un epistolario nelle quali lettere prende parola a nome dello Stato, ma anche 344 lettere private nelle quali emerge il profilo dell’intellettuale impegnato in uno scontro per l’affermazione degli ideali del nascente umanesimo. A fonda le sue basi nella ripresa di modelli antichi: a lui si deve la riscoperta del testo delle Epistulae ad familiares di Cicerone. Non è un caso infatti che alcuni dei suoi testi più importanti abbiano la forma di una lettera, prima testimonianza del ruolo centrale che lo scambio epistolare assumerà nel corso del 15 secolo. In forma di lettera, nel 1399, Colluccio compone un elogio della poesia classica difendendo così la necessità di studiarla contro le accuse di chi è la riteneva segnata dall’orizzonte ideale pagana. Si ricollega al modello delle genealogie di Boccaccio, e che riprende un discorso che lo stesso salutati aveva avviato con un’opera di quattro libri, nella quale, attraverso l’interpretazione mitologica delle fatiche di Ercole, veniva proposta una lettura allegorica della mitologia antica in chiave di insegnamento morale. L’elemento più importante del rilancio della lezione di Petrarca nel nuovo secolo che salutati compie posa l’accento sulla prospettiva morale, sulla riflessione etica come fondamento della conoscenza dell’uomo. Un testo esemplare è il De fato et fortuna, opera incentrata sul delicato rapporto tra la libertà del volere umano e il dogma di ogni scienza e presenza divina. Di argomento politico è un’epistola trattato del 1400, il De tyranno, in cui salutati ragiona sulla legittimità dell’eliminazione del tiranno concentrandosi sull’esempio di Cesare, affrontando in modo implicito la questione della rappresentanza del volere collettivo nelle diverse forme di governo: la res pubblica e qualunque forma di governo che sia orientata al bene comune. Ha il valore quasi di un testamento l’ultima lettera scritta al cardinale Dominici nel 1405, mirata alla difesa della poesia classica e in risposta ad una sua opera in cui lo studio degli antichi viene indicato come pericoloso. La risposta di salutati segna una limpida affermazione dei valori dell’umanesimo: non c’è nessun contrasto tra la letteratura dei classici pagani e quella dei testi sacri poiché anche i secondi hanno una natura politica e la loro interpretazione trai giovamento da una piena conoscenza della letteratura antica. Salutati propone una sorta di giunzione tra orizzonte classico e fede cristiana. Muovono dalla scuola di salutati i due umanisti forse più influenti dell’ultima parte del secolo, capaci di incidere da un lato sull’orizzonte fiorentino (Bruni), dall’altro sugli ambienti della curia romana (Bracciolini). Leonardo Bruni Nato ad Arezzo tra il 1370 e il 1375, studia negli ultimi anni del secolo; all’inizio del secolo è già all’allievo principale di salutati e si impegna nell’azione politica del maestro, in un paio di opere mirate all’elogio di Firenze come modello di virtù e di ordine democratico: Laudatio florentine urbis, Bruni sottolinea come le diverse componenti della società riescano a trovare un’armonica convivenza nel sistema politico fiorentino. Sul mito di Firenze, ma sul versante letterario, l’altra opera sono i Dialogi ad Petrum Paulum Histrium, un dialogo collocato nel 1401 tra bruni, Niccolò Niccoli, Roberto de Rossi e salutati. Contengono una serrata discussione delle opere di Dante, Petrarca e Boccaccio, difesa da salutati e duramente attaccata da Niccoli, in nome di una posizione di estremismo umanistico. L’opera mette in scena una sorta di confronto tra diverse interpretazioni dell’umanesimo fiorentino, nei suoi primi passaggi: da un lato la chiusura rispetto alla stagione trecentesca, ritenuta arretrata; dall’altro invece una differenza e una ripresa che valevano confermare l’eccellenza della tradizione fiorentina nessuno insieme. Nel 1405 si allontana da Firenze, si trasferisce a Roma dove collabora con papa Innocenzo VII, poi partecipa al concilio di Costanza. Dopo il 1415, torna a Firenze e riprende la celebrazione della città, avvia una operazione di traduzione dai classici greci in latino, si impegnerà a dare un nuovo testo latino per opere capitali della filosofia classica. L’obiettivo è quello di restituire a questi testi il volto originario, eliminando gli errori di una tradizione secolare e piena di incertezze. Compone un trattato sulle regole da osservare in una traduzione, il De interpretatione. La centralità del suo ruolo a Firenze e riconosciuta dalla sua nomina a cancelliere della Repubblica nel 1427, una carica che manterrà anche quando la Repubblica finirà sotto il controllo di Cosimo il vecchio dei medici. Rimane il perno il biologico dell’eccellenza di Firenze: componendo in volgare le vite di Dante e del Petrarca, Bruni conferma il primato quella tradizione fiorentina della quale era diventato uno degli ultimi esponenti. Muore nel 1444 e viene sepolto con tutti gli onori nella basilica di Santa Croce. Poggio Bracciolini Nasce nel 1380 in Valdarno, entra presto nella scuola di salutati, stringe rapporti con bruni e con Niccoli, ma nel 1403 è a Roma a iniziare una carriera umanistica in curia. A seguito del Papa Giovanni XXIII, partecipa al concilio di Costanza tra il 1414 e il 1418; Nato nel 1392 a Forlì, passato per la scuola di Guarino a Verona e poi per quella di Francesco Barbaro a Venezia, Biondo Flavio si radica nella curia romana nella prima metà degli anni 30, prima come notaio e poi come segretario del Papa Eugenio IV. Nel 1435 scrive un’operetta su un dibattito che vede coinvolti alcuni dei protagonisti di quella stagione sulla questione della lingua parlata nell’antica Roma, un dibattito che si svolge a Firenze nella primavera del 1435: mentre alcuni ritengono che nell’antica Roma si parlasse una lingua distinta dal latino classico delle opere dei grandi autori (Bruni), altri proclamano l’identità della lingua usata dal popolo romano con quella riflessa nella letteratura della stagione aurea (tra questi Biondo). Flavio sostiene l’idea che il latino era sempre stata una lingua unitaria, fatte salve le distinzioni di registri e di livelli sociali, e della stessa opinione erano Bracciolini, Veronese e Alberti. Bruni distingue tra la forma regolata del latino classico e una lingua popolare, naturale, propria dell’uso quotidiano. Conta il segnale di una coscienza storica ormai raffinata sulla necessità di un recupero del volto originario di una classicità lontana e preziosa. Il trattatello sulla lingua latina è il primo esercizio con cui Flavio avvia una poderosa operazione storica su Roma antica, scrivendo e rimaneggiando opere importanti e complesse da ricostruire sul piano filologico: Roma instaurata e Roma triumphans, sul recupero della gloria dell’antica Roma; Decades un affresco che ripercorre la storia italiana dal sacco di Roma del 410, fino alla metà del 1400, articolato in 4 parti. Un’opera della quale contano l’abbondanza delle fonti documentarie controllate e l’ampiezza della prospettiva che torna anche nell’Italia illustrata, dove il disegno storico del racconto si compone con una prospettiva geografica, con una raccolta di testimonianze. Ed è proprio nell’ampiezza dello sguardo e il coraggio della sovrapposizione tra diverse prospettive che le operazioni storiografiche di Flavio (muore a Roma nel 1463) rappresentano passaggi importanti di un umanesimo maturo. Papa Pio II Enea Silvio Piccolomini, nato in provincia di Siena nel 1404, passa la prima parte della sua vita formandosi negli studi umanistici. Compone una piccola raccolta, Cinthia, del nome della donna amata in distici elegiaci. Nel 1442 giunge la consacrazione di un’incoronazione poetica da parte dell’imperatore Federico III, nel 1444 realizza la narrazione di una storia di adulterio resa in un latino vivacissimo, che conosce a staccare fortuna nei decenni successivi e per tutto il Rinascimento. Non mancano le riflessioni sulla condizione amara del letterato di corte che lo porta alla carriera ecclesiastica: nel 1446 prende i voti e nel 1450 viene nominato vescovo di Siena, dello stesso anno è il De liberorum educatione, un testo sull’educazione conveniente a un principe e confermando il modello di studi che vede nella formazione di stampo umanistico la via migliore all’acquisizione della virtù. Nel 1453 scrive il Dialogus, in cui discuto il ruolo e l’autorità del pontefice, nel 1456 viene eletto cardinale e nel 1458 viene eletto Papa con il nome di Pio II. È impegnato in tentativi ripetuti e senza esito di organizzare una crociata per la riconquista di Costantinopoli, gli ultimi anni sono segnati dalla composizione di una singolare opera storica, un racconto che intreccia le vicende e le esperienze attraversate da Piccolomini nel corso della sua esistenza. Lorenzo Valla Nell’esperienza di Lorenzo valla può vedersi una sintesi della fase più ambiziosa dell’umanesimo italiano, può essere colto il valore decisivo della pratica filologica, di uno studio dei testi antichi condotto con piglio scientifico, contro ogni principio di autorità e per questo capace di scardinare credenze secolari. Nasce a Roma nel 1407, la sua formazione è in parte quella di un’autodidatta, entra in contatto con Bracciolini e bruni in quegli anni a Roma. Si sposta poi a Pavia nel 1431, dove ottiene l’insegnamento di retorica ma rimane solo due anni per il sorgere di polemiche sia con la figura dominante della Panormita, sia con i docenti di diritto dello studio locale. A questa prima stagione Pavese appartiene un’opera, il De voluptate, strutturata in forma dialogica e dedicata alla questione del piacere e del bene. Negli anni successivi, a Milano e poi a Firenze, ne modifica l’impianto e gli interlocutori e corregge il titolo fino ad approdare a De vero bono, è il dibattito fra un personaggio portatore della filosofia storica e un epicureo, che viene risolto nel terzo libro da un interlocutore con visione cristiana, La quale di fatto sposa la posizione epicurea, e critica la rigidità di quella stoica, rifiutando ogni distinzione tra dimensione corporea e dimensione spirituale. La stagione a Firenze fa avvicinare valla ad Alfonso d’Aragona e a Napoli si impegna a scrivere una storia della dinastia aragonese, in questi anni avvia le sue opere più importanti come le Elegantie latine lingue e il De falso credita et ementita Costantini donatione, due testi decisivi per la cultura del Quattrocento. Avviate già alla metà degli anni 30, le Elegantie vengono concluse nel periodo napoletano, intorno al 1444; nel testo si coglie la profonda conoscenza che l’autore può vantare dei classici e anzitutto dei protagonisti della civiltà latina come Quintiliano, la cui Istituzione oratoria viene utilizzata come base per una riflessione sulle caratteristiche e l’impianto della retorica antica. È articolata in sei libri: i primi cinque dedicati a un’analisi della grammatica e dell’lessico della lingua latina, il sesto è una raccolta di errori degli antichi. A guidare l’opera è l’elogio altissimo del latino classico, una lingua la cui regolarità e le cui norme valla intende recuperare. Il latino è dunque il perno di una guida ancora viva che l’Italia esercita sul mondo civile, e nelle pagine delle Elegantie si esplicita uno dei cardini dell’umanesimo, ovvero quello di una piena conoscenza della parola come condizione prima per un intervento sulla realtà e un codice universale di governo del mondo. È un principio parallelo guida anche la seconda opera, con cui valla affronta l’esame del documento (Donazione di Costantino) sulla cui base alla chiesa fondava il suo potere temporale. È un documento dell’8 o 9 secolo, che riportava l’atto con cui Costantino avrebbe trasmesso nel 314 a Papa Silvestro I il potere politico su Roma e sull’intero Occidente. Discutere la verità della donazione era dunque una questione molto delicata sul piano politico e religioso, ed è probabile che Valla sia stato incoraggiato alla prova dalla permanenza alla corte di Alfonso d’Aragona (in polemica con Papa Eugenio IV). Valla compie un capolavoro proprio sul piano dell’analisi linguistica, dimostrando come tutta una serie di tracce rendesse insostenibile l’antichità e l’originalità del documento, dimostrando l’enorme forza d’urto di una capacità di ricostruzione storica e di analisi filologica dei testi. L’effetto della sua attività fu lo scatenarsi di una serie di polemiche: nel 1444 Valla viene sottoposto a un processo da parte dell’inquisizione napoletana per la sua intenzione di sottoporre a una verifica filologica i testi chiave del diritto canonico, sui quali si fondava il potere secolare della Chiesa. Lascia la corte di Napoli e va a Roma dove papa Niccolò V lo assume come notaio pontificio. Viene investito dal fragore delle polemiche e viene fatto oggetto di cinque pesanti invettive da parte di Bracciolini: le accuse vanno dalle questioni di disciplina filologica a quelle delle posizioni dottrinarie fino all’accusa di eresia. Valla risponde in maniera controllata raccogliendo gli argomenti in una misura composta e meno aggressiva. Gli ultimi anni sono dedicati a traduzioni di autori classici e un lavoro sopra il testo biblico, raccolto nelle Annotationes in novum testamentum. L’obiettivo di queste Annotationes è quello di recuperare l’originale greco del testo, mettendo spesso in discussione la vulgata Latina, attribuita a San Girolamo. Le discussioni delle singole lezioni mostrano un metodo filologico sempre più raffinato, capace di confrontare diversi manoscritti e di coglierne linee di corruttela ed errore. Il suo misurarsi con la lettera del nuovo testamento conferma il principio di una valenza universale del sapere e filologico e del ruolo centrale che la scienza della parola ha nella sua pratica culturale. Valla muore nel 1457. CAPITOLO 3 – LEON BATTISTA ALBERTI Architetto, linguista, autore di dialoghi comici e fantastici, sperimentatore di nuovi temi poetici e forme metriche, animatore culturale, scrittore e politico, polemista, matematico: Leon battista Alberti incarna l’ideale di uomo universale attribuito all’umanesimo. Risulta uno dei massimi interpreti della cultura umanistica, che si basa sull’incontro di due orizzonti di ricerca: da una parte la filologia call ripristino della voce dei classici greco-latini e dall’altra l’intervento pragmatico sulla realtà, che può spaziare dall’iniziativa poetica in lingua volgare alla costruzione di edifici pubblici. Appartiene a un’importante famiglia fiorentina, nasce nel 1404 a Genova, dove il padre è stato confinato in seguito al mutato clima politico a Firenze conseguente alla repressione dei Ciompi. La sua formazione avviene prima a Padova poi a Bologna, dove prende gli ordini sacri, È diviso tra diversi centri culturali tra cui Firenze dove risiede soprattutto a cavallo tra gli anni Trenta e Quaranta, ma che costituisce il principale punto di riferimento di tutta la sua attività, anche le città padane accolgono alcune delle sue maggiori imprese architettoniche come Rimini e Mantova, infine vi è Roma, dove Alberti torna più volte negli anni, in qualità di ecclesiastico ed intellettuale a servizio dei papi, soprattutto durante il pontificato di Niccolò V. Alberti viaggia moltissimo: nel 1431 e in Francia e Germania a seguito del cardinale Nicolò Albergati, l’anno dopo va a Firenze per ricevere la prioria di San Marino e poi a Roma, dove entra nella cancelleria pontificia. Firenze costituisce il centro della sua riflessione, sia in senso positivo dove in un’opera critica la tradizione umanistica locale, sia nei termini di una più articolata riflessione sulla realtà politico-sociale. Il suo interesse per la cultura fiorentina è evidente nel Certame coronario, col quale rilancia il volgare. L’orgoglio dell’appartenenza fiorentina è visibile nell’impostazione artistica del trattato dedicato alla pittura. Nel De commodis litterarum atque incommodis, dedicato al fratello Carlo, affronta una riflessione sulla figura e la funzione dell’intellettuale. L’autore sostiene che lo studio implica l’isolamento dai clamori della città ed alle preoccupazioni della convivenza civile. Lo studio non da soddisfazioni personali o riconoscimenti pubblici, ma è silenziosa e privata, fatta di diligenza e fatica. Il legame con Firenze e le strutture sociali e culturali dominanti emerge nei Libri della famiglia, un dialogo di quattro libri in volgare. È ambientata nel recente passato, all’epoca in cui gli Alberti sono esiliati a Padova, è la conversazione tra alcuni parenti dell’autore che affrontano i vari aspetti del rapporto tra famiglia e società i temi trattati sono: l’educazione dei figli, il matrimonio, le attività economiche, le relazioni sociali che una famiglia deve saper amministrare per mantenere il suo ruolo politico. La particolare fiorentinità si riconosce nell’utilizzo del volgare, quasi riprendendo il convivio di Dante, dove le questioni scientifiche sono trattate nella lingua di tutti. Alberti punta a una forma espressiva moderna ed elegantemente controllata, sottoposta a un rigoroso trattamento stilistico. Riprendendo Cicerone l’autore presenta un modello di convivenza elegante amichevole che si concretizza in una lingua piacevole e arguta, incline alla battuta scherzosa ma capaci di affrontare qualunque argomento. Il dialogo interpreta la famiglia come continuità generazionale che va dai passati Alberti, presentati come uomini studiosissimi, i cui esempi vanno lette e ammirati ai giovani Alberti, a cui dedica l’opera, proponendo sé stesso come tramite tra le epoche. L’opera ha un lessico ricco di immagini e capace di imprimersi nella memoria del lettore. Il vivo interesse per il volgare spinge l’autore a misurarsi con la scrittura poetica, componendo due egloghe pastorali (Tyrsis e Corymbus) e due elegie, c’è un’imitazione petrarchesca. La ricerca formale è significativa perché l’autore rifonde tutto con la tradizione fiorentina, come si vede nei suoi esperimenti e nel Tyrsis, dove concezione energica del lavoro intellettuale, che si accompagna a una forte esigenza morale e che al contempo appare guidata da una concezione antropologica negativa. CAPITOLO 4 Nei diversi centri culturali, il quadro della letteratura del Quattrocento si presenta in maniera articolata, soprattutto per l’impiego del latino e del volgare che si intrecciano influenzandosi a vicenda. Il latino è la lingua degli umanisti, lo strumento della cultura dotta e delle prove più impegnative. Il volgare si presta a un impiego di carattere pratico, lontano dalle scritture dei colti e in una sfera letteraria marginale, ma nel corso del secolo guadagna terreno nell’uso. A questa tendenza fanno eccezione la Toscana e Firenze, che nel Quattrocento, con l’influenza delle Tre Corone, diventano una roccaforte per la prosa e la poesia in volgare, imponendosi come centri propulsivi per la novellistica, le narrazioni cavalleresche e la poesia lirica e comica. La novellistica quattrocentesca in volgare si muove, da un lato, proseguendo la strada aperta da Boccaccio, con esiti prevalentemente toscani, dall’altro, si diffondono nuove spicciolate, scritte a Firenze e imperniate su burle o arguzie. Tra i vari epigoni di Boccaccio novelliere si possono ricordare alcuni autori che operano principalmente in area toscana: Masucciuccio Salernitano, autore del Novellino, Giovanni Sercambi autore del Novelliere, Giovanni Gherardi da Prato con la sua raccolta intitolata Paradiso degli Alberti, in cui si narrano i ragionamenti di una brigata nella vita chiamata il Paradiso e le Novelle di Gentile Sermini. La sua esperienza narrativa si colloca nell’area di Siena, le sue 40 novelle sono disposte senza un ordine preciso e l’opera, che si compone di versi e novelle, è scritta nella prima metà del Quattrocento, destinata a una cerchia ristretta di fruitori. I racconti risentono dell’esperienza di Boccaccio e Sacchetti ma si possono vedere anche i punti in comune con Bracciolini. La satira anti-ecclesiastica spesso di natura amorosa, è il principale motivo delle novelle, sono ambientate perlopiù nel territorio senese e che hanno un lessico colorito. Nel quattrocento trova spazio l’impiego delle novelle spicciolata e, ovvero novelle singole, ridotte principalmente in area fiorentina, sono beffe e motti e alcune di successo sono: Lisabetta Levaldini e il Grasso legnaiuolo, quest’ultima gode di una notevole fortuna e narra un episodio storico, ossia una celebre burla ordita da un gruppo di buontemponi guidato da Filippo Brunelleschi ai danni di un intagliatore, il quale finisce per credere di essere un’altra persona, dopo aver capito di essere stato raggirato decide di recarsi in Ungheria, dove troverà un risarcimento all’umiliazione subita. Il racconto si in testa su un motivo, quello dello scambio di persona, già presente nell’anfitrione di Plauto. Lo scherzo tirato al Grasso ha un valore corale: è una brigata nella quale la burla costituisce una vera vocazione fisiologica. La capacità di ingannare diventa una occasione per dimostrare l’ingegno di un gruppo sociale. La beffa resterà in voga nel Cinquecento nella letteratura fiorentina, in particolare grazie a Grazzini, detto il Lasca. La narrativa in versi è rappresentata dai cantari, componimenti scritti in ottave, metro per la prima volta impiegato da Boccaccio nel Filostrato. I cantari sono recitati da canterini o cantimbanchi nelle piazze cittadine, espressione di una cultura medio- bassa. Diffusi principalmente fra la metà del 14 e 15 secolo, incontrano un indiscusso gradimento popolare, vari sono gli argomenti affrontati e rielaborati in maniera semplificata: classico, mitologico, religioso, fiabesco, leggendario cavalleresco, che riscuote maggior fortuna e guadagna una nobilitazione grazie ad autori come Luigi Pulci e Matteo Maria Boiardo. Molti dei cantari sono giunti anonimi, tuttavia una delle poche eccezioni è Antonio Pucci, autore di formazione volgare al quale si devono testi di argomento storico, novellistica-leggendario e cavalleresco. La letteratura cavalleresca del Quattrocento ha in Toscana il principale centro di attrazione, i cicli medievali si diffondono grazie ai romanzi in prosa, il cui maggiore esponente è Andrea da Barberino, cantastorie che attinge alla tradizione toscana e franco-veneta, rimaneggiandola per confezionare testi in prosa di ampia estensione, ulteriore trattamento della materia delle chanson de geste. Destinati alla fruizione del pubblico borghese dei mercanti, i suoi romanzi incontrano notevole successo, come dimostra anche il numero cospicuo di manoscritti che li tramanda. La stampa favorisce un’ampia circolazione dei suoi testi ripubblicati fino ai primi del Novecento. Tra le opere più celebri di Barberino sono il Guerrin Meschino, racconto delle avventurose peripezie di Meschino, alla ricerca delle proprie origini e I Reali di Francia, il romanzo più noto e fortunato, tratta delle vicende della casa di Francia dal suo fondatore, Fiovo, fino a Carlo Magno. Tra le forme della produzione in prosa un posto minore è occupato dalle scritture private, nelle quali si includono i diari, le memorie e le lettere; testi sono prevalentemente di area fiorentina. Fin dal Trecento tra i mercanti è in uso tenere libri di natura pratica come la Pratica della mercatura di Pegolotti. I libri dei mercanti sono un deposito di ricordi, osservazioni, precetti, come il Libro di buoni costumi di Paolo di messer Pace da Certaldo, una serie di raccomandazioni ispirate all’ideologia mercantesca. La tradizione prosegue nel Quattrocento con il Libro segreto del mercante e storico Goro dati, dove sono conservate in memoria della famiglia e notizie sull’attività mercantile. I Ricordi di Giovanni di Pagolo Morelli, membro di una storica famiglia di mercanti fiorentini alto-borghesi impegnato nell’amministrazione cittadina, sono scritti tra il 1393 e il 1411 e suddivisi in quattro parti: frutto dell’esperienza dell’autore vengono concepiti per un uso interno, come precetti di natura sociale e politica per la famiglia. Oltre alle notizie storiche di Firenze o eventi di natura domestica, ci sono i reali peculiari della classe sociale di appartenenza dell’autore, che si nutrono di un forte senso civico e religioso e di un’etica a tutela dell’interesse economico della famiglia. I consigli e i suggerimenti di Morelli invitano, nel comportamento quotidiano, alla prudenza e alla difesa di ideali tipicamente borghese. La letteratura religiosa rispecchia un duplice atteggiamento: da un lato le figure dedite a forme di ascetismo, dall’altro un forte impegno sociale espresso con la predicazione, mezzo con il quale raggiungere le folle delle piazze. In ambito toscano la produzione e religiosa risente dell’esperienza di Caterina da Siena (ascetismo), in questa stessa linea si sviluppa il fiorentino Giovanni Dominici, domenicano attivo anche a Venezia. Nella sua predicazione e nelle sue opere in latino e volgare, si fa strada un rigoroso evangelismo con accenti mistici. Tra le opere più significative cioè La regola del governo di cura familiare, nella quale tratta vari aspetti come la cura del corpo e dell’anima, e il Libro d’amor di carità, che ha un maggior slancio mistico. Caterina Vigri da Bologna, appartenente all’ordine delle Clarisse, lascia una produzione in volgare in latino, pregevole anche sotto il profilo letterario: le Sette anime spirituali è un trattato mistico composto nel 1438 e destinato alle novizie. Uno degli autori più significativi è Bernardino da Siena, frate dell’ordine francescano. Autore di scritti in latino che affrontano questioni di natura teologica, è celebre per le sue prediche in volgare trascritte da assistenti o ascoltatori: l’impianto retorico in linea con le regole tradizionali è in grado di coniugarsi con un aspetto narrativo coinvolgente, il linguaggio è efficace e comprensibile anche dagli strati più bassi. Le prediche di Bernardino, animate da dialoghi con gli ascoltatori, si collocano nell’orizzonte letterario toscano, soprattutto per l’impiego di novelle al fine di dare maggiore incisività e forza alla persuasione morale. Proprio a seguito di una delle predicazioni romane di Bernardino viene condannata la strega Finicella, bruciata nel 1424: si trattava probabilmente di una guaritrice che doveva praticare anche aborti. Con l’omiletica convivono altre forme di produzione letteraria religiosa che giungono a un’ampia diffusione, come le sante rappresentazioni, ovvero spettacoli teatrali sviluppatisi a Firenze di cui gli autori principali sono Feo Belcari e Castellano Castellani. Grazie all’iniziativa di Leon battista Alberti, il 22 ottobre 1441 si tiene a Firenze il Certame coronario, gara di poesia in volgare ideata per rilanciare il volgare come lingua della cultura e dimostrarne la pali dignità rispetto al latino. L’argomento è la vera amicizia ma non viene selezionato un vincitore perché i testi presentati non sono ritenuti all’altezza. L’evento non ottiene l’effetto desiderato e il recupero della dignità del volgare deve attendere qualche decennio: la circostanza è sintomo di un bisogno concreto, espresso da un autore di spicco non supportato da un gruppo di intellettuali e dal potere istituzionale. Un cambio di rotta avverrà con Lorenzo il magnifico, che promuoverà il volgare come strumento di affermazione politica, grazie a letterati come Cristoforo Landino e Angelo Poliziano. Il versante lirico il primo Quattrocento risente di alcune esperienze trecentesche. Il petrarchismo si presenta ancora come un modello fra i tanti, tra i primi a inaugurare questo percorso c’è Giusto dei Conti, letterato itinerante fra vari poli culturali della penisola e tra i principali rappresentanti della lirica di corte. La bella mano è un canzoniere ideato guardando al modello di Petrarca che si ispira al primo gruppo di sonetti che diventa il leitmotiv del libro di versi; completato nel 1440 conta 150 componimenti, La lingua è curata e la scelta di un unico amore cantato per Isabetta (Bentivoglio) fanno dell’opera un modello per la lirica successiva. All’interno della realtà fiorentina la poesia in volgare conosce un tentativo di celebrazione ufficiale grazie ad Alberti. La produzione comico realistica, legata a una dimensione popolareggiante, è segnata da una continuità con l’esperienza del Trecento. Ad Andrea di Cionte, detto Orcagna, il celebre pittore, si deve l’invenzione della poesia nonsensica in forma di sonetto, meglio conosciuta come burchiellesca, aggettivo derivato da Domenico di Giovanni, detto il Burchiello, poeta e barbiere fiorentino che perfeziona in genere. Burchiello si colloca in una tradizione locale che aveva fatto del moto, dell’arguzia e della passione linguaiola alcuni dei suoi vessilli. I sonetti alla burchia (alla rinfusa), con i 14 endicasillabi accompagnati da una coda, mettono in scena situazioni caotiche, paradossali, parodiche e irreali, facendo leva sulle potenzialità della lingua e su un uso di termini rari, oscuri, di ascendenza popolare e metafore di non facile interpretazione. L’effetto che ne scaturisce è un disorientamento che il lettore subisce sebbene un’analisi attenta mostri come nell’ordito dei versi operi una ratio fatta di associazioni concettuali e lessicali. Questo genere di componimenti si prefigge di ridicolizzare una versificazione allora in voga, quella dei pedanti e dei dotti portatori di una cultura acquisita esclusivamente sui libri, ricca di forma e vuota di contenuti. Tra le rime del Burchiello figurano anche numerosi componimenti di taglio diverso dei toni comico realistici più consueti, in linea con la tradizione toscana. Il Burchiello sarà oggetto di imitazione nel corso di tutto il Quattrocento, non soltanto in Toscana, al punto che sarà difficile separare le rime scritte dal barbiere con quelle dei suoi numerosi epigoni: tra i più validi continuatori c’è Luigi Pulci. La poesia burchiellesca, pur privata della carica innovativa e della freschezza iniziali, conoscerà imitatori nei secoli successivi almeno fino alla seconda metà dell’Ottocento. EPOCA 4: la cultura delle corti – INTRODUZIONE La stampa a caratteri mobili è una delle innovazioni tecnologiche più grandi del mondo occidentale. La sua invenzione andrebbe attribuita a un artigiano cinese, che applicò questa tecnica intorno al 1040, ma senza alcun successo. John Gutenberg fu il responsabile dei due principali accorgimenti che rivoluzionarono profondamente il mondo del libro e della comunicazione. Il primo accorgimento è la creazione di caratteri tipografici, piccoli parallelepipedi di legno con alla sommità la forma della lettera desiderata in piombo. L’importanza di questo sistema consiste nell’enorme libertà che consente nella lavorazione del libro: il tipografo può considerare ogni singola pagina in maniera autonoma e ciascun carattere può dunque essere utilizzato più volte finché non si consuma. Il secondo accorgimento sono delle modifiche alla formula chimica dell’inchiostro, riesci a trovare una miscela di olio vegetale e sostanze minerali cotte insieme che si applica sui supporti metallici dando loro una giusta brillantezza di nero. Si può vedere un rapporto tra il mondo degli artigiani e il mondo dei chimici, a quel tempo indistinguibili dai maghi e dagli alchimisti. Il più immediato vantaggio del nuovo sistema consiste nella possibilità di ricavare centinaia o migliaia di esemplari uguali da una singola matrice. Il primo libro tipografico nasce nel 1454 ed è la grande Bibbia a 42 linee realizzata da Gutenberg insieme al socio Fust, che in meno di cinquant’anni in onda l’Europa con 15 o 20 milioni di volumi. Dopo il successo della Bibbia del 1454 e il Salterio del 1457, la storia dei libri stampati entro l’anno 1500 passa regolarmente in Italia, dove nel 1464 due giovani chierici tedeschi esportano la novità tecnologica. La loro prima sede di attività è presso l’abazia di Santa scolastica a su biacco per tre principali motivi: la presenza di manoscritti pregiati sulla cui base allestire i volumi; l’ambiente colto, che consente di reperire personale capace di confezionare un libro; la riservatezza del luogo. I primi tre prodotti sono un Donato, Cioè una grammatica latina di livello scolastico; un De oratore, opera di Cicerone, la base dell’istruzione retorica e il De civitate dei mi Sant’Agostino. Tra il 1464 e il 1467 vengono sperimentati anche formati diversi e vengono affrontati i tre diversi domini della grammatica, della retorica e della teologia. Nel 1467 i due chierici si trasferiscono a Roma e qui si verifica un notevole accrescimento delle ambizioni editoriali, Roma aveva un contesto del tutto differente e non stupisce che si stampino in prevalenza classici antichi, in formato grande e spesso su pergamena. È importante anche l’innovazione grafica con l’abbandono dei caratteri gotici in favore di un’imitazione dell’antiqua, la scrittura tipica umanistica. Già nel 1472 a pagina Venezia le stampe di un romanzo cavalleresco e del filologo di Boccaccio. Il fatto mostra la velocità con cui l’invenzione viene applicata: dei testi sacri, al mondo dell’educazione, alla linguistica, ai grandi antichi, ai più modesti prodotti in volgare. Importante è anche l’ampiezza della diffusione geografica, arriva a Venezia, a Roma, a Firenze e nel 1471 anche a Napoli, dove vengono stampati i soliti Aristotele e Agostino. Ricca è inoltre la produzione tipografica di Milano con testi religiosi e laici ma anche grandi classici. Il sistema degli scambi culturali si arricchisce così di un potente acceleratore, che rende ancora più fitti i rapporti tra centri e periferie del mondo letterario italiano, stringendo assieme tutte le corti d’Italia. L’officina tipografica è un luogo dove vigono i procedimenti dell’industria, che non riguardano solo la composizione materiale del libro ma anche la sua distribuzione e la realizzazione da parte degli autori. Nel Quattrocento si era infatti sistematizzata la tripartizione individuata da armando Petrucci: 1. Il libro da banco, in pergamena e in formato grande, scritto con grafia gotica su due colonne e con ampi margini; 2. Il libro umanistico, di formato e materiale vario, scritto sull’unica colonna con margini ristretti e in grafia antiqua; 3. Il libro da bisaccia, formato piccolo, di carta, d’aspetto trascurato, senza margini e composto su due colonne. Queste diverse configurazioni corrispondono ad altrettante tipologie di genere: il primo formato veicola i testi dotti destinati al pubblico universitario, il secondo testi classici e quelli umanistici, il terzo soddisfa i bisogni pratici e ludici del pubblico popolare. Il sistema del libro a stampa si organizza su quello dei manoscritti sicché i volumi classici antichi o opere moderne degli umanisti si presentano in formato medio, col testo a piena pagina e i margini ben calibrati. Il libro popolare si afferma sul mercato presentandosi come volumetto maneggevole, illustrato in modo suggestivo ma semplice e scritto in caratteri grandi. La compresenza di forma manoscritta e veicolo tipo grafico è determinante anche per la storia del libro in volgare, il cui trend di crescita quantitativa non a esitazioni, si distribuisce in maniera equa tra prodotti religiosi e laici. In questo settore si riscontra un esempio straordinario di compresenza tra forme del manoscritto e nuova organizzazione tipografica. Nel luglio 1501 Aldo Manuzio pubblica Le cose volgari di messer Francesco Petrarcha, un libro in formato piccolo scritto su una sola colonna. Questa impostazione, esemplata sul Virgilio, si deve all’impulso di un giovane filologo veneziano: Pietro Bembo. Il classico latino per eccellenza e quello che sarebbe diventato il massimo modello letterario godono del medesimo trattamento, la cui origine è nella scrittura dei codici in scrittura italica, più raffinata ed artificiosa forma che il libro dotto avessi mai assunto in Italia. Se le opere volgari si affermano nel sistema letterario grazie alla tipografia accade sia per motivi quantitativi (molte copie circolanti), sia per ragioni qualitative (la bellezza e la comodità dei prodotti). Sebbene il mondo della stampa abbia parassitario le forme del manoscritto, la frattura tra le due epoche va sottolineata più della continuità. Il drastico cambiamento parte dall’impatto visivo del nuovo libro, la novità infastidisce i lettori abituati al vecchio modello librario. L’irritazione nasce di fronte al massiccio uso di apostrofi e segni diacritici, cioè l’insieme di convenzioni grafiche che segnalano gli accenti, le visioni, la caduta di lettere e sillabe. Un procedimento industriale necessita di procedure standardizzate, che devono essere applicate con costanza, indipendentemente dal tipo di opera sulla quale si sta lavorando. Il lavoro in tipografia spinge a una certa normalizzazione dei criteri I grafici e delle forme testuali, con effetti importanti anche sul tessuto linguistico, che assume una fisionomia uniforme nei vari centri di produzione, indipendentemente dagli usi locali. Una delle conseguenze e la nascita di nuove figure professionali che seguono il libro durante la sua realizzazione prestando attenzione soprattutto alla sua uniformità, al rispetto delle leggi ortografiche e linguistiche. In tipografia le opere vengono sottoposte a un processo di revisione che va dall’intervento sulla morfologia delle parole alla loro resa grafica e al sistema di interpunzione. L’effetto complessivo è quello di una progressiva semplificazione, che favorisce la stabilità delle forme linguistiche. Standardizzazione, uniformità, ordine sono i principi a cui si attengono i tipografi e si sforzano a soddisfare i principi della linearità della omogeneità, le due formule della scienza e dell’arte del Rinascimento. Se la stampa è un fattore di mutamento culturale e se a essa si deve la nascita dell’età moderna, ciò accade dunque per l’impianto ottico del nuovo supporto librario, basato su spazzatura, linearità e omogeneità. Questi caratteri sono potenziati dalla riproducibilità in serie: Il numero di copie uguali contribuisce ad assicurare la centralità dell’aspetto visivo. CAPITOLO 2 Lorenzo de’ Medici Lorenzo de’ medici, personaggio chiave della politica italiana del Quattrocento, è l’abile regista della vita intellettuale Fiorentina, capace di fare del rinnovamento culturale un elemento fondamentale dell’arte di governare. È un anche un grande letterato raffinato, destreggiandosi in una grande varietà di stili e generi. Il fine letterato e l’accordo politico, la mente capace di elevarsi al di sopra della realtà e il pugno fermo in grado di imporsi sulla realtà convivevano in un unico uomo. Nasce il 1° gennaio 1449 a Firenze da Pietro di Cosimo il vecchio e Lucrezia Tornabuoni, riceve un’educazione umanistica da Gentile Becchi, ma alle lettere classiche preferisce la letteratura volgare e si dedica allo studio della tradizione toscana. Da adolescente scrive all’operetta mitologico in terzine Corinto, sull’amore non corrisposto del pastore Corinto per la ninfa Galatea, e comincia a comporre liriche di ispirazione petrarchesca. Ricopre fin da giovanissimo, incarichi di rilievo nella vita politica cittadina e nel 1469, alla morte del padre, diviene il signore di Firenze. Gli anni dopo il 1469 sono anni di consolidamento del suo ruolo politico e di affinamento della sua vena letteraria. Prende come esempio Luigi Pulci, come dimostrano il Simposio, Uccellagione di starne e la Nencia da Barberino, composti tra la fine degli anni 60 e la prima metà degli anni 70.Nel simposio vengono presentati i maggiori bevitori fiorentini, è una dissacrante riscrittura burlesca del simposio platonico. La stessa vis comico-realistica è presente anche nella seconda opera, poemetto che racconta di una battuta di caccia di un gruppo di amici di Lorenzo, nello stile delle cacce trecentesce, caratterizzate da giochi onomatopeici e discorsi diretti; l’ultima opera è una parodia in ottave dell’egloga rusticale. Pervenutaci in quattro differenti relazioni, combina in modo felice un lessico popolare con una costruzione sintattica più elevata nel canto del contadino per la bellezza di Nencia. Anche in questi testi, così sperimentali sul piano dello stile, cioè una viva testimonianza della convenzione di Lorenzo che la lingua toscana sia capace di un’espressività tale da uguagliare il latino. Un’idea che costituisce la base del progetto della raccolta aragonese, insieme di componimenti poetici in lingua toscana a partire dal Duecento, composta nel 1476 per Federico d’Aragona, figlio minore del re di Napoli. Il Simposio e il De summo bono sono testi profondamente differenti, tra quali Lorenzo intreccia una fitta serie di richiami. Il simposio è antiplatonico nei suoi continui rimandi all’aspetto carnale e corporale dell’esistenza umana, è una parodia dei Trionfi in terzine, in cui si sfilano personaggi virtuosi, degni di essere ricordati. Lorenzo fa sua la vena Parodi Ca’ di un’opera arricchendola però tra le righe di una serie di elementi dotti sino a giungere alla blasfemia. Il De summo bono, opera filosofica di ambientazione pastorale composta nel 1474, è una parafrasi in volgare dell’epistola De felicitate e dell’Oratio ad Deum theologica di Marsilio Ficino. L’opera è una palinodia del Simposio, un passo indietro che fornisce la prova dell’interesse di Lorenzo per quella stessa filosofia di Ficino, che in precedenza aveva con violenza ridicolizzato. Introdotta da un’invocazione a Minerva e ad Apollo, l’argomentazione per giungere alla definizione del sommo bene segue il metodo dialettico platonico che attraverso divisioni dicotomiche, giunge all’universale. Tenta di mostrare quale sia l’iter che conduce all’unità divina, in un tessuto verbale di allegorie. In queste opere gli stessi temi vengono declinati in direzioni opposte, mostrano al massimo grado la capacità di Lorenzo di impostare la sua scrittura e la sua poesia al servizio di posizioni e di ideologie molto lontane. La posizione e l’incolumità di Lorenzo vengono messe in pericolo dalle mire espansionistiche di Girolamo Riardo, signore di Imola e di Forlì e nipote di Papa Sisto IV. La famiglia dei Pazzi sfrutta l’occasione per accordarsi con l’arcivescovo di Pisa, Salviati, per ordinare una congiura che sfocia nel 1478, con l’uccisione di Giuliano. Sisto IV, che può contare sull’alleanza con Ferdinando di Napoli, getta Firenze in una