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Riassunto libro "Corporate image - Pasca, Russo", Sintesi del corso di Comunicazione Grafica

Storia dell'immagine coordinata

Tipologia: Sintesi del corso

2021/2022

In vendita dal 06/09/2022

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gabriele-aliotta 🇮🇹

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Scarica Riassunto libro "Corporate image - Pasca, Russo" e più Sintesi del corso in PDF di Comunicazione Grafica solo su Docsity! Corporate Image V. Pasca, D. Russo Premessa Oggi l’esigenza di progettare una corporate image è in forte crescita e si estende ad aziende di tutte le tipologie. Precisano F. H. K. Henrion e A. Parkin, in Design coordination and corporate image (1967), considerato punto di riferimento per ogni trattazione sul tema: “Una corporate image è la totalità delle immagini, delle idee, delle valutazioni su un’azienda, che si formano nella mente di coloro che entrano in contatto con essa”. Secondo Bernhard E. Burdek: per corporate image, si intende “l’immagine che il pubblico ha di un’impresa, di un’organizzazione o di un municipio”; per corporate identity, “unità di contenuti, dichiarazioni e comportamenti di un’azienda o di un’organizzazione”. Più semplicemente la corporate image può essere descritta come “la reputazione di cui gode un’impresa presso il pubblico”. “L’identità di un’impresa è costituita dalla sua globalità e unicità, che la caratterizzano in modo permanente e la distinguono dalle altre concorrenti”, scrive Daniele Baroni; e aggiunge: “L’identità è il suo essere, nonostante il continuo divenire del mercato”. Si pone quindi, per la corporate image, il tema del rapporto tra il suo nucleo fondativo e la sua capacità di adeguarsi alle trasformazioni in atto. Va aggiunto che, per comunicare, occorre definire il pubblico al quale ci s’intende rivolgere, e quindi i points of Contact, gli strumenti e i canali con cui entrare in contatto con esso. 1. L’AEG di Behrens e la “riorganizzazione del visibile” Il tema della corporate image e della sua progettazione attraversa tutto il Novecento. Se ne trovano le basi nell’attività progettuale sviluppata dal 1907 al 1914 per l’azienda tedesca di elettricità AEG da Peter Behrens, grande architetto che viene chiamato dal direttore dell’azienda, Paul Jordan, come direttore artistico. L’azienda è stata fondata da Emil Rathenau nel 1883, sulla base dell’acquisto dei diritti per l’Europa dei brevetti dello scienziato americano Thomas Edison, che ha fondato la Edison Electric Light Company alla fine degli anni ’70 per produrre la sua lampadina ad incandescenza; ha preso il nome di AEG dal 1898. Behrens è membro di un’associazione di architetti, artisti, imprenditori, artigiani, studiosi, giornalisti, fondata nel 1907 con l’obiettivo di agire per il miglioramento della qualità dei prodotti tedeschi e quindi la loro capacità di penetrazione nei mercati globali. Bisogna tener presente che negli ultimi decenni dell’800 si è entrati nella “seconda fase della rivoluzione industriale”: uno dei suoi caratteri distintivi è l’utilizzo di nuove fonti di energia, come petrolio ed elettricità. Il secondo aspetto da tener presente è che l’AEG ha sviluppato da anni la sua produzione e agisce su una rete completa, che va dalla produzione di energia al suo utilizzo per l’illuminazione urbana e domestica, fino ad utensili domestici e non, azionati dall’elettricità. Di fronte ad una situazione di forte competitività, e con un range di prodotti così variegato, Behrens comprende la necessità di una chiara rappresentazione e di un’efficace comunicazione dell’identità dell’azienda, ed agisce sull’immagine complessiva riformulandola integralmente, con un obiettivo che lui stesso definisce “riorganizzazione del visibile”. Progressivamente Behrens riorganizza l’image AEG con una serie di operazioni ad ampio raggio, a partire dal redesign delle copertine delle due riviste aziendali e da alcuni annunci pubblicitari (1907). Progetta anche padiglioni per le esposizioni, case per gli operai, edifici industriali. Progetta tra l’altro la fabbrica di turbine (Berlino, 1908), concepita per celebrare il ruolo centrale dell’industria nella sua modernità. Progetta anche negozi per le varie filiali in molti paesi. Nello stesso tempo Behrens disegna anche lampade ad arco, ventilatori, teiere, orologi elettrici, ecc. Intende proporre un’immagine di “modernità industriale” e quindi abbandona i decorativismi, ritenendo possibile l’impiego di ornamenti solo se intesi come elementi “geometrici” e “impersonali”. Sul piano grafico- pubblicitario, Behrens definisce una serie di elementi che ricorrono nell’intera produzione AEG. In primo luogo, disegna il Behrens-Antiqua (1908), un carattere tipografico che si ispira alla monumentalità delle iscrizioni romane, concepito come esclusivo dell’azienda: un carattere classicheggiante, adoperato nei cataloghi, nei manifesti e in tutta la cancelleria. In secondo luogo, disegna il marchio (sempre nel 1908), costituito da un esagono contenente 3 esagoni più piccoli nei quali sono inscritte le lettere del monogramma AEG; al marchio precedente, si sostituisce 1 un’impostazione geometrica che vuole suggerire un’idea di moderna produzione industriale. Mette a punto un sistema di impaginazione per i cataloghi: la pagina è organizzata simmetricamente, è incorniciata e lo spazio interno è suddiviso in figure geometriche semplici. I prodotti vengono presentati sulla base di due costanti: la copertina ha al centro l’immagine di un prodotto, e i prodotti sono visti secondo un’inquadratura frontale, con mancanza di ombre e quindi di profondità, con grande semplificazione formale; a volte si tratta di fotografie, altre sono disegni o silhouette. Si rileva poi un elemento che è meno sistematico, ma presente: in molti prodotti dell’azienda predomina il colore verde, con bordi e profili dorati. Il tentativo è di definire una particolare gamma cromatica, basata sul verde e sull’oro, perché si affermi un’immediata riconoscibilità dei prodotti dell’azienda tra il pubblico. In breve, la “riorganizzazione del visibile” di Behrens introduce la concezione di corporate image di un’azienda, anzi il coordinamento visuale dell’AEG è generalmente riconosciuto come il primo programma di corporate identity. 2. L’Europa e il rapporto con la modernità 2.1 London Transport: la grafica come metafora della tecnica Tra gli anni 20 e gli anni 30, si sviluppa in Europa un caso di corporate image molto interessante, quello della London Transport, l’organizzazione che amministra i trasporti pubblici londinesi. La metropolitana londinese venne fondata nel 1863 col nome di Metropolitan Railway e si sviluppa attraverso la costruzione di tratti di linea, la cui proprietà è di compagnie diverse. Col XX secolo, le compagnie decidono di darsi un simbolo unico per evitare la confusione generata nei viaggiatori dalle differenti segnalazioni. Frank Pick, all’epoca direttore di un dipartimento di design, venne incaricato del problema. Promuove una serie di sperimentazioni, tra le quali viene scelto, intorno al 1907, un simbolo costituito da due semicerchi pieni, con al centro un rettangolo che contiene il nome della stazione: è forte e riconoscibile, ha un immediato successo e diviene presto noto come bar and Circle (barra e cerchio). C’è poi una seconda iniziativa fondamentale: nel 1916 l’organizzazione londinese prende la decisione di commissionare una nuova serie di caratteri tipografici per i propri progetti grafici o artefatti comunicativi. Viene scelto, come carattere esclusivo della London Transport, il Johnston Sans, disegnato da Edward Johnston. Egli elabora un alfabeto senza grazie le cui lettere hanno ferme essenziali, mantengono le proporzioni (classiche) delle maiuscole e sono caratterizzate da tratti con spessore costante. È un carattere così preciso da rimanere invariato ancora oggi, anche nella sua versione digitale (New Johnston). Dapprima si applica un nuovo marchio ma questo non piacque al pubblico; si torna quindi al precedente, rivisto da Johnston, ancora oggi quasi invariato. Si tratta di un cerchio rosso attraversato orizzontalmente da una barra blu, sulla quale spicca in bianco la scritta Underground o il nome della stazione. Un altro artefatto contribuisce con grande efficacia all’identità della metropolitana londinese: la mappa. Progettata da Henry Beck nel 1933 e tuttora utilizzata, rientra nel novero di capolavori del visual design moderno. La novità consiste nel sostituire le complicate rappresentazioni topografiche, con un’interpretazione molto più semplice e incisiva. I percorsi sono semplificati in rette orizzontali, verticali e oblique a 45°. I colori, che servono ad identificare e distinguere le linee, sono fortemente riconoscibili. Fondamento indiscusso del design informativo, è diventata un modello per le mappe dei trasporti pubblici, e ha ispirato designer di tutto il mondo (si veda il progetto di Massimo Vignelli per il New York City’s Subway System, negli anni 70). In questo spirito, Pick coordina la comunicazione della London Transport anche attraverso una strategia d’informazione e di pubblicità. Così, a partire dal 1915, commissiona una serie di manifesti a grafici famosi come l’ucraino-francese A. M. Cassandre, Graham Sutherland o Man Ray. L’intenzione era quella di abbellire le stazioni e di incoraggiare a prendere i mezzi pubblici, e anche quella di persuadere gli inserzionisti che i manifesti sono un ottimo medium per la pubblicità. 2.2 Olivetti: la modernità come valore etico-estetico Un’esperienza, tra le più significative che si siano sviluppate in Italia, è certamente quella dell’Olivetti. Adriano Olivetti, figlio del fondatore Camillo, è un industriale attento allo sviluppo tecnologico, alla qualità innovativa dei prodotti e ai mercati internazionali. Nel 1925 si reca negli Stati Uniti dove, tra l’altro, visita gli stabilimenti della Ford e della Lincoln. Ritorna dopo qualche anno, avendo compiuto un’esperienza decisiva dalla quale riporta idee innovative, tecniche e organizzative. Diventato direttore generale nel 1932, inizia a sviluppare la sua idea di azienda: non solo un luogo di produzione moderna e avanzata, ma portatrice di valori secondo i quali l’estetica della modernità corrisponde ad un’etica fondata su un’idea di progresso civile. Anche grafica e 2 La Container Corporation of America che produce packaging e scatole di cartone, è probabilmente la prima azienda americana che mette in atto un vero programma di corporate image. Già negli anni ’30 Walter Paepcke, il fondatore, è deciso a differenziare la propria azienda da quella dei concorrenti. Nel 1936 avvia una lunga collaborazione sia con un’agenzia di pubblicità, N. W. Ayer & Co., sia con un progettista, Egbert Jacobson, che diventa direttore del Dipartimento di design. Jacobson disegna il marchio, semplice e fortemente geometrico, che viene applicato su tutti i prodotti aziendali; s’impiega esclusivamente un carattere tipografico lineare e geometrico; si definisce un preciso sistema cromatico (dove prevalgono bianco, nero e marrone scuro). Nei decenni successivi, la CCA sviluppa la sua immagine aziendale: non solo gli elementi essenziali, il marchio e il carattere tipografico, ma tutta una gamma di componenti visuali: fabbriche, uffici, articoli di cancelleria, pubblicità, ecc. Nel 1956 Bayer diventa presidente del Dipartimento di design, e nel 1957 avviene la revisione del marchio operata da Ralph Eckerstrom: le iniziali dell’azienda sono “impacchettate” in un rettangolo racchiuso in una figura geometrica che rappresenta una scatola. Nel 1964 John Massey, già membro dello staff, diventa art director della CCA. Sotto la sua direzione, il design integrato si sviluppa ancor più sistematicamente; e si ricorre sul piano grafico al International Typographic Style, tendenza geometrizzante di derivazione germanico-elvetica che si va diffondendo in quegli anni negli USA. In particolare, Massey adotta l’Helvetica come carattere aziendale, e si serve di griglie standardizzate per la grafica editoriale. Di grande importanza è poi la campagna pubblicitaria “Le grandi idee dell’uomo occidentale”, fondata su una selezione degli autori più significativi della cultura occidentale: da Aristotele ad Einstein. Queste vengono illustrate da designer e artisti come Bayer, Moholy-Nagy, Gyorgy Kepes, Herbert Matter, Fernand Léger, Cassandre, Jean Carlu, Man Ray, tutti esponenti della cultura visiva della modernità. Per quanto riguarda l’immagine IBM, Thomas Watson Jr, figlio del fondatore, vuole presentare non più il singolo prodotto, quanto l’IBM nella sua totalità, cioè l’alto livello, la serietà, la potenza del complesso. Nell’ambito di un piano di coordinamento generale condotto da Eliot Noyes come Corporate Design Director, Charles Eames coordina il product design e Paul Rand il graphic design: si tratta dei tre maggiori progettisti dell’epoca. Per prima cosa Rand lavora sul marchio. Invece di progettarne uno nuovo, decide di “ripulire” il vecchio e trasforma i due fori della lettera “B” in due quadratini neri. Partendo dalle lettere del marchio, Rand progetta poi tutto un alfabeto, raccolto, insieme alle indicazioni relative al marchio, in una piccola Design Guide ad uso dei designer dell’azienda. Soltanto nel 1962 mette a punto il famoso marchio a strisce. Rand applica al packaging e alle copertine dei cataloghi una serie di scritte che riportano i nomi dei prodotti utilizzando la scrittura manuale; e introduce una gamma controllata di colori, attenuando il tono istituzionale. Nel 1981 Rand progetta un formidabile manifesto, caratterizzato dal rebus del marchio: l’occhio (eye in inglese si pronuncia come la “I”), l’ape (bee in inglese si pronuncia come la “B”) e la “M” (con le strisce che identificano l’azienda).Più tardi il rebus di Rand s’imporrà come saggio d’inventiva che intensifica la riconoscibilità dell’impresa. Nel corso degli anni ’80 Rand progetta uno showroom come modello per i negozi IBM. Il progetto include la configurazione di un ambiente completo: mobili, illuminazione, pavimenti, muri interni, scaffali, borse da shopping, ecc. E non bisogna dimenticare che, per vari edifici ed esposizioni in tutto il mondo, Rand chiama a progettare due protagonisti del movimento moderno, Marcel Breuer ed Eero Saarinen. 4. Dal polo hard al recupero della storia 4.1 La scuola di Ulm e l’esperienza Braun La pratica progettuale relativa alla corporate image conosce, soprattutto in America, sviluppi significativi tra gli anni ’50 e ’60. Nel 1956 Max Bill, rettore della Scuola di Ulm, si dimette in seguito a contrasti con altri docenti: Tomàs Maldonado, Hans Gugelot e Otl Aicher. L’approccio ulmiano tenderà ad affermare un atteggiamento critico rispetto alla trasformazione che i paesi industrializzati vanno conoscendo, riassunti come consumismo. L’esperienza della Scuola di Ulm, costretta a chiudere nel 1968, è molto complessa, ma può essere analizzata rispetto ad alcune vicende ad essa collegate. La prima riguarda la Braun, azienda tedesca di elettrodomestici. Questa avvia nel 1955 una collaborazione con la Scuola di Ulm, e in particolare con i docenti Gugelot e Aicher. Nello stesso anno, assume Dieter Rams, che diventerà (1962) responsabile del Braun Product Design Department. Il marchio Braun, disegnato nel 1928, viene modificato da Wolfgang Schmittel e assume la sua forma definitiva: dai caratteri regolarmente allineati, emerge 5 con uno scatto in altezza la “A”; i caratteri del marchio e quelli della comunicazione aziendale sono Helvetica. In definitiva, con la Braun, si afferma l’idea che la corporate image non può essere concepita separatamente dai prodotti: marchio, prodotti, comunicazione visiva sono coordinati in modo sistematico e unitario. 4.2 Compagnie aeree e Olimpiadi Nel 1962 Otl Aicher, con il suo team di progettazione, elabora per la Lufthansa un programma di design coordinato basato su una metodologia sistematica. Con il progetto del team di Aicher, la Lufthansa ottiene una chiara visibilità attraverso l’assunzione di pochi elementi semplici e sistematicamente ripetuti. Secondo Aicher, soltanto assumendo una serie precisa di standard è possibile progettare un’image univoca e quindi efficace; a questo fine, è opportuno raccoglierli in un manuale che ne descriveva ogni possibile applicazione. Il manuale della Lufthansa si fonda su 3 elementi: il marchio (una gru in volo, stilizzata e inscritta in un cerchio); il carattere tipografico (Helvetica, quindi lineare); il sistema cromatico (dove spiccano giallo e blu). In secondo luogo, insieme a tutti i possibili accostamenti degli elementi basilari, il manuale definisce il panorama visuale della Lufthansa: dall’interior design degli aerei allo stile fotografico-pubblicitario, dalle uniformi del personale al packaging, fino ai dettagli più minuziosi, come le bustine dello zucchero. Nel caso delle Olimpiadi, alla necessità di unificare l’image, si aggiunge l’urgenza d’informare e indirizzare grandi masse, con i connessi problemi linguistici. Chi coordina ogni aspetto dei Giochi Olimpici di Monaco (1972) è ancora Aicher e il suo team. Come nel caso della Lufthansa, il manuale delle Olimpiadi di Monaco è impostato su standard semplici e precisi: il marchio (una spirale radiante, entro due linee verticali, sotto i cinque cerchi olimpici); il carattere tipografico (l’Univers di Adrian Frutiger, con le sue valenze geometrico-modulari); un particolare sistema cromatico (fondato su due blu, due verdi, arancione e giallo, più bianco, nero e grigio-argento). La scelta dei colori è funzionale: ogni colore corrisponde ad una precisa mansione. Si noti qui come l’esclusione del rosso (il colore in genere più utilizzato nei prodotti grafico-pubblicitari) conferisca all’insieme figurativo delle Olimpiadi di Monaco un tono del tutto particolare. Fondamentale è poi la griglia compositiva, che risulta molto versatile, suddivisa in linee orizzontali, verticali e oblique (45°). Tale griglia permette un’ampia varietà di soluzioni formali. I pittogrammi, le cui parti modulari sono ricavate dalla griglia secondo un’intento di standardizzazione e stilizzazione formale, restituiscono il movimento dell’atleta e un’indicazione all’equipaggiamento sportivo. Anche i poster non sfuggono all’uniformità generale: l’impostazione grafica, la netta separazione dei colori, il gesto dell’azione, caratterizzano un sottosistema di 22 poster con una coerenza e una cura del dettaglio notevoli. L’influenza della metodologia e della manualistica di derivazione ulmiana è quindi molto forte furante gli anni ’60 e ’70. Forte è anche l’influenza dell’immagine coordinata della KLM, progettata da Henrion (Henrion Design Associates) nel 1964. Si noti qui la centralità del marchio (elaborato nel 1961). Non per nulla, nei manuali della KLM, il marchio si differenzia pur mantenendo una certa uniformità in ben 20 versioni e ogni possibile applicazione dello stesso: dalla coda degli aerei fino alle posate e i bicchieri in dotazione sui voli. La vecchia corona a mano, che caratterizzava il marchio storico della KLM, è stilizzata geometricamente in modo da risultare immediatamente identificabile. 4.3 I giochi di Città del Messico Vale la pena esaminare un esempio di poco precedente ai Giochi olimpici del 1972. Per le olimpiadi di Città del Messico (1968), Lance Wyman, coordinatore della corporate image, disegna il marchio e, in collaborazione con l’artista Eduardo Terrazas, elabora un sistema visuale partendo dai motivi propri della cultura locale. Si tratta di una serie di colori e di una trama rigata che viene rielaborata con valenze optical. Il sistema generale si basa sul marchio, costituito sovrapponendo al numero 68 tre dei cinque cerchi del simbolo olimpico; gli altri due coincidono con i cerchi inferiori dei numeri 6 e 8. Il numero 68, tracciato con un carattere lineare molto leggero, è contornato radialmente fino a formare la trama rigata. Il marchio si sviluppa poi nel titolo Mexico 68. Sulla base di queste 8 lettere, Wyman realizza un alfabeto completo. Il programma dei Giochi olimpici di Città del Messico comprende una serie di pittogrammi per le competizioni atletiche, basati sugli equipaggiamenti sportivi o sulla sagoma umana, per gli eventi parasportivi, ma anche per segnali direzionali, poster, mappe, ecc. Per concludere, la corporate image per le Olimpiadi di Monaco, presenta caratteristiche formali rigorose, modulari o geometriche, tipiche della Scuola di Ulm e, più in generale, di quella svizzera. A Città del Messico, invece, è presente l’aspirazione alla sistematicità e all’efficacia, ma si opera un’interessante 6 coniugazione tra Op Art, corrente artistica d’avanguardia d’ispirazione geometrica, e storia e tradizioni locali ed etniche; così, tra metodo sistematico e storicità formale, il risultato si traduce in un’image ricca di aperture visuali e concettuali e perfettamente integrata. 5. Corporate image: mondializzazione e rivoluzione informatica Tra gli anni ’70 e ’80 iniziano a diventare avvertibili i fenomeni che caratterizzano la “terza fase della rivoluzione industriale”: globalizzazione, rivoluzione informativo-informatica, dibattito al superamento del “moderno” e sul postmodern. In questo quadro inizia a estendersi il dominio della comunicazione. Prima di tutto, si amplia il discorso alla corporate image. La concezione del marchio come elemento centrale della comunicazione complessiva, diventa teoria diffusa alla quale ricorrono anche aziende piccole, enti, istituzioni pubbliche e private. Accanto a questo ampliarsi, si assiste progressivamente anche a un indebolimento del modello concettuale fondato sul marchio. Si pensi allo stile Fiorucci, costruito in realtà come assenza di stile unitario, attraverso ma combinazioni di immagini eterogenee. L’image Fiorucci rinuncia al marchio ed emerge apparentemente senza metodo, ma risulta perfettamente riconoscibile. In ogni modo, l’icona Fiorucci resta quella dei due angioletti, rielaborati da Italo Lupi nel 1970. Quella di Fiorucci è una condotta progettuale che punta tutto sulla ricerca e sulla contaminazione. Un altro caso di evoluzione rispetto all’idea della centralità del marchio, è quello di Benetton. Negli anni ’80 gli Scarpa si occuparono dei negozi Benetton nel mondo. L’idea è quella di presentare un prodotto innovativo in negozi caratterizzati da una coerenza più che stilistica, d’atmosfera: creata dalla messa in vista dei prodotti e dai venditori stessi giovanili, casual. È l’insieme a rappresentare Benetton, più che il simbolo. Ma il decollo dell’immagine è segnato da quello che è stato definito “l’effetto Benetton-Toscani” (il rapporto diretto tra i due permette di eliminare il ricorso all’agenzia pubblicitaria): le campagne fotografiche di Oliviero Toscani diventano in breve un cult dell’antipubblicità, anche grazie ai processi tecnologici che permettono di realizzare enormi fotografie collocate nel panorama urbano. Con gli anni ’90 il prodotto scompare, sostituito da una serie di immagini con riferimento ideologico e provocatorio alla guerra, disastri ecologici AIDS. La dimensione e la scelta dei temi fanno sì che i manifesti diventino veri e propri eventi nella vita metropolitana. Ancora diverso è il caso Nike, il cui marchio, disegnato nel 1971 da una studentessa di pubblicità come un’ala della dea greca della vittoria, è diventato tanto noto con la crescita dell’azienda che questa ha ritenuto utile sottolineare il raggiunto successo eliminando la scritta e lasciando solo il pittogramma. I dipendenti della Nike lo battezzarono swoosh: un suono onomatopeico che, rendendo il sibilo del vento, simboleggia la velocità. Inoltre è molto facile da pronunciare nelle varie lingue. Il caso Nike permette di introdurre l’impiego del testimonial sfruttando totalmente l’immagine del personaggio scelto. È il caso di Micheal Jordan, che incarna i valori della Nike, e della linea Air Jordan. Memorabile è lo spot in cui Jordan mitizza il suo profilo saltando verso un canestro con le Air Jordan e il rumore d’un motore jet in sottofondo. Come precisa Codeluppi, “l’immagine Jordan è diventata un’icona famosa, un segno di marca altrettanto importante dello swoosh”. Osserviamo un’altra strategia vincente è quella di Swatch. Un nuovo orologio viene messo a punto da ingegneri svizzeri per frenare la supremazia giapponese che si fonda sugli orologi digitali. L’oggetto è semplice e il suo prezzo è conveniente perché il progetto tecnico ha permesso la riduzione del numero delle componenti. Ma la ripresa del tradizionale quadrante a sfera trova riscontro nel fatto che il nostro rapporto col tempo è ancora analogo e non richiede la precisione al secondo del digitale; e il tenerne a lungo contenuto il prezzo si rivela un’operazione vincente anche in termini di comunicazione e marketing. Per concludere questa indagine, possono essere utili due immagini riassuntive, non a caso di negozi, Apple e Luis Vuitton. Il negozio della Apple a San Francisco, progettato da Steve Jobs e Ron Johnson, è una scatola-contenitore d’acciaio e vetro su cui l’unico elemento di riconoscibilità è la grande “mela” morsicata. L’altro è quello di Luis Vuitton a Parigi, coperto da una palizzata che riproduce su un lato un’enorme valigia, sull’altro un beauty case, con relativi elementi di riconoscibilità, la decorazione damier e il monogramma. 7