Scarica Riassunto libro filosofia della cura- Luigina Mortari e più Sintesi del corso in PDF di Filosofia solo su Docsity! Filosofia della cura La cura è essenziale alla vita? La cura è essenziale per la vita perchè senza cura la vita non può fiorire. Secondo Heidegger la cura è ontologicamente essenziale: protegge la vita e coltiva la possibilità di esistere. Per dare un solido fondamento a tale tesi occorre individuare le qualità essenziali della condizione umana per poi mostrare che la cura sta in una relazione di necessità con tali qualità. Prendendo come riferimento il metodo socratico, s'inizierà con una definizione provvisoria della cura: aver cura è prendersi a cuore, preoccuparsi, dedicarsi a qualcosa. Ci si chiede dunque se la condizione umana presenta qualità tali da rendere necessario questo modo d'essere. Noi siamo essere mancanti nel senso che non possediamo il nostro essere ma lo riceviamo in dono da altrove, siamo sostanza senza forma e nasciamo con il compito di moddelarla nel tempo senza sapere chiaramente cosa fare per dare una buona forma al nostro divenire. Siccome mancanti e bisognosi ed incarnati in un corpo, la cura della vita si manifesta innanzitutto nella forma del procurare cose che alimentano e conservano il ciclo vitale, nominata nel greco antico con il termine merimna. Tuttavia, il nostro mancare di sovranità sulla vita può portare a una frenesia del procurare cose come riparo alla propria fragilità, che finisce per consumare la vita stessa. Una vita beata significa trovare la giusta misura del nostro aver cura. Nei dialoghi di Platone, Socrate parla della cura epimeleia, come cura dell'anima che coltiva l'essere fino a farlo fiorire in risposta al desiderio di trascendenza: nella mancanza di forma infatti l'essere è chiamato ad aprirsi all'ulteriore per divenire ciò che si potrebbe essere. La vita dell'essere umano, chiamato sempre a superare la propria forma che è provvisoria, è incerta e incompleta e in quanto tale necessità della cura. Necessaria è anche la cura come terapia, chiamata a lenire la sofferenza del corpo e dell'anima. Tutta la nostra debolezza ontologica viene vissuta nella sua pesantezza nella malattia: l'angoscia, che deriva dalla nostra passività di fronte a forme del devinire non scelte, può diventare sostenibile solo se accettiamo questa passività e se l'anima sa coltivare la capacità della pazienza. Quando si sta bene vogliamo sentire l'essere nella sua pienezza, quando si fa esperienza del dolore si vorrebbe anestetizzare la sensibilità fino al punto di non sentire più niente. Patone, nel Fedone, parla dell'idea di un'anima che si libera dal peso della vita materiale e così alleggerita può accedere a un altro ordine di realtà dove nulla procura turbamento. Per questo si tende a vedere nel pensiero platonico la radice del dualismo tra anima e corpo. Se tutta la filosofia fenomenologica invita a superare questo dualismo, Stein non parla di anima e corpo uniti come due sostanze distinte che convivono l'una accanto all'altra, ma invita a pensare all'esserci come un tutt'uno composto di un corpo che vive di un respiro spirituale e di un'anima incarnata. Cambia così il nostro modo di stare in relazione con l'altro, ad esempio in ambito sanitario toccare il corpo di un malato è un tutt'uno con il toccare l'anima. Quando nella vita si fa esperienza di quella cura che nutre l'anima di fiducia allora si sa stare in presenza del dolore senza che ci travolga e quando la cura come terapia si fa carico dell'interezza della persona, mente e corpo, è cura intera dell'essere. RISPOSTA- Il termine cura risulta dunque polisemantico e risponde a una necessità ontologica: la neccessità vitale di continuare ad essere della cura come merimna, la necessità etica di esserci con senso della cura come epimeleia, e la necessità terapeutica per riparare l'esserci. In quanto esseri mancanti, siamo esseri relazionali e bisognosi degli altri, vivere è sempre con-vivere. Come spiega Winnicott, l'origine dell'essere è la relazione con la madre e se con il tempo prende forma una certa autonomia, ciascuno di noi ricerca sempre relazioni significative poichè la relazione con l'altro è struttura ontologica dell'esserci. Certe filosofie (ontologie) concepiscono l'essere come un ente singolare che si incontra con altre individualità: questa tendenza può derivare da quella solitudine esistenziale che non permette di condividere con l'altro il nostro sentire, o forse dalla tensione a dare corpo alla propria unicità e singolarità. In realtà, tutti veniamo da una relazione (siamo figli di..) e per questo siamo essere relazionali, ciò che esiste coesiste. Noi siamo esseri unici, e in questa singolarità consiste il dramma della solitudine: solo su di sè si sente gravare il compito di dare forma al proprio essere. Solo in certi momenti, come quando si esperisce un'intesa amorosa con l'altro, la solitudine non si fa percepire e ci sembra di poter condividere l'esistere. Quando Heidegger parla della comprensione dell'esistenza precisa che questa ha per oggetto un soggetto insieme agli altri nel mondo e se avviene in solitudine non si può cogliere la verità in quanto frutto dell'incontro con l'altro, del dialogo. Nel nostro dipendere dagli altri sta la vulnerabilità propria dell'essere umano: nell'infanzia dipendiamo in tutto, dal cibo all'effetto, poi per tutta la vita ci volgiamo agli altri ma i nostri beni più grandi, come l'amicizia e l'amore, sono i più vulnerabili perchè esposti agli urti della realtà che possono indebolire o distruggere i legami relazionali. Quando un'amicizia si scioglie, si esperisce una perdita di una parte di sè. Siamo anche fragili poichè veniamo a essere indipendentemente da una nostra decisione e poi siamo in potere della vita ma non ne abbiamo sovranità. La condizione di fragilità dipende anche dal fatto che il nostro essere è un continuo divenire: vivo il mio essere nell'istante presente, schiacciato da un passato che non è più e un futuro che non è ancora. Questo divenire non segue una direzione, ma è un dover divenire il proprio essere possibile. E' la nostra sostanza temporale, che oscilla tra l'essere e il nulla a rendere impossibile un vero possesso dell'esistenza. Per ridurre la fragilità, la cultura occidentale ci ha insegnato ad affidarci alla ragione ma neppure su di esso abbiamo sovranità: la mente insegue pensieri non cercati e non voluti, e, anche quando questa cerca una pausa dal pensare, continua a sentire pensieri che non riesce a fermare. Fragilità e vulnerabilità, qualità ontologiche del nostro essere, danno debolezza ontologica. La consapevolezza della nostra debolezza, dell'imprevedibile che accompagna la nostra esistenza, genera inquietudine che svolge la funzione essenziale di rendere l'esserci aperto alla chiamata dell'ulteriore. Quando la consapevolezza della nostra debolezza prende il soppravvento può portare l'anima a subire l'angoscia; il meditare la nostra debolezza genera il dolore ontologico, quando la mente approfondisce la qualità della nostra condizione. La filosofia antica cerca dei modi per rendere tollerabile questa condizione e filosofi come Plutarco individuano nel saper accettare quello che ci accade la disposizione che permette di raggiungere la serenità dell'anima, ovvero il massimo bene. Per tutti questi motivi si può affermare che noi tutti abbiamo bisogno di cura. 2 L'essenza di una buona cura. l'intenzione che guida questo libro è cercare una filosofia rigorosamente fondata della cura attraverso il metodo fenomenologico che permette di indagare cosa sia la cura nella sua essenza. Con il termine essenza si indica la struttura intimamente propria di una cosa, costituita da qualità essenziali che necessariamente la identificano, in quanto senza di esse non potrebbe esserci. Affinchè un fenomeno possa essere definito come cura deve dell'altro ed essere disponibile a fare quanto possibile per il benessere dell'altro. Quando il livello di autonomia dell'altro è molto scarso richiede a chi ha cura una responsabilità diretta, come il neonato o il malato. Quando si cerca di mettere l'altro nella condizione di assumersi la responsabilità di sè, si parla di responsabilità indiretta. Una buona cura risponde al bisogno dell'altro secondo la misura necessaria, chiedere troppo a sè stessi è rischioso perchè non c'è cura per l'altro senza la cura per sè. Secondo l'analisi fenomenologica, alla radice del senso di responsabilità c'è la consapevolezza della fragilità e della vulnerabilità dell'altro, della sua debolezza ontologica. Sapere che noi tutti siamo fragili può farci avvertire la tensione ad agire per l'altro, a fare ciò che vorremmo fosse fatto per noi. Ma, a generare la responsabilità non è solo il cogliere la debolezza dell'altro, ma anche la sua bisognosità intesa sia come difficoltà che come supporto a far fiorire le proprie possibiltà. Tuttavia, non sempre ci attiviamo quando vediamo la necessità. A essere decisivo è il sentirsi toccato dall'altro che prende la forma dell'empatia quando sostiene l'altro nel proprio divenire, e della compassione quando il bisogno segnala una difficoltà. Questo sentirsi toccato non è sentire del cuore come altro dalla ragione, ma è un sentimento generato da una ragione sensibile che pensa profondamente la situazione dell'altro, che pensa con il cuore. Questa visione integrata deve essere sostenuta da un modo di concepire la ragione non come fredda, cartesiana ma sensibile, materna che sente la qualità delle cose. Contrariamente a quanto il modello scientifico e il razionalismo ci ha abituato a credere, la filosofia spagnola invita a pensare che la ragione non possa penetrare ogni fessura del reale, come l'agire etico, guidato, per Murdoch da forze che agiscono fuori dal controllo della ragione. Se si accoglie la prospettiva di Lèvinas, sembra che ad agire sia una forma di responsabilità per l'altro che viene prima di ogni ragionamento e che scaturisce dal sentirsi obbligati verso l'altro al di là di qualsiasi decisione venga dal nostro intimo. Se invece si accoglie la prospettiva di Maria Zambrano, tra l'obbligo che l'altro mi comanda e la mia risposta c'è un pensiero semplice, essenziale perchè sa dove sta l'essenza delle cose. Un pensiero guidato dalla passione per il bene dell'altro, voce di una coscienza che conosce l'essenziale e orienta l'esserci, aderente alla realtà. Chi agisce con cura sente e accoglie la realtà, interroga la propria coscienza e risponde attivamente con gesti concreti in base alle necessità di cura con cui la realtà ci interpella. Avere cura è dare tempo e poichè il tempo è vita, avere cura è agire con generosità. Per chi ha cura il vantaggio non è qualcosa che si chiede a chi riceve cura ma qualcosa che si fa. Nell'agire gratuito della cura c'è il guadagno di qualcosa di essnziale, il pensare di aver fatto ciò che era necessario fare. Dedicare il proprio tempo accade secondo giusta misura, non deve essere totalizzante ma è bene riconoscere i propri limiti e in caso coinvolgere anche un altro. Il donare come dedicare all'altro pensieri, emozioni, gesti, azioni è l'essenza etica della cura. In una cultura come la nostra dove l'imperativo chiede efficienza senza perdita di tempo, donare il proprio tempo ed energie in un'azione gratuita non è facile da comprendere se ci si lascia orientare dalla visione individualistica che fa coincidere l'affermazione di sè con il bene. Chi agisce in modo donativo non sente di fare qualcosa di eccezionale ma ciò che è necessario. Ricevere il dono di atti di cura fa sentire di avere valore, fa depositare nell'anima quell'energia vitale tale da aprirsi all'ulteriore. Una buona cura è connessa al rispetto per l'altro, quel rispetto che è reverenza ovvero capacità di accogliere la soggettività dell'altro, di lasciare che l'essere dell'altro mi parli secondo il suo modo di essere. La giusta misura è sempre indispensabile: chi esercita una buona cura sa avvertire quando il rispetto dello spazio dell'altro è a rischio, e si sa sottrarre alla tendenza ad annullare la propria identità nell'altro attraverso una disponibilità smisurata. Chi agisce ad esempio nelle professioni di cura(educatrice, infermiera) agisce in riferimento a saperi definiti, generali, con regole che spesso implica una perdita di rapporto con la singolarità degli enti. Il sapere generale è necessario in quanto consente un certo livello di efficienza, ma deve essere supportato da un sapere del particolare che sappia cogliere l'unicità dell'altro. Per rispettare l'altro e accoglierlo nella sua singolarità bisognerebbe pensare l'altro a partire dall'idea di infinito. Ciò significa sia non racchiudere l'altro entro forme anticipate di pensiero, sia prendere atto del limite della comprensione dell'altro,comprensione in-finita così come ogni conoscenza. Alla radice della capacità di avere rispetto c'è il riconoscimento del valore inviolabile dell'altro, del suo essere sacro nella vita materiale e spirituale. Il sacro non è qualità solo della realtà divina, ma sacra è la materialità dei corpi e dei vissuti che incontriamo nella realtà quotidiana. In certi casi, l'azione di cura si esprime come denuncia delle situazioni che provocano inutile sofferenza. Sono atti che richiedono il coraggio di dire come stanno veramente le cose, specialmente quando ci si trova in una posizione di svantaggio rispetto al proprio interlocutore. Si agisce con coraggio perchè si sente il bisogno di cura dell'altro. Responsabilità, coraggio, rispetto, generosità sono nominati nella nostra cultura come virtù. Aristotele distingue tra le virtù messe in atto verso se stessi e quelle verso gli altri, entrambe sono necessarie ma le seconde sono più importanti poichè l'esserci è essere con gli altri. 4) Il farsi concreto dell'essenza della cura. I modi d'essere della cura sono quelle maniere d'essere che rendono evidente all'altro l'intenzione di chi ha cura di procurare beneficio. Ricettività e responsività, attuare azioni concrete a favore dell'altro, sono le due categorie che ordinano i modi d'essere della cura. La ricettività si esprime nell'attenzione, nel far posto nella propria mente all'essere dell'altro. Per questa sua tensione verso l'altro, l'attenzione è un gesto etico. L'attenzione come gesto di cura non è un semplice guardare, ma è un'intensa concentrazione sull'altro, mossa dalla disponibilità a ricevere l'altro. Per cogliere la qualità del vissuto dell'altro, l'attenzione deve essere un'attenzione della mente e del cuore, sensibile e ricettiva. Questo tipo di attenzione si origina nel riconoscimento del valore dell'altro e nel sapere che la necessità prima è la necessità di bene. In questo senso l'attenzione è una postura etica. L'attenzione per concentrarsi sull'altro richiede la messa in parentesi dell'io e la pulizia della mente dal peso di tutte quelle teorie che anticipano l'altro. Prestare attenzione è difficile anche perchè agli esseri umani non è dato di sopportare troppa realtà e quando questa ha il volto del negativo, come di fronte alla sofferenza, si cerca rifugio nell'immaginazione ma questa diventa pericolosa quando distorce l'agire. L'attenzione è coltivata nel suo pieno se sa stare sia nel mondo delle cose concrete sia nel mondo delle idee, gurdando all'idea di bene. L'attenzione si esprime nello sguardo ma anche con la parola detta e quella taciuta. Ascoltando l'altro si impara dalla sua esperienza perchè questa ci fa riflettere sui nostri vissuti. Sguardo e parola nella relazione di cura portano al dialogo, al darsi parola per intendersi. La parola che cura è una parola semplice, che sta nell'ordine della verità, che dice le cose come stanno. Essenziale è, però, la delicatezza, ovvero l'aver cura che il peso di ciò che si dice possa essere accolto da chi ascolta. La comprensione dell'altro, nell'aver cura, è mossa dall'intenzione di cogliere ciò di cui l'altro ha una necessità vitale. Per questo il comprendere richiede una buona conoscenza dell'altro che si basa su un'onesta visione delle cose senza preconcetti e sul cogliere l'essere dell'altro senza assimilarlo dentro i nostri dispositivi cognitivi. Non c'è comprensione se non c'è la capacità di sentire il sentire dell'altro: lasciarsi mettere in causa dall'alterità dell'altro e sentire nella carne il suo stato d'essere. Quel sentire di una mente pura che sa tenersi il più possibile sgombra dai sentimenti negativi e piena del sentire positivo. Questo sentire il sentire dell'altro è empatia, che fa vibrare il prorpio essere sentendo la qualità del vissuto dell'altro. Tuttavia, anche attraverso questo sentire non mi è concessa una conoscenza originaria della sua esperienza: l'esperienza vissuta e quella empatizzata restano due esperienze diverse. L'esperienza empatica è una forma del pensare con il cuore che si lascia toccare dall'essere dell'altro. L'esperienza empatica viene definita compassione quando la sofferenza vissuta dall'altro è qualcosa che il senso di giustizia non può tollerare. Plutarco afferma che bisogna avere cura delle cose cattive senza dolore, mantendendo una forma di distanza mossa dall'intenzione di stare nelle cose nella giusta misura. Provare compassione impegna la mente nel cercare di alleviare la sofferenza dell'altro e può produrre una fatica emotiva insostenibile. Per questo in molti casi si opta per una formazione anaffetiva degli operatori rimanendo, però, prigionieri del mito modernista di una mente purificata da ogni sentire che impoverisce la relazione. E' attraverso il sentire che i pensieri ci avvertono della qualità del reale. Sentire la felicità della madre nel prendersi cura di noi, secondo Winnicott, aiuta ad aprirsi positivamente alla vita. Sentire la posizione affettiva dell'insegnante che ci accoglie e la sua fiducia resta nel cuore. E' la fiducia che ci fa aprire all'altro e che da adulti ci fa legare in un atto d'amore. Si riesce a comunicare fiducia solo quando si sa accettare l'altro nel proprio esserci e per accettare l'altro occorre sapersi accettare per quello che si è. Saper accettare non significa rassegnarsi, ma aprirsi all'ulteriore partendo pero da dove l'esserci è. Trovare la giusta misura della cura è il difficile dell'agire educativo: le teorie centrate sullo studente promuovono lo sviluppo dell'altro senza intromettersi nel suo spazio vitale ma con il rischio di impoverire il processo educativo riducendolo al solo istruire. Se si individua nell'anima la tensione alla tescendenza, allora la cura educativa deve offrire esperienze che risveglino l'esseri al suo domandare più proprio, deve nutrire la passione per l'ulteriore. Siccome chi chiede cura è vulnerabile, trattare con l'altro richiede la delicatezza di trovare la parola giusta e la giusta misura delle parole, troppe invadono lo spazio tra me e l'altro, troppe poche non consentono alla relazione di prendere forma. Chi riceve cura può cercare di abusare della disponibilità del caregiver che, in questi casi, ha il dovere non solo della tenerezza ma anche della fermezza che si può esprimere anche cercando altre soluzioni di cura. Il lavoro di cura chiede molte energie e, in quanto esseri relazionali, per sostenere questa fatica abbiamo bisogno di una forma di riconoscimento, come un sorriso, una stretta di mano o delle parole. Il lavoro di cura, inoltre, non è solo faticoso, ma rende anche maggiormente vulnerabili poichè destinatario della mia azione di cura è un essere umano che reagisce al mio gire in mondo imprevedibile e per questo il lavoro di cura chiede di vigilare sempre su quello che si fa. Il lavoro di cura chiede poi di operare in un contesto di forte incertezza poichè se è vero che la reazione ad un'azione di cura è sempre imprevedibile, chi ha cura è sempre responsabile in prima persona del proprio agire. Mantenersi nelle relazioni di cura è dunque diffcile, eppure la realtà vive di azioni di cura mosse dalla passione per il bene. Non si tratta di costruire teorie dell'agire bene e di cercare una visione universale del bene ma di stare in ascolto di sè e dell'altro cercando in quella precisa situazione di fare il meglio che è consentito dai vincoli del reale. Si potrebbe parlare di relativismo, ma tenere lo sguardo sul singolare bisogno dell'altro non implica che manchi il confronto del pensiero con le questioni generali mai finalizzato a costruire teorie. la cura è cura di un'altra persona precisa. Il bene è quello di cui l'altro ha bisogno per stare bene in un preciso momento.