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Riassunto libro Isabella Poggi - Comunicazione multimodale e influenza sociale, Sintesi del corso di Psicologia della Comunicazione

è un riassunto completo, di 34 pagine, e tratta della comunicazione multimodale e influenza sociale, sia in ambito politico che in ambito generale.

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020

Caricato il 28/12/2020

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Scarica Riassunto libro Isabella Poggi - Comunicazione multimodale e influenza sociale e più Sintesi del corso in PDF di Psicologia della Comunicazione solo su Docsity! Capitolo 1 – I ferri del mestiere Useremo un modello teorico elaborato nell’ambito della scienza cognitiva, che spiega il funzionamento della mente, dell’interazione sociale, delle emozioni e della comunicazione in termini di due nozioni base: -scopo e credenza. Scopi, azioni e conoscenze La vita di ogni sistema è regolata da scopi; Il sistema è un insieme di parti distinte che funzionano solidamente, per es il corpo umano, una macchina, la repubblica. Ci sono sistemi naturali (vecchietto ecc) , e artificiali (computer ecc). In tutti i sistemi lo scopo dà origine all’azione. Lo scopo è uno stato regolatore, non presente nella realtà, per il quale il sistema si mette in moto. (esempio caldaia alla fine di pag 19) L’azione è finalizzata al raggiungimento di scopi; il rapporto azioni-scopi ha una struttura gerarchica: poiché una sola azione non basta, il sistema pianifica una struttura di azioni, un piano. Ogni azione ha un sovrascopo, e quest’ultimo può avere un altro sovrascopo. Lo scopo non è uno stato regolatore che non ha solo a che vedere con l’intenzione di perseguire un obiettivo, ma anche con ogni stato che regola azioni: per es gli istinti animali; una pulsione inconscia (maltrattare qualcuno); i bisogni (fame, conoscenza); Come nascono gli scopi: -in parte sono generati da sovrascopi per cui sono un mezzo; -in altri casi, quando si presentano le risorse e condizioni del mondo al perseguimento di uno scopo, che fino a quel momento era “dormiente”, quello si attiva: per es. passo davanti pasticceria e mi viene voglia di dolce. Il primo meccanismo di generazione di scopi parte dagli ideali; il secondo è “opportunistico” e nasce dall’occasione; quest’ultimo meccanismo viene usato dalle pubblicità, poiché far sapere che c’è possibilità di raggiungere uno scopo, te lo induce, “crea il bisogno”. La scelta A volte il sistema ha due o più scopi che non può realizzare contemporaneamente, poichè sono in conflitto: perseguire l’uno ci impedisce di realizzare l’altro. Per decidere il sistema fa un bilancio fra scopi (BS) basato sulla loro appetibilità e sulla probabilità di realizzazione. L’appetibilità è il valore di uno scopo che dipende dal valore e dalla quantità di sovrascopi che permette di raggiungere, meno quelli che il perseguirlo compromette. La probabilità di realizzazione, invece, impedisce di sprecare energie per scopi irraggiungibili. L’azione, la conoscenza e il mondo Per perseguire scopi un sistema usa risorse interne (conoscenze e capacità d’azione), ed esterne. Capacità d’azione sono azioni che il sistema sa compiere; Le conoscenze sono rappresentazioni interne di stati del mondo, sia interni che esterni al sistema. Inoltre sono rappresentate in formato sensomotorio o concettuale-proposizionale. Gli animali hanno solo conoscenze sensomotorie, mentre gli umani adulti hanno anche quelle concettuali- proposizionali, e sanno rappresentare concetti astratti come “parentela” o “democrazia”. Struttura combinatoria La struttura delle conoscenze è combinatoria poiché una conoscenza è costituita dalla combinazione di conoscenze proposizionali primitive che chiamiamo “componenti semantici” o “ingredienti mentali”: per es. l’ingrediente è “Oggetto” è presente nei significati di molte conoscenze complesse, come “sedia”, “masso”, che è combinata – nella prima – ad “ARTEFATTO”, e alla seconda a “NATURALE”. Le conoscenze sono necessarie per la pianificazione. Dasoli le acquisiamo attraverso la sensazione e percezione, le immagazziniamo nella memoria, dove costruiscono una rete in cui si collegano attraverso legami logici di vario tipo – spazio, tempo, causa, effetto, condizione, mezzo, scopo – che oltre a rendere la rete più salda e coesa ci permettono di fare inferenze. In base alla sua origine attribuiamo un grado di certezza. Siamo certi di quelle acquisite tramite la percezione, che di quelle inferite. Per quelle che arrivano dalla comunicazione, dipende da chi le ha comunicate. Le consideriamo più o meno credibili in base al confronto con le conoscenze già immagazzinate nella memoria: se quelle nuove sono contraddette possiamo rigettarle oppure ristrutturiamo la nostra rete. Raggiungere uno scopo dipende anche da risorse esterne, le condizioni del mondo. Se sono sfavorevoli è difficile il perseguimento di uno scopo, tuttavia attraverso capacità di azione ed elaborazione di info (problem solving) il sistema può risolvere o aggirare i problemi derivanti dalle condizioni sfavorevoli. Ma vi è un’altra risorsa esterna fondamentale: gli altri. Il potere Nozione di potere basata sul concetto di scopo, per poi da queste dedurre quelle sociali. Chiamiamo potere-di la probabilità di un sistema che ha di raggiungere i suoi scopi; il sistema ha potere-di rispetto al suo scopo S se ha nel suo repertorio l’azione appropriata per raggiungere S, e se sono soddisfatte le condizioni del mondo perché S si realizzi. L’apprendimento aumenta il potere-di , perché aumentando il repertorio di azioni e conoscenze aumenta la loro possibilità di raggiungere scopi. Dal potere-di deriva quello di mancanza di potere, che nasce da mancanza di azioni nel repertorio o di condizioni. Ma vi è anche una mancanza di potere “da scelta”: se se sceglie fra due scopi in conflitto, perseguire uno impedisce la realizzazione dell’altro. Una prima nozione sociale di potere è il confronto di potere fra più sistemi: per es. Robinson non sa prendere il cocco ma Venerdì si. Dalla mancanza di potere di un sistema deriva la dipendenza da altri: è dalla nostra non onnipotenza e finitezza che nasce la socialità. Una dipendenza oggettiva che può tradursi in soggettiva è quando A sa di dipendere da B. Dalla dipendenza di A da B nasce in A lo scopo di influenzare B. Si parla di influenzamento sociale quando un sistema A fa aumentare o diminuire la probabilità che un sistema B venga ad avere un certo scopo: A chiede a B di dargli un cocco. Dalla dipendenza nasce un nuovo potere: il potere su: poiché A dipende da B, B ha il potere di negoziare, ossia di pretendere da B, in cambio della propria disponibilità, che esso faccia qualcosa; questo dà a B il potere di influenzare A, cioè di determinare scopi: -scopi appetitivi (di fare qualcosa) -o avversativi (di non fare qualcosa) La differenza fra potere su e potere di influenzare è questa: il potere di B su A è il potere di B di fare (o non fare) azioni che servono ad A (un potere di premiarlo o fornirgli incentivi), mentre il potere di B di influenzare A è il fatto che, per ottenere da B ciò che gli serve, A deve fare ciò che vuole B. 5- Attivazione di scopi specifici con alta priorità e urgenza= la paura scatena la fuga, la rabbia l’aggressione, la pena l’impulso di aiutare. Le emozioni sono connesse agli scopi perché: a) ne monitorano l’ottenimento: la paura sorveglia lo scopo della sopravvivenza e benessere fisico; rabbia quello della giustizia ecc b) attivano scopi: hanno alto potere motivazionale. c) Diventano scopi esse stesse, chi prova un’emozione piacevole vuole riprovarla, se spiacevole la si eviterà= sono quindi funzionali all’apprendimento. Scoprire quali emozioni sono provate in certi contesti ci permette di capire quali scopi sono in ballo in quelle situazioni. La Teoria sequenziale di Maslow ipotizza che gli scopi siano in ordine, dalla base al vertice, che va da quelli fisici (fame, sete, sesso) a quelli immateriali (autorealizzazione), e che questi non possano essere perseguiti finchè i precedenti non lo sono. La Poggi contesta tale teoria con l’esempio del senza tetto che non vuole rinunciare agli ideali di libertà e si lascia morire di fame. Quindi non vi sono scopi pù irrinunciabili di altri, ma vi è un tot scopi che abbiamo tutti in ogni momento della vita, perché sono funzionali agli scopi biologici della sopravvivenza e della riproduzione. Gli scopi che abbiamo, monitorati dalle emozioni sono almeno i seguenti: 1) Metaregolazione= scopo di monitorare i nostri scopi, segnalandone raggiungimento e compromissione (con piacere e dispiacere, gioia e tristezza, ecc) 2) Prevenzione di danni= emozioni della sopravvivenza (paura, ansia, disgusto, preoccupazione) 3) Apprendimento= scopo di acquisizione ed elaborazione di conoscenze e capacità d’azione; emozioni cognitive e dell’apprendimento (sorpresa, curiosità, divertimento, noia, perplessità, disorientamento, esperienza di flusso) 4) Ottenere adozione da altri= scopi dell’attaccamento e dell’affiliazione, e dell’avere relazioni positive con gli altri (tenerezza, amore, senso di appartenenza, tristezza, lutto, solitudine, senso di esclusione) 5) Adottare gli scopi degli altri= scopi di altruismo (simpatia, pena, senso di colpa) 6) Potere= scopo di avere potere sulle risorse dell’ambiente, acquisire e mantenere un territorio per sé e la propria discendenza, avere piu potere di altri, e potere su altri (senso di potenza, emulazione, invidia, gelosia) 7) Equità e reciprocazione= scopi di reciprocazione dell’adozione ricevuta e ritorsione dell’aggressione subita, e distribuzione equa delle risorse degli scopi raggiunti (rabbia, desiderio di vendetta, senso di colpa, pena, gratitudine, piacere per le disgrazie altrui) 8) Immagine= scopo della stima e buona immagine (orgoglio, gratificazione, vergogna, umiliazione, imbarazzo, sentirsi offesi) 9) Autoimmagine= scopo dell’autostima e della buona autoimmagine (orgoglio, soddisfazione, vergogna) 10) Immagine dell’altro= scopo di farsi un’immagine dell’altro, di valutare gli altri per decidere che relazione instaurare con loro (stima, ammirazione, disprezzo). Avere un quadro sugli scopi che gli umani hanno è importante per capire su quali far leva per influenzare: ciò è oggetto di ricerche marketing, pubblicità, propaganda politica. La comunicazione È un processo comunicativo quando M ha lo scopo G che D venga a sapere la credenza C, che è il significato S di s. Molti comportamenti o tratti morfologici possono essere un Segnale: l’azione di un oggetto, un organismo, o un gruppo (spia benzina, un gesto, una frase, la marcia di una folla); un oggetto, una parte o aspetto di esso, prodotto da un’azione o utilizzato durante un’azione (statua, divisa, occhiaie, quantità di like); ma anche una non-azione (il silenzio dopo una domanda). Il segnale può essere prodotto in varie modalità: (parole, intonazioni, gesti, sguardi, posture, movimenti del corpo); e può essere percepito da D in varie modalità sensoriali (i cinque sensi per gli umani, per alcuni animali apparati sensibili a ultrasuoni). I segnali possono essere prodotti e recepiti contemporaneamente anche in piu modalità: ad es quando parliamo e gesticoliamo, D vede le nostre espressioni e sente le intonazioni ecc. L’atto comunicativo L’atto comunicativo produce un segnale o serie di segnali il cui significato comprende un performativo e un contenuto proposizionale. Il performativo è lo scopo di M, l’intenzione comunicativa (avvisare, domandare, approvare, promettere, augurare); il contenuto proposizionale è l’oggetto di quell’avviso, domanda, promessa ecc. Il performativo + proposizione a volte è veicolato da un segnale unitario, l’olofrastico, che corrisponde ad una frase intera (“toh!”, che significa “ti informo (performativo) che questo fatto mi sorprende – contenuto proposizionale, ciò di cui informo D.); Spesso performativo e proposizionale sono “distribuiti” in una sequenza di parole, che costituiscono una frase. In una frase ogni parola porta il significato solo di una parte dell’atto comunicativo (verbi, aggettivi, preposizioni, congiunzioni e avverbi portano il predicato; nomi e pronomi gli argomenti). Gli innumerevoli performativi si possono raggruppare in 4 tipi di scopi comunicativi: 1) Richieste (espresse, in genere, da frasi imperative), in cui M ha lo scopo che D compia un’azione. 2) Domande (frasi interrogative) con lo scopo che D compia l’azione di far avere una credenza a M. 3) Informazioni (frasi dichiarative) con lo scopo che D creda alla credenza menzionata da M. 4) Espressioni di desiderio (frasi in forma ottativa, come “magari..” , o “volesse il cielo che..”) con lo scopo di chiedere ad un’Entità terza di far avvenire qualcosa. La comunicazione indiretta La comunicazione è come un iceberg di cui vediamo solo la punta: molto spesso con i gesti, frasi, sguardi, vogliamo far capire qualcosa ma senza dirlo esplicitamente. Una frase spesso ha un significato indiretto, il suo scopo apparente è mezzo per un sovrascopo diverso: scopo diverso da quello letterale, per es una domanda (puoi passarmi il sale? Può avere un sovrascopo di richiesta (passami il sale.); una valutazione (la tua azione non mi è piaciuta) può sottintendere un rimprovero (hai fatto male a farla) ecc. In questi casi l’inferenza da fare è talmente consueta che il sovrascopo del segnale si è idiomatizzato, cioè si è codificato come significato di quel segnale. Spesso, però, una frase o un segnale corporeo ha un sovrascopo “creativo”, e D per inferirlo deve combinare le credenze espresse esplicitamente da quel segnale con altre credenze tratte dal contesto e dalle conoscenze condivise con M. Dalla frase al discorso, nelle parole e nei segnali del corpo Un discorso o un testo scritto, proprio come un piano d’azione, ha una gerarchia di scopi: una sequenza di frasi o atti comunicativi che, oltre al loro scopo, hanno uno o più sovracopi, cioè significati che M vuol far inferire a D, tutti subordinati alla mèta del discorso. La multimodalità La comunicazione è multimodale, è possibile individuare lessici anche per i gesti, lo sguardo, il contatto fisico, le espressioni facciali, le posture, la prossemica (ossia la distanza che adottiamo fra noi e gli altri). Si possono individuare: significati comunicati, regole di corrispondenza fra segnali e significati, regole “fonologiche” che governano la costruzione dei segnali, e norme d’uso, che determinano in quali situazioni sociali, con chi, a quali condizioni un significato può essere comunicato. I significati che qualsiasi atto di comunicazione esprime sono di tre tipi: informazioni sul mondo, info sull’identità di M (età, genere, etnia, l’identità che si intende presentare: l’accento veneto, il saluto romano, il mettersi la mano sul cuore “sono nobile”); informazioni sulla mente di M (credenze, scopi, emozioni che uno ha mentre parla). Una volta individuati, ci si chiede se quel significato possa essere comunicato ad esempio nel sistema di comunicazione dei gesti, contribuendo così a stilare un lessico, cioè una lista di corrispondenze segnale- significato, di quel sistema di comunicazione (ibid). Per analizzare i segnali si cercano i “parametri formazionali”, cioè i criteri di analisi di tutti i segnali in un certo sistema di comunicazione, e i loro valori: qualsiasi gesto, per es, è costituito con una certa “configurazione della mano” (mano aperta, pugno chiuso, mano con indice teso), è prodotto in un certo “luogo” (sulla tempia, sulla fronte, ec), con un certo “orientamento” del palmo, e un certo “movimento”, che comprende anche il sottoparametro dell’espressività (ampiezza, fluidità, velocità, tensione muscolare, ripetizione). Le norme d’uso ci dicono quali parti possiamo toccare di un conoscente, amico, e in quali situazioni. Si possono distinguere segnali diversi: deittici, iconici (rappresentano oggetti, eventi, azioni imitandoli con la forma delle mani), simbolici. I deittici e gli iconici sono costruiti da M e compresi da D in maniera sempre nuova. I gesti codificati sono depositati nella memoria a lungo termine: nella produzione si cerca il gesto corrispondente al significato che si vuole comunicare; nella comprensione il significato corrisponde al gesto che si è visto. I gesti simbolici sono codificati in una cultura (gesto delle corna ec). Anche i segnali di contatto fisico sono codificati: tutti sappiamo il significato di uno schiaffo, carezza, sguardi, movimenti del capo. L’inganno L’inganno è un’azione comunicativa o non comunicativa; o anche una non-azione, un’omissione, che ha lo scopo di far credere all’altro qualcosa di diverso da ciò che noi crediamo vero, su un argomento per lui importante. Poiché le credenze sono una risorsa importante, ingannare è un atto aggressivo che viola il diritto dell’altro di sapere. Solo nei casi in cui la conoscenza è fonte di dolore, ingannare è un atto adottivo; tuttavia anche l’inganno a fin di bene contiene una quantità di prevaricazione, perché si arroga il diritto di sapere cosa è bene per l’altro. Sono molti i modi per ingannare: persino atti linguistici indiretti in cui una frase letteralmente è vera, ma le implicazioni, o le inferenze che contiene no. L’inganno, come la comunicazione, è un mezzo per influenzare: poiché l’umano concepisce scopi in base alle credenze che ha, determinare le credenze di un altro è un modo per determinarne gli scopi. È anche un modo per diminuire il potere dell’altro, visto che sapere è potere. L’influenzamento sociale È influenzamento quando un sistema A fa aumentare o diminuire le probabilità che B persegua uno scopo. Può essere: egoistico (lo scopo è solo, o più mio) o altruistico. I modi di influenzare Si influenza modificando o l’assetto degli scopi degli altri, o le loro conoscenze. Si modifica l’assetto degli scopi, ad es, con la seduzione: se ti faccio innamorare, farai ciò che voglio. A volte l’altro ha già lo scopo che voglio ma non lo persegue perché ne preferisce altri per lui più importanti, allora posso far crescere l’importanza di quello che voglio persegua, per farglielo preferire: B vuole dimagrire ma ama i carboidrati, così A, a cui B fa la corte, gli dice che gli piacciono i magri. Altre volte A ha quello scopo ma non è attivo, così B glielo risveglia. Altro modo di influenzare è far prendere coscienza all’altro dei suoi scopi: può avvenire direttamente (come quando i giornali fanno prendere coscienza alle casalinghe che non sono oggetti); o indirettamente (facendo riconoscere all’altro le condizioni di realizzazione di uno scopo, o le proprie capacità) il primo è Ethos: il carattere dell’oratore Spesso l’oratore nel suo discorso persuasivo fa un grosso lavoro di autopresentazione del proprio ethos, per risultare un persuasore di cui fidarsi. Ciò vale in tutti i casi di persuasione (anche quando vogliono venderci un’auto il venditore deve farmi pensare che è onesto e competente). Nella persuasione politica viene chiesto ai candidati, oltre a onestà e competenza, anche capacità decisionale, dominanza, carisma. Persuasione deriva da “suadeo” che significa “consiglio”; quest’ultimo è un atto comunicativo di influenzamento altruistico (A propone a B di perseguire uno scopo che è mezzo per gli interessi di B, non i propri), dimostrare il proprio disinteresse è dunque importante nel lavoro dell’oratore. Vediamone tre esempi nel discorso persuasivo politico (pag 49) Ethos e autopresentazione: verbale e corporea, diretta e indiretta il lavoro persuasivo non si serve solo di parole ma anche di tutta la ricchezza della comunicazione multimodale. Vediamone un esempio, un frammento di Occhetto (pag 51 – schema partitura pag 53) Quale conclusioni trarre dagli esempi politici? Che le info valutative (sia quelle positive su di sé che quelle negative sugli altri) spesso non sono comunicate dal primo livello del significato (letterale), ma da quello indiretto. Grazie allo schema con annotazioni “a due strati” (letterale e indiretto) si possono catturare quali significati sono comunicati direttamente e quali sono fatti inferire. Analisi di Occhetto: l’ethos positivo di se stesso e negativo dell’avversario, lo fa trapelare sempre in maniera indiretta, i messaggi “sono cavalleresco” e “lui è infido” non sono espressi esplicitamente, ma fatte inferire. indurre valutazioni per via indiretta lo fa non solo nel discorso verbale, ma anche nella sua comunicazione corporea. Riassunto: La persuasione è un influenzamento a “carte scoperte”: il persuasore aggancia il suo scopo a quelli del persuadendo, utilizzando strategie di logos (ragionamento), ethos (la propria credibilità) e pathos (l’appello alle emozioni). Questi elementi, e il loro grado di esplicitezza, si possono individuare con precisione analizzando la gerarchia di scopi multimodale dell’oratore. Capitolo 3 – Gesti e sguardi persuasivi Gesti e discorso persuasivo Fin dalla retorica classica Cicerone (55-54 a.C.) e Quintiliano (93-96 d.C.) considerano il gesto una parte indispensabile dell’actio, il momento dell’esposizione del discorso: con i gesti si può promettere, esortare, incitare, proibire, approvare, supplicare o invocare, e meglio della parola possono indicare oggetti, esprimere emozioni (come rabbia o rimpianto), ma anche eccitare o suscitare indignazione. Anche allo sguardo, già autori come Plauto, Virgilio, Seneca, attribuiscono la capacità di regolare il discorso e di esprimere stati cognitivi (come concentrazione, intenzioni comunicative come minacce, emozioni come sorpresa). Gli studi in psicologia sociale indagano le reazioni dei gesti sulle reazioni fisiologiche, cognitive ed emotive del pubblico e la capacità della comunicazione corporea di sollecitare l’applauso. Kendon individua funzioni persuasive nella configurazione dell’ “anello” (pollice e indice chiusi a cerchio, usato spesso da Mussolini), che porta il significato di “precisare” o “chiarificare”, specialmente quando si tratta di ottenere l’accordo, la convinzione o la comprensione dell’interlocutore. Potenzialmente rilevanti nel discorso persuasivo sono i gesti di precisione; Calibris analizza la “piramide” (simile al finger bunch, le dita a grappolo), le “pinze”, e il “quadro” – in quest’ultimo le mani sono affrontate parallele come a contenere qualcosa in una scatola, ed inquadra una situazione delimitandola. Nella piramide la forma a punta delle dita indica un concetto puntiforme, quindi preciso. Nel gesto delle pinze pollice e indice afferrano con delicatezza qualcosa di sottile. Questi tre gesti danno l’idea di inquadrare in modo ben definito un concetto, o di selezionarlo per portarlo ad un’attenta considerazione. Il “precision grip” di Obama, ossia la presa di posizione con pollice e indice che si toccano i polpastrelli, secondo Lempert, oltre a indicare il focus del discorso, significa “sto portando un’argomentazione efficace”, ma anche “io sono preciso ed efficace”, proiettando un’immagine personale di efficacia argomentativa. Anche il gesto del “becco” come la presa di posizione di Lempert, ha uno scopo di autopresentazione (presentare l’immagine come lucido, sistematico, che va dritto al punto). Alla ricerca del gesto perduto Per capire se esistano “gesti persuasivi” è stato condotto uno studio osservativo su due casi di persuasione politica. Ipotesi di lavoro Per dire se un gesto è persuasivo ci basiamo sulla nostra definizione di persuasione: definiamo persuasivo il gesto che viene usato in un discorso per persuadere, e per farlo portano nel loro significato alcune parti o aspetti della struttura cognitiva di un atto comunicativo persuasivo, cioè le info, gli “ingredienti mentali”, tipicamente contenuti nel processo della persuasione (pag 60 per riassunto schematico persuasione); Per valutare persuasività di un gesto si deve vedere se il gesto nella sua interezza, o anche aspetti di esso (ad es. certi valori nei suoi parametri, come la forma della mano, o l’espressività del movimento) portano come loro significato uno o più di questi ingredienti mentali. Corpus e analisi Schema e partitura discorso Prodi (pag 62) Risultati. Gli ingredienti della persuasività In base all’analisi del corpus possiamo affermare che in realtà non esistono gesti persuasivi; al massimo possiamo considerare tali alcuni rari casi di gesti che veicolano performativi come “io vi incito a...”, ma certo non esistono gesti che significano “io ti voglio convincere a…”. Si può dire che sono gesti con forza persuasiva tutti quelli che esprimono significati in qualche comodo connessi alla comunicazione di logos, ethos, pathos; in particolare i gesti che contengono i seguenti ingredienti mentali: -Certezza = far credere che un certo scopo è meglio di altri bisogna mostrarsi sicuri di sé, quindi sono persuasivi quei gesti che esprimono certezza, assertività, perentorietà, come l’anello (pollice e indice a cerchio, con movimento su e giù) usato da Mussolini e Occhetto. -Importanza = se sostengo che una cosa è importante, realizzarla diventerà uno scopo di alto valore, sono quindi gesti persuasivi quelli che comprendono l’ingrediente “importante”, o quelli come il finger bunch (mano con dita unite a palmo in su, che va su e giù scandendo le sillabe) di Kendon, che significa “enfatizzo”, “è importante”; anche i gesti batonici hanno tale funzione. -Valutazione = esprimere valutazione positiva su evento o cosa significa comunicare che è mezzo per uno scopo: ottenere quell’oggetto o evento diventa uno scopo, gesto che esprime valutazione positiva è quello della mamma che con l’indice sulla guancia fa intendere al piccolo che è buono. -Benevolenza = contribuiscono alla benevolenza gesti che fanno capire che si è disinteressati, generosi, nobili: il gesto della mano sul cuore “io sono nobile, leale” -Competenza = nella persuasione fondata sul logos è facile essere persuasi da una fonte autorevole esperta, perciò sono persuasivi gesti che danno impressione d’intelligenza e efficienza. -Pathos = esprimere proprie emozioni in modo da farle provare al prossimo grazie ai neuroni specchio che innescano contagio emotivo, che è modo per attivare scopi: ne è esempio gesto Prodi, un movimento del braccio energico, scattoso, veloce, che esprime attivazione emotiva mentre dice “non posso far finta di agire in un paese diverso da quello che è”. Questi ingredienti del processo persuasivo in certi casi sono veicolati da gesti specifici che li contengono nel significato; ma in altri è contenuto solo nei parametri di espressività del movimento di un gesto. Inoltre, gli ingredienti persuasivi di un gesto possono non essere evidenti nel suo significato letterale, ma solo in quello indiretto. Risultati. La densità di apporto persuasivo Una volta individuati gli ingredienti della persuasività nei gesti degli oratori, è stato possibile calcolarne la frequenza, misurando così il grado di persuasività che apportano al discorso multimodale. Per farlo non si sono solo presi in considerazione i significati dei gesti nella loro globalità, perché all’interno di ogni gesto è possibile individuare piu ingredienti diversi, annidati nei suoi vari parametri: nei frammenti di Occhetto e Prodi il numero dei significati dei gesti è più alto di quello dei gesti, e questo non solo per la presenza, in alcuni casi, di significati indiretti, ma anche per la presenza, a volte, di più significati nello stesso gesto, contenuti nei suoi parametri. Inoltre, non tutti i significati contengono ingredienti persuasivi. Sguardi persuasivi, Ipotesi e analisi L’ipotesi è che l’apporto persuasivo degli sguardi, proprio come per le parole e i gesti, dipenda dal loro significato (tabella a pag 70). Conclusione Abbiamo visto che il discorso persuasivo è un atto comunicativo complesso multimodale in cui ogni parola, gesto, sguardo, espressione, o addirittura l’espressività del movimento, con i suoi ingredienti di significato contribuisce a rendere persuasivo l’intero discorso; e tuttavia, l’addensarsi di ingredienti di diverso tipo costituisce la cifra particolare dell’oratore, il suo stile comunicativo che lo differenzia da tutti gli altri. Capitolo 4 – Segnali di dominanza Il dibattito politico Un dibattito politico è un tipo di interazione a scopo persuasivo, è un caso di persuasione multilaterale (in quanto gli esponenti politici tra loro rivali, si rivolgono apparentemente l’uno all’altro, a turno, ma in realtà parlano al pubblico, con lo scopo di convincerlo; per questo è “persuasione competitiva”); il dibattito è una competizione da cui ci si può guadagnare, o perdere potere: ognuno, per guadagnarlo, deve mostrare i suoi meriti, buone qualità. Ma può anche guadagnarlo mostrando i demeriti dell’altro. Buono, bravo e forte Un personaggio politico non deve solo essere Competente e Benevolente, ma anche Dominante (può essere anche il piu competente e benevolente, ma se si fa mettere i piedi in testa, non sapendo attacare o difendersi, allora la sua – e la mia – lotta politica, non andrà a buon fine). Quindi nei suoi atti persuasivi dovrà mostrare, come tratti del suo ethos, di essere buono, bravo e forte. I leader sono valutati su tutte e tre le dimensioni. Poteri e dominanza per definire il concetto di Dominanza lo confrontiamo con due nozioni introdotte dalla sociologia, che vi sono connesse: le nozioni di potere e status. Un esempio di invasione del tempo è quando si interrompe l’altro, ci si sovrappone al suo turno, quando è il turno del “prevaricatore” esso prende piu tempo per parlare (anche ignorando i richiami del moderatore, pretendendo di governare lui la presa dei turni). d)Violazione di norme= l’invasione nella gestione dei turni ne è un esempio, ed è un’altra strategia aggressiva. Nela violazione di norme l’inferenza indotta dalla trasgressione delle norme è “io sono al di sopra della norma”. Un esempio: quando Berlusconi ha fatto il gesto delle corna durante un incontro ufficiale del Parlamento europeo. Fare questo gesto, seppure con fare scherzoso, è comunque trasgredire le norme di etichetta di quelle circostanze. Sfida: altro modo per esprimere dominanza, da parte però di chi ancora non ha raggiunto tale posizione, è la sfida, dove A comunica a B “ho il potenziale per superarti e presto avrò potere su di te.” segnali tipici sono un portamento "orgoglioso”(sentirsi superiori), con il busto eretto e il mento alzato, e lo “sguardo di sfida” (guardare fisso negli occhi), il “sostenere lo sguardo altrui” laddove abbassarlo sarebbe segno di sottomissione. STRATEGIE “SOTTILI” Vittimismo: illustreremo le strategie sottili in (apparente) decrescente aggressività e crescente sottigliezza. Una strategia piuttosto efficace è il vittimismo. Se sei una vittima vuol dire che gli altri ti hanno fatto indebitamente un torto, hanno violato i tuoi diritti. Tu quindi sei in diritto di rivalerti, proclamando i tuoi diritti e pretendendo che siano rispettati. Permalosità: essere permaloso significa avere una bassa soglia di offendibilità; commenti innocenti, privi di aggressività che per altri non sarebbero insulti, sono per il permaloso offese mortali. Essere offesi significa sentire che un’azione comunicativa (o non comunicativa) di qualcuno, o un’omissione (una non-azione) è un attacco alla propria immagine. Siccome l’immagine è l’insieme delle credenze valutative e non che gli altri hanno di noi, e le credenze valutative sono credenze sul nostro potere, la nostra immagine è quanto potere gli altri ci attribuiscono. Quanto più alto è il valore che noi pretendiamo abbia la nostra immagine, tanto piu grave sarà l’attacco a essa. Quindi se vogliamo mostrare agli altri che siamo persone molto importanti basta offendersi con facilità. Sussiego: opposta alla strategia del vittimismo c’è quella del sussiego, in cui M vuol far capire all’auditorio che è superiore all’avversario, ma lo fa in modo implicito. Il messaggio è “io sono talmente superiore a lui che non devo preoccuparmi di comunicarlo esplicitamente”. Si esprime con un comportamento saccente e un atteggiamento didattico verso l’avversario, gli astanti, o il pubblico. Si comporta come se gli altri fossero studenti o bambini, spiega le cose con chiarezza e gesti iconici, o gesti che comunicano serietà, certezza, come l’anello. È seduto in modo rilassato, a volte con il busto all’indietro come per comunicare “sono di un altro livello” Disinvoltura: un altro modo è mostrarsi disinvolto, a proprio agio, che comunica “sono tranquillo, non dipendo da te, non hai potere su di me.” Noncuranza: un altro modo è comportarsi come se l’altro non esistesse. Il messaggio è “tu non sei nessuno, non ti considero”. Assertività e forza tranquilla: l’assertività è un modo particolare di comunicare, pur evitando aggressività e passività, è orientata all’affermazione di sé. la persona assertiva è sicura di sé, è certa di riuscire senza aggredire l’altro, e ciò dà “forza tranquilla”. Conclusione Dovrebbe avvenire che, alla fine di un dibattito, viene considerato più forte chi ha ragione; e invece nei casi che abbiamo visto, chi si sente più forte mostra di esserlo proprio per “ottenere ragione”. Nel primo caso la ragione è il mezzo, e la forza il fine. Nel secondo, il mezzo è la forza, e il fine l’aver ragione. Capitolo 5 – Il carisma del leader Dominanti per professione. Il leader Un leader ha capacità di influenzare gli altri, perché oltre a proporre degli scopi fornisce un impulso efficace a perseguirli, rafforzando la loro motivazione e suscitando la loro fiducia (sia nella possibilità di raggiungere gli scopi proposti, sia in sé come leader); gli altri divengono suoi “seguaci”, accettando di perseguire gli scopi intermedi per realizzare quelli mèta. La capacità di essere leader è una forma di dominanza, alcuni pensano che il leader adatta la sua leadership al contesto (situazione e seguaci), altri dicono che essere leader è aspetto della personalità, forse innato. Questo è il caso del carisma. Il carisma Il concetto di carisma è stato introdotto da Max Weber (1922), definisce il carisma “qualità straordinaria” di un individuo cui si attribuiscono capacità sovraumane, che inducono gli altri a riconoscerlo come leader. Secondo Eraclito e Socrate questi rari individui hanno capacità superiori ad altri in campo fisico o mentale, prodigiosa memoria, velocità di apprendimento, mente aperta, suscitando fiducia o fede. Recentemente si è affermata una teoria che collega la leadership all’identità, secondo cui un leader carismatico è lo specchio della prototipicità di un gruppo (Haslam, Reicher, Platow, 2011). Anche persona che non è istituzionalmente un leader può avere carisma: prof, cantante, attore ec. Qualcosa dentro che traspare fuori La nostra definizione: il carisma è una serie di caratteristiche interne di una persona che, quando si manifestano esternamente attraverso tratti percepibili o comportamenti in varie modalità, suscitano alcune emozioni positive che inducono a perseguire scopi non per costrizione, ma volontariamente e con trasporto. I tratti esterni del carisma 2 modi con cui si manifesta il carisma: carisma della mente= idee creative e affascinanti, o sentimenti espressi dalle parole o azioni; carisma del corpo= aspetto fisico e la sua voce. La voce e la camminata sono carisma del corpo; idee e la musica quelle della mente; questi due tipi però possono combinarsi in un leader. Esempi: voce di Edith Piaf è manifestazione acustica del suo fascino. Le qualità del leader La nostra ipotesi è che la carismaticità possa essere descritta – e quindi misurata – in termini di un certo numero di dimensioni del carisma, e che particolari combinazioni di esse formino tipi peculiari di carisma. Il carisma è un grado estremo di capacità persuasiva (indurre gli altri a fare ciò che vogliamo senza costringerli). Le caratteristiche interne del leader carismatico corrispondono ad aspetti del discorso persuasivo (logos, ethos – benevolenza, competenza - , pathos; ma anche Dominanza); il leader deve essere buono, bravo, e forte. È proprio su queste 3 caratteristiche che si lanciano “schizzi di fango” quando si cerca di screditarlo per diminuire il problema: disonesto, corrotto, immorale; se è stupido o ignorante. Misurare il carisma La nostra ipotesi è che un leader carismatico mostri più di altri di saper utilizzare le strategie persuasive di pathos e ethos, benevolenza, competenza e dominanza. Per verificarla è stato condotto uno studio qualitativo volto a misurare il carisma di vari leader a partire dalle descrizioni dei soggetti: a partecipanti italiani e francesi (uomini e donne) è stato somministrato un questionario online che chiedeva: 1) elencare nomi di leader politici e altri personaggi noti; 2) di generare liberamente aggettivi che descrivessero le qualità di una persona carismatica, e una di non carismatica; selezionando gli aggettivi positivi e negativi se ne sono ricavati 2 elenchi; gli aggettivi di entrambi gli elenchi si possono raggruppare attorno agli aspetti di persuasività: pathos e le tre dimensioni dell’ethos: benevolenza, competenza e dominanza. In aggiunta vi era anche un’ulteriore dimensione definita “effetti di induzione emotiva” – ossia le emozioni che induce nei seguaci. Ecco le caratteristiche (che d’ora in poi consideriamo quelle interne del carisma) attribuite dai soggetti italiani e francesi: (schema a pag 100) 1) Pathos= ossia “l’intelligenza emotiva”. Ha capacità di provare emozioni, di esprimerle, e di riconoscerle negli altri mostrando empatia. Caratteristiche descritte dai soggetti sono “entusiasta, appassionato, empatico”. 2) Benevolenza= fra gli aspetti attribuiti vi sono essere “onesto, giusto, affidabile”, disinteresse e cura degli interessi altrui. Poi vi sono “socievolezza e inclusività”. Gli aggettivi: estroverso, socievole. 3) Competenza= possiede numerose abilità fisiche e mentali, “è visionario, creativo, intraprendente” ma anche “chiaro, comunicativo” 4) Dominanza= è dominatore, sfida tradizioni, provoca altri leader, non si sottomette “è attivo, dinamico, coraggioso”. 5) Induzione emotiva= il carisma induce emozioni nei seguaci che sono contagiati dal suo fare: “è attraente, affascinante, seducente” e quindi pronti a fare il suo volere. In base a questo studio è stata messa a punto una scala nominata MASCharp (Multi-dimensional Adjective-based Scale Of Charisma Perception) per valutare la percezione del carisma. Tale scala è stata usata in molti studi sulla voce carismatica. I tratti esterni del carisma. La voce carismatica Uno degli elementi di carismaticità di un leader è la sua voce. Il carisma di Bossi Per capire in quali parametri acustici di una voce si annida la sua carismaticità, si è analizzata la voce di Bossi, che ha subito un drastico cambiamento per via di un ictus, divenendo diafonica. Sono stati analizzati due suoi discorsi, uno precedente e uno successivo all’ictus, ed è stata condotta un’analisi di tre atti linguistici: un asserzione, un’incitazione, e una domanda retorica. Dal confronto di tutti e tre è risultato che la differenza fra il prima e il dopo è significativa sia per il contorno intonativo, che per le medie di F0 (l’altezza dei toni pronunciati). 42 francesi che non comprendevano l’italiano (per non esserne influenzati) hanno valutato la sua carismaticità in base alla scala MAScharp. I risultati mostrano che i 3 tipi di atto linguistico, indipendentemente appartenenti o meno a prima o dopo l’ictus, sono portatori di diversi gradi di carismaticità: l’incitazione è percepita più carismatica delle altre 6) Espressioni di affetti= Mussolini compie anche atti linguistici positivi, a volte esplicita il suo affetto per la folla che lo ascolta. In altri casi con la sua retorica sovrabbondante di aggettivi. 7) Espressione di empatia= è qualità essenziale di un leader, è espressione di Benevolenza, e il leader non deve tanto provarla intimamente quanto comunicarla. Mussolini la comunica bene, sia finta o meno. Il leader si mostra simile e vicino ai suoi seguaci nell’esternare empatia. 8) Lodi= Mussolini elogia l’uditorio. La lode è un atto di seduzione. Elogiare gli altri è come dichiarare il proprio amore (quindi far desiderare loro di ricambiare), ma soddisfa anche il loro desiderio di essere voluti bene. Questo atto seduttivo cattura l’ammirazione dei seguaci, e l’ammirazione fa desiderare di interagire con la persona ammirata, di fare ciò che vuole. È un modo per sollecitare la vicinanza dei seguaci. La creatività del Duce Un aspetto del leader carismatico è la creatività: idee innovative, visionarietà, pensiero divergente. Nella comunicazione questo si traduce in creatività linguistica. Il linguaggio di Mussolini è pieno di neologismi, figure retoriche, metafore creative (inventate da lui), ossimori (come “pace armata”), iperboli. Con il suo parlare creativo manda un metamessaggio “io sono una persona che non si piega alle convenzioni ma piega il mondo al suo volere.” In questo la sua Creatività contribuisce non solo alle dimensioni di Competenza dell’Ethos, ma anche a quella di Dominanza. Tuttavia c’è un limite a tale creatività in quanto un’eccessiva divergenza sarebbe troppo in conflitto con 2 scopi importanti della sua comunicazione carismatica: da un lato essere comprensibile dal maggior numero di persone, dall’altro mostrarsi simile a loro (per sollecitare l’identificazione con lui). Sono 2 scopi che mirano a massimizzare il consenso. Gli ingredienti del carisma di Mussolini Sulla base delle ricerche osservative e sperimentali, possiamo dire che il carisma è l’insieme delle caratteristiche interne di un leader (come una serie di “ingredienti mentali”) che vengono manifestate da aspetti del suo comportamento comunicativo. I diversi tipi di carisma (Autoritario-Minaccioso; Calmo-Benevolente; e Proattivo-Seduttivo) sono la combinazione di questi ingredienti. L’ingrediente più frequente che appare in Mussolini è la Dominanza, che traspare dal lessico forzutista, dall’incitazione, ordine, minaccia, e atti di discredito. Richieste di impegno e domande retoriche, invece, mostrano una dominanza mascherata (a livello letterale lascia libere le persone, ma poi indirettamente pone ordini). Le espressioni d’affetto portano ingredienti di Benevolenza(inclusività), mirano a indurre emozioni. Il lessico Creativo da un lato contribuisce all’immagine di Competenza e dall’altro collabora al Pathos. Conclusione Le caratteristiche interne del carisma non sono necessariamente presenti tutte allo stesso tempo e nella stessa misura in tutti i leader carismatici. Le persone e i leader hanno tipi di carisma diversi, a seconda dei loro tratti carismatici interni e degli stili di comunicazione corporea attraverso cui si manifestano. Sia Hitler che papa Francesco sono leader carismatici molto diversi. Per studiare la comunicazione di un leader carismatico bisogna dunque, a partire dai tratti idiosincratici della sua comunicazione verbale e corporea, individuare i tratti di carisma interni, e le loro combinazioni, che prevalgono in quel leader rispetto ad altri, determinando la sua “cifra” di capo carismatico. Capitolo 6 – Ingredienti e tipi di carisma Dov’è il carisma? In questo capitolo analizziamo alcuni aspetti dell’uso della voce e della gestualità nei discorsi multimodali di Mussolini, mostrando com’è possibile individuare gli ingredienti di persuasività e carismaticità nella sua comunicazione corporea., e capire come si combinano, fino a caratterizzare il suo specifico tipo di carisma. La voce di Mussolini Mussolini fa un uso retorico di vari aspetti della voce: pause, tempo, articolazione, accenti. Fa molte pause retoriche - quelle delle del Duce hanno sempre scopo comunicativo: creare suspance, aspettativa, sorpresa, o evocare l’idea di importanza o solennità. In parte usano il Pathos (suscitando curiosità), ma è anche strumento di Dominanza – la pausa costringe a prestare attenzione, e aumenta la dipendenza dell’uditorio dall’oratore. Fa anche uso dell’iperarticolazione: parla lento e scandisce le parole (in modo che l’uditorio capisca più facilmente); questa CHIAREZZA introduce la COMPETENZA, ma anche L’INCLUSIVITà: vuole essere capito da tutti. In certi casi però la lentezza assume una sfumatura di Minaccia (se ti do il tempo di capire il mio messaggio, vuol dire che la mia richiesta è perentoria e non hai scuse per fraintenderla o eluderla; in altri casi è l’accento sillabico a introdurre Minaccia e Aggressività: “vi dico che pàssèremo!” “mo” lo dice con tono ascendente, non discendente, quasi a fare promessa/minaccia sospesa. Un altro tratto fonetico i cui Mussolini segnala la sua aggressività è la sua pronuncia iperarticolata e allungata della “r”; la percezione di questa lettera così “arrotata” ricorda iconicamente il ruggito del leone, nel pronunciarla usa il fonosimbolismo per evocare, con l’energia necessaria a produrle, un’analoga energia aggressiva. Gli ingredienti del carisma Nella comunicazione multimodale di Mussolini Per analizzare quantità, qualità e combinazioni degli ingredienti carismatici nella comunicazione multimodale del duce abbiamo analizzato i primi 11 minuti del suo discorso a Napoli (tabella pag 120). Un carisma variegato L’analisi dei frammenti ha permesso di individuare 17 ingredienti carismatici che si possono raggruppare attorno alle dimensioni di Dominanza, Competenza, Pathos e Benevolenza, e che combinandosi danno luogo a 4 tipi di carisma: Autoritario-Minaccioso, Autoritario-Benevolente, Proattivo-Seduttivo, e Benevolente. La tabella (pag 123) mostra la frequenza degli ingredienti nella comunicazione multimodale di Mussolini, da cui si può individuare il peso relativo dei suoi tipi di carisma. Ingredienti degli aspetti di Dominanza, che esprimono i 2 versanti di carisma Autoritario: minaccioso; minaccioso mascherato (paternalistico) : 1) Imperiosità = postura mani sui fianchi, mento in su, busto eretto, ruotando la testa verso la folla (come per controllarla); 2) Minaccia = “r” iperarticolata e aggressiva; frasi ipotetiche in cui con il “se” pone le condizioni per abbandonare le proprie azioni aggressive; sopracciglia aggrottate, broncio; 3) Categoricità = gesto anello. 4) Valutatività = parole deontiche; l’annuire, segno di approvazione avvolte delle sue stesse parole, altre degli applausi della folla, con cui, mostrandosi giudice, mostra la propria superiorità; 5) Discredito = insulta il nemico con facce arrabbiate e sorrisi di scherno, e ne fa parodie. 6) Dominanza mascherata = domande retoriche impongono pensieri ed azioni facendo pensare alla gente di lasciarla libera, avendo così un atteggiamento paternalistico (ossia di finta benevolenza) Ingredienti che danno luogo al carisma Proattivo-Seduttivo (si possono raggruppare in 3 dimensioni: Comunicatività, Sicurezza di sé, Pathos) : Chiarezza, Certezza, Creatività sono ingredienti di Competenza, ma solo comunicativa perché non emergono, nel linguaggio verbale, elementi di ragionamento, inferenza, e pianificazione. 7) Chiarezza = appare dai gesti deittici e iconici, e dalle metafore verbali. 8) Certezza = movimenti decisi; gesti di precisione; iperarticolazione fonetica; superlativi e avverbi di certezza. 9) Creatività = neologismi morfologici; figure retoriche estemporanee. 10) Narcisismo = espresso da tutti i comportamenti comunicativi e non in cui esprime l’amore di sé stesso (sicurezza e senso della propria superiorità - in parte funzionale a esprimere Dominanza) che traspare da frasi che rassicurano i seguaci) : lunghe pause retoriche (suscitano suspance e reclamo attenzione); annuire con il capo e frasi esplicite di autoelogio; accenti enfatici e guardarsi attorno (per chiedere approvazione); 11) Ottimismo = frasi ottimistiche, posture di orgoglio e voce squillante. 12) Emotività = nei “crescendo” della voce; nella drammaticità della “mano ad artiglio”; nei gesti di afferramento. 13) Induzione emotiva = onnipresente nel suo stile retorico; nelle lunghe pause e nei contorni ascendenti che creano suspance, e nelle sfumature della sua voce che oscillano dalla violenza alla tenerezza. Ingredienti Benevolenza: 14) Lode = elogia e adula l’uditorio; annuisce alla folla per mostrare approvazione. 15) Inclusività = comunica “io sono con voi” sporgendosi dal balcone verso la folla; sorridendo alle esclamazioni della folla; ingaggiando un botta e risposta; con esplicite affermazioni di uguaglianza, o per via indiretta (con cui afferma la propria similarità e giustifica la propria empatia). 16) Empatia = espressioni verbali che menzionano le sofferenze dei seguaci; sopracciglia oblique di tristezza, voce dolce e sorriso di tenerezza. 17) Complicità = chiede e offre complicità sporgendosi dal balcone, sorridendo, e con domande retoriche. Dagli ingredienti più frequenti nel frammento analizzato (tabella pag 127) risulta che prevalgono i tipi di carisma Autoritario e Proattivo-Seduttivo; meno rappresentato è il carisma Benevolente. Conclusione Le differenze degli ingredienti carismatici (date dai valori degli ingredienti che cambiano in base alla persona analizzata) possono essere utilizzate – oltre che per analizzare il carisma – anche per indagare gli effetti dei particolari tipi di carisma su destinatari diversi. Capitolo 7 – La macchina del fango Momo, dio della Maldicenza. Gettar fango sugli altri è un metodo infallibile per far perdere il potere agli altri; se il potere è una bilancia possiamo farla pendere dalla nostra parte mettendo sul piatto i nostri talenti, oppure togliendo peso a quelli altrui. E poiché il talento è merce rara è più facile togliere peso alle capacità dell’altro che mettere in campo le proprie, magari inesistenti. Attaccare l’immagine (ethos) dell’altro, che è strumento di persuasione, significa intaccare il potere persuasivo. “Macchina del fango” termine giornalistico = discredito. Questi dati fanno pensare che un tipo di discredito possa essere più grave dell’altro; infatti uno studio ha evidenziato che quella relativa alla dominanza è un’attribuzione stabile e quindi più determinante di altre. Dominanza e discredito multimodale. Ipotesi Se dal punto di vista del politico screditato il discredito sulla sua dominanza appare in generale abbastanza determinante, una domanda sembra centrale sul diverso “gradimento” del discredito che riguarda il ricevente di tale messaggio: come un diverso orientamento alla dominanza sociale può incidere sul processo persuasivo? Se una persona ha un atteggiamento positivo verso le disuguaglianze sociali (le considera legittime), e per tanto tende a legittimare con il proprio comportamento le gerarchie sociali, come viene influenzato politicamente dalle mosse di discredito? O meglio, quale dimensione di discredito ha un maggior effetto persuasivo? L’orientamento alla dominanza sociale è un costrutto psicologico che misura il grado di adesione a una società gerarchizzata e diseguale: l’ipotesi del nostro lavoro è che il grado di tale orientamento possa incidere significativamente da un lato sul comportamento di voto, dall’altro sulla percezione del personaggio politico screditante e sulle emozioni suscitate da lui e dal suo messaggio. Disegno sperimentale e procedura Per verificare l’ipotesi abbiamo condotto lo studio con un disegno sperimentale fattoriale 3x2x2 Between- subjects a tre variabili indipendenti: tipologia di discredito (competenza/benevolenza/ dominanza), presenza/assenza di segnali corporei, e orientamento alla dominanza sociale (alto/basso). Le variabili dipendenti sono il comportamento di voto, la percezione del politico, e le emozioni provate dai partecipanti. Risultati. Gestualità e discredito Vediamo gli effetti dei vari tipi di discredito sulle intenzioni di voto, la valutazione del politico e le emozioni del partecipante. Comportamento di voto I dati relativi al comportamento di voto evidenziano la significatività dell’effetto di interazione tra i tipi di discredito e il livello di dominanza. I partecipanti con basso livello di dominanza voterebbero per un candidato che scredita il proprio avversario sulla lealtà e onestà (benevolenza), e sul suo potere. I partecipanti con alto livello di dominanza voterebbero per un candidato che scredita sulla competenza. Quest’ultimo dato è spiegabile in parte dall’orientamento anti-ugualitario presente in soggetti con alti livelli di dominanza sociale, di cui rappresenta una naturale conseguenza: se nella mia base valoriale è forte il desiderio di giustificare le disuguaglianze sociali, tenderò a premiare un leader che fa suoi i valori basati sulla competenza, che mi fornisce una spiegazione a tali disuguaglianze. Il discredito diventa lo specchio di tale base valoriale, dal momento che valutare negativamente su un aspetto il mio avversario implica che per me quel valore risulta centrale. Percezione del personaggio politico I partecipanti con bassi livelli di dominanza sociale valutano più dominante un politico che discredita sulla benevolenza, se rincarato dalla gestualità, che in questo caso diventa rinforzo che non svantaggia il persuasore. Per tali soggetti con bassa dominanza è considerato centrale la correttezza, lealtà e onestà piuttosto che la competenza (fattore importante per soggetti con alta dominanza). Emozioni dei partecipanti L’orientamento della dominanza sociale, assieme al tipo di discredito, incide in modo determinante sulle emozioni positive degli ipotetici elettori (nel senso che risultano più divertiti, attenti, ammirati nel momento in cui un politico usa la dimensione di discredito maggiormente collegata al loro orientamento valoriale; tale dato è più forte per chi ha un alto livello di dominanza quando viene usato il discredito basato sulla competenza). Dimmi come discrediti e ti dirò chi sei Sia il bersaglio del discredito che il mezzo utilizzato per veicolarlo ci sembrano da mettere in relazione con una componente valoriale, che per alcuni studiosi è addirittura un tratto stabile, rappresentata dall’orientamento alla dominanza sociale. I risultati dello studio condotto hanno dimostrato come il discredito sia una delle misure su cui viene valutato non tanto l’avversario che si sta screditando ma proprio chi discredita. È come se vi fosse un principio di coerenza sottostante al giudizio del candidato: se screditi l’avversario sulla caratteristica X, vuol dire che per te X è importante, e se X lo è anche per me allora voterò per te. Dunque il tipo di discredito rivela i valori del politico screditante, e questi sarebbero i termini di paragone per identificarsi con lui (e quindi votarlo o no). Il colore del fango che si lancia sugli avversari rispecchia i propri valori: dimmi su cosa discrediti e ti dirò chi sei. Capitolo 8 – Comunicazione cattiva Le ferite dell’odio Dai primi anni 2000 è subentrata la comunicazione cattivista (al polo opposto della “buonista” politically correct) : il linguaggio dell’odio. Le critiche attaccano il comportamento, mentre l’insulto la persona; forse è per questo che, come dice Schopenauer, l’insulto è un’arma che usa solo quando ogni altro argomento è vano: l’ultima mossa prima dell’aggressione fisica. Comunicazione aggressiva Quando siamo in conflitto con una persona (specie se pensiamo che è ingiusto, dannoso per noi) abbiamo scopi aggressivi nei suoi riguardi; tale aggressività può esprimersi anche o solo in comportamenti comunicativi, verbali o corporei. Possiamo fare male con frasi, discorsi, singole parole qua e là nel discorso, gesti, posture, sguardi. Comunicare il nostro odio, indifferenza, ferisce l’altro nella sua immagine di fronte agli altri e a sé stesso. Gli insulti fanno parte della comunicazione aggressiva ma vanno distinti da altri atti comunicativi come maledizioni, imprecazioni, brutte parole, sia per gli eventi che li scatenano e le emozioni che esprimono (quindi per il tipo di ferite che infliggono), sia per la struttura linguistica. Eventi scatenanti e conseguenti emozioni= alcune di quelle parole, frasi, verbali o corporee, sono indotte dall’odio, altre dal disprezzo o altre emozioni, per cui le intenzioni comunicative che le sottende sono diverse. Struttura linguistica= maledizioni, imprecazioni, insulti, sono atti comunicativi completi, ossia comprensivi di performativo (intenzione del parlante), e contenuto proposizionale. Le brutte parole sono singoli termini che esprimono solo una parte dell’atto comunicativo (un nome come “merda”, un aggettivo come “idiota”, un verbo come “fottiti); ciò che le accomuna è che tutte esprimono significati tabuizzati (prescrizione a non esplicitarli). Maledizioni M comunica a un bersaglio B che vuole che gli accada un evento particolarmente negativo. Si può esprimere in 2 modi: 1) Atto comunicativo imperativo con il quale M richiede a B di compiere un atto per lui stesso negativo, come: “vai all’inferno!” 2) Atto comunicativo di tipo ottativo: un’espressione di desiderio con cui M, pur rivolgendosi a B, fa appello a un’Entità terza – divinità, fato, fortuna, a cui M attribuisce il potere di far avvenire o meno eventi – affinchè faccia accadere un evento molto negativo a B: “che ti venga un colpo!” , anche “maledetto” esprime il desiderio che sia maledetto. Le maledizioni rivolte a B (ossia D) hanno significato letterale di augurare azione distruttiva a B, ma il sovrascopo è quello di comunicargli che non vuole più avere relazioni sociali con lui. Ciò che scatena la maledizione sono atti di B a danno di M. Questo danno suscita in M 3 stati mentali: 1. Emozioni di rabbia, la cui funzione è quella di salvaguardare il senso di giustizia; 2. Desiderio di vendetta, avvolte così estremo che solo un’entità può soddisfarlo. 3. L’odio, rabbia a lungo termine, con lo scopo di tagliare ogni futura relazione con B. Sovrascopo= comunicargli il rigetto e la definitiva emarginazione dalla vita di M. Imprecazioni Un’imprecazione è i un certo senso una maledizione ottativa o un insulto in cui B è oggetto inanimato, oppure un’Entità terza, che si ritiene responsabile di un evento sfortunato per M. Eventi che scatenano imprecazione= sbattere contro un mobile ec (maledici quindi il mobile, ritenuto responsabile). Si prova rabbia, non sempre per senso di ingiustizia ma per frustrazione – non odio, o senso di vendetta. Nell’imprecazione il Destinatario della richiesta che accada qualcosa di negativo a B non è B ma l’Entità terza, o entità che M considera responsabile per l’accaduto, a cui M si rivolge in modo aggressivo, insultandola. Si usano quando si è arrabbiati o sorpresi e si vuole manifestare il proprio stato d’animo con intensità ricorrendo a brutte parole. La differenza tra maledizione e imprecazione sta nel loro status comunicativo: un’imprecazione può essere anche solo espressione di emozioni (sfogare rabbia) senza volerla comunicare agli altri; nella maledizione il sovrascopo è far sapere a B che vuole tagliare ogni relazione con lui. Turpiloquio: le “brutte parole” Sono parole singole o sintagmi, non atti comunicativi completi: a) Menzionano parti del corpo o azioni connesse a funzioni fisiologiche (es sessuali) o altre aree semantiche soggette a tabù: come morte, malattia, soldi – solitamente protette da privacy. b) Sono tratte da registro sociolinguistico basso (versione popolare es “fottere” anziché “rapporti”) c) Evidenziano gli elementi degni di valutazione ed emozioni negative: (disgusto, indignazione). La stessa parola può essere usata in atti comunicativi con performativi diversi: (“dove hai messo il mio cacchio di golfino?” , “metti quel cacchio di golfino”). Una brutta parola può essere usata come un atto comunicativo completo, in questo caso funziona come interiezione (es. Merda!). Sia esso atto comunicativo completo o parte di esso ha scopo di aggiungere enfasi, ossia sorpresa e attenzione, ma piò esprimere anche rabbia e scopo aggressivi generati da vento sfortunato: in tal caso funziona come imprecazione o maledizione. L’insulto È un atto comunicativo completo prodotto da M: 1. Con intenzione cosciente di offendere; scioglie nel sollievo perché ciò che abbiamo saputo o visto non è pericoloso, e questo ci dà piacere e ci fa sentire superiori all’accaduto (o alle persone). Sorpresa e sollievo danno origine alla risata. Possiamo ridere di una persona che non è all’altezza delle nostre aspettative, rivelandosi – nell’altro – una mancanza di potere, ma è innocua perciò ci fa ridere. La ridicolizzazione È un atto di rimarcare una caratteristica di x (oggetto, evento o persona), cui si attribuisce valutazione negativa di mancanza di potere (non di dannosità, cioè potere negativo); l’impotenza è tanto più grave quanto più x ha pretese di superiorità, il contrasto tra pretesa e impotenza provoca nell’osservatore una violazione di aspettativa che però non appare minacciosa ma suscita il riso. È un atto che mira a screditare x, e può avere come effetto (e quindi anche come scopo) un senso di sollievo e superiorità di chi ridicolizza x. È atto comunicativo sociale compiuto di fronte agli altri e diretto a loro oltre che a x: 1. M di fronte a P (pubblico) rimarca caratteristica di V (vittima), valutazione negativa di mancanza potere in contrasto con pretese superiorità di V, ma non minacciosa per P e M, suscitando risata; 2. M sollecita P a ridere di V; se ridono insieme gli effetti (e scopi coscienti) sono che: 3. M e P si sentono superiori a V 4. Si rafforza il legame fra M e P, sia per emozione positiva della risata che per comune superiorità a V, che li fa sentire simili fra loro, mentre V è visto come diverso, questo sa loro senso di alleanza e complicità; 5. V sente attaccata la sua immagine e autoimmagine, prova vergogna e si sente diversa, emarginata. La ridicolizzazione svolge funzione di “aggressione moralistica”: l’attacco all’immagine di V, ridimensionandola, la punisce, prevenendo nuove violazioni e inducendo conformità alle norme del gruppo. Per questo è frequente nei gruppi di adolescenti, nella satira, e politica: è modo di erodere il potere. L’ironia È atto comunicativo retorico, in cui cioè il significato letterale è diverso dall’indiretto (quello realmente inteso da M) che può essere colto solo per inferenza. È in questo senso che l’ironia è figura retorica, cioè, secondo il nostro modello, è un caso di ”recitazione”, ossia inganno rivelato: M comunica qualcosa che non è vero ma vuole che D capisca che non lo è. Può riguardare evento, oggetto o persona, D, terza persona, o anche M (nell’autoironia); M comunica significato x ma in realtà vuole comunicare y, che è contrastante o opposto a x (quando è il contrario si parla di ironia “antifrastica”). Spesso significato diretto e indiretto contiene valutazione (es. se quello letterale è positivo, quello indiretto è negativo). Si può fare ironia anche con messaggi non verbali, ad es gesto o sguardo (se mi dici cosa che sapevo già posso sgranare gli occhi per recitare ironicamente). L’ironia ha l’effetto, e spesso scopo, di suscitare la risata (dice il contrario, viola l’aspettativa di D e quindi per sua natura può far ridere). L’ironia talvolta ha finalità di sdrammatizzare, altre di ridicolizzare. Per comprendere l’ironia: D deve capire che l’atto è ironico (non deve essere interpretato letteralmente); la comprensione del significato inteso (indiretto). Capire che sei ironico Non sempre chi fa ironia vuol far capire che il suo è atto ironico (ironia che faccio solo per me stesso). Quando vogliamo farlo sapere produciamo, prima, dopo o contemporaneamente un “allertamento all’ironia” (segnale per D per capire che è ironia – no interpretazione letterale) , e può essere: -metacomunicativo = è segnale specifico, verbale o corporeo che ha come oggetto l’atto ironico: frasi come “sto scherzando” , o segnali facciali come il sorriso ironico. -paracomunicativo = non comunica sull’atto comunicativo, ma accanto ad esso, comunicando qualcosa di contraddittorio rispetto a quanto espresso ironicamente: certe volte basta che l’atto ironico sia prodotto in presenza di evento che “parla dasolo” (sei bagnato dalla pioggia e dici all’amico “bella giornata vero?”). In altri casi bastano segnali gestuali, facciali, prosodici, subito dopo o durante l’atto, che lo contraddice (pronunciare espressione d’entusiasmo con voce annoiata). L’esagerazione è una delle strategie di allertamento precomunicativo più usata. Ridere dell’altro nei dibattiti Ironia verbale In certi casi M non fa uso esplicitamente del riso o sorriso, ma cerca di suscitarlo in P (pubblico), ad es con l’ironia, magari condita da altre figure retoriche complesse e creative, atte alla violazione di aspettative. Complimento ironico di tipo sarcastico (lodare per criticare) = valutazione apparentemente ammirativa che in realtà è una stroncatura, espressa dal paradosso del ridicolo. Faccia seria, la Blank face = faccia innaturalmente e ostentamente inespressiva che è spesso usata per allertare all’ironia. L’intento ironico può essere comunicato dalla blank face quando viene usata, è quindi metacomunicato dalla blank face, ma anche paracomunicato dall’accostamento imprevedibile fra cose, situazioni, persone che fanno capire che si tratta di ironia (“lei se la cava con la statistica come Mike Tyson con il pattinaggio artistico). Ridere soltanto Permettersi di ridere in un contesto in cui si dovrebbe mostrare cortesia e rispetto, è di per sé ridicolizzazione. Altre volte basta un sorriso di sufficienza. Ma anche stringere le labbra o socchiuderle per non ridere rimarca la ridicolizzazione. Mossa astuta: Se ridi insieme al ridicolizzatore e al pubblico non vieni tagliato fuori dal gruppo, anzi ne fai parte, ed è come se non parlassero di te, così eviti il danneggiamento del tuo potere. Imitazione e Parodia Ridicolizzare avvolte può essere manifestato dall’esagerazione e imitazione parodistica. L’esagerazione è tipico segnale paracomunicativo di preallertamento dell’ironia. In certi casi il segnale è l’imitazione esagerata (parodia) dell’altro. La parodia è imitazione distorta, spesso tramite esagerazione di ciò che si vuole ridicolizzare. Gli scopi del processo Dagli albori della retorica, gli autori classici ne distinguono 3 generi: retorica epidittica (basata su lode e biasimo, finalizzata a celebrare o esecrare persone, eventi, cose), deliberativa (tipica del dibattito politico,v mira a stabilire le decisioni migliori da prendere), e giudiziaria (amministrare la giustizia). Il dibattito in tribunale è situazione comunicativa con fini persuasivi, lo scopo finale dei giudici è decidere se assolvere o condannare l’imputato; il sottoscopo è “accertare la verità processuale”. Pag 197 (esempio 8 del lapsus, in cui il sorriso ha lo scopo di far trapelare la verità). Capitolo 10 – La parodia Il potere della satira I tragici eventi di “Charlie Hebdo” dimostrano quanto gravi siano gli effetti della ridicolizzazione, e quanta aggressività vi possa essere nel deridere i valori di un gruppo. Ridere degli altri non solo li umilia, ma erode il loro potere e non ce ne fa avere paura. Il riso ha funzione di critica morale e politica che si esprime nella satira, caricatura e parodia. Che cos’è la parodia? È atto comunicativo verbale o multimodale (un discorso, canzone, poesia, film) che produce un’imitazione distorta di alcuni tratti o comportamenti di x, volta ad evidenziarne i difetti fino al riso. Fare parodia di qualcuno/qualcosa= lo imitiamo in modo esagerato e buffonesco, distorto. Quale sia lo scopo e il sovrascopo non è sempre chiaro: posso rendere evidente quanto c’è di ridicolo in un comportamento per criticare la persona (come nel bullismo), o posso farlo per fini educativi (per correggere il comportamento, es insegnante che distorce pronuncia). Questa “aggressione moralistica” (ridicolizzare per additare x al pubblico rigetto e così riaffermare la norma) è anche scopo della satira di costume e parodie politiche. Nella parodia il Parodista (P) imita V in modo distorto, per questo P deve individuare i tratti caratterizzanti dei tratti fisici e caratteriali di V, e imitarli esagerando, o introducendo variazioni sottili tali da farli apparire ridicoli. Il tratto esibito – simile ma non identico - riesce ad evocare quelli di V grazie all’allusione (che significa far capire all’altro che ci riferiamo a cosa x senza dirlo esplicitamente, e che vogliamo che lui capisca a cosa ci riferiamo, basandoci sulle nostre conoscenze condivise). In ogni imitazione è presente quota di allusione. D, per capire a cosa fa riferimento M, deve condividere con lui conoscenze. L’imitazione richiede una cultura, una serie di conoscenze condivise fra P e D (ciò vale anche per l’humor). Per questo imitazione e parodia non possono essere comprese appieno in culture diverse. Nell’allusione sia verbale che corporea P non può menzionare il referente in modo chiaro ma vi può far riferimento lanciando indizi, una sorta di “parole chiave” che permettono a D di cogliere l’allusione. La parodia è atto di discredito tramite ridicolizzazione, in cui individuiamo: 1. Somiglianza con la Vittima 2. Allusione 3. Distorsione della somiglianza, finalizzata a esagerare aspetti ridicoli di V e suscitare riso. 4. Induzione inferenziale di valutazioni negative degli aspetti ridicoli evidenziati, che nel giudizio del politico Vittima possono riguardare uno o più criteri di valutazione: benevolenza, competenza, dominanza. Parodia superficiale e profonda Imitazione profonda= il Parodista individua un aspetto ridicolo “sotterraneo” di V, un tratto profondo della sua personalità, o addirittura la sua “essenza” nascosta (essenza esagerata e surreale), e imita i tratti o comportamenti in cui si potrebbe manifestare. Vi sono 2 modi di distorcere l’imitazione di V: distorcerne l’apparenza esterna, o l’essenza sottostante; sono 2 diversi tipi di parodia = una “superficiale” (dove si evidenziano difetti fisici o difetti nel modo di parlare) l’altra “profonda” (mette in evidenza la personalità). Come si fa una parodia? a) Individuare un difetto del Bersaglio da ridicolizzare. Il P deve selezionare difetti di B che permettano di ridicolizzarlo riguardo ai criteri di valutazione: benevolenza, competenza, dominanza. b) Comunicare l’identità di B, si può fare imitando il suo modo di vestire, i tratti morfologici, il comportamento multimodale. c) Comunicare l’evento che ne ha fatto emergere il difetto essenziale, per farlo avvolte basta la scenografia. d) Comunicare lo specifico difetto. Nella parodia superficiale è sufficiente imitare tratto morfologico (spesso difetto fisico); ma per i difetti morali è necessaria la ricategorizzazione, e questa si può