Scarica Riassunto libro psicologia sociale edizione 4 Myers e Twenge e più Sintesi del corso in PDF di Psicologia Sociale solo su Docsity! Riassunto libro psicologia sociale Capitolo 1 Che cos’è la psicologia sociale? Interazione e relazione Ci sono diverse teorie che definiscono in maniera differente i concetti di relazione e interazione e studiano la relazione tra essi. Secondo la teoria interazionista questi due concetti sono strettamente connessi, dall’interazione dipende la relazione e viceversa. Invece l’approccio relazionale-simbolico distingue nettamente relazione e interazione, definendo l’interazione in un gruppo come lo scambio sociale che avviene tra i suoi membri “qui e ora”, dunque l’interazione è alla base della relazione che invece è definita come un legame che precede l’interazione e che viene mantenuto nel tempo, inoltre essa non può essere osservata direttamente come l’interazione ma solo inferita. La relazione dunque è un legame che connette tra loro i membri di un gruppo e che si dispiega nel tempo. La psicologia sociale studia la relazione tra un individuo e il contesto sociale in cui si trova. Infatti noi siamo continuamente in una situazione sociale e ci relazioniamo con gli altri individui in quanto siamo esseri sociali. Lo scopo della psicologia sociale è proprio quello di analizzare le nostre interazioni sociali nella vita quotidiana e i fenomeni che ne derivano quali atteggiamenti, pregiudizi, persuasione, influenza degli altri su di noi eccetera. Più dettagliatamente, la psicologia sociale è lo studio scientifico del modo in cui le persone e i gruppi percepiscono, influenzano e si relazionano agli altri. Studia l’intersoggettività ovvero la relazione tra persone, gruppi e tra l’individuo e il contesto sociale. In particolare , la psicologia sociale si occupa di rispondere a 3 domande: -Quanto di ciò di cui facciamo esperienza è contenuto nella nostra mente? Infatti nella nostra vita quotidiana ciò che osserviamo e il modo in cui ci relazioniamo agli altri sono influenzati da ciò che percepiamo nella nostra mente, per esempio una persona con un matrimonio felice attribuirà una brutta risposta del partner a una causa esterna (giornata stressante) mentre una con un matrimonio infelice la attribuirà a una causa interna (è sempre ostile) generando così altra ostilità con comportamenti di rabbia. -Le persone possono essere crudeli se viene ordinato loro di esserlo? Basta pensare al genocidio degli ebrei e a come migliaia di uomini abbiano obbedito al governo antisemita uccidendo milioni di ebrei trasportandoli nelle docce a gas -Quanto siamo disposti ad aiutare gli altri e quanto invece “aiutiamo” solo noi stessi? Un esempio di questo lo si vede in una situazione accaduta un giorno a New York nella quale un uomo fece cadere dal suo furgoncino banconote per il valore di circa due milioni di dollari. Così alcuni passanti si fermarono per aiutarlo a recuperare i soldi restituendogli circa 100 000 dollari ma la maggior parte dei passanti tenne i soldi per sé per un totale di circa 1 900 000 dollari. Tutte queste domande sono strettamente legate alla questione che è alla base della psicologia sociale: come percepiamo gli altri e come ci relazioniamo ad essi. Noi costruiamo la nostra realtà Tutti noi abbiamo il costante bisogno di interpretare i comportamenti degli altri secondo le nostre credenze e i nostri valori, in modo da renderli ordinati, controllabili e predicibili. Un esempio di questo lo vediamo quando due psicologi sociali fecero vedere un video di una partita di baseball molto turbolenta e con azioni violente tra la squadra del Dartmouth college i cui giocatori furono quelli più violenti che commisero la maggior parte dei falli e danni agli altri giocatori e quella dellaa Princeton University a un gruppo di studenti prima dell’una e poi dell’altra scuola due mesi dopo la partita. Dalle risposte degli studenti alle domande degli psicologi sembrava che essi avessero visto due filmati totalmente differenti, in quanto quelli del Dartmouth college sostennero che le azioni violente dei loro giocatori erano dovute ad attacchi da parte dei giocatori dell’altra squadra così come quelli della Princeton university sostenevano che i propri giocatori si erano solamente difesi dalle violenze della squadra avversaria contrattaccando. Questo dimostra che sebbene esista una realtà oggettiva noi la interpretiamo secondo le nostre credenze, in quanto siamo tutti osservatori e “scienziati ingenui”. Risulta inoltre importante anche le credenze e il modo in cui percepiamo noi stessi in quanto questo influenza le nostre azioni e i nostri valori. Quindi noi costruiamo la realtà sulla base di come percepiamo il mondo, gli altri e noi stessi, costruiamo cioè una “nostra” realtà. Le nostre intuizioni sono spesso potenti ma talvolta pericolose fondata sulle nostre aspettative e sui nostri valori. Una realtà vista da noi come oggettiva può in realtà essere solamente frutto di credenze condivise, Moscovici parla infatti di rappresentazioni sociali ovvero di interpretazioni della realtà secondo determinate credenze condivise di cui non siamo consapevoli. Inoltre gli scienziati come noi sono influenzati anche dalla cultura, ovvero dall’insieme di leggi, valori e credenze tramandate di generazione in generazione. E’ inevitabile quindi che anche gli psicologi sociali non siano esenti dalla tendenza ad interpretare la realtà secondo le proprie credenze e i propri valori. L’unico modo usato da tutte le discipline scientifiche per far s’ che ciò non accada o comunque che accada il meno possibile è quello di rendere sempre più accurata e oggettiva la ricerca tramite congegni, esperimenti e strumenti sempre più precisi che rivelino l’eventuale presenza di bias cognitivi e la presenza di interpretazioni soggettive in modo da tenerle sotto controllo. Dunque l’osservazione sistematica, la sperimentazione eccetera ci aiutano a osservare la realtà in maniera il più possibile oggettiva. Lo so da sempre: la psicologia sociale è semplice senso comune? Spesso si potrebbe pensare che i risultati rilevati dalla psicologia sociale siano “ovvi”, infatti due tra le critiche maggiormente rivolte alla psicologia sociale sono: 1)la psicologia sociale è banale perché studia e analizza eventi ovvi 2) la psicologia sociale è pericolosa perché può manipolare la mente delle persone. Chiaramente due critiche decisamente in contraddizione tra loro. Dunque, chiaramente la psicologia sociale non è semplice senso comune spiegato con parole accademiche; ma il fatto è che spesso noi commettiamo un errore sistematico, ovvero quello di credere di sapere già qualcosa solo dopo che questa ci viene detta o spiegata, errore definito “bias della retrospezione” o errore del “lo-so- da-sempre”, cioè tendiamo a giudicare ovvio qualcosa solo dopo che ne siamo venuti a conoscenza e sopravvalutiamo la nostra capacità di predizione degli eventi; quando qualcosa accade molte persone sono pronte a dire di sapere che essa sarebbe accaduta solo dopo l’evento. Per esempio, se viene detto a un gruppo di persone che dei ricercatori scientifici hanno rilevato che gli individui sono attratti da persone con caratteristiche differenti dalle nostre e che quindi si possa considerare valido il detto “gli opposti si attraggono” e ad un altro gruppo di persone si dice invece che i ricercatori hanno rivelato che siamo attratti da persone con caratteristiche uguali alle nostre e che quindi è valido il detto “chi si somiglia si piglia” le persone di entrambi i gruppi riterranno parimenti ragionevoli l’uno e l’altro detto e nel momento in cui viene chiesto loro se ne siano sorpresi risponderanno tutti di no, dando una spiegazione. Il bias della retrospezione può avere conseguenze nefaste, per esempio gli studenti di psicologia sociale possono considerare “ovvi” determinati studi della disciplina ma trovarsi poi notevolmente in difficoltà all’esame. Sopravvalutare la propria capacità di predizione degli eventi può portare a compiere scelte sbagliate e mettere in atto azioni sfavorevoli, si pensi per esempio al fatto che prima dell’11 settembre la CIA sapeva che terroristi dell’Al Queida fossero entrati negli stati uniti e l’FBI sapeva che alcuni avevano preso lezione di aviazione, ma questi dati non sono stati presi in considerazione. Capitolo 2 Teoria e ipotesi di ricerca: il punto di partenza La psicologia sociale ha elaborato e verificato numerose teorie su ciò che accade intorno a noi. Le scoperte della psicologia sociale sono infatti raggruppati in teorie, ovvero principi che spiegano e predicono un evento osservato. Mentre nella realtà teorie (astrazioni) e fatti (realtà) sono disgiunti nella ricerca scientifica le teorie sono verificate dai fatti (risultati). La ricerca scientifica consiste nel processo di verifica delle teorie, che possono essere o verificate e confermate e dunque pubblicate oppure non verificate e in questo caso quindi si procede verso altre vie. Questo processo è detto ciclo della ricerca che parte dalle risposte trovate dal ricercatore alle domande che hanno messo in moto la ricerca e da cui derivano altre domande. Le teorie sintetizzato i fatti tramite costrutti, ovvero concetti astratti non verificabili direttamente, ma resi verificabili tramite le variabili. Una buona teoria sintetizza un buon numero di osservazioni, formula chiare ipotesi che possono essere utilizzate per: -verificare o modificare la teoria - generare nuove vie d’indagine -suggerire determinate implicazioni pratiche. Le teorie non solo sintetizzano ma portano anche alla formulazione di ipotesi chiare e verificabili le quali possono servire per: -verificare una teoria indicando come si potrebbe falsificarla -indicare la direzione della ricerca e talvolta considerare eventi e fattori che altrimenti non si sarebbero considerati -dare indicazioni applicative Un esempio di questo ciclo della ricerca può essere quello che parte dall’osservazione del fatto che la maggior parte delle azioni deplorevoli, saccheggi, incendi dolosi, razzie, furti vengano fatte in gruppo. Dunque, da qui si potrebbe ipotizzare che il gruppo rende l’individuo “anonimo” eliminando determinate inibizioni e spingendolo a compiere azioni che da solo non compirebbe. Per verificare questa ipotesi si potrebbe dunque realizzare un esperimento con un gruppo di persone nel quale esse devono dare delle scariche elettriche a una persona quando viene loro ordinato e si potrebbe realizzare quest’esperimento in due divere condizioni: nella prima nel luogo dove si trova l’interruttore che dà la scossa c’è un gran numero di persone e si dice a questo gruppo che la scossa alla vittima verrà data da una sola persona, mentre nella seconda condizione i soggetti vengono chiamati uno ad uno nella stanza per dare le scosse elettriche; l’ipotesi e dunque la nostra teoria sarebbe verificata se le persone dessero più facilmente le scariche elettriche nella prima situazione piuttosto che nella seconda. Inoltre, una teoria viene scartata non solo quando non ne vengono verificate le ipotesi ma anche quando ci sono teorie che spiegano in maniera migliore i fenomeni osservati. La ricerca scientifica dunque si basa principalmente sulla falsificazione delle ipotesi tramite un disegno sperimentale o di ricerca. Validità della ricerca Una ricerca è valida nel momento in cui il ricercatore è sufficientemente certo delle conclusioni a cui giunge e quando sono dunque verificati diversi tipi di validità. Una di queste è la validità del costrutto ovvero se il costrutto della teoria che si voleva verificare sia stato effettivamente misurato correttamente, poi abbiamo la validità interna ovvero se siano state considerate o meno tutte le possibili variabili che possono incorrere tra i fattori della ricerca, infine la validità esterna consiste nel poter generalizzare i risultati della ricerca a tutti gli individui e non solo a un particolare gruppo o ai soggetti dello studio. Per esempio, possiamo osservare questi dell’esperimento) e la validità esterna (se i risultati si possono generalizzare a un gruppo di persone più ampio con le stesse caratteristiche). Per esempio, Darley e Batson teorizzarono che oltre alle disposizioni interne anche fattori situazionali (tempo in questo caso) influiscono sulla volontà di aiutare o meno i bisognosi e per verificare questa teoria realizzarono un esperimento in cui individuarono un gruppo di studenti dell’università di teologia e fecero ascoltare loro la parabola del buon samaritano dal vangelo nella quale viene detto molto chiaramente che bisogna sempre aiutare tempestivamente chi ha bisogno. Dopo di chè veniva detto loro che doveva andare a parlare di questa parabola facendosi registrare in un’altra sede dell’università; in particolare ad alcuni di loro veniva detto che dovevano sbrigarsi perché erano già in ritardo e la registrazione sarebbe iniziata presto, ad altri invece venne detto che potevano fare con calma perché c’era ancora tempo prima che iniziasse la registrazione. All’entrata dell’altra sede si trovava un complice degli sperimentatori che chiedeva aiuto. I risultati dimostrarono che i ragazzi sotto pressione temporale erano meno inclini ad aiutare il bisognoso. Dunque, per verificare se questa ricerca è valida gli sperimentatori si sono chiesti se avessero misurato nel modo giusto il fenomeno psicologico osservato e quindi il costrutto (validità di costrutto), se ci fossero altre variabili oltre al fattore tempo che potessero influenzare la ricerca (validità interna) e se i risultati potessero essere generalizzati a tutte le persone che vanno di fretta o solo agli studenti di teologia (validità esterna). I ricercatori per praticare una valida ricerca devono tenere un certo controllo, ovvero qualsiasi azione atta a tenere sotto controllo i fattori che possono minacciare la validità dell’esperimento. Questo in psicologia sociale risulta certamente ancor più difficile, tuttavia i ricercatori, consapevoli del fatto che sia impossibile avere un controllo totale, spesso fanno sì che venga ricreato il fenomeno psicologico che vogliono studiare in una situazione di laboratorio sotto il loro controllo. Per esempio, nell’esperimento appena visto Darley e Batson hanno ricreato due fattori: il bisognoso (complice degli sperimentatori) e la pressione temporale. Le domande del ricercatore ovvero le finalità della ricerca I ricercatori quando compiono un esperimento possono cercare risposte a diverse domande e dunque perseguire diverse finalità. Essi possono avere come finalità quella di descrivere un evento osservato oppure pervederlo o ancora spiegarlo. CI sono ricerche che perseguono più finalità. Le ricerche che predicono o spiegano un evento sono dette rispettivamente correlazionali e sperimentali. Le ricerche correlazionali si occupano appunto di trovare una correlazione tra i vari fattori della ricerca, per esempio se abbiamo due fattori X e Y ci possono essere tre tipi di correlazione tra questi: X causa Y oppure Y causa X o ancora Y e Z sono entrambe collegate e causate da un terzo fattore, Z (per esempio status socioeconomico, intelligenza eccetera). Inoltre spesso si commette l’errore di considerare sempre correlazioni di causa ma spesso intervengono anche altri fattori. Per esempio, consideriamo il fenomeno per cui si è osservato che un’alta autostima predice generalmente un successo scolastico. Si potrebbero fare varie ipotesi: Il successo scolastico porta a (causa) un alto livello di autostima Un’alta autostima porta al successo scolastico Interviene un terzo fattore (status socio economico, intelligenza) che influisce sia sull’autostima che sul successo scolastico. Per spiegare questo fenomeno è stato compiuto un esperimento e si è osservato che controllando le variabili status socioeconomico e intelligenza la correlazione tra successo scolastico e autostima spariva. Quindi ci possono essere moltissimi fattori che intervengono in una correlazione. Le ricerche correlazionali hanno il vantaggio di indagare il legame tra le variabili nel mondo reale (sul campo) e di considerare variabili quali il genere, l’età e lo status sociale che non possono essere manipolate dagli autori. Ma hanno anche lo svantaggio di non considerare e non poter controllare le numerose variabili che possono intervenire in una correlazione. La ricerca sperimentale: indagare la causa e l’effetto La ricerca sperimentale si occupa di indagare cause ed effetto di un determinato fenomeno osservato. E’ un tipo di ricerca che ha come finalità quella di spiegare il fenomeno. Questo tipo di ricerca viene svolta prevalentemente in situazioni di laboratorio, in modo da poter manipolare una variabile che costituisce generalmente la causa (variabile indipendente) producendo così determinati effetti sulla variabile dipendente. Poiché per gli psicologi sociali è più difficile controllare le possibili variabili intervenienti in quanto studiano le relazioni tra gli uomini, allora essi tendono maggiormente ad affrontare questo tipo di ricerche ricostruendo il fenomeno da studiare in condizioni che permettano di manipolare una o più variabili. Un esempio è l’esperimento di Pierro del 2005 che immaginò una situazione in cui arrivava a degli studenti di un’università il messaggio di un nuovo esame introdotto quello stesso anno, un esame generale su tutto il programma. Pierro voleva studiare quanto fosse efficace e credibile il messaggio a seconda di chi lo mandava (professore esperto di curricula formativi universitari o professore di educazione fisica) e anche quanto conta la pregnanza di un messaggio. Dunque, per farlo divise gli studenti in due gruppi, uno a cui il messaggio arrivò dal professore di educazione fisica e l’altro dal professore esperto di curricula formativi manipolando quindi questa variabile indipendente; in questo modo verificò che effettivamente noi diamo più retta e consideriamo più credibile un messaggio che ci arriva da una persona capace ed esperta. Dunque, per fare questo esperimento Pierro ha utilizzato una tecnica che si usa spesso nella ricerca sperimentale ovvero quella dell’assegnazione casuale cioè ha assegnato gli individui ai due gruppi diversi in modo del tutto causale ed equo, in modo da poter tenere sotto controllo tutte le possibili variabili intervenienti. L’assegnazione casuale quindi permette di creare un gruppo di controllo e un gruppo sperimentale in cui non ci siano particolari differenze né di status né di qualsiasi altro fattore cosicchè l’esperimento risulti del tutto equo e gli effetti siano basati solamente sulla manipolazione della variabile indipendente. Disegni correlazionali e sperimentali sul pregiudizio verso gli obesi Le persone obese vengono spesso considerate come pigre, trascurate e inaffidabili. Per cercare di capire se questi pregiudizi possono sortire una discriminazione verso questo gruppo di persone nel 1993 Gortmaker fece una ricerca correlazionale facendo compilare un questionario a delle donne obese per verificare il loro status sociale ed economico e poi richiamò queste stesse donne qualche anno dopo verificando che la maggior parte di loro era ancora obesa, avevano uno scarso guadagno e la maggior parte non era sposata. Dopodichè egli confrontò questi risultati con 5000 donne non obese. I risultati di questa ricerca correlazionale mostrano una correlazione tra obesità e status socio-economico. Per verificare il possibile intervento di altre variabili un po’ di anni dopo Snyder e Julie Haugen fecero una ricerca sperimentale in cui chiesero a un gruppo di studenti maschi di parlare al telefono con delle ragazze, prima di farli parlare con esse però mostrarono loro delle foto, in particolare a metà di loro mostravano foto di ragazze obese e quanto bisogna scegliere in che modo, chi, come e che cosa osservare. L’osservazione può essere compiuta sia sul campo che in laboratorio, cioè per esempio si può osservare un marito e una moglie discutere in un’agenzia di viaggi per una vacanza oppure osservare la stessa cosa in laboratorio tramite una lente bifocale. L’osservatore può essere esterno o partecipante, quello esterno cerca di non fare alcuna intrusione nell’osservazione e di seguire solamente il susseguirsi degli eventi senza mai intervenire mentre quello partecipante prende parte all’osservazione manipolando per esempio diverse variabili o facendo determinati interventi durante l’osservazione. Anche il come e il che cosa osservare sono abbastanza complessi perché bisogna scegliere il numero di sedute, il tempo di osservazione sia complessivo che di una seduta e se l’osservazione viene compiuta continuamente o a intervalli. Per esempio, nell’osservare come reagisce un bambino all’allontanamento dai genitori nell’andare all’asilo, si può decidere di osservare il fenomeno complessivamente per una settimana ma anche se farlo solo il primo e l’ultimo o giorno oppure per più giorni, secondo determinati intervalli o continuamente. Per quanto riguarda il che cosa osservare, esso determina la categoria o le categorie da osservare nei soggetti dell’esperimento. L’intervista Essa è un altro metodo di sperimentazione nel quale si pone l’attenzione sulla relazione tra intervistatore e intervistato per rilevare le opinioni e gli atteggiamenti di quest’ultimo. Essa può essere aperta oppure semi-strutturata o strutturata. La prima è molto più libera in quanto l’intervistato può parlare liberamente e dire tutto quello che pensa riguardo al determinato argomento richiesto, tuttavia l’intervistatore può ovviamente porre l’enfasi su alcune questioni e tornare indietro durante l’intervista per porre maggiormente l’attenzione e approfondire qualcosa che l’intervistato ha detto. L’intervista semi-strutturata e quella strutturata invece hanno domande prestabilite dal ricercatore che quindi ha un maggior ancoraggio e una maggiore standardizzazione delle domande, specialmente nel caso dell’intervista totalmente strutturata. Infatti le risposte degli intervistati con l’intervista semi strutturata o struttura presentano generalmente molto più similiarità di quelle degli intervistati con l’intervista aperta, cioè sarà più facile in questo caso codificare le risposte in categorie simili. Il questionario Esso è sicuramente il metodo di ricerca più prestabilito tra tutti in quanto le domande sono uguali per tutti, dunque standardizzate e anche le risposte possono essere aperte (il soggetto risponde liberamente con parole proprie) o codificate e quindi in quest’ultimo caso anche le risposte risultano standardizzate. La maggiore difficoltà per lo sperimentatore in questo caso risiede proprio nella standardizzazione delle domande in quanto deve fare in modo che esse non siano per niente ambigue e siano semplici e comprensibili per tutti. Infatti una sola parola diversa può cambiare profondamente il significato che i soggetti sperimentali danno a una domanda, per esempio nonostante proibire e non permettere vogliano dire bene o male la stessa cosa, in una ricerca con un gruppo di americani il 54% disse che il governo doveva “proibire” i discorsi contro la democrazia, mentre il 75% disse che doveva “non permetterli”. Quindi bisogna che i ricercatori stiano molto attenti la fatto che il questionario non presenti alcuna ambiguità; per fare questo devono evitare doppie negazioni, parole molto complesse e anche non porre più di una domanda alla volta. Per esempio, quando venne chiesto in un questionario a degli studenti universitari se avessero preferito un lavoro autonomo o da dipendente, molti di loro non interpretarono il termine “autonomo” come lo aveva interpretato il ricercatore ovvero in termini contrattuali ma lo interpretarono in termini di organizzazione del lavoro. Inoltre le risposte codificate alle domande di un questionario possono essere di vario tipo: dicotomiche (esempio “vero” o “falso”), unipolari (ovvero cambiare gradualmente di intensità ma sempre in un’unica direzione, da “per niente frequente” a “molto frequente” oppure anche bipolari (ovvero che prevedano risposte che passano da un estremo all’altro, con in mezzo una risposta neutra esempio da “poco” a “tanto” con in mezzo “né poco né tanto”). Poiché ognuno di questi 3 metodi presenta dei vantaggi e degli svantaggi e ognuno permette di ricavare vari tipi di risposta, allora molti ricercatori fanno anche ricerche “mixed methods” ovvero integrando più strumenti di ricerca”. Un’altra variabile a cui bisogna che il ricercatore faccia attenzione usando i questionari è quello della desiderabilità sociale, ovvero fare in modo che il soggetto non risponda cercando di dare una buona impressione al ricercatore, per esempio cercando nelle sue risposte di non passare come “razzista”. Quando la profezia fallisce Un fatto strano accadde a Lake City nel 1954, quando su un giornale apparve la notizia che un’inondazione avrebbe presto colpito il pianeta; il messaggio era arrivato dalla signora Keech, la quale aveva tradotto dei messaggi dal pianeta clarion da esseri superiori che cercavano di avvisare gli esseri umani di questa imminente tragedia. Un gruppo di ricercatori sulle relazioni sociali dell’università del Minnesota decise di fare una ricerca su questo fenomeno della profezia che non si è ancora avverata, e per questo motivo contattarono la signora Keech chiedendo il permesso di partecipare al gruppo di adepti che la affiancava; ricevuto il consenso alcuni di essi si trasferirono a Lake City e parteciparono alle sedute di questo gruppo, in qualità di osservatori partecipanti. Ovviamente nel frattempo fornivano tutti i risultati delle osservazioni all’università del minnesota. In particolare ciò che volevano studiare era quello che sarebbe accaduto quando la profezia si sarebbe rivelata falsa. Quando ciò accadde i ricercatori osservarono che alcune persone di questo gruppo erano arrivate addirittura a vendere le proprie case e licenziarsi dal lavoro per attendere insieme la tragedia. Ma la cosa più sorprendente fu che questo gruppo non si sciolse dopo che la profezia non si avverò, ma anzi la signora Keech sostenne che la profezia non si era avverata grazie alle preghiere del gruppo e perciò il gruppo rimase unito e continuò a fare queste sedute. Questi risultati confluirono poi nelle ricerche di Festinger sulla dissonanza cognitiva. La relazione tra ricercatore e partecipante Come abbiamo già detto, un ricercatore deve far sì che i risultati sperimentali siano il più possibile neutri e dunque che non siano influenzati da una qualsiasi variabile non prevista, una tra le variabili che devono essere tenute sotto controllo è sicuramente la relazione tra ricercatore e soggetto sperimentale in quanto quest’ultimo potrebbe facilmente farsi influenzare dall’autorità del ricercatore (basta pensare al fatto che alcune persone sono disposte a dare scosse elettriche ad altre persone se un’autorità glielo ordina) oppure a voler fare bella impressione sul ricercatore. Per questo motivo i ricercatori scientifici utilizzano spesso la tecnica del confederato, ovvero un complice dello sperimentatore che non fa direttamente parte della progettazione della ricerca, ma è un complice a cui viene assegnato un ruolo dai ricercatori in modo da creare “il gioco della ricerca”, cioè interpreta un ruolo che può essere per esempio il bisognoso, un medico, un aiutante eccetera. A questo punto quindi entra in gioco anche la relazione tra confederato e soggetto sperimentale nella ricerca. Il bisognoso nella ricerca scientifica sull’influenza della parabola del buon samaritano sugli studenti di teologia è un esempio di confederato in quanto interpretato da un complice degli sperimentatori. Inoltre spesso i ricercatori ingannano e dicono bugie ai soggetti sperimentali per impedire loro di comportarsi in modo da conformarsi allo scopo dell’esperimento, motivo per cui anche ai complici dei ricercatori che Una ricerca esemplificativa: l’esperimento della prigione di Stanford L’esperimento della prigione di Stanford fu uno degli esperimenti più impressionanti della psicologia sociale, realizzato dal ricercatore Philip Zimbardo. Ecco tutte le scelte metodologiche dei ricercatori e gli strumenti di ricerca: Punto di partenza: Zimbardo chiese un giorno agli studenti del suo corso di psicologia sociale di approfondire argomenti salienti per la psicologia sociale. Un gruppo di studenti guidato da David Jaffe riportò in aula i risultati di un esperimento svolto da loro nel quale passarono un weekend come se fossero reclusi in una prigione. Zimbardo si accorse subito che questi risultati andavano assolutamente approfonditi. Domande della ricerca: in particolare ciò che Zimbardo voleva approfondire è quanto un ruolo sociale assunto possa influire sui nostri atteggiamenti e comportamenti. Strategia di ricerca: i ricercatori decisero di applicare un disegno sperimentale Campo o laboratorio: perciò fu costruita una prigione con l’aiuto di un ex prigioniero, Carl Prescott, nel seminterrato dell’università di Stanfor a Palo Alto California (realismo sperimentale). Nella prigione c’erano le celle dei prigionieri, il locale per le guardi e una cella di isolamento. Ogni prigioniero aveva un numero identificativo e portava con sé una branda e un materasso. Nella pigione non c’erano finestre e orologi per impedire che i prigionieri percepissero il passare del tempo. Un impianto di citofoni permetteva ai ricercatori di sentire e registrare le conversazioni tra guardie e prigionieri ed eventualmente di fare comunicazioni. Strumenti per la ricerca: nella fessura del muro c’era una videocamera che registrava tutto ciò che accadeva nella prigione. I prigionieri dovevano rimanere 24 ore al giorno reclusi nella prigione, mentre le guardie stavano lì a gruppi di 3 per turni di 8 ore e poi tornavano alle proprie abitazioni. Variabili: per l’assunzione dei ruoli (prigioniero/guardia) vennero studiati nel dettaglio l’abbigliamento e i comportamenti che essi dovevano tenere. I due gruppi avevano abbigliamenti diversi tra loro ma identiche all’interno di uno stesso gruppo così da promuovere un senso di anonimia tra i due gruppi, diminuire l’individualità e costruire nei partecipanti un’identità di gruppo, motivo per cui i prigionieri non potevano essere chiamati per nome ma solo attraverso il numero identificativo scritto sul loro camice, non potevano indossare biancheria intima, avevano una catena alla caviglia e sandali di gomma ai piedi e indossavano una calza di nylon in testa. Così anche per le guardie venne studiato un abbigliamento uguale per tutti e una particolare immagine pubblica: tutti indossavano un’identica divisa, avevano un fischietto, erano muniti di una sfollagente e tutti indossavano occhiali a specchio. Reperimento dei soggetti: per il reperimento dei soggetti sperimentali venne pubblicata su un giornale locale un’inserzione in cui si richiedevano volontari per uno studio sulle condizioni psicologiche dei detenuti di una prigione e venivano promessi in cambio 15 dollari al giorno. Controllo delle variabili intervenienti: vennero così scelti 24 ragazzi maschi che non avevano problemi psicologici, disabilità fisiche o mentali e non avevano passate storie di reclusione, non si conoscevano tra loro. 18 volontari vennero poi coinvolti nell’esperimento mentre gli altri 6 restarono eventualmente a disposizione. Consenso informato: i soggetti prima dell’esperimento firmarono un contratto in cui dopo aver ricevuto informazioni sulla ricerca, affermavano l’intenzione di partecipare e venivano garantiti loro una serie di servizi base per il periodo dell’esperimento e il pagamento pattuito. Assegnazione casuale ai gruppi: gli studenti vennero assegnati casualmente ai due gruppi (prigionieri o guardie) tramite il lancio di una moneta. Una telefonata avvertì una parte dei partecipanti (Futuri reclusi) di farsi trovare a casa il giorno dell’inizio dell’esperimento. Mentre le guardie fecero una riunione con i ricercatori in cui vennero istruite sulla situazione della prigione (turni, rapporti giornalieri, rapporti sui casi) ma non venne data nessuna specificazione sul modo in cui si dovevano comportare; così le guardie si riunirono tra loro per decidere le regole da far rispettare ai prigionieri. Dunque, il 14 agosto 1971 venne messo in scena un vero e proprio arresto di massa per le strade della città. Coloro che avrebbero dovuto ricoprire il ruolo di carcerati furono perquisiti dagli uomini con l’uniforme da poliziotti che entrarono in casa loro e poi furono ammanettati e portati nella prigione, dove furono spogliati, perquisiti nuovamente e lasciati nudi nel cortile. Ai prigionieri vennero lette le regole da rispettare nella prigione, furono concesse visite dall’esterno da parte di un cappellano della prigione, amici e parenti. L’esperimento durò solo 6 giorni rispetto ai 15 previsti e fu interrotto principalmente per due motivi di natura etica come afferma lo stesso Zimbardo Etica della ricerca: il primo motivo dell’interruzione fu il fatto che le videoregistrazioni della notte mostrarono un’escalation degli abusi perpetuati dalle guardie nei confronti dei prigionieri. Il secondo motivo invece fu che una psicologa che aveva partecipato come membro dello staff dei ricercatori durante le interviste ai partecipanti, Christina Maslach, affermò di avere dubbi sull’eticità dell’esperimento. Gli stessi ricercatori dopo 6 giorni consideravano i soggetti come guardie e prigionieri e non come ragazzi. Gli argomenti a sostegno della correttezza dell’esperimento erano che esso poggiava su linee guida sugli esperimenti umani, ma l’accusa di violazione dei principi etici si basava principalmente su una ragione semplice e incontrovertibile: i soggetti che svolgevano il ruolo di prigionieri soffrivano le pene inflitte dalle guardie senza che queste venissero interrote; gli stessi ricercatori concordano sul fatto che l’esperimento andava interrotto molto prima, ma questo non fu fatto perché, come lo stesso Zimbardo afferma, i soggetti dello staff che avevano assunto il ruolo di direttore e sovrintendente del carcere avevano preso il sopravvento sui ricercatori stessi, infatti le immagini passavano dagli occhi del “direttore” e non da quello di Zimbardo, in quanto quest’ultimo voleva mantenere l’integrità della prigione. Capitolo 3 Riflettori e illusioni Spesso noi ci sentiamo al centro dell’attenzione e percepiamo che il nostro aspetto e i nostri comportamenti siano notati dagli altri più di quanto in realtà lo siano, è il cosiddetto effetto spotlight, o “riflettore”. Per esempio, in un esperimento di Lawson del 2010 sono state fatte cambiare delle felpe a dei ragazzi di una classe facendoli lasciare il gruppo per qualche minuto e sono state fatte indossare delle felpe con la scritta “American Eagle”, il risultato fu che quando tornarono in classe, solo il 10% degli altri successivamente ricordava la scritta sulla felpa dei ragazzi e molti non avevano neanche notato che se l’erano cambiata, nonostante i soggetti sperimentali credessero che fossero stati notati da molte più persone. In un altro esperimento del genere ad alcuni ragazzi furono fatte indossare delle giacche e delle acconciature o occhiali stravaganti; essi pensavano che sarebbero stati notati da tutte o quasi le persone all’interno di un’aula di università ma in realtà solo il 23% dei compagni li notò. Ma ciò che è vero per abiti bizzarri, acconciature “ridicole” eccetera vale anche per le emozioni, sensazioni quali rabbia, irritazioni, felicità ecc. Infatti noi spesso pensiamo che gli altri notino ciò che proviamo, le nostre emozioni molto più di quanto lo fanno in realtà; si parla di “illusione di trasparenza”, ovvero il fatto che pensiamo che le nostre emozioni siano “trasparenti” e tutti le vedano, se siamo felici penseremo che tutti vedranno nel nostro voto la felicità, ma in realtà molti ci noteranno più “opachi” di quanto siamo. Così come si tende anche a sopravvalutare la portata delle nostre gaffe o delle figure imbarazzanti, per esempio se facciamo suonare l’allarme in biblioteca o se siamo gli unici a presentarsi ad una festa senza rappresenti noi stessi un po’ di tempo dopo ricorderemo più facilmente questa parola rispetto a quando la domanda ci viene fatta su altre persone; così come quando parliamo con qualcuno qualche giorno dopo ricorderemo meglio ciò che quella persona ha detto di noi rispetto a tutto il resto. I ricordi si formano intorno al nostro interesse principale: il sé, dunque noi stessi. Inoltre spesso oltre a sopravvalutare la misura in cui gli altri ci notano, sopravvalutiamo anche quanto del comportamento altrui è rivolto a noi e spesso sopravvalutiamo anche la nostra responsabilità in ciò che succede intorno a noi e nelle azioni. Questo è anche il motivo per cui quando osserviamo un’altra persona compiere delle azioni, tendiamo a paragonarle a quello che faremmo noi e tendiamo anche a paragonare le caratteristiche di un’altra persona alle nostre. Inoltre se siamo ad una festa e stiamo parlando con qualcuno, se sentiamo il nostro nome pronunciato da altre persone che parlano tra loro rivolgiamo subito la nostra attenzione uditiva a quelle persone e quindi su ciò che si sta dicendo di noi. I sé possibili Inoltre un’altra parte del concetto di sé è quella dei sé possibili, ovvero le nostre rappresentazioni di ciò che vorremmo o non vorremmo diventare in futuro, quindi consideriamo sia i sé possibili positivi (per esempio realizzato nel lavoro, amato e che ama immensamente eccetera) ma anche i possibili sé negativi, cioè che non vorremmo si realizzassero (non realizzato nel lavoro e nella vita, con un impegno insoddisfacente e con un brutto fisico). I sé possibili sono ciò che ci danno la motivazione per cercare di realizzare i nostri obiettivi e arrivare a diventare ciò che si aspira. Lo sviluppo del sé sociale Dunque, il nostro concetto di sé è influenzato dalle nostre rappresentazioni cognitive interne che abbiamo di noi stessi ed ha una buona base genetica come si è visto negli studi sui gemelli ma non solo, infatti ci sono molto influenze sociali che plasmano il nostro concetto di sé ovvero: -i ruoli che si assumono -le identità sociali che le persone si creano -i confronti con le altre persone -i successi e i fallimenti -i giudizi degli altri -la cultura dominante -i propri comportamenti I ruoli che si assumono Un ruolo è un insieme di norme che definiscono come dovrebbero comportarsi le persone in una determinata posizione sociale. Ci si aspetta che chi si trova in una certa posizione sociale abbia specifici comportamenti e atteggiamenti tipici di quella posizione sociale. Quando assumiamo un nuovo ruolo possiamo sentirci inizialmente a disagio in quanto ancora non lo consideriamo come parte di noi, ma questo disagio dura poco in quanto dopo poco tempo assumiamo gli atteggiamenti e i comportamenti tipici di quel ruolo nel nostro concetto di sé. Questo accade per esempio quando si inizia un nuovo lavoro o l’università. Durante la prima settimana di università, uno studente può sentirsi particolarmente sensibile alla situazione sociale in quanto non sa ancora come comportarsi e per cercare di adattarsi alla situazione sociale prova ad usare un linguaggio più elevato e a lasciare da parte quelli che erano i comportamenti e gli atteggiamenti tipici delle scuole superiori, ma se all’inizio questi atteggiamenti e comportamenti possono risultare “forzati” per gli studenti, successivamente egli li integra nel proprio concetto di sé e inizia a comportarsi in un determinato modo in maniera naturale e spontanea, cioè è come se il ruolo iniziasse ad essere “indossato bene” dalla persona. E’ ciò che è accaduto anche nell’esperimento della prigione di Stanford di Zimbardo di cui abbiamo parlato prima, il ricercatore ha diviso i partecipanti in due gruppi, ognuno dei quali rappresentava un diverso ruolo sociale, quello dei prigionieri e quello delle guardie. Poi ha reso i ruoli sociali più realistici dando uniforme diverse a prigionieri e guardie, dando manganelli e altre armi alle guardie eccetera. Così durante l’esperimento dopo poco tempo i soggetti che dovevano assumere il ruolo di guardie e prigionieri hanno iniziato a considerare gli atteggiamenti e i comportamenti tipici di quei ruoli come parte del proprio concetto di sé, tanto da venire loro naturale comportarsi appunto da “guardie e prigionieri” e anche gli stessi ricercatori hanno iniziato a considerare i soggetti non più come semplici ragazzi ma solo come guardie e prigionieri. Quest’assunzione dei ruoli nel proprio concetto di sé da parte dei soggetti sperimentali è andata talmente degenerando che l’esperimento è stato interrotto per motivi etici dopo soli 6 giorni invece che i 15 previsti. Il punto non è la capacità di opporre resistenza ai ruoli opposti (durante una variante dell’esperimento della prigione di Stanford in cui i soggetti sperimentali sapevano di essere ripresi dalle telecamere BBC hanno saputo controllare i loro comportamenti e atteggiamenti senza esagerarli), ma la tendenza dell’uomo ad assumere un ruolo all’interno del proprio concetto di sé influenzando i propri atteggiamenti e le proprie azioni , cioè un qualcosa di “irreale” si può facilmente trasformare in qualcosa di reale. Nel 1985 una ricerca di Linville ha prodotto dei risultati sorprendenti introducendo il concetto di complessità del sé, ovvero il numero di aspetti e di caratteristiche che una persona assume nel proprio concetto di sé. Se questi sono pochi allora si parlare di concetto di sé semplice, mentre se invece sono tanti (per esempio Lucia è una brava studentessa all’università, una brava lavoratrice nel proprio mestiere, brava nel suo lavoro di volontariato eccettera) allora si parla di concetto di sé complesso. Un’elevata complessità del concetto di sé permette di proteggere sé stessi dagli effetti devastanti che un fallimento può avere sulla propria percezione di sé stessi. Infatti se sbagliamo un compito in un determinato ambito percepiremo coinvolta in questo fallimento solo una piccola parte del nostro concetto di sé riguardante quell’ambito se il nostro concetto di sé è complesso, se invece il nostro concetto di sé è relativamente semplice allora sentiremo responsabile del fallimento una maggior parte del nostro sé e questo può avere effetti dannosi sulla nostra autostima e sulla nostra percezione di sé, arrivando a generare in noi anche depressione. L’identità sociale Il concetto di sé è influenzato non solo dall’identità personale ma anche dall’identità sociale, ovvero dal gruppo sociale a cui sentiamo di appartenere (per etnia, razza, religione eccetera), se in un gruppo la nostra identità sociale rappresenta la minoranza allora faremo più caso ad essa che quando rappresenta la maggioranza. Per esempio, se in un gruppo di soli uomini è presente una donna essa percepirà maggiormente la sua identità di genere, così come uno studente di colore in un università con prevalenza di studenti bianchi percepirà maggiormente la sua identità etnica e viceversa uno studente bianco in un’università a prevalenza di studenti di colore farà lo stesso). Inoltre è stato rilevato che in Gran Bretagna, dove il rapporto tra inglesi e scozzesi è di 10 a 1, gli scozzesi arrivano spesso a provare sentimenti di disgusto o risentimento verso i connazionali inglesi. Inoltre da un’indagine è stato rilevato che meno 1 su 6 scozzesi si considera in primo luogo britannico, i due terzi si considerano in primo luogo scozzese, mentre in Inghilterra solo il 31% degli inglesi si considerava in primo luogo inglese piuttosto che britannico. Myers ha analizzato questo fenomeno studiando i registri di un albergo in Inghilterra dove rilevò che tutti stare molto attenti ad esprime giudizi negativi e in particolare pregiudizi su altri individui perché questi potrebbero influenzarli negativamente danneggiandoli. Il sociologo Cooley nel 2002 ha espresso questo fenomeno introducendo il concetto di sé riflesso, ovvero il concetto per cui le percezioni che gli altri hanno di noi e i loro giudizi su di noi rappresentano uno “specchio” per noi stessi, in quanto tendiamo a vederci come ci vedono gli altri. Un altro sociologo, Herbert Mead nel 1934 ha ampliato questo concetto affermando che più che altro ciò che conta per la nostra percezione del sé è come immaginiamo che gli altri ci vedono. In molte culture, in particolare quelle occidentali, la gente tende a lodare piuttosto che a criticare gli altri per cercare di non offendere nessuno; per questo motivo alcune persone di queste culture possono arrivare a esagerare e enfatizzare i giudizi positivi degli altri, cioè possono sentirsi giudicati più positivamente dagli altri di quanto lo siano in realtà, si parla in questo caso di autoenfatizzazione. Questo fenomeno si vide bene quando Kitayama chiese ad alcune persone di culture diverse a quando risalivano gli ultimi complimenti che gli erano stati fatti; le persone di culture occidentali e in particolare individualiste rispondevano circa “un giorno”, invece gli asiatici e gli americani meridionali rispondevano maggiormente circa “quattro giorni” in quanto in questi paesi c’è più una concezione collettivista e si dà più importanza al senso di vergogna di una persona nei confronti di un gruppo per eventuali tradimenti piuttosto che alle lodi individuali. Inoltre il ricercatore Mark Leary ha rilevato che si sperimenta una minor autostima e ci si percepisce peggio quando si prova la sensazione dell’esclusione sociale, cioè essere allontanati o non coinvolti in un gruppo sociale può avere gravi conseguenze sull’autostima. La cultura dominante Anche la propria cultura dominante ha una grande influenza sul proprio concetto di sé. Infatti nel twenty statements test ci sono persone che nel dire “io sono…” nel completare la frase utilizzano maggiormente termini che rappresentano identità sociali, cioè parlano del proprio gruppo di appartenenza, che sia per razza, cultura, etnia, religione eccetera e altre che invece parlano maggiormente delle proprie caratteristiche individuali e dei propri aspetti personali. In particolare le prime appartengono generalmente a culture collettiviste e quindi principalmente orientali e le altre a culture individualiste principalmente occidentali. Nei paesi occidentali le persone tendono maggiormente a pensare al proprio sé, a voler realizzare i propri obiettivi personali e non quelli di un gruppo, esse non fanno particolare affidamento sui gruppi sociali e spesso lasciano un determinato gruppo sociale quando non si sentono più stimolate da esso, cioè il gruppo assume molta meno importanza che nelle culture collettiviste principalmente orientali in cui invece si fa molto affidamento sui propri gruppi di appartenenza, si tende a fare del bene per il proprio gruppo sociale e si aspira a realizzare obiettivi di gruppo e non personali. Due ricercatori, Hofstede (1980) e Triadis fecero un enorme lavoro per cercare di identificare le differenze between group e within group e in particolare Triadis distinse anche il se idiocentrico e alliocentrico dai concetti di individualista e collettivista. Il sé delle culture occidentali individualiste è, come sostengono Kitayama e Markus, un sé autonomo, indipendente, separato dagli altri e per questo detto idiocentrico, mentre quello delle culture orientali collettiviste è più un sé detto interdipendente, in quanto il concetto di sé delle persone di queste culture dipende moltissimo dalla propria identità sociale cioè dai propri gruppi di appartenenza e dunque si parla di sé allocentrico. Nelle culture collettiviste dunque il concetto di sé delle persone è principalmente allocentrico, ovvero essere si trovano in piccoli gruppi sociali ma che risultato molto influenti, sono strettamente legati (appunto interdipendenti) a essi e arrivano a sacrificare i propri obiettivi e interessi personali in favore di quelli collettivi. E’ per questo che prevale il senso di vergogna verso gli altri (sociale) come meccanismo di controllo piuttosto che il senso di colpa interiore che invece prevale nelle culture individualiste e nel sé idiocentrico. Nella vita e nella società sono enfatizzati i valori di onestà, integrità sociale e familiare, intraprendenza e altruismo. Inoltre esse tendono maggiormente a nominare le proprie identità sociali per completare la frase “io sono…” e anche nel parlato tendono a usare meno l’”io” o il “me” ma piuttosto il “noi”. Ovviamente ridurre tutto a culture totalmente individualiste e altre collettiviste è un’eccessiva semplificazione, in quanto ci possono essere notevoli differenze interindividuali e ci sono persone più o meno individualiste di altre in ogni cultura. Inoltre attualmente con il passare degli anni le nuove generazioni sono sempre più individualiste e per esempio i giovani asiatici tendono a pensare maggiormente a sé stessi e ai propri obiettivi. Anche le canzoni negli ultimi tempi tendono quasi sempre ad usare “io” o “me” piuttosto che “noi”. Questa tendenza si osserva anche nella scelta dei nomi, infatti anche nei paesi più collettivisti o in America si tende sempre più a scegliere per i propri figli nomi particolari e “unici”, non è più necessario essere una star per avere un nome molto particolare”. E’ ancora aperto il dibattito sulla questione se siano le persone delle nuove generazioni ad essere più individualiste e quindi a influenzare la cultura o il contrario, cioè il cambiamento culturale che influenza le persone. Cultura e cognizione Ma il fatto di essere più collettivisti o individualisti non dipende solo dalla cultura in cui ci si trova ma anche proprio dal modo di pensare, quindi dalla cognizione. Infatti le persone collettiviste tendono a pensare maggiormente in termini di gruppo e relazioni. Questo è stato visto in un esperimento in cui si è fatto vedere a persone di diverse culture di tipo più individualista e collettivista un immagine di un’acquario e si è osservato che per esempio gli asiatici (più collettivisti) ponevano maggiore attenzione sullo sfondo e sulle relazioni tra i pesci per esempio rispetto a quelli individualisti che invece focalizzavano di più l’attenzione per esempio su un singolo pesce più grande degli altri. Con un sé interdipendente, le persone dipendono strettamente dai gruppi di appartenenza e se sradicati da amici, famiglia colleghi eccetera esse si sentiranno più depresse e sole rispetto agli individualisti che dipendono meno da questi gruppi. Gli effetti dei due diversi tipi di sé in una cultura si vedono anche dalle diverse abitudini come per esempio nell’assunzione del caffè: mentre in Italia in un bar si possono chiedere tantissimi tipi di caffè (macchiato, lungo, corto, espresso eccetera) a Seoul per esempio molto probabilmente si troverà uno o due tipi di caffè e basta. Ma anche nelle pubblicità delle culture orientali si vedono molto più spesso persone insieme o gruppi che utilizzano un determinato prodotto piuttosto che singole persone. Cultura e autostima Nelle culture collettiviste l’autostima di una persona è strettamente correlata a quello che gli altri pensano di lei ed è estremamente mutevole, cioè varia in base al contesto e all’ambito in cui stiamo svolgendo un’attività; invece nelle culture individualiste essa è più una caratteristica personale e stabile e meno relazionale. Cioè nelle culture individualiste se l’identità personale di una persona è minacciata essa si sentirà più arrabbiata e avrà più risentimento rispetto a quando viene minacciata invece l’identità di gruppo, mentre nelle culture collettiviste avviene il contrario. Le persone di culture collettiviste si impegnano più intensamente e con più zelo in un’attività se hanno avuto un fallimento o se comunque non l’hanno svolta bene mentre invece quelle di cultura individualista tendono maggiormente a persistere in un’attività se da questa ottengono successo. Inoltre le persone di una cultura collettivista fanno confronti sociali con coloro che stanno più in alto di loro e che stimolano la loro autostima nel svolgere le varie attività, invece quelle di culture L’autostima è guidata da un motore motivazionale, infatti di fronte a un fallimento una persona che vuole mantenere la sua autostima alta tende ad incolpare gli altri e a ritenere se stesso superiore. Secondo Tesser lo studio della motivazione all’autostima può portare a grandi rivelazioni, compresi per esempio conflitti nascosti tra fratelli; infatti se crescendo due fratelli hanno sentito da parte di qualcuno sempre paragoni tra loro allora se uno dei due è più capace o brillante dell’altro, il fratello meno capace e meno brillante potrebbe soffrire del successo del fratello ed esserne in parte geloso oppure potrebbe cercare di brillare di luce riflessa; se invece i due fratelli hanno più o meno le stesse capacità allora questa gelosia interiore non si svilupperà. La stessa cosa può accadere tra due partner; specialmente quando essi hanno interessi negli stessi campi e uno ottiene più successo o realizzazione dell’altro il partner potrebbe essere geloso e tentare di proteggere la propria autostima ponendo l’attenzione sulla relazione tra loro con frasi quali: “il mio partner è così intelligente e sono molto legato a lui quindi fa parte di ciò che sono”. Inoltre, a seconda del livello di autostima di una persona, essa potrebbe reagire in modi diversi quando si incorre in una minaccia all’autostima; infatti se l’autostima è alta quella persona tenderà a cercare di fare meglio o di ritentare qualcosa per cercare di farlo bene proteggendo la propria autostima, mentre una persona con una bassa autostima di fronte a un fallimento tende a voler smettere di compiere quell’azione e ad arrendersi più facilmente. Leary ritiene inoltre che i sentimenti alla base dell’autostima rappresentano la misura della nostra capacità sociale (sociometro); tutti noi infatti siamo interessati ad avere relazioni sociali o comunque rapporti con altre persone per non sentirci soli o sentirci sostenuti e più l’autostima di una persona è alta più facilmente instaurerà determinate relazioni di benessere con gli altri. Lo psicologo sociale Tony Higgins (1989) sostiene che il livello di autostima dipende tra la discrepanza tra diversi sé in particolare tre tipi di sé: il concetto di sé (il sé reale), il sé ideale (ciò che si vorrebbe essere, ciò a cui si aspira), il sé imperativo (come pensiamo dovremmo essere per rispettare determinati standard morali); Higgins nel 1987 ha prodotto la teoria della discrepanza, ovvero che più la discrepanza tra sé reale e sé ideale o sé reale e sé imperativo è maggiore più bassa sarà l’autostima. In particolare, la discrepanza tra sé reale e sé ideale produce sentimenti di inferiorità, di tristezza ed eventualmente anche depressione; mentre quella tra sé reale e sé ideale produce sensi di colpa, imbarazzo e risentimento. Tutti noi possiamo provare tale sensazione di discrepanza ma non tutti ne soffriamo allo stesso modo o possiamo anche non soffrirne particolarmente; infatti il livello di sofferenza dovuta a un’elevata sensazione di discrepanza dipende da 3 fattori: un alto livello di discrepanza, la discrepanza assume una grande importanza per la persona, la persona si autofocalizza su di sé e diventa particolarmente consapevole di questa discrepanza. Infatti Robert Wicklund nella sua teoria dell’autoconsapevolezza sostiene che in alcuni momenti durante i quali poniamo l’attenzione su noi stessi (ci focalizziamo su di noi) diventiamo autoconsapevoli, ovvero ci confrontiamo con i nostri canoni interiori. In particolare egli distingue autoconsapevolezza privata (quando si fa una riflessione interiore e un confronto con i propri canoni interiori) e autoconsapevolezza pubblica (quando ci si focalizza sulla nostra immagine pubblica); in uno stato di autoconsapevolezza spesso le persone avvertono una forte discrepanza di sé; ci sono persone che solo in determinate situazioni si focalizzano su di sé e percepiscono questa discrepanza e altre che invece tendono maggiormente all’autofocalizzazione, quindi all’interesse verso sé stesse; durante i momenti di autoconsapevolezza che produce sensazione di discrepanza le persone, a seconda che abbiano un’autostima alta o bassa possono reagire rispettivamente cercando di conformarsi ai canoni interiori o cercando di evitare l’autoconsapevolezza. Il “lato oscuro” dell’autostima Quindi, come abbiamo detto le persone con una bassa autostima possono presentare maggiori problematiche nella propria vita, quali ansia, disturbi psicologici o alimentari o anche depressione. Tuttavia, anche persone con un’alta autostima possono presentare determinate problematiche. In particolare persone che hanno un’autostima molto elevata quando sentono che essa viene minacciata tendono a diventare violenti e spesso anche pericolosi. Il rifiuto sociale può diventare pericoloso per una persona che presenta un’alta autostima. Questo è stato misurato da un esperimento di Heatherton e Vohs nel 2000 che hanno verificato questo fenomeno su dodici uomini, sottoponendoli prima a un test attitudinale reso appositamente fallimentare e il risultato è stato che solo gli uomini che avevano un’autostima molto alta presentavano comportamenti particolarmente competitivi. In un altro esperimento Bushman e Baumeister nel 1998 reclutarono degli studenti volontari, sottoponendoli alla stesura di un saggio che secondo i soggetti sperimentali sarebbe stato poi valutato da un assistente; in realtà i giudizi sui saggi erano assegnati casualmente, per alcuni erano positivi (bel saggio, sei stato bravo!), per altri negativi (questo saggio è terribile!); gli studenti con un’elevata autostima erano più tendenti a sentirsi minacciati da giudizi negativi e a volersi vendicare emettendo un forte rumore nelle cuffie dell’assistente che pensavano li avesse giudicati, cosa che non accadeva invece quando gli studenti con un’alta autostima ricevevano un giudizio positivo. Gli studenti con un’autostima moderata o bassa invece tendevano maggiormente ad accettare il giudizio negativo e a non vendicarsi. Le persone con un’autostima molto alta possono essere violente, presuntuose e tendere a voler parlare AGLI altri e non CON gli altri al contrario di quelli con una bassa autostima che invece risultano più modesti, timidi e accondiscendenti e tendono a mettersi più in ombra. Alcuni ricercatori si sono chiesti se queste persone con un’autostima molto alta che li rendeva violente e pericolose nascondessero in realtà alla base una bassa stima di sé e quindi i loro comportamenti fossero solo il risultato di un tentativo di proteggere sé stessi e la propria autostima, cioè si chiesero se dietro all’apparenza di queste persone ci fossero determinate fragilità interiori, ma realizzando numerosi studi scoprirono che non era così; nella storia i dittatori, i responsabili di genocidi e altri uomini pericolosi presentavano tutti un’alta autostima e un alto livello di narcisismo che non nascondeva alcuna particolare fragilità alla base. Dunque, secondo Baumeister esiste un lato oscuro dell’autostima e questi risultati vanno messi in relazione con quelli che affermano che una bassa autostima può produrre problemi clinici come ansia, depressione e disturbi alimentari; inoltre queste persone con un’autostima bassa quando si sentono minacciate tendono ad avere una visione nera di qualsiasi cosa che li può portare a una situazione di grande tristezza interiore. Invece le persone con un’autostima moderata che presentano fiducia e sicurezza verso se stesse, ma senza volersi mettere per forza al centro dell’attenzione o voler dimostrare la propria superiorità sono quelle che spesso diventano difensori delle vittime di bullismo; cioè il loro senso di fiducia nei confronti di se stessi non li porta a voler sovrastare gli altri o a voler sentirsi superiori. Inoltre quando semplicemente ci si sente bene con se stessi si è meno permalosi, meno inclini ad atteggiamenti negativi o violenti o a sensazioni di risentimento. Inoltre secondo alcune ricerche l’autostima può essere di due tipi: conscia e quindi pubblica (esplicita) o interiore e inconscia (implicita). L’autostima esplicita viene misurata con questionari mentre quella implicita con test impliciti quali far scegliere quali lettere dell’alfabeto sono le preferite di una persona e verificare se corrispondono alle lettere del suo nome oppure verificare i tempi di reazione di una persona nell’associare un termine positivo o negativo nei confronti di se stessa. Le persone che si sentono bene con sé stesse e non danno valore cioè non basano la propria autostima sul denaro, la bellezza fisica ed altri elementi superficiali sono anche quelle che stanno meglio psicologicamente e che presentano comportamenti moralmente migliori come ha dimostrato Crocker con vari studi in cui ha osservato che le persone con un’autostima più fragile legata a valori superficiali quali denaro, successo, bellezza fisica eccetera possono facilmente incorrere in stati d’ansia o di depressione quando quest’autostima viene minacciata e in atteggiamenti violenti e ricercatore di psicologia sociale Seligman ha verificato lo svilupparsi del fenomeno dell’impotenza appresa anche tra le persone, verificando che quando esse vivevano un evento negativo a cui sentivano di non poter reagire apprendevano l’impotenza e si sentivano sopraffatte anche in situazioni future, mentre coloro che percepivano un maggior controllo sulle proprie scelte e sulla propria vita tendevano più facilmente a reagire prontamente agli imprevisti e ad impegnarsi per sfuggire alle situazioni negative; in particolare i ricercatori Oaten e Cheng nel 2006 hanno rilevato che si possono allenare i “muscoli” dell’autocontrollo e che questo produce un maggior benessere nella vita. Per esempio, studenti che si impegnano nello studio a casa, misurano il tempo che ci mettono nel compiere una determinata prestazione e controllano il loro impegno probabilmente faranno lo stesso sia in situazioni di laboratorio che in un esame nella vita reale. Langer e Rodin nel 1976 hanno verificato questo fenomeno dell’autodeterminazione con i pazienti di una casa di cura, sottoponendoli a due condizioni, in una prima condizione il personale sanitario poneva l’enfasi sul “noi faremo di tutto per farvi stare bene e rendervi felici” e compievano loro tutte le scelte, somministrando ai pazienti farmaci con parole di cura e rinforzo rendendoli passivi, mentre nella seconda condizione veniva data ai pazienti la possibilità di compiere alcune scelte e quindi di controllare alcuni eventi nella casa di cura rendendoli partecipanti attivi nella loro vita; il risultato fu che i pazienti nella seconda condizione sperimentavano una maggior felicità e una maggiore percezione di controllo e autodeterminazione. Sono tanti gli studi che confermavano che nelle case di cura attuare una politica di coinvolgimento dei pazienti in scelte non deleterie o pericolose per loro ma semplici li rendeva molto più felici e permetteva loro di vivere più a lungo. Sono tanti gli ambiti in cui è stato verificato questo fenomeno: -i lavoratori a cui viene data una certa forma di libertà e autonomia risultavano impegnarsi di più ed essere più competenti e soddisfatti - i residenti anziani istituzionalizzati a cui viene dato un certo margine e potere di scelta erano più felici e positivi sulla propria esperienza nelle istituzioni -i senza dimora che percepiscono il proprio scarso potere decisionale, la poca privacy e la propria impossibilità di scegliere a che ora mangiare e altre decisioni li rendeva poco inclini a impegnarsi nel trovare una dimora o un lavoro -i paesi in cui il governo non è esclusivamente “dittatoriale” ma lascia una certa libertà e un certo margine di scelta ai cittadini rendono i propri abitanti più soddisfatti e felici. Il costo di un numero eccessivo di scelte Tuttavia, nonostante un certo di margine di possibilità di scelta e di libertà crei soddisfazione e felicità nelle persone per la loro percezione di avere il controllo sulla propria vita, un ampio ventaglio di scelte o decisioni può spesso portare a sentimenti di ansia o depressione in quanto è più facile provare rammarico o rimpianto per le proprie scelte. Per esempio, se una persona sceglie tra 30 tipi di marmellata o solo tra 6 è piu probabile che abbia dei rimpianti nella prima situazione, così come quando uno studente universitario sceglie un impiego tra i tanti nonostante la paga possa essere alta si possono sentire poco soddisfatti del loro impiego. Queto è anche il motivo per cui le persone quando comprano qualcosa sono più soddisfatte del loro acquisto se sono consapevoli che questo è irrevocabile cioè non è possibile restituirlo mentre se sanno che un certo prodotto è rimborsabile o si può cambiare con un altro tendono a essere meno soddisfatte del loro acquisto. Questo concetto potrebbe anche essere alla base della crescente infelicità che si è sviluppata negli ultimi anni in molti matrimoni; infatti se molti anni fa il matrimonio era una scelta irrevocabile e per questo i coniugi erano maggiormente felici o soddisfatti adesso, sapendo che non c’è più questa irrevocabilità e che esiste la possibilità del divorzio, molti coniugi sono molto infelici e insoddisfatti della propria vita matrimoniale. Tuttavia, per quanto la libertà di scelta possa essere all’estremo, la percezione di autocontrollo da parte dell’essere umano è molto forte e nella letteratura è sempre stata posta una grande enfasi su questo tema, fin dai tempi antichi. Il concetto del “puoi-farcela-anche-tu” e della forza dell’autoconsapevolezza è presente in molti libri che sono diventati un “must” della letteratura o in storie tramandate di generazione in generazione. Inoltre un successo produce, come disse Bandura, una maggior autoefficacia e sensazione di competenza e autocontrollo; se i nostri sforzi per perdere peso, smettere di fumare o altro danno risultati iniziali allora saremo più propensi a impegnarci e quindi aumenterà la nostra autoefficacia e la nostra autodeterminazione. Self-serving Bias: gli errori al servizio del sé Quando si elaborano informazioni su sé stessi, si tende ad imputare i successi alle nostre responsabilità e i fallimenti a forze di causa maggiore e quindi esterne al sé, cercando in questo modo di proteggere la propria autostima e la propria autoefficacia. E’ credenza diffusa che la maggior parte delle persone soffre di una scarsa autostima e che tutti noi abbiamo complessi di inferiorità, in passato molti ricercatori hanno sostenuto che chi non li ha fa solo finta. Una generazione fa, nel 1958, Rogers affermò che la maggior parte delle persone che conosceva disprezzava sé stessa, non si riconosceva delle proprie capacità e si considerava un fallimento. Tuttavia, in realtà è stato rilevato che in generale le persone hanno una buona reputazione di sé, anche quelle con l’autostima più bassa a domande nei questionari come: “sono capace di portare a termine i miei compiti in maniera efficace” rispondono generalmente “talvolta” o “qualche volta” e non “mai” o “per niente”. In generale tendiamo a proteggere la nostra autostima soprattutto tramite i self-serving bias, ovvero errori al servizio del sé, cioè tendenze di pensiero sistematiche per le quali tendiamo a favorire noi stessi e criticare gli altri. Uno di questi che è anche uno dei più potenti è quello degli stili attributivi a favore del sé, per il quale tendiamo a riconoscere i successi come dipendenti da noi e dalle nostre forze interiori, dal nostro impegno mentre imputiamo le cause dei fallimenti ad altre persone o a fattori esterni a noi. Per esempio, gli atleti in generale spiegando le vittorie le attribuiscono principalmente a loro stessi mentre quando perdono si giustificano citando fattori esterni, quali l’arbitro a proprio sfavore, l’impossibilità di battere l’avversario per motivi esterni eccetera. Inoltre, è stato rilevato che nelle polizze assicurative la maggior parte dei guidatori metteva come cause di incidenti affermazioni quali “a un certo punto una macchina invisibile è entrata nell’incrocio e mi ha portato a sbattere” oppure “una siepe all’incrocio che spuntava sulla strada mi ha impedito di fare attenzione alle altre macchine”. Un manager o un capo di un’azienda imputa il successo di questa a se stesso e il fallimento ai lavoratori, mentre i lavoratori tendono ad imputare il successo al loro lavoro e il fallimento ai propri colleghi o all’impossibilità di svolgere bene il loro lavoro per cause di forza maggiore. In particolare le situazioni in cui si combinano caso e abilità (competizione sportiva, esame, colloquio di lavoro) sono quelle in cui si verifica maggiormente il fenomeno per cui le persone attribuiscono il fallimento a forze esterne quali la sfortuna. E’ stato verificato che le attribuzioni a favore del sé attivano aree del cervello collegate alla ricompensa e al piacere, dimostrando che molte persone tendono ad avere questi bias per proteggersi dalla sofferenza di un fallimento e proteggere la propria autostima. Le attribuzioni a favore del sé sono anche quelle che spesso causano litigi coniugali, litigi tra colleghi, incomprensioni eccetera. In pratica noi riusciamo a conservare un’immagine positiva di noi stessi grazie a queste attribuzioni a favore del sé, cioè imputare gli insuccessi e i fallimenti a qualcosa o a qualcuno di esterno a noi, o addirittura al pregiudizio, è meno deprimente che considerare noi stessi immeritevoli. Noi tendiamo invece ad ammettere i fallimenti e gli errori più se Noi abbiamo la curiosa tendenza a dipingere positivamente noi stessi e a valutarci come migliore degli altri. Inoltre tendiamo a pensare che gli altri siano d’accordo con i nostri comportamenti spesso molto più di quanto lo siano in realtà, è un fenomeno chiamato effetto del falso consenso, per il quale supponiamo che quando compiamo un determinato comportamento anche gli altri generalmente applichino quel comportamento o sono d’accordo con le nostre idee. Per esempio, in una ricerca è stato rilevato che il 90% degli utenti di facebook erano capaci a prevedere quando i loro amici erano d’accordo con le loro idee ma solo al 41% erano capaci di prevedere invece il disaccordo. Quando si compie un comportamento eticamente sbagliato o si fallisce in un compito tendiamo a pensare che le nostre siano manchevolezze comuni e che anche gli altri agiscano allo stesso modo e compiano gli stessi errori , per esempio se non si è onesti nella dichiarazione dei redditi o sul numero di sigarette fumate possiamo pensare che questi comportamenti siano molto più comuni di quanto lo siano in realtà. Tuttavia l’altro lato della medaglia è che anche quando compiamo comportamenti positivi tendiamo a sopravvalutare questi comportamenti considerandoli come eccezionali cioè si tende a pensare che pochi o nessuno delle altre persone compia gli stessi comportamenti, è la tendenza alla falsa unicità. I due fenomeni possono coesistere; per esempio se un fumatore di marjuana dopo aver fumato si mette alla guida di un auto ma allaccia la cintura può pensare che molti si mettano alla guida dopo aver fumato marjuana (falso consenso) ma anche che lui sia uno dei pochi che si mette la cintura (falsa unicità); queste tendenze mentali proteggono la nostra autoconsapevolezza e la nostra autostima. Spiegare i self-serving bias Una spiegazione sui self serving bias considera essi come un sottoprodotto del modo in cui si elaborano e si producono le informazioni su noi stessi. Confrontare noi stessi con gli altri implica prendere nota, valutare e richiamare alla mente i loro e i nostri comportamenti. La percezione di questo bias non è altro che un errore percettivo, per esempio il fenomeno sociale di cui abbiamo parlato sopra per cui i mariti sopravvalutano i lavori che fanno in casa e le mogli sottovalutano i lavori fatti dai mariti in casa può essere dovuto semplicemente al fatto che noi tendiamo a ricordarci meglio ciò che noi facciamo e a dimenticarci o a porre meno attenzione a ciò che fanno gli altri. Noi in cerca di autoaffermazione si è motivati a incrementare in senso positivo il nostro concetto di sé, cioè la motivazione all’autostima aiuta a potenziare i self-serving bias. Riflessioni sull’autostima e sui self serving bias I self serving bias possono essere considerati dalle persone come deprimenti o come contrari all’inadeguatezza che a volte si sperimenta nella vita. Tuttavia alcuni studi hanno rilevato che a volte i self serving bias possono anche essere utili per la protezione dell’autostima e di conseguenza del nostro benessere, si parla in questo caso di self serving bias a carattere adattivo. Self-serving bias a carattere adattivo Avere un’alta autostima protegge da stati d’ansia e dalla depressione. Sentirsi competenti, efficaci e giudicarsi positivamente può farci sentire meglio. Credere al fatto di avere più competenze accademiche e più talenti dei nostri pari ci consente di impegnarci di più per esempio in un esame e di non disperarsi di fronte a un fallimento, cioè i self serving bias e le scuse che li accompagnano possono proteggere dalla depressione. Le persone non depresse tendono maggiormente a presentare questi self serving bias e a cercare di mantenere alta la propria autostima, al contrario molti depressi o affetti da disturbi d’ansia tendono molto meno a ingigantire le proprie capacità e quindi ad applicare self serving bias. Inoltre spesso i self serving bias aiutano a proteggersi dallo stess. Infatti in uno studio compito da Bonanno nel 2005 in cui intervistò alcune persone che erano sopravvissute alla tragedia dell’11 settembre 2001 nonostante fossero nelle vicinanze delle torri gemelle per verificare la loro resilienza, osservò che coloro di essi che tendevano a presentare self serving bias avevano una maggior resilienza rispetto a coloro che invece non li avevano. Quindi in questi casi l’autostima positiva risulta adattiva perché protegge dall’ansia, dallo stress e dalla depressione. D’altronde durante l’infanzia si impara che quando si soddisfano determinati requisiti imposti dai genitori allora si è bravi e pieni di qualità mentre quando non li si soddisfano non riceviamo complimenti dai nostri genitori e quindi non stupisce che tendiamo a voler mantenere un’alta autostima e un’alta considerazione di noi per considerarci competenti e capaci. Inoltre, in uno studio Greenberg nel 1977 ha rilevato che avere una buona considerazione di noi stessi e quindi un’alta autostima può proteggerci anche addirittura dal pensiero della morte. Infatti è stato osservato che facendo scrivere un saggio sulla morte ad alcune persone esse vengono motivate ad avere fiducia nel proprio valore. Di fronte a tali minacce, l’autostima protegge dall’ansia. Nel 2004, un anno dopo l’invasione dell’Iraq da parte degli USA, gli adolescenti presentavano un’autostima molto più alta. Quindi in tutti questi casi avere un’alta autostima può presentare una certa saggezza pratica ed essa ci può anche motivare a raggiungere i nostri obiettivi. Self-serving bias a carattere non adattivo Ma queste tendenze sistematiche di pensiero, i self serving bias, possono anche avere carattere non adattivo e semplicemente essere generati per una questione di orgoglio e per il semplice desiderio di sentirsi superiori agli altri. In uno studio Schlenker ha rilevato che molti gruppi rock arrivano a sciogliersi proprio perché i loro membri spesso si considerano i maggiori responsabili del successo del gruppo sopravvalutando la propria responsabilità e sottovalutando gli altri, facendo quindi nascere grandi discussioni. Schlenker poi in Florida fece esperimenti in cui convolse gruppi di persone che dovevano svolgere determinate mansioni le quali poi venivano falsamente giudicate bene o male. Quando esse venivano giudicate bene i membri del gruppo si ritenevano ognuno responsabile del successo, quando veniva giudicato male ritenevano gli altri membri responsabili del fallimento. Se la maggior parte dei componenti di un gruppo ritiene di essere sottopagata e non apprezzata in relazione agli altri, è naturale che si manifestino invidia e risentimento ed è per questo che quando un lavoratore riceve una paga più bassa di altri o viene “trattato peggio” si lamenta e protesta, mentre invece se è lui stesso a ricevere la paga più alta ritiene che sia giusto così. Ma questo fenomeno non si verifica solo tra singoli individui ma anche tra gruppi e si parla in questo caso di group-serving bias per cui si considera l’ingroup migliore dell’outgroup e si ritiene il proprio gruppo responsabile del proprio successo e del fallimento dell’outgroup e il successo dell’outgroup e il fallimento dell’ingroup attribuiti invece a fattori esterni. Autopresentazione (self-presentation) Se è vero, come abbiamo visto, che tendiamo a proteggere la nostra autostima tramite self serving bias e altre strategie, è anche vero che spesso tendiamo a voler dare una buona impressione di noi agli altri e a volerci presentare in un certo modo, è il fenomeno dell’auto presentazione, vogliamo cioè per esempio offrire agli un’immagine di noi competente. La gestione delle impressioni I self serving bias rivelano la preoccupazione che noi abbiamo per la nostra immagine pubblica. Appurato questo, allora possiamo dire che noi tendiamo a voler dare una determinata impressione agli altri, cioè essere visti come desideriamo, sia Come abbiamo già detto noi interpretiamo la realtà in maniera soggettiva, cioè ci costruiamo una nostra realtà sulla base di emozioni, pensieri, sentimenti eccetera. La vita quotidiana è basata sull’interazione con le altre persone; interagendo con gli altri ci facciamo una rappresentazione cognitiva di loro per cercare di interpretarli e capirli, La rappresentazione cognitiva è il corpo di conoscenze accumulatesi nella nostra mente circa le caratteristiche di una persona, di un gruppo o di una situazione. In particolare interpretiamo gli altri sulla base delle nostre percezioni le quali si basano principalmente su 3 elementi: persona o gruppo sociale, situazione o comportamento. Noi come animali sociali colleghiamo gli indizi provenienti da questi 3 ambiti tra loro per cercare di capire e interpretare una persona o un gruppo di persone. In particolare, noi costruiamo la nostra realtà percettiva sulla base delle impressioni, le prime impressioni hanno una grande influenza su ciò che pensiamo di una persona e su cosa ci aspettiamo da parte di quella persona. Per esempio, se una persona è bella fisicamente tendiamo a interpretarla anche come “buona” e quindi ricca di caratteristiche positive rispetto a quando una persona non è fisicamente attraente; cioè l’attrazione fisica crea in noi aspettative positive verso la personale per la quale proviamo quell’attrazione; invece per esempio il viso “da bambino” è spesso associato a ingenuità, dolcezza e onestà. Ma le prime impressioni non sono basate solo sulla comunicazione verbale, ma anche quella non verbale: i gesti, i comportamenti, gli atteggiamenti delle persone influenzano il nostro modo di interpretarle, cioè per esempio le intrepretiamo a seconda del loro modo di camminare o di sedersi. Inoltre attraverso il corpo si danno informazioni a una persona sulla veridicità di quello che si sta dicendo, spesso infatti quando qualcuno dice una bugia viene scoperto attraverso il linguaggio non verbale. Inoltre gli indizi che utilizziamo per formulare nella nostra mente le prime impressioni su una persona sono quelli che risultano più salienti, cioè che emergono particolarmente in essa. Il priming Nel 2011 il premio Nobel Daniel Kahneman ha proposto l’esistenza di due tipi di sistema di pensiero nell’essere umano, il Sistema 1, veloce e intuitivo che produce pensieri basati sulle percezioni e le impressioni e senza particolari riflessioni e il sistema 2, che invece è più lento e riflessivo e si usa nelle situazioni dove occorre un determinato controllo dei propri pensieri. Il sistema 1 influenze i nostri pensieri e le nostre emozioni molto più di quanto pensiamo; vari studi hanno affermato che spesso i nostri giudizi e pensieri sono impliciti e inconsapevoli, basati sulla pura intuizione; alcuni stimoli infatti possono influenzare la nostra percezione e il nostro pensiero in modo implicito e automatico; per esempio se sentiamo la frase “sono in piedi davanti al banco” e poco dopo sentiamo sussurrate le parole “scuola” o “pesce” che sono parole pertinenti con la frase appena sentita riusciamo automaticamente a comprendere la frase e a collegare i termini piuttosto che quando si percepiscono termini non pertinenti con la frase. In un altro esperimento è stato visto che mettendo un profumo di detersivo nelle stanze di alcuni studenti universitari senza che questi lo sapessero essi pensavano maggiormente ad elementi inerenti alla pulizia. Altri studenti esposti al profumo di detersivo, quando veniva chiesto loro di descrivere le loro attività giornaliere essi rievocavano molte più attività legate all’ambito della pulizia rispetto a quando non erano esposte al profumo. Un esempio di questo fenomeno lo abbiamo anche nel fatto che gli studenti di psicologia spesso quando studiano disturbi mentali tendono ad associare le loro ansie e le loro paure a questi disturbi, così come quelli di medicina studiando le malattie fisiche si preoccupano maggiormente dei loro raffredori e le loro febbri. Ma si è osservato anche che queste percezioni e pensieri automatici e veloci insorgono anche quando si danno alle persone stimoli inconsci e impercettibili, cioè troppo brevi per poter essere percepiti; per esempio la parola “pane” può attivare con più facilità la percezione della parola “burro” appena sussurrata rispetto alla parola “bolla” che non è collegata. Inoltre se si proietta su uno schermo per pochi millisecondi il nome di un colore e poi si fa vedere al soggetto questo colore al computer egli lo identificherà più facilmente mentre invece l’identificazione sarà ritardata se viene proiettato il nome sbagliato del colore. Tutti questi eventi sono dovuti al fenomeno del priming ovvero del risveglio o attivazione di associazioni mentali. Anche le nostre sensazioni fisiche inoltre possono influenzare le nostre associazioni mentali per il principio delle cognizioni incorporate, per cui se ho appena toccato una bibita calda tenderò a comportarmi in maniera calorosa e generosa con gli altri. La percezione e l’interpretazione degli eventi Il processo inziale di formazione delle impressioni è veloce e richiede poco sforzo cognitivo ed è basato principalmente sulla comunicazione verbale, non verbale e sui comportamenti di una persona. Se la persona che incontriamo non ci interessa particolarmente allora tendiamo a dimenticare in fretta e a non dare importanza alle prime impressioni, mentre se quella persona ci interessa approfondiamo e riflettiamo sulle nostre prime impressioni per cercare di capirla meglio e di formularci un’idea più complessa sulle loro caratteristiche e per fare questo gli psicologi sociali hanno affermato che usiamo principalmente due tipi di modelli: il modello configurazionale di Asch, ideato da lui nel 1946, il quale sostiene che noi ci costruiamo impressioni più complesse sulle persone sulla base di alcuni loro centrali, cioè le loro caratteristiche più salienti che abbiamo colto dalle prime impressioni, da cui derivano poi dei tratti periferici; per esempio, gli aggettivi “calda” o “fredda” rappresentano due possibili tratti centrali di una persona, ma se una persona è “calda” supponiamo anche che sia generosa e calorosa e questi sono invece i tratti periferici così come se una persona è “fredda” pensiamo che sia anche timida, calcolatrice e spietata (tratti periferici). Secondo questa concezione quindi le persone hanno dei tratti più importanti e rappresentativi di esse e delle loro caratteristiche, da cui si ricavano tratti meno salienti. Generalmente si è rilevato un certo effetto ordine (effetto primacy), per il quale i tratti forniti per primi sono considerati anche quelli più importanti ma altri studiosi hanno rilevato in alcuni casi la possibile presenza di un effetto recency, per il quale vengono considerati più salienti le ultime caratteristiche fornite. Il secondo modello è invece il modello algebrico di Anderson, di matrice psicofisica, del 1981 il quale sostiene che l’impressione complessa e approfondita di una persona sia l’integrazione dei singoli elementi che la descrivono secondo un determinato modello meccanico algebrico, per il quale il risultato può essere positivo o negativo, per esempio se una persona è intelligente (+3) ma fredda (-4) allora l’impressione su di lei sarà nel complesso negativa, mentre se una persona è intelligente (+3) e anche calorsa (+4) l’impressione sarà positiva. Pur con metodi differenti, i due modelli in fin dei conti giungono per lo più alla stessa conclusione. E’ certo che le aspettative riguardo a determinati tratti di una persona sono quelle che ci portano a formulare un’impressione complessa su di essa e questo concetto è anche alla base della cosiddetta teoria implicita della personalità formulata da Schneider nel 1973 secondo la quale le persone assumono i tratti positivi in una persona legati tra loro e i tratti negativi come un gruppo a parte. Secondo questa teoria quindi, se una persona percepisce un tratto positivo in un’altra tenderà a formulare un’impressione nel complesso positiva e basata su altri tratti positivi di questa persona, al contrario se come elementi salienti di quella persona percepiamo tratti negativi allora ci faremo un’impressione negativa di quella persona nel complesso. Inoltre bisogna sempre considerare che le percezioni sociali dipendono molto dall’occhio dell’osservatore e dunque è inevitabile che possano entrare in percezioni attuali. In uno studio è stato osservato che se si chiede a delle persone di parlare di ricordi della propria infanzia legati all’azione di correre, saltare o far cadere un bicchiere di vetro a un matrimonio, successivamente esse seppur certi eventi non erano mai accaduti nella loro infanzia si costruivano dei ricordi inventati. Elisabeth Loftus ha studiato con tantissimi esperimenti questo tipo di fenomeno con più di 20000 soggetti che mostrarono tutti queste tendenze particolari. Una conseguenza importante di questo fenomeno è l’effetto informazione fuorviante, per il quale se una persona osserva un evento dal vivo e si costruisce un ricordo di esso ma poi qualcuno dà un’informazione fuorviante su quell’evento allora quella persona indurrà quell’informazione fuorviante nel proprio ricordo e penserà che quello sia sempre stato il primo ricordo di quello che era accaduto. Questo fenomeno potrebbe coinvolgere anche il racconto di abusi sessuali da parte di bambini che potrebbero aver ricevuto informazioni fuorvianti dai media, dai genitori o da altre persone che sono entrate a far parte dei loro ricordi fisici o psico sociali, motivo per cui molti studiosi hanno dubbi su quanto sia efficace avere come testimoni in tribunale dei bambini. Croxton in un esperimento del 1984 ha chiesto ad alcuni studenti di trascorrere 15 minuti a parlare con una persona; dopodichè gli studenti a cui venne detto di essere piaciuti a questa persona la ricordavano felice, tranquilla e rilassata mentre quelli a cui venne detto di non essere piaciuti la ricordavano infelice, nevrotica e antipatica. Ricostruire atteggiamenti e comportamenti passati Gli sperimentatori hanno analizzato anche il fenomeno sul cambiamento dei nostri atteggiamenti e comportamenti e i risultati rilevati sono stati scoraggianti, in quanto si è visto che le persone che cambiano spesso atteggiamento tendono a considerare come veritiero solo l’ultimo che hanno ideato e a dimenticarsi di quelli precedenti. Per esempio, ad alcuni studenti della Carnegie Mellon university è stato chiesto in un esperimento di rispondere alle domande di un questionario su quanto fossero favorevoli ad avere maggior controllo sui corsi dell’ateneo; il 90% di essi si dimostrò a favore di un controllo più alto dei corsi, ma quando poi venne chiesto agli stessi studenti di scrivere un saggio sugli elementi contrari a un maggior controllo dei corsi molti degli studenti rilevarono atteggiamenti opposti a quelli precedenti e diventavano contrari al controllo; essi successivamente affermavano che le loro opinioni e atteggiamenti sul tema erano sempre stati quelli scritti nel saggio negando gli atteggiamenti precedenti avuti durante il questionario. Inoltre la costruzione di ricordi positivi illumina le reminiscenze. Tutti coloro che avevano fatto un viaggio di 3 settimane in bicicletta o erano andati dall’altra parte del mondo ricordavano in un esperimento i loro viaggi come molto divertenti e felici, in quanto valutavano solo gli elementi e i momenti positivi di quei viaggi e non la noia e la tristezza di alcuni momenti, è una tendenza automatica e sistematica dell’uomo. Infatti in ogni esperienza positiva, parte del nostre piacere risiede nelle aspettative, parte nell’esperienza reale e parte nella rievocazione. In un altro esperimento McFarland e Ross nel 1985 hanno chiesto a degli studenti felicemente innamorati di valutare le loro attuali relazioni stabili; due mesi dopo fecero le stesse domande e coloro che avevano terminato la relazione dissero che fin da subito avessero fatto caso all’egoismo e all’incompatibilità del partner negando in realtà i precedenti atteggiamenti mentre quelli ancora innamorati dissero che erano sicuri che sarebbe stato così. Holmberg e Holmes hanno deciso di estendere tale esperimento a 373 coppie di novelli sposi nel 1974 ottenendo gli stessi risultati per cui le persone il cui matrimonio si erano inasprito dicevano di aver capito in partenza che il partner non era una persona positiva e che si sarebbero lasciati e viceversa. Sono risultati sicuramente sconcertanti e scoraggianti perché per esempio in questo caso i partner possono entrare in una spirale negativa sempre più ascendente. Non è che eliminiamo totalmente i nostri ricordi, piuttosto li rivalutiamo inconsapevolmente in base ai nostri sentimenti del momento. I genitori considerano la loro generazione migliore di quella dei propri figli probabilmente proprio perché considerano i valori della loro gioventù simili a quelli attuali, così come adolescenti possono considerare i loro genitori orribili o meravigliosi a seconda dell’umore del momento. I nostri ricordi ricostruiscono anche i nostri comportamenti del passato. E’ quello che hanno scoperto Ross, Mcfarland e Fletcher nel 1981 quando hanno svolto un esperimento in cui hanno mostrato a degli studenti il filmato di un esperto dentista il quale affermava la grande importanza di lavarsi i denti ogni giorno per più volte; nelle settimane successive i ricercatori rilevarono che gli studenti che avevano visto il filmato si erano lavati i denti più spesso di quelli che non lo avevano visto. E’ lo stesso principio per cui i fumatori dicono di aver fumato meno sigarette nei sondaggi di quante ne sono state vendute in realtà. Tendiamo a minimizzare i comportamenti negativi e amplificare quelli positivi. Coloro Talvolta pensiamo di essere migliorati e per questo ci ricordiamo il noi del passato come maggiormente negativo di quanto lo era in realtà; motivo per cui quando facciamo un percorso per perdere peso, smettere di fumare o altro nonostante spesso i miglioramenti siano modesti noi pur capendo di non essere diventati perfetti pensiamo che siamo comunque meglio del passato e quindi che il programma stia funzionando. Secondo Micheal Conway e Micheal Ross questo dipende dal fatto che poiché abbiamo fatto grandi sforzi, speso tanto denaro e risorse tendiamo a voler credere che il programma per cui ci siamo sforzati tanto stia funzionando. Dunque, nessuno di noi è esente da tali interpretazioni dipendenti dalle percezioni, dalle conoscenze e dai sentimenti del momento. I nostri giudizi sociali sono un misto di osservazione e aspettative, ragione e passione. I rimedi per l’eccessiva sicurezza di sé Una lezione che si deve imparare da quello che abbiamo appena detto e dagli studi sull’overconfidence (eccessiva fiducia in sé) è che non bisogna mai prendere per certe le affermazioni dogmatiche degli altri anche se questi sono molti sicuri di ciò che affermano, in quanto non sempre sicurezza significa competenza. Ci sono secondo gli studiosi tre principali modi per ridurre questo fenomeno ovvero: -un feedback immediato, come avviene per esempio per i meteorologi e coloro che si occupando di scommettere sulle corse dei cavalli, i quali ricevono quotidianamente un feedback e infatti la loro stima di possibilità di sbagliare è abbastanza accurata -scomporre ogni affermazione in tutte le sue componenti e verificare la veridicità di ognuna può aiutare eventualmente a scoprire un errrore -Trovare tutte le possibili confutazioni alla propria affermazione e rifletterci; in questo modo tentando di confutare la propria affermazione si può arrivare a capire che è effettivamente sbagliata Tuttavia si deve stare attenti a non inibire una ragionevole sicurezza nelle persone; infatti una certa dose di sicurezza alimenta l’autostima e di conseguenza l’autoefficacia, perciò essere troppo sicuri di sé è male ma una ragionevole fiducia è adattiva. Le euristiche: scorciatoie mentali diversamente, un atleta che vince la medaglia di bronzo spesso è più soddisfatto che uno che ha ricevuto la medaglia d’argento perché per il primo l’alternativa era quella di non vincere alcuna medaglia, l’altro invece pensa a come avrebbe potuto vincere facilmente la medaglia d’oro. Quando scampiamo per un soffio ad un brutto evento spesso pensiamo a un controfattuale negativo, quindi a cosa sarebbe potuto accadere di brutto e ci sentiamo sollevati, al contrario se abbiamo sfortuna in un determinato evento pensiamo al controfattuale positivo, quindi a come sarebbe potuta andare meglio. Inoltre più l’evento è significativo, più il pensiero controfattuale è intenso. Un amico di Myers che ha compiuto un incidente frontale con la macchina a cui è sopravvissuto ma in cui ha perso la moglie, la figlia e la madre scompone continuamente quell’evento immaginando di modificarlo. Generalmente comunque in Asia e nei paesi occidentali le persone vivoono con meno rimpianti per quello che hanno fatto rispetto a quello che non hanno fatto. Euristica dell’ancoraggio e dell’accomodamento L’ultimo tipo principale di euristica è quella dell’ancoraggio o accomodamento, per la quale noi facciamo giudizi sociali sulla base di punti riferimento che ci vengono inizialmente forniti o che abbiamo in mente. Per esempio, se ci viene chiesto se gli abitanti di Milano siano più di 1 000 000 probabilmente risponderemo di sì fornendo una cifra attorno al milione, ma se invece ci viene chiesto se essi sono meno di 10 000 000 risponderemo sempre di sì ma fornendo una cifra più alta rispetto a prima come per esempio 5 000 000. A un gruppo di studenti per esempio venne chiesto se pensavano che il rischio di una guerra nucleare fosse maggiore dell’11% mentre a un altro venne chiesto se fosse minore del 90%, il primo gruppo stimò che la probabilità di una guerra nucleare fosse intorno al 10%, mentre il secondo gruppo intorno al 25%. Dunque, anche l’euristica dell’ancoraggio talvolta può essere utile e farci fare stime abbastanza corrette. Per esempio se vogliamo vendere un nostro quadro e non sappiamo a che prezzo venderlo, ma vediamo da un’altra parte un altro quadro simile al nostro con un determinato prezzo, probabilmente decideremo di vendere il nostro quadro a un prezzo simile e in questo caso potremmo essere abbastanza corretti, ma se un quadro simile al nostro l’abbiamo visto invece a un’asta dove il prezzo di vendita era molto più alto allora probabilmente lo venderemo a un prezzo eccessivamente alto, sovrastimando il suo valore; cioè il rischio di usare questo tipo di euristica è quello di sovrastimare o sottostimare il valore di qualcosa. E’ un tipo di pensiero automatico che produce effetti sulla formulazione dei giudizi sociali. Le euristiche sono un modo “superficiale di pensare” Per ciò che abbiamo visto finora, si potrebbe facilmente pensare che noi abbiamo un pensiero automatico piuttosto superficiale ed intuitivo soggetto a bias cognitivi e ad euristiche che spesso possono farci compiere errori. Tuttavia, Kihlstrom nel 2004 ha rilevato che in realtà non è così in quanto non usiamo sempre le euristiche come modalità di pensiero, ma spesso facciamo riflessioni più profonde; infatti noi tendiamo a usare facilmente le euristiche solo quando: -non si ha tempo per un’analisi approfondita -si è sommersi dalle informazioni e non si è facilmente in grado di distinguere quelle importanti da quelle secondarie -l’oggetto o la questione che stiamo valutando è poco importante -si hanno scarso conoscenze in merito all’oggetto o alla questione soggetti alla valutazione -qualcosa della situazione funge come stimolo e dunque effetto priming -ci si sente particolarmente ottimisti e si ritiene che non sia necessario compiere pensieri particolarmente profondi Il pensiero illusorio Sul nostro pensiero abituale e il nostro pensiero intuitivo impatta un’altra caratteristica che è quella del pensiero illusorio, spesso cioè tendiamo a collegare tra loro eventi che in realtà non sono per loro natura collegati. La correlazione illusoria Noi tendiamo automaticamente a collegare due o più eventi tra i quali invece non esiste nessuna correlazione, si parla cioè di correlazione illusoria. Infatti Ward e Jenkins nel 1965 dimostrarono questo fenomeno con un esperimento in cui mostrarono a degli studenti gli effetti di un ipotetico bombardamento sulle nuove e quindi sulla pioggia; in realtà i dati erano casuali perché qualche volta pioveva dopo il bombardamento e altre volte no, quindi non c’era una vera correlazione dimostrabile; tuttavia la maggior parte degli studenti ritenne che ci fosse una correlazione tra i bombardamenti e l’aumento della quantità di pioggia. La correlazione illusoria, ovvero la credenza che due variabili siano realmente associate quando in verità non esiste nessuna associazione, dipende essenzialmente da due fattori: -l’associazione di significati, cioè quando le persone si aspettano per le loro credenze che due variabili siano effettivamente collegate tra loro -la distintività degli eventi, in base alla quale due persone associano tra loro due eventi che hanno caratteristiche inusuali simili. Le persone travisano facilmente eventi casuali per cercare di dare loro un ordine, è una tendenza automatica. Se si è convinti che le premonizioni si correlano agli eventi, allora quando un evento accade si ricorda facilmente la nostra premonizione. La correlazione illusoria è alla base anche degli stereotipi, in quanto la stereotipizzazione consiste proprio nel collegare determinate caratteristiche a un determinato gruppo di persone, ma spesso queste correlazioni non sono veritiere o comunque sono immaginate in misura maggiore rispetto alla realtà. L’illusione del controllo Spesso il fenomeno della correlazione illusoria porta allo sviluppo di un altro fenomeno che è quello dell’illusione del controllo, ovvero la credenza di poter controllare determinati eventi o comunque di avere un controllo maggiore di quanto abbiamo su eventi casuali. Ellen Langer nel 1977 ha verificato questo fenomeno tramite diversi esperimenti sul gioco d’azzardo nei quali si è visto che le persone che giocano d’azzardo tendono a pensare che le loro vittorie dipendano dalle loro azioni, cioè molte persone per esempio pensano che tirando un dado dolcemente ottengano il numero basso che desiderano e viceversa che tirandolo forte ottengano un numero alto; inoltre in un esperimento della Langer le persone che avevano scelto loro stesse il numero della lotteria tendevano a vendere il proprio biglietto a un prezzo quattro volte maggiore rispetto a coloro a cui invece era stato assegnato casualmente. Quando si gioca d’azzardo contro una persona impacciata o nervosa si scommette molto di più rispetto a quando si gioca contro una persona veloce e decisa, come se fossimo convinti che le caratteristiche di una persona possano realmente avere il controllo su giochi d’azzardo o di pura fortuna. Quando giriamo la ruota nel giro della fortuna ci sentiamo importanti e crediamo di avere il controllo sulla situazione. Le persone agiscono come se potessero predire e controllare eventi casuali. Twersky e Kahneman nel 1974 hanno rilevato che questo fenomeno potrebbe dipendere da un’altra credenza molto diffusa che è quella della regressione verso la media, ovvero il fatto che prestazioni o eventi estremi tendano a tornare come un richiamo sessuale. Questo genere di fraintendimento a cui l’uomo può rispondere pensando realmente che si tratti di un richiamo sessuale può essere letta da una donna come molestia o addirittura violenza sessuale. Molti uomini per esempio pensano che le donne siano lusingate quando insistono più volte nell’invitarle a un appuntamento nonostante abbiano rifiutato ma in realtà esse possono vedere quest’insistenza come una molestia. Secondo Gilbert e Patrick Malone ogni uomo interpreta la propria pella come una barriera tra forze interne quindi all’interno della pelle che sono per esempio il carattere, i propri attributi e le proprie disposizioni mentre all’esterno della pelle si trovano forze esterne quali la fortuna o la situazione sociale. A volte le forze esterne spingono sulla pelle ed entrano al suo interno interagendo con quelle interne, altre volte sono le forze interne a spingere verso l’esterno della “pelle”. Inoltre le due cose possono anche avvenire contemporaneamente. Heider nel 1958, uno dei pionieri della teoria dell’attribuzione insieme a Rotter, ha analizzato come le persone tendono ad interpretare i comportamenti quotidiani delle persone e a fare determinate attribuzioni. Nel suo pensiero fondamentale c’è il locus of control, cioè la casualità di un’azione che può essere interpretata o tramite attribuzioni interne e quindi disposizionali quali il carattere, la voglia di raggiungere un obiettivo personale, l’impegno) eccetera e qualche volta si possono avere attribuzioni situazionali quali la situazione, l’influenza di persone più potenti, l’ambiente sociale, la fortuna o sfortuna eccetera. Distingue quindi tra attribuzione disposizionale e attribuzione situazionale. Weiner ha aggiunto nel 1986 a questa distinzione quella tra cause stabili e quindi permanenti e durate e cause instabili e quindi contingenti e fluttuanti. Una persona, per esempio uno studente, può impegnarsi maggiormente se attribuisce il risultato di una verifica a forze disposizionali quindi interne e stabili ma impegnarsi di meno se invece lo attribuisce a forze esterne (situazionali) instabili. Questa lettura dell’attribuzione dei comportamenti ha portato Weiner a rivedere la teoria dell’impotenza appresa di Seligman del 1975 e ha attribuito la depressione a una sensazione di impotenza delle persone dovute al fatto che questi hanno sperimentato più volte situazioni in cui i loro risultati e le loro prestazioni non dipendevano dal loro impegno e dalle loro disposizioni interne ma piuttosto da forze esterne non controllabili e questo le ha portate alla resa e al ritiro sociale. La teoria dell’inferenza corrispondente di Jones e Davis Edward Jones e Keith Davis nel 1965 hanno proposto la teoria dell’inferenza corrispondente per spiegare come le persone attribuiscono i comportamenti agli altri e hanno sostenuto secondo questa teoria che noi tutti tendiamo ad attribuire facilmente una determinata azione di qualcuno ai suoi tratti caratteriali quindi a disposizioni interne stabili. La facilità con cui da un determinato comportamento di una persona si ricavano i suoi tratti caratteriali è stata resa evidente da diversi studi: per esempio in un’università di New York Uleman nel 1989 ha fatto un esperimento in cui ha parlato di un uomo anziano che spesso portava la spessa di un’altra signora fino a casa sua per aiutarla. Per ricordarsi questa frase gli studenti non pensavano alla parola “spesa” o “signore anziano” ma piuttosto alla parola “servizievole”, dimostrando di aver automaticamente ricavato una disposizione interna caratteriale sull’anziano signore e di interpretare i suoi comportamenti in base a quel tratto inferito. Un’inferenza corrispondente è giustificata quando il comportamento messo in atto da una persona: -è scelto liberamente -è imprevisto anziché tipo, cioè non è soggetto a desiderabilità sociale -è svincolato dai ruoli sociali -ha effetti non comuni Il modello di covariazione di Kelley Un’altra teoria sull’attribuzione dei comportamenti che noi mettiamo in atto sulle altre persone è quella di covariazione proposta da Kelley nel 1973 il quale sostiene che noi applichiamo una maggiore razionalità nell’interpretare il comportamento di una persona rispetto alla teoria dell’inferenza corrispondente, infatti il modello di covariazione sostiene che noi attribuiamo un certo comportamento di una persona a una causa solo se questa causa è presenta al momento della messa in atto del comportamento ed è assente quando il comportamento non viene messo in atto, cioè secondo questa teoria la causa covaria con l’effetto. Questa particolare operazione cognitiva si basa su tre principi cioè 3 regole che devono essere rispettate per pensare ad una covariazione di causa ed effetto che sono: -la coerenza, ovvero se il comportamento viene messo in atto solo in presenza di quella specifica causa e mai in sua assenza -la distintività, ovvero quanto il comportamento messo in atto sia specifico di quella determinata situazione -il consenso, ovvero se lo stesso comportamento viene messo in atto dalle altre persone in presenza di quella determinata causa o determinata situazione Se il comportamento è coerente con la causa, ha un’alta distintività e un alto consenso allora è più probabile attribuire quel comportamento a una causa esterna, se invece il comportamento ha una bassa coerenza con la causa, una bassa distintività e un basso consenso è più probabile attribuirlo a una diposizione interna e quindi caratteriale della persona che lo mette in atto; per esempio se Maria e molti altri criticano Stefano e Maria non è solita criticare altre persone oltre lui e Stefano è criticato da molte altre persone allora probabilmente le critiche di Maria dipendono da Stefano (attribuzione situazionale esterna), se invece è solo Maria a criticare Stefano ed è solita criticare anche molte altre persone allora la causa attribuita al comportamento di Maria sarà probabilmente interna a lei. Dunque, la distintività ci dice quanto è specifico di una determinata situazione un determinato comportamento, la coerenza quanto quella persona metta in atto quel comportamento in presenza di quella specifica situazione e il consenso quanto quel determinato comportamento sia messo in atto da altre persone sempre nella stessa situazione. Inoltre Kelley ha rilevato anche che quando si trova una causa da attribuire a un determinato comportamento si tende spesso a prendere per buona quella e a non valutare tutte le altre, cioè si tende ad attribuire come causa di un comportamento la prima o la seconda a cui pensiamo. L’errore fondamentale di attribuzione La lezione più importante della psicologia sociale è quella di dimostrare quanto noi siamo influenzati dalle situazioni e dal contesto sociale e dunque anche dalle altre persone. Tuttavia spesso facciamo l’errore di sottostimare l’importanza che l’influenza di una situazione ha sul comportamento delle persone e tendiamo maggiormente ad attribuire quel comportamento a una disposizione interna di quella persona, cioè tendiamo a sottostimare le influenze situazione sui comportamenti e sovrastimare quelle disposizionali, questo fenomeno automatico è detto errore fondamentale di attribuzione. Myers l’ha ben sperimentato quando nel suo corso all’università svolgeva lezione una volta alle 8.00 di mattina e l’altra alle 19.00, la prima volta assisteva a sguardi molto timidi e silenziosi mentre alle 19 gli sembrava di entrare in un pool party. Ovviamente da osservatori esterni capiamo che la differenza tra le due situazioni dipendesse maggiormente dall’orario di lezione e quindi dalla situazione, ma Myers poteva facilmente ritenere che dipendesse dal La distorsione della prospettiva della videocamera: in vari esperimenti sugli interrogatori di sospettati criminali si osservava che quando il video dell’interrogatorio veniva mostrato ad un gruppo di studenti universitari se la ripresa era fissa maggiormente sul sospettato allora si credeva alla genuinità della sua confessione, quando invece la ripresa era fissa sul detective allora si considerava maggiormente la possibile coercizione; questo spiega anche perché, come è stato rilevato da vari studiosi, poiché la maggior parte delle riprese delle confessioni mostrate nelle aule giudiziarie aveva riprese fisse su chi confessava nella maggior parte dei casi il sospettato veniva condannato. Prospettive che cambiano col tempo: un altro possibile fattore che influenza questo fenomeno è il tempo; infatti in vari esperimenti è stato visto che quando agli studenti veniva fatto leggere da qualcuno un saggio su una posizione politica assegnatagli casualmente, gli studenti tendevano comunque a ritenere che quella posizione politica fosse sostenuta da chi parlava e dunque attribuivano il suo saggio a disposizioni interne ma qualche giorno dopo essi consideravano maggiormente l’influenza della situazione e delle restrizioni sociali. L’autoconsapevolezza: Un altro fattore molto influente è quello dell’autoconsapevolezza, ovvero quanto le persone focalizzino l’attenzione su di sé. Maggiore è il livello di autoconsapevolezza, maggiore sarà la probabilità di attribuire i nostri comportamenti a disposizioni interne e quindi di compiere attribuzioni disposizionali; Fenigstein e Carver nel 1978 lo dimostrarono facendo immaginare a degli studenti situazioni ipotetiche inducendoli a un maggior livello di autoconsapevolezza facendo finta che stessero ascoltando il loro battito cardiaco mentre ponderavano la situazione e questo portava gli studenti ad attribuire maggiormente la situazione a fattori interni. Le persone che riportano di sentirsi molto attente a sé e quindi con un alto livello di autoconsapevolezza sono anche quelle che più di tutti attribuiscono i propri comportamenti a situazioni interne disposizionali comportandosi più come osservatori di sé stessi piuttosto che come veri attori. Tutti questi esperimenti portano a una spiegazione principale ovvero il fatto che troviamo le cause di un comportamento dove le cerchiamo. Inoltre poiché noi siamo profondamente consapevoli di come cambia il nostro comportamento con le situazioni, ci vediamo più mutevoli rispetto alle altre persone. Differenze culturali: anche la cultura influenza l’errore fondamentale di attribuzione. Infatti nelle culture occidentali le persone sono abituate alla forma di pensiero per cui ottiene ciò che meriti e quindi tendono maggiormente ad interpretare le loro azioni e quelle degli altri in termini di disposizioni personali e tratti caratteriali. Invece nelle culture collettivistiche le persone sono più portate a fare maggiore attenzione alle situazioni e dunque a considerare di più le influenze situazioni sui comportamenti delle persone, cioè c’è meno la tendenza a inferire automaticamente tratti personali dai comportamenti delle persone. In alcuni paesi anche le lingue promuovono una maggiore attenzione verso le situazioni sociali come per esempio l’idioma spagnolo che permette di dire: l’orgoglio mi ha fatto arrivare in ritardo. L’errore fondamentale di attribuzione condiziona le spiegazioni dei comportamenti degli altri in modo pesante e rilevante. In Inghilterra, Austria, India e negli stati uniti si è osservato che le attribuzioni delle persone predicono il loro atteggiamento verso povertà e situazioni sociali difficili. Infatti le persone collettivistiche che danno maggior importanza alle situazioni sociali e alle loro influenze sui comportamenti sono più favorevoli a politiche di aiuto verso le persone povere e in situazioni difficili rispetto a quelli delle culture occidentali individualiste. Le aspettative del mondo sociale Le credenze sociali e i giudizi sono molto importanti in quanto influenzano i nostri comportamenti e i nostri atteggiamenti. Quando le nostre idee e giudizi ci portano ad agire in modo da ottenerne una conferma allora si parla di profezia che si autoavvera, ovvero di un comportamento messo in atto in base alle nostre idee e giudizi iniziali, cioè adattato ad essi. Per esempio, se alcuni cliente vengono indotti a credere che le loro banche chiuderanno e che le azioni in questo periodi saranno alle stelle molti convinti di questa credenza andranno a prelevare i loro denari. Nei suoi noti studi sugli errori degli sperimentatori, Robert Rosenthal nel 1985 ha osservato che a volte i ricercatori ottengono dai soggetti le risposte che si aspettano. Per esempio, se un ricercatore mostrava una foto con annessa descrizione di una persona a due diversi gruppi di studenti, se si aspettava che un certo gruppo di studenti percepisse le persone mostrate come maggiormente di successo ottenevano valutazioni più alte, ma anche se si aspettava che un altro gruppo di studenti percepisse le persone mostrate come persone di poco successo allora ottenevano valutazioni più basse. Ancora più sorprendenti sono gli studi sul rapporto tra le aspettative degli insegnanti e le prestazioni dei loro studenti. Molti studiosi hanno verificato un notevole collegamento tra come gli insegnanti si comportano coi propri studenti a seconda delle aspettative che hanno su di loro e come questi reagiscano di conseguenza. Infatti si è osservato che gli insegnanti avevano una buona stima di coloro che ritenevano bravi e per questo spesso davano loro maggiore attenzione, magari più tempo per rispondere alle domande, li guardavano coinvolgendoli di più durante le spiegazioni eccetera, mentre se avevano delle basse aspettative sui loro studenti allora davano loro meno attenzioni e gli studi hanno verificato che le aspettative degli insegnati, che potevano dipendere anche da informazioni pregresse giunti sui propri studenti, potevano influenzare il loro rendimento giungendo quindi a una profezia che si autoavvera. In un esperimento Rosenthal e Jacobson dissero a degli insegnati di una scuola elementare che un gruppo di 4 studenti era stato rilevato come particolarmente dotato con degli studi sul loro quoziente intellettivo; nei mesi successivi gli insegnanti diedero effettivamente maggior attenzione a questi studenti e infatti il loro QI incredibilmente aumentò. Questi risultati possono suggerire l’idea che se gli insegnanti incoraggiano maggiormente e danno maggiori attenzioni anche agli studenti meno bravi questi potrebbero effettivamente migliorare e incrementare positivamente il loro andamento scolastico. Tuttavia presto si scoprì che questi studi non erano così accurati e che in realtà l’influenza delle aspettative degli insegnanti nei confronti dei loro studenti non era così elevati; infatti in solo 4 su 10 dei 500 esperimenti fatti Rosenthal ottenne questi risultati sul tema. Tuttavia è vero che gli atteggiamenti degli insegnanti nei confronti degli studenti, sia verbali che non verbali durante le lezioni influiscono su quanti essi ascoltano e imparano, così come è vero anche il contrario, ovvero che le aspettative degli studenti nei confronti degli insegnanti, magari per sentito dire cioè se pensano che siano più competenti e dunque fanno più attenzione alle loro lezioni, allora l’insegnante sarà effettivamente considerato competente e quindi anche qui si ha una profezia che si autoavvera. Per esempio, in un esperimento Feldman e Prohaska hanno detto a due diversi gruppi di studenti che il nuovo insegnante di storia era considerato particolarmente competente e bravo da tutti gli altri studenti ed insegnanti, così registrando la prima lezione di questo insegnante i ricercatori videro che gli studenti erano più attenti e di conseguenza gli insegnanti maggiormente soddisfatti per il fatto che i loro studenti li seguissero con più attenzione risultavano più competenti. In altri studi, registrando le facce e le cose che dicevano gli insegnanti quando parlavano con uno studente si rilevò che in base ai loro atteggiamenti si poteva facilemente capire la reputazione che l’insegnante aveva di quello studente e quanto lo considerasse capace e dunque quanto gli piacesse. Ottenere dagli altri ciò che ci si aspetta Gli atteggiamenti: definizioni e funzioni Ogni atteggiamento si può basare su tre componenti: sentimenti o affetti (affect), il comportamento assunto in precedenza verso l’oggetto dell’atteggiamento (behaviour), le conoscenze sull’oggetto dell’atteggiamento e le credenze su di esso (cognition). Questi tre elementi possono essere considerati L’ABC di un atteggiamento; per esempio Lucia può valutare in modo favorevole la cucina giapponese perché prova sensazioni positive e di piacere quando mangia cibo giapponese (affect), ha frequentato spesso ristoranti giapponesi e mangiato spesso questo tipo di cibo (behaviour), conosce bene le proprietà e le caratteristiche del cibo giapponese (cognition). Se prima gli psicologi credevano fermamente che per sviluppare un atteggiamento fossero necessarie tutte e 3 le componenti, oggi ritengono invece che possa esserne presente solo una, due o tutti e 3 in contemporanea. Per spiegare la struttura interna degli atteggiamenti, oltre a questo modello tripartito è stato proposto da Fishbein nel 1967 il modello dell’aspettativa- valore, il quale sostiene che l’atteggiamento implichi un certo numero di variabili o credenze su un attribuito dell’oggetto di atteggiamento e che noi diamo un certo valore positivo o negativo a tali attributi. Per esempio, possiamo pensare che l’atteggiamento di Filippo nei confronti dei cibi biologici dipenda da una serie di informazioni da lui acquisite, da determinati comportamenti passati (quante volte ha cercato negozi di cibi biologici), dalle emozioni che essi suscitano in lui (positive o negative) e da etichette valutative (bello/brutto, buono/cattivo). Il modello dell’aspettativa-valore in particolare sostiene che a seconda delle nostre credenze o aspettative su un attributo dell’oggetto di atteggiamento noi diamo poi un certo valore positivo o negativo a quella credenza o attributo e l’atteggiamento complessivo si ottiene moltiplicando tutte le aspettative o credenze x il valore da noi attribuitegli e poi fare la somma di tutti i prodotti, quindi è l’esito di una somma dei prodotti aspettativa x valore. Inoltre gli atteggiamenti oltre a essere pure valutazioni hanno anche, come individuato da Katz e Smith, determinate funzioni, in particolare quattro: -funzione conoscitiva: possono aiutare a conoscere o interpretare un determinato oggetto o una persona o un determinato gruppo di persone -funzione di espressione dei valori: possono essere utili per rinforzare la propria identità esprimendo i propri valori in cui si crede -funzione egodifensiva: gli atteggiamenti hanno anche una funzione di difesa in quanto ci aiutano a conseguire un’identità più positiva, cioè protegge la persona da una realtà sgradevole, da un conflitto interno riducendo l’ansia da questo provocata; per esempio secondo Katz l’atteggiamento negativo di una persona nei confronti di una nazionalità o un’ideologia dipende proprio dal conflitto tra realtà esterne e interne sgradevoli. Inoltre gli atteggiamenti possono avere anche una funzione di adattamento sociale, in quanto possono portare a inserirsi in un determinato ambiente sociale e a ricevere ricompense. Secondo Katz noi possiamo rispondere a più funzioni degli atteggiamenti o a solo una di esse a seconda del contesto in cui ci troviamo; inoltre secondo lui cambiamo atteggiamenti quando essi non soddisfano più i nostri bisogni psicologici. La misurazione degli atteggiamenti Naturalmente gli psicologi sociali non possono misurare direttamente gli atteggiamenti di una persona ma piuttosto misurano l’espressione di essi tramite diversi test. Esistono sia test diretti che indiretti. I test diretti sono per esempio quelli dell’autodescrizione o dell’osservazione. L’autodescrizone consiste nel rispondere alla domanda: cosa ne pensi di X ( un gruppo di persone, una persona, una situazione ecc). La risposta fornisce l’atteggiamento che quella persona ha nei confronti di X, ma solo se la persona è stata onesta. Parlare con amici di un determinato argomento, un’indagine poltica o sociale eccettera sono forme di autodescrizioni. Inoltre, poiché gli psicologi sociali concordano sul fatto che i comportamenti riflettano gli atteggiamenti, allora anche l’osservazione dei comportamenti può far comprendere determinati atteggiamenti di una persona, per esempio osservando come si comporta una persona verso un’altra di un determinato gruppo etnico si può rilevare l’atteggiamento di quella persona verso quel determinato gruppo etnico. Come già detto però per essere attendibili autodescrizione e osservazione devono essere oneste e la possibilità che il soggetto si faccia influenzare dalla desiderabilità sociale è sempre in agguato, in quanto nessuno vuole passare da razzista o persona piena di pregiudizi eccetera. Per questo sono state realizzate altre tecniche di misurazione degli atteggiamenti, le tecniche indirette. Una di queste è quella di misurare tramite elettromiografia facciale le espressioni delle persone nei confronti dell’oggetto di atteggiamento. Un’altra è quella del falso collegamento, ovvero si fa credere al soggetto di essere collegato a una macchina che misura se quello che sta dicendo è vero o falso, la persona quindi potrebbe temere che le proprie risposte non vere possano essere rilevate e per questo può tendere maggiormente a rispondere sinceramente, ironicamente tramite l’inganno si può ottenere la verità. Un altro tipo di misurazione è quella degli atteggiamenti impliciti, ovvero per esempio osservando i tempi di reazione nelle risposte delle persone (test IAT) a determinati oggetti di atteggiamento (per esempio se la persona ci mette di più a collegare parole positive a soggetti di colore piuttosto che a quelli bianchi). Spesso per rilevare meglio gli atteggiamenti di una persona si utilizzano tecniche dirette ed indirette insieme, cioè si integrano. Tuttavia molti ricercatori hanno messo in dubbio l’efficacia delle tecniche IAT, perché secondo molti per esempio ha una bassa affidabilità test-retest, cioè facendo più volte lo stesso test si ottengono risultati diversi. Per questo, per misurare gli atteggiamenti impliciti, conviene ai ricercatori fare più tipi di test diversi. Gli atteggiamenti sono in grado di predire il comportamento? Gli psicologi sociali hanno dedicato molta attenzione al grado di predizione che gli atteggiamenti delle persone hanno sui loro comportamenti. Lo psicologo La Piere per esempio nel 1934 ha realizzato un esperimento diviso in due parti in cui ha evidenziato che non sempre gli atteggiamenti predicono i comportamenti: nella prima parte ha portato con sé in vacanza negli stati uniti una coppia di cinesi andando in alberghi, ristoranti e altri luoghi pubblici; nonostante il grande pregiudizio che a quei tempi gli americani avevano nei confronti dei cinesi, la coppia non fu servita una sola volta negli stati Uniti. Ma il risultato più sconcertante è che nella seconda parte quando La piere diede agli albergatori e ristoratori a cui si era presentato con la coppia un questionario in cui chiedeva se avessero ospitato nei loro alberghi o ristoranti persone provenienti dalla cina, circa il 90% di essi affermò che non li avrebbero ospitati o serviti. Questo dimostra che spesso gli atteggiamenti non rappresentano poi il comportamento reale. Un altro psicologo che lo dimostrò fu Allan Wicker il quale studiò quanto gli atteggiamenti manifesti (espliciti) predicessero il comportamento rivelando fenomeni sconcertanti: -Gli atteggiamenti che gli studenti avevano in merito alla possibilità di imbrogliare ad un test non corrispondeva generalmente al loro comportamento reale durante un test -gli atteggiamenti nei confronti della chiesa non prediceva spesso la frequenza alle funzioni domenicali -gli atteggiamenti razziali autodescritti rappresentavano solo in minima parte i comportamenti verso le determinate etnie. determinato comportamento o dalla situazione o dalle altre persone. Per questo motivo Ajzen insieme a Madden nel 1986 hanno aggiunto un ulteriore elemento alla teoria che è quello del controllo sul determinato comportamento, cioè maggiore è la capacità di controllo verso il comportamento maggiore sarà l’intenzione di metterlo in atto, in particolare quindi la credenza soggettiva della facilità o difficoltà con cui si può mettere in atto un determinato comportamento. Se la persona riterrà che il comportamento ha più benefici che costi per sé, vedrà anche altre persone a lui vicine metterlo in atto e riterrà che sia abbastanza facile per lui da compierlo allora probabilmente metterà in atto quell’azione. Quando gli atteggiamenti sono potenti Come sappiamo già, gran parte dei nostri comportamenti sono automatici, cioè li mettiamo in atto senza nemmeno pensarci come accade per esempio quando guidiamo o allacciamo le cinture o altro. Gli psicologi sociali hanno rilevato che gli atteggiamenti predicono maggiormente i comportamenti se si spinge la persona a riflettere su di essi, cioè ad avere una certa autoconsapevolezza. Infatti se la persona si concentra su sé stessa e sui propri atteggiamenti e le proprie idee allora è probabile che si comporterà di conseguenza e manterrà una certa coerenza tra parole e atteggiamenti. E’ quello che hanno rilevato Mark Snyder e Swann nel 1976 con un esperimento. Essi hanno invitato degli studenti dell’università del Minnesota a riflettere e ad autodescrivere i loro atteggiamenti nei confronti delle pari opportunità sul lavoro. Due settimane dopo hanno reso gli studenti giudici di finti casi di discriminazione delle donne sul lavoro; ciò che si è osservato è che gli studenti mantenevano maggior coerenza nei comportamenti con gli atteggiamenti espressi due settimane prima se prima di indurli a interpretare il ruolo di giudici gli erano state ricordate le parole da loro stessi pronunciati due settimane prima. Questo porta dunque alla conclusione che si può spingere le persone ad adottare comportamenti in linea con i loro atteggiamenti spingendoli verso una maggiore autoconsapevolezza, per esempio facendoli recitare davanti a uno specchio. Gli atteggiamenti diventano potenti se le persone hanno riflettono su di essi, se gli vengono in mente; infatti le persone con una buona dose di autoconsapevolezza sono anche quelle che mantengono più intatti i loro atteggiamenti e li esprimono maggiormente nei loro comportamenti. L’autoconsapevolezza dunque promuove coerenza tra atteggiamenti e comportamenti; infatti gli studiosi hanno rilevato che gli atteggiamenti sono più potenti se riguardano situazioni o interessi personali; per esempio se viene formulata una nuova legge sul cambiamento dell’età in cui diventa legale bere alcool gli atteggiamenti delle persone nate nell’anno che riguarda la proposta di legge avranno atteggiamenti più intensi rispetto agli atlri. Quando il comportamento influisce sugli atteggiamenti? Se è vero che, come abbiamo visto, in particolari condizioni specifici atteggiamenti possono predire specifici comportamenti, gli psicologi sociali hanno dimostrato che è vero anche il contrario, ovvero che a determinati comportamenti possano seguire specifici atteggiamenti; infatti è stato rilevato che quando si assume un determinato ruolo, anche se artificiale, le persone cominciano a credere in quel ruolo e comportandosi secondo il proprio ruolo iniziano ad avere atteggiamenti tipici di quel ruolo, come si vede bene nell’esperimento della prigione di Stanford di cui già abbiamo parlato e che mette in evidenza come l’assunzione dei ruoli artificiali di prigionieri e guardie spinse i soggetti prima a mettere in atto comportamenti da guardie o da prigionieri e successivamente mettere in atto tali comportamenti li spinse a credere anche in determinati ideali tipici del loro ruolo e a credere che quei comportamenti fossero corretti, quindi a sviluppare nuovi e potenti atteggiamenti adattandosi alla situazione sperimentale. Se questo accade in ruoli artificiali, è inevitabile che accada ancora di più in ruoli nella vita reale. Infatti gli studiosi hanno rilevato che passando da un vecchio lavoro a uno nuovo, le persone pur trovando inizialmente strano il nuovo lavoro e i comportamenti tipici di quel nuovo lavoro dopo un po’ di tempo iniziavano ad assumere quei comportamenti e quegli atteggiamenti specifici di quel lavoro all’interno del proprio concetto di sé e quindi ad indossare “bene” il loro nuovo ruolo; è ciò che succede anche quando uno studente diventa professore ; pur trovando strano inizialmente passare dall’altra parte della cattedra e non avere idea di come comportarsi per essere un buon professore, successivamente poi essi comportandosi da professori sviluppano nuovi atteggiamenti abituandosi al nuovo ruolo. Inoltre gli psicologi hanno rilevato in vari studi anche che le persone tendono ad adattare le loro idee e i loro atteggiamenti agli ascoltatori mentre stanno parlando, cioè se sappiamo di star parlando con persone che hanno determinati atteggiamenti nei confronti di un argomento tendiamo anche noi ad avere quel determinato atteggiamento e iniziamo a credere in ciò che diciamo, pure se inizialmente avevamo un’idea differente e avevamo iniziato a parlare solamente in base a come reagiva l’ascoltatore. A noi infatti non piace sentirci falsi in ciò che diciamo o affermiamo e per questo tendiamo a credere in ciò che diciamo, cioè dire diventa credere, fenomeno studiato ampiamente da Higgins nel 1978 che tramite vari studi ed esperimenti ha proposto la teoria del piede nella porta, ovvero il fatto che chiedendo a una persona inizialmente di compiere un’azione semplice e di poco conto si può spingere successivamente quella persona a compiere anche l’azione più complessa e dispendiosa che era il nostro obiettivo fin dall’inizio e che magari inizialmente quella persona non voleva compiere. E’ quello che accade per esempio nelle raccolte fondi, cioè se si parte chiedendo a una persona una piccola cifra per una raccolta fondi questa accetterà volentieri e quando qualche tempo dopo si ritorna da essa è probabile che questa persona doni di più in quanto comincia a credere fortemente alla causa. In un esperimento per esempio alcuni ricercatori nei panni di volontari per la guida sicura, hanno chiesto ad alcuni cittadini di un quartiere se avrebbero potuto appendere un tabellone con una scritta antiestetica e fatta male: “guidare con prudenza” vicino alle loro case; inizialmente solo il 17% acconsentì ma poi i ricercatori chiesero allora una richiesta di poco conto ovvero appendere semplicemente alle finestre un piccolo adesivo con scritto: guidare in sicurezza e con prudenza. Quando ritornarono qualche giorno dopo, le persone disposte a far impiantare il tabellone con la scritta brutta ed antiestetica aumentarono fino al 54%, un risultato sorprendente. Ma la tecnica del piede nella porta fu dimostrata ampiamente con tanti altri studi: -Patricia Pilner nel 1974 realizzò un esperimento in cui rilevò che il 46% degli abitanti dei sobborghi residenziali di Toronto era disposta inizialmente a fare una donazione alla società canadese contro i tumori, ma questa percentuale raddoppiò quando venne chiesto alle stesse persone di indossare una spilletta dell’associazione per un intero giorno e solo successivamente venne chiesto nuovamente loro di donare. -la ricercatrice Lipstiz nel 1989 rilevò che appelli per la donazione del sangue come: “contiamo sulla vostra presenza, allora” aumentavano notevolmente la percentuale di persone disposte a donare rispetto ad altri tipi di appelli -Nelle chat room di internet Paul Markey nel 2002 osservò come se chiedeva direttamente: “non mi funziona il computer, qualcuno può aiutarmi” la percentuale di chi rispondeva era molto minore rispetto a quando prima di fare questa richiesta l’utente scriveva inizialmente: “sono una persona inesperta di tecnloogia, potrete aiutarmi a capire come visualizzare il profilo di un utente su facebook?” -i ricercatori Gueguen e Jacob nel 2001 osservarono che la percentuale delle persone su internet disposte a fare una donazione per le organizzazione per le vittime di mine antiuomo aumentava dall’1,6% al 4,9% se prima di questa richiesta veniva fatta firmare una semplice petizione contro le mine antiuomo. Autogiustificazione: la teoria della dissonanza cognitiva Nel 1957 Leon Festinger propose un’ulteriore teoria che spiega il legame tra comportamenti e atteggiamenti: la teoria della dissonanza cognitiva, ovvero che quando noi stessi percepiamo una dissonanza cioè un’incoerenza tra i nostri comportamenti e i nostri atteggiamenti e quindi una discrepanza percepiamo uno stato di tensione e ansia e per ridurre questo stato di tensione tendiamo a cambiare i nostri atteggiamenti riducendo la discrepanza tra atteggiamenti e comportamenti, cioè lo stato di tensione induce in noi la pressione al cambiamento. Se percepiamo incoerenza ci possiamo sentire ipocriti e sciocchi dentro di noi e questo genera un’ansia che ci porta a modificare il nostro atteggiamento. Questa teoria spiega anche perché in un’indagine si è osservato che i fumatori non la pensano come i non fumatori riguardo alle conseguenze del fumo sulla salute: infatti mentre negli Stati Uniti il 40% dei fumatori ritiene che il fumo non faccia così male come si dica, solo il 13% dei non fumatori invece lo pensa. Dopo la guerra dell’Iraq, nel 2003, che era giustificata dal governo americano con l’affermazione che molto probabilmente Saddem Hussein, governatore dell’Iraq, volesse attaccare gli Stati Uniti con armi di distruzione letali. Solo il 38% degli americani riteneva che la guerra sarebbe stata giusta anche se non fossero realmente presenti queste armi di distruzione; quando fu effettivamente rilevato che queste arme di distruzione di massa in realtà non c’erano, allora la maggior parte degli americani che prima aveva giustificato la guerra con questa ragione, sentì uno stato di tensione aumentato dalle brutali immagini della guerra che aveva causato moltissimi danni e migliaia di morti; così per ridurre questa tensione molti di essi iniziarono inconsapevolmente a ritoccare i loro ricordi sui loro precedenti atteggiamenti nei confronti della guerra dicendo questa volta che la guerra era giustificata perché aveva lo scopo di mettere pace nel Medio Oriente e in particolare in un paese pervaso dai conflitti; così quella che prima era l’opinione di una minoranza, ovvero che la guerra sarebbe stata giustificata anche in caso di assenza delle armi di distruzione, divenne quella della maggioranza, passando dal 38% al 58%. La teoria della dissonanza cognitiva offre anche una spiegazione al fenomeno della persuasione e ci permette di avere numerosissime rivelazioni. Molti psicologi si sono chiesti e hanno studiato il motivo per cui tendiamo a cambiare atteggiamento piuttosto che comportamento ed è stato osservato che i motivi sono principalmente due: in primo luogo, perché il comportamento solitamente è già stato condotto al termine e in secondo luogo perché per la teoria del minimo sforzo risulta molto più facile cambiare atteggiamento piuttosto che comportamento. A parere di Festinger, l’incoerenza è in grado di spiegare da sola lo stato di dissonanza provocato, ma negli anni successivi Cooper e Russel Fazio sostennero il cosiddetto “new look” della teoria della dissonanza cognitiva secondo il quale per far sì che questa dissonanza cambi i nostri atteggiamenti sono necessarie 4 condizioni: -che venga percepita e riconosciuta la discrepanza tra l’atteggiamento e il comportamento -che il comportamento messo in atto sia stata una libera scelta perché se si è costretti a fare un determinato comportamento e non avevamo alternative non percepiamo dissonanza, quindi la persona deve assumersi la responsabilità e anche che le conseguenze del comportamento fossero abbastanza prevedibili, perché se non potevamo sapere cosa avremmo causato con il nostro comportamento allora non si genererà lo stato di dissonanza. -che la persona sperimenti l’attivazione fisiologica, cioè lo stato di ansia generato dalla dissonanza percepita - la persona deve poi attribuire l’attivazione fisiologica alla discrepanza tra atteggiamento e comportamento Ad esempio, se Giovanna, una giovane laureata attivista in un’associazione per la difesa della legalità, mentre passeggia con il suo fidanzato, trova per strada una scatola e aprendola vede un anello di grandissimo valore e sulla scatola legge il nome di una donna ricchissima che abita lì vicino ma non vede nessuno per strada ed è molto povera, allora decide di prendere quell’anello di nascosto. Il suo fidanzato potrebbe dirle di essere delusa dal suo comportamento ricordandole l’associazione di cui fa parte; allora lei, sentendo che sia il suo impegno volontario sia la sua relazione potrebbero essere stati compressi dal suo comportamento inizia a sentire una forte ansia, mal di stomaco, difficoltà a respirare e collega questo suo stato d’ansia alla discrepanza tra il suo atteggiamento e il comportamento appena avuto per ridurre quest’ansia potrebbe giustificare il suo comportamento e le possibili conseguenze di quel comportamento così: “non ho un soldo, non mi ha visto nessuno , vado all’associazione solo per impiegare il mio tempo libero ma non nutro particolare interesse per la causa infatti domani chiamerò e dirò che non parteciperò più all’associazione, inoltre ti trovo abbastanza noioso quindi se mi vuoi lasciare va bene”. In questo modo ella si sentirà subito sollevata. La giustificazione insufficiente La teoria della dissonanza cognitiva ha portato a molte altre rivelazioni da parte degli psicologi sociali. Una di queste fu rivelata tramite un esperimento di Carlsmith del 1959 il quale chiese ai partecipanti di prendere parte a esperimenti molto noiosi come girare il pomello intorno a un legno, poi il ricercatore disse ai partecipanti che l’esperimento era basato sull’influenza delle aspettative sulle nostre azioni e poi faceva finta che il ricercatore che doveva dire ai prossimi partecipanti che l’esperimento era molto bello e divertente si era ammalato e quindi chiedeva ai soggetti di farlo loro stessi, dicendo che era per la scienza e che sarebbero stati pagati. La conclusione fu che quando gli veniva promesso un solo dollaro in cambio essi sentivano una maggiore dissonanza tra il loro atteggiamento e il comportamento e quando dicevano agli altri futuri partecipanti che l’esperimento era stato divertente cominciavano essi stessi a crederci per giustificare quella dissonanza, al contrario di quelli che ricevevano 20 dollari e che percepivano molto meno dissonanza. Il solo dollaro era una giustificazione insufficiente per la discrepanza tra comportamento e atteggiamento, cioè la giustificazione esterna non aveva la forza che poteva avere invece una giustificazione interna e questo faceva sì che i soggetti sperimentassero in questo caso più dissonanza e cambiassero maggiormente i loro atteggiamenti. Questo principio si può usare anche secondo gli psicologi nell’educare i propri figli; infatti gli studiosi ritengono che se i genitori per convincere i figli a riordinare la stanza propongono una minaccia moderata, non sufficiente a giustificare la dissonanza dei bambini allora questi assumevano maggiormente all’interno del concetto di sé il comportamento del riordinare la stanza come motivato internamente, piuttosto che quando la minaccia era forte, quindi in questo caso gli psicologi ritenevano che per educare i bambini una punizione o anche una ricompensa moderata fosse meglio che una troppo severa o forte. Gli psicologi hanno poi rilevato da molti altri esperimenti che le persone percepiscono una maggiore dissonanza per le proprie azioni quando sono consapevoli che c’erano delle alternative e quindi che la loro è stata una scelta e non un’imposizione, per esempio quando in un esperimento veniva detto ai soggetti di dover raccontare delle barzellette che denigravano gli avvocati essi mentre le raccontavano ad altri cominciavano ad avere un pregiudizio negativo maggiore nei confronti degli avvocati; inoltre anche quando in un altro esperimento fu chiesto ai soggetti di scrivere un saggio su posizioni politiche su cui non erano inizialmente d’accordo come l’aumento delle tasse scolastiche, essi finivano per essere maggiormente d’accordo con tali politiche. Inoltre gli atteggiamenti seguono i comportamenti per le cose di cui si avverte una certa responsabilità, vari studi dimostrarono che i soggetti degli esperimenti eseguivano più facilmente un compito richiesto da un’autorità se questa era presente, mentre molto meno se non era lì, automaticamente più felici e tornavano in mente loro ricordi più felici e diventavano di buon umore per un tempo più lungo. Questo studio dunque evidenzia anche alcune particolari conseguenze: -l’uso del botulino che irrigidisce le rughe e impedisce di corrugare la fronte: è stato verificato poiché coloro che usano il botulino sono impossibilitati a corrugare la fronte diventano meno soggetti a stati di rabbia o nervosismo o addirittura depressione e hanno anche difficoltà a leggere frasi rabbiose o tristi; inoltre poiché non possono compiere quelle espressioni facciali di rabbia e tristezza che gli altri invece possono fare allora spesso non riescono nemmeno a interpretare le facce degli altri quando esprimono tali emozioni e quindi i loro stati emotivi. Capita a tutti magari di essere in un momento di rabbia e avere un atteggiamento scontroso ma quando ci suonano alla porta assumiamo inizialmente in maniera forzata un atteggiamento gentile e un tono di voce più felice, tuttavia dopo poco questo tipo di atteggiamento ci rende effettivamente più felici e gentili. Anche il nostro modo di camminare influenza i nostri atteggiamenti e le nostre emozioni: camminare con gli occhi abbassati per terra e la schiena piegata è un ottimo modo per diventare più depressi, mentre camminare a passi lunghi, con le braccia sciolte e con movimenti più larghi ci rende automaticamente più positivi e felici. Anche la nostra postura influenza le nostre sensazioni: se nello svolgere un lavoro al computer stiamo con le spalle larghe e la schiena dritta allora saremo più positivi se invece stiamo ricurvi e con la testa abbassata allora tenderemo a essere più tristi. Inoltre poiché le nostre espressioni facciali, i movimenti e la postura ci portano a provare determinate sensazioni quando vediamo gli altri assumere determinate espressioni o movimenti capiamo in che stato emotivo essi si trovano. Inoltre noi tendiamo automaticamente e naturalmente a imitare i movimenti, le espressioni e la postura degli altri ed è anche questo elemento di imitazione a renderci più empatici e a provare le loro stesse sensazioni. In un esperimento del 1980 Wells e Petty hanno chiesto agli studenti dell’università di Alberta ad alcuni di fare movimenti verticali e ad altri orizzontali mentre ascoltavano con le cuffie un editoriale; quelli che facevano movimenti verticali erano più d’accordo con le argomentazioni dell’editoriale rispetto a quelli che facevano movimenti orizzontali con la testa in quanto tendiamo ad associare i movimenti verticali a sensazioni più positive e quelli orizzontali più negative. Thomas Mussweiler nel 2006 all’università di Cologne fece un altro esperimento in cui rilevò che le azioni stereotipate alimentano un pensiero stereotipato. Infatti quando durante l’esperimento veniva chiesto ad alcuni studenti di imitare la camminata e gli atteggiamenti di una persona obesa, quindi passi lenti ,sguardo in basso eccetera e dopo veniva fatta leggere loro la descrizione di un uomo obeso essi associavano maggiormente quell’uomo agli stereotipi che riguardano le persone obese così come se veniva chiesto loro di imitare un uomo anziano successivamente interpretavano la descrizione di un uomo anziano secondo gli stereotipi di tale categoria. La giustificazione eccessiva e le motivazioni intrinseche Come abbiamo osservato, una motivazione esterna insufficiente come 1 solo dollaro per partecipare a un esperimento invece che 20 induce il soggetto a provare maggior dissonanza cognitiva e quindi a produrre una giustificazione interna per alleviarla. Dunque, è stato appurato che educare le persone con punizioni e incentivi moderati e non troppo severi è più efficace per far assumere loro degli atteggiamenti nel proprio concetto di sé. La teoria dell’autopercezione per spiegare questo fenomeno però parla di un altro fenomeno, essa sostiene che siccome quando osserviamo per esempio nel caso degli esperimenti altri fare qualcosa per una ricompensa di 20 dollari tendiamo maggiormente a credere che venga fatto dalla persona per i soldi piuttosto che per una reale motivazione interna rispetto a quando la persona riceve 1 solo dollaro. La teoria dell’autopercezione sostiene che potremmo fare lo stesso ragionamento per noi stessi, cioè osservandoci compiere un determinato comportamento per una scarsa ricompensa assumiamo allora che lo facciamo per una motivazione intrinseca. Inoltre la teoria dell’autopercezione sostiene che dare un’eccesiva giustificazione al comportamento di qualcuno può avere un lato occulto ovvero se una persona fa già volentieri una determinata azione, se prima che la compia gli viene data una motivazione eccessiva esterna come i 20 dollari ,allora essa per il principio dell’osservazione spiegata prima riterrà di dover compiere l’azioni per la ricompensa e non più per il semplice piacere di farla. Quindi per esempio dire ad uno studente prima di fare un compito che già egli voleva fare di sua volontà che sarà ricompensato con un premio lo indurrà a farlo meno per piacere e più per il premio. Questa teoria è evidenziata anche da una storia popolare, secondo la quale un anziano uomo che viveva in un quartiere aveva nel pomeriggio davanti a casa sua per strada un gruppo di ragazzi che gli davano fastidio facendo rumore nel giocare a pallone; allora egli li chiamo è li fece i complimenti per quello che facevano e per tenergli compagnia e decise di pagarli 50 centesimi per qualche giorno, poi un giorno diede loro solo 25 centisimi e il giorno dopo ancora solo 15 dicendo che stava per terminare le sue risorse economiche; i ragazzi contrariati gli dissero che non sarebbero più tornati perché non valeva la pena stare tutto il pomeriggio a giocare davanti a casa sua per una cifra così misera, cioè ciò che per loro era inizialmente divertimento era diventato come un lavoro e infatti non tornarono più. Tuttavia dare ricompense e in particolar modo fare complimenti a qualcuno dopo che ha svolto una buona azione non crea quest’effetto perché l’azione è già stata messa in atto per semplice piacere e anzi ricevere i complimenti per il proprio operato può portare quella persona a voler svolgere maggiormente e nuovamente la buona azione. Quindi secondo tale teoria si può incentivare qualcuno a compiere un comportamento facendogli i complimenti e parlando di lui positivamente dopo che l’ha messo in atto. Se noi offriamo agli studenti una giustificazione sufficiente per svolgere un compito di approfondimento e usiamo ricompense ed elogi per aiutarli a sentirsi competenti possiamo aumentare il loro piacere e il loro desiderio di compiere quell’azione. Se invece c’è una giustificazione eccessiva la spinta all’apprendimento può diminuire. Per esempio, il figlio di Myers leggeva 6 o 8 libri della biblioteca a settimana con piacere fino a che il bibliotecario non ha proposto una ricompensare in denaro per chi arrivava a leggere 10 libri in 3 mesi; allora il bambino iniziò a leggere due libri a settimana e quando Myers gli chiese perché non leggeva più come prima egli rispose che ne bastavano solo 10 per avere la ricompensa. Teorie a confronto Dunque, la teoria della dissonanza e la teoria dell’autopercezione sono due teorie che spiegano in modi diversi il cambio di atteggiamento dovuto alla percezione di una discrepanza tra atteggiamento e comportamento. Gli psicologi si sono interrogati su quale delle due sia migliore per spiegare questo fenomeno, rilevando però che non c’è una risposta assoluta. Il teorico dell’autopercezione Deryl Bem nel 1972 sostenne che dipende per lo più da una preferenza personale. D’altronde, sono tanti i principi scientifici a cui si giunge tramite più teorie o spiegazioni. Serie diverse di assunzioni possono portare al medesimo principio e questo non può fare altro che aumentre la forza della credenza in quel principio, in quanto sapere che oltre ai dati rilevati esistono più teorie che appoggiano un determinato principio lo rende genrealmente ai nostri occhi più credibile. Dissonanza come stimolo Tuttavia c’è un punto chiave su cui la teoria della dissonanza ha la meglio nella spiegazione: lo stato di tensione e disagio che si percepisce dopo che diventiamo consapevoli di una discrepanza tra atteggiamenti e comportamenti. Infatti la teoria dell’autopercezione non spiega la creazione di un tale disagio e le sue cause; mentre invece tramite la teoria della dissonanza gli studiosi hanno rilevato che situazioni che familiare, in modo da rendere qualcosa di nuovo che appunto ci può fare paura qualcosa di più vicino a noi analizzandone le caratteristiche e comparandole con altre realtà sociali, è un processo che permette l’assimiliazione dell’ignoto al noto. Denominazione, classificazione e categorizzazione sono tutti esempi di processi di ancoraggio. L’oggettivazione invece consiste nel rendere rilevante, vicino a noi e conosciuto qualcosa di inizialmente poco familiare, in particolare spesso di trasformare un concetto astratto in qualcosa di più concreto e immaginabile tramite anche similitudini e metafore. E’ un processo che dota di realtà un concetto non familiare. Le persone cioè collegano un oggetto a un nucleo di conoscenze familiari, ne sottraggono l’ambiguità e l’estraneità e lo trasformano in qualcosa di vicino a sé, un’immagine concreta e più “naturale”. Le funzioni delle rappresentazioni sociali Secondo gli studiosi e in particolare inizialmente secondo Moscovici le rappresentazioni sociali possono avere più funzioni; la prima è quella di rendere familiare qualcosa inizialmente estranea a noi ed è considerato il primo scopo in quanto è una funzione che deriva dalla prima fase di formazione di una rappresentazione sociale che è l’ancoraggio, la seconda è quella di essere uno strumento di identificazione sociale, cioè permette di entrare a far parte di un gruppo sociale in base alle idee condivise con esso e alle stesse rappresentazioni sociali, piò essere considerato uno strumento sociale che permette di costruirsi una certa identità. Inoltre le rappresentazioni sociali sono prescrittive, cioè si impongono sulle persone con una facilità irresistibile per cui regolano gli scambi sociali e influenzano il comportamento delle persone che fanno parte di un determinato gruppo sociale e che quindi aderiscono a una determinata rappresentazione sociale, è quindi una guida, griglia e orientamento dei comportamenti. A questa funzione ne è strettamente legata una terza, che è quella della regolamentazione normativa e costruzione dell’identità; infatti poiché il carattere sociale delle rappresentazioni sociali porta una persona ad iscriversi a un determinato gruppo allora il contenuto della rappresentazione sociale condivisa in quel gruppo porterà la persona ad adeguarsi a quelle regole e a quegli atteggiamenti costruendosi quindi una determinata identità e una determinata appartenenza. Sono evidenti le connessioni con la teoria dell’identità sociale di Tajfel e la teoria della categorizzazione di Turner. L’identità sociale è infatti l’aderenza di una persona a un determinato gruppo sociale in base agli ideali e agli atteggiamenti di quel gruppo che diventeranno dunque anche di quella persona; dunque l’identità sociale può essere considerata come una categorizzazione del “sé” derivante da un processo di categorizzazione preferenziale non neutra connessa all’appartenenza sociale. Nel 1984 Moscovici ha introdotto un’altra generalizzazione tripartita delle funzioni della rappresentazione sociale ovvero: -funzione dell’interesse, che vuole far sì che idee diverse (spesso opposte) e conflitti in un gruppo vengano risolti facendo prevalere la posizione più potente tramite una distorsione della realtà. -funzione di equilibrio, che invece vuole fare sì che si generi una posizione intermedia nei conflitti presenti all’interno di un gruppo e quindi si generi una certa armonia e un certo equilibrio. -funzione del controllo, che ritiene che tramite le rappresentazioni sociali si possa filtrare e controllare le idee esterne a un gruppo in modo che non pervadono gli atteggiamenti delle persone del gruppo e soprattutto che questo poi non le usino in modo sbagliato nei confronti degli altri membri. Gli sviluppi della teoria delle rappresentazioni sociali: in viaggio da Aix-en- Provence a Stirling passando per losanna La teoria di Moscovici sulle rappresentazioni sociali fu vista e rivisitate varie volte. Una di queste rivisitazioni avvenne ad Aix-en-Provence da parte di Abric e Flament negli anni 80. Essa presupponeva che le rappresentazioni sociali sono composte da un nucleo centrale e uno periferico. Il nucleo centrale è quelli in cui si trovano le conoscenze di base di una rappresentazione sociale, attorno alle quali si sviluppa il nucleo periferico, che costituisce la maggior parte del contenuto della rappresentazione e ha al suo interno opinioni, categorie, giudizi e idee sul determinato tema del nucleo centrale. Inoltre il nucleo centrale ha la caratteristica di avere una maggiore stabilità, cioè è l’ultimo eventualmente a cambiare quando cambia la rappresentazione. Il nucleo centrale inoltre ha due funzioni: la funzione generatrice, ovvero sono le conoscenze base, le informazioni da cui derivano tutte quelle del nucleo periferico. La seconda è la funzione organizzatrice, ovvero organizza la struttura della rappresentazione sociale e le varie posizioni assumibili dalle persone che vi aderiscono. Quando una rappresentazione sociale si sviluppa ed eventualmente cambia questo avviene in 3 fasi: -la fase di emergenza, la quale inizia con la funziona di ancoraggio e che porta al cambiamento iniziale e all’aggiunta di informazioni o rimozione unicamente nel nucleo periferico -la fase di stabilità, in cui i membri del gruppo non cercano ulteriori informazioni o cambiamenti ma si muovono nel mondo sociale attraverso le elaborazioni che hanno già compiuto -la fase di trasformazione, in cui si modifica il nucleo centrale e dunque l’intera rappresentazione sociale, prevede quindi un cambio di attegiamento del gruppo nei confronti di qualcosa o qualcuno in modo più o meno radicale. Un secondo contributo e rivisitazione del lavoro di Moscovici fu quello realizzato da Doise a Losanna nel 1985, definito approccio genetico. Doise infatti concepisce le rappresentazioni sociali come insieme di possibili prese di posizione in cui le persone aderiscono all’una o all’altra posizione collocandosi su varie linee di pensiero. Cioè secondo lui le rappresentazioni sociali organizzano il pensiero simbolico e le prese di posizione, le quali si possono verificare solamente attraverso la comunicazione e gli scambi sociali. Dunque le rappresentazioni sociali hanno funzione normativa per Doise, ovvero regolano i rapporti sociali e le opinioni, le posizoni, le impressioni dei membri del gruppo che hanno quella determinata rappresentazione sociale. Un’ulteriore rivalutazione fu compiuta dalla psicologa Markova nel 2003. Ella propone un approccio dialogico, definendo la rappresentazione sociale come epistemologia dialogica, cioè la rappresentazione sociale si costituisce attraverso scambi realazionali sociali, cioè attraverso la comunicazione che ne è alla base, cioè secondo questa ricercatrice le rappresentazioni sociali hanno la funzione di rielaborare i messaggi culturali da parte delle persone secondo le proprie dimensioni esperienziali, cioè gli attori sociali co-costruiscono attraverso la comunicazione le cognizioni e le informazioni congiuntamente nell’ambito di un sistema relazionale; le rappresentazioni sociali quindi costituiscono un processo di rielaborazione di determinate realtà sociali e ideologie da parte di differenti gruppi ognuno sulla base di esperienze e sentimenti differenti, ovvero ciò che si produce è il concetto di thèmata. I thèmata, nozione proposta da Holton nel 1978 e rielaborata da Moscovici e Vignaux nel 1994 possono essere intesi come insieme di informazioni e conoscenze che costituiscono il senso comune, il sapere comune su una determinata realtà sociale e a partire da queste informazioni fondamentali tramite le relazioni sociali avvengono modellamenti e cambiamenti, quindi su nozioni già esistenti avvengono integrazioni di nuove nozioni. Possono coincidere con massime, credenze, valori categorie, definizioni sociali, spesso organizzati in tassonomie (diadi o triadi) oppositive. L’acquisizione della nozione di themàta per le rappresentazioni sociali