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riassunto libro Ricreare mondi di Stefano Allovio, Sintesi del corso di Antropologia Culturale

riassunto libro Ricreare mondi di Stefano Allovio, come già detto

Tipologia: Sintesi del corso

2023/2024

Caricato il 06/03/2024

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Scarica riassunto libro Ricreare mondi di Stefano Allovio e più Sintesi del corso in PDF di Antropologia Culturale solo su Docsity! RICREARE MONDI Introduzione. Dai fondamenti ai repertori. L’esordio prende in considerazione Lévi-Strauss. In particolare il tipo di studio che egli compie, che ha come metodo l’andare “al di qua” dei dati sociologici sullo scambio (strada aperta dal suo maestro Mauss) rintracciando la “regola del dono per eccellenza”: la proibizione dell’incesto. Sostiene che tale regola, comune a tutte le culture, è alla base della socialità umana, perché porta all’esogamia, che si fonda su un sistema di scambio reciproco e porta il nucleo famigliare ad aprirsi alla ricerca di un partner. Mauss si colloca alla base di questa teoria. A noi interessa che Lévi-Strauss sembra andare oltre alla ricerca del maestro, la quale si concentra sullo scambio come base della società, alla ricerca della dimensione più profonda, del fondamento. Per lui l’archetipo dello scambio risale al matromonio. Risulta che nella lotta tra chi ha ragione, entrambi risultano nel torto. Questo perché l’ossessione per la base costituisce una palla al piede per la comprensione degli esseri umani:  Per Lévi-Strauss la ricerca antropologica ha direzione verso gli “archetipi”, i “fondamenti”;  Per Mauss i toni sono più sfumati, tende sempre ad una necessaria generalizzazione e individuazione capisaldi, ma la dimensione empirica e sociale rimane centrale. Ancora di più, l’ossessione per la base è rintracciabile all’interno del lungo dibattito attorno al Saggio sul dono di Mauss. Spesso la ricerca dei fondamenti non permette profonda comprensione ma è solo un modo per ribadire gerarchie, agendo come tecnica di inglobamento che tende all’inclusione attraverso riduzione della molteplicità. Questo tipo di tecnica, che Francesco Renotti chiama “ambizione scientifica”, ha due picchi: con l’evoluzionismo ottocentesco e con lo strutturalismo levistraussiano. Esortazione di Strauss a risalire fino a considerazione tratte dalla neurofisiologia del cervello richiama egemonia nella ricerca dei fondamenti presente nella scienza contemporanea. Ricerca del fondamento è necessità umana, ma non è obbligatoriamente la sola strada per spiegare il mondo. L’autore afferma che se spiegare significa individuare mappature e moduli mentali per poi dire che attorno ad essi esiste un mondo non riconducibile a loro, allora ha più senso un modello di spiegazione che ricostruisca e rifletta su repertori piuttosto che rintracciare fondamenti. Questo libro torna sul complesso di manifestazioni in cui l’antropologo non ricerca quindi archetipi ma manifestazioni storicamente significative dotate di senso all’interno di dinamiche specifiche. Rovistare nei repertori senza obbligatoriamente rintracciare fondamenti significa volere individuare i fili che attraversano quel complesso di manifestazioni e rintracciare le “somiglianze di famiglia” (Wittgenstein), connessioni poco classificatorie dotate di alta provvisorietà. Con questo libro vuole mostrare come alcune istituzioni rientrano nei fenomeni che assicurano integrazione delle unità parziali in seno al gruppo totale:  le società di mutuo soccorso, rendono possibile la collaborazione tra estranei in seno a una società;  la fratellanza di sangue, in cui Lévi-Strauss riconosce strumento per obbiettivo analogo alle prime, integrando anche qui unità parziali e favorendo collaborazione di estranei con spirito di reciprocità. Luoghi del libro sono Kinshasa e Cape Town. Qui analizza forme di socialità ricreate dai migranti congolesi che emigrano dall’interno rurale o verso la capitale Kinshasa o verso metropoli straniere (Cape Town) dove istituiscono associazioni di mutuo aiuto ricreando i loro mondi sociali, politici e culturali. Come ricreano mondi attraverso creazione associazioni partendo dalla necessità di organizzare funerali per individui della loro società morti, altri lo fanno tramite appropriazione mimetica degli abiti e della moda. Morte e moda le due “sorelle” che rinnovano continuamente il mondo (Leopardi). Capitolo 1: Ricreare reticoli sociali. 1.1 Lezioni congolesi. Fratellanza di sangue, due metodi:  Scambio di sangue tra due adulti tramite tagli sulle braccia.  Mescolanza sangue circoncisione di gruppo di bambini o adolescenti che diventano quindi fratelli di sangue. A seguito rituale i circoncisi e i loro gruppi famigliari hanno obbligo per tutta la vita di collaborare ed aiutarsi. Questa modalità è quella socialmente più importante, in quando alleanza tra due gruppi e non due individui. Importante che questa fratellanza non imita quella biologica ma è istituzione simile al matrimonio: crea un’alleanza, che si inserisce in reticolo di alleanze che permettono ad un individuo di approfittare non solo della propria di alleanza ma anche quella degli altri parenti e vicini con i rispettivi fratelli di sangue, creando una “foresta di alleanze”. Quest’ultimo tipo nella prima metà del Novecento inizia a essere in vigore anche in altri gruppi che prima non stabilivano alleanze interetniche: per quale motivo si impone in questa ampia regione? Probabilmente dovuto a grandi trasformazioni socio-politiche portate dai colonizzatori belgi, in particolare:  Riorganizzazione territoriale ed amministrativa con indebolimento tradizionali centri di potere;  Diffusione piantagioni per prodotti da esportare che portano a dislocazione popolazione in agglomerati lungo arterie stradali e fluviali e piantagioni stesse. Si comprende come mobilità e mescolanza popolazione abbia favorito diffondersi istituzione garante di alleanze di mutuo aiuto che si sostituisse a pratiche rituali incentrate su legami clanici di gruppi ormai frammentati. Ricerca prosegue a Kimbanseke, municipalità periferica di Kinshasa, capitale della Repubblica Democratica del Congo. Qui nota che i locali hanno grande propensione alla creazione di gruppi formali o informali con fine il riconoscimento della soggettività in contesti di diritti precari. L’effervescenza associativa, favorita anche da crollo del regime mobutista, porta a costituzione di società di mutuo soccorso. Su queste associazioni si concentra lo studio, tramite osservazione partecipante e ricerca nei registri comunali. Queste associazioni hanno numero limitato di partecipanti (20-40) che versano mensilmente somma di denaro conservato in una cassa comune da cui non si può attingere, formando un “contratto sociale” che scoraggia l’abbandono del sodalizio in quanto quei soldi andrebbero persi. Quando membro necessita denaro, affiliati contribuiscono secondo precisi obblighi del regolamento interno. Importante il particolare tessuto demografico e sociale di Kimbanseke: nasce negli anni 50 tramite popolazione immigrata, circa 2mln di abitanti immigrati di prima o seconda generazione. Capitolo 2: Sulle sponde del fiume Congo. 2.1 Un particolare terreno di ricerca: Kinshasa-Kimbanseke. Fondata dai colonizzatori belgi, Kinshasa inizia la sua crescita vertiginosa già a fine Ottocento con la costruzione della ferrovia. In particolare, la sua area periferica inizia ad essere ampiamente popolata dalla seconda metà del Novecento, a causa degli arrivi dalle regioni dell’entroterra: iniziano così a prendere forma i quartieri di Masina e Kimbanseke, attualmente veri centri urbani satelliti della metropoli, ed il secondo anche luogo del nostro studio. In questi quartieri non ha mai spopolato l’utilizzo di baraccopoli, riuscendo sempre a mantenere un certo livello di ordine. Il paradosso dell’ordine che regna nel disordine (dovuta dalla vertiginosa affluenza di migranti) esplica bene Kinshasa: le riflessioni antropologiche a riguardo ritrovano nelle loro analisi molteplici strategie quotidiane di sopravvivenza, riconducibili alla continua negoziazione e intermediazione. Questa capacità di “arrangiarsi” viene chiamata “débrouillardise”, con peculiarità il soppiantare gli interessi collettivi con gli interessi individuali che puntano a soddisfare i bisogni primari, girando tutto attorno a corruzione, collusione, ecc,. L’autore, abituato a effettuare ricerca in villaggi sperduti, arrivato a Kimbanseke si aspettava una certa unità di analisi o perlomeno geografica dalla sua ricerca urbana. Ma, al contrario, la ricerca etnografica urbana non si distaccava troppo da quella rurale: entrato a Kimbanseke si rende conto quanto sia difficile uscirne, proprio come un villaggio nella foresta. 2.2 ONGizzazione e retoriche sviluppiste. Negli anni Novanta l’autore si è concentrato sulla ricerca nei villaggi della foresta equatoriale. Quando nel 2009 inizia la sua ricerca a Kinshasa, incontra due ragazzi mangbetu, Paul e Jean- Faustin, trasferitisi in città per gli studi, che cercano di esortarlo a tornare alle sue vecchie ricerche in quanto lui visto come uno dei pochi occidentali conoscitori della “civilisation mangbetu”. Durante il loro primo incontro Jean-Faustin presenta all’autore la bozza dello statuto di una ONG che stava redigendo come esercizio universitario. Sottolinea così l’importanza ricoperta dalle ONG. Alla fine degli anni Novanta, l’assenza dello Stato e l’esigenza di moltiplicare le strategie di sopravvivenza determinarono un incremento vertiginoso di associazioni e reticoli di solidarietà, tra cui appunto le ONG (Organizzazioni non governative). Si parla così di “ONGizzazione” della metropoli. Costituirsi in una ONG rappresentava la possibilità di recuperare un grado di agentività nel quadro di profonda crisi in cui si trovano. In più, essendo un’ONG un soggetto plurale, c’è più possibilità che venga riconosciuta sul mercato globale e ricevere finanziamenti. Parlando poi con i due ragazzi dell’esistenza di una associazione di immigrati mangbetu, e del probabile suo discioglimento, viene evidenziato un altro punto: il tessuto urbano in Africa e non solo è permeato dal mondo associativo, ma spesso sono realtà evanescenti e fluide. È comunque importante riconoscere, prima di andare avanti, come il costituirsi continuo di gruppi, informali o giuridicamente riconosciuti, sia strategia per ribadire l’esigenza di riconoscimento soggettivo al di là degli esili diritti connessi alla persona. Viene poi rievocato un altro episodio: l’autore si reca a pranzo con Paul e Jean-Faustin dalla “belle famille” del primo. Nel percorso per arrivare alla casa in questione, si imbatte in una “bleusaille”. Ovviamente anche a Kinshasa al momento della morte di un individuo ci si attiva sulla base di azioni e pratiche codificate e consolidate: una delle più rilevanti è la raccolta fondi per funerale e sollievo economico famiglia defunto. Da molti anni a Kinshasa l’organizzazione dei funerali è presa in carica dai giovani del quartiere, i quali spesso ricorrono al modo violento per la raccolta fondi, pratica chiama “bleusaille”. Funerali diventano quindi occasione per raccogliere denaro e soprattutto per una plateale protesta contro gli anziani, politici e tutti coloro che, nelle canzoni che i giovani intonano, sono accusati di rubare loro del futuro. Non è però una pratica di rottura, è infatti solo un’iperbole deviata della pratica consolidata di rivolgersi ai ragazzi del quartiere per “animare” i funerali. Molti sono i gruppi di giovani che si costituiscono ufficialmente come animatori di funerali, inserendosi così nella “débrouillardise”. Abbiamo quindi diverse spinte associative:  Desiderio di giovani di fondare ONG su visioni sviluppiste;  Incremento dei gruppi dediti a forme di bleusaille;  Grande diffusione delle mutualità. Esempio che le riassume tutte: Association des bons jeunes de Bikuku. Infatti:  gli scopi del suo statuto rimandano a “sviluppo del territorio”, non discostandosi quindi come intenzioni dalle ONG;  Nonostante ciò, l’impegno di assistenza reciproca rimanda al funzionamento di una mutualità (versamento mensile ecc,…);  Scorrendo elenco delle loro nove priorità per “fare sviluppo” si presentano gazebi e lanterne al primo posto, strumenti necessari per le veglie funebri, e solo in fondo l’acqua potabile. C’è quindi la centralità della gestione della morte nelle possibilità imprenditoriali dei giovani di Kinshasa. 2.3 Relazioni scherzose e drammi sociali nel cortile di casa. L’autore riporta alcuni esempi, come quello tratto da Guy Bernard tratto dal suo studio di episodic biography che tratta della richiesta del fratello della moglie dell’autore della episodic biography di riunire la famiglia più spesso. Tutti questi tipi di esempi riportano un tessuto sociale fortemente segnato da anomia, insicurezza e disgregazione delle reti di solidarietà famigliare, con il difficoltoso tentativo della matrilinearità di restare in piedi. Tutto ciò dovuto dall’urgenza degli interessi individuali finalizzati alla mera sopravvivenza, che dissolvono ipotetici interessi collettivi. È in questo contesto che in risposta alla disgregazione del tessuto sociale vi è un’ampia diffusione delle tontines e l’esplosione del fenomeno associativo. Sono tentativi di ricostruzione del capitale sociale. 2.4 Le tontines e le altre associazioni di mutuo soccorso. La vita urbana è caratterizzata dall’associazionismo: grandi e piccole associazioni. Le grandi sono incentivate e controllate dai missionari o dall’amministrazione locale, le piccole sono invece molto differenti tra loro. Jean La Fontaine identifica presenza di associazioni a base occupazionale e di associazioni di mutuo aiuto finanziario, le tontines:  Negli ambienti di lavoro si sviluppano le likelemba (tontines ma con nome locale), che una volta erano composti da uomini, ma con il tempo vedono sempre più donne coinvolte fino a quasi la loro esclusività. Il likelemba è composto da amici, vicini o colleghi, l’importante è il clima di fiducia e confidenza in quanto di faccio il sistema di prestito a turnazione crea un gruppo di debitori e creditori che onorino il loro ruolo. Comune che il likelemba termini quando tutti hanno ricevuto il prestito, infatti la durata è limitata e a meno che qualcuno non adempia al proprio dovere, questo tipo di rapporto non muta i rapporti sociali.  A Kinshasa ci sono altre forme di tontines, come i muziki, che aggrega soprattutto donne su base etnica o regionale e incentiva la conoscenza tramite incontri periodici itineranti nelle case dei membri. Quindi mutuo soccorso non da intendersi come solo aiuto economico ma anche sostegno sociale, in quanto nel muziki è fondamentale il valore del legame che si crea.  Esistono anche piccole società di mutuo soccorso che raggruppano individui sulla base di molteplici criteri. Queste “mutualités” sono in aumento negli anni. Benché queste mutualità siano molto diversificate tra di loro, il funzionamento è comune a tutte: 20-40 persone di accordano e versano mensilmente una somma di denaro in una cassa che funge da garanzia di non rottura dell’alleanza. Quando subentra un problema si costituisce una cassa di soccorso con raccolta tra affiliati di somma supplementare. In ordine di importanza è spesso (eccetto nelle associazioni giovanili, come vedremo dopo) la morte di un membro o famigliare. Anche qui, vediamo che è la stretta correlazione tra il mutuo soccorso e le necessità connesse ai funerali ad essere la costante dell’associazionismo africano in contesti migratori. È nel contesto di anomia urbana e difficoltà di acquisizione di uno status che entra in gioco la struttura di cariche a tempo che costituisce queste associazioni (quasi ogni membro ricopre una carica particolare al suo interno). Cariche sociali mostrano anche processo mimetico nei confronti degli apparati burocratici e amministrativi occidentali, dai quadri burocratici di matrice occidentale alle professioni militari o mediche, viene tutto sorbito e imitato. Importante notare anche come l’associazionismo di mutuo soccorso è l’ambito in cui prende forma il “recupero normativo”: anni di regime e guerra, di conflitto tra principi della matrilinearità e della virilocalità, di débrouillardise che si basa su fragilità dell’assetto normativo e scarsa rilevanza interessi collettivi e solidarietà. Al contrario, i regolamenti interni delle mutualità denotano un abbozzo di ripristino delle norme e dell’ordine. 2.5 Lo spettro associativo e la pervasiva mutualità. Per comprensione cerchiamo di mettere ordine alla selva di associazioni per tipologia:  Mutualità che si basano su origine territoriale o su appartenenza etnica dei membri. Benché nessuna associazione conosciuta dall’autore ha esplicite norme di esclusione, cioè tutti possono fare parte di una mutualità così, interessante notare come spesso ci siano sanzioni per concubinaggio fra membri (quasi determinando “esogamia clanica”). Altra peculiarità è l’organizzazione di un’orchestra che intervenga durante la veglia funebre e riproponga melodie e canzoni dei luoghi d’origine. antropologia implicita: “nudità” dei neri che si contrappone ai corpi interamente vestiti dei coloni e missionari europei. Antropologia implicita attorno questa parola subisce ovviamente successive elaborazioni nel Novecento, nella prima metà congolesi fanno differenziazione:  Esistono i “mindele ya solo”, cioè i veri bianchi detentori del potere di gestione della colonia (belgi, francesi e inglesi);  Esistono i “mindele ngulu”, impresari, commercianti e gestori di aziende agropastorali (italiani, ebrei, ecc,…). Sono i “bianchi di seconda categoria” e si sposano con donne locali, mangiano stessi cibi dei “neri” e vivono in contesti rurali. Sono disprezzati dagli indigeni e sono considerati una categoria degenerata di “bianco”. Come mundele può degenerare, la borghesia congolese-zairese aspira a “diventare” mundele (dopo indipendenza 1960). Inizia a vedersi processo di “sbiancamento” di gruppi sociali indigeni, ed è evidente nel vestiario, che è potente strumento per “essere percepiti”. I vestiti diventano buoni per agire socialmente, attraversare i confini della concretezza. 3.2 Il potere e il controllo degli abiti. Nella lunga storia delle esplorazioni e dei primi contatti tra europei e nativi, importante è il fatto che i capi indigeni erano molto attenti ai simboli ed emblemi da indossare al cospetto di questi stranieri. C’è stretto rapporto tra ricchezza e potere nei domini congolesi, e importante risulta l’utilizzo di abiti e gioielli per dimostrarlo da parte dei capi. Il fatto che gli abiti ai tropici non vengano utilizzati per ripararsi dal freddo, non significa che siano assenti dalla scena del potere: utilizzati per esprimere rango e status. Ne consegue che l’arrivo dei vestiti del mundele non si innestano in un quadro di totale assenza di politiche dell’abbigliamento, ma ne negoziano il loro uso. In epoca coloniale la novità che sopraggiunge non riguarda il nesso tra potere ed abiti, ma l’incremento dell’accessibilità a questi abiti. I nuovi simboli del potere quindi non erano più appannaggio dei capi ma erano accessibili a tutti, e questo scambio sempre più intenso favorisce lo sviluppo anche di Kinshasa, ma soprattutto lo scambio di idee e mode. La prima reazione critica a questa ondata mimetica si manifesta tramite le chiese cristiane e ambienti missionari, facendo riferimento alla frivolezza e fatuità con il timore connesso al sovvertimento dell’ordine costituito delle gerarchie coloniali. In realtà sarà anche la Chiesa cattolica a rafforzare il nesso tra potere e controllo degli abiti, in quanto utilizzerà il dono di abiti e fornitura di uniformi come forza attrattiva verso i propri ambienti. Nel periodo tra le due Guerre Mondiali abiti europei continuano loro forza attrattiva. Nei contesti urbani, dopo prima fase di possesso “schizofrenico”, si passa ad una fase in cui importante non è più solo il possesso, ma anche il saperli vestire correttamente. Dopo la Seconda Guerra Mondiale si ha trasformazione delle politiche di abbigliamento. Gli abiti passano da simboli di cambiamento a strumenti di cambiamento. La moda entra nei dibattiti pubblici, ed esempio sono i dibattiti sull’emancipazione della donna e la costituzione di associazioni mutualistiche devote al culto dei vestiti, spesso di veterani e studenti che tornano dall’Europa. Centinaia di giovani tutt’oggi ricoprono questo ruolo di dandy congolesi e si riconoscono come sapeurs, cioè appartenenti alla SAPE. 3.3 L’autenticità, ovvero disconnettersi dall’Europa. Quando si arriva all’indipendenza negli anni Sessanta, questa si concretizza in politiche di nazionalizzazione e trasformazioni socio-culturali finalizzate a tagliare i legami con le nazioni europee. In Congo con Mobutu si ha la fase in cui si vuole fare “ricorso ai valori africani autentici”:  Adozione del termine Zaire;  Obbligo di sostituire nomi di battesimo cristiani con nomi africani “autentici”;  Una divisa nazionale in sostituzione degli abiti europei;  Rivolgersi all’altro con termini non più Monsieur e Madame. Abiti e nomi possono essere considerati accessori superficiali, proprio perché sono segni visibili, da qui possiamo quindi notare l’importanza che si da a ridefinire ciò che si “indossa” e “porta”. Evidente è nell’istituzione di un abito nazionale, l’abacost, che dovrebbe essere tradizionale. Interessante che in realtà non è un abito tradizionale ma riprende l’opera nordcoreana e abiti occidentali: emblematico perché termine “autenticità” non rimanda alle tradizioni ma permette di giustificare il controllo della popolazione. 3.4 Resistenza, creatività e redenzione. È evidente come sia difficile, se non impossibile, contenere la creatività culturale se non attraverso modalità coercitive. Creatività che inizia a farsi per strada, tramite la débrouillardise, in opposizione alla volontà di controllo del regime. Il primo ambito in cui la creatività contribuisce ad esprimere resistenza è la reazione all’obbligo di sostituzione dei nomi: molte strategie si sviluppano per aggirare il controllo del regime (uso abbreviazioni, ecc,…). Un secondo ambito è ovviamente il vestiario. Neppure l’abacost rimane immune a cambiamenti che lo ricollegano al “costume europeo”, allungando la manica assomigliando sempre di più a un abito europeo. Ambito in cui però è più chiaro, è nei processi di riappropriazione della moda europea da parte dei sapeurs di Kinshasa. I sapeurs rappresentano la terza generazione di dandy congolesi. La loro cura maniacale nell’utilizzo di vestiti e accessori europei non tratta soltanto del riconnettersi in modo teatrale all’Europa, ma i sapeurs danno forma al proprio corpo attraverso gli abiti comprati nelle città europee lungo i tragitti migratori assimilabili a veri riti iniziatici. I loro sono corpi sottoposti a privazioni, fame, guerra, malattia ecc, che trovano la propria salvezza nel culto delle griffe. Il sapeur non imita nulla, ma definisce sé stesso tramite avido consumo di abiti e accessori occidentali che permettono di incorporare una forza vitale in grado di accrescere il proprio essere. Friedman e Gondola sono d’accordo nel dire che la pratica del “maquillage à outrance” (schiarirsi la pelle con lozioni) è uno strumento di ridefinizione della persona tramite abiti e accessori. Attraverso quindi gli abiti, gli accessori ed il maquillage è per loro possibile non diventare (imitare) ciò che non sono, ma essere di più ciò che sono, in un processo di rinegoziazione continua della propria esistenza e dei propri corpi messi a dura prova dal mal vivere urbano congolese. Il viaggio che compiono in sapeurs in Europa viene chiamato “aventure” ed è un vero e proprio rito iniziatico alla vita adulta. In questo contesto la SAPE ha un ruolo centrale, perché tiene connessi tutti i sapeurs sparsi nel mondo. Questa aventure è la riprova che i “costumi” (sia come abiti che come cultura in senso antropologico) non sono ornamenti superflui ma preziosi strumenti e indizi nel definire repertori e forme di umanità. D’altronde l’avventura del sapeur è tale solo se riconosciuta sulla scena pubblica. Il sapeur è tale solo nel momento in cui rinnova l’appartenenza alla SAPE. 3.5 Indossare abiti e tessere socialità. Il sapeur non è semplicemente un individuo che accumula abiti di marca per indossarli, ma colloca il suo corpo abbigliato in un contesto performativo e pubblico, è sapeur solo quando è su quel piano, non in solitudine. Il culto dei sapeur è un culto pubblico, con i suoi templi: in particolare i nganda, cioè bar clandestini. Si ritrova qui la società del vicinato, si crea socialità intensa, la socialità della strada, ed è una modalità di ricreazione dei mondi sociali, che si affianca e sovrappone a quella delle mutualità. I nganda sono importanti anche in campo internazionale, perché, sotto l’”egida” dei sapeurs aprono nella maggior parte delle comunità di emigrati congolesi in Europa e in Africa, sono spesso i primi centri di relazione tra i migranti. In questi contesti il sapeur ricopre ancora più importanza, perché rappresenta chi ci è riuscito, chi ce l’ha fatta. È da questa stretta relazione tra sapeurs e l’aventure che introduciamo l’altro campo etnografico di ricerca, Cape Town. La diaspora congolese del nuovo millennio vede protagonista il Canada, senza psicosi da assedio come invece ha l’Europa, e l’Africa stessa:  I paesi limitrofi con stabilità socio-politica;  Il Sudafrica post-apartheid. Tra vecchio e nuovo millennio quindi l’Europa non è più in grado di alimentare immaginari e sogni, che si connettono ora al Sudafrica, paese in rinascita. Questo cambio di rotta lo effettuano anche i sapeurs, e possono anzi aiutarci ad inserirci nel contesto migratorio del posto, perché attorno a loro prende forma in modo esemplificativo il quadro “globalmente frantumato” e diasporico. La notorietà mondiale della SAPE è dovuta a diversi fattori tra cui un fotografo milanese, che si interessa dei sapeurs e lo indaga fotografandolo. Diverse vicende portano poi al reportage di Christopher Clark su un sapeur congolese, Blanchard. Da qui emerge la sua esperienza vissuta, che è per noi importantissima. Questa esperienza è emblematica sia per l’occupazione che ricopre e per la condizione abitativa, ma soprattutto perché fa riferimento ad un fatto a noi molto ben noto: il mutuo soccorso attorno alla gestione dei cadaveri. Racconta infatti che un servizio fotografico con altri sapeurs viene rimandato più volte perché uno di loro è gravemente malato e muore. I sapeurs quindi si organizzano per aiutare economicamente la famiglia nel rimpatrio della salma. Anche in questo scenario, la morte organizza una forte progettualità di socialità, mettendo le basi per un sodalizio che può poi evolversi ed assumere forme diverse. Capitolo 4: Sull’altra sponda dell’Africa 4.1 Congolesi alla corte di Mandela. L’intera storia del Sudafrica è una storia di migrazioni. Già dalla fine dell’Ottocento, quando vengono scoperti importanti giacimenti di oro e diamanti, si intensificano gli arrivi di lavoratori non specializzati dai paesi limitrofi o dalle aree rurali del paese stesso. Andando nello specifico, anche a Cape Town la questione centrale che favorisce la nascita di associazioni di mutualità è il supportarsi vicendevolmente nelle spese funerarie. Qui, il fatto che la diaspora congolese in Sudafrica sia un fenomeno recente e segnato da continui mutamenti, porta a frequenti istituzioni e fallimenti di associazioni mutualistiche. Aggiungiamo che non tutti i congolesi non sono interessati ad associarsi, spesso preferendo makelemba temporanei. Oltre a questi ultimi due aspetti, è possibile constatare l’esistenza di gruppi di mutuo aiuto maggiormente strutturati e funzionanti da tempo. Questi raggruppano spesso membri della stessa città o regione del Congo. A differenza di Kimbanseke invece l’autore non ha rilevato mutualità su base professionale. Dal punto di vista del funzionamento, quelli di Cape Town sono simili a quelli di Kimbanseke: versamento mensile e altra quota in caso di funerali o matrimoni. Una ipotesi seguita è stata quella il grado di connessione ed imitazione delle mutualità locali sudafricane, in quanto esperienze simili a quelle congolesi sul territorio. Nonostante ciò, non sono state registrate influenze e connessioni con tali esperienze, i modelli rimangono le associazioni mutualistiche sorte in patria. D’altra parte le associazioni mutualistiche congolesi indagate a Cape Town sembrano più attente al confronto continuo con le istituzioni statali favorendo una “politica degli interstizi” ed il proprio riconoscimento presso le istituzioni in qualità di interlocutori privilegiati tra la comunità congolese e lo Stato sudafricano. È da questo punto di vista che si deve interpretare l’ambizione di alcune associazioni mutualistiche di trasformarsi in ONG. L’ONG è il mezzo giuridicamente più efficace al fine di essere riconosciuti dallo Stato sudafricano e aumentare realmente le possibilità di azione sociale ed economica. Esempi sono AMISBK e CCWC trasformatesi in ONG. Tramite colloqui con esponenti di queste due ONG emerge come a volte prevalga l’ambizione personale dei membri a scapito del buon funzionamento. Infatti, elemento centrale delle associazioni di congolesi a Cape Town è la politica, meno rilevante a Kimbanseke. Queste associazioni vengono infatti spesso interpretate come arene per discutere del Congo e immaginare un futuro migliore per la lontana patria. Probabilmente, dal momento in cui i congolesi in Sudafrica riconoscono la “consistenza ontologica” e l’efficacia dello Stato sudafricano trovano spazio per un pensiero utopico su ciò che dovrebbe essere lo Stato congolese. Malgrado tutto ciò, sono le vite concrete ad esigere soluzioni immediate, per questo motivo tutti hanno la necessità di anteporre le esigenze della loro vita in Sudafrica alle necessità della patria. Molte sono le associazioni che ambiscono a questo ruolo di “piattaforma”, e trasformandosi in ONG e prendendo posizione in termini politici, devono per forza rinunciare a qualsiasi velleità di rappresentare tutta la comunità di congolesi di Cape Town. All’interno di queste associazioni è però possibile rintracciare il modo utopico di immaginare la comunità congolese, che prende forma in aspirazione all’unità. I congolesi a Cape Town aspirano all’unità, ma è proprio in questi contesti migratori in cui convivono congolesi di regioni differenti, con differenti storie e differenti sensibilità politiche, che l’unità prende le sembianze di una utopia. Da questo punto di vista le associazioni mutualistiche si differenziano molto, alcune hanno base etnica e territoriale, altre aspirano a rappresentare tutti i congolesi cercando il ruolo di “piattaforma”. Molte di ques’ultime sono in fase di progettazione, come la Comcongo. Nel loro progetto riconoscono la frammentazione dei congolesi, ritengono poco utili le associazioni su basi etniche, politiche o religiose ed aspirano al ruolo di piattaforma. Ipotizzano anche un sistema di “branches” con comunità di base in ogni quartiere, quindi diversi livelli di ramificazione e molto elaborato. Come visibile in questo caso, la capacità di aspirare si gioca su due livelli:  La rete locale, che si occupa dei problemi della quotidianità;  L’organigramma ideale che si occupa di pensare i congolesi ed il Congo unito del futuro. 4.4 La frammentazione allo specchio. Il desiderio continuamento disatteso di un Congo unito ha le sue radici nelle vicende che seguono la indipendenza dal Belgio. Nonostante la struttura politica e amministrativa centralizzata, la storia del Congo è segnata da spinte secessioniste e interessi etnico-regionali e da forti interessi geopolitici ed economici. Il sogno nazionalista del primo ministro dopo l’indipendenza Patrice Lumumba si infrange contro la volontà delle forze coloniali e neocoloniali di mantenere il ricco Stato africano in una posizione di subalternità, a cui si aggiunge il fatto che tribalismi e separatismi risultano funzionali al mantenimento di uno Stato fragile. Solo con il colpo di stato del 1965 di Mobutu termina la guerra civile e viene ristabilita una fragile unità. Nei primi anni Novanta le regioni orientali del Congo diventano teatro di scontro tra popolazioni sedicenti autoctone contro tutsi emigrati in Congo in epoca precoloniale e quindi in bilico tra essere sentiti come veri congolesi o rwandesi. Conflitto che è strettamente connesso al genocidio rwandese del 1994 subito dai tutsi ed alla successiva fuga degli hutu rwandesi in Congo e alle operazioni militari organizzate da Rwanda e Uganda su suolo congolese. Questi avvenimenti portano al potere Laurent Désiré Kabila e determinano la fine del regime mobutista. Termina così la Prima Guerra del Congo. Kabila si sbarazza degli alleati ugandesi e rwandesi, cosa che porte a nuove ribellioni riportando il Congo diviso. Nel 2001 Kabila viene ucciso e al potere sale il figlio Joseph Kabila. Nel frattempo alle elezioni del 2006 si riaprono antiche fratture, in particolare quella linguistica tra zone del Congo di lingua lingala e quelle di lingua swahili. Rischio di guerra civile diviene molto alto. Detto ciò, a Cape Town si forma un cul-de-sac metaforico in cui combattenti e pacifisti, parlanti lingala e parlanti kiswahili, ecc,… si trovano a convivere, confrontarsi e a constatare quanto difficile possa essere l’unità dei congolesi. In un contesto come Cape Town, queste fratture sono molto evidenti. Per questo motivo, e per non esporre i propri interlocutori, l’autore si affida a fonti secondarie per dar conto di questa frammentazione dei congolesi a Cape Town: prende in considerazione il “Congo Square News”, giornale mensile. Esattamente come la questione delle divisioni interne, anche nei confronti dei confini esterni le associazioni congolesi che a Cape Town aspirano a rappresentare l’intera nazione incorporano una preoccupazione di integrità e autenticità congolese. 4.5 Mutualità e ciclo di vita. L’autore riporta un episodio del 2018, in cui sono evidenti le reciproche diffidenze concernenti l’appartenenza. Ad una riunione mensile dell’associazione MUREMA, un uomo chiede la possibilità di entrarne a fare parte e viene incalzato dagli appartenenti sulle origini sue e della famiglia. Con questa breve incursione all’interno di una riunione mensile di una mutualità, l’autore vuole fornire ulteriori elementi di ciò che definisce “sguardo autoptico”, metodo che riprende il praticare l’autopsia, con l’intento di vedere con i propri occhi ciò di cui si vuole trattare, risiedere interno al contesto. Vengono poi forniti altri tre episodi di riunioni di mutualità a cui l’autore era presente, per nutrire il repertorio nel quale poi muoversi. In seguito al breve viaggio all’interno di questi incontri domenicali organizzati da mutualità occorre porsi un interrogativo: per quale motivo riportare frammenti etnografici tratti da tre riunioni differenti? L’etnografia può a volte essere ornamento, e anche come tale può non essere inutile: abbellisce, sostanza astrazioni, fornisce materiale descrittivo. Ma se l’etnografia fosse solo abbellimento, ornamento di un’idea già ampiamente reiterata, non giustificherebbe l’investimento. Nel caso in cui si voglia produrre un’etnografia bisogna valutare la portata conoscitiva alla fine. Per fare ciò, occorre che i repertori etnografici non siano usati come scatole di ornamenti di un impianto teorico consolidato e immutabile. Occorre piuttosto percorrere in lungo e in largo questi repertori praticando l’arte del connettere e del comparare, verificare in quale misura tali terreni mettono a dura prova gli impianti teorici. Nel caso delle tre riunioni, sono abbastanza “scabrose” (con il significato di “difficili da trattare”, “complicate”), la cui densità culturale è dovuta dal fatto che tutte e tre sono connesse a eventi del ciclo della vita: il matrimonio, la nascita, la morte. Questo è un elemento di continuità con le associazioni di mutuo soccorso prese in esame a Kimbanseke: gli eventi festivi e commemorativi riconducibili al ciclo di vita necessitano del coinvolgimento di una rete di individui che assomigli il più possibile alle comunità di origine. Detto questo, le tre riunioni non sono state programmate come feste e commemorazioni: la dimensione conviviale e ricreativa pare casuale e accessoria, la preparazione del cibo e la convivialità presenti nelle riunioni sembrano ornamenti. Questa impressione sembra essere confermata dall’investimento retorico di coloro che sono in posizione apicale nel richiamo continuo agli scopi “razionali”. Al contrario, pare davvero che la dimensione conviviale e ricreativa sia molto più importante di quanto si voglia fare apparire. Lo storico dell’alimentazione Massimo Montanari sostiene come l’etimologia del termine convivio indica una sovrapposizione tra il vivere insieme ed il mangiare insieme. Cerchiamo quindi di capire perché a Cape Town gli aspetti conviviali vengono retoricamente mimetizzati sulla scena pubblica. Secondo l’autore ciò accade perché si pensa possano essere visti come non consoni ad una morale classica della praxis moderna e modernizzatrice nasata su principi di razionalità economica e di gestione connessa agli elementi produttivi e disancorata da quelli ricreativi. Le società di mutuo soccorso sono state regolamentate al livello degli Stati nazionali e incentivate a livello di grandi istituzioni internazionali, come dispositivi di supporto per lo sviluppo del benessere, inteso quasi interamente come benessere economico. Ne consegue che se le società di mutuo aiuto congolesi vogliono risultare meritevoli di attenzione e ammirazione all’interno del sistema capitalistico allora è meglio cercare di apparire impegnate ad incrementare le opportunità economiche dei soci piuttosto che apparire come un sodalizio che aspira a festeggiare e commemorare. Per farlo seguiamo Renotti: per evitare di restare immobili, bisogna “tessere”, nel senso di connettere e cucire. Individuati alcuni “temi” si tratta di vedere come si presentino variati, simili e diversi nello stesso tempo, in questo o in quel contesto. Procederemo quindi non tracciando i confini delle mutualità ma provando a tessere, a partire da ciò che si è trovato appeso a ganci o all’interno di bisacce. Quindi, alcune caratteristiche delle mutualità:  Mutuo aiuto, che si dovrebbe concretizzare tramite sostegno economico in determinate situazioni;  Aspirazioni economiche, sociali e anche politiche dell’associazione, di fatto modi per immaginare il proprio futuro; Le mutualità risultano quindi contenitori in cui queste due componenti hanno diverso peso e disparate forme a seconda della mutualità considerata. Se ne aggiungono due meno esplicitamente centrali:  Il conferimento documentato di status, che possano contribuire contro l’anomia urbana;  Il recupero performativo della socialità, con eventi festivi e celebrativi. Giusto ipotizzare che il tratto 3 sia preponderante nelle mutualità di Kimbanseke mentre il tratto 4 in quelle a Cape Town. Osservazione da spiegare. Come già detto, le molteplici mutualità che sono sorte a Kimbanseke nel periodo post-mobutista sono servite a ricreare la socialità sopperendo alla forte anomia: la distribuzione di cariche sociali è una risposta creativa al desiderio di ricostruzione del capitale sociale. Ancora più significativo in quanto tutto ciò riportato su documenti, carenti a Kimbanseke. Le mutualità ricreano un mondo a partire dalle mancanze riscontrate nel mondo ordinario. Al contrario, per conoscere le mutualità, a Cape Town non vengono mostrati statuti e documenti, ma invitati alle riunioni. Questa diversità è densa di senso a partire dal momento in cui si guarda alle mutualità anche come “contenitori di carenze bramate”. Questo è evidente comprendendo come ai congolesi di Cape Town mancano le “parcelles”, spazi reali. Le loro soluzioni abitative sono spazi angusti e l’assenza di cortili determina la ristrettezza dello spazio abitativo e l’impossibilità di una vita sociale in quanto il cortile è lo spazio intermedio tra l’interno e l’esterno, tra il privato ed il pubblico. L’assenza dei cortili può essere compensata dalla vita in strada, ma nel Sudafrica attraversato da scontri e xenofobia non è il luogo ideale. Risultano quindi preziosi gli spazi resi disponibili nei fine settimana:  Luoghi di culto;  Luoghi di ritrovo ludico-sportivi;  “luoghi terzi”, come i bar e i “nganda”;  Sale per riunioni affittate o cortili privati messi a disposizione. Importante per noi l’ultima categoria, è qui che risiede la possibilità di ricreare in qualche modo “l’atmosfera della parcelle”. Condividere uno spazio con la propria famiglia allargata e con persone originarie della propria regione o città diventa cruciale quando si vivono momenti particolari: nascite, matrimoni, funerali. Questi i momenti a più densa esigenza di recupero performativo della socialità. A Kimbanseke dove le parcelles non mancano c’è bisogno di “carta”, di “documentabilità”, di ordini normativi e ruoli definiti. A Cape Town, dove tutto ciò non manca vista la presenza dello stato, c’è bisogno della vita intima delle parcelle. L’associazionismo di mutuo soccorso viene quindi in aiuto per riempire i vuoti, molto oltre a quelli economico-materiali. I bisogni che esse soddisfano rimandano a una multirazionalità e a logiche pertinenti inaspettate. 5.2 Cornici e cortili. La scienza ambisce a livelli esplicativi universali ed è poco propensa a perdere tempo su un livello descrittivo che concede molto a ciò che è locale, particolare. Le cose si complicano quando si svolge lo sguardo agli esseri umani in società e ai diversi schemi culturali che sottendono pratiche e visioni del mondo. Nello studio di questi ultimi è utile soffermarsi su un livello descrittivo mostrando prudenza nell’abbracciare modelli. Importante comprendere che le grandi teorizzazioni si tirano dietro il rischio di un progressivo interesse per le diversità delle culture e del loro studio etnografico rigoroso. Bisogna limitare la portata generalizzante proprio per salvaguardare la diversità culturale e il suo studio etnografico. Insomma, le cornici teoriche sono molto utili solo quando non risultano essere troppo ingombranti, e affinché ciò avvenga, occorre avere nei loro confronti un atteggiamento laico nel senso di aderire ad un’idea senza restarne succube. Le cornici teoriche non devono costringerci nei movimenti ma devono essere tenute al guinzaglio e “portate a spasso” nei luoghi. Proprio uno di questi luoghi sono i cortili, tra i luoghi più significativi dell’indagine antropologica. I cortili, bisogna dire, sono molto di più rispetto ad arene pubbliche, che sono facilmente accessibili un po' a tutti. Gli antropologi che li frequentano devono per forza avventurarsi in intense frequentazioni che necessariamente conducono a bazzicare cortili o comunque luoghi interstiziali tra pubblico e privato, luoghi densi di relazioni di prossimità. È anche importante la questione etica, ed il vantaggio che porta: nei cortili occorre essere onesti, è praticamente impossibile e decisamente immorale entrare nei cortili e mettersi in disparte a lucidare le proprie cornici teoriche portate da casa evitando di relazionarsi con chi ti sta ospitando. Ancora peggio sarebbe non entrare neanche nei cortili ad ascoltare punti di vista altrui perché convinti che nessuno abbia la forza di affinare la visione di chi arriva da lontano con una teoria inscalfibile e con chiara ide adi dove stiano bene e male. È questo il caso dell’antropologa Nancy Scheper-Hughes. Così la commenta l’antropologa Mamphela Ramphele: Scheper-Hughes sembra essere arrivata in Sudafrica con la convinzione di una netta divisione tra “buoni” e “cattivi” e la certezza di stare, politicamente, dalla parte giusta. Importante dire che il percorso che la Ramphele intraprende, e la porta ad occuparsi di politica e questioni socioeconomiche, è dall’attivismo all’etnografia ma virtuoso in termini di accuratezza, che si contrappone a quello inverso di Scheper- Hughes. L’etnografia rigorosa, lungi dal significare una presa di distanza dall’attivismo, pare essere per la Ramphele la via più credibile affinché quest’ultimo diventi possibile. Torniamo alla rilevanza esistenziale e antropologica dei cortili. Riprendiamo come la parcelle congolese è spazio privato “pubblico”, luogo di confine, di frontiera, in cui non ci si divide ma ci si incontra. Luogo in cui quotidianamente di sperimenta la convivenza e la condivisione. Proprio in lingua siciliana “cortigghiu” significa “pettegolezzo” e non a caso Aristotele nell’Etica Nicomachea definisce con il termine “anthropologos” il “pettegolo”. Anche la scuola di Manchester riporta la centralità strategica dei pettegolezzi per la ricerca etnografica. I cortili sono incubatori di socialità. Viene raccontato un aneddoto di Hildred e Clifford Geertz, i quali assistono prima ad una manifestazione interrotta dalla polizia, poi scappano seguendo la folla e si infilano seguendo un uomo in un cortile privato, dove viene subito approntato un tavolo e preparato del tè. È questo terzo livello di partecipazione che permette di fare etnografia: occorre infilarsi nei cortili e restarci lungamente per osservare, partecipare e parlare di ciò che succede dentro e fuori. Vivere nei cortili non deve però neanche portare come conseguenza quella di ignorare quello che accade negli spazi pubblici. Ultima lezione che l’autore apprende e riporta riguardo la sua esperienza di ricerca riguarda l’importanza di tirare il fiato in situazioni di stress. 5.3 Coltelli di burro Todorov mostra come a fianco di uno sforzo ideale nel prefigurare le possibilità di una vita autentica dove la socialità, lungi dall’essere una condizione necessaria, risulta piuttosto un fardello da cui liberarsi, esiste una millenaria convinzione, che dall’antica Grecia conduce alla filosofia politica contemporanea secondo la quale l’uomo è un animale sociale. Rousseau individua nel “bisogno dell’altro” l’elemento costitutivo dell’essere umano. Todorov indaga gli apporti della psicologia e della psicoanalisi ribadendo il ruolo centrale della “vita comune” nell’ontogenesi umana. Soltanto la negazione ha la forza di mettere a rischio la condizione umana: la disconferma in realtà dice “Tu non esisti”. La presenza nella scatola degli attrezzi concettuali dell’antropologo europeo e nord-americano del concetto di “individuo”, ha probabilmente orientato molte interpretazioni di riti iniziatici nella direzione della centralità delle trasformazioni soggettive degli adepti. Se invece si adotta una prospettiva differente, incentrata sul nesso individualità/relazionalità, si giunge a intendere l’individuo come una “dividualità”, cioè come una persona la cui natura è fortemente relazionale. Ne consegue che gli individui relazionali (“i dividui”) necessitano di vivere e pensarsi come reticoli. L’autore ritiene che le mutualità congolesi rispondano a questa esigenza di pluralità. Sostiene che essere sono modalità per “mettersi insieme” e per garantire umanità in contesti urbani seganti da mobilità e precarietà. Questa brama di mutualismo dettata anche dal fatto che gli umani spesso scelgono la pluralità per essere riconosciuti come tali, per svolere un ruolo, ottenere status e capitale sociale, per festeggiare eventi importanti e per ritirare il fiato. La pluralità risulta essere una conditio per quam, una condizione attraverso la quale contribuire a quel vasto repertorio di modalità di ricreazione dei mondi.