Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

riassunto libro unione europea, Dispense di Diritto dell'Unione Europea

riassunto libro unione europea

Tipologia: Dispense

2019/2020

Caricato il 16/03/2020

Ale.1298
Ale.1298 🇮🇹

4.6

(14)

15 documenti

1 / 89

Toggle sidebar

Documenti correlati


Anteprima parziale del testo

Scarica riassunto libro unione europea e più Dispense in PDF di Diritto dell'Unione Europea solo su Docsity! LINEAMENTI DI DIRITTO DELL’UNIONE EUROPEA Introduzione – capitolo II “ORIGINI E SVILUPPI DEL PROCESSO DI INTEGRAZIONE EUROPEA” 1. Il processo di integrazione europea : dalle origini all’atto unico europeo La fine della seconda guerra mondiale segna per l’Europa non solo la fine di quel conflitto ma anche l’uscita da un periodo politicamente ed economicamente drammatico. Con la cessazione di questo, prende infatti via una nuova epoca politica. Si fa strada in Europa la convinzione della necessità di una nuova dimensione politica tra gli stati, ispirata a una diffusa cooperazione tra di essi, da realizzare attraverso la creazione di una serie di enti internazionali operanti in campi diversi. Le iniziative essenziali sono : “Organizzazione del trattato dell’atlantico del nord” (NATO) del 1949, “Organizzazione europea di cooperazione economica” (OECE) del 1948, “Unione europea occidentale” (UEO) del 1948 e “Consiglio d’Europa” del 1949. Accanto a queste iniziative si fa però strada anche l’idea di una collaborazione più stretta da porre in essere tra solo alcuni paesi europei, capace di portare a un’integrazione tra di essi a partire dai rispettivi mercati ed economie. Questo primo passo del processo di integrazione tra gli stati europei, oggi identificato dall’Unione europea, viene realizzato con l’entrata in vigore, il 23 Luglio 1952, del trattato istitutivo “Comunità europea del carbone e dell’acciaio” (CECA), firmato a Parigi il 18 Aprile 1951 da Belgio, Francia, Germania, Italia, Lussemburgo e Paesi Bassi. Il 25 Marzo 1957, gli stessi sei stati firmano a Roma i trattati istitutivi della “Comunità economica europea” (CEE) e della “Comunità europea per l’energia atomica” (CEEA o EURATOM), i quali entreranno in vigore il 1 Gennaio dell’anno successivo. Attraverso queste tre comunità, prendeva forma un disegno unitario, volto principalmente a dar vita nel territorio dei sei stati fondatori a un mercato comune basato sulla libera circolazione delle persone, delle merci, dei servizi e dei capitali e caratterizzato da condizioni di concorrenza non falsate né da comportamenti degli attori economici, né dall’azione dei poteri pubblici. A questo obiettivo si affiancava la previsione di alcune politiche comuni, identificate in quel primo momento dalla politica agricola, dalla politica commerciale e dalla politica dei trasporti, nonché dai settori di competenza della CECA e dell’EURATOM : i prodotti carbosiderurgici e l’energia nucleare. Presenza di quattro istituzioni principali, che si configuravano due come organi di governo delle comunità e le altre come organi di controllo delle prime due. Tuttavia se queste ultime, il Parlamento Europeo e la Corte di Giustizia, avevano natura e funzioni omogenee nelle tre comunità, consistenti, per il primo, nell’esercizio di un controllo politico, oltre che di poteri consultivi nel quadro del processo decisionale, e per la seconda, nella connaturata funzione di controllo giurisdizionale, in modo decisamente differente si atteggiavano i compiti della altre due istituzioni. Nella CECA, infatti, l’istituzione chiave del sistema, perché detentrice in via esclusiva del potere normativo ed esecutivo dell’ente, era l’Alta Autorità, organo indipendente dai governi e portatore dell’interesse generale; mentre l’istituzione tipicamente intergovernativa, il Consiglio speciale dei Ministri degli Stati membri, si trovava in una condizione formalmente secondaria, avendo come compiti quello di armonizzare l’azione dell’Alta Autorità con quella dei governi nazionali attraverso la formulazione di pareri e la trasmissione di informazioni sull’attività della stessa Alta Autorità. Nella CEE e nella CECA il centro di gravità del sistema era rappresentato proprio dal Consiglio mentre alla Commissione era riservato un ruolo essenziale di impulso normativo e di controllo. Al momento della firma dei trattati di Roma venne ad essi allegata una “Convenzione relativa a talune istituzioni comuni”, che unificava il parlamento europeo, la corte di giustizia e il comitato economico e sociale. Con la conclusione poi, nell’Aprile del 1965, del trattato sulla “Fusione degli esecutivi”, furono istituiti un Consiglio e una Commissione unici delle comunità europee e vennero unificati il sistema di finanziamento delle attività comunitarie e la struttura di bilancio, basata su un bilancio generale e una procedura di adozione unica; fu ulteriormente modificata dal trattato di “Bruxelles” del 1975, che istituì la Corte dei conti delle comunità europee in sostituzione dei precedenti analoghi organi delle tre comunità. L’art. 138 TCEE, divenuto oggi art. 223 TFUE, prevedeva che si dovesse passare da un parlamento europeo composto di rappresentanti dei parlamenti nazionali da questi stessi designati, a un parlamento eletto direttamente dai cittadini degli stati membri. L’Atto Unico europeo del 1986 da luogo per la prima volta a una revisione significativa dei trattati originari, orientata in tre direzioni : viene semplificata la presa di decisione del Consiglio sostituendo l’unanimità con la maggioranza qualificata come regola di voto per le sue deliberazioni in alcuni settori particolarmente importanti per lo sviluppo del processo di integrazione europea, in primo luogo, quello dell’armonizzazione delle legislazioni nazionali in vista della realizzazione del mercato interno; viene per la prima volta riconosciuto al Parlamento europeo un ruolo più incisivo nella formazione degli atti della comunità, sulle modalità di voto di quest’ultimo, o addirittura, per altri, di condizionarne l’adozione a un suo previo parere conforme. 2. Il trattato di Maastricht e la creazione dell’Unione europea Il 7 Febbraio 1992 a Maastricht viene firmato il “trattato sull’Unione europea” che entrerà in vigore nel 1993. Questo trattato non prosegue solo nell’opera di ampliamento delle competenze delle comunità e di perfezionamento dei loro meccanismi di funzionamento, ma dà anche luogo a una profonda mutazione della costruzione avviata nel 1957. Le comunità europee, senza perdere formalmente le loro identità, diventano parte costituente accanto a due nuovi settori di cooperazione tra gli stati membri, “cooperazione in materia di politica estera e sicurezza comune” (PESC) e “cooperazione in materia di giustizia e affari interni” (GAI), governati dallo stesso apparato istituzionale creato dai trattati originari. L’Unione europea si regge su tre pilasti : il primo composto dalle comunità europee, il secondo costituito dalla PESC e il terzo formato dalla GAI. Nel trattato viene infatti inserita per la prima volta la nozione di cittadinanza dell’Unione, quale status comune a tutti i cittadini degli stati membri, che si aggiunge alla cittadinanza nazionale arricchendola di propri specifici diritti. Viene introdotta la procedura di codecisione con il parlamento europeo e viene creata l’unione economica e monetaria. Il disegno istituzionale delineato a Maastricht viene perfezionato ad Amsterdam con la firma, il 2 Ottobre 1997, dell’omonimo trattato. I principi di libertà, democrazia e di rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, oltre che dello stato di diritto vengono consacrati nel TUE come valori fondanti dell’unione, una cui violazione grave e persistente da parte di uno stato membro può aprire la strada a sanzioni nei suoi confronti da parte del consiglio. Parte del terzo pilastro creato a Maastricht viene trasferito nel TCE assoggettando cioè ai meccanismi ed alle regole di questo, la materia dei visti, asilo ed immigrazione e la cooperazione giudiziaria in materia civile. Viene infine prevista la possibilità che gruppi di stati membri siano autorizzati dal consiglio ad avviare tra di essi cooperazioni rafforzate in un determinato settore o materia, utilizzando le istituzioni, le procedure e i meccanismi previsti dai trattati. 3. L’allargamento e il cammino verso il trattato di Lisbona Si poneva la necessità di adattare i meccanismi di funzionamento dell’unione a un probabile incremento massiccio del numero degli stati membri. Il “trattato di Nizza” firmato il 26 Febbraio 2001 ed entrato in vigore nel 2003 vi sono modifiche circoscritte dei meccanismi istituzionali : sostanzialmente esso si limita a intervenire sulla composizione di alcuni organi tra cui la commissione, sulle modalità di formazione e sull’estensione del voto a maggioranza qualificata del consiglio e sull’ambito di applicazione della procedura di codecisione. Lo strumento giuridico è quello di un nuovo e unico trattato diviso in quattro parti : la prima contenente i principi, gli obiettivi e le regole generali di funzionamento dell’unione; la seconda la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione; la terza le norme di dettaglio, sostanzialmente riprese dai trattati precedenti, sulle politiche ed il funzionamento dell’Unione; la quarta le disposizioni generali e finali, riguardanti in particolare le procedure di modifica e di entrata in vigore del trattato. A queste quattro parti fanno da cornice una serie di protocolli riproducenti sia parte di quelli preesistenti, sia le disposizioni ancora vigenti dei diversi trattati di adesione. Mentre l’Unione si appresta a passare a 27 membri, l’entrata in vigore del trattato costituzionale viene però bloccata da due referendum negativi in Francia e Paesi Bassi, che ne bocciano la ratifica. Parte prima “L’ORDINAMENTO GIURIDICO DELL’UNIONE” - Capitolo I “PROFILI GENERALI” 2. L’architettura dell’Unione tra metodo comunitario e metodo intergovernativo Con il sopravvenire dell’Unione l’architettura del sistema restava sì basata ancora su tre trattati, ciascuno istitutivo di una diversa struttura giuridica : la CE, la CEEA e l’UE. Quest’ultima non si era semplicemente aggiunta alle comunità ma ne costituiva allo stesso tempo il contenitore all’interno del quale erano ad esse affiancate due nuove forme di cooperazione create dallo stesso : la PESC e la cooperazione giudiziaria in materia penale e di polizia. Il metodo intergovernativo operante nei due settori di cooperazione disciplinati dal TUE e fortemente dipendente dalla volontà dei governi, perché basato sul potere decisionale del solo consiglio da esercitare per lo più all’unanimità e con atti privi di efficacia diretta sui diritti nazionali oltre che sottratti ad un effettivo controllo da parte della commissione e della corte di giustizia; metodo comunitario, caratterizzato fin dall’inizio, da un processo decisionale in cui giocavano un ruolo non secondario anche interessi diversi da quelli dei governi dei singoli stati membri e dal quale scaturivano le norme soggette al controllo e alla interpretazione della corte e al contempo suscettibili di essere fatte valere direttamente dai cittadini anche nei confronti di norme nazionali contrastanti. Mentre la separatezza formale delle due comunità veniva meno all’interno del primo pilastro, l’unicità dell’Unione si scomponeva nel secondo e nel terzo pilastro in ragione delle specificità dei due settori di cooperazione ad essa riconducibili; settori di cooperazione che venivano a riunificarsi sotto l’insegna di un comune metodo di funzionamento, quello appunto intergovernativo. Già prima del 2009 le comunità europee potevano essere nei fatti considerate non entità distinte e ulteriori, ma parti integranti di un unico ente, l’Unione europea, al cui interno esse e i due settori della cooperazione in materia politica estera e di sicurezza e della cooperazione giudiziaria in materia penale e di polizia delimitavano diversi ambiti materiali di attività, nei quali l’azione dell’Unione si svolgeva per mezzo delle stesse istituzioni, ma secondo regole e criteri di funzionamento differenti, identificati sotto la denominazione rispettiva di metodo comunitario e metodo intergovernativo. Con l’entrata in vigore del “trattato di Lisbona”, l’unitarietà sostanziale del sistema si traduce in una unità anche formale del quadro giuridico di determinato trattato, ovvero quando vi sia il consenso di tutte le parti di questo. Ora la possibilità del recesso dall’unione è diventata esplicita; e lo è diventata nella forma di un recesso unilaterale.  È una procedura complessa, la cui prima fase si presenta come una procedura di recesso negoziato. Laddove uno stato notifichi al consiglio europeo la sua intenzione di lasciare l’unione, si avvia un negoziato tra esso e l’unione per la conclusione di un accordo tra di loro, volto a definire le modalità del recesso e le future relazioni di quello stato con l’unione. Dopo due anni dalla notifica al consiglio europeo, il recesso diventa comunque effettivo anche in assenza dell’accordo. Fino ad allora lo stato in questione rimane membro a pieno titolo dell’unione, ma non partecipa, alle deliberazioni e alle decisioni riguardanti l’accordo. 3. L’applicazione differenziata del diritto dell’unione agli stati membri. In particolare, la cooperazione rafforzata Lo status di membro dell’unione europea comporta l’applicazione integrale allo stato interessato dell’acquis comunitario, del complesso, cioè, delle norme e dei principi ricavabili dai trattati, dalla prassi delle istituzioni e dalla giurisprudenza della corte, nonché dagli atti di vari natura adottati in applicazione dei trattati o che ad essi si ricollegano. Il sistema dell’unione è basato su un principio rigoroso di applicazione generale e uniforme del suo diritto. Vi sono delle deroghe ed eccezioni nel caso dell’adesione di nuovi stati membri, per i quali l’applicazione integrale e immediata dell’acquis comunitario può risultare in taluni casi impossibile o particolarmente difficile. Rispetto ad essi l’atto di adesione prevede in genere una serie di deroghe a norme e atti puntuali dell’unione, che hanno tuttavia carattere transitorio, perché dirette a consentire la piena integrazione dei nuovi stati membri nel sistema dell’unione. I trattati contengono però anche un certo numero di disposizioni che danno luogo a forme non necessariamente temporanee di applicazione differenziata di norme del diritto dell’unione o che comunque aprono la strada a una possibilità di questo genere. Una deroga di carattere per così dire territoriale è, ad esempio, quella disposta dall’art. 355 TFUE, che esclude l’applicazione integrale dei trattati a talune isole o zone di sovranità del Regno Unito e della Danimarca mentre prevede un regime speciale per altri territori accomunati dall’essere situati fuori del continente europeo pur essendo parte integrante di alcuni stati membri o mantenendo con gli stessi relazioni particolari. Le forme di applicazione differenziata del diritto dell’unione, che escludono l’applicazione di normative dell’unione o di interi settori di competenza della stessa nei confronti di interi stati membri. Un apposito protocollo ha sancito la non applicabilità alla Polonia e al Regno Unito nel momento in cui, con il trattato di Lisbona, essa ha acquisito lo stesso valore giuridico dei trattati. Sostanzialmente, le ipotesi finora ricordate danno luogo a una limitazione dell’applicazione a specifici o singoli stati membri di normative dell’unione di portata generale, motivata per lo più da problemi di carattere politico o ordinamentale unicamente riguardanti gli stati interessati. Si è prospettata però anche un’esigenza di consentire a gruppi di stati membri, di fronte alla difficoltà di crescente di trovare le maggioranze necessarie in seno al consiglio per avviare iniziative normative evolutive in taluni settori di competenza dell’unione, di dar vita a tali iniziative in un numero più ristretto di stati, mantenendole però all’interno del sistema dell’unione e dei meccanismi istituzionali e giuridici su cui si basa il suo funzionamento. o L’esigenza ha trovato risposta con l’introduzione nei trattati, da parte del trattato di Amsterdam, dell’istituto della cooperazione rafforzata. Essa consiste nella decisione di un gruppo di stati membri di realizzare tra di essi, ma nel quadro dell’unione e avvalendosi delle sue istituzioni e applicando le pertinenti disposizioni dei trattati, un obiettivo dei trattati che non possa essere conseguito per il momento dall’unione nel suo insieme per la mancanza delle necessarie maggioranze in consiglio. Questo nuovo istituto è previsto oggi da un articolo del TUE, l’art. 20. L’iniziativa di instaurare una cooperazione deve essere presa da un gruppo di almeno nove stati e il suo oggetto deve rientrare nei limiti delle competenze dell’unione, ma non riguardare una competenza esclusiva di questa. Essa non solo deve rispettare i trattati e il diritto dell’unione, nonché le competenze, i diritti e gli obblighi degli stati membri che non vi partecipano, ma non può recare pregiudizio né al mercato interno né alla coesione economica e territoriale, o costituire un ostacolo o una discriminazione per gli scambi tra gli stati membri o, ancora, provocare distorsioni di concorrenza tra questi ultimi. L’avvio di una cooperazione rafforzata deve essere autorizzata dal consiglio a maggioranza qualificata, sulla base di una proposta della commissione preparata su richiesta del gruppo di stati che intendono procedervi, e previa approvazione del parlamento europeo. Se l’iniziativa riguarda i settori della PESC, il consiglio delibera all’unanimità sulla base dei pareri rilasciati dall’Alto rappresentante dell’unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza e dalla commissione per le rispettive competenze. L’art. 20, par. 2, TUE, prevede che la decisione di autorizzazione debba essere adottata dal consiglio in ultima istanza, quando, cioè, sia chiaro che non vi sono possibilità di realizzare con un’iniziativa dell’unione in quanto tale l’obiettivo perseguito dalla cooperazione rafforzata. Spetta al consiglio verificare in concreto la sussistenza di questa condizione, che è chiaramente dire4tta, come ha detto la corte, a evitare che il primo insuccesso di un negoziato in seno al consiglio possa condurre all’instaurazione di una cooperazione rafforzata, senza che si faccia un serio tentativo di trovare un compromesso tra gli stati membri che consenta all’unione di procedere nella sua interezza. Nell’opinione della corte, la facoltà di ricorrere a una cooperazione rafforzata non è necessariamente limitata alla sola ipotesi in cui uno o più stati membri dichiarino di non essere ancora pronti a partecipare ad un’azione legislativa dell’unione nel suo insieme, ma anche a quella in cui gli stati non trovino l’accordo sul contenuto di tale azione. Il TFUE contempla anche ei casi in cui l’autorizzazione di una cooperazione rafforzata va ritenuta concessa de jure. Per i settori della cooperazione penale e in materia giudiziaria penale e di polizia, che laddove non sia possibile procedere all’adozione di un atto per la mancanza di un accordo in consiglio europeo, investito dello stesso sulla base del freno d’emergenza o in ragione della mancanza di una unanimità in consiglio, almeno nove stati membri possono informare il parlamento, il consiglio e la commissione della loro intenzione di instaurare una cooperazione rafforzata sulla base di quell’atto : in tal caso la cooperazione si considera automaticamente concessa. Una cooperazione rafforzata deve consentire l’adesione di qualsiasi altro stato membro che desideri unirsi al gruppo iniziale al momento del suo avvocato ovvero in un momento successivo, purché il nuovo stato partecipante soddisfi le eventuali condizioni di partecipazione stabilite nella decisione di autorizzazione. Nel caso in cui l’adesione avvenga in un momento successivo, spetterà alla commissione verificare che tali condizioni siano soddisfatte e adottare le eventuali misure transitorie necessarie a consentire l’applicazione degli atti già approvati nell’ambito della cooperazione rafforzata, che lo stato aderente è tenuto ad accettare nella loro integralità. Una volta instaurata, la cooperazione rafforzata funzionerà attraverso le istituzioni, gli strumenti e le procedure previste dagli articoli dei trattati che costituiscono la base giuridica della materia oggetto della cooperazione, solo gli stati partecipanti potranno partecipare al voto sulle deliberazioni prese dal consiglio nel suo quadro. Gli atti adottati nel quadro di una cooperazione rafforzata devono essere fondati sulle pertinenti basi giuridiche dei trattati e costituiscono diritto dell’unione, ma vincolano evidentemente solo gli stati membri partecipanti e non sono considerati parti dell’acquis che deve essere accettato da un nuovo stato membro che aderisca all’unione. o La possibilità di avviare le cooperazioni rafforzate in uno dei settori di competenza non esclusiva dell’unione, i trattati prevedono anche due ipotesi specifiche di cooperazione rafforzata direttamente disciplinate al loro interno. La prima è la cooperazione strutturata permanente che l’art. 42 TUE contempla in materia di missioni che l’unione può essere chiamata ad effettuare, nel quadro della politica di sicurezza e difesa comune, per garantire il mantenimento della pace, la prevenzione dei conflitti e il rafforzamento della sicurezza internazionale. Non appena gli stati membri che rispondono a criteri più elevati in termini di capacità militari abbiano notificato al consiglio e all’Alto rappresentante la loro intenzione di partecipare a tale cooperazione, il consiglio provveda a istituirla con decisione presa a maggioranza qualificata. Una volta istituita, essa è aperta all’adesione di altri stati membri che rispondano a quei criteri, la partecipazione è reversibile. L’altra cooperazione rafforzata istituita direttamente dai trattati è quella riguardante la materia dell’eliminazione dei controlli alle frontiere comuni oggetto dell’accordo di Schengen del 1985. Essa è stata infatti integrata nei trattati proprio a titolo di cooperazione rafforzata, autorizzata direttamente dal protocollo allegato al trattato di Amsterdam, che definisce nel dettaglio anche la posizione del Regno Unito, dell’Irlanda e della Danimarca, i quali sono gli unici stati membri non partecipanti. Questi ultimi, ad essi è consentito non solo di aderire, quando lo vorranno, a questa specifica cooperazione, ma anche di partecipare all’elaborazione o di accettare singole misure adottate nel quadro della cooperazione, sulla base di un meccanismo che è stato definito di opting in. Parte prima “L’ORDINAMENTO GIURIDICO DELL’UNIONE” - Capitolo II “IL QUADRO ISTITUZIONALE” 1. Profili introduttivi L’unione europea dispone l’art. 13, par. 1, comma 1, TUE, di un “quadro istituzionale che mira a promuoverne i valori, perseguirne gli obiettivi, servire i suoi interessi, quelli dei suoi cittadini e quelli degli stati membri, garantire la coerenza, l’efficacia e la continuità delle sue politiche e delle sue azioni”. Di questo quadro istituzionale fanno parte : Parlamento europeo, Consiglio europeo, Consiglio, Commissione europea, Corte di giustizia dell’Unione europea, Banca centrale europea e Corte dei conti. Il quadro istituzionale è tale da ricomprendere indistintamente tutte le istituzioni e gli organismi operanti nell’ambito dell’unione. Alle istituzioni delle originarie comunità europee si sono progressivamente affiancati ulteriori organi, di diverso livello e funzioni, nati non solo sulla base di decisioni prese a livello di trattati o di previsioni esplicite di questi, ma anche di decisioni autonome delle stesse istituzioni dell’unione. È da notare che la composizione intergovernativa è ben lungi dal costituire la caratteristica dominante degli organi appartenenti al sistema. Almeno per quelli principali, quella caratteristica si trova unicamente nel Consiglio europeo e nel Consiglio. Benché quasi tutti nominati pur sempre dai governi degli stati membri, gli altri organi del sistema si caratterizzano per una composizione formalmente indipendente dagli stati, nel senso che i loro membri non rappresentano il governo del paese di appartenenza, ma fanno parte dell’organo a titolo personale. La composizione di questi altri organi assume peraltro forme diverse, le quali appaiono espressione di differenti rappresentatività. L’apparato organico dell’unione affianca ad organi, quali la commissione o la corte di giustizia, la cui indipendenza dagli stati membri è messa unicamente a servizio dell’interesse in quanto tale dell’ente-unione, altri organi per i quali quella caratteristica è funzionale al fatto di esprimere, nel funzionamento del processo di integrazione europea, interessi e istanze nazionali diversi da quelli governativi. Il compito degli organi di cui si parla non si esaurisce nella mera rappresentanza di quegli interessi e istanze a livello del sistema istituzionale; essi al contrario contribuiscono, seppur in forme e con efficacia diverse, al funzionamento di quel sistema, arrivando talvolta ad assolvere a tale livello funzioni analoghe a quelle proprie, sul piano nazionale, delle istanze da essi rappresentate. Il potere normativo non è strettamente riservato all’organo intergovernativo, ma è in buona parte condiviso da consiglio e parlamento europeo nel quadro di un triangolo istituzionale che riserva un ruolo essenziale alla commissione. Il potere esecutivo, esercitato nelle sue diverse accezioni tanto dal consiglio che dalla commissione, al punto che per ambedue è invalso nel gergo ormai abituale l’appellativo di esecutivo. La funzione giurisdizionale infine risulta oggi organizzata sull’operato di più istanze e gradi di giurisdizione : dopo un primo affiancamento, negli anni ’80, del tribunale di primo grado alla corte di giustizia, si è aggiunta ora la possibilità di creare tribunali specializzati incaricati di conoscere in primo grado di talune categorie di ricorsi proposti in materie specifiche e le cui decisioni sono impugnabili dinanzi al tribunale. Il settore della PESC, che mantiene anche nel quadro dei nuovi trattati le caratteristiche istituzionali che lo hanno contraddistinto fin dalle origini. L’apparato istituzionale dell’unione interviene in misura essenziale, tanto dal punto di vista quantitativo, che da quello qualitativo. 2. Principi di funzionamento del sistema istituzionale. L’equilibrio istituzionale e la leale collaborazione La corte di giustizia, parlando dell’allora TCE, questo ha instaurato un sistema di ripartizione delle competenze fra le varie istituzioni della comunità secondo il quale ciascuna svolge una propria specifica funzione nella struttura istituzionale della comunità e nella realizzazione dei compiti affidatile. Il rispetto dell’equilibrio istituzionale comporta che ogni istituzione eserciti le proprie competenze nel rispetto di quelle delle altre istituzioni. esso impone altresì che possa essere sanzionata qualsiasi eventuale violazione di detta regola. L’equilibrio istituzionale disegnato dai trattati costituisce una garanzia fondamentale non solo delle prerogative delle istituzioni in quanto tali, ma anche, attraverso quelle prerogative, della posizione di tutti i soggetti di diritto, cui si indirizza l’ordinamento. Quell’equilibrio è perciò da considerare violato sia quando un’istituzione affidi l’esercizio delle proprie prerogative ad altri, delegando poteri discrezionali che implicano un’ampia libertà di valutazione, sia quando essa voglia invece estendere le proprie attribuzioni a discapito di quelle spettanti alle altre istituzioni. Ciascuna istituzione gode di un potere di auto- organizzazione, che tanto le altre istituzioni, quanto gli stati membri devono rispettare. L’autonomia che le istituzioni traggono dal potere di auto-organizzazione incontra anch’essa un limite nel rispetto dell’equilibrio istituzionale e, più in generale, delle norme dei trattati. La corte ha sottolineato, il potere del parlamento europeo di garantire il proprio buon funzionamento e lo svolgimento delle sue procedure non può spingersi fino a vanificare le disposizioni dei trattati sulla sede delle istituzioni che attribuiscono ad altri la competenza a decidere di aspetti del proprio funzionamento. L’altro principio che governa i rapporti tra le istituzioni è quello di leale cooperazione. Consacrato nell’art. 13, par. 2, TUE. Il principio di leale cooperazione non impone solo di rispettare le attribuzioni rispettive, ma autorizza anche la messa in atto di procedure che permettono di assicurare il buon svolgimento del processo decisionale. La violazione di questo obbligo possa giustificare una lesione delle prerogative dell’istituzione responsabile, consentendo, ad esempio, l’adozione di un atto da parte del consiglio senza attendere il prescritto parere del parlamento europeo, per il fatto che quest’ultimo ne ha ritardato ingiustificatamente l’emanazione. La corte ha anche concluso per l’invalidità di un atto del consiglio adottato in violazione di un accordo interistituzionale da lui concluso con la commissione, proprio perché un accordo del genere è espressione dell’obbligo di cooperazione tra le istituzioni e la sua violazione si configura come una violazione di quell’obbligo. 3. Sistema istituzionale dell’unione e parlamenti nazionali I trattati coinvolgono formalmente i parlamenti degli stati membri in una serie di procedure dell’Unione, facendo degli stessi, in una certa misura, dei protagonisti in prima persona della vita istituzionale dell’unione. A parte il ruolo che essi esercitano nel quadro del controllo sul rispetto del principio di sussidiarietà disciplinato dal relativo protocollo, si tratta nella maggior parte dei casi dell’esplicita previsione di una loro informazione diretta da parte delle istituzioni dell’unione responsabili di determinate procedure, accompagnata dall’obbligo di quelle istituzioni di sospendere L’assunzione delle sue delibere rimane subordinata, in via generale, alla regola del consensus : l’art. 15, par. 4, TFUE, infatti “il consiglio europeo si pronuncia per consenso, salvo nei casi in cui i trattati dispongano diversamente”. Il consiglio europeo può essere chiamato a votare, a seconda di quanto stabilito dalla disposizione dei trattati sulla cui base esso delibera, all’unanimità, a maggioranza semplice o a maggioranza qualificata. E queste regole di voto presentano, peraltro, quando applicate al consiglio europeo, caratteristiche del tutto analoghe a quelle previste per il consiglio. L’unanimità si forma anche in presenza dell’astensione di uno o più membri del consiglio europeo. La maggioranza semplice, data dalla metà più uno dei suoi membri, si applica alle delibere riguardanti il suo regolamento interno o, più genericamente, alle questioni di procedura. Quanto alla maggioranza qualificata, anche per il consiglio europeo essa si basa su di un sistema che tiene conto del peso relativo di ciascuno degli stati membri. L’art. 235, par. 1, comma II, TFUE prevede che “allorché il consiglio europeo delibera mediante votazione, il presidente e il presidente della commissione non partecipano al voto”. La volontà collegiale di questo finisce per identificarsi direttamente e unicamente con quella dei governi degli stati membri, finendo, almeno per questo profilo, per annullare nei fatti ogni differenza con il consiglio. o In passato, le determinazioni da esso assunte erano così per lo più cumulativamente contenute nelle conclusioni della Presidenza, che il consiglio europeo adottava alla fine dei suoi lavori. Non sono mancati casi nei quali si è preferito individualizzare una certa decisione consacrandola in uno specifico atto, al fine di darle un particolare rilievo politico, o in ragione del particolare valore che le si voleva riconoscere nei confronti degli stati membri. Ora il ricorso a uno strumento formale gli è imposto dagli stessi trattati tutte quelle volte in cui il consiglio europeo è chiamato a prendere delibere formali in adempimento di una specifica disposizione di questi. Dopo il trattato di Lisbona, tuttavia, esse non appaiono più formalmente come conclusioni della presidenza, ma dello stesso consiglio europeo. Questo ha perso il carattere di una mera conferenza tra governi, per assumere quello di vera e propria istituzione che esprime una volontà unitaria distinta da quella dei suoi componenti; dall’altro lato, il suo presidente non esprime più la volontà sovrana di una presidenza statale, ma è il portavoce dell’istituzione che presiede. Mentre le conclusioni difficilmente possono considerarsi produttive di effetti giuridici formali, dagli altri atti del consiglio europeo deriveranno gli effetti giuridici previsti dalla norma dei trattati che abilita questa istituzione ad adottarli. 2. Il consiglio La veste ordinaria che assume la riunione dei rappresentanti dei governi degli stati membri è quella di consiglio dell’unione. Il consiglio rappresenta il centro di gravità dell’equilibrio istituzionale dell’unione, benché le altre istituzioni, e in particolare il parlamento europeo. L’art. 16, par. 1, TUE sintetizza il suo ruolo sottolineando che “il consiglio esercita la funzione legislativa e la funzione di bilancio. Esercita funzioni di definizione delle politiche e di coordinamento alle condizioni stabilite nei trattati”. Esso concentra una serie di attribuzioni e funzioni che lo caratterizzano come titolare al tempo stesso del potere legislativo e di quello esecutivo. Il consiglio è lo snodo istituzionale attraverso cui passano sostanzialmente tutte le decisioni formali su cui si muovono la vita istituzionale e l’azione quotidiana dell’unione. È il consiglio il protagonista principale, quando non unico, dell’esercizio del potere decisionale a livello dell’unione. È compito suo, in collegamento con il consiglio europeo di cui prepara i lavori, fornire all’unione gli indirizzi politici e definirne gli orientamenti generali; spettano al consiglio le decisioni istituzionali non riservate al consiglio europeo; è al consiglio che, insieme al parlamento europeo, fa capo l’attività legislativa; è in seno al consiglio che viene assicurato il coordinamento delle politiche economiche generali degli stati membri; è ancora il consiglio che, attraverso la funzione di conclusione degli accordi internazionali dell’unione e la gestione della politica estera comune, detiene la titolarità effettiva del potere estero. o È formato da “un rappresentante di ciascuno stato membro a livello ministeriale, abilitato a impegnare il governo dello stato membro che rappresenta e ad esercitare il diritto di voto”, il consiglio, che si riunisce di regola a Bruxelles dove ha sede il suo segretariato, vede modificarsi la sua composizione di volta in volta a seconda degli argomenti all’ordine del giorno delle sue riunioni. L’elenco delle diverse informazioni in cui il consiglio può riunirsi in ragione di questa composizione variabile è deciso dal consiglio europeo a maggioranza qualificata, salvo che per le formazioni Affari generali e Affari esteri, le quali sono previste direttamente a livello dei trattati dall’art. 16, par. 6, commi II e III, TUE, che ne stabilisce anche le funzioni : “il consiglio affari generali assicura la coerenza dei lavori delle varie formazioni del consiglio; esso prepara le riunioni del consiglio europeo e ne assicura il seguito in collegamento con il presidente del consiglio europeo e la commissione”; dal canto suo “il consiglio affari esteri elabora l’azione esterna dell’unione secondo le linee strategiche definite dal consiglio europeo e assicura la coerenza dell’azione dell’unione”. Non costituisce una vera e propria formazione del consiglio, benché sia composto dai ministri delle finanze, l’EUROGRUPPO, oggi ufficializzato da un apposito protocollo allegato ai trattati, il n. 14, che si limita però a prevedere che i ministri degli stati membri la cui moneta è l’euro si riuniscono “a titolo informale” insieme alla Banca Centrale europea e alla commissione per discutere questioni attinenti alle responsabilità specifiche che condividono in materia di moneta unica. La scelta del rappresentante da inviare a ciascuna riunione del consiglio è rimessa al singolo stato membro, purché quel rappresentante abbia livello ministeriale. Ciò comporta che al consiglio possano partecipare non necessariamente ministri, ma anche soggetti sottosegretari di governo, fermo restando che, la loro volontà impegnerà in ogni caso il governo dello stato membro in quanto tale. o Il consiglio conosce anche un’articolazione verticale a forma quasi di clessidra, destinata a facilitare lo svolgimento dei suoi lavori. Alla base della clessidra vi sono, in gran numero, i gruppi di lavoro, specializzati per materia e composti da funzionari degli stati membri, ai quali è affidato l’esame tecnico dei singoli dossier. La preparazione delle deliberazioni del consiglio viene poi ulteriormente perfezionata in seno al comitato dei rappresentanti permanenti degli stati membri a Bruxelles, COREPER, cui compete una valutazione anche politica dei nodi rimasti aperti a livello di gruppo tecnico. Dopodiché spetta al consiglio a livello di ministri, in una delle sue diverse formazioni, prendere la deliberazione finale. Ciascuna delle istanze preparatorie riproduce nella composizione e nelle procedure di funzionamento il livello ministeriale. Esse però sono prive di una propria identità e di un potere deliberativo autonomo. Per il COREPER benché gli viene riconosciuto il “potere di adottare decisioni di procedura nei casi previsti dal regolamento interno del consiglio”. Al di fuori di questa ipotesi “la funzione di esecuzione dei mandati affidati dal consiglio non autorizza il COREPER ad esercitare il potere decisionale, che spetta, in base al trattato, al consiglio”. Il COREPER finisce però per essere un elemento essenziale. Esso canalizza infatti il lavoro di un numero elevato di gruppi di lavoro specializzati verso le dieci formazioni ugualmente settoriali del consiglio; ma nel contempo non si presenta come un’istanza specializzata, composto, dagli ambasciatori degli stati membri presso l’unione, COREPER II, e dai loro aggiunti, COREPER I. Esso rappresenta per il suo carattere generalista, lo snodo che permette di assicurare, nei limiti del possibile, la coerenza generale dei lavori e delle decisioni del consiglio. o Il consiglio è presieduto a turno dagli stati membri, come previsto dall’art. 16, par. 9, TUE, sulla base di un sistema di rotazione, che è disciplinato da una decisione dal consiglio europeo, adottata a maggioranza qualificata e per i suoi meccanismi di dettaglio, da una contestuale decisione applicativa del consiglio approvata con la stessa maggioranza. La prima decisione prevede una presidenza per gruppi predeterminati di tre stati, che, salvo diverso accordo, se ne ripartiscono l’esercizio per 18 mesi, all’interno dei quali ciascuno stato esercita a turno la presidenza per sei mesi con l’assistenza degli altri due e sulla base di un programma comune. Ciascun gruppo è composto secondo un sistema di rotazione paritaria, che tiene conto della diversità degli stati membri e degli equilibri geografici dell’unione. E la composizione dei gruppi, così come l’ordine di successione tra loro, è stata fissata, per il periodo fino al 2020, dalla seconda decisione. La novità è data invece dal fatto che al sistema fa eccezione la presidenza del consiglio affari esteri, che è sottratta agli stati ed è riservata dall’art. 27, par.1, TUE, dall’alto rappresentante dell’unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza; novità che si estende peraltro anche alla filiera preparatoria di questa formazione del consiglio, nel senso che la presidenza dei gruppi di lavoro o comitati più direttamente coinvolti nella preparazione delle decisioni del consiglio in materia di politica estera e di sicurezza comune è affidata a rappresentanti dell’alto rappresentante, con la sola eccezione del COREPER, la cui presidenza rimane comunque nella responsabilità del rappresentante permanente dello stato membro che esercita la presidenza di turno del consiglio affari generali. il consiglio è assistito da un apparato amministrativo, il segretariato generale, al cui vertice è posto il segretario generale nominato a maggioranza qualificata dallo stesso consiglio. o Prima dell’entrata in vigore del trattato di Lisbona, laddove una norma del trattato o un atto delle istituzioni che affidavano al consiglio il compito di prendere una certa decisione non indicassero una modalità di voto specifica e diversa, il consiglio deliberava a maggioranza semplice. Ora la regola di voto è diventata, in questi casi, la maggioranza qualificata, mentre la maggioranza semplice rimane la regola in linea generale applicabile per l’adozione del regolamento interno e più in generale per le decisioni di procedura. Quanto all’unanimità, essa resta ora confinata alle sole decisioni politicamente più sensibili. Proprio in ragione della sensibilità della materia, l’unanimità è rimasta di applicazione generale per le decisioni da prendere nell’intero settore della PESC. E anche in quei rari casi in cui il TUE consente al consiglio di votare a maggioranza qualificata decisioni da prendere nel quadro della PESC “se un membro del consiglio dichiara che, per specificati e vitali motivi di politica nazionale, intende opporsi all’adozione di una decisione che richiede la maggioranza qualificata, non si procede alla votazione”; e laddove l’alto rappresentante, in stretta consultazione con tale stato, non trovi una soluzione per esso accettabile, il consiglio a maggioranza qualificata potrà investire della questione il consiglio europeo, che si pronuncerà all’unanimità. L’astensione del rappresentante di uno stato in seno al consiglio non osta al raggiungimento dell’unanimità, ma non rende evidentemente inapplicabile l’atto allo stato che si è astenuto. Quando il consiglio delibera all’unanimità nell’ambito della PESC, quest’ultima regola può trovare un’eccezione, nel senso che se uno stato accompagna la sua astensione con una dichiarazione formale di non voler essere vincolato dalla decisione del consiglio, esso non sarà destinatario degli obblighi da questa posti. La sua previsione è evidentemente diretta ad evitare che stati non disponibili ad impegnarsi in una azione dell’unione in quest’ambito, si trovino per questo necessariamente costretti ad impedire che essa agisca, non avendo altra alternativa che il voto contrario. Lo stesso TUE pone un limite numerico alla possibilità di avvalersi dell’astensione costruttiva : quando infatti gli stati che vi fanno ricorso rappresentano almeno un terzo dei membri del consiglio che totalizzano almeno un terzo della popolazione dell’unione, la decisione del consiglio non è comunque adottata. 2. La maggioranza qualificata in sede di consiglio europeo e di consiglio La maggioranza qualificata si fonda su un sistema che tiene conto della diversa grandezza degli stati membri. In passato ciò avveniva grazie a un sistema di voto ponderato. Ai fini del raggiungimento della soglia della maggioranza qualificata, a ciascuno stato membro spettava un numero di voti previsti direttamente nei trattati e commisurato al suo peso economico e demografico, combinato con delle regole di equilibrio politico. Su un totale conseguente di 352 voti, la maggioranza qualificata si considerava raggiunta con 260 voti che esprimessero il voto favorevole della maggioranza degli stati membri, un membro del consiglio europeo o del consiglio poteva “chiedere che, allorché il consiglio europeo o il consiglio adotta un atto a maggioranza qualificata, si verifichi che gli stati membri che compongono tale maggioranza qualificata rappresentino almeno il 62 % della popolazione totale dell’unione. Qualora tale condizione non sia soddisfatta, l’atto non è adottato”. Tale sistema è stato ora sostituito da un meccanismo di doppia maggioranza, la maggioranza qualificata è raggiunta con una maggioranza di stati membri che rappresentino una certa maggioranza della popolazione dell’unione. Fino al 31 Marzo 2017 esso coesisterà, per il solo consiglio, con il precedente sistema, nel senso che fino a tale data uno stato membro potrà domandare che il consiglio adotti una determinata decisione con il voto ponderato in luogo della doppia maggioranza. L’attuale meccanismo della doppia maggioranza prevede che la maggioranza qualificata è raggiunta quando una delibera del consiglio europeo o del consiglio ottiene il voto favorevole di almeno il 55 % degli stati membri, che comprendano almeno 15 di loro e rappresentino almeno il 65 % della popolazione residente dell’unione, e che la minoranza di blocco deve comprendere almeno quattro membri del consiglio europeo o del consiglio, altrimenti la maggioranza qualificata si considera raggiunta anche se quelle soglie non sono rispettate. Laddove una delle due istituzioni sia chiamata a deliberare non sulla base di una proposta della commissione, è invece richiesto, in ragione del venir meno della salvaguardia dell’interesse generale, il voto favorevole di un numero più elevato di stati membri, la cui soglia minima passa dal 55 % al 72 %. La percentuale più alta di stati membri finisce, peraltro, per essere quella di regola applicabile nel caso di votazioni a maggioranza qualificata del consiglio europeo, dato che, tranne che in un caso, questo non delibera mai sulla base di una proposta della commissione; e, quando lo fa su proposta dell’alto rappresentante, esso vota comunque all’unanimità per disposizione dei trattati. o Compromesso di Lussemburgo, con il quale i governi degli stati membri previdero nel 1966, la possibilità di un rinvio dell’adozione a maggioranza di una delibera del consiglio nel caso in cui uno stato membro invocasse il pregiudizio di propri interessi molto importanti. Interpretato nella pratica come un diritto di veto, ha infatti, per lungo tempo impedito che si procedesse a maggioranza qualificata anche nei casi in cui essa era formalmente prevista dai trattati. Dalla metà degli anni ’80 esso non è stato quasi più invocato. Meccanismi diretti a tener conto di particolari difficoltà che possono incontrare singoli stati membri di fronte a decisioni a maggioranza del consiglio sono ad ogni modo ora previsti anche formalmente nei trattati o in atti delle istituzioni. Alcuni di questi operano in modo sostanzialmente analogo al compromesso di Lussemburgo. Di fronte poi all’accresciuta difficoltà di coagulare minoranze di blocco nel quadro del nuovo sistema di doppia maggioranza, è stato anche introdotto, in applicazione di una dichiarazione allegata trattato di Lisbona, un meccanismo di carattere generale ai sensi del quale, in presenza di un quasi minoranza di blocco, il consiglio è tenuto a proseguire le discussioni alla ricerca di una soluzione soddisfacente che tenga conto delle preoccupazioni espresse dagli stati membri che si oppongono ad una sua delibera. Scaduto questo tempo ragionevole, il consiglio potrà passare al voto. 2. Il parlamento europeo indipendenza, non sollecitando né accettando istruzioni da alcun governo, istituzione, organo o organismo, e dovrebbero essere scelti unicamente in base alla loro competenza generale e al loro impegno europeo e alle garanzie d’indipendenza che offrono. Presidente designato della commissione per opporsi a una determinata candidatura proposta da uno stato membro. Il parlamento europeo abbia espresso un giudizio di inadeguatezza su un singolo commissario proposto dal consiglio, costringendo così quest’ultimo a sostituirlo prima della sottoposizione della commissione, nella sua interezza, all’approvazione dello stesso parlamento. Nelle valutazioni al riguardo del presidente della commissione e del parlamento europeo hanno un ruolo più i primi due requisiti, che quello relativo alle garanzie d’indipendenza offerte dal singolo candidato.  La procedura di nomina della commissione era in origine articolata essenzialmente su due elementi principali : era identica per tutti i membri, tanto che il presidente era designato tra di essi solo successivamente alla loro nomina, sulla base della stessa procedura utilizzata per la nomina; e la nomina era di spettanza esclusiva dei governi degli stati membri che vi procedevano con una decisione presa di comune accordo. Oggetto nel tempo di varie modifiche, passaggio a una procedura di nomina di carattere istituzionale, e non più basata sulla volontà dei soli stati membri, la separazione e la differenziazione della procedura di nomina del presidente da quella usata per gli altri membri; l’implicazione crescente del parlamento nella procedura. L’art. 17, par. 7, TUE si articola in tre fasi. Nella prima si procede alla designazione del presidente, il cui nome deve essere proposto a maggioranza qualificata dal consiglio europeo al parlamento europeo, che deve eleggerlo a maggioranza dei suoi membri. Laddove il secondo non approvi la proposta del primo, questo deve ripresentare una proposta entro un mese. La seconda fase è diretta invece all’individuazione degli altri membri della commissione : spetta al consiglio, in accordo con il presidente eletto, adottarne l’elenco sulla base delle proposte presentate dagli stati membri, tenendo conto dei requisiti di competenze e indipendenza che vengono prescritti dal trattato. Terza fase che vede la commissione nella sua interezza sottoporsi all’approvazione del parlamento, per poi, in caso di voto positivo di questo, essere formalmente nominata a maggioranza qualificata dal consiglio europeo. L’alto rappresentante è infatti nominato direttamente dal consiglio europeo; è soggetto unicamente al voto di approvazione che il parlamento europeo è chiamato a dare sulla commissione nella sua interezza nella terza fase della procedura. Nel disciplinare nel suo regolamento interno la procedura di elezione del presidente designato e di approvazione della commissione, esso vi ha formalizzato la pratica, non imposta dai trattati, di procedere ad audizioni pubbliche dei singoli candidati : il presidente designato viene invitato a fare una dichiarazione e a presentare i suoi orientamenti politici al parlamento a fini di una loro discussione in seduta plenaria; i candidati commissari sono invitati a comparire dinanzi alle varie commissioni parlamentari secondo le loro prevedibili competenze per formulare una dichiarazione e rispondere a domande. Quest’ultima consente nei fatti al parlamento un’approvazione anche individuale dei futuri commissari, permettendogli di ottenere la sostituzione del o dei candidati rispetto ai quali la sua valutazione sia risultata negativa. Laddove il presidente designato non procedesse, di concerto con il consiglio e lo stato o gli stati membri interessati, a tale sostituzione, l’approvazione che il parlamento è chiamato a dare della commissione nel suo interesse sarebbe a rischio. In occasione delle ultime elezioni europee, il parlamento è riuscito a imporre anche la necessità di un collegamento diretto tra il presidente della commissione e la maggioranza politica affermatasi nelle elezioni europee. I trattati prevedono sì che la proposta iniziale del nome da presentare al parlamento europeo per la sua elezione debba essere formulata dal consiglio europeo tenendo conto delle elezioni al parlamento europeo e dopo aver effettuato le consultazioni appropriate. o I membri della commissione sono 28, vi sono inclusi il presidente e l’alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza, e rimangono in carica per cinque anni. Il loro numero corrisponde quindi al numero degli stati membri. Il nuovo art. 17, par. 5, TUE, introdotto dal trattato di Lisbona, era arrivato finalmente a prevedere che a decorrere dal 1 Novembre 2014 il numero dei commissari avrebbe dovuto corrispondere ai due terzi degli stati, sulla base di una scelta degli stessi da operare in base ad un “sistema di rotazione assolutamente paritaria tra gli stati membri che consenta di riflettere la molteplicità demografica e geografica” di questi. Il consiglio europeo a ritornare a una piena corrispondenza numerica tra i membri della commissione e gli stati membri, si precisa che lo stesso consiglio europeo, deliberando all’unanimità, può comunque decidere di modificare la composizione della commissione rispetto al numero di due terzi degli stati membri. Quanto invece alla durata del mandato dei commissari, essa fissata in funzione di quella, ugualmente quinquennale, della legislatura del parlamento europeo. L’obiettivo è quello di stabilire un collegamento temporale tra la vita delle due istituzioni. A parte l’ipotesi di decesso, la cessazione anticipata dal mandato di uno o più dei membri della commissione può aversi per dimissioni volontarie o d’ufficio. Queste ultime possono essere decise dalla corte di giustizia, su istanza del consiglio o della stessa commissione, quando un membro di questa non risponda più alle condizioni necessarie all’esercizio delle sue funzioni o abbia commesso una colpa grave, in quanto si sia reso colpevole di una violazione degli obblighi professionali che il trattato gli impone a tutela dell’indipendenza dell’istituzione. La cessazione anticipata del mandato può anche interessare la commissione nel suo insieme. Può derivare dall’approvazione di una mozione di censura da parte del parlamento europeo, dato che in questo caso è stabilito che la commissione debba abbandonare collettivamente il suo mandato. Questo può conseguire anche a una decisione volontariamente assunta dal collegio dei commissari. In un caso come nell’altro, la commissione dimissionaria rimanga in carica fino alla sua sostituzione secondo la procedura ordinariamente prevista, per assicurare la gestione degli affari correnti. L’indipendenza dei membri della commissione di concretizza innanzitutto in un obbligo degli stessi di astenersi non solo dal sollecitare o accettare istruzioni dai governi nazionali, ma anche dall’agire autonomamente in modo incompatibile con le loro funzioni o con l’esecuzione dei loro compiti, servendo nella loro azione interessi nazionali e non generali. l’obbligo degli stati membri di non cercare di influenzarli nell’adempimento dei loro compiti. Il presidente della commissione gode di una posizione autonoma e preminente rispetto agli altri membri del collegio. Spetta formalmente a lui decidere le distribuzioni dei portafogli tra i membri della commissione; è lui che definisce gli orientamenti nel cui quadro la commissione esercita i suoi compiti, ne decide l’organizzazione interna per assicurare la coerenza, l’efficacia e la collegialità della sua azione, e ne nomina i vicepresidenti. Gli altri membri operano sulla base di una ripartizione di deleghe conferite loro dal presidente, analoga a quella che si ha tra i portafogli di un esecutivo nazionale. A ciascun commissario fanno poi capo, in funzione della delega ricevuta, una o più direzioni generali a competenza settoriale. Le decisioni a essa imputabili devono essere comunque approvate dal collegio dei commissari nella sua interezza, il quale delibera a maggioranza del numero dei suoi membri. 2. L’alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza L’art. 18 TUE prevede la figura dell’alto rappresentante dell’Unione europea per gli affari esteri e la politica di sicurezza. Dal trattato di Amsterdam era stato previsto che il segretario generale del consiglio svolgesse anche le funzioni di alto rappresentante. A seguito del trattato di Lisbona, però, l’alto rappresentante assume un rilievo e caratteristiche sensibilmente diversi. In precedenza, infatti, l’alto rappresentante era una stretta emanazione del consiglio ed esauriva le sue funzioni nell’ambito della PESC, limitandosi ad assistere il consiglio nelle questioni rientranti in tale settore, “in particolare contribuendo alla formulazione, preparazione e attuazione delle decisioni politiche e conducendo all’occorrenza, a nome del consiglio e su richiesta della presidenza, un dialogo politico con i terzi”. Ora, l’alto rappresentante, pur rimanendo strettamente collegato al consiglio e al consiglio europeo da cui è nominato, è anche membro della commissione, della quale è uno dei vicepresidenti per disposizione degli stessi trattati. Egli diventa responsabile dell’intero ventaglio della dimensione esterna dell’Unione. Il doppio incarico di alto rappresentante e vicepresidente della commissione è il motivo delle particolarità che contraddistinguono la procedura per la sua nomina e il suo statuto.  È nominato dal consiglio europeo a maggioranza qualificata con l’accordo del presidente della commissione, ma al tempo stesso, la sua nomina è approvata dal parlamento europeo nel quadro dell’approvazione della commissione nella sua interezza. È anche soggetto all’audizione dei singoli membri della commissione da parte delle commissioni parlamentari competenti. In caso di approvazione di una mozione di cesura del parlamento europeo nei confronti della commissione, l’alto rappresentante è tenuto a dimettersi con gli altri commissari dalle funzioni che ricopre all’interno della commissione, ma rimane in carica per le funzioni che egli assolve nel quadro della PESC. Se invece è il presidente della commissione che gli chiede di dimettersi, è previsto che l’alto rappresentante debba farlo conformemente alla procedura di cui all’art. 18, par. 1, TUE; circostanza, questa, che lascia intendere che le dimissioni rimangono comunque subordinate a una delibera a maggioranza qualificata del consiglio europeo. 2. Le istituzioni di controllo : la corte di giustizia dell’unione europea e la corte dei conti Il sistema istituzionale conosce forme più specifiche di controllo sul funzionamento dell’unione delle quali sono incaricate le rimanenti istituzioni elencate nell’art. 13 TUE : il controllo giurisdizionale esercitato dalla corte di giustizia dell’unione europea e il controllo contabile svolto dalla corte dei conti. La corte dei conti è l’istituzione incaricata del controllo esterno sui conti dell’unione, delle cui istituzioni, organi e organismi esamina le entrate e le spese. Riguarda tutte le spese effettuate nel quadro delle attività dell’unione, con la sola eccezione di quelle operative derivanti da operazioni che hanno implicazioni nel settore militare e della difesa, a meno che il consiglio non decida all’unanimità di porle a carico degli stati membri.  La corte dei conti è composta di un cittadino per ciascuno stato membro, che, benché nominato su proposta di questo, ne fa parte a titolo personale, essendo tenuto a esercitare le sue funzioni in piena indipendenza e nell’interesse generale dell’unione. I membri devono provenire dalle istituzioni di controllo esterno dei rispettivi paesi o comunque essere dotati di qualificazioni specifiche per la funzione da ricoprire. Essi sono nominati per sei anni dal consiglio che delibera a maggioranza qualificata, previa consultazione del parlamento europeo, e sulla base appunto delle proposte presentate da ciascuno stato membro. Il parlamento europeo procede, ai sensi del proprio regolamento interno, a una audizione dei singoli candidati sui quali esprime una valutazione di rispondenza a taluni criteri che esso stesso ha autonomamente fissato con una propria risoluzione del 19 Gennaio 1995. Il parere del parlamento rimane tuttavia non vincolante per il consiglio, né da esso si sentono necessariamente vincolati gli stati membri da cui provengono le candidature. La fine anticipata del mandato di un membro può aversi per dimissioni volontarie o a seguito di decadenza dichiarata dalla corte di giustizia, su richiesta della stessa corte dei conti, per il venir meno dei requisiti necessari o per violazione dei propri obblighi istituzionali. Il sostituto è nominato per la parte restante del mandato. La corte dei conti, che ha sede a Lussemburgo, nomina al suo interno un presidente che resta in carica per tre anni, rinnovabili. Essa adotta anche il proprio regolamento interno, che è però soggetto, in contraddizione con il carattere di istituzione della stessa corte e l’autonomia che ne dovrebbe derivare, all’approvazione a maggioranza qualificata da parte del consiglio. Svolge la sua missione sulla base di una duplice funzione, di controllo e consultiva. Per quanto riguarda la prima, compie un esame delle entrate e delle spese delle istituzioni e degli organi e organismi dell’unione, che ha ad oggetto sia la legittimità e la regolarità delle une e delle altre, che la sana gestione finanziaria. Può svolgere indagini necessarie presso i locali delle altre istituzioni, di qualunque organismo di gestione delle entrate e delle spese dell’unione e di qualunque persona fisica o giuridica che riceva contributi a carico del bilancio della stessa, e tali soggetti, a loro volta, sono tenuti a trasmettere alla stessa corte ogni documento o dato utile allo scopo. Al termine di ciascun esercizio, questa redige una relazione annuale sull’esecuzione del bilancio, che include una dichiarazione di affidabilità concernente, appunto, l’affidabilità dei conti e la legittimità e la regolarità delle operazioni sottostanti. Può inoltre presentare in ogni momento le sue osservazioni sui problemi particolari sotto forma di relazioni speciali. In due casi tale richiesta è anzi obbligatoria, perché espressamente prevista dai trattati : la mancanza del parere, ermo restandone il carattere non vincolante, rende illegittimo l’atto per la cui adozione sia previsto. Tale illegittimità può essere fatta valere dinanzi alla corte di giustizia dalla stessa corte dei conti. 2. Gli organismi monetari e finanziari : la banca centrale europea. All’interno del sistema istituzionale si ritrovano poi taluni organismi operanti nei settori monetario e finanziario, i quali pur se caratterizzati, in funzione delle specificità delle rispettive competenze, da un’ampia indipendenza o autonomia nell’assolvimento dei compiti e nel perseguimento degli obiettivi loro assegnati, sono comunque parte integrante di quel sistema. Ambedue le banche sono dotate di una propria personalità giuridica in forza dei trattati; dispongono di risorse e di un bilancio propri, nonché di loro organi decisionali cui spetta assicurarne l’amministrazione e la gestione; nell’assolvimento dei rispettivi compiti, operano in una posizione di marcata autonomia dalle altre istituzioni, così da essere in grado, la BCE, di svolgere in maniera indipendente la sua funzione di governo della moneta, e la BEI, di agire in piena indipendenza sui mercati finanziari, alla stregua di qualsiasi altra banca. Ambedue le banche non perdono per questo il loro carattere di organismi dell’unione e del suo sistema istituzionale, visto che hanno il compito di contribuire, ciascuna per la propria competenza, alla realizzazione degli scopi dell’unione; e che la loro particolare condizione di autonomia è strettamente funzionale e limitata a quanto necessario all’assolvimento dei loro compiti, restando per il resto soggette, ambedue, alle norme e ai principi che disciplinano il sistema istituzionale e alle misure generali adottate dal legislatore europeo, oltre che al controllo della corte di giustizia. o La BCE costituisce il nucleo centrale del sistema europeo di banche centrali, cui è dato l’obiettivo di garantire la stabilità dei prezzi e di sostenere le politiche economiche generali dell’unione. Il SEBC, di cui fanno parte le banche centrali nazionali della zona euro, è infatti diretto dagli organi decisionali della BCE, ai cui indirizzi ed istruzioni le banche centrali devono attenersi. La composizione e il funzionamento della BCE sono disciplinati dalle norme dei trattati e del protocollo sullo statuto del SEBC e della BCE. Il consiglio direttivo della BCE è l’organo cui spettano la definizione degli indirizzi generali del SEBC e della politica monetaria dell’unione e l’esercizio delle funzioni consultive che il trattato attribuisce alla banca. Comprende i membri del comitato esecutivi e i governatori delle banche centrali degli stati aderenti all’euro. Ogni membro del consiglio dispone di un voto e le decisioni sono prese a maggioranza semplice, salvo quanto diversamente disposto dallo statuto. Per talune 3. Le agenzie europee Le agenzie europee hanno oggi quasi raggiunto il numero di quaranta, hanno come tratto comune il fatto di configurarsi come organismi specializzati dotati di personalità giuridica e di una certa autonomia organizzativa e finanziaria, incaricati di assicurare una migliore attuazione di atti e normative dell’unione riguardanti materie tecnicamente complesse, fornendo assistenza alle istituzioni sotto forma di pareri e raccomandazioni, ovvero esercitando compiti ispettivi, o ancora adottando decisioni individuali nei confronti dei soggetti dell’ordinamento. All’istituzione di agenzie europee si è proceduto per lungo tempo per mezzo di regolamenti del consiglio fondati sulla clausola di flessibilità dell’art. 235 TCEE, secondo la quale, quando un’azione delle istituzioni risultava “necessaria per raggiungere, nel funzionamento del mercato comune, uno degli scopi della comunità”, senza che il trattato avesse previsto i poteri di azioni richiesti, il consiglio, deliberando all’unanimità su proposta della commissione e dopo aver consultato il parlamento europeo, poteva prendere le disposizioni del caso. A partire dagli anni 2000, invece, il legislatore dell’unione ha finito per orientarsi verso una scelta diversa. Da allora, infatti, gli atti istitutivi di agenzie europee sono stati costantemente fondati sull’articolo del TCE concernenti la materia oggetto dell’attività dell’agenzia da istituire. Negli ultimi anni, laddove le funzioni conferite a tali agenzie non eccedano i poteri d’azione attribuiti alle istituzioni dagli articoli relativi al rispettivo settore, esse possano essere considerate come meri strumenti di attuazione della corrispondente politica comune. 4. L’apparato amministrativo dell’unione L’apparato amministrativo attraverso il quale opera il sistema istituzionale dell’unione è costituito da circa 55 mila dipendenti distribuiti tra le diverse entità che lo compongono, per un costo complessivo pari a circa il 6 % del bilancio generale dell’unione. Ben più della metà di questo personale peraltro inquadrata nei ruoli della commissione europea. La commissione è la vera amministrazione dell’unione europea, perché è l’unica tra le istituzioni il cui personale non è principalmente diretto a servire l’istituzione di appartenenza, ma svolge anche un complesso assai articolato di funzioni verso l’unione nella sua interezza e verso gli stati membri in particolare. Il rapporto di lavoro del personale di ruolo dell’unione è regolato da uno stato unico, adottato dal parlamento europeo e dal consiglio previa consultazione delle altre istituzioni interessate, che disciplina i diversi aspetti di quel rapporto : diritti e doveri, procedure di assunzione, condizioni di lavoro, trattamento retributivo e pensionistico, regime disciplinare ecc. Lo statuto delinea anche la struttura delle carriere dei dipendenti dell’unione. L’insieme delle diverse figure professionali è incardinato nel segretariato generale delle diverse istituzioni, al cui vertice amministrativo è posto un segretario generale. I segretariati generali sono organizzati in direzioni generali e servizi, a loro volta suddivisi in direzioni composte da unità. L’accesso alla funzione pubblica europea avviene per regola generale mediante concorsi interistituzionali organizzati da un ufficio unico di selezione del personale, l’EPSO; i vincitori poi sono assunti dalla autorità investita del potere di nomina AIPN di ciascuna istituzione. I principali requisiti di base per accedere alla funzione pubblica europea sono la cittadinanza di uno stato membro e la conoscenza approfondita di una lingua ufficiale e soddisfacente di un’altra nella misura necessaria alle funzioni che si è chiamati a esercitare. L’AIPN deve selezionare i funzionari unicamente nell’interesse del servizio e senza alcuna considerazione della nazionalità. Lo stesso statuto prevede che i funzionari devono essere reclutati su una base geografica più ampia possibile, in modo che all’interno delle istituzioni siano in qualche misura rappresentate tutte le nazionalità e tutte le culture e che nessun impiego finisca per essere riservato ai cittadini di un determinato stato membro. Lo statuto vincola i funzionari a un dovere d’indipendenza nei confronti tanto degli stati quanto di interessi privati, e di riservatezza rispetto alle informazioni di cui vengono a conoscenza nell’esercizio delle loro funzioni, obblighi che si prolungano dopo la cessazione del servizio. Ulteriori obblighi gravano sull’apparato amministrativo dell’unione in quanto tale, art. 298, par. 1, TFUE, secondo la quale “nell’assolvere i loro compiti le istituzioni, organi e organismi dell’unione si basano su un’amministrazione europea aperta, efficace e indipendente”. 5. Il regime linguistico delle istituzioni In un sistema come quello dell’unione europea, in cui, sono soggetti del suo ordinamento non solo gli stati membri, ma anche i loro cittadini, il regime linguistico sulla cui base sono chiamate a operare le istituzioni riveste evidentemente una importanza particolare e del tutto differente da quella che si prospetta nel quadro delle organizzazioni internazionali classiche. L’uso delle lingue incide sulla fluidità e sulla completezza dell’accesso al diritto e alle istituzioni dell’unione, condizionando di conseguenza il rapporto con questa dei cittadini degli stati membri e l’ampiezza effettiva della loro posizione giuridica. La lingua è un elemento essenziale, quanto quello, per così dire, dell’identità europea dell’unione, che vede proprio nella sua diversità linguistica dei valori fondanti. Fin dall’origine un articolo dei trattati istitutivi ha stabilito che il testo di questi fa ugualmente fede in ciascuna di tali lingue; e con le successive adesioni ci si è limitati ad aggiungere a quell’articolo le lingue ufficiali dei nuovi stati, fino ad arrivare alle attuali 24 lingue in cui i trattati sono appunto ufficialmente redatti. Ciò vale per gli atti presi in applicazione dei trattati. Da un lato infatti l’indispensabile pubblicità che va assicurata almeno a quelli che hanno portata generale, affinché gli stessi siano opponibili ai soggetti dell’ordinamento, può essere garantita esclusivamente dalla loro regolare pubblicazione nella GUUE in tutte le lingue ufficiali. Dall’altro lato essendo tali atti redatti in diverse lingue, la loro interpretazione comporta un raffronto tra le diverse versione linguistiche, proprio perché “a tutte le versioni linguistiche va riconosciuto, in via di principio, lo stesso valore”; con la conseguenza che, in caso di divergenza tra le stesse, va ricercata l’interpretazione basata sulla reale volontà del legislatore e sullo scopo da questo perseguito, alla luce di tutte le versioni in questione. L’uso delle lingue nelle e da parte delle istituzioni, pur nel silenzio dei trattati, che si limitano a rinviare per la sua definizione a un atto del consiglio da prendere all’unanimità senza l’intervento di altre istituzioni, anch’esso è stato fin da subito costruito sullo stesso principio. Nella sua versione attuale, infatti, il consiglio ha esercitato a suo tempo la competenza riconosciutagli dall’allora art. 217, riconosce quali lingue ufficiali e di lavoro delle istituzioni tutte le 24 anche se per l’uso delle lingue all’interno delle istituzioni, esso si limita a rinviare ai regolamenti interni di queste, prevedendo che nel quadro degli stessi le istituzioni possono determinare le rispettive modalità di applicazione del regime linguistico generale. 6. Le finanze dell’unione e in particolare l’adozione e l’esecuzione del bilancio e il controllo sulle frodi Le spese di funzionamento dell’apparato istituzionale dell’unione, così come quelle per l’attuazione delle sue attività e delle sue politiche, sono finanziate attraverso un sistema di risorse proprie, introdotto e disciplinato per la prima volta nel 1970 in sostituzione del precedente sistema basato su contributi finanziari obbligatori versati dagli stati membri secondo una chiave di ripartizione stabilita nei trattati. Il termine risorse proprie non sta in realtà a significare che queste scaturiscano da prelievi fiscali o d’altro tipo percepiti direttamente dall’unione. Esse rimangono pur sempre, infatti, imposte riscosse e prelievi operati dagli stati membri, e poi da questi trasferiti interamente o in una percentuale prefissata al bilancio dell’unione. Tuttavia, il loro ammontare preciso non è più unicamente affidato a una trattativa puntuale tra gli stati membri, ma è il frutto di un’imposta fissata direttamente a livello europeo e di percentuali predeterminate di un’imposta armonizzata a quello stesso livello o di un parametro universale accettato di prosperità degli stati membri : il reddito nazionale lordo; circostanza che fa sì che la discussione in materia tra gli stati membri verte ora sul volume complessivo delle risorse destinate all’unione, e non sul contributo dovuto da ciascuno stato, dato che lo stesso dipende unicamente dal rispettivo livello di prosperità economica. Secondo quanto previsto dall’art. 331, comma 3, TFUE, infatti, le disposizioni relative al sistema delle risorse proprie dell’unione, ivi comprese l’istituzione di nuove categorie di queste e la soppressione di categorie esistenti, sono adottate dal consiglio con decisioni prese all’unanimità su proposta della commissione e previa consultazione del parlamento europeo, le quali, entrano in vigore solo previa approvazione da parte di tutti gli stati membri conformemente alle rispettive regole costituzionali. o L’insieme delle entrate derivanti dalle risorse proprie confluisce, con le spese previste per ciascun esercizio finanziario, nel bilancio annuale dell’unione. Si tratta di un bilancio generale e unico per tutta l’unione, che oltre a dover essere finanziato integralmente tramite le risorse proprie, che deve dar conto di tutte le entrate e le spese previste per quel determinato anno, facendo si che le stesse risultino in pareggio. Quest’ultimo obbligo comporta che il bilancio dell’unione riguardi di fatto solo le uscite, visto che il plafond delle entrate è prefissato attraverso il sistema delle risorse proprie. In ogni caso appare molto modesto in rapporto alle competenze esercitabili e alle attività effettivamente svolte dall’unione. Esso corrisponde infatti a circa il 2 % del totale dei bilanci nazionali degli stati membri. L’adozione del bilancio avviene nel quadro di una procedura legislativa speciale, che a partire da una proposta della commissione vede confrontarsi il consiglio e il parlamento europeo sotto la responsabilità finale, però, di quest’ultimo. o L’esecuzione del bilancio generale dell’unione spetta alla commissione, ferma restando la responsabilità delle singole istituzioni o dei singoli organi o organismi per l’esecuzione delle singole sezioni di bilancio che li riguardano direttamente. La commissione vi provvede conformemente alle procedure fissare nel già citato regolamento finanziario. L’esecuzione data al bilancio dell’unione è oggetto di un duplice controllo esterno, contabile e politico. Quello contabile spetta alla corte dei conti che lo esercita a posteriori in conformità all’art. 287 TFUE, e riguarda la legalità e la regolarità delle entrate e delle uscite e il rispetto del principio di sana gestione finanziaria. Quello politico è esercitato dal parlamento europeo, che è chiamato a dare atto alla commissione dell’esecuzione del bilancio e quindi a deliberare lo scarico di bilancio, dopo che la commissione abbia presentato allo stesso parlamento e al consiglio i conti annuali dell’esercizio trascorso. Il parlamento ha interpretato la procedura di scarico di bilancio non solo come un adempimento tecnico di chiusura dei conti, ma anche in chiave di giudizio politico sull’operato della commissione. o Il trattato prevede l’obbligo tanto dell’unione che degli stati membri, in quanto beneficiari diretti o indiretti di fondi europei, di contrastare la frode e le altre attività illegali che ledono gli interessi finanziari dell’unione. L’unione ha creato un apposito ufficio, l’OLAF, che, pur avendo la veste formale di servizio della commissione, opera come un organismo indipendente incaricato di indagare e contrastare ogni attività illegale che rechi pregiudizio alle finanze dell’unione, sia che la stessa si realizza all’interno dell’apparato istituzionale dell’unione, sia che essa si produca a livello nazionale. Nel caso di indagini all’interno di uno stato membro, l’OLAF agisce per lo più in stretto coordinamento con le autorità nazionali e le informazioni ottenute nel corso di un’indagine possono essere trasmesse alle autorità giudiziarie dello stato. Gli stati membri sono destinatari al pari dell’unione di un obbligo di contrastare qualsiasi frode o attività illegale che rechi pregiudizio agli interessi finanziari dell’unione. L’art. 325 TFUE impone agli stati membri di adottare, nella loro attività di contrasto, le stesse misure previste per combattere le frodi ai danni dei propri interessi finanziari. Principio di assimilazione nella tutela degli interessi finanziari europei e nazionali, che la corte di giustizia aveva già ricavato dal principio della leale collaborazione con le istituzioni imposto agli stati dall’art. 10 TCE. Il principio comporta che le autorità nazionali debbano procedere nei confronti delle frodi contro le finanze dell’unione con la stessa diligenza usata nell’esecuzione delle rispettive legislazioni nazionali, in particolare applicando a quelle frodi sanzioni che siano, sotto il profilo sostanziale e procedurale, analoghe a quelle previste per condotte puramente interne, ma simili per natura e importanza, purché tali sanzioni abbiano un carattere di effettività, di proporzionalità e di capacità dissuasiva. L’art. 325 TFUE prevede anche la possibilità del consiglio di adottare misure specifiche, anche di carattere penale, al fine di pervenire a una protezione efficace ed equivalente degli interessi finanziari dell’unione in tutti gli stati membri. L’art. 86 TFUE stabilisce, addirittura, che per combattere i reati che ledono gli interessi finanziari dell’unione il consiglio possa istituire una procura europea, competente per individuare, perseguire e rinviare a giudizio gli autori di reati che ledono tali interessi. Capitolo III “LE FONTI” 2. Profili introduttivi. Il diritto primario e il diritto derivato Il diritto primario non si esaurisce nei trattati istitutivi in quanto tali; dal canto suo il diritto derivato, pur quando inteso con riferimento esclusivo alla produzione normativa basata su previsioni espresse dai trattati, si identifica comunque con un complesso di atti assai vari per caratteristiche ed effetti. 3. I trattati : il loro carattere costituzionale Al vertice di questo complesso di fonti vi sono evidentemente i trattati istitutivi. Il TUE e il TFUE unitariamente considerati, costituiscono, in effetti, l’atto fondante dell’unione e, allo stesso tempo, l’atto che disciplina, da un lato, le competenze di questa e le sue procedure di funzionamento e, dall’altro, i principi e le regole materiali di base su cui è modellato l’intervento delle istituzioni nei diversi settori di loro competenza. Le norme contenute nei trattati sono quindi norme sovraordinate rispetto a tutte le altre norme dell’ordinamento, in quanto i procedimenti produttivi di quest’ultime traggono la loro idoneità a farlo, e i relativi limiti materiali, dalle norme dei trattati. Almeno in relazione al TCEE, la stessa corte di giustizia ha del resto dato un forte contributo a quella assimilazione. Essa ha affermato che questo trattato, “benché sia stato concluso in forma d’accordo internazionale, costituisce la carta costituzionale di una comunità di diritto”. l’assimilazione indicata ha naturalmente un peso più politico, che formale. Ai trattati istitutivi manca la stessa struttura di una carta costituzionale, dato che lungi dal contenere solo i principi strutturali e materiali dell’ordinamento cui danno fondamento, essi ne disciplinano fin nei dettagli, per effetto dei compromessi negoziali da cui ne scaturisce il testo, i settori di competenza e le relative regole di funzionamento. Sul piano normativo il TUE e il TFUE hanno pur sempre uguale valore giuridico e costituiscono perciò, allo stato attuale, un complesso normativo unico, all’interno del quale sarebbe difficile subordinare l’interpretazione delle norme dell’uno a un principio di conformità con le norme dell’altro. È però indubbio che la ricordata tendenza a vedere nei trattati istitutivi un fenomeno costituzionale ha avuto e ha il merito di cogliere e ben sottolineare le peculiarità che ad ogni modo caratterizzano tali trattati in rapporto ai normali accordi internazionali. In ragione, della funzione che tali norme svolgono rispetto all’ordinamento cui hanno dato vita, ai fini della loro interpretazione le considerazioni di carattere sistematico hanno finito per prevalere nella maggior parte dei casi sul dato testuale. La corte ha specificato “ogni disposizione di diritto comunitario va ricollocata nel proprio contesto e interpretata alla luce dell’insieme delle disposizioni del suddetto diritto, delle sue finalità, nonché del suo stadio di evoluzione al momento in cui va data applicazione alla disposizione di cui trattasi”. È però vero che, a differenza di ciò che normalmente avviene nel diritto internazionale, gli stati non sono liberi circa il procedimento da seguire per arrivare a quelle modifiche. La corte di giustizia ha, infatti, affermato che “il trattato non può essere modificato se non mediante una revisione da effettuarsi ai sensi dell’articolo”. Ciò significa non solo che la corte possa essere chiamata a pronunciarsi sulla correttezza o meno del modo con cui sono stati utilizzati trattati nulla dicevano fino alla introduzione nel TUE, attraverso il trattato di Maastricht. L’idea centrale di questa giurisprudenza, sviluppatasi originariamente con riferimento al diritto della comunità europea, è stata appunto che “i diritti fondamentali costituiscono parte integrante dei principi generali del diritto, di cui garantisce l’osservanza; nel garantire la tutela di tali diritti essa è tenuta a ispirarsi alle tradizioni costituzionali comuni agli stati membri e non potrebbe, quindi, ammettere provvedimenti incompatibili con i diritti fondamentali riconosciuti e garantiti dalle costituzioni di tali stati; i trattati internazionali in materia di tutela dei diritti dell’uomo, cui gli stati membri hanno cooperato o aderito, possono del pari fornire elementi di cui occorre tenere conto nell’ambito del diritto comunitario”. L’esplicito richiamo ai diritti fondamentali quali garantiti dalla convenzione europea dei diritti dell’uomo, firmata a Roma il 4 Novembre 1950, e quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni ha confermato la natura formale di parametro di legittimità di tali diritti nel sistema dell’unione. Per certi versi, questo rispetto si impone non solo da parte degli atti di diritto derivato. Esso rappresenta anche un criterio ermeneutico al quale conformare l’interpretazione delle norme degli stessi trattati. La tutela dei diritti fondamentali rappresenta, infatti, secondo la giurisprudenza della corte, un legittimo interesse che può giustificare una limitazione degli obblighi imposti dal diritto dell’unione, anche quando derivanti da una libertà fondamentale garantita dai trattati. Salvo che nel caso di quei diritti fondamentali che per la loro assolutezza non tollerano restrizioni, questa limitazione di principio va ovviamente conciliata con le esigenze relative ai diritti tutelati dai trattati, rispetto ai quali l’esercizio dei diritti fondamentali deve essere conforme al principio di proporzionalità. Quanto invece al rispetto dei diritti fondamentali nell’applicazione dei trattati, la corte non si è limitata ad affermare l’obbligo di tale rispetto da parte degli atti delle istituzioni e a valutare conseguentemente la compatibilità di tali atti con i diritti fondamentali. Il limite che ne deriva da quell’obbligo si pone anche nei confronti dei comportamenti delle autorità nazionali quando queste agiscono in attuazione del diritto posto in essere dai trattati : poiché le “esigenze inerenti alla tutela dei diritti fondamentali nell’ordinamento giuridico comunitario vincolano parimenti gli stati membri quando essi danno esecuzione alle discipline comunitarie di cui trattasi, questi sono comunque tenuti, per quanto possibile, ad applicare tali discipline nel rispetto delle esigenze ricordate”. E allo stesso modo gli atti adottati nel quadro del TUE devono essere interpretati dal giudice nazionale in maniera tale che siano rispettati i diritti fondamentali e che sia accertato che l’applicazione delle misure prese sul piano nazionale nell’attuazione di tali atti non sia tale da determinare una violazione dei diritti fondamentali. La corte ha precisato che i diritti fondamentali non vanno intesi come “prerogative assolute e devono essere considerati in relazione alla funzione da essi svolta nella società. È pertanto possibile operare restrizioni all’esercizio di detti diritti, in particolare nell’ambito di un’organizzazione comune di mercato, purché dette restrizioni rispondano effettivamente a finalità di interesse generale perseguite e non si risolvano, considerato lo scopo perseguito, in un intervento sproporzionato ed inammissibile che pregiudicherebbe la stessa sostanza di tali diritti”. 5. La carta dei diritti fondamentali dell’unione europea e l’adesione alla convenzione europea dei diritti dell’uomo L’unione si è dotata di uno strumento autonomo di rilevazione di quei diritti, adottando nel 2000 una carta dei diritti fondamentali dell’unione europea. La carta fu proclamata congiuntamente da parlamento, consiglio e commissione il 7 Dicembre 2000 a margine del consiglio europeo di Nizza. Essa si presentava come uno strumento formalmente privo di valore vincolante, che ritraeva però un indubbio valore interpretativo dal fatto di essere comunque ricognitivo di diritti in buona parte già altrove consacrati in forma giuridica. Al suo interno si ritrovano tutti i diritti sanciti dalla CEDU, oltre che la sostanza dei diritti proclamati dalla carta sociale europea del 1961 e tutti quei diritti intorno ai quali risulta costruito, nei trattati, lo status di cittadino dell’unione. È fatta menzione di una serie di nuovi diritti, che si ricollegano ai primi all’interno di una strutturazione della carte anch’essa sicuramente innovativa : essa è suddivisa in sei capitoli, rispettivamente dedicati ai temi della dignità, della libertà, dell’uguaglianza, della solidarietà, della cittadinanza e della giustizia, in cui si mescolano diritti individuali classici, diritti collettivi e principi. La carta esprimeva in modo solenne una lettura di questi diritti condivisa dalle tre istituzioni politiche dell’unione. o Con il trattato di Lisbona la carta dei diritti fondamentali è venuta ora ad acquistare efficacia vincolante. Il nuovo testo dell’art. 6, par. 1, comma 1, TUE stabilisce che essa ha lo stesso valore giuridico dei trattati. Come recita l’art. 51, par. 1, della stessa carta dei diritti fondamentali, questi soggetti sono le istituzioni, organi e organismi dell’unione nel rispetto del principio di sussidiarietà come pure gli stati membri, seppur, questi ultimi, esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’unione. Suddetti soggetti ne rispettano i diritti, osservano i principi e ne promuovono l’applicazione secondo le rispettive competenze e nel rispetto dei limiti delle competenze conferite all’unione nei trattati. “i diritti fondamentali garantiti nell’ordinamento giuridico dell’unione si applicano in tutte le situazioni disciplinate dal diritto dell’unione, ma non al di fuori di esse. A tal proposito la corte ha già ricordato che essa, per quanto riguarda la carta, non può valutare una normativa nazionale che non si colloca nell’ambito del diritto dell’unione. Per contro, una volta che una siffatta normativa rientra nell’ambito di applicazione di tale diritto, la corte, adita in via pregiudiziale, deve fornire tutti gli elementi di interpretazione necessari per la valutazione, da parte del giudice nazionale della conformità di tale normativa con i diritti fondamentali di cui essa garantisce il rispetto”. Nel caso di conflitto tra disposizioni di diritto interno e diritti garantiti dalla carta, “il giudice nazionale incaricato di applicare, nell’ambito della propria competenza, le norme di diritto dell’unione ha l’obbligo di garantire la piena efficacia di tali norme”. Nel confermare l’inapplicabilità della carta ai casi in cui la normativa nazionale non è rivolta a dare attuazione al diritto dell’unione o rispetto a situazioni giuridiche puramente interne, la corte ha però sottolineato come anche in questi casi non venga meno la tutela dei diritti fondamentali dedotti in giudizio, ma cambia lo strumento su cui va parametrata quella tutela. o L’art. 6, par. 1, comma III, TUE e l’art. 52, par. 7, della carta prescrivono che, nell’interpretare e applicare le sue disposizioni, si debba tener conto delle spiegazioni che fin dall’inizio accompagnano senza valore ufficiale il testo di questa. Nel caso tuttavia dei diritti che trovano corrispondenza in diritti garantiti dalla CEDU o desunti dalle tradizioni costituzionali comuni agli stati membri, si deve ritenere, che il loro significato e la loro portata siano uguali a quelli propri di quei diritti corrispondenti e che quindi in armonia con essi vadano definiti. Ciò non preclude tuttavia che il diritto dell’unione conceda una protezione più estesa. L’art. 53 della carta contiene una clausola di salvaguardia del più elevato standard di protezione eventualmente riconosciuto, nel rispettivo ambito di applicazione, dal diritto dell’unione, dal diritto internazionale, dalle convenzioni internazionali delle quali l’unione o tutti gli stati membri sono parti, e in particolare della CEDU e dalle costruzioni degli stati membri. Quando un atto di diritto dell’unione richieda misure nazionali di attuazione, la previsione dell’art. 53 della carta consente sì alle autorità e ai giudici nazionali di applicare gli standard nazionali di tutela nazionali di tutela dei diritti fondamentali; tale applicazione non deve compromettere il livello di tutela previsto dalla carta. Limitazioni ai diritti e alle libertà riconosciuti dalla carta sono possibili purché le stesse siano previste dalla legge e non pregiudichino il contenuto essenziale di quei diritti e di quelle libertà. Devono rispondere a effettive finalità di interesse generale perseguite dall’unione o ad una reale esigenza di proteggere i diritti e le libertà altrui; e non devono risolversi, considerato lo scopo perseguito, in un intervento sproporzionato e inammissibile che pregiudicherebbe la stessa sostanza di tali diritti. La possibilità di ingerenze o restrizioni ai diritti fondamentali è condizionata al rispetto tanto del principio di legalità. L’art. 52, par. 1, della carta, sia formulato in termini generali e appaia pertanto destinato a trovate applicazione rispetto a tutti i diritti sanciti nella stessa carta, la corte ha evidenziato l’esistenza tra quei diritti di alcuni, come il diritto alla vita, il divieto di tortura o di trattamenti inumani e degradanti, che non tollerano alcuna restrizione. o Sulla base di un compromesso raggiunto che ha portato al trattato di Lisbona, un protocollo allegato ai trattati limita apparentemente l’applicabilità della carta a Regno Unito e Polonia. Esso stabilisce che tanto la corte di giustizia quanto i giudici di questi due paesi non possono giudicare della conformità di norme o pratiche degli stessi alle disposizioni della carta, e che tra tali disposizioni quelle relative ai diritti sociali non creano “diritti azionabili dinanzi a un organo giurisdizionale applicabili alla Polonia o il Regno Unito abbiano previsto tali diritti nel rispettivo diritto interno”. La portata effettivamente derogatoria del protocollo è stata perciò smentita dalla corte di giustizia, l’art. 6 TUE dispone che la carta deve essere applicata e interpretata dagli organi giurisdizionali della Polonia e del Regno Unito rigorosamente in conformità con le spiegazioni allegate alla stessa carta; e se ne deve ritenere che “il protocollo non rimette in questione l’applicabilità della carta al Regno Unito o alla Polonia”. Art. 51 della carta “non ha per oggetto di esonerare la Repubblica della Polonia e il Regno Unito dall’obbligo di rispettare le disposizioni della carta, né di impedire ad un giudice di uno di questi stati membri di vigilare sull’osservanza di tali disposizioni”. o L’art. 6 TUE ha previsto anche l’adesione dell’unione europea alla CEDU, colmando con l’attribuzione della competenza a farlo, una lacuna nei trattati che aveva impedito finora tale adesione, benché da tempo auspicata a livello politico e istituzionale. Con l’adesione la corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo potrebbe essere chiamata, sulla base di ricorsi individuali o di altre parti contraenti della CEDU, rafforzando così il controllo già esercitato dalla corte di giustizia e, quindi, il livello di protezione dei diritti dell’uomo nell’unione. Sebbene la CEDU già preveda la possibilità dell’unione europea di aderirvi, questo passo richiede la conclusione di un apposito accordo dell’unione con le parti già contraenti, che nel disporre l’adesione apporti alla stessa CEDU le modifiche necessarie a consentire la partecipazione ad essa di una parte che ha natura profondamente diversa da quella, statale, delle altre parti contraenti, sulla quale il sistema della CEDU è stato costruito. Il protocollo indica la necessità che nell’accordo di adesione siano definiti i meccanismi necessari a individuare il corretto destinatario, tra l’unione e gli stati membri, di un ricorso alla corte EDU, visto che questa potrà essere chiamata a pronunciarsi sulla conformità di norme dell’unione, sia quando essa derivi invece da un atto di uno stato membro posto in essere in attuazione di quelle norme. La preoccupazione è quella di evitare la decisione su chi sia responsabile tra questi e l’unione sia lasciata interamente alla corte EDU, perché ciò equivarrebbe a darle il potere di giudicare del riparto di competenze tra di loro, in contrasto con il monopolio dato al riguardo alla corte di giustizia dai trattati. La fondatezza di questa e di altre preoccupazioni ha trovato conferma nel parere negativo formulato dalla corte di giustizia. Secondo la corte tale progetto non riusciva a garantire la salvaguardia delle caratteristiche specifiche e dell’autonomia del diritto dell’unione, ivi compresa la carta dei diritti fondamentali che di tale diritto è parte integrante. 2. Il diritto internazionale. In particolare gli accordi internazionali dell’unione L’unione “contribuisce alla rigorosa osservanza e allo sviluppo del diritto internazionale, in particolare al rispetto dei principi della carta delle nazioni unite”, un’ulteriore fonte di norme per l’ordinamento dell’unione va indicata nel diritto internazionale e negli accordi internazionali che possono essere conclusi dall’unione con stati terzi o organizzazioni internazionali sulla base delle procedure stabilite dall’art. 218 TFUE. La corte di giustizia ha avuto occasione di affermare in via generale che “le norme del diritto consuetudinario internazionale vincolano le istituzioni e fanno parte dell’ordinamento giuridico” dell’unione condizionando l’interpretazione di atti delle istituzioni anche in senso limitativo. “non può negarsi a un amministrato la facoltà di mettere in discussione la validità di un regolamento” invocando “al fine di contestarne la validità, gli obblighi derivanti dalle norme del diritto consuetudinario internazionale”. Con riguardo specifico agli accordi internazionali dal momento in cui entrano in vigore sul piano internazionale gli accordi conclusi con paesi terzi diventano parte integrante dell’ordinamento. Conseguenza automatica di quell’entrata in vigore. Secondo l’art. 216, par. 2, TFUE, infatti, un accordo vincola “le istituzioni dell’unione e gli stati membri”, operando quindi nell’ordinamento dell’unione per il solo fatto di essere stato concluso alle condizioni indicate nei trattati. In relazione agli accordi conclusi sulla base dell’allora TCE, la corte ha sottolineato come ciò valga anche per le decisioni adottate da organi operanti nel quadro di un accordo, nel senso che esse esplicano effetti nell’ordinamento dell’unione dalla data della loro approvazione da parte dell’organo paritetico, senza che a questo scopo vi sia bisogno dell’emanazione di alcun atto da parte delle istituzioni europee. “dato il loro collegamento diretto con l’accordo di cui costituiscono l’attuazione, gli atti provenienti dagli organi istituiti con un accordo internazionale del genere e incaricati della sua attuazione fanno parte dell’ordinamento giuridico comunitario”. Il fatto che l’efficacia nell’ordinamento dell’unione europea dell’accordo internazionale non dipenda da un atto delle istituzioni non esclude che l’atto con cui il consiglio decide la conclusione dell’accordo possa contenere norme di attuazione specifica di singole disposizioni convenzionali. o Dal fatto che un accordo con un paese terzo diventi parte integrante dell’ordinamento dell’unione, vincolando le istituzioni e gli stati membri, non consegue necessariamente che le sue disposizioni possano essere invocate in giudizio da parte dei singoli; questa possibilità è stata invece condizionata dalla corte di giustizia alla rispondenza della disposizione invocata agli stessi requisiti che giustificano l’esplicazione di effetti diretti di norme dei trattati, o di direttive e decisioni : tale disposizione deve porre un obbligo chiaro e preciso, la cui esecuzione o i cui effetti non risultino subordinati all’adozione di alcun atto ulteriore. Necessità di esaminare alla luce sia dell’oggetto e dello scopo, sia del contesto dell’accordo di cui fanno parte. Nel caso dell’accordo generale sulle tariffe e il commercio GATT : la corte di giustizia ha costantemente escluso che norme di questo potessero esplicare effetti diretti nell’ordinamento dell’unione, sulla base della considerazione di ordine generale della grande flessibilità del GATT, in specie di quelle relative alla possibilità di deroghe, ai provvedimenti ammessi in caso di difficoltà eccezionali ed alla composizione delle controversie fra i contraenti. La corte ha ritenuto di confermare rispetto all’accordo istitutivo dell’organizzazione mondiale del commercio, che dal 1994 ha sostituito il GATT, ha affermato che “tenuto conto della loro natura e della loro economia, gli accordi OMC non figurano in linea di principio tra le normative alla luce delle quali la corte controlla la legittimità degli atti delle istituzioni, a meno che attraverso l’atto contestato l’unione non abbia inteso dare esecuzione ad un obbligo particolare assunto nell’ambito dell’OMC, ovvero esso rinvii espressamente a precise disposizioni degli accordi OMC”. L’oggetto e lo scopo di un accordo, così come il suo contesto, possono però anche portare ad affermare, rispetto ad una disposizione dello stesso che non contenga alcun obbligo chiaro e preciso idoneo a regolare direttamente la situazione giuridica dei cittadini, la necessità di interpretare, nei limiti del possibile, le norme interne in modo conforme alla disposizione convenzionale. o Gli accordi conclusi con paesi terzi o organizzazioni internazionali sono evidentemente subordinati ai trattati, dato che l’esercizio delle competenze internazionali dell’unione deve procedura rimane l’atto dell’unione e non certo l’ulteriore manifestazione di volontà degli stati rispetto a quella già espressa all’unanimità dai governi nell’adottare lo stesso in sede di consiglio. Il regolamento prevede delle procedure standard da richiamare nei singoli atti di base nel momento in cui gli stessi attribuiscono alla commissione quelle competenze. In ragione di ciò, pur essendo anch’esso un atto di diritto derivato, i principi e le norme da esso stabiliti devono essere rispettati al momento dell’adozione degli atti che conferiscono competenze di esecuzione alla commissione. Con la conseguenza che sarebbe da considerare illegittimo, per violazione di una regola di diritto relativa all’applicazione dei trattati. Art. 290 TFUE, in base al quale “un atto legislativo può delegare alla commissione il potere di adottare atti non legislativi di portata generale che integrano o modificano determinati elementi non essenziali dell’atto legislativo”. Ma che si tratti di una competenza normativa delegata o di una competenza di esecuzione, il suo esercizio troverà comunque un limite nell’atto delegante o nell’atto cui va data esecuzione. L’atto legislativo delegante deve delimitare esplicitamente gli obiettivi, il contenuto, la portata e la durata della delega di potere, e che gli elementi essenziali di un settore sono riservati all’atto legislativo. La corte di giustizia aveva osservato che la legittimità del conferimento di competenze di esecuzione è da ritenere subordinata alla condizione che i punti essenziali della disciplina la cui attuazione viene delegata siano precisati nell’atto di base, e quindi stabiliti in modo conforme al procedimento decisionale contemplato dai trattati per l’intervento delle istituzioni in quel determinato settore; la conseguenza che gli atti di attuazione successivamente emanati non potranno evidentemente derogare a quei punti essenziali o andare al di là degli obiettivi generali essenziali della normativa di base, e ciò tanto se la delega sia stata concessa alla commissione, quanto se il consiglio abbia invece riservato a se stesso, come pure può eccezionalmente avvenire, il compito di emanare quegli atti. Vi sono casi in cui gli stessi trattati configurano l’esistenza di un rapporto di quel tipo tra due atti, indipendentemente dal conferimento puntuale da parte del primo di una competenza a emanare il secondo in sua attuazione. L’idea dell’esistenza di un rapporto gerarchico tra atti delle istituzioni è stata prospettata, anche al di fuori di una relazione formalmente definita tra due atti, con riferimento alla portata generale o particolare degli stessi. Un atto particolare o individuale non potrebbe restringere o limitare gli effetti di un atto normativo di carattere generale, senza perturbare il sistema legislativo dell’unione e rompere l’uguaglianza dei privati dinanzi alla legge. 4. Il regime comune agli atti normativi tipici Gli atti normativi tipici dell’unione sono soggetti a un regime in linea di principio comune per quanto attiene a certi requisiti di forma e alla loro entrata in vigore. L’art. 296, comma II, TFUE pone un obbligo di motivazione. Questa va intesa come una formalità sostanziale, la cui omissione o insufficienza comporta l’invalidità dell’atto, in quanto suo scopo è quello di mettere in grado i destinatari di apprezzare le ragioni che hanno indotto le istituzioni ad agire e gli eventuali vizi che inficino la validità dell’atto, nonché di permettere alla corte di giustizia di esercitare il suo controllo di legalità. Il dispositivo di un atto è indissociabile dalla sua motivazione, perché questa è indispensabile a determinare la corretta interpretazione dello stesso dispositivo. La sufficienza della motivazione va valutata in rapporto alla natura dell’atto di cui si tratta, in quanto la necessità di motivare varia a seconda che si tratti di decisioni generali di carattere normativo o di decisioni cui manchi tale carattere, per le quali in linea di principio la motivazione deve essere più dettagliata; ma, ferma restando questa distinzione di massima, la corte ha ritenuto ugualmente determinanti nella valutazione del rispetto dell’obbligo di motivazione il contesto normativo e di fatto nel quale questo è adottato. “se è vero che una decisione della commissione, qualora rientri nell’ambito di una prassi costante in materia, può essere motivata sommariamente, in particolare con un richiamo a tale prassi, nell’ipotesi in cui essa vada notevolmente al di là delle decisioni precedenti, spetta alla commissione sviluppare esplicitamente l’iter logico seguito”. Non può invece considerarsi capace di integrare la motivazione di un atto un’eventuale dichiarazione adottata al momento dell’adozione dell’atto in questione, dato che la motivazione deve figurare nell’atto stesso; e ciò tanto più quando la dichiarazione provenga da una sola delle istituzioni da cui è emanato l’atto. Parte integrante della motivazione è l’indicazione della base giuridica dell’atto, la quale, soprattutto per gli atti di portata generale, contribuisce a fornire elementi essenziali per una migliore comprensione della portata e della validità dell’atto stesso. L’applicazione di un atto delle istituzioni è subordinata a una pubblicità preventiva che ne condiziona l’opponibilità ai soggetti dell’ordinamento. Il principio di certezza del diritto esige che una normativa consenta agli interessati di conoscere esattamente la portata degli obblighi che essa impone loro, dato che i soggetti dell’ordinamento devono poter conoscere senza ambiguità i propri diritti ed obblighi e regolarsi di conseguenza. E ciò può essere garantito esclusivamente dalla regolare pubblicazione della suddetta normativa nella lingua ufficiale del destinatario sulla gazzetta ufficiale dell’unione europea. La pubblicità degli atti è assicurata con modalità diverse a seconda del tipo di atto adottato dalle istituzioni. l’art. 297 TFUE impone la pubblicazione sulla gazzetta ufficiale nel caso degli atti legislativi, nonché dei regolamenti, delle direttive indirizzate a tutti gli stati membri e delle decisioni che non designano i propri destinatari; mentre per le altre direttive e per le decisioni che non rientrano in una delle categorie di cui l’articolo prevede che sia sufficiente la notifica ai loro destinatari. Se nulla di diverso è specificato nell’atto, questo entrerà in vigore, come stabilito dall’articolo, il ventesimo giorno dalla sua pubblicazione o dal momento dell’avvenuta notifica. 5. I regolamenti L’art. 288, comma II, TFUE “il regolamento ha portata generale, è obbligatorio in tutti i suoi elementi e direttamente applicabile in ciascuno degli stati membri”. Un atto che ha natura essenzialmente normativa. Attraverso il regolamento la normativa da queste adottata viene a sostituirsi integralmente, nel settore da essa regolato, alle norme nazionali; e dal momento in cui l’unione emana regolamenti in quel settore, “gli stati membri sono tenuti ad astenersi da qualsiasi provvedimento che deroghi a tali regolamenti o ne pregiudichi l’efficacia”. Il regolamento ha prima di tutto portata generale, nel senso che, tale atto si rivolge “non già ad un numero limitato di destinatari, indicati espressamente oppure facilmente individuabili, bensì a una o più categorie di destinatari determinate astrattamente e nel loro complesso”. Ciò non significa che non debba essere possibile determinare, con maggiore o minore precisione, il numero o addirittura l’identità dei destinatari ultimi dell’atto, purché, naturalmente, “la qualità di destinatario dipenda da una situazione obiettiva di diritto o di fatto, definita dall’atto in relazione con la sua finalità”. In caso contrario, ci si troverebbe di fronte a una pluralità di decisioni individuali sotto forma di regolamento. La portata generale dei regolamenti non sta nemmeno a significare che questo tipo di atto debba necessariamente applicarsi a tutto il territorio dell’unione. Il regolamento è poi obbligatorio in tutti i suoi elementi. Ciò comporta non solo che, com’è evidente, uno stato non può applicare in modo incompleto o selettivo un regolamento, ma anche che esso vi si deve conformare in maniera rigorosa, dato che questo tipo di atto non lascia ai suoi destinatari, a differenza di quanto si vedrà essere per le direttive, alcuna discrezionalità quanto al modo di applicare le sue norme. Affinché la disciplina da esso dettata possa concretamente operare, la stessa debba essere oggetto di integrazione mediante atti ulteriori. Ciò può essere esplicitamente previsto dallo stesso regolamento, prevedendo la successiva emanazione di una normativa specifica di dettaglio di un regolamento di base; ovvero stabilendo che gli stati membri debbano integrare la disciplina regolamentare con provvedimenti di loro competenza, quali quelli necessari a stabilire le misure sanzionatorie necessarie per assicurare l’applicazione effettiva di divieti sanciti dallo stesso regolamento. Ma anche là dove il regolamento nulla dica, potrebbe porsi la necessità di una tale integrazione; ed essa sarà comunque oggetto di un obbligo per gli stati membri, che l’art. 4, par. III, comma II, TUE impone loro di prendere “ogni misura di carattere generale o particolare atta ad assicurare l’esecuzione degli obblighi conseguenti gli atti delle istituzioni dell’unione”. L’ultima, ma certamente la principale caratteristica dei regolamenti è, infatti, la loro diretta applicabilità in ciascuno degli stati membri. Essa sta a significare che l’entrata in vigore e la sua applicazione nei confronti degli amministrati non abbisognano di alcun atto di ricezione del diritto interno. Quest’ultima eventualità è anzi addirittura incompatibile con il diritto dell’unione, dato che deve ritenersi in contrasto con i trattati ogni forma di attuazione che possa avere la conseguenza di ostacolare l’efficacia diretta dei regolamenti e di comprometterne quindi la simultanea ed uniforme applicazione nell’intera. L’applicabilità diretta dei regolamenti comporta che essi sono per loro stessa natura suscettibili di porre situazioni giuridiche soggettive in capo ai privati, tanto nei loro rapporti con altri privati, che nei rapporti con gli stati o le istituzioni dell’unione. Non possono essere messi in causa nemmeno dal fatto che per l’ordinamento dello stato sarebbe necessario un ulteriore intervento normativo per permettere il pieno operare della disciplina regolamentare. “i regolamenti entrano a far parte dell’ordinamento giuridico nazionale, il quale deve rendere possibile l’efficacia diretta, di guisa che i singoli possono farli valere senza vedersi opporre delle disposizioni o prassi di carattere nazionale”. 6. Le direttive La direttiva opera sulla base di una riserva di competenza a favore di questi ultimi, nel senso che essa implica la permanenza di normative nazionali e, sia pure nei limiti delle finalità da realizzare, una parziale varietà delle stesse. Secondo l’art. 288, comma III, TFUE, in effetti, questo strumento “vincola lo stato membro cui è rivolta per quanto riguarda il risultato da raggiungere, salva restando la competenza degli organi nazionali in merito alla forma e ai mezzi”; definizione che comporta che, per poter svolgere i suoi effetti all’interno dello stato, la direttiva abbisogna dell’intervento delle autorità nazionali alle quali spetta il compito di tradurre in norme interne le sue disposizioni. Non è raro che le direttive presentino un contenuto tanto dettagliato da far apparire molto esigui i margini di discrezionalità degli stati nella traduzione delle stesse in disposizioni del diritto nazionale. È però indubbio che la direttiva dovrebbe essere costruita in modo da dal luogo a una armonizzazione, più che all’identità delle legislazioni nazionali che ne conseguono, e la sua trasposizione nel diritto interno non dovrebbe necessariamente riguardare anche quelle tra le sue norme che riguardano unicamente i rapporti tra lo stato e le istituzioni dell’unione, quali quelle che pongono in capo al primo un obbligo di trasmettere rapporti alla commissione. L’attuazione delle direttive nell’ordinamento interno è quindi oggetto di un preciso obbligo che gli stati membri sono tenuti ad adempiere mediamente l’emanazione e la comunicazione alla commissione, entro il termine che ciascuna direttiva imperativamente stabilisce, di un atto di recepimento della stessa. La corte di giustizia ha precisato che l’attuazione di una direttiva nell’ordinamento nazionale non solo deve avvenire con le forme e i mezzi più idonei a garantire l’efficacia reale delle disposizioni della direttiva, ma deve anche corrispondere pienamente alle esigenze di chiarezza e di certezza delle situazioni giuridiche volute da tale atto. La corte ha indicato nell’emanazione da parte dell’autorità nazionale competente di un atto vincolante a carattere normativo equivalente a quello che sarebbe stato preso nel diritto interno per realizzare spontaneamente un obiettivo analogo a quello voluto dalla direttiva, la via può corretta per la trasposizione di questa nell’ordinamento degli stati membri. Le esigenze di chiarezza e di certezza sono state peraltro prospettate anche con riferimento all’eventualità che l’ordinamento nazionale sia già di per sé conforme a una determinata direttiva o comunque consenta il risultato da essa voluto. Una situazione del genere può far ritenere in linea di principio soddisfatto l’obbligo di attuazione gravante sullo stato, senza bisogno che quest’ultimo debba procedere all’emanazione di un provvedimento di trasposizione formale della direttiva. Essa ha subordinato la valutazione di superfluità di tale trasposizione alla condizione che le norme interne previgenti garantiscano effettivamente la piena applicazione della direttiva ad opera dell’amministrazione nazionale e che, qualora la direttiva miri ad attribuire dei diritti ai singoli, la situazione giuridica scaturente da detti principi sia sufficientemente precisa e chiara e che i destinatari siano posti in grado di conoscere la piena portata dei loro diritti ed eventualmente di avvalersene dinanzi ai giudici nazionali. La chiarezza e la precisione devono essere caratteristiche intrinseche della normativa nazionale in questione, e non possono essere surrogate dal fatto che esista una giurisprudenza nazionale consolidata che interpreti le disposizioni di diritto interno in senso conforme alle esigenze della direttiva dell’unione. Quando la direttiva imponga espressamente agli stati membri di adottare disposizioni le quali contengano un riferimento alla detta direttiva o che siano correlate da detto riferimento, una legislazione nazionale preesistente non può considerarsi sufficiente ad assicurare la piena trasposizione. o Il fatto che lo strumento della direttiva richieda comunque una mediazione del diritto interno per operare nell’ordinamento degli stati membri, non esclude che, anche indipendentemente da quella mediazione, norme di una direttiva possano esplicare effetti in tale ordinamento, in particolare aprendo ai privati la possibilità di far valere dinanzi ai giudici nazionali obblighi che le norme in questione pongano a carico dello stato. “nei casi in cui le autorità abbiano, mediante direttive, obbligato gli stati membri ad adottare un determinato comportamento, la portata dell’atto sarebbe ristretta se i singoli non potessero far valere in giudizio la sua efficacia e se i giudici nazionali non potessero prenderlo in considerazione come norma di diritto dell’unione”. La giurisprudenza della corte ha tuttavia costruito la possibilità che le direttive esplichino effetti diretti non come un’estensione alle stesse del carattere di immediata applicabilità che l’art. 288 TFUE riconosce espressamente ai soli regolamenti. La possibilità che si abbiano effetti diretti costituisce niente più che una garanzia minima a vantaggio degli individui, che non è alternativa al fatto che l’esecuzione delle direttive debba comunque essere assicurata dagli stati membri con l’adozione di misure di applicazione appropriate; per cui in tutti i casi in cui è correttamente attuata, produce effetti nei confronti dei singoli attraverso le disposizioni di esecuzione adottate dallo stato membro interessato. Solo quando quell’attuazione non vi sia stata o sia avvenuta in modo incompleto, il singolo deve potere avvalersi in giudizio dei diritti che la direttiva gli vuole riconosciuti, fondandoli direttamente sulle disposizioni di questa. In caso contrario lo stato membro finirebbe per giovarsi del proprio inadempimento all’obbligo di trasposizione della direttiva per non far fronte agli obblighi che questa gli pone verso il singolo. E quindi solo dalla cadenza del termine dato agli stati potrà esplicare effetti diretti nell’ordinamento nazionale. Prima di allora, l’unico obbligo che grava sugli stati è quello di astenersi dall’adottare disposizioni che possano gravemente compromettere la realizzazione del risultato che la direttiva prescrive. I singoli sono legittimati a invocare direttamente dinanzi ai giudici nazionali le disposizioni di una direttiva, al fine di garantirne la piena applicazione, non solo in caso di mancata o inesatta trasposizione della direttiva, ma anche nell’ipotesi che le misure nazionali di trasposizione non vengano applicate in modo tale da garantire il risultato al quale la direttiva è rivolta. Eventuali effetti diretti di una direttiva possono considerarsi propri di questa in quanto tale, ma solo di sue specifiche disposizioni, nella misura in cui le stesse presentino caratteristiche tali da potere essere concretamente applicate dal giudice dinanzi al quale siano invocate. Appare necessario esaminare caso per caso se la natura, lo spirito e la lettera della disposizione di cui trattasi consentano di riconoscerle efficacia immediata nei rapporti fra gli stati membri e i singoli. La disposizione invocata deve cioè avere un contenuto precettivo sufficientemente chiaro o preciso, e non condizionato o subordinato, per quanto riguarda la sua osservanza o i suoi effetti, all’emanazione di atti ulteriori da parte delle istituzioni dell’unione o degli stati membri. o Nel caso delle direttive la giurisprudenza della corte ha limitato la possibilità dei privati di far valere eventuali effetti diretti di norme di queste soltanto alle ipotesi che ciò avvenga nei eccezionali previste dalle norme pertinenti del trattato. Accordi interistituzionali, ai quali è oggi dedicato un apposito articolo del TFUE. Secondo l’art. 295 di detto trattato, il parlamento europeo, il consiglio e la commissione possono concludere, al fine di definire di comune accordo le modalità di una reciproca collaborazione in settori delle loro relazioni, accordi interistituzionali. Ad essa possono essere, infatti, ricondotti una serie variegata di atti frutto, talvolta sotto un’etichetta diversa da quella di accordo interistituzionale, non solo della volontà congiunta di due o più istituzioni in vista della disciplina di un certo aspetto delle loro relazioni, ma anche dell’esternazione di una comune posizione su una data questione di rilievo politico o su determinati principi generali. Gli accordi interistituzionali possono assumere carattere vincolante. Si tratta comunque di atti che non hanno evidentemente rilievo diretto per la posizione dei singoli, anche se, quando rivestono carattere vincolante, il loro mancato rispetto può essere causa dell’illegittimità di un atto dell’unione. L’eventuale carattere vincolante di un accordo interistituzionale sussisterà solo nei confronti delle istituzioni che lo hanno concluso. Gli accordi interistituzionali devono ovviamente rimanere nei limiti di quanto previsto dai trattati, nel senso che, soprattutto quando servono per disciplinare aspetti dei rapporti tra le istituzioni, essi possono sì integrare o specificare le disposizioni dei trattati, ma non modificarle, alterando l’equilibrio istituzionale da queste delineato. Capitolo IV “IL PROCESSO DECISIONALE” 4. Profili generali Il processo decisionale dell’unione cioè che porta all’adozione di uno degli atti previsti dai trattati, vede di regola la partecipazione di più istituzioni o organi. Non avviene ogni volta con le medesime modalità. Sia queste, che l’identità delle istituzioni o degli organi coinvolti dipendono, dal contenuto dell’atto da adottare, dato che è la base giuridica di questo che designa come e quali tra le istituzioni intervengono nell’elaborazione della relativa disciplina. Il consiglio ne rimane pur sempre il centro di gravità, nel senso che non vi è praticamente atto la cui emanazione non richieda l’intervento del consiglio, che sia in sede di adozione finale dell’atto, ovvero a titolo di approvazione previa di decisioni spettanti ad altre istituzioni. Tuttavia il potere decisionale dell’istituzione intergovernativa è di regola bilanciato dalla partecipazione alla presa di decisione, in forme e con intensità diverse, di istituzioni e organi espressivi di interessi differenti da quelli dei governi. Ciò fa si che le procedure attraverso cui si arriva all’adozione di un atto siano appunto particolarmente numerose. Anche a considerare solo quelle principali, quelle accomunate cioè dalla caratteristica di sfociare comunque in una decisione finale del consiglio, esse superano allo stato attuale la ventina. A questa vanno poi aggiunti una serie di altri procedimenti che si incentrano però sul potere decisionale di altre istituzioni. discorso a parte va fatto per le procedure decisionali sulle quali si basa l’attività delle istituzioni nel quadro dell’azione esterna dell’unione. 5. Le procedure normative dell’unione. Le procedure legislative La funzione normativa primaria dell’unione, quella cioè attraverso cui sono adottate le discipline di base nei vari settori di competenza di questa, si fonda naturalmente sui procedimenti che, sfociando in una decisione finale del consiglio, si sono definiti principali. Nella partecipazione, e con differenti modalità, dei diversi organi e istituzioni si riflette, infatti, l’equilibrio di ruoli che il trattato ha voluto di volta in volta individuare rispetto ad ogni decisione normativa importante dell’unione. Il principale punto di equilibrio che questi diversi procedimenti riflettono è comunque quello tra le tre istituzioni politiche, che intervengono in ogni caso in tali procedimenti : il consiglio, quale organo rappresentativo degli stati membri intesi come apparati di governo; il parlamento europeo, quale organo rappresentativo dei cittadini dell’unione; la commissione, quale organo rappresentativo dell’interesse generale di questa. È stato quello più difficile da costruire, in quanto esso finisce per rappresentare l’equilibrio tra interesse generale dell’unione e interessi particolari degli stati nella formazione degli atti normativi, e al tempo stesso per assicurare la trasposizione a livello dell’unione del principio democratico. L’assetto di partenza del processo decisionale dell’unione attribuiva al solo consiglio il potere decisionale, lasciando al parlamento europeo la semplice formulazione di un parere sulle proposte pensate dalla commissione. I successivi cambiamenti apportati a quel processo sono stati tutti all’insegna del riconoscimento di un diverso e più incisivo ruolo per il parlamento, in quanto organo attraverso cui, trova attuazione al livello dell’unione il fondamentale principio di democrazia secondo cui i popoli partecipano all’esercizio del potere per il tramite di un’assemblea rappresentativa. Il risultato è stato quello di un graduale passaggio di questo dall’iniziale ruolo consultivo a quello di vero e proprio legislatore, grazie all’introduzione, con il trattato di Maastricht, della procedura di codecisione. Con essa si compie il passo decisivo per il rovesciamento dell’impostazione originaria del processo decisionale dell’unione, visto che essa porta a una sostanziale equiparazione di ruoli tra parlamento europeo e consiglio all’interno del processo decisionale, grazie alla previsione che non si ha adozione dell’atto senza accordo tra le due istituzioni. La partecipazione a qualsiasi titolo del parlamento europeo accanto al consiglio nella procedura di adozione di un atto dell’unione fa, infatti, della relativa procedura, in linea di principio, una procedura legislativa e dell’atto che ne deriva un atto legislativo : la procedura di codecisione diventa la procedura legislativa ordinaria; mentre l’adozione di un atto da parte del parlamento europeo con la partecipazione del consiglio o da parte di quest’ultimo con la partecipazione del parlamento europeo costituisce una procedura legislativa speciale. La novità consiste essenzialmente nell’attribuzione a preesistenti procedure di una nuova caratterizzazione, quella di procedure legislative. Tutte le volte in cui è previsto il ricorso alla procedura legislativa ordinaria l’atto è adottato sulla base di questa sorta di nuova procedura di codecisione, diversamente avviene per la procedura legislativa speciale. Questa, infatti, non solo identifica più tipi di procedura decisionale, ma soprattutto questi non assumono tutti la caratterizzazione di procedura legislativa speciale. Il più delle volte l’adozione dell’atto spetta al consiglio e il parlamento europeo è chiamato o a dare la sua previa approvazione, ovvero a formulare un parere non vincolante sulla proposta di atto. In alcuni casi, invece, è previsto che l’atto sia adottato dal parlamento europeo, e qui l’intervento del consiglio riveste sempre la forma di una sua previa approvazione della delibera del parlamento. Un’ipotesi in cui benché l’atto sia adottato sulla base di un’azione congiunta del parlamento europeo e del consiglio assimilabile a quella che caratterizza la procedura legislativa ordinaria, si è in presenza di una procedura legislativa speciale, perché l’atto conclusivo della procedura che dà forza vincolante dell’oggetto della stessa è previsto che debba essere adottato dal solo parlamento. L’adozione di un atto dell’unione da parte del consiglio con la partecipazione del parlamento europeo, o l’adozione di quell’atto da parte del parlamento europeo con la partecipazione del consiglio, si caratterizza come una procedura legislativa speciale solo nel caso in cui lo stesso articolo dei trattati che prevede la competenza a farlo specifichi che l’adozione dell’atto avviene conformemente ad una procedura legislativa speciale. 6. La scelta della procedura applicabile L’applicabilità nel caso concreto dell’una o dell’altra procedura prevista dai trattati dipende dal contenuto dell’atto da adottare, dato che è la base giuridica di questo, in altri termini l’articolo dei trattati che fonda la competenza a regolare una certa materia, che designa con quale procedura decisionale ciò debba avvenire. Spetta a chi propone l’atto ovvero attraverso una modifica della proposta, all’istituzione che lo adotta, individuare la base giuridica e quindi la procedura da seguire. Scelta non è libera, non può dipendere da una valutazione soggettiva delle istituzioni circa il fine perseguito. Secondo la corte di giustizia, la scelta deve essere operata sulla base di criteri oggettivi, suscettibili di sindacato giurisdizionale; e tra questi elementi figurano, in particolare, lo scopo e il contenuto dell’atto. Quando a un atto siano applicabili più basi giuridiche che prevedano a loro volta differenti procedure per la sua adozione, può porsi l’interrogativo se si debba scegliere tra una di queste o se, invece, l’atto possa richiamarsi a tutte le basi giuridiche astrattamente applicabili. Secondo la corte anche quando un atto persegue più di una finalità o ha più di una componente, esso deve essere fondato unicamente sulla base giuridica richiesta dalla finalità o componente che, caratterizzando in via prevalente non tanto un numero maggiore di disposizioni quando l’atto nel suo complesso, appaia principale o preponderante rispetto alle altre. La corte non ha tuttavia escluso del tutto l’ipotesi che si possano cumulare più basi giuridiche : essa ha ammesso tale evenienza, seppur in via eccezionale, ove si tratti di un atto che persegue contemporaneamente più scopi o che ha più componenti tra loro inscindibili, senza che l’uno sia accessorio all’altro o senza che l’uno di essi assuma importanza secondaria e indiretta rispetto all’altro. Quando le procedure previste relativamente all’uno o all’altro fondamento normativo siano incompatibili, perché la loro applicazione combinata determina un’alterazione della posizione delle istituzioni coinvolte nel processo decisionale, non si potrà comunque fondare l’atto su quelle basi giuridiche anche laddove l’atto persegua finalità o presenti componenti ad esse inscindibilmente riconducibili; se l’applicazione congiunta di più basi giuridiche non produce quell’alterazione della posizione rispettiva delle istituzioni, il vizio dell’atto sarà da ritenere comunque solo formale e quindi non suscettibile di determinare di per sé l’illegittimità dello stesso. Laddove comunque tra le basi giuridiche astrattamente utilizzabili per l’adozione di un atto dell’unione ve ne sia una che riguarda l’esercizio di una competenza riconducibile alla PESC, il cumulo pare difficilmente immaginabile. La specificità della PESC trova pur sempre salvaguardia nei nuovi trattati attraverso il divieto, posto dall’art. 40 TUE, di reciproche invasioni di campo tra le disposizioni che regolano questa competenza dell’unione e quelle relative a tutte le altre competenze : l’azione delle istituzioni ai sensi degli altri settori dei trattati deve lasciare impregiudicata l’applicazione delle procedure e la rispettiva portata delle attribuzioni previste per l’esercizio delle competenze dell’unione. La corte è arrivata di recente a escludere la cumulabilità di due basi giuridiche, che pure hanno oggetto analogo nell’adozione di misure restrittive individuali, l’una a fini di lotta al terrorismo e l’altra nel quadro della PESC, anche sulla base della considerazione che l’implicazione più blanda del PE nella procedura decisionale dell’art. 215 TFUE rispetto a quella dell’art. 75 TFUE è frutto della scelta, operata dagli autori del trattato di Lisbona, di conferire un ruolo più limitato al parlamento riguardo all’azione dell’unione nel contesto della PESC. 7. Il potere d’iniziativa. In particolare, il potere di proposta della commissione Ai fini dell’attività normativa dell’UE, il potere d’iniziativa spetta di regola alla Commissione, tranne che nel settore della PESC,dove, l’Alto Rappresentante per la politica estera e la sicurezza è subentrato interamente alla Commissione in questa funzione. Il potere di iniziativa di cui la Commissione è titolare non è comunque esclusivo. Pur sottolineando che un “atto legislativo dell’Unione può essere adottato solo su proposta della Commissione”, esso precisa che ciò avviene “salvo che i Trattati non dispongano diversamente”. Per queste ragioni, in relazione agli atti legislativi, il potere di iniziativa della Commissione appare connaturato alla procedura legislativa (ordinaria o speciale) che porta alla loro adozione e spetterà alla Commissione presentarla. Vi sono sì altri soggetti o istituzioni da cui può ugualmente venire un’iniziativa legislativa (su iniziativa di un gruppo di Stati o dal Parlamento europeo, su raccomandazione della Banca centrale europea o su richiesta della Corte di Giustizia o dalla Banca europea degli investimenti) ma questa possibilità dipenderà poi concretamente dalla specifica designazione di uno di questi come titolare del potere di iniziativa legislativa all’interno dell’articolo dei Trattati che fornirà la base giuridica all’atto da adottare. Nel caso degli atti non legislativi, l’autore della proposta, quand’anche fosse la Commissione, deve essere puntualmente indicato nella base giuridica dell’atto. In un caso come nell’altro, le ipotesi in cui il potere è attribuito a istituzioni o soggetti diversi dalla Commissione sono rari, e non superano la decina; sono ipotesi limitate a specifici atti, con la sola eccezione della previsione del potere di iniziativa riconosciuto ad un quarto degli Stati membri in relazione ad atti concernenti la cooperazione giudiziaria in materia penale, la cooperazione di polizia e la cooperazione amministrativa nel settore dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia; senza escludere che esso possa essere esercitato anche dalla Commissione, essa deve comunque intervenire ad altro titolo nella procedura di adozione dell’atto. È ad esempio previsto che il PE possa chiedere alla Commissione di presentare una proposta; e analoga possibilità è data al Consiglio. In questi casi la Commissione non è tenuta a presentare la proposta, ma solo a fornire all’autore della richiesta le motivazioni della sua eventuale decisione di non accoglierla. Nella pratica, quando il Consiglio o il Parlamento europeo le chiedono di presentare una proposta, la Commissione in linea di principio dà comunque seguito alla richiesta. Importante novità introdotta dal Trattato di Lisbona è che la Commissione può essere sollecitata anche da un gruppo di cittadini dell’Unione (almeno un milione) rappresentativi di numero significativo di Stati membri; perché questa sorta di iniziativa popolare diventi una possibilità concreta, si dovrà attendere un regolamento, da adottare con procedura legislativa ordinaria, il quale dovrà stabilire le procedure e le condizioni per la presentazione di una iniziativa. Va poi ricordato che, oltre ad essere condizione dell’avvio del procedimento, la proposta della Commissione non può essere modificata dal Consiglio se non all’unanimità; ed anche in questo caso la sua modificabilità non è illimitata, dato che gli eventuali emendamenti devono comunque mantenere l’atto da adottare nell’ambito definito dalla proposta iniziale della Commissione. La proposta può essere invece modificata dalla stessa Commissione fino a che l’atto non viene adottato, consente così alla Commissione di assumere un ruolo negoziale, soprattutto laddove il Consiglio potrebbe votare a maggioranza qualificata: con modifiche successive della proposta, infatti, la Commissione può aiutare il formarsi di una maggioranza sul testo definitivo all’interno del Consiglio. Il ruolo della proposta si spinge peraltro fino al potere di bloccare del tutto il procedimento legislativo mediante il ritiro della proposta, in caso di disaccordo grave con il Consiglio. Non si dimentichi che infatti è responsabilità della Commissione promuovere l’interesse generale dell’Unione e questo giustificherebbe la sua facoltà a ritirare le proposte legislative a garanzia dell’interesse stesso. 8. Le singole procedure : la procedura di consultazione È stata per lungo tempo a procedura decisionale del sistema di integrazione europea; l’adozione di un atto del Consiglio sulla base di una mera consultazione del Parlamento europeo (la c.d. procedura di consultazione), continua oggi ad operare, rappresentando, con un ambito di applicazione ridotto, la procedura più diffusa dopo la procedura legislativa ordinaria. Essa è ascritta dai Trattati alla categoria delle procedure legislativa speciali. Il suo schema può essere così spiegato. Una volta che la Commissione abbia presentato una proposta, spetta al Consiglio adottare l’atto, dopo avere però chiesto il parere del Parlamento europeo (ed eventualmente di altri organi) su quella proposta. Il parere che il Parlamento è chiamato a formulare al Consiglio è obbligatorio, ma, salvo casi particolari non vincolante. In altri termini, il Consiglio può discostarsene nell’adottare l’atto ma è obbligatorio a richiederlo, a pena dell’invalidità dell’atto stesso per violazione delle forme sostanziali. Quell’obbligo non si esaurisce anzi con la richiesta del parere, perché, come ha affermato la Corte, il Consiglio è tenuto ad attendere la pronuncia da parte del Parlamento prima di deliberare : il parere rappresenta, infatti, “uno strumento che consente al Parlamento l’effettiva partecipazione al processo legislativo” dell’Unione. Non è stabilito alcun termine preciso entro il quale il Parlamento debba dare il suo parere. Ciò non significa che però il Parlamento potrebbe, astenendosi dal formulare il parere, impedire l’adozione di un atto a lui non gradito: ancora la Corte ha osservato che, laddove l’inerzia del Parlamento concretizzi una violazione del principio di leale collaborazione tra le istituzioni, il Consiglio può adottare l’atto senza attendere il parere. L’obbligo di attesa del Consiglio non significa però che questo non possa cominciare l’esame della proposta della Commissione prima che il Parlamento si sia pronunciato. Di regola, infatti, è prassi che, in attesa della pronuncia del Parlamento, il Consiglio formalizzi provvisoriamente in atti atipici quali La decisione al riguardo dovrà essere in ogni caso presa dall’istituzione o dalle istituzioni cui spetta adottare l’atto che attribuirà alla Commissione quel compito. Va detto che tuttavia appare difficile differenziare le due casistiche e di fatti manca una netta linea di demarcazione tra le due ipotesi. È quindi la stessa Corte a fornirci un’indicazione rilevando che, mentre l’esercizio di un’attività normativa implica inevitabilmente un certo livello di discrezionalità politica, nel caso dell’esecuzione la discrezionalità della Commissione non può che rimanere confinata nella mera definizione tecnica di scelte “politiche” operate nell’atto da eseguire. 12.La procedura di delega legislativa Come appena detto, l’art. 290 TFUE permette al legislatore dell’Unione (Consiglio o Parlamento europeo), al momento di adottare un atto legislativo, di delegare con quello stesso atto alla Commissione il potere di adottare a sua volta degli atti non legislativi di portata generale che completino o modifichino elementi non essenziali di quell’atto legislativo. Rispetto a questo, definito comunamente “atto di base” , l’atto della Commissione sarà un atto delegato. L’art 290 stabilisce d’aggiunta che l’atto di base dovrà delimitare esplicitamente gli obiettivi, il contenuto, la portata e la durata della delega. Esso inoltre indica alcune condizioni cui può essere soggetta l’attribuzione della stessa In particolare è previsto che l’atto legislativo possa stabilire che il Parlamento europeo o il Consiglio possano decidere di revocare la delega, ovvero che l’atto delegato possa entrare in vigore solo se entro un certo termine. A questi fini, il Parlamento ed il Consiglio deliberano a maggioranza dei propri membri, l’uno, a maggioranza qualificata, l’altro. La definizione dei meccanismi di controllo è affidata al negoziato tra le due istituzioni che porta all’adozione dell’atto, il quale dovrà anche stabilire a quale dei due meccanismi ricorrere nel caso concreto o se applicarli entrambi, visto che la loro funzione on esclude questa possibilità, operando l’uno sul singolo atto delegato (l’obiezione) e l’altro sul perdurare della delega in capo alla Commissione (la revoca). La Convenzione poi stabilisce in particolare il potere di obiezione che il legislatore può riservarsi sugli atti delegati adottati dalla Commissione. Esso dispone che questo dovrebbe essere esercitabile in linea generale entro due mesi dalla notifica dell’atto delegato a Parlamento e Consiglio. Anche se la Convenzione consente al che la Commissione, pur nel silenzio dell’art. 290 TFUE, a fronte di ragioni d’urgenza legate alla protezione della salute o a crisi umanitarie, possa eccezionalmente adottare l’atto delegato immediatamente salvo revocarlo a seguita di una successiva obiezione del Parlamento o del Consiglio. Va concluso il discorso rilevando che l’art 290 non esprime alcuna differenza nel funzionamento di questi meccanismi ricollegabile al tipo di atto legislativo che conferisce la delega alla Commissione. Esso in particolare non distingue se l’atto legislativo è stato adottato sulla base di una procedura legislativa ordinaria e di quella speciale. Per questo i meccanismi di controllo devono poter essere attivati da ciascuna delle due istituzioni protagonista della procedura legislativa, indipendentemente dal ruolo che ciascuna di loro ha avuto nella procedura. È però evidente che l’articolo va interpretato nel senso che questi meccanismi debbano adattarsi al tipo di procedura legislativa applicabile, diventando utilizzabili solo dall’istituzione che ha adottato l’atto legislativo di base. 13.La procedura di adozione di atti di esecuzione L’art 291 TFUE disciplina l’attribuzione della competenza a prendere a livello dell’Unione misure “uniformi” di esecuzione di atti giuridicamente vincolanti, adottati o meno dalle istituzioni sulla base di una procedura legislativa. La competenza di esecuzione spetta alla Commissione, con la sola eccezione della PESC dove quella competenza è del Consiglio per espressa previsione dell’art 291. Altri settori affidano il compito di prendere misure esecutive di un atto, eccezionalmente, al Consiglio. Costituendo una deroga alla competenza generale di esecuzione riconosciuta dai Trattati alla Commissione, questa decisione deve essere però motivata “in modo circostanziato”. La competenza della Commissione a dare esecuzione a disposizioni di un determinato atto giuridicamente vincolante dell’Unione è in realtà disposta in astratto nello stesso art. 291 TFUE ma il suo esercizio nel caso concreto richiede di essere attivato da un atto del Consiglio o del Consiglio e del Parlamento. L’attribuzione di una competenza di esecuzione è fatta dallo stesso atto della cui esecuzione si tratta, al quale spetta anche definire le modalità che la Commissione (o il Consiglio) deve seguire nell’esercitare la competenza attribuitale. A differenza per quanto si è detto per gli atti delegati, un regolamento a adottare secondo la procedura legislativa ordinaria deve preventivamente fissare le regole ed i principi relativi alle modalità con cui gli Stati membri possono esercitare un controllo sull’operato della Commissione. In passato si affidava al Consiglio il compito di fissare anche in quel caso in un apposito atto i principi e le norme su cui avrebbero dovuto essere basate le modalità di esercizio della competenza di esecuzione della Commissione. Su questa base, nel 1999 era stata adottata una decisione del Consiglio comunamente noto come decisione “comitologia” la quale prevedeva che l’emanazione di misure esecutive da parte della Commissione poteva essere subordinata alla consultazione di un comitato composto da rappresentanti degli Stati membri e delineava anche i differenti tipi e procedure di comitato che l’atto di base avrebbe potuto decidere di applicare a questo fine nel caso concreto. Il nuovo regolamento (UE) del febbraio del 2011, riserva al Parlamento europeo e al Consiglio unicamente la possibilità di eccepire in qualsiasi momento “eccesso di delega” da parte di un progetto di atto di esecuzione che la Commissione si accinga ad adottare. Quest’ultima ha il solo obbligo, in tal caso, di riesaminare il progetto e di informare le due istituzioni se intende modificarlo, ritirarlo o mantenerlo. Il controllo degli Stati membri sull’esercizio da parte della Commissione delle sue competenze di esecuzione rimane sostanzialmente imperniato, in base al reg. 182/2011, sul meccanismo delle procedure di comitato che caratterizzavano la precedente disciplina di comitologia ma, ai sensi del regolamento, un atto di base che preveda la necessità di condizioni uniformi di esecuzione di alcune sue disposizioni può decidere che la Commissione debba adottare i conseguenti atti applicando una delle due procedure di comitato previste dal regolamento. La prima di queste è la c.d. “procedura consultiva” ai sensi della quale la Commissione è unicamente obbligata a sottoporre il progetto di misura esecutiva all’esame di un comitato e di tenere poi in massima considerazione le opinioni emerse nel quadro di quell’esame o l’eventuale parere espresso a maggioranza semplice dal comitato. L’altra procedura, denominata “procedura d’esame”, riconosce una maggiore incisività all’intervento del comitato in quanto esso è chiamato a pronunciare con un voto a maggioranza qualificata un parere che solo se è positivo consente l’immediata adozione dell’atto di esecuzione da parte della Commissione. Laddove esso sia negativo, tale atto non può essere adottato mentre se il comitato non riesce a formulare alcun parere, la Commissione può adottarlo solo a condizione che esso non riguardi alcune materie sensibili come fiscalità, servizi finanziari, protezione alla salute e alla sicurezza umana. PARTE SECONDA – LA TUTELA DEI DIRITTI Sezione 1 “la tutela giudiziaria nell’ambito dell’unione” – capitolo 1 “considerazioni generali” 14.Premessa II principio di legalità e stato formalizzato in un testo di Trattato ed addirittura figura tra i principi fondamentali dell'Unione europea; così come sono formalmente affermati i principi di democrazia e del rispetto dei diritti fondamentali, quali principi qualificanti dell'Unione e condizionanti l'appartenenza degli Stati membri ad essa. Significativa è stata anche la proclamazione nel 2000 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea che proclama esplicitamente il “diritto ad un ricorso effettivo e a un giudice imparziale”. Nel complesso la situazione non può ancora dirsi completamente appagante, soprattutto per la posizione delle persone fisiche e giuridiche; ad esempio, per quanto attiene al rispetto dei principi di trasparenza, garanzie procedimentali, tutela dei diritti della difesa nelle procedure amministrative. Esse persistono, per quanto attiene all'ampiezza delle vie di ricorso di quei soggetti, a causa delle restrizioni imposte dai testi alia ricevibilità dei ricorsi per l'annullamento degli atti di portata generale delle istituzioni ed a quella delle azioni per i danni provocati da quegli atti a titolo di responsabilità dell'Unione. Da questo punto di vista l'Unione non è parsa con se stessa altrettanto severa come è sempre stata verso gli Stati membri nel pretendere il massimo di protezione per le situazioni giuridiche fondate sul diritto dell'Unione. 15.Cenni alla tutela non giudiziaria. In particolare, il mediatore europeo Gli strumenti di tutela non si esauriscono nelle vie giudiziarie ma ve ne sono anche di azionabili in altro modo. Anzitutto va segnalata la possibilità offerta ai cittadini dell’Unione di rivolgere petizioni al Parlamento europeo e, per questa via, anche di provocare l’istituzione di una commissione parlamentare d’inchiesta. Tale possibilità è contemplata dall’art 226 TFUE, che ai sensi del quale la Commissione di inchiesta può entro certi limiti esaminare “le denunce di infrazione o di cattiva amministrazione nell’applicazione del diritto dell’Unione” da parte delle istituzioni e degli Stati membri. Fini analoghi ha il ricorso al “Mediatore”, istituito dall’oggi art 228 TFUE, che è competente ad esaminare denunce del tipo indicato, ma solo se indirizzate nei confronti delle istituzioni dell’Unione; egli riceve le denunce (ma può agire anche di ufficio) provenienti da qualunque soggetto abbia sede in uno Stato membro e riguardanti casi di cattiva amministrazione non solo delle istituzioni, ma di qualsiasi organo comunitario, ad eccezione di quelli giurisdizionali, e purché esse non riguardino casi che formino o abbiano formato oggetto di procedure giudiziarie. Si tratta dunque di un organo le cui funzioni mirano essenzialmente ad accertare da un lato casi di cattiva amministrazione all’interno dell’Unione e dall’altro ad assicurare ai soggetti interessati una qualche forma di tutela ove non ricorrano le condizioni per attivare i più efficaci strumenti giurisdizionali. Successivamente, egli può inviare al Parlamento europeo e all’istituzione interessata una relazione corredata di raccomandazioni, cui però né l’una né l’altra sono tenuti a dar seguito. Non disponendo di poteri vincolanti, il Mediatore ha incontrato difficoltà nella determinazione dell’ambito di applicazione oggettivo del suo potere di indagine, dato che i testi parlano genericamente di casi di “cattiva amministrazione”. Oggi il Mediatore può contare invece su un punto di riferimento oggettivo nel c.d. “Codice europeo di buona condotta amministrativa” applicabile a tutte le amministrazioni e a tutti i funzionari agenti dell’Unione che il Parlamento ha approvato nel 2001 nell’intento di dare concretezza a questi principi. Va infine segnalata, tra gli strumenti non giurisdizionali, anche la possibilità per i privati di indirizzare un reclamo alla Commissione europea per denunciare le violazioni del diritto dell’Unione commesse da autorità nazionali. Ciò al fine di indurre quella stessa istituzione ad una procedura di infrazione prevista dagli stessi Trattati che può sfociare in un’azione davanti alla Corte perché accerti l’inadempienza. 16.La tutela giudiziaria. L’istituzione di un organo giudiziario ad hoc. La corte di giustizia. In generale Quelli appena indicati non sono comunque strumenti di tutela particolarmente incisivi. Lo sono molto di più quelli di carattere giurisdizionale, che fanno leva sull’apparato giudiziario di cui l’Unione si è dotata. Fin dalle origini si è istituito un autonomo apparato in grado di assicurare l’esercizio della funzione giurisdizionale, e di farlo nelle forme e con la pienezza dei poteri tipici nei confronti delle stesse istituzioni comunitarie e degli Stati membri quanto dei singoli cittadini. Per la prima volta in un ente internazionale, è stato assicurato l’esercizio della funzione giurisdizionale da parte di un organo ad hoc, che afferma la propria competenza obbligatoria sulle questioni rilevanti per la vita dell’ente medesimo e che presenta le caratteristiche di struttura e di funzionamento di un vero proprio organo giurisdizionale. Sono gli stessi Trattati, del resto, a stabilire che “la Corte di giustizia assicura il rispetto del diritto nell’interpretazione e nell’applicazione” delle loro norme rispettive, rivelano come a tale istituzione si sia inteso assegnare un compito che attiene manifestamente alle finalità proprie della funzione giurisdizionale. Sono d’aggiunta presenti nell’ambito dell’Unione tutte le condizioni volte a rendere addirittura necessaria una simile funzione e la stabile presenza di un organo deputato a esercitarla. In particolare l’inevitabile nesso che, per le esigenze di integrazione perseguite dai Trattati europei, lega l’attività delle istituzioni dell’Unione e quella degli Stati membri nei loro rapporti reciproci, ha fatto sì che alla Corte fosse affidato il controllo del rispetto da parte di quegli Stati degli obblighi ad essi incombenti, ma anche in senso inverso, nei confronti cioè delle istituzioni, come garanzia per gli stessi Stati membri in relazione al corretto esercizio dei poteri loro attribuiti. Infine, poiché l’attività dell’Unione può spesso incidere sulle situazioni giuridiche degli individui, la Corte si imponeva di garantire la tutela giurisdizionale di quei soggetti. Occorreva dunque creare un giudice che operasse esclusivamente per l’Unione assicurando l’unicità della funzione giurisdizionale in seno alle stesse. 17.Il ruolo svolto dalla corte. Il rafforzamento del sistema e della sua garanzia. La tutela dei diritti fondamentali Essa ha svolto un ruolo fondamentale per lo sviluppo dell’integrazione europea, incidendo in modo profondo e qualificante, facendo del diritto un fattore decisivo ed anzi ‘costitutivo’ della costruzione europea; svolgendo un ruolo non puramente giurisdizionale, ma di carattere strutturale, in quanto ha influito sullo stesso modo di essere dell’ordinamento dell’Unione. È stata appunto la Corte a rilevare i principi qualificanti. Il suo lavoro sulle disposizioni dei Trattati, interpretate e collegate organicamente e funzionalmente ha valorizzato tali disposizioni, elevandole al livello di principi di struttura o materiali in un quadro di insieme che ha permesso alla stessa Corte di definire il Trattato come la “carta costituzionale di una Comunità di diritto”. Una carta improntata sui principi di democrazia, legalità e uguaglianza. Alla nozione di ‘Unione di diritto’ la Corte ha dato sostanza imponendo rigorosamente a istituzioni e Stati membri l’osservanza delle regole comuni, ma anche precisando e rafforzando la portata di queste ultime in funzione del processo. Lo ha fatto per la salvaguardia del riparto di competenze interne all’Unione, e quindi per il rispetto degli equilibri interistituzionali, che ha permesso a ciascuna istituzione di far salve le proprie prerogative, di recuperare ruolo e responsabilità più conformi alla missione generale ad esse conferite dai Trattati. Lo ha fatto ancora, con riguardo all’affermazione di alcuni principi qualificanti della costruzione europea che hanno permesso a quest’ultima di diventare quel sistema assolutamente originale che oggi conosciamo. Lo ha fatto per quanto riguarda la tutela dei diritti fondamentali al livello di principi generali dell’ordinamento giuridico dell’Unione. Lo ha fatto anche con riguardo alla tutela delle istituzioni giuridiche individuali fondate sul diritto comunitario, ed in particolare a quelle dei diritti dei cittadini dell’Unione, il cui specifico status ha ricevuto più contenuti e sostanza di prima. Detta tutela è stata garantita nei confronti delle istituzioni dell’Unione attraverso il riconoscimento del diritto dei privati di ricorrere contro ogni atto produttivo di effetti giuridici nei loro confronti. Ma essa è stata garantita ai privati anche nei confronti degli Stati membri e perfino nei confronti del loro Stato nazionale con la conseguenza che a tali soggetti è stato reso possibile invocare i diritti fondati su quelle norme anche direttamente nei giudizi interni. In definitiva, grazie alla sua autorità di interprete supremo del diritto dell’Unione e di garante del rispetto di tale diritto e della sua applicazione negli Stati membri, la Corte ha potuto fin dall’inizio esercitare un ruolo determinante non solo per assicurare lo sviluppo complessivo del sistema comunitario ma anche per conformare tale sistema in coerenza con le finalità perseguite dalla Comunità prima e dall’Unione dopo. Capitolo II – “organizzazione e funzionamento della corte di giustizia dell’unione europea” 18.Origini e sviluppi La storia della Corte di giustizia dell’UE si lega strettamente a quella del processo di integrazione europea. La prima previsione di un organo giurisdizionale risale all’ormai estinto Trattato istitutivo della CECA. I successivi Trattati di Roma (TCEE ed Euratom) ugualmente contemplavano la creazione di una Corte di giustizia ma in realtà le due nuove Corti non vennero mai ad esistenza. aperta, solo qualora la Corte non si ritenga sufficientemente edotta sulla base delle memorie scritte. In una successiva udienza vengono presentate le conclusioni dell’ AG la cui lettura segna la conclusione della fase orale e il passaggio alla deliberazione della causa. b) Regole procedurali specifiche sono poi previste, come anticipato, per il rinvio pregiudiziale. L’atto introduttivo di questo procedimento è costituito dalla domanda del giudice nazionale, che deve rispondere a precisi requisiti di chiarezza e completezza di informazioni, pena la sua irricevibilità. La domanda di rinvio è notificata a tutti i soggetti legittimati a depositare entro due mesi le proprie osservazioni: e cioè le parti del giudizio, gli Stati membri, la Commissione (che interviene di regola in tutti i procedimenti) nonché, quando sono in causa atti da esse adottati, le altre istituzioni. Ma i passaggi della procedura possono essere ridotti in alcuni casi. La Corte può anzitutto accordare in via eccezionale un procedimento accelerato che comporta una rilevante contrazione dei tempi processuali. Ma soprattutto va segnalata la c.d. “procedura pregiudiziale di urgenza” istituita per i rinvii nel settore c.d. dello Spazio di libertà, sicurezza e giustizia (SLSG). c) Nei procedimenti aventi ad oggetto ricorsi diretti l’atto introduttivo è il ricorso depositato dal ricorrente presso la cancelleria della Corte entro i termini prefissati per i vari casi dai testi. Il ricorso è notificato a cura della cancelleria del convenuto il quale ha due mesi di tempo per presentare un controricorso cui l’attore può essere autorizzato a rispondere con una replica. In questa fase è consentito a terzi di intervenire. Gli Stati membri e le istituzioni hanno il diritto di intervenire in tutte le cause ; gli organi e organismi dell’UE possono farlo invece solo se mostrano di avere interesse alla soluzione della controversia; i soggetti privati sono soggetti alla medesima limitazione e non possono intervenire nelle cause instaurate fra Stati membri o tra istituzioni o tra gli uni e le altre. d) Conclusa la fase orale e udite, se del caso, le conclusione dell’AG, la causa passa in camera di consiglio per decisione salvo che non vi sia stata una transazione o una rinuncia agli atti. La decisione finale assume la forma della sentenza ovvero dell’ordinanza. La sentenze della Corte hanno forza obbligatoria dal giorno della pronuncia; se comportano un obbligo pecuniario esse possono anche costituire titolo esecutivo. Le sentenza dispongono anche sulle spese processuali normalmente a carico della parte soccombente ma in taluni casi è possibile ammettere il gratuito patrocinio. Essendo rese da un organo giurisdizionale di ultima istanza, le sentenze della Corte non sono soggette ad impugnazione se non con mezzi straordinari (opposizione in caso di sentenza adottata in contumacia del convenuto; opposizione di terzo). e) Un’altra disciplina specifica viene poi adottata dal regolamento di procedura per l’impugnazione delle sentenze del Tribunale innanzi alla Corte. L’impugnazione è consentita alle parti principali nel termine di due mesi a decorrere dalla data della notifica della decisione impugnata e solo per motivi di diritto. La Corte non potrà quindi riesaminare la valutazione dei fatti operata dal Tribunale, salvo che non si imputi al Tribunale uno “snaturamento” degli elementi di prova. Inoltre, trattandosi di un giudizio per così dire di Cassazione, le parti non possono sollevare nuovi motivi né riproporre le questioni già decise dal Tribunale se non per denunciare i presunti errori di diritto nella relativa valutazione. L’eventuale accoglimento del gravame comporta l’annullamento del provvedimento di primo grado. In tal caso, la Corte può statuire sulla controversia “ qualora lo stato degli atti lo consenta “,oppure rinviare la causa al Tribunale, il quale sarà vincolato dai punti di diritto contenuti nella pronuncia della Corte. f) Nel caso sia invece investita di un ricorso contro sentenze emesse dal Tribunale in sede di impugnazione di decisioni specializzati o in sede di procedimenti pregiudiziali, la Corte procede al “riesame” del provvedimento impugnato. L’art 62 dello Statuto ha previsto che il primo avvocato generale, allorché ritiene che esista un grave rischio per l’unità o la coerenza del diritto dell’Unione, può proporre alla Corte di riesaminare la decisione del Tribunale. La proposta deve essere presentata entro un mese a decorrere dalla pronuncia della decisione del Tribunale. La Corte decide sull’opportunità o meno di riesaminare la decisione. 23.Le competenze Alle istanze giurisdizionali i Trattati attribuiscono un'ampia gamma di competenze almeno per quanto concerne il primo pilastro. A determinare l’articolazione della giurisdizione della Corte concorrono vari elementi. Vi è anzitutto un elemento esterno, di ovvia evidenza che incide sulla complessità delle attribuzioni della Corte. Esso era rappresentato inizialmente dall'esistenza di tre Trattati, istitutivi di altrettante Comunità, le quali, in situazioni storiche diverse, restavano distinte quanto all'oggetto della loro azione e quanto ai principi ispiratori, all'impianto istituzionale e ai meccanismi decisionali; ciò si traduceva in una diversità delle attribuzioni della Corte sia su un piano globale sia in relazione alle singole competenze. Più complessa articolazione in pilastri, si è presentata a partire del Trattato di Maastricht: quello comunitario (il primo), il pilastro della politica estera e di sicurezza comune (PE5C, secondo pilastro) e quello della cooperazione giudiziaria e di polizia in materia penale (terzo pilastro). Solo nel primo la giurisdizione della Corte si esercitava con pienezza, negli altri due, in ragione della natura delle materie era sostanzialmente assente (nel secondo), o incontrava limiti (nel terzo). Con il Trattati di Lisbona, e con la sospensione dei “pilastri”, la giurisdizione della Corte si è estesa in principio a tutte le materia rientranti nella competenza dell’Unione; ma alcune delle limitazione sopravvivono anche nella nuova disciplina. II TFUE ha escluso la competenza del Corte nel settore della politica estera e di sicurezza comune (secondo pilastro), mentre per il terzo cioè materie rientranti nel c.d. Spazio di libertà, sicurezza e giustizia (SLSG) sono cadute le precedenti limitazioni. Per la cooperazione giudiziaria in materia penale e quella di polizia, l'art 276 TFUE sottrae alia Corte la competenza ad esaminare operazioni condotte dalla polizia o da altri servizi incaricati dell'applicazione della legge di uno Stato membro o l'esercizio per il mantenimento dell'ordine pubblico e la salvaguardia della sicurezza Interna. La giurisdizione della Corte è quanto mai ampia e differenziata, dato che concerne una vasta categoria di soggetti, la cui posizione processuale e regolata in modo motto diverso. Se in principio le ipotesi di intervento della Corte sono già fissate dai Trattati, altre possono essere istituite in base alle stesse previsioni di questi ultimi oppure da testi diversi ma a vario titolo collegati al sistema giuridico dell'Unione. Capitolo III “i giudizi sui comportamenti degli stati membri” 24.Premessa Tra le segnalate ipotesi di competenza, quella che attiene al controllo sui comportamenti degli Stati membri (il c.d. ricorso per inadempimento o procedura d’infrazione) assume un rilievo preminente. I fini dell’Unione non potrebbero essere perseguiti se gli Stati membri non concorressero col proprio impegno e non fornissero i necessari strumenti per la realizzazione degli obiettivi comuni. È dunque a tal proposito giustificata l’esigenza di imporre il rispetto degli obblighi che incombono su di essi e i Trattati si sono preoccupati di fissare appositi meccanismi per perseguire tale finalità e di risolvere tali controversie nell’ambito delle procedure previste dallo stesso sistema autosufficiente. 25.I ricorsi della commissione nei casi di infrazioni degli stati membri. I presupposti generali Assumono ovviamente rilievo preminente le azioni promosse dalla Commissione contro uno Stato membro per inadempimento degli obblighi per esso derivanti dal diritto dell’Unione. Le medesime azioni infatti possono essere sì promosse anche da un altro Stato membro ma l’iniziativa della Commissione ha un significato più intenso anche in ragione del ruolo istituzionale da essa svolto. La procedura quindi viene normalmente attivata a seguito dell’iniziativa dell’esecutivo che vigila sul rispetto dei Trattati. Più rari sono i casi in cui l’iniziativa è presentata dagli Stati membri; questi piuttosto che affrontare direttamente la questione tendono a sollecitare l’azione della Commissione. Oggetto delle procedure in esame è dunque l’accertamento della sussistenza di un inadempimento da parte degli Stati membri degli obblighi ad essi derivanti dal diritto dell’Unione. Tali obblighi sono quelli enunciati dai Trattati istitutivi ma anche dagli atti vincolanti adottati dalle istituzioni e dagli accordi internazionali da queste stipulati e, ovviamente, vi rientra, il rispetto dei diritti fondamentali sancito nella Carta di Nizza e di quelli garantiti dalla Convenzione di Roma (CEDU) in quanto principi generali dell’ordinamento dell’Unione. Peraltro non può escludersi l’ipotesi che il comportamento di uno Stato membro che, pur non contrastando con alcuna norma espressa, possa pregiudicare la funzionalità degli organi comunitari, in relazione all’obbligo generale, che incombe agli Stati, di collaborare alla realizzazione dei compiti dell’Unione e di astenersi da qualsiasi comportamento con essi configgente. La responsabilità per l’inadempimento incombe allo Stato nella sua unità e nella sua complessità: che esso sia ascrivibile al governo o ad altri poteri costituzionali, incluso quello legislativo e giudiziario; o agli apparati contrali o alla articolazioni territoriali. L’inadempimento può concretizzarsi in un’azione o in un’omissione (qui la mancata trasposizione di direttive comunitarie). La responsabilità che incombe allo Stato ha carattere assoluto ed oggettivo; non rilevano né l’eventuale ‘colpa’ dello Stato agente, né la natura p la gravità dell’inadempimento commesso, né l’assenza di un pregiudizio da questo provocato. Ad essa lo Stato può sottrarsi solo in caso di difficoltà insormontabili provocate da cause di forza maggiore, e per il periodo strettamente necessario per porvi rimedio. Uno Stato non può invocare norme o prassi del proprio ordinamento interno o circostanze o difficoltà che si verifichino in quell’ordinamento per giustificare un eventuale inadempimento. Dal pari, lo Stato non può invocare un’infrazione compiuta da un altro Stato membro per giustificare misure incompatibili, adottare unilateralmente a fini correttivi o di difesa. L’ordinamento dell’Unione esclude ogni forma di reciprocità o di ritorsione. Perché si possa escludere l’inadempimento occorre che il rispetto degli obblighi ad essi incombenti sia assicurato dagli Stati non su un piano meramente formale ma in termini di effettività. Insomma per adempiere alla trasposizione di una direttiva non occorre adottare la corrispettiva legge ad hoc se i principi o il contesto giuridico generale nazionale ne assicurano la conformità alle sue disposizioni. Oltre che la sostanza del risultato, alla Corte interessa anche la chiarezza delle situazioni. Non si possono tollerare situazioni di incertezza e ambiguità; una normativa interna in contrasto col diritto dell’Unione non solo non deve essere applicata ma deve essere formalmente rimossa. L’inadempimento può essere contestato anche se è solo parziale, purché sia attuale: deve sussistere nel momento in cui è contestato a nulla rilevando che successivamente lo Stato vi abbia posto fine. 26.La procedura di infrazione : la fase precontenziosa In considerazione dell’importanza della materia, il Trattato definisce una disciplina dettagliata delle varie fasi della procedura di accertamento della violazione commessa dagli Stati membri. Si può dire che tale procedura si articola in due passaggi essenziali: una fase precontenziosa, che è nelle mani della Commissione, essendo questa la sola a poter contestare l’inadempimento e poi ricorrendo alla Corte in caso di persistenza dell’infrazione; una seconda fase, di natura giudiziaria, nella quale per l’appunto entra in scena la Corte cui spetterà accertare l’effettiva sussistenza dell’illecito e pronunciarsi sul comportamento dello Stato ed eventualmente imporgli le sanzioni. La prima fase procede di regola ad iniziativa della Commissione che può avviarla d’ufficio o su sollecitazione di uno Stato membro o di un soggetto privato. Spetterà alla Commissione valutare la consistenza, la continuità e le conseguenze del comportamento illecito. Potrà verificarsi quindi che la Commissione ritenga eccessivo o tempestivo avviare quella procedura, nonostante l’esistenza di un illecito; così come può decidere di farvi ricorso. Ai fini dell’avvio della procedura in esame, occorre solo che la Commissione ‘reputi’ sussistere l’inadempimento. Per queste ragioni la Commissione non può essere obbligata ad avviare la procedura di infrazione né da parte di un altro Stato membro né da parte di privati interessati. E ,ancora, non è attribuito ai denuncianti il diritto di ricorrere alla Corte sulle successive scelte della Commissione e in particolare con riguardo al punto se avviare o meno la procedura di infrazione. La discrezionalità della Commissione è quindi piuttosto ampia e concerne anche la possibilità che essa avvii la procedura anche a distanza di molto tempo dalla denuncia dell’inadempimento o da essa rilevato d’ufficio. Ove comunque decida di contestare l’illecito, la Commissione avvia la fase precontenziosa che si articola a sua volta in due fasi quella della c.d. lettera di messa in mora (o diffida) e quella eventuale del “parere motivato”. i) Con la prima la Commissione comunica formalmente allo Stato interessato l’apertura della procedura e lo mette in condizione di presentare proprie osservazioni entro un termine fissato dalla Commissione stessa. In realtà quest’ultima chiede spiegazioni allo Stato sull’inadempimento che essa ritiene sussistere. Solo se insoddisfatta di tali spiegazioni l’esecutivo invia la lettera di messa in mora che segna l’avvio formale della procedura. La fase che si apre con l’invio della predetta lettera deve essere considerata essenziale e necessaria nella procedura in esame. Questo passaggio tende a garantire il rispetto del diritto di difesa dello Stato interessato. ii) Lo Stato membro non è tenuto a reagire alla lettera di messa in mora: ove però non risponda o risponda con argomenti che non convincono la Commissione, questa può emettere un ‘parere motivato’ con li quale ribadisce e precisa la propria posizione e sollecita lo Stato a por fine entro un certo tempo (di solito due mesi) al comportamento contestato. Questo non ha carattere vincolante per il suo destinatario, ma si limita a suggerire la cessazione del comportamento contestato. A differenza degli altri parere “tipici”, oltre a dover essere adeguatamente motivato, tale parere adempie a una specifica funzione nel quadro della procedura in esame e ne costituisce un passaggio formale essenziale, anche se intermedio e perciò non conclusivo. Ed è per questo motivo che né l’adozione né l’omissione del parere motivato possono essere oggetto di ricorso alla Corte. L’assenza o il difetto della motivazione tuttavia rendono irricevibile l’eventuale ricorso giurisdizionale della Commissione. 27.La fase giudiziaria Se, dopo la decorrenza del termine fissato, lo Stato membro non si conforma al parere motivato, la Commissione può adire la Corte. Va precisato che tuttavia unico presupposto per il ricorso alla Corte è l’inosservanza del parere mentre l’oggetto ne resta la violazione del diritto dell’Unione. Come per i passaggi precedenti, anche la decisione sul se e quando introdurre il ricorso rientra nella discrezionalità della Commissione. Questa è libera di procedere al ricorso giudiziario o di attendere ancora o perfino di non procedervi affatto. E i testi non fissano alcun termine al riguardo lasciando alla Commissione di valutare il momento più opportuno per impegnare la Corte. Nella prassi infatti si lascia un ampio margine di tempo alla Commissione. Essa, tuttavia, non può ritardare la propria decisione fino al punto di incorrere in uno sviamento di procedura o di rendere più difficile l’esercizio dei diritto di difesa dello Stato membro in causa. Anche il giudizio sul punto se lo Stato si sia conformato o meno al parere, o se, abbia posto fina alla trasgressione, è rimesso pienamente alla Commissione, la quale decide liberamente se presentare o meno il ricorso giurisdizionale. La fondatezza del ricorso e l’interesse della Commissione a ricorrere, vengono meno solo se l’adempimento è intervenuto entro il termine fissato dal parere. Ove esso intervenisse, anche in pendenza del giudizio, la Commissione manterrebbe pur sempre un interesse all’accertamento giudiziale dell’illecito e potrebbe quindi insistere nel ricorso per ottenere che sia riconosciuto che uno Stato membro ha mancato a uno degli obblighi del Trattato. L’art 40 preclude alle persone fisiche e giuridiche di intervenire nelle controversie fra Stati membri, fra istituzioni dell’Unione oppure fra Stati membri da una parte e istituzioni dall’altra; perché quelle persone non solo non hanno strumenti per imporre alla Commissione di avviare e proseguire la procedura esaminata, ma neppure partecipare al giudizio che venga eventualmente instaurato a seguito della loro denuncia. 34.I vizi degli atti. In generale In ossequio al principio di legalità, gli atti dell’Unione devono essere conformi alle norme contenute nei Trattati o negli atti di applicazione degli stessi. La violazione di tali norme determina l’invalidità del provvedimento e la possibilità di far funzionare i rimedi all’uopo predisposti. Fra questi l’annullamento dell’atto in via giurisdizionale il quale presenta senz’altro la più radicale reazione all’eventuale esercizio illegale delle proprie funzioni da parte delle istituzioni dell’Unione. L’annullabilità opera in presenza dei vizi che inficiano la validità degli atti ed è espressamente prevista dai Trattati. È da ritenere, tuttavia, anche la teoria dell’inesistenza degli atti delle istituzioni, ove questi risultino inficiati da vizi tanto gravi da travolgerne la stessa “esistenza giuridica”. Ed è lo stesso Trattato a precisare tale veste, elencando quali causa di invalidità dell’atto quattro figure di vizi, che possono costituire altrettanti motivi di ricorso alla Corte. Esse coprono nella loro reale portata tutti i difetti che possono inficiare la legittimità dell’atto: l’incompetenza, la violazione di forme essenziali, la violazione del Trattato e lo sviamento di potere. 35.I singoli vizi o Non occorre dir molto riguardo al vizio di incompetenza. Il vizio ricorre allorché un atto eccede i poteri conferiti all’autorità che lo ha posto in essere. Nell’ambito dell’Unione, ciò può tradursi nell’invasione delle attribuzioni di un’altra istituzione o addirittura nella fuoriuscita dalle competenze dell’Unione ( a meno che non si configuri un’ipotesi di inesistenza dell’atto). L’incompetenza costituisce un vizio molto grave, rilevabile quindi d’ufficio in quanto motivo di ordine pubblico, ed invocabile in qualsiasi momento del procedimento. o Anche il vizio di violazione di forme sostanziali non appare del tutto distinto da quello di violazione del Trattato e di sviamento di potere. Ma la difficoltà deriva dal fatto che gli stessi testi prescrivono talvolta alcuni requisiti di forma necessari ma si tratta di previsioni isolati le quali non eliminano ogni dubbio circa l’essenzialità dei requisiti che prescrivono. E nello stesso sistema dell’Unione il principio dominante è la libertà delle forme degli atti; ne consegue che la qualificazione come “sostanziali” delle poche prescrizioni formali prevista dai Trattati deve essere interpretata in termini restrittivi. Ciò posto va detto che le rare previsioni normative che vengono in rilievo in questa materia attengono da un lato alla procedura di formazione degli atti e dall’altro ai requisiti intrinseci degli stessi. La prime concernono quei casi in cui è imposta dai Trattati la consultazione (o l’iniziativa) di persone fisiche o giuridiche, degli Stati o di altri organi dell’Unione ai fini dell’emanazione di un provvedimento. Ed in particolare, risulta dai testi che l’adozione di un atto che vede la partecipazione di più istituzioni non può considerarsi validamente emanato quando non vi sia stata la prescritta consultazione o iniziativa dell’altro organo. L’’effettiva osservanza’ dell’obbligo di consultazione va verificata dalla Corte. Quanto ai vizi che attengono ai requisiti formali intrinseci all’atto, sono rilevanti quelli che investono la composizione dell’organo, le modalità di votazione e i quorum necessari, il rispetto delle norme relative al suo funzionamento, la scelta della base giuridica dell’atto, la sua pubblicazione o notificazione, il relativo regime linguistico, ecc. Rilievo preminente assumono a questo riguardo i vizi relativi al rispetto dell’obbligo di motivazione che i testi prescrivono per gli atti dell’Unione, e la cui eventuale violazione è considerata così grave da poter essere rilevata anche d’ufficio, come motivo di ordine pubblico. Tale obbligo, come ha chiarito la stessa Corte, non trae origine da considerazioni di pura forma bensì ha lo scopo di dare possibilità alle parti di tutelare i loro diritti, alla Corte di esercitarne il controllo giurisdizionale e agli Stati membri di sapere come l’istituzione abbia applicato il Trattato. o Con il terzo motivo di ricorso, la violazione dei Trattati o di qualsiasi regola di diritto relativa alla loro applicazione, si passa a quei vizi che attengono non alla veste esterna degli atti, bensì alla loro sostanza, alla loro ‘legalità interna’ e come tali quindi suscettibili di provocare un riesame del contenuto materiale di quegli atti da parte della Corte. In linea molto generale, tale vizio tende a racchiudere tutti i difetti che attengono alla legittimità di un atto, al punto da poter essere invocato pressoché ad ogni occasione, anche in relazione a difetti che difficilmente potrebbero rinchiudersi alla nozione di violazione di norme giuridiche. Alla luce della prassi giurisprudenziale, il vizio di cui si discute riguarda i più numerosi e i più frequenti difetti degli atti, tanto quelli derivanti dalla mancata o inesatta applicazione di una norma, quanto quelli concernenti la valutazione della fattispecie concreta cui essa è stata applicata. Accertare l’esistenza di una violazione significa esaminare i presupposti di fatto che hanno determinato l’adozione dell’atto medesimo, nonché le valutazioni operate sulla base di quei presupposti dall’organo agente. Le istituzioni dell’Unione godono di un largo margine di discrezionalità nella realizzazione dei loro compiti, sicché il sindacato della Corte può tradursi nell’esercizio di un penetrante controllo sull’azione di quegli organi (anche di carattere squisitamente politico). Una specifica considerazione merita poi l’espressione violazione “dei Trattati o di qualsiasi regola di diritto relativa alla loro applicazione”. Tale espressione conferma che ai fini della valutazione della legalità di un atto non vengono in rilievo soltanto i trattati istitutivi, ma anche altre norme giuridiche, ed in particolare: gli atti delle istituzioni, gli accordi stipulati dall’Unione, i principi generali di diritto, siano essi comuni agli Stati membri o propri del sistema comunitario, e siano essi individuati in astratto o sulla base dei richiami alle dichiarazioni e convenzioni internazionali o attraverso la giurisprudenza della Corte. o Per quanto attiene al vizio di sviamento di potere, di norma si considera ‘sviato’ il potere esercitato per un fine diverso da quello in vista del quale esso era stato attribuito. L’atto è conforme al dettato normativo quanto alla competenza dell’organo, alla forma, ai singoli elementi costitutivi. Pur tuttavia esso contrasta con i fini perseguiti dalla norma sulla base della quale è stato emanato, dato che l’organo agente ne ha fatto, intenzionalmente (o per errore), un’applicazione diversa da quella voluta dalla norma medesima e contrastante con i principi che dovevano ispirare, in generale o in concreto, la sua azione; quindi, pur nel generale rispetto della norma, si adotta un atto che ne contraddice gli scopi, in quanto ispirato a considerazioni illecite o scorrette o inadeguata. L’accento è posto sui ‘motivi’ che hanno guidato l’organo nell’esercizio dei suoi poteri, attraverso la ricerca dell’elemento subiettivo, delle ‘intenzioni’ di chi ha posto in essere l’atto. La Corte può estendere l’ambito dell’indagine esaminando altresì gli aspetti ‘obiettivi’ dell’atto; ma ciò non tanto perché detti aspetti possano integrare di per sé uno sviamento di potere, quanto piuttosto perché essi offrono indizi significativi per rilevare una ‘deviazione’ dell’organo del quadro degli obiettivi che la norma lo autorizzava a perseguire. Ricostruendo lo sviamento attraverso fattori obiettivi, dunque la Corte ha finito col dare a tale vizio un contenuto più ampio rispetto alla nozione classica. 2. La legittimazione attiva : delle istituzione; degli stati membri Legittimati ad agire sono le istituzioni dell’Unione, gli Stati membri e i soggetti di diritto interno. o La legittimazione attiva delle istituzioni è una conseguenza dell’articolata struttura dell’Unione e del delicato equilibrio di poteri tra i suoi organi. Ciò spiega il carattere ‘pieno’ ed ‘obbiettivo’ del ricorso, cioè il fatto che nessuna specifica limitazione è ad esso posta dai testi quanto agli atti impugnabili e ai motivi di impugnazione, e anche che la sua ricevibilità non è condizionata alla sussistenza di un interesse ad agire in capo all’organo ricorrente. Quanto alla determinazione delle istituzioni legittimate a proporre un ricorso d’annullamento, la disciplina ha subito un'evoluzione significativa. Inizialmente il diritto di ricorso era concesso solo al Consiglio e alla Commissione, ma la situazione è cambiata a seguito della giurisprudenza della Corte e dell'evoluzione del riparto delle competenze interistituzionali. Successivamente si è esteso quel diritto alla Corte dei conti, alla BCE e al Comitato delle Regioni, sia pur limitatamente alla difesa delle loro prerogative. o Analoga disciplina è riservata al ricorso degli Stati membri. Questi, sono ‘ricorrenti privilegiati’, cioè che la loro legittimazione attiva è piena e soprattutto non sono tenuti ad allegare un interesse materiale per chiedere l’annullamento dell’atto impugnato (anche se non significa ignorare che la loro azione è comunque legata alla tutela di loro interessi, questo è ovvio). La legittimazione ad agire è riservata allo Stato nella sua unità ed in particolare alle autorità di governo; essa non spetta quindi ai singoli organi (tranne la parziale eccezione in materia di sussidiarietà dei parlamenti nazionali), né alle articolazioni interne dello Stato (regioni, comuni ecc.). Queste ultime potranno ricorrere alla stregua una persona giudicata ai sensi della disposizione relativa ai ricorsi dei privati. 2. Dei soggetti privati Anche i soggetti di diritto interno (i c.d. “privati” o “le persone fisiche e giuridiche”), possono sollecitare il controllo della Corte sulla legittimità degli atti dell’Unione. È questa indubbiamente la più importante fra le varie forme dirette di garanzia apprestate dal sistema giurisdizionale dell’Unione per i soggetti in questione e più in generale la risposta offerta da quel sistema al problema della tutela giurisdizionale degli individui presso istanze internazionali. È vero che i ricorsi di questi incontrano delle limitazioni ma queste non discendono da una presunta necessità di armonia con i classici schemi di un diritto “interstatale” quanto da esigenze corrispondenti a quelle che giustificano le analoghe limitazioni esistenti nei diritti interni degli Stati membri. Per questi stessi motivi anche i Trattati hanno escluso ogni idea di ‘azione popolare" ed hanno invece imposto alcune specifiche condizioni per la ricevibilità dei ricorsi. Il Trattato non si è accontentato di subordinare l'ammissibilità del ricorso dei privati alla condizione che essi possano invocare una lesione attuale e diretta di un interesse giuridicamente tutelato. Esso ha imposto ulteriori limitazioni. Nel sistema precedente, la disposizione corrispondente all'attuale art 263 TFUE, prevedeva che le persone fisiche e giuridiche potevano impugnare: le decisioni prese nei loro confronti; le decisioni che appaiono come regolamenti ma che concernono direttamente e individualmente il ricorrente; e le decisioni prese nei confronti di altre persone, ma che del pari concernono il ricorrente direttamente e individualmente. Anche tale disposizione dunque imponeva un primo limita quanto all’individuazione degli atti impugnabili. La disposizione conferiva ai privati una piena ed indiscutibile tutela giurisdizionale solo contro quelli aventi natura di decisioni; la tutela appariva invece molto limitata, almeno sulla carta, rispetto alle direttive, raccomandazioni e pareri. E, ancora, come si è detto, anche rispetto agli atti impugnabili (decisioni, essenzialmente) non bastava che l'atto rientrasse tra quelli che il ricorrente aveva il diritto di impugnare, occorreva che questi ne fosse "direttamente’ e ‘individualmente’ colpito. L’esatto significato di questi avverbi non era affatto pacifico ed è stato poi chiarito da una giurisprudenza della Corte. Un atto è riferibile ‘individualmente’ ad un soggetto quando lo riguarda come singolo, e non inserito in una generalità di soggetti. Lo riguarda individualmente soltanto qualora il provvedimento lo tocchi a causa di determinate qualità personali; occorre però che la posizione sia specificatamente qualificata, differenziandosi da quella della generalità dei soggetti. Mentre, un atto riguarda "direttamente" il ricorrente quando i suoi effetti in capo a quest'ultimo si realizzano in conseguenza diretta dell’emanazione dell'atto stesso, e quindi indipendentemente dall'intervento d'altri soggetti o di altri provvedimenti. La Corte sottolineò tuttavia che non era nei suoi poteri stravolgere il dato letterale dell’art. 230 TCE. E, secondo la nuova disciplina dell’art. 263 TFUE, una persona fisica o giuridica può ora proporre un ricorso contro gli atti adottati nei suoi confronti o che la riguardano direttamente e che non comportano alcuna misura di esecuzione. Tale disposizione abbandona il sistema dell’indicazione limitativa degli atti tipici impugnabili, allargandone la gamma al di là delle ‘decisioni’ e dei ‘regolamenti’. Tali atti sono però impugnabili solo se presi nei confronti del ricorrente o, in caso diverso, se lo riguardano direttamente e individualmente. Ma l’aspetto più interessante è che viene lasciata cadere per i ricorsi contro gli ‘atti regolamentari’ la condizione della lesione ‘individuale’ della situazione giuridica del ricorrente, dato che si esige solo che l’atto non comporti misure di esecuzione. In effetti, se tali misure sono previste, il privato potrà tutelarsi impugnandole direttamente, secondo che esse competano all’Unione o agli Stati membri, innanzi ai giudici dell’uno o degli altri, e per questa via potrà mettere in causa anche l’atto regolamentare: nel primo caso attraverso l’eccezione di legalità prevista dall’art. 277 TFUE; nel secondo caso sollecitando il giudice nazionale a sottoporne la validità alla Corte di giustizia attraverso la procedura pregiudiziale. Si può quindi riassumere che, in base alla nuova disciplina, per valutare la ricevibilità di un ricorso di una persona fisica e giuridica contro un atto dell’Unione che non sia adottato nei suoi confronti, la Corte deve anzitutto accertare se si è in presenza di un “atto regolamentare”. Se la risposta è negativa perché si tratta di un “atto legislativo” o di un atto a portata individuale, il ricorrente dovrà dimostrare di essere stato colpito direttamente ed individualmente. Se invece la risposta è negativa, la Corte deve ulteriormente verificare se l’atto si indirizza direttamente al ricorrente e non comporta misure di esecuzione. Se è così il ricorso sarà ricevibile, se invece quelle misure sono previste e riguardano il ricorrente, questi potrà attaccare direttamente l’atto regolamentare solo se dimostra di esserne stato colpito non solo direttamente ma anche individualmente. 3. Il ricorso : termini ed effetti Il ricorso deve essere presentato entro due mesi a partire dalla pubblicazione dell’atto o dalla notifica dello stesso al proprio destinatario o comunque dal momento in cui il soggetto ne ha avuto conoscenza. A questo termine vanno aggiunti i c.d. termini di distanza vale a dire un termine forfettario di 10 giorni in ragione della distanza dalla sede dalla Corte. Il rispetto del termine di presentazione del ricorso è una regola di ordine pubblico, rilevabile d’ufficio. Essa mira “a garantire la chiarezza e la certezza delle situazioni giuridiche”. Un ricorso intempestivo è dunque ricevibile qualora il ricorrente provi che il mancato rispetto di tale regola è dovuto ad un errore scusabile, ad un caso fortuito o di forza maggiore. Va precisato che la proposizione del ricorso non sospende l'esecuzione dell'atto impugnato, ha una forza obbligatoria assoluta ai provvedimenti delle istituzioni. Fino al loro annullamento ad opera della Corte, e salvo l'eventuale revoca da parte delle istituzioni che li hanno emanati, quegli atti esplicano una piena efficacia. La Corte può tuttavia concedere in via provvisoria la sospensione dell’esecuzione dell'atto “quando reputi che le circostanze lo richiedano”. 4. La portata del sindacato della corte. La competenza di piena giurisdizione In sede di esame dei ricorsi di annullamento degli atti dell’Unione, la Corte esercita un controllo di mera legittimità. Ciò significa che le è precluso il sindacato sulle scelte di merito che sono alla base di quegli atti. Va d’aggiunta segnalato che oltre alla giurisdizione di legittimità, che costituisce la regola generale del contenzioso dell’Unione, i Trattati prevedono altresì che una “competenza giurisdizionale anche di merito” possa essere attribuita alla Corte dai regolamenti dell’Unione quando istituiscono sanzioni come è avvenuto del resto coi regolamenti in materia di concorrenza. A tal fine la Corte è legittimata ad esaminare sotto ogni profilo la questione che le viene sottoposta. Essa può ovviamente accertare la legittimità dell’atto impugnato sotto il profilo formale ma questo può non risultare valido se inficiato sul piano sostanziale. In tal caso la Corte è autorizzata ad esercitare un pieno potere di riesame della questione che le è sottoposta e può in seguito annullare l’atto impugnato sia modificarlo fissando in diminuzione o in aumento la misura delle sanzioni. risarcimento rientrano nella competenza (in prima battuta del TPI e poi) della Corte. L’azione di danni è stata concepita dal Trattato come “un rimedio dotato di una propria funzione che lo distingue dalle altre azioni esperibili, e sottoposto a condizioni di esercizio che tengano conto del suo oggetto specifico”. Essa, a differenza dei ricorsi per annullamento ed in carenza, è diretta non a far constatare l’illegittimo comportamento di un’istituzione con effetti erga ormnes ma al risarcimento dei danni da esso provocati. Peraltro, nella prassi le due azioni vengono quasi sempre promosse congiuntamente ma proprio in ragione della reciproca autonomia, l’irricevibilità del ricorso di annullamento non comporta l’automatica irricevibilità dell’azione di danni. Legittimate a proporre il ricorso sono le persone fisiche o giuridiche, nonché gli Stati membri, senza distinzione, questa volta, tra ricorrenti privilegiati e non. È da escludere invece che a promuovere l’azione possano essere le stesse istituzioni comunitarie, dato il rapporto di immedesimazione tra queste e la Comunità. Quanto alla legittimazione passiva, spetta a tutte le istituzioni ed organi cui possa essere imputato il comportamento illecito che ha provocato il danno, e sarà ciascuna di esse (e non la sola Commissione) a rispondere (e a stare) in giudizio in questi casi ferma restando la regola secondo cui di fronte a giudici di Stati membri o di Stati terzi, l’Unione è rappresentata dalla Commissione. Ciò, anche quando l’azione è promossa per i danni cagionati dagli agenti delle istituzioni “nell’esercizio delle loro funzioni” perché in tal caso starà in giudizio l’istituzione di appartenenza dell’agente. 10.Le condizioni per la sua promozione Quanto alle condizioni a cui è subordinata la responsabilità extracontrattuale dell’Unione, il Trattato richiama “i principi generali comuni ai diritti degli Stati membri” per l’identificazione di quelle condizioni. In particolare, si ha responsabilità aquilana dell’Unione ove si accerti la contestuale presenza dei seguenti presupposti: l’illiceità del comportamento contestato alle istituzioni, l’esigenza di un danno e un nesso di causalità tra quest’ultimo e il comportamento contestato. Alla prima condizione, si fa riferimento alla ‘illiceità’ del comportamento contestato, e quindi non necessariamente alla violazione di norme giuridiche. All’origine della responsabilità dell’Unione può esservi qualsiasi suo comportamento illecito, anche se di carattere omissivo. Quanto alla gravità, se il comportamento riguarda un settore in cui l’Unione gode di un certo potere discrezionale, la responsabilità può sorgere solo se l’organo agente ha disconosciuto i limiti che s’impongono all’esercizio dei suoi poteri. Quanto alla seconda condizione, e cioè la sussistenza di un danno rilevante, si richiede che, oltre ad essere certo ed attuale, esso sia ‘speciale’ (cioè che abbia leso una categoria di soggetti ben individuata), e che la sua entità ecceda l’ambito dei normali rischi economici insiti nell’attività rilevante nella specie. Per quel che concerne, infine, la condizione della sussistenza di un nesso di causalità “diretto” tra il comportamento illegittimo delle istituzioni e il danno subito dal singolo, basterà ricordare che la responsabilità dell’Unione ricorre solo se detto comportamento sia espressione di un intervento diretto alle istituzioni e se non vi sia stato atteggiamento negligente del soggetto interessato. Ove la responsabilità dell’Unione sia accertata, il risarcimento riguarderà sia il danno materiale che quello immateriale relativamente tanto al danno emergente quanto al lucro cessante. L’azione di danni si prescrive in cinque anni a decorrere dal momento in cui avviene il fatto che dà origine al danno. Essa si interrompe con l’azione giudiziaria, ma anche con la previa richiesta dei danni all’istituzione in causa. Capitolo V “La competenza pregiudiziale” 11.premessa La Corte vanta anche una peculiare competenza a carattere non contenzioso. Si tratta della ben nota “competenza pregiudiziale” in virtù della quale la Corte può pronunciarsi in via appunto pregiudiziale su questioni di interpretazione di disposizioni del diritto dell’Unione o anche di interpretazione e validità di atti delle istituzioni a seguito degli appositi rinvii che le giurisdizioni dagli Stati membri sono obbligate o abilitate ad operare ove la soluzione di simili questioni sia necessaria per risolvere la controversia dinnanzi ad esse pendente. Già da questa primissima nozione appare evidente il carattere non contenzioso della competenza in esame. Essa, infatti, non è attivata su ricorso delle parti di una controversia ma a seguito del rinvio del giudice nazionale innanzi al quale quella controversia pende; si svolge con riferimento alle sole questioni sottoposte da quel giudice e non è destinata a risolvere la controversia in atto ma unicamente a fornire gli elementi necessari alla sua soluzione nel processo principale. 12.Le finalità della competenza pregiudiziale La finalità naturale e originaria di questa competenza fu ben precisa: assicurare, grazie alla presenza di un organo giurisdizionale ad hoc, l’uniformità dell’interpretazione del diritto (allora) comunitario. Si trattava in particolare di evitare una sorta di “nazionalizzazione” delle regole comuni e della loro interpretazione da parte delle singole giurisdizioni nazionali, risultato, questo, che avrebbe affievolito il funzionamento di un sistema che doveva essere unico, quello comunitario. In questo modo la Corte avrebbe potuto garantire l’unità e la coerenza di quel diritto non solo rispetto al relativo ordinamento ma anche rispetto agli ordinamenti degli Stati membri. Col tempo la competenza pregiudiziale è stata poi utilizzata per finalità assai più estese di quella appena illustrata. Anzitutto, proprio la natura di tale competenza, ha permesso alla Corte di non limitarsi all’interpretazione delle specifiche nozioni in causa ma a spingersi oltre e a rilevare i principi cardine dell’ordinamento giuridico dell’Unione. La Corte ha quindi fatto molto di più elaborando una giurisprudenza chiave per la definizione degli aspetti di quell’ordinamento ed, inoltre, ha saputo utilizzare con grande efficacia tale competenza non solo ponendola al centro del sistema giurisdizionale dell’Unione ma più in generale dei rapporti fra questo e i diritti nazionali. Ha insomma creato le condizioni per rafforzare gradualmente l’efficacia e la garanzia del sistema. La competenza pregiudiziale è poi diventata rapidamente uno strumento chiave per la tutela dei diritti garantiti dalle norme dell’Unione ed in particolare per la tutela giudiziaria dei privati sia nei confronti delle istituzioni europee che nei confronti del proprio Stato membro. Rispetto alle prime, la tecnica del rinvio pregiudiziale consente di rimettere in questione la validità di atti di quelle istituzioni ; ma ancor più importante (rispetto ai secondi) è la possibilità offerta agli interessati di tutelarsi attraverso la competenza giurisdizionale della Corte nei confronti del proprio Stato attraverso la sottoposizione alla Corte di giustizia di questioni che vertono su un principio o su una disposizione del diritto dell’Unione che è stato negato o misconosciuto. 13.Le condizioni per il suo esercizio Va subito precisato che, quella pregiudiziale, è una competenza della Corte anche se ora il Trattato prevede che essa possa essere devoluta al Tribunale “in materie specifiche determinate dallo Statuto”. Finora però la previsione non è stata attuata. Ma, se e quando questo avverrà, le decisioni del Tribunale potranno essere oggetto di riesame da parte della Corte. Ciò chiarito, occorre ricordare che i giudici nazionali possono porre alla Corte tanto questioni di interpretazione che questioni di validità del diritto dell’Unione. Le prime possono vertere su qualsiasi disposizione di quel diritto (norme dei Trattati o atti di qualsiasi organo o organismo dell’UE e perfino i principi generali) ; per quel che concerne le seconde, la Corte, in sede di competenza pregiudiziale, non può interpretare norme o prassi nazionali per pronunciarsi direttamente sulla loro compatibilità con il diritto dell’Unione, anche se la limitazione può essere aggirata riformulando il quesito come volto a chiarire se la norma europea è compatibile. Legittimati ad operare il rinvio pregiudiziale sono gli “organi giurisdizionali” degli Stati membri di ogni ordine e grado. La Corte ha elaborato una definizione comunitaria di “organo giurisdizionale” riconducendovi tutti gli organi che presentino una serie di requisiti: l’origine legale dell’organo, il suo carattere permanente, l’obbligatorietà della sua giurisdizione, la natura contraddittoria del procedimento, il fatto che applichi norme giuridiche e non si pronunci secondo equità, la sua indipendenza ed imparzialità nonché il carattere giurisdizionale della sua pronuncia. Il giudice nazionale ha la facoltà di operare il rinvio pregiudiziale restando inteso che se decide di non farlo egli può procedere autonomamente all’interpretazione del Trattato o dell’atto in causa. Di quest’ultimo, anzi, il giudice potrà anche valutare se ne è richiesto, la validità, con l’avvertenza però che se l’esame dovesse concludersi con esito negativo, egli dovrà astenersi dal dichiarare l’invalidità dell’atto e dovrà deferire la questione alla Corte di giustizia. E ciò per assicurare l’uniformità nell’applicazione del diritto dell’Unione e la coerenza del suo sistema giurisdizionale. La Corte ha poi riconosciuto al giudice nazionale che operi un rinvio pregiudiziale il potere di sospendere, in attesa della pronuncia della Corte, l’efficacia di provvedimenti nazionali fondati su atti dell’Unione rispetto alla cui validità detto giudice nutra seri dubbi; così come ha riconosciuto al medesimo giudice, in caso di silenzio del suo ordinamento nazionale, il potere di sospendere l’efficacia di leggi ed atti della cui legittimità comunitaria esso abbia investito la Corte in via pregiudiziale. La soluzione di lasciare libere le giurisdizioni di non effettuare il rinvio pregiudiziale si spiega col fatto che nel caso saranno gli interessati che potranno comunque impugnare la loro decisione e riproporre nel successivo grado di giudizio la richiesta di rinvio alla Corte. La decisione di sospendere il giudizio nazionale e di sottoporre la questione alla Corte è di competenza esclusiva del giudice nazionale perché spetta ad esso valutare se la pronuncia della Corte sia “necessaria per emanare la sua decisione” nel caso di specie. In effetti, nella ripartizione di competenze voluta del Trattato tra Corte e giudici nazionali, sono questi ultimi ad avere una conoscenza diretta dei fatti della causa e a trovarsi nella situazione più idonea a valutare il caso. Per questo motivo la Corte esclude da un lato che l’ordinanza di rinvio possa essere impugnata nell’ordinamento nazionale ad opera delle parti e dall’altro è rigorosa nel valutare eventuali norme nazionali che a qualsiasi titolo limitino la facoltà di rinvio da parte del giudice. Ne consegue che, nell’esaminare l’ordinanza di rinvio, la Corte non può sindacare le predette valutazioni del giudice nazionale, ma è tenuta a dar seguito all’ordinanza almeno fino a quando non sia annullata da un giudice superiore. Ciò malgrado restano alla Corte ampi margini di apprezzamento sulla ricevibilità dell’ordinanza di rinvio e in particolare, la Corte oltre ad accertare se l’ordinanza proviene da una “giurisdizione di uno Stato membro” e se ha ad oggetto questioni di diritto dell’Unione, deve altresì valutare aspetti che attengano direttamente al contenuto dell’ordinanza e alle condizioni del rinvio. La verifica si svolge con riguardo alle seguenti ipotesi. Anzitutto essa accerta se il giudice del rinvio abbia fornito gli elementi di diritto e di fatto necessari per consentire alle altre parti di svolgere osservazioni sui quesiti ma inoltre essa verifica (e declina la propria competenza, in caso negativo) la rilevanza dei quesiti ai fini della decisione del giudizio a quo e la necessità del rinvio, assumendo però come premessa che gli stessi godono di una presunzione di rilevanza. La declinazione seguirà “qualora appaia in modo manifesto che l’interpretazione di una norma comunitaria chiesta dal giudice nazionale non ha alcuna relazione con l’effettività o con l’oggetto in causa”. 14.Gli aspetti procedurali La procedura relativa al giudizio principale è evidentemente regolata dal diritto nazionale. La Corte non può quindi esercitare un controllo sulla competenza del giudice a quo e in merito alle regole procedurali nazionali. Il rinvio è di regola disposto con ordinanza motivata notificata alla Corte a cura del giudice interno. Al procedimento che si apre innanzi alla Corte a seguito del rinvio sono autorizzati a partecipare non solo le parti del giudizio ma anche gli Stati membri (anche qui senza la necessità di allegare un interesse ad agire), la Commissione (che interviene di regola in tutti i procedimenti) nonché, quando sono in causa atti da essi adottati, il Parlamento europeo, il Consiglio e la BCE. Tutte queste parti possono presentare osservazioni scritte entro due mesi dalla notifica che va loro obbligatoriamente effettuata a cura della Corte, oppure limitarsi ad intervenire nella fase orale. Merita peraltro di essere sottolineata la nuova “procedura pregiudiziale di urgenza” istituita di recente nel settore c.d. dello Spazio di libertà, sicurezza e giustizia. In vista di queste particolari esigenze della materia, le disposizioni provvedono al che, quando eventuali questioni di interpretazione o validità riguardano “una persona in stato di detenzione, la Corte statuisca il più rapidamente possibile”. La relativa procedura (che può essere attivata d’ufficio dalla stessa Corte) si articola sulla base di regole speciali e più semplificate. Quanto agli effetti delle sentenze della Corte, queste sono obbligatorie per il giudice a quo il quale non può disattenderle neppure se decidesse di operare un nuovo rinvio sulla medesima questione. Per il resto occorre distinguere quando la Corte si pronuncia su questioni di interpretazione di norme comunitarie e quando su questioni di validità degli atti delle istituzioni. Nel primo caso la decisione produce effetti obbligatori per il giudice del rinvio: questi se decide di applicare quella disposizione al caso concreto deve attenersi alla pronuncia della Corte. Tuttavia il principio di diritto contenuto nella decisione non vincola solo quel giudice ma si impone erga ormnes perché l’interpretazione di una norma comunitaria precisa il suo significato, la sua portata e come avrebbe dovuto essere intesa e applicata sin dal momento della sua entrata in vigore. Nel caso di una pronuncia di validità, invece, conviene ulteriormente distinguere secondo che la Corte abbia o meno concluso nel senso della validità dell’atto. In caso positivo, l’efficacia della sentenza sarà limitata alla controversia dedotta nel giudizio a quo (fatta salva la facoltà per i giudici nazionali di riproporre la medesima questione di validità). Ove la Corte si sia pronunciata in senso dell’invalidità, la sentenza “costituisce per qualsiasi altro giudice un motivo sufficiente per considerare tale atto non valido ai fini di una decisione che esso debba emettere” e, in secondo luogo, perché le autorità nazionali sono obbligate a non applicare l’atto dichiarato invalido ad adottare tutti i provvedimenti che la statuizione contenuta nella sentenza comporta. Tutte queste sentenze hanno di regola effetto retroattivo ma in via eccezionale la Corte può limitare tale effetto consentendo agli interessati di far valere la disposizione come da essa interpretata al fine di rimettere in discussione rapporti giuridici costituiti in buona fede. Ciò però a condizione che la decisione pregiudiziale implichi un grave rischio di ripercussioni economiche e che i soggetti interessati siano stati indotti a comportamenti difformi a causa di una obiettiva incertezza nell’interpretazione della norma in causa. 15.Le limitazioni della competenza pregiudiziale Vi sono materie per le quali la competenza della Corte incontra significative limitazioni. Esse riguardano in particolare le materie rientranti nello Spazio di libertà, sicurezza e giustizia (SLSG). Poi per quel che concerne la cooperazione giudiziaria in materia penale e quella di polizia, continuano a restare escluse dal sindacato della Corte “la validità e la proporzionalità di operazioni condotte dalla polizia o da altri servizi incaricati dell’applicazione della legge di uno Stato membro o l’esercizio delle responsabilità incombenti agli Stati membri per il mantenimento dell’ordine pubblico e la salvaguardia della sicurezza interna”. Capitolo VI “le competenze minori” 16.La competenza sulle controversie relative alla funzione pubblica europea Oltre a quelle indicate, la Corte gode a vario titolo di altre competenze che non hanno il medesimo rilievo perché attengono ad un settore ben determinato ed assumono a questo titolo una particolare rilevanza nella prassi mentre altre perché presentano una più marcata specificità. Tra esse un posto di spicco spetta alla competenza relativa alla funzione pubblica europea i cui sviluppi hanno portato alla creazione di un Tribunale ad hoc. Ai sensi del Trattato la Corte è competente a pronunciarsi su qualsiasi controversia che insorga tra l’Unione ed i suoi agenti, alle condizioni fissate dallo ‘Statuto dei funzionari’. Si tratta n via generale del controllo sulla legittimità degli atti (o delle omissioni) della autorità investite del potere di nomina (AIPN), e cioè in sostanza delle istituzioni, o alla responsabilità di queste ultime per i danni provocati ai loro dipendenti. Da tale competenza, la legittimazione attiva si estende a tutti i dipendenti delle istituzioni dell’Unione, ma anche ai soggetti che aspirano a quello status e quindi hanno partecipato ad un concorso o anche solo presentato la al potere di tale giudice di sospendere in via provvisoria l’applicazione della legge controversa. Richiamandosi alla propria giurisprudenza, la Corte chiarì che “la piena efficacia del diritto comunitario sarebbe del pari ridotta se una norma di diritto nazionale potesse impedire al giudice chiamato a dirimere una controversia disciplinata dal diritto comunitario di concedere provvedimenti provvisori allo scopo di garantire la piena efficacia della pronuncia giurisdizionale sull’esistenza dei diritti invocati in forza del diritto comunitario”, col risultato che, in una situazione del genere, “il giudice è tenuto a disapplicare la norma di diritto nazionale che sola osti alla concessione di provvedimenti provvisori”. Anche nel noto caso Zuckerfabrick, in cui ad essere messo in discussione era un provvedimento nazionale di attuazione di una normativa dell'Unione di dubbia legittimità. La Corte ha chiarito che il provvedimento amministrativo nazionale deve essere sospeso in via cautelare per evitare irreparabili pregiudizi alle posizioni giuridiche dei privati. Dopo la suddetta sentenza, si sono sviluppati successive pronunce della Corte fino a che la Corte non riconobbe definitivamente al giudice nazionale la competenza a concedere provvedimenti provvisori non solo ‘negativi’ (quali la sospensione dell'atto nazionale adottato sulla base della norma dell'Unione sospettata di invalidità), ma anche ‘positivi’. Ciò a condizione che: o il giudice nazionale nutra gravi riserve sulla validità dell’atto dell'Unione in causa e provveda quindi a sottoporre lui stesso un quesito pregiudiziale su detta validità; o ricorrano gli estremi dell’urgenza cioè che i provvedimenti provvisori sono necessari per evitare che la parte che li richiede subisca un danno grave e irreparabile; o il giudice tenga conto dell'interesse dell'Unione; o siano rispettate le pronunce della Corte o del Tribunale di primo grado in ordine alla legittimità dell’atto dell'Unione. 2. Il risarcimento dei danni provocati da violazioni del diritto dell’unione Malgrado il rigido sistema di tutela giudiziaria, non è affatto scontato che la protezione giudiziaria dei diritti possa essere assicurata in modo pieno ed effettivo. Non tutte le norme dell’Unione sono direttamente applicabili ; non tutti gli ordinamenti interni offrono mezzi di tutela praticabili. Affiorano quindi nella giurisprudenza della Corte ulteriori principi e strumenti di tutela, che hanno trovato la massima espressione nella affermazione del principio della responsabilità degli Stati membri per omessa o incompleta o non corretta esecuzione del diritto dell’Unione. In effetti, come la stessa Corte ha richiamato ancora una volta all’obbligo di leale cooperazione affermando che “sarebbe messa a repentaglio la piena efficacia delle norme comunitarie e sarebbe infirmata la tutela dei diritti da esse riconosciuti se i singoli non avessero la possibilità di ottenere un risarcimento ove i loro diritti siano lesi da una violazione del diritto comunitario imputabile ad uno Stato membro [...] ne consegue che il principio della responsabilità dello Stato per danni causati ai singoli da violazioni del diritto comunitario ad esso imputabili, trova suo fondamento anche nell’art 5 del Trattato”. La corte ha chiarito che il principio va applicato indipendentemente dalla natura dell’organo che ha posto in essere l’azione o l’omissione, sicché la responsabilità può derivare anche da fatti imputabili al legislatore nazionale, al di là e a prescindere della configurabilità nei singoli ordinamenti di un illecito a carico del potere legislativo. E potrà derivare anche dai comportamenti e dalle prassi delle giurisdizioni nazionali che si siano pronunciati in via definitiva. Quanto alle condizioni per la sussistenza della responsabilità dello Stato, la Corte muove dalla premessa che in questa materia la tutela dei diritti attribuiti ai singoli on può variare in funzione della natura, nazionale o comunitaria, dell’organo che ha cagionato il danno. Resta ferma la regola che per l’individuazione delle condizioni si deve tener conto di principi propri dell’ordinamento giuridico dell’Unione che costituiscono il fondamento per la responsabilità dello Stato, e cioè la piena efficacia delle norme dell’Unione e l’effettività della tutela dei diritti da esse garantiti, da un lato, e l’obbligo di cooperazione incombente agli Stati membri dall’altro. Più puntualmente, la Corte richiede la sussistenza di tre condizioni: la norma dell’Unione deve essere preordinata ad attribuire diritti a favore del singolo; deve trattarsi di una violazione grave e manifesta; deve esistere un nesso di causalità tra la violazione dell’obbligo incombente allo Stato e il danno subito. La stessa Corte ha poi fornito alcuni elementi di valutazione tra i quali meritano di essere ricordati: il grado di chiarezza e precisione della norma dell’Unione che si assume violata, il carattere intenzionale o meno della trasgressione commessa o del danno causato, la scusabilità dell’errore di diritto e la circostanza che la violazione possa essere indotta da comportamenti delle istituzioni dell’Unione; la violazione può essere presunta quando uno Stato era vincolato ad un preciso obbligo di risultato; deve invece essere accertata un concreto nei casi in cui esso goda di un certo margine di discrezionalità, occorre quindi verificare se abbia disconosciuto “in modo palese e grave” i limiti che si impongono all’esercizio dei suoi poteri. Ove le indicate condizioni ricorrono sono considerate ‘necessarie e sufficienti’ alla sussistenza di un dolo o di una colpa nella condotta dello Stato. Una volta accertata la violazione sulla base dei parametri comunitari, dovrà poi farsi riferimento agli ordinamenti giuridici nazionali per individuare le condizioni e le modalità dell’azione di danni. Ciò in base al ricordato principio dell’autonomia procedurale di detti ordinamenti. 3. La qualificazione in Italia delle situazioni giuridiche soggettive fondate su norme dell’unione Un cenno va fatto ad una questione sollevata da un giurista italiano, cioè di valutare se tale giurisprudenza si rifletta, ed eventualmente in che modo ed in quale misura, sulla tormentata distinzione tra diritti soggettivi e interessi legittimi, che è ben nota nel nostro ordinamento, ma sconosciuta a quello dell’Unione e degli Stati membri. Nella giurisprudenza della Corte si parla normalmente di “diritti” o al più di “posizioni giuridiche individuali” mai degli “interessi legittimi” del nostro ordinamento determinando un certo disorientamento in una parte della dottrina e della giurisprudenza italiane. Visto che la tutela richiesta dalla Corte si riferisce in modo indistinto a tutte le posizioni giuridiche dei privati, si è posta la questione se non debba indursi anche il superamento della dicotomia diritti soggettivi - interessi legittimi, nel senso che anche i secondi dovrebbero essere valutati come ‘diritti soggetti’ o che tutti debbano confondersi in una nuova e generica: quella dei ‘diritti soggettivi comunitari’. La Corte non hai mai preteso interferire nella qualificazione di nozioni ed istituti degli ordinamenti interni; ma ha addirittura mostrato una palese riluttanza ad essere coinvolta nella questione, sfuggendo per quanto possibile ai quesiti che le erano stato sottoposti circa questa qualificazione. La Corte conferma che una certa disposizione del diritto dell’Unione ha efficacia diretta ed “attribuisce al singolo dei diritti che il giudice nazionale è tenuto a salvaguardare” limitandosi semplicemente a rinviare alle qualificazioni attribuite a dette situazioni giuridiche dai singoli ordinamenti nazionali e ai modi e alle forme di tutela che tali ordinamenti riservano alle medesime. Quello che alla Corte interessa è che deve essere garantita per tutte quelle posizioni giuridiche una piena tutela giurisdizionale: questa potrà variare da un ordinamento all’altro e in relazione alla natura della specifica posizione giuridica, ma deve essere comunque adeguata ed effettiva. 4. Valutazioni conclusive. Le discriminazioni a rovescio La Corte ha saputo creare intorno alle situazioni giuridiche tutelate dal diritto dell’Unione una solida rete di protezione. Gli stessi Stati membri non godono più di quella sorta di impunità che la mancanza di concreti strumenti di tutela aveva loro offerto per lungo tempo. Siffatti comportamenti sono ora diventati molto poco ‘convenienti’, non solo perché le nuove disposizioni in materia consentono alla Corte di sanzionare in modo diretto e efficace l’inadempimento, ma perché esce di molto rafforzata la posizione dei titolari delle situazioni giuridiche lese da tale inadempimento. Se la violazione riguarda disposizioni dell’Unione direttamente applicabili, quei soggetti potranno far valere le proprie pretese davanti ai giudici nazionali; essi potranno altresì, quale cioè sia la natura della norma violata, chiedere il risarcimento dei danni subiti. Quella sorta di ombrello volto a tutelare i privati quando rivendicano diritti fondanti sulle norme dell’Unione, opera in maniera determinante all’interno di uno Stato membro situazione di disparità in danno dei soggetti di tale Stato che, pur vantando le medesime pretese, non abbiano fatto uso delle libertà sancite dai Trattati e che quindi non possono fruire dei diritti conferiti dalla normativa dell’Unione; col risultato che l’applicazione di quest’ultima si traduce in simili casi in una discriminazione a vantaggio degli omologhi soggetti stranieri, c.d. “discriminazioni a rovescio”. L’ordinamento dell’Unione non può occuparsi di simili ipotesi, perché le c.d. ‘situazioni giuridiche puramente interne’, quelle cioè che non hanno dimensione transfrontaliera perché sorte ed esaurite all’interno di uno stesso Stato membro, vanno valutate esclusivamente dal giudice nazionale alla luce degli strumenti offerti dal proprio ordinamento. Questo è in ogni caso quel che è avvenuto per quanto riguarda l’Italia, che sembra ora aver trovato soluzione esemplari facendo leva sul principio di uguaglianza sancito dell’art 3 Cost. Il principio della parità di trattamento dei cittadini italiani rispetto ai cittadini degli altri Stati membri dell’Unione europea residenti o stabiliti nel territorio nazionale. PARTE III “obiettivi e competenze dell’unione” Capitolo I “valori e obiettivi dell’unione” 5. Premessa Nel corso del tempo l’azione dell’Unione si è via via ampliata in misura impensabile negli anni ’50. Dalla semplice instaurazione di un mercato comune essa si è infatti estesa ad aree sempre più numerose e importanti al punto che può dirsi che non c’è oggi settore che non possa cadere sotto l’impresa delle istituzioni europee. Col tempo, peraltro, l’insieme delle c.d. politiche dell’Unione si è altresì arricchito il fondamento politico ideale del processo di integrazione e dei suoi obiettivi. 6. I principi e i valori A partire dall’AUE sono stati inseriti nei testi richiami sempre più puntuali riguardo ai principi e ai valori su cui si fonda l’Unione. E ciò a seguito di un’evoluzione che ha trovato espressione in una serie di documenti delle supreme istanze dell’Unione (dalla Dichiarazione sull’identità europea fino alla Carta dei diritti fondamentali) ma soprattutto nella giurisprudenza della Corte di giustizia. Oggi grazie a tali sviluppi i valori dell’Unione sono enunciati in modo esplicito e sistematico già nei “Considerando” del preambolo del TUE e soprattutto nei primissimi articoli dello stesso. L’art. 2 TUE proclama infatti che l’Unione si fonda sui “valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani”, valori che sono assunti in quanto comuni agli Stati membri “in una società caratterizzata dal pluralismo, dalla non discriminazione, dalla tolleranza, dalla giustizia e dalla parità tra uomini e donne”. Si tratta di una serie di valori che contribuiscono a caratterizzare l’Unione con gli attribuiti più qualificanti del moderno Stato democratico e definiscono l’essenza stessa dell’identità europea. Va poi rilevato come tuttavia l’art.2 del TUE non è l’unica disposizione a richiamare i valori fondanti dell’Unione. Vanno citate altre fonti e in particolare: i principi di trasparenza e prossimità (art.1 TUE), il rispetto dell’uguaglianza degli Stati membri (art.4 TUE), la tutela dei diritti fondamentali (art. 6 TUE), la connotazione dei diritti legati alla cittadinanza europea (art. 9 TUE). Conviene d’aggiunta indicare che gli indicati valori dell’UE non costituiscono mere enunciazioni di ideali perché il loro mancato rispetto produce conseguenze giuridiche per le istituzioni dell’UE e per gli Stati membri. Per quest’ultimi la mancata osservanza può determinare l’imposizione di importanti sanzioni che possono comportare la perdita del diritto di voto in seno al Consiglio. Ma riflessi possono riguardare anche Stati terzi con riguardo al fatto che, anzitutto, il fatto che uno Stato si impegni per la promozione e la salvaguardia di questi principi fondanti costituisca una condizione imprescindibile per la sua eventuale adesione all’UE. Quanto alle istituzioni e a tutti gli organismi dell’UE la loro osservanza è invece divenuta un parametro di legalità dei relativi comportamenti. 7. Gli obiettivi Come più volte detto, i Trattati non lasciano all’Unione la libertà di definire i propri obiettivi ma provvedono essi stessi a elencarli in conformità del principio delle competenze di attribuzione. La norma enuncia quindi tutti gli obiettivi dell’Unione ma poi a specificarli provvederanno in piccola parte le successive disposizioni del TUE. Emerge così una vasta gamma di obiettivi dell’Unione che vengono elencati ora in termini meno approssimativi e ben più ampi di quelli prettamente economici che caratterizzavano le originarie Comunità. Nessuna gerarchia è però fissata tra essi ancorché non sempre risulti facile conciliarli. Spetta evidentemente al legislatore dell’Unione trovare l’appropriato equilibrio al riguardo. Secondo l’art. 3 TUE gli obiettivi includono, nell’ordine : o la promozione della pace e dei valori dell’Unione e del benessere dei suoi popoli; o la creazione di uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia in cui sia assicurata la libera circolazione delle persone e l’adozione di misure in merito ad asilo, immigrazione, prevenzione della criminalità e lotta contro quest’ultima o l’instaurazione di un mercato interno basato su crescita economica equilibrata, sulla stabilità dei prezzi e che mira alla piena occupazione e al progresso sociale; o l’istituzione di un’unione economica e monetaria che abbia come moneta unica l’euro; o infine, nelle relazioni internazionali, l’affermazione e la promozione dei propri valori e interessi contribuendo alla protezione dei cittadini europei anche al di fuori dei suoi confini. È ancora opportuno ribadire che l’enunciazione degli indicati obiettivi non implica che l’Unione sia libera di adottare qualsiasi misura volta a perseguirli. È nelle disposizioni materiali dei Trattati che andranno di volta in volta ricercate le coordinate degli effettivi poteri di cui le istituzioni dispongono per il concreto perseguimento di detti obiettivi. Capitolo II “la cittadinanza dell’unione” 2. natura e significato della cittadinanza dell’unione Una delle idee principali che ha caratterizzato i successivi sviluppi dell’integrazione europea e del suo diritto è quella della assimilazione tra i cittadini degli Stati membri. Essi non sono “stranieri” ma ciascuno di loro, in qualsiasi Stato membro si trovi, deve tendenzialmente godere dello stesso trattamento riservato da quello Stato ai propri cittadini. Tale assimilazione non ha solo rappresentato uno strumento di politica legislativa ma anche uno strumento di affermazione dell’Unione come spazio identitario. In questo processo, un punto di svolta essenziale è stato segnato dalla previsione (originariamente dovuta al Trattato di Maastricht) di una “cittadinanza dell’Unione”. Questa previsione ha trasformato il graduale processo di arricchimento delle posizioni giuridiche in capo ai cittadini degli Stati membri nell’attribuzione agli stessi di un più completo status definito dalla Corte : “lo status fondamentale dei cittadini degli Stati membri”. Questo status consente a chi tra i cittadini degli Stati membri “si trovi nella medesima situazione, di ottenere, indipendentemente dalla cittadinanza, il medesimo trattamento giuridico”. Il possedimento di tale status poi ha rappresentato non solo la possibilità di beneficiare di un insieme di diritti, ma d’aggiunta l’esistenza di un legame politico tra i cittadini degli Stati membri e il riconoscimento agli stessi di un particolare diritto : la partecipazione alla vita democratica dell’Unione. Il discorso relativo alla cittadinanza comunitaria va poi concluso rilevando che questa non va a sostituirsi alla cittadinanza nazionale. Se questa tende comunque in principio a regolare la posizione dell’individuo rispetto allo Stato di cui è cittadino, la cittadinanza europea fa sentire i suoi effetti sulla posizione del cittadino all’interno degli Stati membri. I diritti che le si riconnettono incidono infatti sul rapporto dei singoli con gli Stati membri. 3. Acquisto e perdita della cittadinanza dell’unione approvazione del Parlamento), può adottare disposizioni volti a consentire un’integrazione dei diritti di cui all’art.20 le quali entreranno in vigore una volta approvate dagli Stati membri secondo le rispettive procedure costituzionali. Capitolo III “il sistema delle competenze” 2. Il principio delle competenze di attribuzione Il sistema giuridico dell’Unione è basato sull’attribuzione alle istituzioni dell’UE della competenza ad agire in una serie di materie e solo in quelle. L’UE non dispone cioè di una competenza generale ma “agisce esclusivamente nei limiti delle competenze che le sono attribuite dagli Stati membri nei trattati per realizzare gli obiettivi da questi stabiliti” (c.d. “principio di attribuzione”). Prima del Trattato di Lisbona i Trattati istitutivi non contenevano in forma esplicita una lista delle competenze attribuite alle istituzioni, queste erano desumibili dagli obiettivi dell’Unione. Ma a quegli obiettivi non corrispondeva necessariamente una attribuzione esplicita di competenza all’Unione. Un quadro preciso delle loro competenze e dell’effettiva portata delle stesse era ricavabile solo da un esame delle singole disposizioni dei Trattati, in particolare quelle che disciplinavano nel concreto l’azione delle istituzioni in relazione ad una determinata materia. Per introdurre maggior chiarezza, il TFUE fornisce ora in alcuni articoli iniziali un’elencazione puntuale dei diversi settori di competenza dell’Unione. Sono enumerati nell’art. 3 i settori in cui all’Unione è attribuita una competenza esclusiva (unione doganale, regole di concorrenza per il funzionamento del mercato interno, politica monetaria per gli Stati membri la cui moneta è l’euro, politica commerciale comune); nell’art 4 i settori in cui la competenza dell’Unione è concorrente con quella degli Stati membri (mercato interno, politica sociale, coesione economica, sociale e territoriale, spazio di libertà, sicurezza e giustizia, problemi comuni di sicurezza in materia di sanità pubblica) nell’art .4 e negli artt. 5 e 6 le competenze dell’Unione per svolgere azioni intese a sostenere, coordinare o completare l’azione degli Stati membri. L’art 2 poi ricorda che “l’Unione ha competenza per definire e attuare una politica estera e di sicurezza comune, compresa la definizione progressiva di una politica di difesa comune”. Ma il TFUE si limita ad enumerare solo i “principali” ambiti di competenza. Gli articoli elencati del TFUE elencano i settori in cui l’Unione esercita la sua competenza, ma non le competenze che essa effettivamente esercita in quei settori. Per determinare l’effettiva “portata e le modalità di esercizio delle competenze dell’Unione” è necessario rifarsi alle disposizioni specificamente dedicate a ciascuno di quei settori. Anche alla luce di queste disposizioni, tuttavia, l’individuazione della portata precisa di una competenza dell’Unione non è sempre agevole. Per questi motivi la Corte ha affermato il principio di carattere generale secondo cui quando una disposizione degli stessi Trattati affida alle istituzioni un compito preciso, si deve ammettere “se non si vuole privare di qualsiasi efficacia detta disposizione, che essa attribuisca (loro) i poteri indispensabili per svolgere questa missione”. Un’applicazione particolarmente coerente con questo orientamento la Corte l’ha fatta in passato in relazione alla competenza della Comunità a concludere accordi internazionali con Stati terzi. Il TCE infatti prevedeva questa competenza solo in casi specifici affermando che “ogniqualvolta il diritto comunitario abbia attribuito alle istituzioni della Comunità poteri sul piano interno per realizzare un certo obiettivo, la Comunità è competente ad assumere gli impegni internazionali necessari per raggiungere tale obiettivo, anche in mancanza di espresse disposizioni al riguardo”. Questo principio del c.d. parallelismo tra competenze interne e competenze esterne ha oggi consacrazione nei Trattati del TFUE, precisando che l’Unione ha competenza per la conclusione di accordi internazionali allorché tale conclusione è “necessaria per consentirle di esercitare le sue competenze a livello interno”. 3. La clausola di flessibilità La riferibilità del principio delle competenze di attribuzione alle sole competenze disciplinate nei Trattati ha trovato un’attenuazione nella c.d. clausola di flessibilità la quale consente a determinate condizioni un’azione dell’Unione anche al di fuori di un’attribuzione specifica di competenza. Con il Trattato di Lisbona la clausola di flessibilità è ripresa nel TFUE, diventando così di applicazione nei settori di attività dell’attività dell’Unione. L’art 352 ribadisce che “se un’azione dell’Unione appare necessarie per realizzare uno degli obiettivi di cui ai trattati senza che questi ultimi abbiano previsto i poteri di azione richiesti a tal fine, il Consiglio, deliberando all’unanimità su proposta della Commissione e previa approvazione del Parlamento europea, adotta le disposizioni appropriate”. La clausola di flessibilità nasce con la finalità essenziale di ovviare alla rigidità del principio di attribuzione che potrebbe impedire alle istituzioni di prendere misure ritenute indispensabili per gli sviluppi del processo di integrazione europea. Essa copre quindi l’ipotesi in cui quei poteri non siano desumibili da una disposizione dei Trattati neanche sulla base di un’interpretazione estensiva della stessa. Proprio perché permette alle istituzioni di agire al di là dei confini posti dal principio delle competenze di attribuzione, il ricorso alla clausola di flessibilità è soggetto a condizioni procedurali rigorose. Fin dall’inizio è stata prevista la condizione di delibera all’unanimità del Consiglio, da prendere su proposta della Commissione e previa consultazione del Parlamento. Con il Trattato di Lisbona, alla condizione del voto unanime del Consiglio è stata aggiunta quella di un’approvazione previa del Parlamento, il quale è così chiamato a dare non più soltanto un parere non vincolante sul ricorso alla clausola di flessibilità, ma può porre il suo veto alla decisione del Consiglio. È fondamentale che l’azione da intraprendere debba essere necessaria alla realizzazione di uno degli obiettivi dei Trattati. E un limite intrinseco al ricorso alla clausola di flessibilità è stato indicato dalla Corte di Giustizia nel fatto che la clausola, “essendo parte integrante di un ordinamento istituzionale basato sul principio delle competenze di attribuzione, non può costituire il fondamento per ampliare la sfera dei poteri dell’Unione al di là dell’ambito generale risultante dal complesso delle disposizioni del Trattato” né esso “può essere utilizzato come base per l’adozione di disposizioni che condurrebbero sostanzialmente, con riguardo alle loro conseguenze, a una modifica del trattato che sfugga alla procedura prevista dal trattato medesimo” alterando così l’equilibrio istituzionale. Dall’ambito di applicazione delle clausole di flessibilità è escluso, per espressa previsione dell’art 352, il settore della politica estera e di sicurezza comune. Secondo il par.4 di detto articolo la clausola “non può servire di base per il conseguimento di obiettivi riguardanti la politica estera e di sicurezza comune” evitando così il rischio che attraverso un’azione presa ai sensi dell’art 352 si possano alterare i meccanismi specifici di questo settore, a partire da quelli relativi alla presa di decisione. È ovvio che, laddove gli obiettivi della PESC fossero perseguibili per mezzo di misure basate sull’art.352 TFUE, le istituzioni finirebbero per giocare in quel settore un ruolo tutt’altro che marginale che gli articoli del TUE in merito alla PESC formalmente riservano loro. 4. Le competenze esclusive e competenze concorrenti e parallele È l’art. 2 a ripartire le competenze dell’Unione in diverse categorie, individuate in funzione del rapporto esistente tra tali competenze e quelle degli Stati membri dando nel contempo conto delle conseguenze derivanti dalla riconducibilità all’una o all’altra categoria di una determinata competenza. Ne emerge l’esistenza, accanto a competenze c.d. esclusive, perché il loro esercizio spetta solo alle sole istituzioni dell’Unione, di altre competenze il cui trasferimento a quest’ultima non ha fatto venir immediatamente o interamente meno la corrispondente competenza degli Stati membri. L’articolo precisa anzitutto che “quando i Trattati attribuiscono all’Unione una competenza esclusiva in un determinato settore, solo l’Unione può legiferare e adottare atti giuridicamente vincolanti. Gli Stati membri possono farlo autonomamente solo se autorizzati dall’Unione oppure per dare attuazione agli atti dell’Unione”. Il carattere esclusivo di una competenza trasferita all’Unione comporta appunto che solo questa può agire in quella determinata materia e che gli Stati membri non sono più legittimati a farlo. In “materia di esclusiva competenza della Comunità”, provvedimenti degli Stati membri “sono ammissibili solo se specificatamente autorizzati dalla Comunità”. Tale autorizzazione può rendersi necessaria laddove le istituzioni non abbiano ancora esercitato la loro competenza esclusiva, per evitare che la corrispondente impossibilità degli Stati di agire determini un vuoto normativo nel settore di cui si tratta. Al di fuori dell’ipotesi di un’attribuzione in via esclusiva, l’esistenza di una competenza delle istituzioni non fa venire meno invece le corrispondenti competenze degli Stati membri. Ovviamente nel momento in cui le istituzioni abbiano fatto uso della loro, gli Stati membri saranno tenuti a rispettare ed applicare gli atti che ne saranno derivati. Ma in linea di principio, gli Stati non per questo risulteranno spogliati della loro competenza: essi saranno comunque liberi di agire o di legiferare in quella determinata materia, a condizione che la loro condotta o le misure da loro prese non siano contrarie agli obblighi imposti dall’Unione. Ciò è certamente vero quando il permanere in capo agli Stati di una competenza simmetrica a quella dell’Unione si verifica senza che le due sfere di competenza siano destinate a interferire tra loro sul piano formale. In tal caso, l’azione dell’Unione si prospetta come “parallela” a quella degli Stati dovendo le due azioni integrarsi sulla base di un obbligo di coordinamento finalizzato a garantire la coerenza reciproca delle politiche nazionali e della politica dell’Unione. In altri termini, come specifica espressamente il TFUE, “l’Unione ha competenza per condurre azioni, in particolare la definizione e l’attuazione di programmi, senza che l’esercizio di tale competenza possa avere per effetto di impedire agli Stati membri di esercitare la loro”. Diversamente accade quando la competenza non esclusiva dell’Unione è destinata ad intervenire, attraverso gli atti delle istituzioni, nello spazio normativo proprio degli Stati membri. Qui la competenza degli Stati è “concorrente” con quella dell’Unione. In un settore per il quale i Trattati prevedano una competenza di questo tipo, “l’Unione e gli Stati membri possono legiferare e adottare atti giuridicamente vincolanti in tale settore”. Solo che la competenza degli Stati potrà essere esercitata solo “nella misura in cui l’Unione non ha esercitato la propria”. La loro competenza incontra un limite nel fatto che laddove l’Unione abbia agito, un’azione statale diventa “ammissibile solo in quanto non pregiudichi l’uniforme applicazione delle norme dell’Unione”. Gli Stati non potranno non rispettare quello standard minimo, ma saranno liberi di “mantenere o di prendere misure di protezione più rigorose” di quelle adottate dall’Unione. La libertà di cui godranno gli Stati nell’esercizi della loro competenza dipenderà dalla portata della regolamentazione che le istituzioni decideranno di dare, a livello di Unione europea ad un data materia. Quando la competenza attribuita all’Unione è in via esclusiva, un’azione degli Stati membri è da considerarsi illecita, indipendentemente dalla sua compatibilità o meno con quanto previsto dal diritto dell’Unione: in tali ambiti gli Stati possono agire solo se autorizzati dalle istituzioni o per dare attuazione agli atti di queste. Al contrario, nel caso delle competenze concorrenti l’erosione di fatto della competenza degli Stati membri provocata dall’esercizio della corrispondente competenza delle istituzioni è un processo in astratto reversibile, nel senso che gli Stati potrebbero ricominciare ad esercitare liberamente la loro dal momento e nella misura in cui l’Unione decidesse di esercitare la propria modificando o abrogando la normativa comune precedentemente adottata. 5. La classificazione delle competenze dell’unione Il TFUE non si limita a identificare diverse categorie di competenza dell’Unione in relazione al rapporto di queste con le corrispondenti competenze degli Stati; in alcuni articoli esso enumera puntualmente le competenze dell’Unione, ripartendole in ciascuna di quelle categorie. La difficoltà di comprendere appieno le ragioni della classificazione data dal TFUE è particolarmente acuta per quanto riguarda i settori in cui l’Unione esercita competenze esclusive. Questo dovrebbe riscontrarsi in settori nei quali una gestione da parte delle sole istituzioni appaia intrinsecamente connaturata agli obiettivi da perseguire, al punto che un’azione autonoma degli Stati membri comprometterebbe di per sé la realizzazione di quegli obiettivi. Ad una situazione del genere sembrano corrispondere i settori elencati nell’art 3 del TFUE. Ad esempio la politica monetaria, poiché al centro di essa vi è ormai la moneta unica, il permanere di una competenza degli Stati membri sarebbe in contraddizione con l’esistenza di questa e priverebbe di efficacia la gestione della moneta. Altrettanto per l’unione doganale, dato che dopo l’instaurazione della tariffa doganale comune l’adozione dei provvedimenti necessari alla sua gestione non possono più essere che il frutto di decisioni delle istituzioni dell’Unione. Lo stesso sembra con riguardo a settori quali regole di concorrenza necessaria al funzionamento del mercato interno, la conservazione delle risorse biologiche del mare nel quadro della politica comune della pesca, e la politica commerciale comune considerati nell’art 3 settori di competenza esclusiva dell’Unione. Venendo invece alle competenze non esclusive, esse sono ripartite anche dal TFUE in due diverse categorie. Quelle c.d. parallele, perché il loro esercizio da parte dell’Unione non preclude agli Stati di esercitare la loro, sono raggruppate nell’art 6 il quale elenca i settori in cui l’Unione ha “competenza per svolgere azioni intese a sostenere, coordinare o completare l’azione degli Stati membri”. Ma seppur non elencate in questo articolo possono farsi rientrare nella categoria anche le competenze di coordinamento degli Stati membri in materia di politiche economiche, occupazionali e sociali. Le azioni svolte dall’Unione hanno un carattere di mero coordinamento ovvero si completano o rafforzano reciprocamente con quelle degli Stati membri, senza che gli atti adottati delle istituzioni possano comportare un’armonizzazione delle disposizioni legislative o regolamentari nazionali, o che la competenza dell’Unione si sostituisca alle competenze degli Stati. Tutte le restanti competenze rientrano nella categoria delle competenze concorrenti. Secondo l’art 4 TFUE “l’Unione ha competenza concorrente con quella degli Stati membri quando i Trattati le attribuiscono una competenza che non rientra nei settori di cui agli articoli 3 e 6”. 6. I principi di sussidiarietà e di proporzionalità L’espansione data, nelle successive modifiche dei Trattati, al quadro delle competenze dell’Unione ha avuto come contrappeso la sottoposizione dell’esercizio della gran parte di queste a due principi che sono disciplinati a livello dei Trattati: il principio di sussidiarietà e il principio di proporzionalità. Il primo di questi trova il suo riscontro col Trattato di Maastricht. L’art. 2 del vecchio TUE stabiliva che “gli obiettivi dell’Unione saranno perseguiti nel rispetto del principio di sussidiarietà” prevedendo che “la Comunità interviene secondo il principio della sussidiarietà, soltanto se e nella misura in cui gli obiettivi dell’azione prevista non possono essere sufficientemente realizzati dagli Stati membri e possono dunque, essere realizzati meglio a livello comunitario”. Si evince allora la finalità del principio di sussidiarietà di garantire che le decisioni siano adottate il più vicino possibile al cittadino. E non a caso nei settori che non sono di sua esclusiva competenza l’Ue interviene soltanto quando la sua azione è considerata più efficace di quella intrapresa a livello nazionale, regionale o locale. L’articolo limita l’applicazione del suddetto principio ai settori che non rilevano della competenza esclusiva dell’Unione e come emerge dalla sua stessa formulazione il principio costituisce in criterio di ripartizione in concreto di una competenza condivisa. Il principio in questione è invece oggi oggetto di una trattazione specifica all’interno del Protocollo (n.2) sull’applicazione dei principi di sussidiarietà e proporzionalità, che, approvato col Trattato di Lisbona, ha sostituito un precedente Protocollo sullo stesso oggetto. La prima novità introdotta dal nuovo Protocollo risiede nel fatto che il suo ambito di applicazione è limitato ai soli progetti di atti legislativi, gli atti da adottare cioè conformemente ad una procedura legislativa. Ciò non significa che atti diversi da quelli legislativi non debbano rispettare il principio di sussidiarietà, ma che unicamente quelli che presentano tale carattere sono soggetti alla specifica procedura di controllo sul rispetto del principio prevista dal Protocollo. Una seconda novità sta nella procedura di controllo istituita dal nuovo Protocollo che coinvolge formalmente i parlamenti degli Stati membri. Tanto i progetti di atti legislativi dell’Unione che le deliberazioni preparatorie che portano all’adozione di tali atti dovranno essere trasmessi ai parlamenti nazionali. Ciascun parlamento potrà eccepire la sono solo i cittadini degli Stati membri che abbiano la qualifica di "lavoratore", con l'avvertenza che la caratteristica essenziale del rapporto di lavoro è la circostanza che una persona fornisca, per un certo periodo di tempo, a favore di un'altra e sotto la direzione di quest'ultima, prestazioni in contropartita delle quali riceva una retribuzione. La libertà in esame comporta una serie di diritti (diritto di rispondere ad offerte di lavoro effettive, sposarsi liberamente nel territorio, prendere dimora in uno degli Stati membri al fine di svolgervi un'attività di lavoro, etc.). Anche la libertà di circolazione dei lavoratori può essere limitata per motivi di ordine pubblico, di pubblica sicurezza e di sanità pubblica. o Oltre che ai lavoratori subordinati, il trattato assicura la libertà di circolazione anche agli operatori indipendenti degli Stati membri, attribuendo loro il diritto di spostarsi in un altro Stato membro per esercitarvi la propria attività. Per tali operatori siano essi persone fisiche ,o anche a certe condizioni persone giuridiche, il Trattato detta una distinta disciplina a seconda che si tratti del loro diritto di stabilimento o della libera prestazione dei loro servizi. Il diritto allo stabilimento consiste nel diritto dei cittadini di uno stato membro di recarsi in un altro stato membro ed ivi inserirsi in modo stabile e continuativo al fine di accedere alle attività non salariate e al loro esercizio alle condizioni definite dalla legislazione dello stato ospite per i propri cittadini (art. 49). Esso può essere primario, quando il soggetto si stabilisce in uno Stato membro diverso dal proprio, istituendovi la sede principale, o secondario, quando dopo aver esercitato il proprio diritto di stabilimento primario, il soggetto si sposta in un altro Stato membro per aprirvi "agenzie, succursali o filiali". La libera prestazione di servizi si fonda invece sul divieto di ogni restrizione alla prestazione di servizi all'interno dell'unione da parte "dei cittadini degli Stati membri stabiliti in uno Stato membro che non sia quello destinatario della prestazione" (art. 56), per modo che il prestatore possa "esercitare la sua attività nello Stato membro ove la prestazione è fornita, alle stesse condizioni imposte da tale stato per i propri cittadini" (art. 57). Benché disciplinate separatamente, le due libertà presentano un impianto molto simile, perché si tratta di favorire la circolazione di operatori indipendenti nel mercato comune; di consentire ai cittadini di uno stato membro la prestazione di attività non salariate in un altro stato membro. Più precisamente viene sancito il principio fondamentale secondo cui, fatte salve alcune limitazioni (artt. 51-52), devono essere gradualmente soppresse le restrizioni esistenti all'esercizio del diritto di stabilimento dei cittadini UE in un altro stato membro e alla libera prestazione dei servizi da parte "dei cittadini degli Stati membri stabiliti in uno stato membro che non sia quello destinatario della prestazione", con l'intesa che il beneficio può essere esteso dal legislatore dell'UE ai cittadini di paesi terzi stabiliti all'interno della stessa unione. Per entrambe le ipotesi, la liberalizzazione non è imposta con immediatezza, ma con graduale progressione. Il trattato affida al legislatore il compito di adottare apposite direttive oltre non solo a rimuovere le restrizioni esistenti (c.d. direttive di assimilazione), ma anche ad agevolare quel risultato favorendo il riconoscimento dei diplomi e il coordinamento delle normative nazionali che regolano le condizioni di accesso e di servizio delle attività in questione (c.d. direttive di armonizzazione). Ad ogni modo entrambe le libertà possono venire in rilievo solo se l'attività economica oggetto della prestazione abbia carattere transfrontaliero o transnazionale, vale a dire solo in presenza di situazioni che trascendano i confini di un singolo Stato. Al di fuori di questi casi si è in presenza di situazioni puramente interne per le quali le disposizioni liberalizzatrici del Trattato non possono essere invocate dagli interessati. Al pari delle altre libertà sancite dal Trattato, anche quelle in esame si caratterizzano per la loro ampia portata e la loro tendenziale assolutezza, nel senso che soffrono unicamente le eccezioni espressamente indicate dai testi o dalla giurisprudenza della Corte. Per le prime si fa riferimento alle limitazioni giustificate da considerazioni legate all’ordine pubblico, alla pubblica sicurezza e alla sanità pubblica; ma rilevano poi, anche in questa materia, le limitazioni individuate dalla Corte e che si giustificano in nome di motivi imperativi di interesse generale. o Ai fini della costruzione del mercato interno la libera circolazione dei capitali e dei pagamenti, disciplinata dagli artt. 63-66, è stata inizialmente definita in termini meno rigorosi. All’inizio il TCEE si limitava ad enunciare la “soppressione graduale delle restrizioni esistenti” tra gli Stati membri e solo “nella misura necessaria ad un buon funzionamento del mercato comune” mentre generose clausole di salvaguardia limitavano ulteriormente gli obblighi degli Stati membri in materia. La svolta cominciò a partire da metà degli anni 80. La liberalizzazione implica il divieto di restrizioni ai movimenti di capitali e ai pagamenti tra Stati membri, nonché tra Stati membri e paesi terzi. Ai fini di tale divieto non rileva quindi né la nazionalità, né la residenza dei soggetti interessanti, ma la localizzazione dei capitali nel territorio di uno degli Stati membri, anche se i rapporti con gli stati terzi non sono interamente assimilabili a quelli tra Stati membri, perché i movimenti di capitali provenienti da paesi terzi o ad essi diretti si svolgono in un contesto giuridico diverso. Quanto alla portata del divieto, si deve ricordare che la Corte di giustizia ha chiarito che, fatte salve alcune restrizioni, esso investe qualsiasi misura, prassi o provvedimento nazionale che sia tale da impedire, ostacolare o rendere più difficile per i cittadini UE il beneficiare delle condizioni più favorevoli offerte in un qualsiasi stato dell'Unione per investire o semplicemente collocare i propri capitali, ovvero da dissuadere i non residenti in uno stato membro dal fare investimenti in tale stato o i residenti di farli in un altro stato membro. In proposito, un cenno particolare merita l'applicazione del divieto agli investimenti diretti. Sotto tale divieto ricadono le misure nazionali che prevedono procedure di autorizzazione per siffatti investimenti operati da soggetti stranieri. Ma soprattutto vi ricadono le norme nazionali che conferiscono allo stato un'influenza sulla gestione e sul controllo di una società non giustificata dall'ampiezza della partecipazione da esso detenuta nella stessa; e ciò, perché una simile influenza può scoraggiare gli operatori di altri stati membri dall'effettuare investimenti diretti in detta società visto che non potrebbero concorrere alla gestione e al controllo di essa in proporzione al valore delle loro partecipazioni. 2. Lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia La normativa che i trattati dedicano alla “Spazio di libertà, sicurezza e giustizia” (artt. 67-89 TFUE) sancisce la conclusione della lunga marcia di "comunitarizzazione" di quel complesso di materie che si è via via imposto sulla scena europea come indispensabile componente del processo di integrazione (es. Accordi di Schengen). Solo con il trattato di Lisbona i diversi profili della materia sono stati ricongiunti nel titolo V del TFUE, che li ricorda su 3 filoni: libertà, sicurezza, giustizia. o Lo spazio libertà si specifica su 3 assi, relativi ai controlli delle frontiere, all'asilo e all'immigrazione, ciascuno oggetto di specifica e separata normativa. Quanto ai controlli alle frontiere, l'art. 77 abilita il legislatore dell'UE ad adottare le misure necessarie : a garantire l'abolizione dei controlli sulle persone all'atto dell'attraversamento delle frontiere tra i territori degli Stati membri (frontiere interne); ad assicurare l'efficace sorveglianza sull'attraversamento delle frontiere esterne e la progressiva istituzione di un sistema integrato di gestione delle stesse. Ai controlli provvedono di norma, le guardie di frontiera nazionali, all'occorrenza con l'assistenza e la cooperazione degli altri Stati membri (gestione integrata); ad organizzare il controllo delle persone, fissando le condizioni alle quali i cittadini dei paesi terzi possono liberamente circolare nell'UE per un breve periodo. La politica dell'UE, rispetto all'ingresso e al soggiorno dei cittadini degli stati terzi deve fare i conti con gli obblighi internazionali imposti a questi ultimi e all'UE in materia di asilo, protezione sussidiaria e di protezione temporanea. L'art. 78 impone all'UE di definire una politica comune "volta ad offrire uno status appropriato a qualsiasi cittadino di un paese terzo che necessita protezione internazionale e a garantire il rispetto del principio di non respingimento [in conformità] alla Convenzione di Ginevra e al protocollo 31/1967 relativi allo status dei rifugiati", Convenzione della quale sono parti tutti gli Stati membri (ma non l'UE) e che impone il divieto di espellere o respingere i rifugiati e i richiedenti asilo verso luoghi in cui la loro vita o la loro libertà sarebbero in pericolo. Lo stesso art. 78 abilita il legislatore europeo ad adottare tutte le misure necessarie ad istituire un "sistema europeo comune di asilo", precisando che le predette misure devono includere: uno status uniforme in materia di asilo a favore di cittadini di paesi terzi, valido in tutta l'UE; uno status uniforme in materia di protezione sussidiaria per i cittadini dei paesi terzi che necessitano di protezione internazionale; un sistema comune volto alla protezione temporanea degli sfollati in caso di afflusso massiccio; procedure comuni per l'ottenimento e la perdita dello status; criteri e meccanismi di determinazione dello stato membro competente per l'esame di una domanda di asilo o di protezione sussidiaria. Quanto infine all'immigrazione, il trattato impone all'UE di sviluppare una politica comune "intesa ad assicurare la gestione efficace dei flussi migratori, l'equo trattamento dei cittadini dei paesi terzi regolarmente soggiornanti negli Stati membri e la prevenzione e il contrasto rafforzato dell'immigrazione illegale e della tratta degli esseri umani" (art. 79). Lo stesso articolo definisce due assi di intervento dell'UE secondo che si abbia riguardo all'immigrazione legale o a quella irregolare. Per gli immigrati in situazione regolare è stata definita una procedura per il rilascio di un permesso unico di soggiorno e di lavoro, nonché un insieme comune di diritti per i cittadini di paesi terzi che lavorano regolarmente in uno stato membro. Con riguardo all'immigrazione clandestina e al soggiorno irregolare l'UE si è dotata di norme e procedure comuni applicabili negli Stati membri al rimpatrio di cittadini di paesi terzi che si trovino in tale situazione (c.d. direttiva rimpatri). o Venendo allo spazio di giustizia, con esso l'UE tende a realizzare e rafforzare tra gli Stati membri "una cooperazione giudiziaria nelle materie civili con implicazioni transnazionali". Tale cooperazione si basa sul principio del riconoscimento reciproco delle decisioni giudiziarie ed estragiudiziali di quegli stati, principio che a sua volta si fonda sulla fiducia reciproca tra gli ordinamenti degli stessi. Per conseguire tale risultato, l’art. 81 attribuisce al legislatore dell'UE la competenza ad adottare misure volte a garantire: il riconoscimento reciproco tra gli Stati membri delle decisioni giudiziarie ed extragiudiziali e la loro esecuzione; la notificazione e la comunicazione transnazionali degli atti giudiziari ed extragiudiziali; la compatibilità delle regole applicabili negli Stati membri ai conflitti di leggi e di giurisdizione ; l'eliminazione degli ostacoli al corretto svolgimento dei procedimenti civili. o Quanto infine allo spazio di sicurezza, va detto subito che esso sancisce ,dopo un lungo e complesso percorso, la quasi totale "comunitarizzazione" della cooperazione giuridica e giudiziaria in materia penale e di polizia. Per quanto riguarda la cooperazione giuridica e giudiziaria in materia penale, essa si articola su tre filoni. Il primo riguarda il reciproco riconoscimento delle decisioni penali (art. 82): la decisione quadro sul mandato d'arresto europeo ; il secondo è il ravvicinamento delle legislazioni penali degli Stati membri (artt. 82- 83 e il terzo la prevenzione della criminalità (art. 84). A completare e rafforzare tale cooperazione concorrono l'Eurojust e la Procura europea: L’Eurojust ha "il compito di sostenere e potenziare il coordinamento e la cooperazione tra le autorità nazionali responsabili delle indagini e dell'azione penale contro la criminalità grave che interessa due o più Stati membri o che richiede un'azione penale su basi comuni" (art. 85). Novità assoluto istituita dal consiglio è poi la procura europea preposta a combattere i reati che ledono gli interessi finanziari dell’UE. Di essa il Consiglio fissa il suo statuto, le condizioni di esercizio delle sue funzioni, le regole procedurali applicabili alle sue attività e all'ammissibilità delle prove e le regole applicabili al controllo giurisdizionale degli atti procedurali che adotta nell'esercizio delle sue funzioni. L'art. 87 prevede inoltre che l'UE sviluppi anche una "cooperazione di polizia che associa tutte le autorità competenti degli Stati membri, i servizi delle dogane e altri servizi incaricati dell'applicazione della legge specializzati nel settore della prevenzione o dell'individuazione dei reati e delle relative indagini". Un ruolo di primo piano gioca l'Europol (art. 88) al quale spetta infatti il compito di sostenere e potenziare l’azione delle autorità di polizia e degli altri servizi incaricati dell’applicazione della legge degli Stati membri e la reciproca collaborazione nella prevenzione e lotta contro ogni forma di criminalità e terrorismo. Le sue azioni operative devono poi essere condotte "in collegamento e d'intesa con le autorità dello Stato membro o degli Stati membri di cui interessa il territorio", così come l'applicazione di misure coercitive resta di dominio esclusivo delle autorità nazionali competenti. 2. La politica dei trasporti Anche i trasporti presentano una spiccata peculiarità che ne ha imposto una distinta e autonoma regolazione rispetto agli altri settori del mercato interno. Più specificamente, l’art. 91 TFUE prevede che il legislatore dell’Unione può stabilire: le norme comuni applicabili ai trasporti internazionali in partenza dal territorio di uno Stato membro o a destinazione di questo; le condizioni per l’ammissione di vettori non residenti ai trasporti nazionali in uno Stato membro; le misure atte a migliorare la sicurezza dei trasporti; e ogni altra utile disposizione. Le misure adottate nel contesto di tale politica valgono però per il trasporto di cose e persone effettuato per via terrestre mentre per la navigazione marittima ed aerea esse si applicano solo se e per quanto così decida il legislatore dell’Unione. Come risultato di dette misure, infine, le antiche misure protezionistiche e discriminatorie (per motivi di nazionalità o residenza) sono state progressivamente soppresse e quasi tutti i modi di trasporto sono oggi liberalizzati. 3. Concorrenza, fiscalità e ravvicinamento delle legislazioni Si ricollegano alla realizzazione del mercato comune anche tre importanti settori oggetto di disciplina da parte del Trattato di Lisbona. o Il primo riguarda la materia della concorrenza e degli aiuti di Stato. Quale primo fine della politica dell’Unione è quello di preservare una struttura competitiva del mercato, in modo da assicurare un’efficiente allocazione delle risorse e la migliore qualità dei beni e servizi offerti alle imprese al prezzo più basso possibile, nonché una maggiore possibilità di scelta per i consumatori. Non sorprende allora che uno degli obiettivi dell’Unione sia l’instaurazione di un mercato interno imperniato sul gioco della concorrenza. Riassuntivamente, tale disciplina si incentra da un lato sul divieto alle imprese di realizzare intese ed esercitare una posizione dominante in termini pregiudizievoli per la concorrenza nel mercato interno, dall’altro, sul divieto imposto agli Stati membri di concedere alle imprese aiuti suscettibili di alterare le condizioni di concorrenza in quel mercato. Vanno anzitutto esaminate le regole relative alle imprese. In proposito, l’art. 101 TFUE prevede che, salvo le intese autorizzate dalla Commissione, perché producono benefici per il mercato tali da compensare e superare gli effetti anticoncorrenziali, esse sono incompatibili con il mercato interno e, quindi, vietati tutti gli accordi tra imprese, tutte le decisioni di associazioni di imprese e tutte le pratiche concordate che possano pregiudicare il commercio tra gli Stati membri e che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza all’interno del mercato interno. Il che comporta che l’intesa è priva di effetti nei rapporti fra i contraenti e non può essere opposta a terzi, e che in più, tale e approvati alla luce degli obiettivi fissati dalla Commissione e sottoposti a una sorveglianza che si sviluppa in vari passaggi in seno alle istituzioni dell’Unione. Meritano di essere ricordati i sei atti normativi che compongono il Six Pack (2011) con cui si è resa più rigorosa la convergenza e la sorveglianza della disciplina di bilancio degli Stati membri dell’Eurozona. Da menzionare, quale strumento per sopperire alla crisi, è il Meccanismo europeo di stabilità, da intendere come un meccanismo permanente di gestione della crisi. Il MES ha il compito di concedere assistenza finanziaria ai paesi dell’eurozona che si trovano o rischiano di trovarsi in una grave situazione di crisi finanziaria. Nello stesso anno è stato concluso il Trattato sulla stabilità, il coordinamento e la governance nell’unione monetaria ed economica, noto come fiscal compact. Con gli Stati firmatari si sono impegnati a introdurre nei propri ordinamenti, preferibilmente costituzionali, la c.d. golden rule, cioè l’obbligo di pareggio del bilancio, fornito di garanzie di correzioni automatiche con scadenze predeterminate in caso di mancato raggiungimento dello stesso. A rafforzare i poteri di controllo della Commissione sulle politiche economiche nazionali, sono stati varati due regolamenti (i c.d. Two Pack, 2013) con i quali è stata accentuata la sorveglianza economica e di bilancio su Stati dell’euro-zona che affrontino difficoltà e rischi per la loro stabilità. Nel contesto delle misure in esame poi una specifica menzione meritano gli interventi relativi al cruciale settore bancario e finanziario e in particolare quanto alla “vigilanza prudenziale” sulle banche che costituisce un elemento chiave per la stabilità di un’area unificata come l’eurozona. In materia, l’Unione aveva provveduto a creare le c.d. Autorità europee di vigilanza ma poi questa finalità è stata perseguita in modo ancor più unitario con l’istituzione del Sistema europeo di vigilanza finanziaria. 2. Occupazione e politiche sociali Oggi, la dimensione sociale, seppur non sia ancora pienamente affermata quanto ai poteri di intervento attribuiti all’Unione, è evocata già nelle norme generali ed introduttive del TUE e costituisce oggetto della c.d. clausola sociale trasversale, cioè dell’art. 9 TFUE che prevede per l’appunto che “nella definizione e nell’attuazione delle sue politiche e azioni, l’Unione tiene conto delle esigenze connesse con la promozione di un elevato livello di occupazione […] e un elevato livello di istruzione, formazione e tutela della salute umana”. o Per quanto riguarda l’occupazione è oggi disciplinata da un intero titolo del TFUE (Titolo IX, artt. 145 -150). Centrale in materia è l’art. 147 TFUE che sancisce come, la competenza dell’Ue si limita a contribuire ad un elevato livello di occupazione, promuovendo la cooperazione tra gli Stati membri e, se necessario, sostenendone ed integrandone l’azione. Ciò sempre nel rispetto delle competenze degli Stati membri. Si tratta dunque di una competenza di coordinamento delle politiche occupazionali nazionali. Viene utilizzato il metodo aperto di coordinamento: questo si basa su un sistema di spontaneo e reciproco confronto da parte degli Stati membri sulle strategie operate nel pertinente settore, sulla base di indirizzi e obiettivi comuni che conducono gli Stati verso un certo libello di armonizzazione. L’Ue interviene attraverso l’elaborazione di orientamenti in materia di occupazione, approntati da Consiglio e Commissione e sottoposti annualmente al Consiglio europeo e alla luce di tali orientamenti gli stati membri devono inviare una relazione annuale sulla propria politica occupazionale. Mentre Parlamento europeo e Consiglio, tramite procedura legislativa ordinaria, possano prendere misure di incentivazione dirette a promuovere la cooperazione tra gli Stati membri, senza armonizzare i loro ordinamenti. E’ chiaro dunque che le politiche occupazionali rimangono di competenza degli Stati membri; in tale materia ancora non si sono raggiunti obiettivi comunitari soddisfacenti. o La politica sociale si realizza oggi attraverso l’azione coordinata dell’Ue e degli Stati membri, anche se questi mantengono un controllo decisivo sulle loro politiche nazionali. Venendo al merito della pertinente disciplina, va anzitutto ricordato che gli obiettivi della politica sociale sono la promozione dell’occupazione, il miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro, una protezione sociale adeguata, il dialogo sociale, la lotta contro l’emarginazione. Per conseguire tali obiettivi, l’art. 153 par. 1 TFUE elenca una serie di materie nelle quali l’Unione è abilitata a svolgere e completare l’azione degli Stati membri. Rispetto a queste il legislatore dell’Unione può adottare misure per incoraggiare la cooperazione tra gli Stati membri nonché direttive recanti le prescrizioni minime applicabili. Ai fini della realizzazione della politica sociale, un particolare rilievo assumono le parti sociali delle quali l’Unione “riconosce e promuove il ruolo”, e tra le quali “facilita il dialogo”. Tale dialogo si svolge attraverso due specifiche strutture istituite proprio a questi fini e cioè il “Comitato per la protezione sociale” e l’apposito “Vertice sociale trilaterale per la crescita e l’occupazione”. Oltre a definire le competenze dell’Unione poi il Trattato enuncia due principi materiali da intendere come due enunciati irrinunciabili. Il primo è il principio della parità tra uomini e donne quanto alla retribuzione percepita per uno stesso lavoro quale principio generale che vieta ogni discriminazione sul sesso; il secondo riguarda il diritto alle ferie retribuite. Per supportare la politica sociale e più precisamente “migliorare le possibilità di occupazione dei lavoratori nell’ambito del mercato interno e contribuire così al miglioramento del tenore di vita”, è stato istituito il Fondo sociale europeo (FSE) con “l’obiettivo di promuovere all’interno dell’Unione le possibilità di occupazione e la mobilità geografica e professionale dei lavoratori”. 2. Le politiche settoriali Quelle fin qui considerate costituiscono (ad eccezione dello SLSG) le competenze per così dire storiche dell’Unione, nel senso che sono state a questa attribuite fin dal Trattato di Roma. Accanto ad esse, lo sviluppo del processo di integrazione ha portato ad estendere l’azione dell’Unione ad una vasta e varia gamma di altre competenze. Si tratta in quasi tutti i casi di competenza parallela o concorrente. Rientrano in particolare tutte quelle che riguardano l’azione dell’Unione in una vasta gamma di settori, e segnatamente: la cultura, Sanità pubblica, Protezione dei consumatori, Sviluppo delle reti trans europee, Industria, Coesione economica, sociale e territoriale, Politica dell’ambiente, Energia, turismo e protezione civile, Cooperazione amministrativa. Capitolo V “L’azione esterna dell’unione” 3. Evoluzione e inquadramento della materia. La personalità internazionale dell’unione e la complessità dell’azione esterna La varietà e l’importanza delle competenze delle istituzioni comunitarie spiega perché fin dalle origini la CE ha avuto una proiezione esterna: un compiuto esercizio di quelle competenze non sarebbe stato possibile senza che l’azione investisse anche i rapporti con il mondo circostante. Ciò si è manifestato in un complesso molto ampio di attività, di diversa natura, svolte sul piano internazionale: rapporti di natura diplomatica, relazioni con organizzazioni internazionali, partecipazione a conferenze diplomatiche, stipulazione di accordi con paesi terzi. Per lungo tempo queste attività sono state svolte in modo strettamente funzionale alla specifica politica comunitaria cui ciascuna si ricollegava, senza essere inserite in un disegno unitario. Recentemente si è invece affermata l’esigenza che l’azione internazionale fosse inquadrata nell’ambito di una politica estera comune. All’inizio si trattava di una mera cooperazione tra gli Stati membri, pur se inserita in un quadro formale di consultazione; poi il trattato di Maastricht la trasforma in un sistema strutturato, nell’ambito del quale l’Ue è incaricata di stabilire e attuare una politica estera e di sicurezza comune (PESC). Questa venne eretta a uno dei tre pilastri su cui si fondava allora il sistema dei Trattati e proprio per tal motivo l’azione internazionale dell’Ue si sviluppava secondo due canali paralleli: la PESC, affidata all’Unione e al metodo intergovernativo e le relazioni esterne delle Comunità, cioè i profili esterni delle loro diverse politiche, gestite dalle istituzioni di queste secondo il metodo comunitario. Soltanto il trattato di Lisbona, riconducendo i tre pilastri ad un’unica Unione, affida a questa tutte le attività che precedentemente erano afferenti alla PESC e alle relazioni esterne delle Comunità, in un unico ambito giuridico- istituzionale costituito dall’azione esterna dell’Unione, caratterizzata da principi e obiettivi comuni. Tale azione esterna è disciplinata da un Titolo unico del TUE e da una Parte unica del TFUE. Sono così ricondotte a tale ambito: o la politica commerciale comune e le attività nei settori cooperazione allo sviluppo, aiuto umanitario al di fuori dell’UE, cooperazione economica, finanziaria e tecnica con i paesi terzi; o profili esterni di tutte le politiche settoriali dell’Unione; o La politica di vicinato (art 8 TUE): l’Unione sviluppa con i paesi limitrofi relazioni privilegiate al fine di creare uno spazio di prosperità e buon vicinato fondato sui valori dell’Unione e caratterizzato da relazioni strette e pacifiche basate sulla cooperazione. A tal fine l’Ue può concludere con i paesi vicini accordi specifici. Nonostante la formale unitarietà, dunque, l’azione esterna dell’Ue non si presenta come una politica dell’Unione in senso proprio, ma come un insieme complesso e vario di attività collegate dal fatto di contribuire tutte alla partecipazione dell’Unione alle relazioni internazionali. 2. Principi e obiettivi Come detto, le diverse attività riconducibili all’azione esterna dell’Unione sono chiamate oggi a svolgersi nel quadro di principi e obiettivi generali comuni. Il par. 3 dell’art. 21 del TUE riconosce che “nell’elaborazione e attuazione dell’azione esterna nei vari settori, l’Unione rispetta i principi e persegue gli obiettivi di cui ai paragrafi 1 e 2”. Quelli al par 1 sono in sostanza i valori fondanti dell’Unione (democrazia, Stato di diritto, diritti dell’uomo, rispetto dei principi della Carta delle Nazioni Unite e del diritto internazionale); quelli di cui al par 2 le finalità generali che comprendono l’affermazione dei suddetti valori, la tutela della sicurezza, dell’indipendenza e dell’integrità dell’Unione, la salvaguardia della pace e della sicurezza internazionale, la promozione dello sviluppo sostenibile, la liberalizzazione degli scambi commerciali. Ma l’azione esterna dell’Unione non può essere soddisfatta solo attraverso il rispetto dei principi e degli obiettivi generali indicati direttamente dal Trattato. Non a caso il TUE impone specificamente alle istituzioni di assicurare tale coerenza tra i vari settori dell’azione esterna chiedendo al Consiglio e alla Commissione di provvedervi in cooperazione tra loro e con l’ausilio dell’Alto Rappresentante. In particolare, l’art 22 TUE chiede al Consiglio europeo di individuare in concreto, sulla base dei principi e degli obiettivi generali, gli interessi e obiettivi strategici dell’Unione relativi a un determinato paese o a una determinata questione, cui l’Unione dovrà attenersi nell’esercizio delle sue competenze in materia di azione esterna. Il Consiglio europeo vi provvede mediante decisioni da prendere all’unanimità, sulla base di raccomandazioni del Consiglio adottate secondo le procedure e le modalità di voto previste per ciascun settore (ove riguardino la PESC, all’unanimità su proposta dell’Alto rappresentante; altrimenti normalmente a maggioranza qualificata su proposta della Commissione) mentre l’Alto rappresentante e la Commissione possono anche presentare proposte congiunte. 3. I profili istituzionali. In particolare, l’alto rappresentante e il SEAE Ciascuna delle politiche e azioni da cui è composta l’azione esterna è governata per il suo funzionamento concreto da uno specifico apparato istituzionale e procedurale che si differenzia in ragione delle scelte operate dalle norme dei Trattati che specificamente disciplinano quella determinata politica o azione. Ciò è certamente vero per il Consiglio europeo che esercita una funzione di indirizzo politico di tutte le attività dell’Unione, e per il Consiglio, che è organo centrale dell’intero quadro istituzionale di questa e quindi anche delle sue singole politiche e azioni. Ma altrettanto può dirsi per la Commissione e l’Alto Rappresentante. Quanto all’ Alto Rappresentante egli finisce per essere responsabile dell’intero ventaglio della dimensione esterna dell’unione. Nell’ambito tradizionale della PESC egli guida in prima persona la politica dell’unione contribuendo con le sue proposte alla sua elaborazione, mentre rispetto alle altre competenze esterne le sue funzioni non sono altrettanto incisive ed hanno per lo più compiti di mero coordinamento degli altri aspetti dell’azione esterna dell’Unione. In qualità di vicepresidente della Commissione, il Trattato gli consente certamente di influire in qualche misura anche sulla proiezione esterna delle singole politiche settoriali di competenza della Commissione ma unicamente a titolo di mero coordinamento dei Commissari competenti per quelle azioni. Un’ulteriore capacità di influenza sulle politiche esterne gli deriva anche dalla responsabilità del Servizio europeo di azione esterna (SEAE) e, attraverso questo, delle delegazioni dell’unione presso paesi terzi o organizzazioni internazionali. è un vero e proprio corpo diplomatico europeo. Il TUE lo individua come un organo dell’Unione di natura ibrida, comunitaria- intergovernativa, per la sua composizione: è composto da funzionari dei servizi competenti del segretariato generale del Consiglio e della Commissione e da personale distaccato dei servizi diplomatici nazionali. Esso opera sotto l’autorità dell’Alto Rappresentante ed è giuridicamente tenuto ad assicurare la compatibilità della sua azione politica con le altre politiche dell’unione. Tra i suoi compiti vi è quello di assistere l’Alto Rappresentante nell’esecuzione dei suoi mandati, per quanto riguarda, tra l’altro, la presidenza del Consiglio “Affari esteri”. Gli è poi chiesto di lavorare in stretta collaborazione con i servizi diplomatici degli Stati membri, nonché con il segretariato generale del Consiglio e con i servizi della Commissione. Al SEAE fanno capo anche le delegazioni dell’unione presso i paesi terzi e le organizzazioni internazionali che ne costruiscono anzi parte integrante. 4. Gli strumenti : le misure autonome. In particolare le misure restrittive L’azione esterna dell’Unione trova realizzazione da un lato attraverso la conclusione di accordi internazionali con paesi terzi o con organizzazioni internazionali, dall’altro per mezzo di misure c.d. “autonome”, perché consistenti in atti della sola Unione, ma comunque produttivi di effetti per tutti o per alcuni paesi terzi, in quanto volti a disciplinare profili generali di una delle politiche o azioni che fanno specificamente parte dell’azione esterna, ovvero a dare attuazione a queste in relazione a un caso concreto. In ragione del principio di attribuzione, l’unione può ricorrere alle misure autonome soltanto ove queste siano esplicitamente previste da una base giuridica dei trattati che consenta alle istituzioni di adottarle definendo la procedura per farlo ed eventualmente il tipo di atto da utilizzare. Nel caso delle azioni diverse dalla PESC quella base giuridica prevede che siano adottati atti per la definizione del relativo quadro di attuazione mediante procedura legislativa ordinaria; nel caso della politica commerciale viene data un’indicazione specifica riguardo il tipo di atto da adottare, ossia il regolamento mentre per gli altri casi, i Trattati prevedono l’adozione di “misure” in senso generico, lasciando al legislatore il compito di decidere tra gli strumenti previsti dagli stessi trattati quello più consono al caso concreto. Quanto alla PESC, in questo caso il TUE fornisce indicazioni puntuali circa gli strumenti giuridici e i meccanismi procedurali. In particolare, in sintonia con i caratteri intergovernativi che ha mantenuto la PESC, nel Trattato di Lisbona è ancora espressamente esclusa l’adozione di atti legislativi. Tuttavia un cambiamento significativo è derivato per quanto attiene al tipo di atti adottabili dal Consiglio europeo e dal Consiglio. Prima di Lisbona in effetti, gli atti di cui le istituzioni potevano servirsi per agire nell’ambito della PESC differivano notevolmente da quelli tipici dell’allora TCE e la natura giuridica risultava comunque differente sia perché le caratteristiche rispettive differivano sia perché erano atti che trovavano la loro regolamentazione giuridica in due Trattati differenti e separati. Con il Trattato di Lisbona, invece, la decisione diventa l’unico tipo di o Il Consiglio assume poi la decisione di procedere alla conclusione formale dell’accordo. Nulla esclude però una procedura semplificata che prevede invece che nella decisione di firma si esprima la volontà dell’Unione di vincolarsi all’accordo. L’art. 218 TFUE stabilisce che il Parlamento europeo debba esprimersi sugli accordi che il Consiglio intende concludere, prima che questo prenda la decisione di conclusione. Un qualsiasi coinvolgimento del Parlamento europeo è escluso per espressa previsione nel caso degli accordi che riguardano esclusivamente la PESC. È previsto che il Consiglio deliberi a maggioranza qualificata. In taluni casi la competenza a concludere un accordo internazionale è attribuita dai Trattati alla stessa Commissione e all’Alto Rappresentante, senza però che sia sempre chiaro come si distribuiscono le rispettive competenze. È da escludere che competenze ulteriori della Commissione in questo campo possano dedursi in via implicita anche da quelle espressamente riconosciute dai Trattati. Un’ultima osservazione merita il par. 11 dell’art. 218 TFUE, il quale prevede che nel corso della procedura di conclusione di un accordo internazionale il Parlamento europeo, il Consiglio, la Commissione o uno Stato membro possano chiedere alla Corte di Giustizia un parere circa la compatibilità dell’accordo previsto con i Trattati; e che, in caso di parere negativo, l’accordo non possa entrare in vigore. 2. I rapporti con organizzazioni internazionali L’esercizio di competenze esterne da parte dell’Unione non può non tenere conto del fatto che gran parte della vita di relazione internazionale trova i suoi canali di espressione nell’azione di organizzazioni intergovernative. E ci si riferisce non tanto al fatto che esse possono rappresentare degli interlocutori inevitabili di rapporti convenzionali dell’Unione, ma circostanza ben più rilevante è che esse sempre più spesso costituiscono il quadro istituzionale entro il quale si svolge la negoziazione di accordi multilaterali o l’elaborazione di norme internazionali direttamente vincolanti per chi partecipa a quella data organizzazione. In particolare l’art. 220 TFUE prevede che l’Ue attua ogni forma utile di cooperazione con gli organi delle Nazioni Unite e degli istituti specializzati delle Nazioni Unite, il Consiglio d’Europa, l’Organizzazione per la cooperazione e la sicurezza in Europa e l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico. L’ Unione assicura inoltre i collegamenti che ritiene opportuni con le altre organizzazioni internazionali. Questi collegamenti e queste forme di cooperazione si sostanziano normalmente in intese organizzative che, a seconda del campo d’azione dell’organizzazione interessata, spetta alla Commissione o all’Alto rappresentante concludere per conto dell’UE e che possono andare dalla previsione di uno scambio di documenti e informazioni all’attribuzione all’Unione dello status di osservatore all’interno dell’organizzazione interessata. E anche il contenuto dello status di osservatore all’interno dell’organizzazione interessata può variare e non poco potendo limitarsi alla semplice partecipazione passiva (senza diritto di parola) alle riunioni dell’organo assembleare o, ancora, consentire una partecipazione attiva senza diritto di voto ma con la possibilità di presentare proposte o emendamenti. Di uno status di osservatore di quest’ultimo tipo gode l’Unione all’interno delle Nazioni Unite, del Consiglio d’Europa e dell’OCSE. Quando invece l’Unione non partecipi a pieno titolo a una data organizzazione gli Stati membri non solo devono astenersi dal compiere al suo interno atti che possano ledere le competenze esterne dell’unione senza un previo coordinamento con le istituzioni ma sono anche tenuti, congiuntamente e sulla base di un’autorizzazione del Consiglio, ad esercitare tali competenze in sua vece e nel suo interesse. E’ tuttavia indubbio che il pieno rispetto delle competenze dell’Unione sarebbe meglio assicurato attraverso una formale adesione a pieno titolo dell’Unione a quella data organizzazione. Ma finora la possibilità della formale adesione dell’unione ad un’organizzazione internazionale si è realizzata in pochi casi a causa degli ostacoli tecnici –per lo più presenti negli statuti delle varie organizzazioni internazionali- che non contemplano l’ammissione di enti diversi dagli Stati. L’adesione dell’unione a organizzazioni internazionali o ad organi previsti da convenzioni con paesi terzi deve in ogni caso tener conto delle specificità proprie dell’unione, e in particolare del suo sistema istituzionale e del suo diritto e quindi, come ha chiarito la Corte, trova un limite nel divieto di modificare la sua “costituzione interna attraverso l’alterazione di elementi essenziali della struttura comunitaria”. 3. I singoli settori dell’azione esterna o Passando ora a un sintetico esame delle specifiche politiche e azioni di cui è formalmente composta l’azione esterna dell’Unione, è inevitabile che è con la PESC (Politica estera e di sicurezza comune) che l’azione esterna maggiormente si identifica. La PESC si caratterizza più per la sua finalità che per dei contenuti specifici. Anche dopo il Trattato di Lisbona la PESC rimane soggetta a norme e procedure specifiche. Il potere decisionale è riservato solo a Consiglio europeo e Consiglio che lo esercitano per regola all’unanimità e con atti esplicitamente non legislativi; l’attuazione è affidata all’Alto Rappresentante mentre Commissione e Parlamento europeo hanno ruoli marginali visto che per la prima viene del tutto meno la sua funzione di vigilanza sul rispetto del diritto e il secondo viene confinato a poco più di una generica consultazione sulle scelte fondamentali in materia di PESC da parte dell’Alto Rappresentante. Quanto infine alla Corte di giustizia essa si vede riconoscere solo una competenza indiretta attraverso il controllo sulla non interferenza tra l’azione svolta dalle istituzioni in attuazione della stessa PESC e quella svolta in attuazione delle altre politiche e azioni dell’Unione. Il mantenimento di tutte queste specificità fa sì che difficilmente la PESC può definirsi una vera e propria politica comune, visto che la sua missione principale sembra essere più quella di assicurare una convergenza quanto più stretta delle politiche estere nazionali, che di affermarne una sua propria. In ogni caso la PESC è chiamata a svilupparsi sulla base di interessi strategici, obiettivi e orientamenti generali individuati e stabiliti dal Consiglio europeo con apposite decisioni adottate all’unanimità e alla luce degli interessi e obiettivi generali dell’azione esterna da esso stesso indicati. E’ invece compito del Consiglio, nella sua formazione “Affari esteri”, prendere le decisioni necessarie a condurre nel concreto la politica estera dell’Unione sulla base degli orientamenti generali e delle linee strategiche prefissate. Quanto all’ Alto Rappresentante ad egli spetta non solo di contribuire con le proprie proposte all’elaborazione della PESC ma anche di attuare questa ricorrendo ai mezzi nazionali e a quelli dell’Unione. Consiglio ed Alto Rappresentante che sono affiancati dal Comitato Politico e di Sicurezza (COPS), organo permanente del Consiglio, che monitora la situazione internazionale fornendo pareri al Consiglio al fine di contribuire alla definizione delle politiche e preparandone i lavori. o Come detto, la politica di sicurezza e difesa comune (PSDC) è considerata dal Trattato parte integrante della PESC. Rappresenta lo strumento attraverso cui l’Unione si dota delle capacità operative per contribuire al mantenimento della pace e al rafforzamento della sicurezza internazionale, per mezzo della realizzazione all’esterno dell’unione di missioni di vario tipo, accomunate dal generale obiettivo della prevenzione dei conflitti internazionali e della gestione delle crisi nel quadro del sistema di sicurezza collettiva delle Nazioni Unite. Il Trattato di Lisbona ha integrato la PSDC da un lato con una politica europea delle capacità e degli armamenti, diretta a sviluppare le capacità militari e operative degli Stati membri e la base industriale e tecnologica del settore della difesa all’interno dell’unione; dall’altro con una clausola di difesa reciproca ai sensi della quale gli Stati membri sono tenuti a prestare aiuto e assistenza a chi di loro sia oggetto di un’aggressione armata sul suo territorio. Va tuttavia precisato che la PSDC non comporta alcuna integrazione degli apparati militari nazionali ; questi restano pienamente sotto la responsabilità degli Stati membri e le azioni esercitate dall’Unione nel quadro della PSDC si configurano unicamente come espressioni di una competenza parallela di sostegno e completamento di quelle degli Stati. E’ poi ovvio che laddove una missione richieda l’impiego di mezzi militari, essi potranno essere messi a disposizione solo dagli Stati membri, non disponendo l’Unione di capacità militari autonome. La prospettiva di un ricorso più sistematico a missioni effettuate di un gruppo ristretto di Stati è poi aperta dalla previsione in questo settore di una “cooperazione strutturata permanente” tra un numero ristretto di Stati membri “che rispondono a criteri più elevati in termini di capacità militari”. Accanto alla cooperazione il Trattato di Lisbona ha anche formalizzato l’Agenzia europea per la difesa la quale nasce con la missione di sviluppare, tra i soli Stati membri che desiderino farne parte, la cooperazione in materia di armamenti ed il rafforzamento della base di industriale e tecnologica di difesa europea. o La politica commerciale comune è stata fin dall’inizio il primo strumento di politica estera e nasce insieme alla Comunità europea e rappresenta il risvolto esterno del mercato interno e dell’unione doganale tra gli Stati membri. Ha come oggetto le condizioni e le modalità in base alle quali i beni provenienti da paesi terzi possono entrare nel territorio dell’unione europea e quelli prodotti negli Stati membri possono essere esportati verso paesi terzi. Per attuare la politica commerciale comune le istituzioni dell’unione possono ricorrere non solo ad accordi internazionali con i paesi terzi, ma anche a misure autonome di regolamentazione degli scambi con gli stessi. Attraverso queste misure l’Unione persegue i propri obiettivi di politica commerciale dotandosi da un lato di strumenti giuridici per la difesa dei propri interessi commerciali ma contribuendo, nel contempo, al sistema delle relazioni commerciali internazionali in attuazione agli obiettivi più generali della sua azione esterna. Di questa seconda categoria fa parte il sistema di preferenze generalizzate (SPG) diretto, attraverso la concessione di un trattamento doganale di favore alle importazioni di merci provenienti da paesi in via di sviluppo, a stimolare l’economia di questi paesi. E’ comunque prevista una clausola di salvaguardia che contempla la possibilità di ripristinare i diritti della tariffa doganale comune per i prodotti la cui importazione provoca, o potenzialmente è in grado di farlo, gravi difficoltà per i produttori europei di prodotti simili o direttamente concorrenti. Proprio allo spirito della clausola di salvaguardia si ispira invece l’altra categoria di misure autonome, di carattere propriamente difensivo. Si tratta di misure di difesa commerciale volte a contrastare comportamenti commerciali sleali, messi in atto da imprese o paesi terzi, che alterano la parità delle condizioni concorrenziali di partenza tra i prodotti originati all’interno dell’unione e quelli importati da paesi terzi. Non costituiscono una reazione a pratiche commerciali illecite le c.d. misure di salvaguardia che possono essere attivate in presenza di un danno alle imprese dell’Unione derivante da distorsioni del mercato. Esse servono a proteggere il mercato europeo di un certo prodotto dai danni al sistema produttivo che possono essere causati da alterazioni dei flussi commerciali. o La disciplina dell’azione esterna è poi completata da una serie di disposizioni relative alla cooperazione dell’Unione con i paesi terzi e l’aiuto umanitario. Sotto questa denominazione sono raggruppate disposizioni riguardanti, da un lato, attività specificamente rivolte ai paesi in via di sviluppo e, dall’altro, la cooperazione con e l’eventuale assistenza a paesi terzi diversi da questi ultimi, e in particolare ai paesi candidati all’adesione e a quelli non in via di sviluppo del Mediterraneo e dell’Europa orientale. Per quanto riguarda la cooperazione allo sviluppo e la cooperazione economica, finanziaria sebbene abbia come obiettivo la riduzione e l’eliminazione della povertà, persegue altresì fini più ampi di sviluppo economico che guardano all’incentivazione allo sviluppo e al consolidamento della democrazia e dello Stato di diritto. Quanto all’aiuto umanitario esso mira “a fornire in modo puntuale assistenza, soccorso e protezione alle popolazioni dei paesi terzi vittime di calamità naturali o provocate dall’uomo per far fronte alle necessità umanitarie risultanti da queste diverse situazioni”. o L’art. 222 TFUE contempla infine una c.d. “clausola di solidarietà” a favore di uno Stato membro che sia vittima di una calamità naturale o provocata dall’uomo, ovvero sia oggetto di un atto terroristico. La clausola prevede che in questi casi l’Unione debba mobilitare tutti gli strumenti di cui dispone per prevenire la minaccia terroristica sul territorio degli Stati membri, prestare assistenza allo Stato attaccato sul suo territorio, e proteggerne le istituzioni democratiche e la popolazione civile da un eventuale attacco terroristico; e, negli altri casi, per prestare assistenza a uno Stato membro sul suo territorio, su richiesta delle sue autorità politiche. Parte IV “la partecipazione dell’Italia al processo d’integrazione europea” Capitolo I “profili generali” 2. Premessa Anche se la scelta europeista è stata una costante della politica italiana non può certo dirsi che l’esperienza della nostra partecipazione al processo d’integrazione europea si sia sviluppata secondo un percorso piano e lineare. Anche per l’Italia lo sforzo di adeguamento alla costruzione dell’Unione si è rivelato faticoso. Col tempo tuttavia la situazione è progressivamente migliorata, grazie anzitutto agli sviluppi inarrestabili del processo d’integrazione. Di tali sviluppi si è progressivamente acquisita nel nostro paese una crescente e più matura consapevolezza espressa anche dalle reazioni normative e organizzative tese a creare le condizioni per un più efficace adeguamento complessivo del sistema alle esigenze dell’appartenenza all’Unione europea. 3. L’assetto dei rapporti tra gli ordinamenti dell’unione e italiano. In generale In primo luogo viene in rilievo la querelle tra l’ordinamento giuridico dell’Unione e quello italiano che ha coinvolto tutte le tematiche connesse a quei rapporti: dalla ricerca dello stesso ancoraggio costituzionale della partecipazione dell’Italia alla Comunità prima e all’Unione dopo, e quindi della legittimità costituzionale dei trattati comunitari, alla questione della gerarchia e della forza delle norme dell’uno e dell’altro ordinamento, della salvaguardia dei principi fondamentali della Costituzione, segnatamente con l’affermazione dei principi del primato e della c.d. applicabilità diretta del relativo diritto nell’ordinamento giuridico degli Stati membri. La soluzione non è agevolata dal sostanziale silenzio che la nostra Carta Fondamentale sul terreno delle relazioni internazionali privando di un chiaro e convincente ancoraggio costituzionale la partecipazione italiana al processo d’integrazione. Però un qualche assestamento alla fine è stato trovato, a merito della Corte Costituzionale, producendo risultati in concreto assai apprezzabili, per giunta in un contesto di rapporti molto positivi nel dialogo tra Corte dell’Unione e giudici italiani. Supplendo con la propria giurisprudenza alla segnalata situazione, la Corte ha definito un più resistente equilibrio nell’assetto dei rapporti tra diritto dell’Unione e diritto italiano. 4. L’incidenza sui rapporti tra il governo e il parlamento nazionale Un particolare interesse rivestono i temi che attengono all’assetto costituzionale dello Stato e al modo di essere e di funzionare delle sue istituzioni. Va ricordata l’incidenza del processo d’integrazione europea sui rapporti tra i poteri supremi dello Stato e sulle alterazioni degli equilibri costituzionali che ne sono conseguiti. In riferimento ai rapporti tra l’Esecutivo e il Parlamento nazionale, è ben noto che il ruolo del primo sul piano delle relazioni internazionali dello Stato è di gran lunga preminente rispetto al secondo. Nelle sedi europee i reali centri decisionali sono stati a lungo rappresentati quasi esclusivamente da istanze composte da membri degli esecutivi nazionali (Consiglio, Vertici, Consiglio europeo ecc.). Oggi la situazione è di molto cambiata, non solo perché il Parlamento europeo si è visto attribuire un ruolo assai più importante in seno all’Unione, fino a diventare in un numero crescente di materie un autentico co-legislatore, ma soprattutto perché i parlamenti nazionali hanno rivendicato un ruolo più attivo e incisivo nel processo decisionale europeo, specie dopo la generalizzata accettazione del principio del primato del diritto dell’Unione. partendo dalla premessa che i due ordinamenti, pur distinti e autonomi, sono coordinati, per il fatto di “avere la legge di esecuzione del Trattato trasferito agli organi comunitari, in conformità dell’art. 11 Cost., le competenze che questi esercitano, beninteso nelle materie loro riservate”. Ciò ha comportato che l’ordinamento nazionale si è aperto alla normazione europea “lasciando che le regole in cui essa si concreta vigano nel territorio italiano, quali sono scaturite dagli organi competenti a produrle”, senza perciò entrare a far parte del diritto italiano o essere soggette al regime vigente per le leggi dello Stato. Dal canto suo, “la legge statale rimane […] collocata in un ordinamento che non vuole interferire nella produzione normativa del distinto ed autonomo ordinamento della Comunità, sebbene garantisca l’osservanza di essa nel territorio nazionale”. Proprio in ragione di ciò, “le configgenti statuizioni di una legge interna non possono costituire ostacolo al riconoscimento della “forza e valore”, che il Trattato conferisce al regolamento dell’Unione, nel configurarlo come atto produttivo di regole immediatamente applicabili”: il giudice dovrà comunque applicare quest’ultimo, dato che la sua vigenza impedisce che l’eventuale normativa dello Stato, venga in rilievo ai fini della soluzione della controversia. La sentenza Granital ha ricostruito questo nuovo modello di rapporti tra ordinamento giuridico dell’Unione e ordinamento nazionale avendo riguardo all’ipotesi che il potere trasferito all’Unione si estrinsechi “con una normazione compiuta e immediatamente applicabile dal giudice interno”. In tale giurisprudenza, la Corte ha in effetti svolto il ragionamento che la normativa dell’Unione opera nel sistema dello Stato con gli effetti indicati in quest’ultima sentenza Granital. Di conseguenza, la Corte costituzionale ha affermato l’obbligo del giudice di non applicare la legge interna contrastante con norme di direttive europee dotate di effetti diretti o con norme dei Trattati cui possa riconoscersi la stessa efficace (sent. 389/1989, Provincia autonoma di Bolzano). o Nel 2001 i vincoli derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione europea sono stati finalmente integrati nel dettato costituzionale. Le modalità di questa integrazione sembrano peraltro evocare, proprio la direzione intrapresa dalla giurisprudenza costituzionale con la sentenza Granital :la prevalenza del diritto dell’Unione è affermata con riferimento all’ordinamento giuridico di questa nel suo complesso, quale sistema autonomo e distinto al cui pieno funzionamento la potestà legislativa dello Stato non può frapporre ostacoli. Nel distribuire la funzione legislativa tra Stato e regioni nel quadro di una riforma federalista dello Stato italiano, la legge di riforma 2001 del Titolo V della seconda parte della Costituzione, ha in effetti modificato l’art. 117 Cost., iscrivendovi il principio che “la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dai vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali”. La Corte Cost. ha poi chiarito il rapporto tra l’art. 11 e l’art. 117 Cost. precisando che quest’ultimo ha confermato espressamente, ciò che era stato collegato all’art. 11 Cost., e cioè l’obbligo del legislatore, statale e regionale, di rispettare i vincoli derivanti dall’ordinamento. 2. Il problema con riguardo alle norme costituzionali Un’ultima ipotesi in cui il sindacato di legittimità costituzionale al rispetto dell’art.11 Cost. rimane riservato alla Corte costituzionale è quella che ad essere messa in discussione non sia la compatibilità con il diritto dell’Unione di norme nazionali ma il contrasto di norme di quel diritto con i principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale e con i diritti fondamentali della persona umana. La supremazia del diritto scaturito dai Trattati si esprime evidentemente nei confronti dell’ordinamento nazionale nel suo complesso e ciò sembrerebbe comportare che di fronte a norme di quel diritto debbano cedere anche eventuali disposizioni contrastanti con la nostra Costituzione. La Corte ha in questo senso tenuto un orientamento piuttosto fermo. Sin da subito ha precisato che “in base all’art. 11 Cost., […] deve escludersi che le limitazioni fatte al diritto interno possano comunque comportare per gli organi della CEE un inammissibile potere di violare i principi fondamentali del nostro ordinamento costituzionale, o i diritti inalienabili della persona umana”. E la Corte avvertiva per lo più che laddove una norma europea avrebbe conflitto con i principi “materiali” della Costituzione, essa avrebbe esercitato puntualmente il proprio sindacato di legittimità costituzionale di quella norma. Non è quindi il contrasto in quanto tale di una norma europea con una delle norme della prima parte della Costituzione a poter giustificare l’esercizio del sindacato della Corte. Perché ciò avvenga quel contrasto sembra invece dover sussistere con quel complesso di valori e principi fondamentali della nostra Costituzione. Com’è evidente, al centro di questo nucleo dei c.d. “contro limiti” alle limitazioni di sovranità consentite dall’art. 11 Cost., vi sono i diritti fondamentali della persona umana e, più in generale, quel nucleo di principi e norme che definiscono l’”assetto costituzionale” dello Stato. Capitolo III “organizzazione e procedure per la partecipazione dell’Italia all’unione europea” 3. Premessa. La normativa rilevante Ora descriviamo gli specifici meccanismi istituiti in Italia per l'elaborazione e l'attuazione delle politiche dell'Unione europea. Va detto subito che la materia è stata a lungo regolata in modo confuso e occasionale. Bisognerà attendere l'approvazione della c.d. “Legge La Pergola” (1989), la prima legge ad hoc emanata da uno Stato membro per disciplinare in modo organico le modalità della partecipazione italiana a quel processo. Anche alla luce della prassi di applicazione della Legge La Pergola e della difficoltà che ne erano emerse (disciplinava principalmente la c.d. fase discendente a discapito della fase ascendente), si è ritenuto opportuno rivedere l’intera disciplina della materia con la legge del 2005 c.d. Legge Buttiglione, che ha sostituito, abrogandola, quella legge ma ne ha confermato l’impianto originario e ne ha anzi assorbito, previa l’introduzione delle opportune modifiche, le principali disposizioni, ma allo stesso tempo vi apportò una corposa integrazione in materia di fase ascendente, colmando la lacuna segnalata. Con l'entrata in vigore del trattato di Lisbona, il processo riformatore si è completato con l'approvazione della legge 24 dicembre 2012, n. 234. Si è trattato formalmente di una revisione complessiva della precedente legge Buttiglione. Ma anche in questo caso la revisione non ha portato a uno sconvolgimento radicale; ciononostante ci sono state numerose novità: da un lato rivede il rapporto delle Camere con il Governo nella gestione della politica europea del paese e, dall'altro, cerca di imprimere una maggior efficacia ai meccanismi di adeguamento dell'ordinamento nazionale agli obblighi europei. 4. La fase ascendente. Premessa : l’apparato governativo In Italia, sulla falsa riga degli altri Stati membri, la gestione a livello governativo della partecipazione dello stato alla formazione delle politiche e degli atti dell'Unione ha cessato col tempo di essere monopolio del Ministero degli affari esteri, per spostarsi in buona parte verso la Presidenza del Consiglio dei ministri. All'interno di questa, i relativi compiti sono stati affidati al “Dipartimento per il coordinamento delle politiche comunitarie”. A detto Dipartimento, sotto la direzione del Ministro per gli affari europei, sono state dapprima conferite competenze di coordinamento tra le amministrazioni interessate sia ai fini negoziali, sia ai fini dell’attuazione della normativa dell’Unione. Col tempo, le sue attribuzioni si sono estese e ne fanno oggi un punto di riferimento per il coordinamento della politica italiana rispetto agli adempimenti europei, con riguardo ai diversi attori nazionali: dalle Camere, cui esso deve garantire informazione sul e partecipazione al processo decisionale dell’Unione europea; alle Regioni e gli enti locali, per la consultazione ed il coinvolgimento agli stessi fini; alle categorie socio-economiche interessate. Per la proiezione esterna di questa attività, il Dipartimento si coordina, oltre che con la Presidenza del Consiglio, cui fa formalmente capo, con il Ministero degli Esteri, che svolge un ruolo importante nel negoziato europeo, grazie all’ufficio che è la Rappresentanza permanente d’Italia presso l’UE a Bruxelles, attraverso cui passa l’insieme dei rapporti tra il nostro Governo e le istituzioni dell’Unione. 5. Il ruolo del parlamento La legge n 234/2012 si preoccupa di incidere sulla qualità e sulla portata dell’informazione che il governo deve assicurare alle Camere per la partecipazione dell’Italia all’Unione europea, ma soprattutto di assicurare un maggiore e più efficace coinvolgimento delle stesse nella fase di formazione degli atti dell’Unione. La Legge impone al governo, e segnatamente al Presidente del Consiglio o al Ministro per le politiche comunitarie di assicurare con tempestività, completezza e puntualità una qualificata informazione alla Camere su tutti i progetti comunitari, con i connessi libri bianchi, comunicazioni ecc.; così come impone di comunicare gli ordini del giorno del Consiglio dell’Unione, di illustrare la posizione italiana prima e dopo ogni riunione del Consiglio europeo, di presentare una relazione semestrale sugli sviluppi del processo d’integrazione, una dettagliata relazione annuale entro il 31 dicembre, e così via. Con riguardo all'informazione finalizzata al coinvolgimento del Parlamento nell'attività negoziale del governo su specifici dossier, la legge n. 234/2012 obbliga quest'ultimo a trasmettere alle camere tutti i progetti di atti dell'unione e il documento di consultazione della stessa. In aggiunta alle regole generali sulle prerogative del Parlamento nei suoi rapporti con l'esecutivo, la legge n. 234/2012 prevede meccanismi specifici di intervento, in particolare con riferimento alla fase di formazione degli atti dell'Unione. L'art. 10 della legge disciplina per l'Italia l'istituto della c.d. riserva di esame parlamentare, che il Governo in seno al Consiglio dell’Unione europea fa stato della sua impossibilità di esprimere il voto su un determinato atto, perché in attesa del parere del Parlamento al riguardo. Il governo è tenuto ad apporre tale riserva ove le Camere glielo richiedano; ovvero lo stesso governo può decidere di apporla di propria iniziativa rimettendo la questione alla valutazione del Parlamento, quando lo ritenga utile o opportuno. La legge n. 234/2012 disciplina, infine, l'utilizzo o la partecipazione delle camere a taluni meccanismi previsti dal trattato di Lisbona (quelli della fase ascendente) dai quali quel ruolo è direttamente o indirettamente influenzato. Si tratta, in primo luogo della verifica del rispetto del principio di sussidiarietà di cui al protocollo n. 2 sull'applicazione dei principi di sussidiarietà e proporzionalità, rispetto alla quale l'art. 8 della legge si limita a stabilire che le camere debbano trasmettere contestualmente anche al governo gli eventuali pareri motivati che quel protocollo prevede possano essere da esse inviati direttamente al parlamento europeo, al consiglio e alla commissione europea per contestare la conformità al principio di sussidiarietà si un progetto di atto legislativo dell'Unione. Più innovative risultano le modalità del funzionamento interno delle diverse procedure semplificate di modifica previste dai trattati (art. 11) che si basano genericamente su un’approvazione da parte degli Stati membri “conformemente alle rispettive norme costituzionali” di una decisione presa dal Consiglio europeo in merito alle modifiche o integrazioni da apportare a determinate disposizioni dei Trattati. L'art. 12 riconosce un ruolo al parlamento nella decisione su ricordo al c.d. freno d'emergenza previsto da alcune norme dei trattati, ai sensi delle quali un governo può opporsi per motivi vitali di politica nazionale o per la salvaguardia di principi fondamentali del proprio ordinamento a una delibera del Consiglio dell'Unione da prendere a maggioranza qualificata. L'articolo stabilisce che la decisione del governo di avvalersene non sia lasciata alla volontà dell'esecutivo, ma che l'impulso possa venire anche da un atto di indirizzo del parlamento. 6. Il coordinamento a livello governativo. Il CIAE Tranne in quei casi in cui, come l’approvazione di procedure semplificate di modifica dei Trattati, la posizione dell’Italia si identifica formalmente con quella del Parlamento, spetta al Governo definire la posizione che l’Italia sosterrà, attraverso lo stesso Governo, in sede europea. Quanto al coordinamento a livello governativo, un ruolo di primo piano è svolto dal Ministro delle politiche europee attraverso il Dipartimento per il coordinamento delle politiche comunitarie. Esso si esercita per mezzo di un nuovo organismo, istituito della legge n. 11/2005, il Comitato interministeriale per gli affari comunitari europei (CIAE), che è una sorta di “Gabinetto degli affari europei” con il compito di concordare le linee politiche del Governo nel processo di formazione della posizione italiana nella fase di predisposizione degli atti dell’Unione europea. Il Comitato è convocato e presieduto dal Presidente del Consiglio dei Ministri o dal Ministro per gli affari europei. L’art. 19 della legge n.234/2012 stabilisce che per la preparazione delle proprie riunioni, il CIAE si avvale di un comitato tecnico permanente istituito presso il Dipartimento per le politiche comunitarie, composto da un rappresentante di ogni ministro, che ha il compito di coordinare al suo livello la predisposizione della posizione italiana nella fase di formazione degli atti dell'unione, raccogliendo le istanze provenienti dalle diverse amministrazioni e definendo quella posizione, salvo a riammetterla, quando necessario, a una deliberazione del CIAE. 7. La partecipazione delle regioni Una significativa evoluzione ha riguardato la disciplina relativa al coinvolgimento degli enti territoriali nella fase ascendente. Gli artt. 24 e 26 della legge 234/2012 impongono al Governo di rispettare a favore degli enti locali e limitatamente alle materie di loro competenza, obblighi corrispondenti a quelli indicati a proposito delle Camere. Sempre per le materie di loro competenza si prevede che la partecipazione degli stessi enti alla formazione degli atti dell’Unione avvenga sia con l’invito di osservazioni sui progetti in corso, sia prevedendo la convocazione all’uopo della Conferenza Stato- regioni o della Conferenza Stato- città ed autonomie locali. 8. La fase discendente. Dalla legge comunitaria alle leggi europee Venendo alla c.d. fase discendente, va ricordato che in Italia l’adempimento degli obblighi imposti dall’Unione non si è quasi mai rivelato facile. Le cause di questa cronica difficoltà sono di varia natura, ma almeno per i ritardi nel recepimento delle direttive esse si ricollegavano alla lentezza delle procedure parlamentari di approvazione dei relativi provvedimenti. Per ovviare a tali difficoltà, intervenne la legge La Pergola. Con la legge La Pergola, il sistema italiano di attuazione della normativa dell'Unione si è incentrato su uno strumento consistente nella c.d. "legge comunitaria", diretta a raccogliere in un unico provvedimento le norme necessarie ad assicurare l'adempimento di più atti od obblighi posti dalle norme europee in capo all'Italia. In pratica, entro il 31 genn. di ogni anno il governo era tenuto a disporre un disegno di legge ("legge comunitaria") per l'anno di riferimento. In tale legge trovavano posto in primo luogo le disposizioni volte a modificare o ad abrogare norme interne incompatibili con quegli obblighi e le disposizioni necessarie a dare attuazione diretta ai nuovi atti normativi della comunità. Per quanto riguardava le direttive, la cui trasposizione costituiva gran parte del contenuto di ciascuna legge comunitaria, questa affidava la trasposizione al governo, conferendogli la delega legislativa di adottare i provvedimenti di recepimento di un insieme di direttive sulla base di principi e criteri direttivi indicati, però, solo in maniera generica. L'attuazione della legge comunitaria ha vissuto vicende altalenanti. La sua approvazione ha vissuto vari incidenti di percorso, che hanno fatto si che la cadenza annuale non sia sempre stata rispettata e che in alcuni anni le relative leggi non siano state proprio adottate. I problemi citati hanno indotto il legislatore a cercare dei possibili rimedi, almeno per quel che riguarda la trasposizione delle direttive (in quanto una loro mancata trasposizione può portare ad una sanzione pecuniaria). Un rimedio è stato posto proprio dalla legge n. 234/2012: essa ha disposto lo "sdoppiamento" dell'unica legge comunitaria annuali in due leggi "europee", l'una, la "legge di delegazione europea", finalizzata unicamente al conferimento di deleghe al governo per il recepimento delle direttive e per l'attuazione di altri obblighi europei; l'altra, la "legge europea", destinata a contenere norme di attuazione diretta di quegli obblighi. La decisione di separare le sorti del recepimento delle direttive da quelle degli adempimenti, trova la sua ragion d'essere nella constatazione che, i ritardi nell'approvazione delle leggi comunitarie sono stati dovuti più a contrasti politici riguardanti le norme di attuazione diretta, che a problemi legati alle deleghe per il