Scarica Riassunto Manuale di Diritto Privato A.TORRENTE - P. SCHLESINGER e più Dispense in PDF di Diritto Privato solo su Docsity! Esame di Istituzioni di Diritto Privato prof. Ponzanelli Riassunto Manuale di Diritto Privato A.TORRENTE - P. SCHLESINGER CAP 1: “L’ordinamento giuridico” L’ordinamento giuridico: “ubi ius, ibi societas”: ogni società non può vivere senza un complesso di regole che disciplinino i rapporti tra gli individui e di apparati che s’incarichino di farle osservare. Per socialità del diritto si intende che l’uomo è portato per natura a cercare la collaborazione dei suoi simili, per tali motivi la cooperazione tra gli uomini assicura il soddisfacimento dei bisogni individuali e collettivi. Tuttavia, le condizioni perché si venga a costituire una societas, cioè un gruppo organizzato, sono 3: - Regole di condotta, che disciplinino i rapporti fra i consociati (assicurare pacifica convivenza, collaborazione) - Appositi organi che stabiliscano e attuino queste regole, in base a precise regole di struttura. - Principio di effettività: regole di condotta e regole di struttura devono essere effettivamente osservate. Questo principio segna il limite entro il quale può dirsi che un dato complesso di regole disciplina un gruppo. Se ad un certo punto (es. rivoluzione), l’organizzazione non è più in grado di funzionare e di far rispettare le norme che stanno alla sua base, significa che la collettività si è sciolta. Un ordinamento giuridico (sistema di regole mediante cui è organizzata la collettività, con lo scopo di “ordinare” la realtà sociale) dunque, è tale in quanto esiste una autorità capace di farlo attuare. La legittimazione di quella autorità deriva dal consenso dei consociati. L’ordinamento giuridico dello Stato e la pluralità degli ordinamenti giuridici: gli uomini danno origine a organizzazioni di vario tipo. Tra tutte le forme di collettività, importanza fondamentale assume la società politica, che si propone finalità volte alla realizzazione di molteplici scopi ritenuti di utilità generale. In epoca moderna ha preso forma il c.d. “stato sociale”: i compiti pubblici non sono più dunque limitati a garantire l’ordinato svolgimento della vita sociale o la realizzazione di infrastrutture, ma si orientano a creare le condizioni per “il pieno sviluppo della persona” (art. 3), promuovendo lo sviluppo sociale ed erogando servizi. Le società politiche hanno assunto forme diverse nella storia (comunità primitive, polis, impero..). Oggi è centrale la nozione di STATO, cioè una certa comunità di individui (cittadini), stanziata in un certo territorio, organizzata in base ad un ordinamento giuridico. Un ordinamento giuridico è detto ORIGINARIO quando superiorem non recognoscit, cioè quando la sua organizzazione non è soggetta a un controllo di validità da parte di un’altra entità: è il caso dei singoli stati, delle organizzazioni internazionali, della chiesa cattolica, della Comunità europea. Nella prospettiva della pluralità degli ordinamenti giuridici, va valutata la soggezione di ciascun individuo alle regole di uno o più ordinamenti ( è il caso ad esempio del cittadino di religione cattolica sottoposto, in quanto cittadino, alle leggi della Repubblica Italiana e, in quanto fedele, all’ordinamento canonico). La soggezione può essere volontaria (adesione spontanea del singolo ad esempio ad un ordinamento sportivo) o necessaria. Gli ordinamenti sovranazionali. L’Unione Europea: Di particolare interesse riguardo la teoria dell'ordinamento giuridico è anche la partecipazione dell'Italia alla comunità internazionale, soprattutto alla luce dell'assetto dei rapporti internazionali succeduto alla Seconda Guerra Mondiale, ispirato ad una più intensa collaborazione fra gli Stati per il mantenimento della pace e la diffusione dello sviluppo economico. L'articolo 10 della Costituzione enuncia il principio per cui “l'ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute”. Il diritto internazionale è un diritto che ha fonte essenzialmente consuetudinaria, vale a dire trae origine dalla prassi delle relazioni tra gli Stati, o pattizia , ossia nasce da appositi accordi di carattere bilaterale o plurilaterale che ciascuno Stato stringe con altri e che si impegna rispettare. La Repubblica Italiana è anche parte di organizzazioni internazionali , l’articolo 11 della Costituzione stabilisce che “l'Italia consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”. Il principio è di particolare importanza, in quanto rende ammissibile la sottoposizione dello Stato alle regole di un'organizzazione sovranazionale, le cui norme e provvedimenti vincolano l'operatività degli organi dello Stato stesso con la conseguente limitazione della sovranità dello Stato. L'adesione dell'Italia alla Comunità Europea a partire dalla stipulazione del Trattato di Roma del 1957, che ha dato vita alla Comunità Economica Europea ha implicato l'accettazione di limiti alla sovranità dello Stato, che si è sottoposto, in un numero di materie crescente, alla volontà della maggioranza degli altri Stati membri. Il processo di integrazione europea è stato lungo e difficoltoso e ha attraversato una fase estremamente delicata. Partendo dai tre iniziali trattati istitutivi di organismi , la Comunità Europea del Carbone dell'Acciaio (CECA) del 1951, la Comunità Economica Europea (CEE) e la Comunità Europea per l’Energia Atomica, (Euratom) queste ultime del 1957, volti a creare creare alcune istituzioni comuni e particolarmente orientati alla definizione di un'area di libera circolazione delle merci e di coordinamento di alcune attività economiche, si è proceduto verso un progressivo allargamento del numero degli Stati aderenti e, soprattutto, verso una accentuata prevalenza delle decisioni assunte dagli organi comunitari sulla determinazione dei singoli Stati ed una costante dilatazione delle competenze delle istituzioni comunitarie. Oltre al già ricordato Trattato di Roma del 25 marzo 1957, il Trattato di Maastricht del 7 febbraio 1992, entrato in vigore il 1 novembre 1993, oltre a modificare l'originario trattato istitutivo della CEE denominata Comunità Europea contiene il Trattato sull’Unione Europea con il quale si fissano le regole politiche e i parametri economici richiesti per l'adesione all'Unione dei vari Stati. Il Trattato di Maastricht tra l'altro ha introdotto il concetto di Cittadinanza dell'Unione Europea e posto le basi per l'Unione Economica e Monetaria dell’Unione Europea. L'estensione delle politiche comuni ben oltre l'immaginario ambito della Comunità Europea creò incertezza circa la ratifica da parte di taluni paesi membri, per superare la quale si ammise la clausola di Opt-out , grazie alla quale il singolo paese membro avrebbe potuto negoziare e ottenere la permanenza nell'Unione pur non sottomettendosi e talune regole e vincoli dell'Unione stessa. Grazie a tale meccanismo che crea l’idea dell'Europa a più velocità, taluni paesi membri come in Regno Unito non hanno aderito all'euro quale moneta unica. È a tutti noto che di recente il Regno Unito ha deliberato di recedere dal trattato e avviato i conseguenti negoziati con le autorità dell’Unione. Ulteriori modificazioni sono state introdotte dal trattato di Amsterdam, del 2 ottobre 1997, entrato in vigore il 1 maggio 1999 e dal trattato di Nizza,del 26 febbraio 2001, entrato in vigore il 1 febbraio 2003. In occasione del Trattato di Nizza il Consiglio Europeo aveva anche solennemente proclamato la carta dei Diritti Fondamentali dell'Unione Europea, Carta di Nizza, che però non era entrata a fare parte del trattato. Se nonché il Trattato Istitutivo di una Costituzione per l'Europa, firmato a Roma il 29 ottobre 2004, non è mai entrato in vigore a motivo della mancata ratifica da parte di tutti gli Stati membri entro la data stabilita del 1 novembre 2006. Successivamente,il trattato di Lisbona, firmato il 13 dicembre 2007 , entrato in vigore il 1 dicembre 2009, ha prodotto ulteriori importanti modifiche incidendo sia sul Trattato sull’Unione Europea, sia sul Trattato Istituivo della Comunità Europea che ha assunto il nome di Trattato sul Funzionamento dell'Unione Europea. In tale occasione si è attribuito valore vincolante per le istituzioni europee e per gli Stati membri alla carta di Nizza, che ora costituisce la Carta dei Diritti Fondamentali delle Unione Europea. Essa enuncia i principi fondamentali che devono essere rispettati dall’Unione in sede di applicazione del diritto comunitario. La Carta di Nizza non va confusa con la Cedu, (Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali) è un trattato internazionale, firmato nel 1950 dai paesi aderenti al Consiglio d'Europa, il quale predispone un sistema di tutela internazionale dei diritti dell'uomo, offrendo ai singoli soggetti la facoltà di invocare il controllo giudiziario sul rispetto dei loro diritti. L'Unione Europea non aveva aderito formalmente alla Cedu , sebbene tutti gli Stati membri ne facessero parte, insieme agli altri Stati aderenti al Consiglio d'Europa, come Russia e Turchia. La ragione di tale anomalia stava nel difetto di legittimazione dell'Unione Europea, sulla base dei trattati, a essere parte di una convenzione internazionale concernente i diritti dell'uomo . Ciò non aveva impedito una recezione sostanziale dei principi contenuti nella Carta: da una parte già il Trattato di Amsterdam ribadiva in alcuni punti il rispetto dei diritti fondamentali garantiti dalla Cedu : e dall'altra la Giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea ha considerato i principi della Cedu, componenti comunitari. Con il Trattato di Lisbona il processo di adesione ha guadagnato anche una base di carattere normativo, giacché all'articolo 6 numero 3 si afferma che i diritti fondamentali garantiti dalla Convenzione e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri fanno parte del diritto dell'Unione in quanto principi generali. Ciò consente, tra l'altro, di interpretare la legislazione dell'Unione Europea alla luce della Cedu. La norma giuridica: le regole che costituiscono l’ordinamento giuridico sono dette NORME. La giuridicità di una norma non dipende dal suo contenuto, cioè da quanto essa dispone, ma dipende dal fatto che essa è dotata di AUTORITA’, in quanto inserita nel sistema giuridico e in grado di (suscettibile di essere resa) di rendere vincolante nei confronti di tutti i consociati. La norma giuridica si distingue dalla norma morale: la attribuisca il potere di decidere secondo equità” (art 113 cod. proc. Civ.), il che avviene nelle cause di minor valore, attribuite al Giudice di Pace. CAPITOLO 2: “Il diritto privato e le sue fonti” Diritto pubblico e diritto privato: in via orientativa, “publicum ius est quod ad statum rei romanae spectat, privatum quod ad singuolorum utilitatem”. Il diritto pubblico, quindi, disciplina l’organizzazione dello stato e degli altri enti pubblici. Il diritto privato, invece, disciplina le relazioni interindividuali, sia dei singoli che degli enti privati. Anche il diritto privato, naturalmente, è innanzitutto diritto, cioè parte dell’ordinamento e quindi ius positum, ma si tratta di disposizioni in base alle quali il singolo non si viene a trovare in situazioni di soggezione di fronte a un potere pubblico, dotato di strumenti di supremazia, bensì opera su un piano di eguaglianza con gli altri individui. Tuttavia, la linea di demarcazione tra diritto pubblico e privato è variabile: ad esempio, lo Stato può assumersi la realizzazione di funzioni un tempo lasciate ai privati (ad es. scuola, ospedali), e viceversa. Dunque questa tradizionale bipartizione appare quanto mai evanescente. Distinzione tra norme cogenti (inderogabili) e norme derogabili: non tutte le norme di diritto privato devono essere sempre obbligatoriamente osservate dai singoli. Le norme di diritto privato si distinguono in derogabili e cogenti (inderogabili). Si dicono cogenti quelle norme la cui applicazione è imposta dall’ordinamento, prescindendo dalla volontà dei singoli; derogabili, quelle norme la cui applicazione può essere evitata mediante un accordo degli interessati. Vi è poi un’altra categoria, quella delle norme suppletive, che intervengono solo nel caso in cui i soggetti privati non abbiano provveduto a disciplinare un determinato aspetto della fattispecie, in relazione al quale sussiste una lacuna. Sebbene le norme di diritto pubblico siano quasi sempre cogenti e quelle di diritto privato spesso derogabili, non bisogna credere che la distinzione in esame coincida con quella tra norme di diritto pubblico e privato. Fonti delle norme giuridiche: per “fonti di produzione” si intendono gli atti e i fatti che producono diritto. Consistono in atti quelle fonti che si manifestano in esplicazioni dell’attività di un determinato organo capace di produrre norme (ad es. legge del parlamento, decreto di un sovrano); ma la norma può nascere da un semplice fatto, come una consuetudine affermatasi nel tempo come regola giuridica nell’ambito di una comunità. Poi vi sono le “fonti di cognizione”, ossia i documenti e le pubblicazioni ufficiali da cui si può prender coscienza del testo di un atto normativo (ad. Es. Gazzetta Ufficiale). Spesso un ordinamento contempla una pluralità di fonti, per questo diventa indispensabili stabilire un rapporto gerarchico, ossia precisare, nel caso due o più fonti stabiliscano regole tra loro contrastanti, quale debba prevalere. Nel nostro Paese , la gerarchia delle fonti è stata interessata da profondi mutamenti: ricordiamo innanzitutto il regime delineato dal codice civile, l’art 1 delle “Disposizioni della legge in generale”, che poneva al primo posto la legge, al secondo i regolamenti, al terzo le norme corporative, all’ultimo gli usi. Con la caduta del fascismo, le norme corporative hanno perduto efficacia. Nel dopoguerra si sono aggiunte altre importanti fonti del diritto, prima fra tutte la Costituzione (1948). Con la sua entrata in vigore, la gerarchia delle fonti risulta essere così costruita: a) al primo posto i principi definiti “fondamentali” da cui derivano diritti “inviolabili” (vedi art. 2), b) al secondo le disposizioni della Carta Costituzionale, c) al terzo le leggi statali ordinarie e le altre fonti di cui parla l’art 1 delle preleggi. d)Seguono poi le leggi regionali e le norme di matrice comunitaria. A La costituzione e le leggi di rango costituzionale: la Costituzione assolve la funzione di fondamentale norma di produzione giuridica: essa disciplina il procedimento di elaborazione delle leggi e pone regole e principi che si atteggiano a limiti sostanziali all’attività del legislatore (si pensi all’art. 3 o alle norme che prevedono i fondamentali diritti e doveri dei cittadini, sancendo per esempio, l’inviolabilità della libertà personale o del domicilio: una legge ordinaria che violasse questi diritti sarebbe illegittima ). I “principi supremi” enunciati dalla Costituzione, e come tali riconosciuti dalla dottrina e dalla giurisprudenza, costituiscano limiti allo stesso potere del legislatore costituzionale, in quanto non sarebbero suscettibili di revisione. Le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali, che hanno lo stesso valore della Costituzione, devono essere approvate da un’apposita procedura disciplinata dall’art. 138 Cost. La costituzione italiana è rigida, quindi non modificabile da legge ordinaria o da altra legge di rango costituzionale. A presidio di questa rigidità è stato istituito un apposito organo, la Corte Costituzionale, cui è affidato il compito di controllare se disposizioni di una legge ordinaria siano in conflitto con norme costituzionali (art. 134 Cost.). Il controllo di legittimità costituzionale delle leggi è previsto nella forma del controllo incidentale: se un giudice, ai fini della decisione, decide di dover appliccare una determinata norma di legge e quella norma gli appare di sospetta incostituzionalità, deve rimettere gli atti del processo alla Corte Costituzionale. È anche previsto un giudizio di costituzionalità in via principale, che può essere promosso dal governo contro le leggi regionali che eccedano la competenza legislativa delle Regioni. Se la Corte ritiene illegittima la norma sottoposta al suo esame, ne dichiara la sua incostituzionalità e la norma cessa “di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione” (art. 136 Cost.). Alle fonti di rango costituzionale appartengono anche le norme di diritto internazionale consuetudinario, il cui fondamento risiede nell’art. 10 della Cost. “l’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute”. Ne discende che queste norme entrano a far parte dell’ordinamento senza la necessità di ratifica da parte del Parlamento e godono della stessa forza vincolante della Carta Costituzionale. B. Le leggi dello stato e le leggi regionali Le leggi statali ordinarie sono approvate dal Parlamento con una procedura disciplinata dalla Carta Costituzionale (approvazione di un identico testo da parte di entrambe le Camere, promulgazione da parte del Presidente della Repubblica, pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale). La legge ordinaria può modificare o abrogare qualsiasi norma non avente valore di legge, mentre non può essere modificata o abrogata se non da una legge successiva. Alle leggi statali sono equiparati sia i decreti legislativi delegati che i decreti di legge di urgenza. Si tratta di provvedimenti aventi forza di legge, emanati dal Governo, non dal Parlamento. : ciò può avvenire o in virtù di una legge di delega del Parlamento, che deve specificare l’oggetto della delega e i principi ai quali il Governo deve attenersi, oppure in presenza di “casi straordinari di necessità e urgenza”, ma in tal caso è necessario che il decreto legge del Governo venga convertito in legge dal Parlamento entro sessanta giorni. La legge ordinaria può essere abrogata con referendum popolare (art 75 Cost.). Il ruolo delle leggi regionali e il loro rapporto con quelle statali sono state recentemente innovati: l’art. 117 della Carta Costituzionale del 1948 poneva il diritto di fonte regionale in posizione sotto ordinata rispetto a quello dello stato. La L. Cost. 18 ottobre 2001, n 3, ha modificato l’intero titolo V Cost. Il nuovo testo dell’art. 117 regola i rapporti tra leggi dello stato e leggi regionali, anzitutto definendo le rispettive competenze: lo Stato ha potestà legislativa esclusiva in un insieme di materie enumerate dall’art. 117. Esistono poi materie di legislazione concorrente tra Stato e regione: in tali materie la potestà legislativa spetta alle regioni, compete però alla legislazione dello statola determinazione dei “principi fondamentali”. Infine, è attribuita alle Regioni la potestà legislativa in ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello stato. C. I regolamenti Subordinate alle leggi vi sono altre “fonti” di diritto: l’art. 1 delle preleggi menziona i regolamenti e le norme corporative (che oggi non costituiscono più una realtà) e gli usi (o consuetudini). I regolamenti sono fonti secondarie del diritto e possono essere emanate dal Governo, dai ministri e da altre autorità amministrative, anche non statali, come le autorità indipendenti (es. la Consob) nell’ambito di apposite prescrizioni di legge. Essi hanno contenuto normativo, in quanto pongono norme generali e astratte, ma, come detto, provengono dall’autorità amministrativa, non dal potere legislativo. I regolamenti, per esempio, disciplinano l’organizzazione e il funzionamento dei pubblici uffici o anche degli organi costituzionali (per es. i regolamenti parlamentari), oppure regolano specifiche materie in forza di una delega o autorizzazione contenuta in una legge, che può fare rinvio, per completare la disciplina, ad altri regolamenti. Come ribadito dall’art. 4, co. 1 delle preleggi “i regolamenti non possono contenere norme contrarie alle disposizioni di legge” : qualora dunque un giudice rilevi un contrasto tra norma regolamentare e norma di legge, egli è tenuto a disapplicare la prima. Per questa ragione, la Corte Costituzionale ha escluso il proprio controllo di legittimità sui regolamenti. Quando ad applicare un regolamento ilegittimo sia chiamato un giudice amministrativo, questi, a differenza del giudice civile, ha il potere di provvedere con sentenza all’annullamento del regolamento contrario alla legge. La differenza tra annullamento e disapplicazione consiste in questo: se il regolamnento è annullato, la sua efficacia viene rimossa. La disapplicazione, invece, opera solo nell’ambito di quello specifico processo, ma il regolamento rimane in vigore e potrebbe essere applicato in altri casi. D. Le fonti comunitarie L’ingresso dell’Italia, prima nelle Comunità europee, poi nell’Unione Europea, è avvenuta con l’adesione a trattati internazionali, che costituiscono le fonti originarie del diritto comunitario. Questi trattati hanno valenza costituzionale, che viene affermata sulla base del disposto di cui all’art 11 Cost., alla stregua del quale sono ammissibili, a determinate condizioni, limitazioni della sovranità nazionale, per consentire la partecipazione del nostro paese ad organizzazioni internazionali. Sulla base di tale principio, si può affermare l’equiparazione dei Trattati alla Carta Costituzionale e la “ prevalenza” del diritto comunitario sulle fonti interne. Le fonti derivate di matrice comunitaria sono i regolamenti, le direttive e le decisioni. A) i regolamenti sono atti di portata generale e obbligatori in tutti i loro elementi. Contengono norme applicabili dai giudici dei singoli stati membri, come se fossero leggi dello stato. La Corte Costituzionale (sent. 18 giugno 1984, n 170) ha chiarito che, nel caso di contrasto tra regolamento e legge interna, il giudice italiano deve disapplicare la norma interna, e applicare la norma regolamentare. Questo pone la norma regolamentare in posizione gerarchica superiore alla legge ordinaria dello stato. B) le direttive si rivolgono agli organi legislativi degli Stati membri ed hanno lo scopo di armonizzare le legislazioni interne dei singoli Paesi; a differenza dei regolamenti, le direttive non sono immediatamente efficaci nell’ordinamento dei singoli stati, ma devono essere attuate mediante l’emanazione di apposite leggi. Uno stato che si renda inadempiente all’obbligo di attuare una direttiva entro il termine previsto dalla stessa, può essere sanzionato dagli organi comunitari. Inoltre, benché una direttiva, se non ancora attuata non possa fondare diritti tra privati e non possa essere applicata da un Giudice italiano, si ritiene che, qualora le norme della direttiva siano molto specifiche e sia scaduto il termine per la sua attuazione, gli organi della Pubblica amministrazione vi si debbano uniformare. C) le decisioni disciplinano normalmente situazioni ben definite e sono vincolanti solo per i soggetti destinatari specificamente individuati: persone fisiche o giuridiche, oppure Stati membri. Questo tipo di atto è adottato dalla Commissione nell’ambito della concorrenza. Così la decisione con la quale la Commissione ha comminato ammende alla Microsoft per abuso di posizione dominante, ha trovato applicazione, appunto, solo alla Microsoft. La Corte di Giustizia ha competenza in tema di interpretazione dei trattati e degli atti compiuti dalle istituzioni o dagli orgnismi dell’Unione. Infatti, qualora un giudice nazionale ritenga che la questione su cui decidere comporti l’applicazione di una norma comunitaria il cui significato sia dubbio, può sospendere il giudizio e chiedere alla Corte di Giustizia un’interpretazione della norma. Quindi, le sentenze interpretative emesse dalla corte sono vincolanti. Per consentire una tempestiva attuazione delle direttive, è stato elaborato lo strumento b) la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica (Art.73.3 Cost.); c) il decorso di un periodo di tempo, detto” vacatio legis”, che va dalla pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale all’entrata in vigore della legge, e che di regola è di 15 gg. Con la pubblicazione la legge si reputa conosciuta e diventa obbligatoria per tutti, anche per chi, in realtà, non ne abbia conoscenza. Vale, infatti, il principio per cui “ignorantia iuris non excusat”, cosicché nessuno può invocare a propria scusa, per evitare una sanzione, di aver ignorato l’esistenza di una disposizione di legge. La Corte Costituzionale ha tuttavia stabilito che l’ignoranza della legge è scusabile quando l’errore di un soggetto in ordine all’esistenza o al significato di una legge penale sia stato inevitabile. Abrogazione della legge (pag 41-42-43) Una disposizione di legge viene abrogata quando un nuovo atto dispone che ne cessi l’efficacia (anche se una norma, pur dopo abrogata può continuare ad essere applicata ai fatti verificatisi anteriormente). Per abrogare una disposizione occorre sempre l’intervento di una disposizione nuova di pari valore gerarchico: e così una legge non può essere abrogata che da una legge posteriore. L’abrogazione può essere espressa o tacita. Espressa quando la legge posteriore dichiara esplicitamente abrogata una legge anteriore. Tacita se manca, nella legge successiva, una tale dichiarazione formale, ma le disposizioni posteriori: a) sono incompatibili con una o più disposizioni antecedenti; b) costituiscono una regolamentazione dell’intera materia già regolata dalla legge precedente, la quale, pertanto, deve ritenersi assorbita e sostituita integralmente dalle disposizioni più recenti anche in assenza di una vera e propria incompatibilità tra la vecchia e la nuova disciplina. La deroga si ha quando una nuova norma sostituisce, ma solo per specifici casi, la disciplina prevista dalla norma precedente, che continua però ad essere applicabile a tutti gli altri casi. Un’altra figura di abrogazione espressa può essere realizzata mediante un referendum popolare, quando ne facciano richiesta almeno 500.000 elettori o 5 Consigli regionali, e la proposta di abrogazione si considera approvata se alla votazione partecipi la maggioranza degli aventi diritto purché la proposta di abrogazione consegua la maggioranza dei voti espressi (Art.75 Cost.). Anche la dichiarazione di incostituzionalità di una legge ne fa cessare l’efficacia. Ma mentre l’abrogazione ha effetto solo per l’avvenire (la legge, benché abrogata, può e deve essere ancora applicata ai fatti verificatisi quando era in vigore), la dichiarazione di incostituzionalità, invece, annulla la disposizione illegittima ex tunc, come se non fosse mai stata emanata, cosicché non può più essere applicata neppure nei giudizi ancora in corso e neppure ai fatti già verificatisi in precedenza. L’abrogazione di una norma che, a sua volta, aveva abrogato una norma precedente non fa rivivere quest’ultima, salvo che sia espressamente disposto: in tal caso la norma si chiama ripristinatoria. Irretroattività della legge (pag 43-44) L’art.11.1 delle preleggi stabilisce che “la legge non dispone che per l’avvenire: essa non ha effetto retroattivo”. Si dice, quindi, retroattiva una norma che attribuisca conseguenze giuridiche a fattispecie (concrete) verificatesi in momenti anteriori alla sua entrata in vigore. Nel nostro ordinamento solo la norma penale non può essere retroattiva: “nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo non costituiva reato”. Efficacia retroattiva hanno, poi, le così dette “leggi interpretative”, ossia quelle emanate per chiarire il significato di norme antecedenti e che, quindi, si applicano a tutti i fatti regolati da queste ultime. Successioni di leggi ( pag 44-45-46) In alcuni casi interviene il legislatore a regolare il passaggio tra la vecchia e quella nuova con specifiche norme, che si chiamano disposizioni transitorie. La legge nuova non può colpire i diritti quesiti, che, cioè, sono già entrati nel patrimonio di un soggetto (teoria del diritto quesito); inoltre la legge nuova non estende la sua efficacia ai fatti definitivamente perfezionati sotto il vigore della legge precedente, ancorché dei fatti stessi siano pendenti gli effetti (teoria del fatto compiuto). Quest’ultima teoria è maggiormente seguita. Si parla, invece, di ultrattività quando una disposizione di legge stabilisce che atti o rapporti, compiuti o svolgentisi nel vigore di una nuova normativa, continuano ad essere regolati dalla legge anteriore. CAPITOLO IV: L’APPLICAZIONE E L’INTERPRETAZIONE DELLA LEGGE 23. L’applicazione della legge Per applicazione della legge si intende la concreta realizzazione, nella vita della collettività, di quanto è ordinato dalle regole che compongono il diritto dello stato. Pertanto, se si tratta di norme di organizzazione o di struttura, la loro applicazione consiste nella effettiva creazione degli organi previsti e nel loro funzionamento. Se si tratta di norme di condotta, la loro applicazione consiste nel non fare ciò che è proibito. È compito dello stato curare l’applicazione delle norme di diritto pubblico. Viceversa, l’applicazione delle norme di diritto privato non è imposta in modo autoritario, proprio perché regola l’agire dei privati nei rapporti tra loro e dunque dipende dall’iniziativa dei singoli. Ciascuno di noi, quotidianamente, applica spontaneamente un certo numero di norme (rispettando la proprietà altrui, pagando i debiti…). Non sarebbe esatto però ritenere che tutte le volte che viene prestata osservanza spontanea alle norme, non abbiano rilievo le regole giuridiche. È la conoscenza dell’esistenza di una regola giuridica, che comporta la previsione del rischio di una lite giudiziale, a indurre molti a prestarsi spontaneamente al soddisfacimento di interessi altrui. Qualora la tutela del diritto individuale, di fronte alla sua lesione da parte di un altro soggetto, renda indispensabile il ricorso all’Autorità giurisdizionale, è il giudice ad applicare la legge pronunciando i provvedimenti previsti dal diritto processuale. 24. L’interpretazione della legge. Il precedente giurisprudenziale. L’interpretazione è attività tipica del giurista che deve confrontarsi con il testo normativo per comprendere la regola affermata dall’enunciato legislativo. Interpretare un testo normativo, non vuol dire solo “accertare” (conoscere) un significato univoco che il testo in sé già esprimerebbe, bensì attribuire un senso, decidere (scegliere) che cosa si ritiene che il testo effettivamente possa significare e, conseguentemente, come vadano risolti i conflitti che possono insorgere nella sua applicazione. Perciò, a parte i casi di comandi legali rigorosamente definiti da elementi quantitativi, di una disposizione normativa possono ammettersi “letture” plurime tra le quali l’interprete sceglie la soluzione più appropriata che inducono a ritenere un risultato preferibile ad un altro. L’attività di interpretazione non può dunque esaurirsi nel mero esame dei dati testuali : in primo luogo non tutti i vocaboli contenuti nelle leggi possono essere definiti nelle leggi stesse: il significato che viene loro attribuito in ciascun contesto, deve essere ricavato da elementi extra- testuali. In secondo luogo, gli enunciati normativi si riferiscono a situazioni ipotetiche e definite in via generale e astratta: spetterà all’interprete, di fronte a casi singoli concreti, decidere se considerarli inclusi nella disciplina dettata dalla norma, oppure no, impiegando le tecniche di estensione o integrazione delle disposizioni della legge, attingendo a criteri di decisione extra-legislativi o meta-legislativi. In terzo luogo, le formulazioni delle leggi sono spesso in conflitto tra loro: conflitti che si superano ricorrendo a sistemi di gerarchia tra le fonti (ad es. le norme costituzionali prevalgono su quelle ordinarie), a criteri cronologici (la legge posteriore prevale su quella anteriore). Senonché le incertezze delle leggi sovraordinate si ripercuotono su quelle sottordinate e il criterio di posteriorità non è sempre funzionale: è quindi spesso indispensabile ricorrere a strumenti extra-legislativi per risolvere i conflitti fra le leggi. In quarto luogo, di fronte a ciascun singolo caso, occorre spesso utilizzare un’ampia combinazione di disposizioni (non solo una norma), opportunamente ritagliate e ricomposte per adattarle al caso: è un’operazione che si avvale di ricostruzioni sistematiche (ossia sulla base dell’intero sistema dell’ordinamento) e di elementi extra- testuali. L’attività ermeneutica è ancorata ai principi della Costituzione, poiché, come ha ribadito più volte la Corte Costituzionale, tra più significati possibili che si possono attribuire a una norma deve essere preferito quello conforme alla Costituzione (C.Cost., 7 gennaio 2000, n1).(interpretazione costituzionalmente orientata). L’attribuzione da parte dell’interprete, a un documento legislativo, del senso più immediato e intuitivo viene detta interpretazione dichiarativa. Il canone metodologico in claris non fit interpretatio, prescrive di attenersi, ovunque sia possibile, ad un’interpretazione dichiarativa. Quando invece il processo interpretativo attribuisce un significato diverso da quello che a prima vista apparirebbe “proprio”, si parla di interpretazione correttiva, nelle due forme dell’interpretazione estensiva e restrittiva (che può giungere fino al limite dell’interpretazione abrogante). L’integrazione della legge, cioè l’individuazione di una nuova norma che ad una prima e immediata lettura il documento normativo non consentirebbe, rientra nell’attività di interpretazione. Dal punto di vista dei soggetti che svolgono l’attività interpretativa si suole distinguere tra interpretazione giudiziale, dottrinale e autentica. L’attività interpretativa – libera a chiunque – si traduce in provvedimenti dotati di efficacia vincolante quando è compiuta dai giudici dello Stato nell’esercizio della funzione giurisdizionale (interpretazione giudiziale). Si precisi, però, che le sole destinatarie del provvedimento del giudice sono le parti del giudizio. Una sentenza è però idonea ad assumere il valore di precedente nei confronti di altri casi simili, in quanto l’interpretazione di una disposizione normativa sottesa alla sentenza e le argomentazioni logico-giuridiche che ne costituiscono la motivazione possono essere assunte a modello da parte di altri giudici. Con l’espressione giurisprudenza si definisce l’orientamento applicativo espresso dalla prassi, tendenzialmente stabile, dei giudici. Il valore di un precedente, nel nostro ordinamento, è però limitato alla persuasività logica ed argomentativa del criterio di decisione espresso dalla sentenza, poiché non è attribuita ai precedenti giurisprudenziali forza vincolante ai fini della risoluzione di casi analoghi (diversamente dagli ordinamenti anglosassoni). Tuttavia, l’interpretazione giudiziale ha di fatto sempre avuto una notevole autorità: il recente art. 360-bis c.p.c. ha rafforzato il valore del precedente giurisprudenziale, dichiarando l’inammissibilità del ricorso alla Corte di Cassazione quando il provvedimento che si vuole impugnare (es. una sentenza di grado inferiore, Corte d’Appello o Tribunale) abbia deciso le questioni di diritto in modo conforme al pregresso orientamento della Corte stessa in argomento. Ancora, nell’ambito del processo civile, è conferita una sorta di vincolatività alle sentenze della Cassazione a Sezioni Unite. Le Sezioni Semplici della Corte di cassazione non sono libere di emanare decisioni difformi come accade per i giudici di merito. Infine, sono dotate di vincolatività le sentenze interpretative della Corte di giustizia dell’Unione Europea (cfr 16). Peculiare, invece, è il ruolo attribuito alle sentenze emanate dalla Corte Europea dei Diritti dell’uomo , la cui vincolatività nei confronti dei giudici nazionali è anche di tipo ermeneutico: i giudici nazionali devono senz’altro fare riferimento alle norme della Cedu nell’applicare le norme dell’ordinamento italiano e di quello comunitario. Su un altro piano si pone l’interpretazione dottrinale, costituita dagli apporti di studio dei cultori delle materie giuridiche, i quali, senza alcun’altra autorità diversa da quella che può derivare dal prestigio dell’autore, si preoccupano di raccogliere il materiale utile all’interpretazione delle varie disposizioni, di illustrarne i possibili significati, di sottolineare le implicazioni e le conseguenze delle varie soluzioni interpretative. Non costituisce, infine, vera attività interpretativa l’interpretazione autentica, ossia quella che proviene dallo stesso legislatore, che emana talvolta apposite disposizioni per chiarire il significato di altre preesistenti: il legislatore vuole che chi deve applicare la norma precedente le attribuisca il senso che la nuova disposizione ha stabilito si debba attribuire a quella precedente. Questa ha perciò, efficacia retroattiva: chiarisce anche per il passato il valore da attribuire alla legge precedente, troncando i dubbi che erano sorti sulla sua interpretazione. L’efficacia retroattiva è da distinguere da quella novativa, che ha efficacia solo per i fatti compiuti successivamente alla sua entrata in vigore. Non è necessario che la portata interpretativa di una norma sia dichiarata esplicitamente dal legislatore: la sua intenzione può essere dedotta anche implicitamente: per es., essa può risultare anche dal fato che una nuova legge ripeta una disposizione già contenuta in una legge precedente, chiarendola. L’importanza del d.i.p. è cresciuta nel tempo, visto l’intensificarsi della circolazione delle persone e degli scambi transnazionali. Il d.i.p. italiano era dettato negli art. 17/31 delle preleggi. Ma si è giunti all’approvazione di una legge di riforma globale della materia (L. 31 maggio 1995, n.218) di ben 74 articoli, che ha disposto, tra l’altro, l’abrogazione degli art. dal 17 al 31 delle preleggi. Peraltro la disciplina del d.i.p. non è contenuta nella sola L. n. 218/1995: infatti, si è imposto anche un movimento di uniformazione a livello sovranazionale del d.i.p., che ha portato all’elaborazione di numerose convenzione di d.i.p. uniforme, volto, cioè, a porre regole comuni di soluzione dei conflitti di legge nello spazio, applicate da tutti gli Stati aderenti. 28. Qualificazione del rapporto e momenti di collegamento Per comprendere come operino in concreto le norme di d.i.p. è opportuno tenere distinte le varie fasi attraverso le quali, di fronte a un conflitto di leggi, occorre procedere per scegliere l’ordinamento competente a disciplinare il rapporto in questione. In primo luogo, è necessario procedere alla qualificazione del rapporto, evidenziandone la natura: ad es. un certo rapporto giuridico può classificarsi come coniugale o di successione a causa di morte. Peraltro può accadere che i singoli ordinamenti non seguano identici criteri nel classificare i rapporti giuridici: allora, in base a quale ordinamento deve procedersi alla qualificazione di ciascun rapporto, ossia alla determinazione della sua natura? La soluzione accolta indica la legge del luogo in cui si procede alla disciplina del rapporto ( lex fori). Poi si deve procedere ad un’ulteriore operazione: occorre che la norma di d.i.p. assuma un elemento del rapporto per elevarlo a momento di collegamento, ossia ad elemento della fattispecie decisivo per l’individuazione dell’ordinamento competente a regolare il rapporto in questione, in quanto più “vicino” al caso concreto ed appropriato per disciplinarlo. 29. I vari momenti di collegamento Possiamo dunque passare all’esame delle principali disposizioni di d.i.p. italiano, quali risultano dalla già citata legge di riforma 218/1995. Per quanto riguarda la “capacità giuridica delle persone fisiche” (art.20) si applica la lex originis, ossia la legge nazionale della persona. Se questa “ha più cittadinanze, si applica la legge di quello tra gli Stati di appartenenza con il quale essa ha il collegamento più stretto. Se tra le cittadinanze c’è quella italiana, questa prevale” (art. 19, co.2). La “capacità di agire delle persone fisiche” è pure regolata “dalla loro legge nazionale” (art.23 co.1). Gli enti (società, associazioni, fondazioni) “sono disciplinati dalla legge dello Stato nel cui territorio è stato perfezionato il procedimento di costituzione” (art. 25 co.1). Tuttavia, si applica la legge italiana “se la sede dell’amministrazione è situata in Italia, oppure se in Italia si trova l’oggetto principale di tali enti”. Per quanto riguarda il matrimonio si distinguono diversi profili: a) le condizioni per contrarre matrimonio sono regolate dalla legge nazionale di ciascun nubendo al momento del matrimonio (art. 27); b) la forma del matrimonio, per la quale vale la legge del luogo di celebrazione, ma può applicarsi pure la legge nazionale di uno dei due coniugi al momento della celebrazione; c) i rapporti personali tra coniugi, cui si applica la legge nazinale se hanno eguale cittadinanza o, se hanno diversa cittadinanza, la legge dello stato nel quale la vita matrimoniale è prevalentemente localizzata; d) i rapporti patrimoniali tra coniugi, che vanno regolati dalla legge applicabile ai rapporti personali; e) la separazione personale e lo scioglimento del matrimonio. In argomento è intervenuto il Regolamento n.1259/2010/UE, che stabilisce che siano i coniugi a poter designare, di comune accordo, la legge applicabile al divorzio e alla separazione personale. Per evitare, però, situazioni di comodo, deve trattarsi della legge dello Stato di residenza abituale dei coniugi; In materia di filiazione: lo stato del figlio “è determinato dalla legge nazionale del figlio o, se più favorevole, dalla legge dello Stato di cui uno dei genitori è cittadino, al momento della nascita” (art. 33, co.1). Le condizioni per il riconoscimento di un figlio nato fuori dal matrimonio “sono regolate dalla legge nazionale del figlio o, se più favorevole, dalla legge nazionale del soggetto che fa il riconoscimento nel momento in cui questo avviene” (art. 35, co.3). L’adozione è regolata “dal diritto internazionale dell’adottato o degli adottanti se comune o, in mancanza, dal diritto dello Stato nel quale gli adottanti sono entrambi residenti, o da quello dello Stato nel quale la loro vita matrimoniale è prevalentemente localizzata, al momento dell’adozione” (art. 38, co.1). Tuttavia la norma precisa che quando viene richiesta al giudice italiano l’adozione di un minore, si applica il diritto italiano. La successione mortis causa “è regolata dalla legge nazionale del soggetto della cui eredità si tratta, al momento della morte” (art. 46, co.1 Legge n.218/1995). La forma del testamento deve rispettare o “ la legge dello Stato nel quale il testatore ha disposto” o “la legge dello Stato di cui il testatore, al momento del testamento o della morte, era cittadino” o “la legge dello Stato in cui aveva il domicilio o la residenza” (art. 48 Legge 218/1995). In materia di obbligazioni contrattuali l’art.57 della L. n. 218/1995 fa rinvio alla Convenzione di Roma sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali. Essa ha introdotto un diritto internazionale privato uniforme: ciò significa che tutti gli stati aderenti si vincolano ad utilizzare identici criteri per individuare la legge regolatrice di un rapporto contrattuale con elementi di estraneità. Per quanto riguarda le obbligazioni avente fonte non contrattuale si deve far riferimento al Regolamento n. 864/2007/CE dell’11 luglio 2007: le obbligazioni derivanti da fatto illecito sono regolate dal paese nel quale il danno si è verificato; le obbligazioni nascenti da arricchimento senza causa, quelle relative alla restituzione di un pagamento ricevuto debitamente o derivanti da gestione di affari altrui sono disciplinate dalla legge che disciplina quel rapporto, altrimenti dalla legge della eventuale residenza comune delle parti o da quella del luogo dove è avvenuto il fatto. 30. Il rinvio ad altra legge. Il limite dell’ordine pubblico. Le norme di applicazione necessaria L’eventuale rinvio operato dal nostro d.i.p. ad un ordinamento straniero pone problemi assai delicati: innanzitutto, quid iuris nell’ipotesi in cui quell’ordinamento, a sua volta, rinvii ad un altro ordinamento? Ad es. il nostro d.i.p. rinvia, per i rapporti tra genitori e figli, alla legge nazionale “del figlio”; ma quest’ultima potrebbe a sua volta, per un determinato caso, rinviare alla legge nazionale del padre, ovvero alla legge del domicilio del figlio. L’art. 13 co. 1 della L. n 218 stabilisce che “si tiene conto del rinvio operato dal diritto internazionale privato alla legge di un altro Stato: a) se il diritto di tale Stato accetta il rinvio; b) se si tratta di rinvio alla legge italiana. 31. La conoscenza della legge straniera La legge di riforma stabilisce che spetti al giudice accertare il contenuto della legge straniera applicabile, anche interpellando il Ministero della Giustizia o istituzioni specializzate, eventualmente con la collaborazione delle parti. Nel caso in cui comunque non risulti possibile accertare le disposizioni della legge straniera richiamata, il giudice deciderà in base alla legge italiana. 32. La condizione dello straniero Quanto al trattamento giuridico degli stranieri si pone una fondamentale distinzioni tra i “cittadini comunitari” e “extracomunitari”. Per i primi si applica l’art. 17 del Trattato Istitutivo della comunità Europea”. Ai cittadini comunitari viene riconosciuto, senza possibilità di discriminazione, pieno diritto di circolazione e soggiorno in tutti gli Stati membri e il godimento degli stessi diritti civili attribuiti al cittadino nazionale e anche alcuni limitati diritti politici , quali il voto nelle elezioni comunali. Per gli extracomunitari la disciplina è stata modificata negli ultimi anni, sotto la spinta di una massiccia immigrazione proveniente dal Terzo Mondo. Ai cittadini extracomunitari è applicabile il diritto di asilo, previsto in generale dall’art. 10, co. 3 Costituzione, sia l’inammissibilità della estradizione per reati politici. Inoltre “allo straniero comunque presente alla frontiera o nel territorio dello Stato sono riconosciuti i diritti fondamentali della persona umana previsti dalle norme di diritto interno, dalle convenzioni internazionali in vigore e dai principi di diritto internazionale generalmente riconosciuti” (art. 2, co. 1. D.Lgs. n. 286/1988). All’extracomunitario “regolarmente soggiornante” in Italia è altresì assicurato il godimento “dei diritti in materia civile attribuiti al cittadino italiano” a meno che “le convenzioni internazionali dispongano diversamente” (art. 2, co. 2). CAPITOLO VI: LE SITUAZIONI GIURIDICHE SOGGETTIVE 33. Il rapporto giuridico La relazione che passa, ad esempio, tra me e il mio debitore è un rapporto giuridico, regolato dal diritto (oggettivo) che attribuisce a me il potere di pretendere il pagamento del debito (diritto soggettivo) e pone a carico del mio debitore il dovere di pagare. Il rapporto giuridico è appunto la relazione tra due soggetti regolata dall’ordinamento giuridico. I soggetti protagonisti del rapporto giuridico sono il soggetto attivo, colui al quale l’ordinamento giuridico attribuisce un potere (o diritto soggettivo, per esempio quello di pretendere un pagamento) e soggetto passivo, colui a carico del quale sussiste un dovere (per es. di pagare). Quando si vuole alludere alle persone tra le quali intercorre un rapporto giuridico si usa l’espressione “parti”. Contrapposto al concetto di parte è quello di terzo, colui il quale sia estraneo ad un determinato rapporto giuridico, intercorrente tra altri soggetti. Il rapporto giuridico, in linea di principio, non produce effetti né a favore né a danno del terzo. Tuttavia non di rado la legge si deve preoccupare di regolare la posizione dei terzi rispetto ad un determinato rapporto. Il rapporto giuridico non è che la figura di una categoria più ampia: la situazione giuridica. La norma giuridica prevede fattispecie a cui annette determinate conseguenze giuridiche. Quando la fattispecie si è realizzata si è verificato un mutamento nel mondo dei fenomeni giuridici: allo stato di cose preesistente si è sostituita una situazione giuridica nuova, che può consistere o in un rapporto giuridico o nella qualificazione di persone (capacità, incapacità, qualità di coniuge…). 34. Situazioni soggettive attive (diritto soggettivo, potestà, facoltà, aspettativa, status) Il soggetto attivo di un rapporto giuridico, come già detto, è titolare di un diritto soggettivo. Con l’attribuzione del diritto soggettivo si realizza la protezione giuridica, ossia attraverso gli strumenti giuridici offerti dall’ordinamento, dell’interesse del singolo al quale al tempo stesso, si riconosce una situazione di libertà. Il diritto soggettivo è pertanto il potere di agire per il soddisfacimento di un proprio interesse individuale, protetto dall’ordinamento giuridico. L’aspetto della tutela è essenziale nel qualificare una situazione di interesse personale come contenuto di un diritto del soggetto. Esistono, infatti, molteplici interessi individuali irrilevanti per l’ordinamento giuridico, ossia ai quali l’ordinamento non concede alcuna protezione (si pensi all’aspettativa di ciascuno al rispetto). Viceversa, esiste un diritto soggettivo in quanto l’ordinamento tuteli la soddisfazione dell’interesse del singolo. In alcuni casi il potere di agire per l’ottenimento di un certo risultato pratico non è attribuito al singolo nel suo proprio interesse, bensì per realizzare un interesse altrui. Il fenomeno è presente molto spesso nel diritto pubblico, in cui l’ordinamento giuridico attribuisce poteri agli organi pubblici nell’interesse della collettività e non delle singole persone fisiche investite nell’ufficio. Tuttavia, non ne mancano esempi nel diritto privato (v. paragr. 608). Queste figure di poteri che al tempo stesso sono poteri sono detti potestà o uffici (per es. un ufficio è quello di tutore di una persona incapace). Mentre l’esercizio del diritto soggettivo è libero, in quanto il titolare può perseguire i fini che ritiene più opportuni, l’esercizio della potestà deve sempre ispirarsi al fine della cura dell’interesse altrui. strumenti di coercizione messi a disposizione dall’ordinamento (se il mio vicino taglia un albero del mio giardino, posso agire nei suoi confronti per ottenere il risarcimento del danno), allora sono titolare di un diritto soggettivo. Si parla, invece, di interesse legittimo, nell’ambito dei rapporti tra privato pubblici poteri. Tal situazione comporta il potere del singolo di sollecitare un controllo giudiziario in ordine al comportamento tenuto, correttamente o meno, dalla pubblica amministrazione. Talora, invero, anche il rapporto tra cittadino e Pubblica Amministrazione si configura connotato da una serie di diritti soggettivi e obblighi: si parla di norme di relazione, che disciplinano uno specifico rapporto interindividuale tra ente pubblico e privato. Poi ci sono le norme di azione che regolano il funzionamento (l’azione) delle pubbliche amministrazioni. In capo ai privati interessati alla loro osservanza, non ne derivano diritti soggettivi pieni, perché queste norme non disciplinano specifichi interessi individuali, ma l’attività pubblica. È chiaro che tutti i cittadini hanno l’interesse all’osservanza di tutte le norme per il funzionamento dei pubblici poteri. In taluni casi, tuttavia, l’osservanza di una disposizione interessa alcuni soggetti non più genericamente quali cittadini, bensì specificamente come portatori di specifici interessi individuali coinvolti dall’azione pubblica (ad es. il candidato ad un concorso, l’imprenditore che partecipa ad una gara per l’assegnazione di un appalto). Al privato viene riconosciuto uno specifico potere di controllo della regolarità dell’azione pubblica ed un potere di impugnativa degli atti eventualmente viziati (art. 113 Cost.). La situazione giuridica dei portatori di tali interessi viene definita come interesse legittimo e si traduce non già nella tutela del singolo a veder concretamente soddisfatto un proprio bisogno o aspirazione, ma in una tutela soltanto mediata o strumentale, ossia nel controllo del corretto esercizio delle pubbliche funzioni (un candidato ad un concorso non ha diritto di vincerlo, ma ha un interesse legittimo al regolare svolgimento della procedura, alla corretta e imparziale valutazione dei candidati…). Lo strumento di tutela dell’interesse legittimo consiste nell’impugnazione dell’atto amministrativo illegittimo, al fine di ottenerne l’annullamento. Il privato, portatore di un interesse legittimo in relazione ad un determinato provvedimento della Pubblica Amministrazione, può contestarne la validità, rivolgendosi agli organi competenti (T.A.R.), deducendo il relativo vizio, che può essere un vizio di incompetenza (un organo amministrativo ha compiuto un atto non rientrante nei suoi poteri), di violazione di legge (il provvedimento si pone in contrasto con le norme di legge che ne definiscono i presupposti o contenuti), o di eccesso di potere (l’atto risulta viziato da illogicità e contradditorietà, concretando uno “straripamento”di potere da parte dell’organo che ha compiuto l’atto). Un problema dibattuto per decenni riguardava la sussistenza o meno di un diritto privato, che sia leso da un atto amministrativo illegittimo, di ottenere il risarcimento del danno subito per effetto di tale atto. La risposta è stata a lungo negativa. Ma sul tema è intervenuta un’importante decisione della Corte di Cassazione (sentenza 22 luglio 1999, n 500), che ha affermato il principio per cui anche la lesione di un interesse individuale costituente oggetto di un interesse legittimo può costituire fonte di danno risarcibile: il privato ha dunque il diritto di ottenere il risarcimento del danno subito. Secondo alcune tesi la figura dell’interesse legittimo è rintracciabile, oltre che nel diritto amministrativo, anche nel diritto privato: ad es., le norme che regolano il funzionamento delle assemblee di una società per azioni sono stabilite nell’interesse della società, ma il singolo socio che si ritenga leso da una deliberazione può chiedere al giudice di annullarla, se sia stata adottata violando le norme suddette. 38. Situazioni di fatto Quelle che abbiamo esaminato sono le situazioni giuridiche legittime, ossia quelle conformi alle previsioni dell’ordinamento. Ma l’ordinamento stesso protegge provvisoriamente contro la violenza e il dolo altrui anche la situazione di fatto in cui il soggetto può trovarsi rispetto ad un bene, e attribuisce anche ad essa alcuni effetti. SI hanno allora le due figure del possesso e della detenzione (parag. 177). 39. Situazioni soggettive passive (dovere, obbligo, soggezione, onere) Per ragioni sistematiche e di chiarezza, distinguiamo la figura del dovere generico di astensione, che incombe su tutti i consociati a fronte di un diritto assoluto: ossia dovere di astenersi dal ledere il diritto assoluto di un’altra persona; quella dell’obbligo cui è tenuto il soggetto passivo di un rapporto obbligatorio, a cui fa riscontro nel soggetto attivo la pretesa, ossia il potere di esigere uno specifico comportamento (la prestazione) da un altro individuo. Dalle situazioni passive si deve distinguere l’onere, che ricorre quando ad un soggetto è attribuito un potere, ma l’esercizio di tale potere è condizionato da un adempimento (che però, essendo previsto nell’interesse dello stesso soggetto, non è obbligatorio e quindi non prevede sanzioni nell’ipotesi che resti inattuato): ad es., il compratore che intende avvalersi della garanzia per i vizi della cosa vendutagli ha l’onere di denunciare i vizi della cosa entro otto giorni dal momento in cui li ha scoperti. 40. Vicende del rapporto giuridico Il rapporto giuridico nasce allorché il soggetto attivo acquista il diritto soggettivo. L’acquisto indica il fenomeno del collegarsi di un diritto con una persona che ne diventa il titolare. L’acquisto può essere di due specie: a titolo originario, quando il diritto soggettivo sorge a favore di una persona, senza esserle trasmesso da nessuno, o a titolo derivativo, quando il diritto si trasmette da una persona ad un’altra. Per es., il pescatore che fa propri i pesci caduti nella rete compie un acquisto a titolo originario (art. 923, co. 2 cc): il pesce, prima che egli se ne appropriasse, era cosa di nessuno (res nullius). È anche a titolo originario l’acquisto per occupazione delle cose abbandonate (res derelictae) o l’acquisto per usucapione di un bene altrui. Se, invece, compro un immobile da chi è proprietario, compio un acquisto a titolo derivativo. L’atto o il fatto giuridico che giustifica l’acquisto è il titolo d’acquisto o causa adquirendi. Nell’acquisto a titolo derivativo si verifica il passaggio di un diritto dal patrimonio giuridico di una persona a quello di un’altra. Questo fenomeno è detto successione: esso indica il mutamento del soggetto di un rapporto giuridico: colui che per effetto della successione perde il diritto, si chiama autore o dante causa; chi lo acquista successore o avente causa. Può verificarsi non soltanto il mutamento del soggetto attivo del rapporto (successione nel lato attivo), ma anche quello del soggetto passivo (successione nel lato passivo: come vedremo, per es., l’erede succede nell’obbligo di pagare i debiti del defunto). L’acquisto a titolo derivativo può essere di due specie: si può trasmettere proprio lo stesso diritto che aveva il titolare (acquisto a titolo derivativo-traslativo) o può attribuirsi al nuovo titolare un diritto differente, che, peraltro, scaturisce dal diritto del precedente titolare (acquisto derivativo-costitutivo o successione a titolo derivativo), in quanto lo suppone e ne assorbe il contenuto, o, in parte, lo limita. Così il contenuto del diritto di proprietà comprende il godimento e la disposizione della cosa (art. 832 cc); se il proprietario attribuisce ad un’altra persona il diritto di godere della cosa (usufrutto, artl 981 cc), l’acquisto che l’usufruttuario compie è a titolo derivativo-costitutivo. Nelle due forme di acquisto a titolo derivativo, il nuovo soggetto consegue lo stesso diritto che aveva il precedente titolare. Ciò giustifica le regole seguenti: 1) il nuovo titolare non può vantare un diritto di portata più ampia di quello che spettava al precedente; 2) l’acquisto del diritto del nuovo titolare dipende dall’effettiva esistenza del diritto del precedente titolare (se ho ereditato da una persona un bene e risulta che il mio dante causa non è proprietario del bene, anche il mio diritto cade. La successione è di due specie: a titolo universale, quando una persona subentra in tutti i rapporti di un’altra persona e cioè sia nella posizione attiva (es. fusione tra società; morte di una persona); a titolo particolare, quando una persona subentra solo in un determinato diritto o rapporto. La vicenda finale del rapporto è la sua estinzione: il rapporto si estingue quando il titolare perde il diritto senza che questo sia trasmesso ad altri (es. estinzione del rapporto obbligatorio). CAPITOLO VII 41. Soggetto e persona Le situazioni giuridiche soggettive (diritti, obblighi, oneri…) fanno capo ai soggetti. L’idoneità a essere titolari di situazioni giuridiche soggettive – quindi a essere soggetti – viene definita capacità giuridica. La capacità giuridica compete alle persone fisiche, agli enti e ad altre strutture organizzate che la legge tratta come autonomo centro di imputazione di situazioni giuridiche soggettive (ad es. il condominio). All’interno degli enti occorre poi distinguere fra enti che sono persone giuridiche (associazioni riconosciute, enti pubblici) ed enti non dotati di personalità (associazioni non riconosciute, società di persone). Entrambi sono soggetti di diritto, ma i primi hanno autonomia patrimoniale perfetta (ossia, delle obbligazioni dell’ente risponde solo l’ente stesso con il proprio patrimonio), che difetta invece ai secondi. I concetti di soggetto e persona,dunque, non coincidono. Le persone (fisiche e giuridiche) sono soggetti, ma non esauriscono quest’ultima categoria, che comprende anche gli enti non dotati di personalità. A) LA PERSONA FISICA 42. La capacità giuridica della persona fisica L’uomo, per il solo fatto della nascita (art. 1, co. 1 cc), acquista la capacità giuridica e, conseguentemente, diviene soggetto di diritto. “Nessuno può essere privato, per motivi politici, della capacitò giuridica” (art 22 Cost.). La capacità giuridica, dunque, compete indifferentemente a tutti gli uomini. Tale principio, che può sembrare ovvio, costituisce, in realtà, una conquista relativamente recente nella società giuridica occidentale. Ancora nel periodo immediatamente precedente la rivoluzione francese, infatti, il diritto distingueva tra soggetti nobili, borghesi, soggetti appartenenti al clero, servi, tra soggetti maschi e femmine: finendo col delineare, per ciascuni, uno status giuridico differenziato. Solo con la caduta dell’ancien regime, si afferma il rivoluzionario principio (di derivazione giusnaturalista e illuminista), secondo cui “gli uomini nascono e rimangono liberi e uguali nei diritti”(art. 1 della francese Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittdino). Nel solco di questa tradizione, l’art. 3 della nostra Costituzione Repubblicana proclama oggi solennemente che “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali” (art. 3 Cost.). E, in ossequio a detto principio, il legislatore è intervenuto per eliminare quelle limitazioni formali alla capacità dei cittadini che, in passato, erano state introdotte nel nostro ordinamento sulla base della razza, del sesso (ad es. divieto di accesso della donna ad alcune cariche pubbliche), delle condizioni personali. Peraltro, sempre più avvertita nella coscienza sociale è l’idea che il superamento delle limitazioni formali della capacità dei cittadini è condizione necessaria, ma non sufficiente per la completa attuazione del principio di eguaglianza. In quest’ottica, l’art. 3 co. 2, Cost. prevede che “è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Capacità giuridica di diritto privato compete non solo al cittadino, ma anche allo straniero, con il limite del rispetto del principio di reciprocità (lo straniero è cioè ammesso a godere in Italia dei diritti civili se e nella misura in cui il cittadino italiano è ammesso a godere di detti diritti nel Paese di cui lo straniero ha La capacità di agire si acquista al raggiungimento della maggiore età, cioè al compimento del diciottesimo anno (art. 2, co. 1 cc). Può accadere che, nonostante la maggiore età, la persona fisica si ritrovi, per le ragioni più varie (ubriachezza, malattia fisica o mentale), a non avere quelle capacità di discernimento che invece è normale attendersi da un individuo adulto e maturo. Di qui la necessità di apprestare a protezione di questi soggetti, strumenti di salvaguardia contro il rischio che gli stessi possano porre in essere atti negoziali destinati a incidere negativamente sui loro interessi (ad es., svendere la propria casa). A tal fine, il codice civile prevede gli istituti: a) della minore età; b) dell’interdizione giudiziale; c) dell’inabilitazione; d) dell’emancipazione; e) dell’amministrazione di sostegno; f) dell’incapacità di intendere o di volere (incapacità naturale). Ad una logica non già di protezione, ma sanzionatoria risponde l’istituto dell’interdizione legale. Da non confondere con la capacità negoziale (che riguarda l’idoneità del soggetto a compiere personalmente atti di autonomia negoziale come vendere, comprare ecc.), è la capacità extranegoziale, che riguarda l’idoneità del soggetto a rispondere delle conseguenze dannose degli atti dallo stesso posti in essere (ad es., ferite cagionate al passante travolto sulle strisce pedonali). 47. La minore età Come già detto, la legge fissa, con criterio generale, un età, uguale per tutti, al cui raggiungimento reputa che la persona fisica abbia acquisito la capacità e le esperienze necessarie per assumere validamente ogni decisione che la riguarda. Prima di quel momento, il soggetto è legalmente incapace, quand’anche dovesse aver acquisito un elevato grado di maturità; Dopo quel momento, il soggetto è legalmente capace, quand’anche, per una qualsiasi ragione (malattia mentale ad es.), dovesse non aver raggiunto i livelli di maturità normali per la sua età. Con la maggiore età, la persona acquista la capacità di compiere tutti gli atti per i quali non sia richiesta un’età diversa (art. 2, co. 1, cc). Si ricorda che il minore ultrasedicenne è ammesso a stipulare il proprio contratto di lavoro ed è giudizialmente ammesso al matrimonio, è chiamato a prestare in prima persona il consenso alle nozze (art. 84, co. 2 cc); il minore ultrasedicenne – se autorizzato dal giudice, anche prima dei sedici anni – effettua direttamente il riconoscimento del figlio naturale (art. 250, co. 5, cc). Il minore non può stipulare direttamente gli atti negoziali destinati ad incidere sulla propria sfera giuridica. Gli atti eventualmente posti in essere dal minore sono annullabili, per il solo fatto di essere stati stipulati da un minore, salvo che quest’ultimo non abbia, con raggiri idonei a trarre in inganno il terzo (ad es., alterando il proprio documento di identità), occultato la propria minore età. L’atto posto in essere dal minore può essere impugnato entro 5 anni dal raggiungimento, del minore stesso, della maggiore età. L’impugnativa può, però, essere proposta solo dal rappresentante legale del minore o direttamente da quest’ultimo, una volta divenuto maggiorenne; non dalla controparte. Si parla, al riguardo, di negozi claudicanti: la legge vuole tutelare il minore contro i rischi di un atto improvvidamente assunto, non chi abbia stipulato con il minore (maggiorenne e ritenuto dalla legge legalmente capace). L’art. 1425 co. 1 statuisce che “il contratto è annullabile se una delle parti era legalmente incapace di contrattare” (nel caso di specie, perché è minore). Tuttavia, nella quotidianità i minori vengono normalmente ammessi a stipulare tutta una serie di contratti (es., acquistano biglietti dell’autobus, giornali…), senza che nessuno si sogni di impugnare detti atti. In realtà, essendo l’istituto della minore età funzionale alla protezione del minore, devono ritenersi a quest’ultimo accessibili tutti quegli atti che siano “necessari a soddisfare le esigenze della propria vita quotidiana” (art. 409 co. 2 cc), in relazione all’età raggiunta (un ragazzo di 17 anni può ben acquistare un libro da solo, senza ricorrere ai genitori). Diversamente, l’istituto della minore età finirebbe con il trasformarsi in uno strumento di emarginazione del minore. La gestione del patrimonio del minore (c.d. potere di amministrazione) ed il compimento di ogni atto relativo (c.d. potere di rappresentanza) competono, in via esclusiva, ai genitori: a) Disgiuntamente, per quanto riguarda gli atti di ordinaria amministrazione (cioè, quelli che non comportano rischi per l’integrità del patrimonio: ad es. la riscossione del canone di locazione dell’appartamento di cui il minore è proprietario). b) Congiuntamente (di comune accordo) per quanto riguarda gli atti di straordinaria amministrazione (suscettibili di incidere significativamente sul patrimonio: ad es., la vendita dell’appartamento di cui il minore è proprietario. Peraltro, al fine di controllare preventivamente che gli atti maggiormente rischiosi per il patrimonio del minore siano effettivamente funzionali ai suoi interessi, la legge richiede che, per il compimento degli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione, i genitori si muniscano della preventiva autorizzazione del giudice tutelare. Gli atti posti in essere in assenza della richiesta di autorizzazione sono annullabili, su istanza dei genitori stessi o del figlio divenuto maggiorenne. Se uno dei genitori è morto o impossibilitato (per lontananza o altro impedimento) ad esercitare la responsabilità genitoriale, l’amministrazione del suo patrimonio e la rappresentanza competono all’altro genitore. Se entrambi i genitori sono morti o non possono esercitare la responsabilità genitoriale, la gestione del patrimonio e la relativa rappresentanza spettano a un tutore nominato dal giudice tutelare. Offendo il tutore minori garanzie rispetto ai genitori, la legge richiede che lo stesso debba munirsi della preventiva autorizzazione del giudice tutelare per il compimento degli atti indicati dall’art. 374 cc e della preventiva autorizzazione del tribunale per il compimento degli atti indicati dall’art. 375 cc.). In sintonia con indicazioni provenienti da fonti extratestuali (“Convenzioni sui diritti del fanciullo” e “Carta dei diritti fondamentali dell’UE”), il legislatore nazionale espressamente prevede che, ove capace di discernimento, il minore abbia diritto di essere ascoltato nell’ambito di procedimenti (giudiziari e amministrativi) che lo riguardano. 48. L’interdizione giudiziale L’interdizione è pronunciata con sentenza dal tribunale (per questo “giudiziale”), quando ricorrono, congiuntamente, i seguenti presupposti: a) Infermità di mente, una malattia che mini profondamente il soggetto nella sua sfera intellettiva e volitiva così da consentirgli di esprimere una volontà consapevolmente maturata. b) Abitualità di detta infermità, intendendosi un’infermità non transitoria. c) Incapacità del soggetto, a causa di detta infermità, di provvedere ai propri interessi. d) Necessità di assicurare al soggetto un’adeguata protezione: sicchè si potrà procedere all’interdizione solo allorquando risultino non idonei o insufficienti gli altri strumenti di protezione dell’incapace (es. l’amministrazione di sostegno). L’interdizione può essere pronunciata solo a carico del maggiore di età, essendo il minorenne già legalmente incapace, e quindi tutelato dall’ordinamento in quanto tale. Il procedimento di interdizione può essere promosso dallo stesso interdicendo, dal coniuge, dalla persona stabilmente convivente, dai parenti entro il quarto grado, o dal pubblico ministero. Fase centrale del procedimento di interdizione è l’esame diretto dell’interdicendo da parte del giudice, che può farsi assistere da un consulente tecnico. Dopo detto esame, il giudice può nominare, se lo ritiene opportuno, un tutore provvisorio dell’interdicendo. Nelle more del giudizio di interdizione, l’interdicendo è legalmente rappresentato dal tutore e, in caso di successiva interdizione, gli atti eventualmente compiuti dall’interdicendo dopo la nomina del tutore provvisorio sono annullabili. L’interdetto si trova in una condizione molto simile a quella in cui si trova il minore: non può compiere direttamente alcun atto negoziale, se non quelli “necessari a soddisfare le esigenze della propria vita quotidiana”. Se compie atti negoziali, gli stessi sono annullabili e il relativo procedimento può essere promosso – dal tutore o dallo stesso interdetto, entro 5 anni dalla cessazione dello stato di interdizione. La gestione del patrimonio dell’interdetto e gli atti negoziali ad esso relativi sono compiuti, nell’interesse ed in vece dello stesso interdetto, da un tutore nominato dal giudice tutelare. Tuttavia, il giudice può prevedere che taluni atti di ordinaria amministrazione possano essere compiuti autonomamente dall’interdetto o da quest’ultimo con l’assistenza del tutore. L’interdizione preclude al soggetto il matrimonio, l’unione civile tra persone dello stesso sesso, il riconoscimento dei figli naturali, la possibilità di fare testamento. Se e quando dovessero venir meno i presupposti che hanno condotto all’interdizione, quest’ultima può essere revocata – su istanza del coniuge, del partner (unioni civili), dei parenti entro il quarto grado, degli affini entro il secondo grado, del tutore o del pubblico ministero – con sentenza del tribunale. Il tribunale, in sede di revoca dell’interdizione, può – ove ne ricorrano i presupposti – dichiarare il soggetto inabilitato o trasmettere gli atti al giudice tutelare perché apra una procedura di amministrazione di sostegno (vedi paragrafo 52). 49. L’interdizione legale Il codice penale prevede – come pena accessoria ad una condanna all’ergastolo o alla reclusione – l’interdizione legale. L’istituto ha quindi funzione sanzionatoria, che colpisce soggetti perfettamente in grado di intendere e di volere. Per quanto riguarda i rapporti patrimoniali, l’interdetto legale si trova nella stessa condizione dell’interdetto giudiziale: non può compiere atti dispositivi del proprio patrimonio e se li compie sono annullabili. L’amministrazione del suo patrimonio competerà a un tutore. Con una differenza, però: l’annullabilità degli atti compiuti dall’interdetto legale può essere fatta valere non solo dall’interdetto stesso e/o dal suo tutore, bensì da chiunque vi abbia interesse: c.d. annullabilità assoluta. L’annullabilità assoluta degli atti dell’interdetto legale è prevista come sanzione, a tutela di un interesse generale: conseguentemente, può essere fatta valer da chiunque. 50. L’inabilitazione L’inabilitazione è pronunciata con sentenza dal tribunale, allorché ricorra, alternativa, uno di questi presupposti: a) Infermità di mente non talmente grave da far luogo all’interdizione (cioè quella che impedisce al soggetto di attendere personalmente ai propri affari, senza però privarlo completamente della capacità di intendere e di volere); b) Prodigalità (un impulso patologico che incide negativamente sulla capacità del soggetto di valutare la rilevanza economica dei propri atti, così da spingerlo allo sperpero ed esporre sé e la sua famiglia a gravi pregiudizi economici; c) Abuso abituale di bevande alcoliche o stupefacenti, che induca il soggetto a esporre sé e la sua famiglia a gravi pregiudizi economici; capace di compiere un determinato atto, è comunque ammesso ad impugnarlo, se prova che, nel momento in cui l’ha compiuto, versava in uno stato di incapacità di intendere e di volere. La controparte non è invece legittimata a proporre domanda di annullamento dell’atto stipulato dall’incapace naturale. Quanto agli atti posti in essere dall’incapace bisogna specificare che il matrimonio, l’unione civile fra persone dello stesso sesso, il testamento e la donazione sono impugnabili purché si dimostri che il soggetto era incapace di intendere e di volere quando ha compiuto l’atto. I contratti sono annullabili se si dimostra che il soggetto era incapace di intendere e di volere e, da altro lato, che l’altro contraente era in malafede: ossia, che avrebbe dovuto rendersi conto, usando l’ordinaria diligenza, che stava contraendo con un soggetto incapace. Gli atti unilaterali sono annullabili se si dimostra che il soggetto era incapace di intendere o di volere e che da detti atti è derivato un grave pregiudizio per l’incapace. L’annullamento egli atti unilaterali e dei contratti posti in essere dall’incapace naturale può essere richiesto da quest’ultimo entro 5 anni dal loro compimento. 54. Incapacità legale e incapacità naturale Quanto fin qui esposto, ci consente di comprendere che all’interno delle ipotesi di incapacità di agire, occorre distinguere tra: a) minore età, interdizione giudiziale, interdizione legale, inabilitazione, emancipazione, amministrazione di sostegno, che importano per il soggetto una incapacità legale, che rileva non già il fatto che il soggetto sia concretamente incapace di intendere e di volere, bensì solo ed esclusivamente il fatto che lo stesso si trovi in una determinata situazione (minore età, interdizione…) b) incapacità di intendere o di volere che importa, invece, una incapacità naturale, in cui rileva solo ed esclusivamente il fatto che il soggetto, seppur legalmente capace, si trovi concretamente, nel momento in cui compie l’atto, in una situazione di menomazione della propria sfera volitiva. Inoltre, tra gli istituti che comportano incapacità legale, occorre distinguere tra: - minore età e interdizione giudiziale, che comportano una incapacità assoluta (precludono al soggetto il compimento di qualsiasi atto negoziale) - inabilitazione, emancipazione, amministrazione di sostegno, che importano, invece, una incapacità relativa (lasciano permanere, in capo al soggetto, una più ampia capacità negoziale) 55. La legittimazione Per legittimazione si intende l’idoneità del soggetto ad esercitare e/o disporre di un determinato diritto. Invero, per compiere validamente un determ. atto (vendere un bene), il soggetto deve trovarsi nella situazione giuridica richiesta dalla legge (essere proprietario del bene). Non sempre la legittimazione coincide con la titolarità del diritto soggettivo (ad es., l’amministratore di condominio, non i singoli condomini, può agire per il pagamento degli oneri condominiali). Peraltro, non sempre il difetto di legittimazione produce l’invalidità dell’atto: talora, infatti, l’ordinamento si accontenta dell’apparenza. Così, ad es., se compro un bene mobile (orologio, vestito) da chi non ne è proprietario, ne acquisto egualmente la proprietà, se ne ricevo la consegna, ignorando – senza mia colpa – che il bene non apparteneva al venditore. La giurisprudenza è incline ad applicare estensivamente il principio di apparenza, subordinandolo però a tre distinti presupposti: 1) una situazione di fatto non corrispondente a una situazione di diritto; 2) il convincimento dei terzi che la situazione di fatto rispecchi quella di diritto; 3) un comportamento colposo del soggetto effettivamente legittimato, che abbia consentito il crearsi della situazione di apparenza. 56. La sede della persona Il luogo in cui la persona fisica vive e svolge la propria attività ha, per l’ordinamento giuridico, rilievo sia in ambito processuale (ad es., per la determinazione della competenza territoriale del giudice), sia in ambito sostanziale (ad es., l’art. 456 cc statuisce che la successione si apre nel luogo dell’ultimo domicilio del defunto). Al riguardo la legge distingue tra: - domicilio, per tale intendendosi il luogo in cui la persona ha stabilito la sede principale dei suoi affari e interessi (non solo patrimoniali, ma anche morali e familiari); - dimora, il luogo in cui la persona attualmente abita; - residenza, il luogo in cui la persona ha volontaria e abituale dimora; Sovente, domicilio, dimora e residenza si concentrano in uno stesso luogo. Il domicilio si distingue in: - legale, se fissato direttamente dalla legge (ad es., il minore ha domicilio nel luogo di residenza della famiglia o del tutore); - volontario, se concretamente eletto dall’interessato a centro della propria vita di relazione. Per lo più, il domicilio coincide con la residenza, poiché è proprio in tale luogo che egli intrattiene principalmente i propri rapporti economici e personali. Ciò però non esclude che il domicilio sia distinto dalla residenza (ad es., un avvocato che ha domicilio presso il suo studio professionale). Se il soggetto ha una pluralità di luoghi dove svolge la propria vita personale o professionale (ad es., un avvocato che ha studio sia a Milano che a Roma), il domicilio coincide con il luogo in cui si intrattiene l’attività principale. Peraltro, non è neppure necessaria la presenza fisica della persona presso il proprio domicilio: è sufficiente che la stessa abbia in quel luogo la sede principale dei suoi affari (ad es., il cittadino americano che interessi in una determ. città italiana, avrà il domicilio in quella città). Il domicilio generale, inteso come sede principale degli affari o interessi della persona, è unico. La legge consente al soggetto di eleggere un domicilio speciale (per iscritto e con dichiarazione espressa) per determ. atti o affari (ad es., in un contratto posso stabilire che tutte le comunicazioni siano effettuate in un determ. luogo). La residenza dipende (i) dall’elemento oggettivo della permanenza abituale del soggetto in un determ. luogo e (ii) dall’elemento soggettivo del’intenzione di abitarvi stabilmente, rivelata dalle consuetudini di vita e dallo svolgimento delle normali relazioni sociali. 57. La cittadinanza La cittadinanza è la situazione di appartenenza di una persona fisica ad un determinato Stato. Essa è regolata dalla L. 91/1992. La cittadinanza italiana si acquista: a) iure sanguinis: sono cittadini italiani tutti i figli nati da cittadino italiano, indipendentemente dal luogo di nascita. Ai figli di sangue sono parificati i figli adottivi che, se stranieri, acquistano automaticamente la cittadinanza italiana. b) Iure soli: sono cittadini italiani tutti coloro che nascono nel territorio della Repubblica, qualora entrambi i genitori siano ignoti o apolidi, oppure se il figlio non acquisisce la cittadinanza dei genitori in base alla legge dello Stato di appartenenza di questi ultimi. c) per iuris communicatio: in forza di provvedimento dell’Autorità amministrativa, acquista la cittadinanza italiana il coniuge o il partner di un’unione civile, straniero o apolide, di cittadino italiano, allorché, dopo il matrimonio, risieda legalmente da almeno due anni nel territorio della Repubblica, oppure dopo 3 anni dalla data del matrimonio, se residente all’estero, sempre che non ci sia stato scioglimento o annullamento del matrimonio stesso. d) Per naturalizzazione: in forza di decreto del presidente della Repubblica, può essere concessa la cittadinanza italiana a chi si trovi nelle condizioni previste dall’art. 9 L. 91/1992 (ad es., l’apolide che risieda legalmente nel territorio della Repubblica da almeno 4 anni). È consentito che un cittadino possa avere contemporaneamente un’altra cittadinanza (c.d. doppia cittadinanza). 58. La posizione della persona nella famiglia Il rapporto che lega le persone appartenenti ad una medesima famiglia dà luogo a una serie di diritti e doveri (c.d. status familiae). Soffermiamoci su alcune nozioni di carattere generale: La parentela è il vincolo che unisce i soggetti che discendono dalla stessa persona (stipite), non importa se nati all’interno del matrimonio o fuori da esso, ovvero se adottivi. Ai fini della determinazione dell’intensità del vincolo di parentela, occorre considerare le linee e i gradi: a) La linea retta unisce le persone di cui l’una discende dall’altra (es. padre e figlio) b) La linea collaterale unisce le persone che, pur avendo uno stipite comune, non discendono l’una dall’altra (es. fratello e sorella, zio e nipote). c) I gradi si contano calcolando le persone e togliendo lo stipite. Ad es., tra padre e figlio vi è parentela di primo grado; tra fratelli, di secondo grado (figlio, padre, figlio = 3; 3 – 1 = 2); L’affinità è il vincolo che unisce coniuge e parenti dell’altro coniuge (marito e cognata ad es). Per stabilire il grado di affinità si tiene conto del grado di parentela con cui l’affine è legato al coniuge: ad esempio, la suocera e la nuora sono affini di primo grado. La morte di uno dei coniugi non estingue l’affinità. Questa cessa, invece, se il matrimonio è dichiarato nullo. 59. Scomparsa, assenza e morte presunta Non solo in occasione di cataclismi, ma anche nella quotidianità non è raro che di una persona si perdano le tracce (Chi l’ha visto in tv). Per la disciplina dei rapporti facenti capo ai soggetti, sono previsti gli istituti: - Della scomparsa - Dell’assenza - Della morte presunta La scomparsa è dichiarata con decreto dal tribunale, allorquando concorrono i seguenti presupposti: a) Allontanamento della persona dal luogo del suo ultimo domicilio o residenza c) Mancanza di sue notizie oltre il lasso di tempo che può essere giustificato dagli ordinari allontanamenti della persona per ragioni di lavoro, svago, ecc. L’istituto ha finalità essenzialmente conservative del patrimonio dello scomparso e il tribunale può dare provvedimenti a ciò necessari (ad es., nominare un curatore che amministri i suoi beni). L’assenza è dichiarata con sentenza dal tribunale, allorquando concorrono i seguenti presupposti: a) Allontanamento della persona dal suo ultimo domicilio o residenza b) Mancanza di sue notizie da oltre due anni Il tribunale, se richiesto, ordina l’apertura degli eventuali testamenti dell’assente. Coloro che sarebbero stati eredi testamentari o legittimi dell’assente, possono domandare l’immissione temporanea nel possesso dei beni di lui. La dichiarazione di assenza non scioglie né il matrimonio né l’unione civile, ma determina lo scioglimento della comunione legale. Gli effetti della dichiarazione di assenza cessano se l’assente ritorna o se, comunque, ne è provata l’esistenza. La morte presunta è dichiarata con sentenza dal tribunale, allorquando concorrano i seguenti presupposti: a) Allontanamento della persona dal suo ultimo domicilio o residenza b) Mancanza di sue notizia da oltre 10 anni malformazioni del nascituro: in questo caso, dunque, il diritto del nascituro può essere sacrificato solo di fronte al preminente interesse della madre alla vita e all’integrità psico-fisica. Il diritto alla vita è tutelato nei confronti dei terzi, ma non nei confronti del diretto interessato: infatti, non consegue nessuna sanzione il suicidio. Tuttavia, costituiscono reato le condotte di chi determini altri al suicidio (c. d. istigazione al suicidio). È illecita anche la condotta di chi, per motivi di pietà e di consenso, provochi la morte dell’infermo, attraverso un diretto intervento acceleratore (ad es., con un’iniezione letale), volto ad anticiparne il decesso (c.d. eutanasia attiva). Diverso è il caso in cui l’interessato rifiuti il trattamento terapeutico necessario per salvargli la vita o decida di interromperlo. La giurisprudenza ritiene che il principio generale secondo cui i trattamenti sanitari possono essere praticati solo con il consenso dell’avente diritto (c.d. principio di autodeterminazione), valga anche con riferimento ai trattamenti salvavita (cioè quegli interventi curativi che la scienza medica considera idonei a scongiurare il rischio di morte dell’infermo). Il diritto alla salute implica anche il suo risvolto negativo: cioè, il diritto di non curarsi e persino il diritto di lasciarsi morire. Di fronte al rifiuto del trattamento consapevolmente espresso dall’assistito, il dovere del medico di curarlo viene meno; anzi, egli è obbligato a rispettare la volontà dell’assistito. Tutto ciò presuppone chiaramente che l’interessato sia in grado di manifestare consapevolmente e liberamente il proprio intendimento. Allorquando, invece, il soggetto non sia in grado di manifestare il suo consenso/dissenso, il medico deve senz’altro praticare quei trattamenti terapeutici urgenti che la scienza indica come idonei alla cura dell’assistito (c.d. stato di necessità). Superata l’urgenza, la decisione in merito a un determ. trattamento da praticare all’incapace spetta al suo rappresentante legale (tutore o amministratore di sostegno), che dovrà agire nell’esclusivo interesse dell’incapace stesso. Per evitare le incertezze insite nella rimessione al rappresentante legale di scelte così delicate e drammatiche, va prendendo corpo nel nostro Paese, un sempre più vasto movimento di opinione che invoca un intervento legislativo volto a riconoscere una precisa efficacia alle dichiarazioni che una persona, quando ancora è nel pieno delle sue facoltà, abbia a rendere – per l’eventualità futura e incerta, in cui la stessa avesse a perdere la capacità di intendere di volere a seguito della sopravvenienza di una malattia – di essere o meno assoggettato a trattamenti sanitari volti a prolungarne la sopravvivenza (c.d. testamento biologico). La giurisprudenza ritiene che le direttive di “fine vita” eventualmente dettate ex ante da chi venga successivamente a trovarsi in uno stato di incapacità, debbano essere prese in seria considerazione dal medico chiamato a effettuare un intervento terapeutico urgente, così come il rappresentante legale nel momento in cui è chiamato a esprimere il consenso/rifiuto a un determ. trattamento; ma che le stesse non siano vincolanti: le direttive di fine vita costituiscono infatti un elemento di valutazione importante, ma non esclusivo ai fini della ricostruzione di quella che sarebbe stata la volontà dell’assistito. 63. Diritto alla salute L’art. 32, co. 1, Cost., definisce quello alla salute come fondamentale diritto dell’individuo. L’art. 3, co.1, della “Carta dei diritti fondamentali dell’UE” proclama che “ogni individuo ha diritto alla propria integrità fisica e psichica”. Tale diritto implica, per i consociati, l’obbligo di astenersi da condotte che possano cagionare ad altri malattie, infermità o menomazioni: obbligo presidiato da sanzioni penali e sul piano risarcitorio. L’interesse alla salute è tutelato anche a favore del nascituro: tant’è che si ammette la risarcibilità del danno conseguente a lesioni subite dal feto nel periodo prenatale a causa di condotte imperite del medico. Il soggetto che con la nascita abbia acquistato la capacità giuridica ben potrà far valere la responsabilità per lesioni o malattie procurategli quando non era ancora nato. Non trova invece cittadinanza nel nostro ordinamento il c.d. diritto di non nascere se non sano, con la conseguenza che chi sia nato affetto da una grave patologia non potrà vantare un diritto risarcitorio né nei confronti della madre che, benché informata dell’anomalia del feto, non sia avvalsa della facoltà di interrompere la gravidanza, né nei confronti del medico che, non avendola informata dell’anomalia, le ha , di fatto, impedito di valutare l’opportunità di abortire. Ovviamente, il medico risponderà, nei confronti della madre, dei danni da c.d. nascita indesiderata. Il diritto alla salute, che trova tutela nei confronti dei terzi, è invece rimesso all’autodeterminazione del suo titolare (“nessuno può essere obbligato ad un determ. trattamento sanitario se non per disposizione di legge”, art. 32 Cost.). E la legge può prevedere l’obbligo di un determ. trattamento sanitario solo quando ciò sia giustificato non tanto dal vantaggio che potrà derivarne per il soggetto cui è esso è imposto, ma per la necessità di tutelare l’ interesse superiore alla protezione della sanità pubblica. Coerentemente, è oggi previsto un indennizzo da parte dello Stato a favore di “chiunque abbia riportato a causa di vaccinazioni obbligatorie lesioni o infermità dalle quali sia derivata una menomazione permanente della integrità psico-fisica”. Al di fuori dei casi (eccezionali) in cui siano imposti per legge, “gli accertamenti e i trattamenti sanitari sono volontari”, richiedono cioè il consenso espresso e specifico dell’avente diritto, che, se in stato di capacità legale e naturale di agire, ben potrebbe legittimamente opporre un rifiuto alle cure (ad es. per motivi religiosi: testimoni di Geova). Peraltro, affinché possa prestare un valido consenso, è necessario che l’assistito venga chiaramente, correttamente ed esaustivamente informato dal medico in ordine alle alternative terapeutiche, agli esiti possibili, difficoltà e rischi di ciascuna. L’eventuale inadempimento da parte del medico lede il diritto all’autodeterminazione che compete all’assistito, con la conseguenza che il sanitario potrà essere chiamato a rispondere, per il solo fatto che il soggetto non è stato posto in condizione di prestare il proprio consenso. In ogni caso, il consenso al trattamento medico (es. trapianto di cuore) non obbliga chi lo ha prestato, che può revocarlo in qualsiasi momento, fin quando l’intervento non sia eseguito. Nell’ipotesi in cui il paziente capace si trovi in caso di incoscienza e ricorra un caso di urgenza, il medico deve procedere a far quanto necessario alla sua cura, stante l’impossibilità di raccoglierne il volere. Nell’ipotesi in cui invece il paziente sia un incapace legale (es. minore), il consenso deve essere dato dal suo rappresentante legale (genitori). Il diritto alla salute e all’integrità psico-fisica non è, tuttavia, integralmente rimesso all’autodeterminazione del suo titolare. Gli atti dispositivi del proprio corpo sono consentiti a due condizioni: a) Che non siano contrari alla legge (si pensi all’art. 3 L. 219/2005 che vieta, se non a titolo gratuito il prelievo di sangue o di cellule staminali emopoietiche), all’ordine pubblico e al buon costume; b) Che non cagionino una diminuzione permanente dell’integrità fisica del soggetto: sicché – mentre dovrà ritenersi legittimo, se consentito dall’avente diritto, il prelievo di sangue, lembi di pelle, frammenti ossei, midollo osseo ecc. – dovranno ritenersi, di contro, vietati, quand’anche vi sia il consenso dell’interessato, l’espianto di organi (ad es., la cornea) così come altri interventi (ad es., mutilazioni genitali femminili) che su tale integrità siano destinati a incidere negativamente. Peraltro, quand’anche riconducibili ad interventi menomativi dell’integrità fisica del soggetto, la legge consente: 1) l’espianto da vivente del rene, parti del fegato, o parti di polmone, pancreas e intestino seppure solo a titolo gratuito e con il consenso dell’interessato: ciò al fine di favorire la pratica dei trapianti di organo, eliminando ostacoli all’esercizio del dovere di solidarietà (sancito da art. 2 Cost.). 2) interventi di modificazione dei caratteri sessuali: ciò al fine di consentire l’eliminazione degli irriducibili conflitti esistenti in coloro che, pur appartenendo fisicamente a un determ. sesso, avvertono a livello psicologico l’appartenenza al sesso opposto. Peraltro, da segnalare che, secondo la recente giurisprudenza, la rettificazione anagrafica del sesso (da maschile a femminile o viceversa) non richiede necessariamente la preventiva modifica per via chirurgica dei caratteri sessuali, potendo, in concreto, risultare sufficiente il ricorso a presidi medici (ad es. terapie ormonali, interventi al seno) ed a sostegni psicoterapeutici, se atti a realizzare il mutamento di sesso sia sotto la percezione soggettiva, sia sotto il profilo delle oggettive mutazioni dei caratteri sessuali secondari estetico-somatici ed ormonali. La giurisprudenza – dopo che la L. 194/1978 ha abrogato il reato di procurata impotenza alla procreazione – ammette la liceità della sterilizzazione volontaria maschile e femminile. Le parti legittimamente staccate dal corpo (ad es., capelli, unghie…) sono beni autonomi di proprietà del soggetto al cui corpo appartenevano. Conseguentemente, possono essere oggetto di atti di disposizione ( ad es., posso vendere i capelli che ho tagliato perché vengano utilizzati per la confezione di extensions). Ovviamente, i limiti al potere di autodeterminazione (art. 5 cc) valgono fino a che il soggetto è in vita. Per il momento successivo alla propria morte, la persona può disporre in ordine alla collocazione della propria salma (ius eligendi sepolcrum); ovvero, in ordine alla cremazione del proprio corpo ed all’eventuale dispersione delle ceneri; nonché in ordine al prelievo di organi e tessuti a scopo di trapianto: la legge prevede che “I cittadini sono tenuti a dichiarare la propria libera volontà in ordine alla donazione di organi e tessuti (…) successivamente alla morte” e che “la mancata dichiarazione di volontà è considerata quale assenso alla donazione”. (art. 4 L. 91/1999). 64. Diritto al nome Il nome – costituito da prenome (nome di battesimo) e cognome – svolge funzione di identificazione sociale della persona e viene ricondotto nell’alveo dei valori fondamentali della persona, nella prospettiva della protezione della sua identità, intesa anche come proiezione della sua personalità. Il figlio nato nel matrimonio assume il cognome del padre e il prenome attribuitogli all’atto della dichiarazione di nascita dall’ufficiale di stato civile. Se il dichiarante non dà un prenome al bambino, vi supplisce l’ufficiale di stato civile. Peraltro, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU), con sentenza del 7 gennaio 2014, ric. N. 77/07, ha ritenuto che la regola, secondo cui il figlio legittimo acquista automaticamente il cognome paterno, senza possibilità di assumere (in aggiunta o sostituzione) quello della madre, contrasti con le previsioni dettate dagli artt. 8 e 14 CEDU; con la conseguenza che lo Stato italiano è ora obbligato ad adeguare la normativa interna a quanto statuito dalla Corte di Strasburgo. All’inerzia del legislatore ha peraltro supplito la Corte Costituzionale, che è intervenuta dichiarando illegittima (perché n contrasto con gli artt. 2,3,29 Cost.) la regola che vuole che al figlio sia attribuito il cognome paterno. Il figlio nato fuori dal matrimonio assume il cognome del genitore che per primo lo ha riconosciuto. Se il riconoscimento è effettuato contemporaneamente da entrambi i genitori, assume il cognome del padre, sempre che i genitori non richiedano di trasmettere anche il cognome materno. Se il riconoscimento del padre avviene successivamente a quello della madre, il figlio può assumere il cognome del padre aggiungendolo, anteponendolo o sostituendolo a quello della madre. I bambini non riconosciuti assumono il cognome e prenome loro imposto dall’ufficiale di stato civile. Il figlio adottivo assume il cognome degli adottanti. A seguito del matrimonio, la moglie aggiunge al proprio cognome quello del marito. Con lo scioglimento del matrimonio per morte del marito, la moglie ne conserva il cognome fino a che passi a nuove nozze. La donna divorziata perde invece il cognome maritale, ma può chiedere al giudice di essere autorizzata a conservarlo quando sussista un interesse (ad es., perché ormai nota nell’ambiente lavorativo col cognome del marito). Le parti di un’unione civile tra persone dello stesso sesso, possono, mediante dichiarazione all’ufficiale dello stato civile, assumere, per la durata dell’unione, un cognome comune, scegliendolo tra i loro cognomi. I contratti aventi ad oggetto il diritto all’utilizzazione dell’immagine altrui richiedono la forma scritta ad probationem. La lesione del diritto all’immagine obbliga il suo autore al risarcimento del danno, anche non patrimoniale, sofferto dalla persona ritratta. 67. Dal diritto alla riservatezza alla protezione dei dati personali Pur in assenza di un’espressa previsione normativa, la giurisprudenza – intravedendo nelle previsioni dettate dagli artt. 13, 14 e 15 Cost., nonché dall’art. 615 bis c.p. (che sanziona il comportamento di “chiunque, mediante l’uso di strumenti di ripresa visiva o sonora, si procuri indebitamente notizie o immagini attinenti alla vita privata svolgentisi nei luoghi” di privata dimora o nelle appartenenze di essi) – aveva ritenuto che, tra i diritti inviolabili dell’uomo (art. 2 Cost.), fosse da annoverare anche il diritto alla riservatezza, da intendersi quale potere dell’interessato di vietare comportamenti di terzi volti a conoscere o a far conoscere situazioni o vicende della propria vita personale o familiare, anche se svoltesi al di fuori del recinto domestico. L’intromissione nell’altrui sfera privata, senza il consenso dell’interessato, avrebbe perciò dovuto ritenersi legittima solo in presenza di un interesse pubblico attuale che la giustifichi (non diversamente da quanto accade per la possibilità di divulgare l’immagine altrui in assenza del consenso del ritrattato. Ora, la Carta dei diritti fondamentali dell’UE enuncia il principio secondo cui “ogni persona ha diritto alla protezione dei dati personali che la riguardano”, con il corollario che “tali principi devono essere trattati secondo il principio di lealtà, per finalità determinate in base al consenso della persona interessata o a un altro fondamento legittimo previsto dalla legge. Ogni persona ha il diritto di accedere ai dati raccolti che la riguardano e di ottenerne la rettifica”. A livello nazionale, la materia è oggi regolamentata dal D.Lgs. 196/2003 (c.d. “cod. privacy”). L’attuale codice privacy è dichiaratamente volto a far sì che il trattamento dei dati personali si svolga nel rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali, nonché della dignità dell’interessato, con particolare riferimento alla riservatezza, all’identità personale ed al diritto alla protezione dei dati personali. Per dato personale si intende qualunque informazione relativa a persona fisica, identificata o identificabile, anche indirettamente, mediante riferimento a qualsiasi altra informazione. Per interessato si intende la persona fisica, cui i dati personali si riferiscono. Il codice privacy non trova quindi applicazione ai dati relativi a enti. Per trattamento si intende qualunque operazione o complesso di operazioni concernenti la raccolta, la conservazione, l’elaborazione, l’utilizzo, la comunicazione ad uno o più soggetti determ., la diffusione a favore di soggetti indeterminati, di dati, anche non registrati in una banca dati. Peraltro, il codice privacy non trova applicazione ai trattamenti effettuati da persone fisiche per fini esclusivamente personali (si pensi alla tenuta di un’agendina telefonica), salvo che i dati trattati siano destinati ad una comunicazione sistematica ad uno o più soggetti determinati, ovvero alla loro diffusione a favore di soggetti indeterminati. Come regola generale, il codice privacy prevede che: a) L’interessato o il soggetto presso cui i dati personali sono raccolti, vengano previamente informati circa le finalità e le modalità del trattamento cui i dati sono destinati (c.d. informativa). b) Il trattamento dei dati personali avvenga solo se vi è il consenso espresso dell’interessato, che si ritiene validamente prestato se (i) è espresso liberamente e specificamente, ii) se è documentato per iscritto, iii) se è stata resa all’interessato l’informativa: c.d. consenso al trattamento dei dati; c) L’interessato possa ottenere da chiunque conferma se lo stesso detiene o meno dati personali che lo riguardano e, in caso affermativo, la loro comunicazione in forma intellegibile, on l’indicazione dell’origine dei dati detenuti, delle finalità e modalità del trattamento; d) L’interessato possa ottenere da chiunque li detenga l’aggiornamento, la rettificazione, ovvero l’integrazione dei dati personali che lo riguardano, quando vi abbia interesse; nonché la cancellazione, la trasformazione od il blocco dei dati trattati in violazione di legge (diritto di rettifica) e) I dati personali vengano trattati in modo lecito e secondo correttezza. Debbono essere esatti e aggiornati, pertinenti, completi, non eccedenti rispetto alle finalità dichiarate; vengano conservati per un periodo di tempo non superiore quello necessario agli scopi per i quali sono stati raccolti; f) I dati sensibili, ossia idonei a rivelare l’origine etnica, le convinzioni religiose, l’adesione a partiti, sindacati, nonché i dati personali idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale dell’interessato, possano essere oggetto di trattamento solo con il consenso scritto dell’interessato e previa autorizzazione del Garante, che può prescrivere misure e accorgimenti a garanzia dell’interessato. g) I dati personali vengano custoditi e controllati anche in relazione alle conoscenze acquisite in base al progresso tecnico, in modo da ridurre al minimo , mediante l’adozione di preventive misure di sicurezza, i rischi di distruzione o perdita dei dati stessi, di accesso non autorizzato o di trattamento non consentito (c.d. diritto alla sicurezza dei dati). Il codice privacy ha istituito un’apposita Autorità garante per la protezione dei dati personali con ampi poteri di controllo, denuncia e sanzione in ordine al trattamento dei dati personali. Chi si ritenga vittima di un illecito trattamento dei propri dati personali può rivolgersi o al Garante o all’Autorità giudiziaria, cui può richiedere la condanna dell’autore dell’illecito al risarcimento del danno anche non patrimoniale. 68. Diritto all’identità personale La giurisprudenza annovera tra i diritti inviolabili di cui all’art. 2 Cost., anche il diritto all’identità personale, cioè il diritto di ciascuno a vedersi rappresentato con i propri reali caratteri, senza travisamenti della propria storia, delle proprie idee, della propria condotta, del proprio stile di vita, del proprio patrimonio intellettuale, ideologico, etico, ecc. Il diritto all’identità personale si distingue dal diritto alla riservatezza: quest’ultimo è il diritto a non vedere rappresentati all’esterno profili della propria personalità e della propria vita privata; quello all’identità personale è il diritto a che i profili della propria personalità e vita, nella misura in cui possono essere rappresentati all’esterno, lo siano nel rispetto del principio di verità. Il diritto all’identità personale si distingue anche dal diritto all’integrità morale: quest’ultimo è il diritto a non vedersi attribuiti fatti e valutazioni suscettibili di creare un giudizio di disvalore; quello all’identità personale è il diritto a che i profili della propria personalità, anche non lesivi dell’onore, del decoro e della reputazione, vengano divulgati solo nel rispetto del principio di verità. C) GLI ENTI 69. Gli enti: soggettività giuridica e personalità giuridica Nel nostro ordinamento sono soggetti di diritto anche gli enti. Ciò significa che un bene (es. appartamento) può far capo direttamente all’ente in quanto tale; che un contratto può intercorrere direttamente con l’ente in quanto tale (v. ad es., i contratti bancari, che vedono come parte una banca); ecc. È dunque dotata di soggettività giuridica quell’organizzazione cui l’ordinamento attribuisce la capacità (capacità giuridica) di essere titolare di situazioni giuridiche soggettive (ad es., la proprietà, il credito, il debito, ecc.). E’ vero che in rerum natura gli interessi sostanziali non possono che far capo alle persone fisiche (ad es., quando si dice che è stata offesa la reputazione di un’associazione, si vuol dire che in realtà è stata offesa la reputazione dei suoi membri in quanto tali e non come singoli). Non è men vero, tuttavia, che la legge talora tutela detti interessi come se facessero capo non già agli individui uti singuli, ma al gruppo (quando viene offesa la reputazione dei membri di un’associazione, la reazione giudiziaria è consentita non già al singolo, ma al gruppo, cui appunto l’ordinamento attribuisce soggettività giuridica). Non deve confondersi con quella di ente giuridico – di ente, cioè, dotato di soggettività giuridica – la nozione di persona giuridica. E nemmeno quella di soggettività giuridica con la nozione di personalità giuridica. Le nozioni di persona e personalità giuridica sono infatti più ristrette rispetto a quelle di ente giuridico e di soggettività giuridica. Si dicono infatti, dotati di personalità giuridica solo quegli enti che godono di autonomia patrimoniale perfetta: quegli enti, cioè che non solo hanno, come tutti, un loro patrimonio, ma al pari della persona fisica, rispondono delle loro obbligazioni solo con detto patrimonio (si pensi, ad es., alle associazioni riconosciute e alle associazioni non riconosciute). Gli enti, chiaramente, non possono agire – ad es., decidere se acquistare o meno un bene – se non attraverso persone fisiche, che fanno parte della loro struttura organizzativa (dette organi dell’ente). Seppure i loro interessi vengano, in concreto, gestiti da altri soggetti, si ritiene che gli enti non siano privi di capacità di agire. Invero, così come il cervello e la bocca non si distinguono dall’uomo, ma sono parte di lui, del pari, gli organi dell’ente sono parte di esso. In quest’ottica deve escludersi che siano incapaci di agire. Gli organi dell’ente si distinguono in esterni e interni, a seconda che abbiano o meno il potere di rappresentanza dell’ente, ossia il potere di assumere impegni con terzi (ad es., contrarre un mutuo). A riguardo occorre avere ben chiara la distinzione tra poteri di gestione (interna) e poteri di rappresentanza (esterna). Il primo è il potere di decidere una determ. operazione (ad es., se acquistare o meno un macchinario); il secondo è il potere di porre in essere, in nome e per conto dell’ente, l’operazione decisa (es. stipulare un contratto). 70. Classificazione degli enti All’interno della categoria degli enti occorre innanzitutto distinguere fra enti pubblici ed enti privati. Tra i primi rientrano lo Stato, gli altri enti territoriali (città metropolitane, regioni, province e comuni) e tutta una serie di altri enti (es. Banca d’Italia, INPS, Università statali, ecc.). Dopo un lungo periodo in cui si è assistito alla moltiplicazione degli enti pubblici, a partire dagli anni ‘90, molti enti pubblici sono stati trasformati in società per azioni (fenomeno delle c.d. privatizzazioni). Da sempre sono discussi i criteri in forza dei quali distinguere un ente pubblico da uno privato: la giurisprudenza aveva elaborato tutta una serie di indici di riconoscibilità della natura pubblica di un ente (ad es., istituzione da parte dello stato o di altro ente pubblico; partecipazione dello Stato e di altro ente pubblico alle spese di gestione; ecc). In realtà anche l’applicazione di detti indici non porta sempre a risultati pienamente soddisfacenti, specie oggi, di fronte alla tendenza ad attribuire compii di natura pubblicistica a soggetti aventi formalmente natura privatistica. Ciò induce la più recente giurisprudenza a ritenere che “la nozione di ente pubblico nell’attuale assetto ordina mentale non possa ritenersi fissa ed immutevole (…)”. L’ordinamento si è ormai orientato verso una nozione funzionale e cangiante di ente pubblico: uno stesso soggetto può avere la natura di ente pubblico a certi fini e non averla ad altri fini. Gli enti pubblici – se, almeno di regola, possono operare attraverso l’esercizio di poteri pubblicistici (ad es., il comune può, anche la volontà del suo proprietario, espropriare autoritativamente un’area da destinare alla realizzazione di una piscina pubblica) – possono tuttavia avvalersi, come qualsiasi cittadino, di strumenti pari delle società, possano svolgere attività economica di produzione, scambio di beni e servizi (cioè di attività di impresa. E possono svolgerla non solo in via secondaria (es. associazioni sportiva che per finanziare la propria attività, vende gadgets legati ai colori della propria squadra), ma anche in via principale o, addirittura, esclusiva (es. associazione concertistica che organizza spettacoli a pagamento aperti al pubblico). Essenziale è che sia statutariamente escluso il lucro soggettivo: cioè che gli utili, eventualmente conseguiti tramite l’esercizio di dette attività, possano essere distribuiti tra gli associati. 73. L’associazione riconosciuta L’associazione riconosciuta prende vita in forza di un atto di autonomia – un vero e proprio contratto secondo l’opinione prevalente – tra i fondatori (atto costitutivo), che deve rivestire la forma dell’atto pubblico. L’atto costitutivo – oltre alla manifestazione della volontà dei fondatori a dar vita all’associazione – deve contenere anche la denominazione dell’ente, scopo, patrimonio, sede, norme sull’ordinamento e sull’amministrazione, diritti e obblighi degli associati, condizioni di ammissione all’associazione. Tali previsioni possono essere contenute in un documento separato, detto statuto. Atto costitutivo e statuto devono essere presentati alla prefettura nella cui provincia è stabilita la sede dell’ente, unitamente alle richiesta di riconoscimento dell’associazione come persona giuridica. La prefettura deve verificare: a) Che siano state soddisfatte le condizioni previste dalle norme per la costituzione dell’ente (ad es., che l’atto costitutivo sia redatto nella forma dell’atto pubblico); b) Che lo scopo sia possibile e lecito (ad es., che l’attività che l’associazione svolge non sia illecita) c) Che il patrimonio risulti adeguato alla realizzazione dello scopo (ciò in quanto per le obbligazioni dell’assoc. Riconosciuta risponde solo ed esclusivamente quest’ultima con il proprio patrimonio, che conseguentemente, non può essere irrisorio) Nessun controllo è consentito alla prefettura in merito alla meritevolezza dello scopo che l’associazione si prefigge. Al prefetto è infatti demandato un mero controllo di legittimità. In ipotesi di esito positivo di tale controllo, il prefetto provvede all’iscrizione dell’associazione nel registro delle persone giuridiche tenuto presso la stessa prefettura. Nel lasso di tempo fra la stipula dell’atto costitutivo e l’iscrizione nel registro, l’associazione già esiste e può operare, ma come associazione non riconosciuta. L’ordinamento interno dell’assoc. ric. deve prevedere almeno due organi: l’assemblea degli associati e gli amministratori. L’assemblea ha competenza per le modifiche dell’atto costitutivo e dello statuto, per l’approvazione del bilancio, per l’esercizio dell’azione di responsabilità nei confronti degli amministratori, per l’esclusione dell’associato per gravi motivi, per lo scioglimento dell’associazione e la devoluzione del patrimonio. L’assemblea delibera a maggioranza dei voti, in prima convocazione, con la presenza di almeno metà degli associati; in seconda convocazione, qualunque sia il numero degli intervenuti. Gli amministratori hanno competenza per la gestione dell’attività associativa e rappresentano l’associazione nei confronti dei terzi. L’associazione ha un suo patrimonio, costituto dai cespiti originariamente conferiti dai fondatori, dalle quote di ammissione/iscrizione, da apporti di privati, da finanziamenti pubblici, ecc. A tale proposito, va segnalato che, oggi, l’associazione ric. può effettuare liberamente qualsiasi tipo di acquisto, senza necessità di autorizzazione. Gli associati non hanno alcun diritto sul patrimonio dell’associazione, che è distinto dal loro patrimonio personale. Tant’è che, allorquando cessa di far parte dell’associazione, l’associato non può pretendere che gli venga attribuita una quota-parte del patrimonio associativo. Da ciò discende che, per le obbligazioni del singolo associato non risponde l’associazione (il padrone di casa dell’associato non si potrà rivolgere all’associazione per il pagamento del canone di locazione) e che, per le obbligazioni dell’associazione, non risponde l’associato con il suo patrimonio. Delle obbligazioni dell’associazione riconosciuta risponde, infatti, solo ed esclusivamente quest’ultima con il suo patrimonio: c.d. autonomia patrimoniale perfetta. All’accordo associativo si può aderire o all’atto della costituzione dell’associazione, oppure in momento successivo. Si dice, che l’accordo associativo è aperto all’adesione di terzi (c.d. struttura aperta dell’associazione). Peraltro, quand’anche possegga i requisiti previsti, l’aspirante non ha diritto di entrarvi: l’accoglimento della sua domanda è subordinata alla valutazione degli organi competenti. Di contro, una volta entrato, l’associato ha diritto di rimanervi: non può esserne escluso se non per gravi motivi ed in forza di una delibera motivata dell’assemblea. Avverso detta delibera, l’associato espulso può ricorrere all’autorità giudiziaria entro sei mesi dal giorno in cui la stessa gli è stata notificata. L’autorità giudiziaria dovrà procedere all’annullamento del provvedimento impugnato, qualora non fossero state rispettate le regole procedurali per la sua adozione (ad es., il provvedimento è stato adottato da un organo incompetente), così come qualora accertasse l’insussistenza della condotta contestata, ovvero nell’ipotesi in cui lo statuto si limitasse a forme generiche ed elastiche (ad es. condotte lesive del buon nome dell’associazione). All’associato è riconosciuto il diritto di recedere dall’associazione, in qualsiasi momento, sia pure con effetto allo scadere dell’anno in corso, purché abbia esercitato almeno 3 mesi prima. Nell’ipotesi in cui avesse assunto l’obbligo di far parte dell’associazione per un tempo determinato, l’associato potrà recedere anticipatamente solo ove ricorra una giusta causa. L’associazione si estingue – oltre che per cause eventualmente previste nell’atto costitutivo o nello statuto – per raggiungimento dello scopo, impossibilità della sua realizzazione, venir meno di tutti gli associati. Il verificarsi di una delle cause di estinzione dell’associazione, viene accertato dal prefetto. Una volta dichiarata l’estinzione, si procede alla liquidazione del suo patrimonio, con il pagamento dei debiti dell’associazione stessa. I beni che eventualmente residuino sono devoluti in conformità con quanto previsto nell’atto costitutivo o nello statuto; ovvero, in mancanza, secondo quanto stabilito dall’assemblea che ha deliberato lo scioglimento; ovvero, quando manca qualsiasi statuizione dell’assemblea, secondo quanto stabilito dall’autorità governativa, “attribuendo i beni ad altri enti che hanno fini analoghi”. Chiusa la procedura di liquidazione, si procede alla cancellazione dell’ente dal registro. 74. L’associazione non riconosciuta L’associazione non riconosciuta prende vita in forza di un atto di autonomia tra i fondatori. Peraltro – diversamente da quanto previsto per l’associazione riconosciuta – non sono richiesti né requisiti di forma, né di contenuto. L’associazione non riconosciuta non acquista, quindi, personalità giuridica, seppure goda di una sua soggettività: tant’è che è titolare del fondo comune, risponde in proprio delle obbligazioni assunte in suo nome, può stare in giudizio nella persona di coloro ai quali è conferita la presidenza o la direzione. L’ordinamento interno e l’amministrazione dell’associazione dell’assoc. non ric., nonché la disciplina dei rapporti tra associati e associazione, sono integralmente rimessi agli accordi degli associati. La previsione è espressione della volontà del legislatore del 1942 di disinteressarsi dei rapporti interni all’associazione, per limitare la disciplina legale ai soli rapporti fra associazione e terzi. Peraltro, in un ordinamento costituzionale, che riconosce dei “diritti inviolabili dell’uomo (…) nelle formazioni sociali”, non è più possibile affermare l’assoluta discrezionalità degli accordi associativi nel disciplinare i rapporti interni all’associazione. Innanzitutto, dovranno ritenersi applicabili anche all’ass. non ric. tutti quei principi dettati dal codice in tema di assoc. riconosciuta. Laddove si discostino, invece, dalle previsioni codicistiche in tema di ass. ric. , atto costitutivo e statuto non potranno adottare soluzioni che si risolvano in un sostanziale disconoscimento dei diritti dell’associato a partecipare alla vita associativa. Così, ad esempio – se potranno prevedere che l’esclusione dell’associato sia rimessa alla competenza non già dell’assemblea, bensì a quella, ad es., del collegio dei probiviri – gli accordi degli associati non potranno invece prevedere che detta esclusione sia demandata al potere discrezionale ed insindacabile di un organo associativo, da esercitarsi attraverso una deliberazione immotivata e non impugnabile: e ciò, per contrasto con l’art. 2 Cost., nella misura in cui una siffatta previsione finirebbe con il rimettere all’altrui arbitrio il diritto del socio a permanere nella compagine associativa. Una clausola di esclusione che violasse siffatto diritto dovrebbe ritenersi nulla. L’associazione non ric ha un suo fondo comune, distinto dal patrimonio dei singoli associati, che non possono, pertanto, chiederne la divisione per tutta la durata dell’associazione, né pretenderne una quota parte in caso di recesso. Anche l’associazione non ric può effettuare liberamente qualsiasi tipo di acquisto. La distinzione tra fondo comune dell’associazione e patrimonio dei singoli associati importa che, per le obbligazioni del singolo associato non risponde l’associazione con il suo fondo e che, per le obbligazioni dell’associazione, non risponde l’associato con il suo patrimonio: sicché mai l’associato rischia il suo patrimonio per debiti dell’associazione. Peraltro, per le obbligazioni contrattuali dell’associazione non ric, rispondono – oltre che il fondo comune – anche, personalmente e solidamente, con il loro patrimonio personale, coloro che hanno agito in nome e per conto dell’associazione, quand’anche non membri della stessa. Così, ad es, a fronte di una bolletta non pagata, l’ente erogatore di energia elettrica potrà rivolgersi o al fondo comune ovvero a coloro che hanno stipulato il relativo contratto di somministrazione: c.d. autonomia patrimoniale imperfetta. Da notare che il creditore può rivolgersi immediatamente a chi ha agito in nome e per conto dell’associazione, senza dover preventivamente escutere il fondo comune: quella del soggetto che agisce in nome e per conto dell’associazione costituirebbe – secondo la giurisprudenza – una sorta di garanzia ex lege, assimilabile alla fideiussione. Per quel che riguarda, invece, i debiti dell’associazione a fonte non negoziale (es. debiti tributari), si ritiene che ne rispondano il fondo comune, nonché i soggetti che, in forza del ruolo rivestito, abbiano diretto la complessiva gestione associativa nel periodo in considerazione. 75. La fondazione La fondazione è un’organizzazione stabile che si avvale di un patrimonio per il perseguimento di uno scopo non economico. Anche la fondazione prende vita da un atto di autonomia, che però, rispetto all’associazione, non è un contratto, bensì un atto unilaterale: c.d. atto di fondazione. Esso può essere: a) Un atto inter vivos, nel qual caso deve rivestire la forma dell’atto pubblico ed è revocabile dal fondatore fino a quando non sia intervenuto il riconoscimento, ovvero, se anteriore, fino al momento della morte del fondatore, ovvero ancora fino al momento in cui quest’ultimo abbia eventualmente fatto iniziare l’attività dell’opera da lui disposta. b) Contenuto in un testamento, nel qual caso l’atto di fondazione, diverrà efficace solo al momento dell’apertura della successione e fino a quel momento potrà essere revocato dal testatore. L’atto di fondazione, oltre alla manifestazione di volontà del fondatore di dar vita ad un’organizzazione mirante al perseguimento di una finalità non economica, deve contenere la denominazione dell’ente; scopo, patrimonio e sede; norme sull’ordinamento e l’amministrazione; criteri e modalità di erogazione delle rendite. Tali previsioni possono essere contenute anche nello statuto. La fondazione è dotata di un patrimonio che le consente la realizzazione delle sue finalità. È quindi necessario che il fondatore o i terzi pongano in essere un atto, in forza del quale si spogliano gratuitamente e in modo definitivo della proprietà di beni a favore della fondazione, con il vincolo di destinazione degli stessi al perseguimento dello scopo indicato dal fondatore (c.d. atto di dotazione). Per il riconoscimento e l’acquisto della personalità giuridica valgono le medesime regole che abbiamo visto con riferimento alle associazioni riconosciute: a), b), c). In mancanza di riconoscimento – a differenza delle associazioni che possono operare come associazioni non riconosciute – le fondazioni non possono operare come fondazioni non riconosciute, se non nei casi previsti dalla legge: ciò, in quanto non sarebbe dato – ad opera di enti non profit, espressione della c.d. società civile. Dall’inizio degli anni ’90 si è assistito al proliferare di interventi normativi volti a promuovere e sostenere gli enti operanti nel terzo settore: - La L. 49/1987, che disciplina le organizzazioni non governative, che operano nel campo della cooperazione con i Paesi in Via di sviluppo; - La L. 381/1991, che disciplina le c.d. cooperative sociali - Il D.Lgs. 460/1997, che disciplina le organizzazioni non lucrative di utilità sociale (ONLUS), le quali possono assumere forma giuridica dell’associazione, del comitati, della fondazione, della società cooperativa e degli altri enti a carattere privato; - Il D.Lgs. 155/2006, che disciplina la c.d. impresa sociale I provvedimenti appena menzionati si limitano a prevedere tutta una serie di meccanismi di promozione a favore di enti che – costituiti in una delle forme apprestate dal codice – presentino ulteriori requisiti volti a garantire la rilevanza sociale dell’attività da essi svolta e l’idoneità e la meritevolezza degli stessi a svolgerla. Va infine ricordato che la riforma del Titolo V Cost. ha enunciato solennemente la regola per cui i pubblici poteri “favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”: sulla base, cioè, del principio per cui il potere è legittimato ad intervenire nel settore solo allorquando nessun privato sia disponibile a operare, ovvero allorquando, nonostante gli aiuti pubblici, il livello dei servizi offerti dal privato sia inferiore a quello ritenuto minimo essenziale (c.d. carattere residuale dell’intervento pubblico). 78-bis. La riforma del terzo settore La L. 106/2016 ha delegato il Governo ad adottare uno o più decreti legislativi finalizzati. La disciplina codicistica, quale emergerà dalle discipline a essa apportate, continuerà a rimanere la disciplina generale degli ordinamenti senza scopo di lucro: associazioni, fondazioni e altre istituzioni di carattere privato non rientranti nel perimetro di quelle del terzo settore (tra cui sindacati, fondazioni bancarie, associazioni politiche, ecc) risulteranno regolamentate solo dal codice civile; associazioni, fondazioni e altre istituzioni di carattere privato che presentino invece i caratteri distintivi degli enti privati del terzo settore - (i) assenza dello scopo di lucro soggettivo, (ii) finalità civiche, utilitaristiche o di utilità sociale, (iii) realizzazione di attività di interesse generale nei settori indicati dalla legge – risulteranno invece regolamentati dal Codice del Terzo Settore e, solo dove da quest’ultimo non derogate, dalle previsioni del codice civile. 79. I diritti della personalità degli enti Vi sono alcuni diritti della personalità (diritto al nome, all’integrità morale, alla protezione dei dati personali, all’identità personale) che si ritiene competano anche agli enti, non importa se dotati o meno di personalità giuridica. Si discute se a soggetti diversi dalla persona fisica competa il diritto all’immagine: la risposta è ovviamente negativa, se si ritiene che quest’ultimo abbia ad oggetto solo le sembianze esteriori della persona; di segno contrario, se si ritiene che esso possa avere ad oggetto qualunque elemento visibile (es. stemma, logo) atto a richiamare alla mente un determinato soggetto (v. Cass. 18218/2009). CAPITOLO VIII 80. Il bene I concetti di bene e di cosa sono due concetti ben diversi: cosa è una parte di materia. Peraltro, non ogni cosa è un bene: tale, è solo la cosa che possa essere fonte di utilità e oggetto di appropriazione. Quindi non sono beni: a) Né le cose dalle quali non si è in grado di trarre alcun vantaggio (ad es., le stelle) b) Né le c.d. res comune omnium, ossia le cose di cui tutti possono fruire, senza impedirne una parti fruizione da parte degli altri consociati (es. la luce del sole , il vento); E’ a questo concetto di bene che si riferisce l’art. 810 cc allorquando precisa che “sono beni le cose che possono formare oggetto di diritti”: quelle cioè suscettibili di appropriazione e di utilizzo e che possono, perciò, avere un valore. Nel significato ristretto fatto proprio dal’art. 810, i beni sono una species all’interno del più ampio genus delle cose. Peraltro – se in senso economico bene è la cosa che presenta un valore – in senso giuridico, bene non è tanto la res, quanto il diritto sulla res. Ed è lo stesso legislatore ad impiegare la locuzione bene come sinonimo di diritto (ad es., art. 2740 “il debitore risponde all’adempimento delle obbligazioni con tutti i suoi beni”, ovvero quando – art. 320 cc – “i genitori rappresentano i figli e ne amministrano i beni”. Qui il termine bene è impiegato per indicare tutti i diritti (patrimoniali) facenti capo al debitore o ai figli, e non soltanto i diritti sulle cose. 81. Categorie di beni: materiali e immateriali Le cose si caratterizzano – oltre che per la loro suscettibilità di valutazione economica – per la loro corporeità, venendo così a costituire i c.d. beni materiali. Molto più delicata è l’analisi relativa all’ammissibilità della categoria dei beni immateriali. Tali vengono considerati gli stessi diritti quando possono formare un oggetto di negoziazione: ad es. il credito, che può essere oggetto di cessione, magari a fronte di un adeguato corrispettivo. A questa categoria è possibile ricondurre anche gli strumenti finanziari destinati alla negoziazione sui mercati regolamentati (borsa, IDEM,ecc). Altrettanto si può dire per i dati personali, relativamente ai quali il codice privacy attribuisce all’interessato poteri di controllo in ordine al loro trattamento. Il discorso si può ripetere, più in generale, con riferimento al contenuto delle banche- dati, che (ad es., attraverso il diritto d’autore, il segreto industriale o professionale) risulta protetto attraverso – da un lato – l’attribuzione al suo titolare del diritto di opporsi all’estrazione e al reimpiego della totalità o di una parte di esso e – da altro lato – l’imposizione al legittimo utilizzatore del divieto di “eseguire operazioni che siano in contrasto con la normale gestione della banca-dati o che arrechino un ingiustificato pregiudizio al costitutore della banca dati” stessa. Ancora, vengono considerati come beni immateriali le opere dell’ingegno, cioè le opere letterarie, scientifiche, didattiche, i disegni, opere di architettura , ecc. Peraltro, soprattutto nel caso delle arti figurative, si pone il problema del rapporto tra il diritto dell’autore (pittore es.) sul risultato della sua attività creativa ed il diritto reale sull’oggetto che costituisce il supporto fisico dell’idea. Il secondo spetta a chiunque sia proprietario dell’oggetto (tela), che può disporre del bene in base al suo diritto di proprietà; il primo spetta comunque all’autore (dopo aver venduto il quadro da lui dipinto, non sarà più proprietario della tela, ma avrà sempre il diritto di impedire che altri se ne assuma la paternità). Beni immateriali sono poi considerati la ditta, l’insegna, il marchio, le invenzioni e gli altri possibili oggetti di proprietà industriale. Peraltro, qualsiasi idea può, a certe condizioni, diventare un bene: tipico è il caso del know-how, cioè quel patrimonio di conoscenze, informazioni, notizie utili, competenze specifiche e capacità tecniche per attuare un processo produttivo. 82. Beni mobili e immobili a) immobili, per tali intendendosi il suolo e tutto ciò che naturalmente (albero) o artificialmente (edifici, lampioni) è incorporato nel suolo stesso; forma, cioè, un corpo unico con il suolo. Immobili – per determinazione di legge – sono altresì considerati alcuni altri beni non incorporati al suolo: mulini, edifici galleggianti, quando siano saldamente ancorati alla riva o all’alveo per destinazione permanente. b) mobili, per tali intendendosi tutti gli altri beni, comprese le energie. Le due categorie di beni sono sottoposte, come vedremo, ad un regime giuridico sotto vari aspetti diverso: ad es., traslativi e modificativi; di acquisto in virtù del possesso, ecc. 83. I beni registrati Talune vicende (es., trasferimento di proprietà, costituzione di ipoteca, ecc), relative ad alcune categorie di beni (c.d. beni registrati), sono oggetto di iscrizione in pubblici registri, che chiunque può liberamente consultare. Nel nostro ordinamento sono istituiti: a) Il registro immobiliare, tenuto presso l’Agenzia delle Entrate, in cui sono pubblicizzate le vicende relative ai beni immobili; b) Il pubblico registro automobilistico, tenuto presso ogni sede provinciale dell’Automobile club d’Italia, in cui sono pubblicizzate le vicende relative agli autoveicoli; c) I registri indicati dall’art. 146 cod. nav., in cui sono pubblicizzate le vicende relative alle navi; d) Il registro aeronautico nazionale, tenuto presso l’Ente Nazionale per l’Aviazione Civile, in cui sono pubblicizzate le vicende relative agli aeromobili. 84. I prodotti finanziari Per prodotti finanziari si intendono tutte le forme di investimento di natura finanziaria (esclusi i depositi bancari e postali non rappresentati da strumenti finanziari): ossia, tutte le forme di impiego di risparmio effettuato in vista di un ritorno economico. Tra i prodotti finanziari rivestono una posizione di rilievo gli strumenti finanziari (azioni, obbligazioni ed altri titoli di debito emessi da società di capitali, titoli di Stato, ecc) il cui tratto comune è quello della loro idoneità a formare oggetto di negoziazione sul mercato dei capitali. Al fine di assicurare al risparmiatore un sufficiente grado di informazione in ordine ad una tipologia di beni relativamente ai quali lo stesso non ha, di norma, conoscenze adeguate, la legge impone a chiunque intenda effettuare una offerta al pubblico di prodotti finanziari l’obbligo di predisporre un prospetto informativo contenente “in una forma facilmente analizzabile e comprensibile tutte le informazioni che sono necessarie affinché gli investitori possano pervenire ad un fondato giudizio sulla situazione patrimoniale e finanziaria (…), nonché sui prodotti finanziati e sui relativi diritti”. Detto prospetto, sottoposto al controllo della Consob, deve essere conoscibile al pubblico attraverso la sua pubblicazione. A maggior tutela del risparmiatore, la legge riserva l’esercizio professionale nei confronti del pubblico dei servizi e attività di investimento (cioè negoziazione e collocamento di strumenti finanziari) a banche e imprese di investimento. 85. Beni fungibili e infungibili a) Fungibili (o generici), per tali intendendosi quelli che sono individuati con esclusivo riferimento alla loro appartenenza ad un determinato genere (ad es., denaro, titoli di stato, ecc): possono essere sostituiti indifferentemente con altri, in quanto non interessa avere proprio quel bene (ad es., una determinata banconota da 100 €), ma una data quantità di beni di quel genere (ad es., banconote per il valore complessivo di 100€: nessuno si preoccupa infatti, quando riceve una determinata somma di denaro, che gli venga data questa o quella banconota: ognuno sta, invece, ben attento a che gli venga data la dovuta quantità di denaro); b) Frutti civili, che sono quelli che si ritraggono dalla cosa come corrispettivo del godimento che altri ne abbia. Se io concedo il mio appartamento in locazione ad altri e questi mi paga un corrispettivo (c.d. canone di locazione), io ricavo dalla mia cosa un quid che non è naturalmente prodotto da essa, ma sostituisce le utilità che avrei ricavato dalla cosa. I frutti civili – al pari dei naturali – devono presentare il requisito di periodicità. I frutti civili si acquistano giorno per giorno, in ragione della durata del diritto: così, ad es., se viene venduta la casa locata, il canone in corso di maturazione, va diviso tra alienante ed acquirente in proporzione della durata dei rispettivi diritti. 90. Combinazione di beni I beni possono essere impiegati dall’uomo o separatamente, o insieme o collegati ad altri, in guisa da accrescerne l’utilità. Di qui la distinzione fra: a) bene semplice, per tale intendendosi quello i cui elementi sono talmente compenetrati tra di loro che non possono staccarsi senza distruggere la fisionomia del tutto (es., un animale, un fiore); b) bene composto, per tale intendendosi quello risultante dalla connessione di più cose, ciascuna delle quali potrebbe essere staccata dal tutto e avere autonoma rilevanza giuridica ed economica (un’autovettura composta da motore, ruote ecc). Nell’ipotesi in cui i singoli elementi appartengano a persone diverse dal proprietario del tutto, bisogna distinguere: se il tutto è una cosa mobile (es. automobile) il proprietario di un singolo elemento (gomme) può rivendicarlo, se esso può separarsi senza notevole deterioramento; diversamente, la proprietà diventa comune in proporzione del valore delle cose spettanti a ciascuno; se il tutto invece è un immobile, gioca il principio dell’accessione: i singoli elementi diventano di proprietà del titolare dell’immobile, salvo indennizzo o risarcimento. 91. Le pertinenze Nella cosa composta gli elementi che la costituiscono diventano parti di un tutto, che non può sussistere senza di essi. Se invece una cosa è posta a servizio o ornamento di un’altra, senza rappresentare elemento indispensabile per la sua esistenza, ma in guisa da accrescerne utilità e pregio, si ha la figura della pertinenza. Per la costituzione di un rapporto pertinenziale debbono concorrere: a) Un elemento oggettivo, cioè il rapporto di servizio o ornamento tra cosa accessoria e cosa pricipale b) Un elemento soggettivo, cioè la volontà, espressa o tacita, di effettuare la destinazione dell’una cosa ad ornamento dell’altra. Il vincolo di pertinenza può intercorrere fra immobile ed immobile (es., il box, la cantina destinati al servizio di una casa d’abitazione); fra mobile ed immobile (es. la caldaia di una casa); fra mobile e mobile (es., le scialuppe e gli arredi di una nave). La destinazione di una cosa al servizio od ornamento dell’altra fa sì che l’una abbia carattere accessorio rispetto all’altra, che assume posizione principale. Se manca il vincolo di accessorietà, non v’è figura della pertinenza. Il vincolo che sussiste fra le due cose deve essere durevole, ossia non occasionale. Detto vincolo deve essere posto in essere da chi è proprietario della cosa principale ovvero da chi ha un diritto reale su di essa. La giurisprudenza enuncia il principio secondo cui, per potersi configurare un rapporto pertinenziale, sarebbe necessario che la cosa appartenga al proprietario della cosa principale. Tuttavia, il vincolo che si crea tra le due cose non pregiudica i diritti che i terzi abbiano sulla cosa destinata alla funzione pertinenziale. La legge tutela, perciò, entro certi limiti, la buona fede di questi terzi in riferimento sia alla costituzione sia alla cessazione della qualità di pertinenza: a) costituzione: i terzi proprietari delle pertinenze possono rivendicarle contro il proprietario della cosa principale. Se tuttavia costui ha alienato la cosa principale, senza esclusione della pertinenza, l’art. 819 cc protegge i terzi acquirenti, sempre che ignorassero, senza loro colpa (c.d. buona fede), che la pertinenza non apparteneva al proprietario della cosa principale: - se la cosa principale è un bene immobile o mobile registrato, ai terzi non si può opporre l’esistenza di diritti altrui sulle pertinenze, se essi non risultano da scrittura avente data certa anteriore all’atto di acquisto da parte del terzo; - se la cosa principale è un mobile non registrato, il terzo è protetto in base al principio possesso vale titolo b) cessazione: la cessazione della qualità di pertinenza non è opponibile ai terzi che abbiano anteriormente acquistato diritti sulla cosa principale. Così, ad es., se la cosa principale è stata venduta dal proprietario a Tizio senza esclusione delle pertinenze e queste vengono poi vendute a Caio, questa seconda vendita non può essere opposta a Tizio. Le pertinenze seguono lo stesso destino della cosa principale, a meno che non sia diversamente disposto. Peraltro, sono perfettamente ammissibili contratti che riguardino in via autonoma la sola pertinenza. 92. Le universalità patrimoniali Si definisce universalità patrimoniale la pluralità di cose mobili che (i) appartengono alla stessa persona; e (ii) hanno una destinazione unitaria (es., libri di una biblioteca, pecore di un gregge). L’universalità di mobili si distingue: - Dalla cosa composta perché non v’è coesione fisica tra le varie cose; - Dal complesso penitenziale, in quanto l’una non è posta a servizio o ornamento dell’altra, ma tutte insieme costituiscono un’entità nuova dal punto di vista economico-sociale (es. biblioteca) Sotto vari aspetti l’ordinamento giuridico stabilisce per l’universitas un regime diverso da quello che disciplina i singoli beni mobili. Ad es., il principio possesso vale titolo non si applica all’universalità di mobili: se acquisto in buona fede un’universalità di mobili da chi non ne è proprietario, non divento subito proprietario per effetto della trasmissione del possesso, come avviene per le cose mobili, ma occorre che io abbia il possesso dell’universalità per dieci anni (usucapione). La dottrina distingue tra: - Universalità di fatto, che è costituita da più beni mobili unitamente considerati - Universalità di diritto, che è costituita da più beni, in cui la riduzione ad unità è operata dalla legge. 93. L’azienda L’azienda è definita come il complesso di beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa: ossia, per la produzione di beni (azienda agricola es.) o servizi (es., compagnia di assicurazioni), ovvero per lo scambio di beni (es., azienda per la rivendita di frutta e verdura). Disputata è la natura giuridica dell’azienda. L’opinione tradizionale la considera come un’universitas facti. Ma, il concetto di universalità esige, da un lato, che di essa facciano parte solo beni mobili, mentre l’azienda può comprendere anche beni immobili (es., capannone in cui viene svolta l’attività) e, da altro lato, che le cose appartengano ad uno stesso proprietario, mentre questo non è richiesto nell’azienda. E comunque, è titolare dell’azienda anche chi (es. affittuario) non sia proprietario del complesso organizzato o dei singoli elementi costituivi di essa, purché diriga un determinato fine produttivo dell’azienda, assumendone il rischio. Secondo altri, invece, l’azienda sarebbe una cosa composta funzionale, in cui le singole cose sono collegate non materialmente, ma funzionalmente, in virtù del loro impiego, della loro destinazione comune. Alle teorie materialistiche si contrappongono, poi, le teorie immaterialisti che considerano l’azienda come un bene immateriale. L’azienda – si dice – consiste tutta nell’organizzazione dei vari beni. Vi è inoltre chi dà rilievo al concetto di organizzazione e chi considera l’azienda come universitas iuris o iurium. Da ultimo, la Cassazione – sulla base della considerazione che l’azienda in quanto tale, come bene distinto di suoi singoli componenti, può essere oggetto di negozi giuridici e diritti reali – è giunta a ritenere che essa debba essere riguardata come bene unitario, a composizione variabile nel tempo e qualitativamente mista, il cui elemento unificatore, è ancorato ad un’attività (l’organizzazione), a sua volta necessariamente qualificata in senso finalistico (l’esercizio dell’impresa). Tra gli elementi che formano l’azienda ha particolare importanza l’avviamento: si dice che un complesso aziendale è ben avviato per affermare che fa molti affari. Sinteticamente, si tratta della capacità di profitto dell’azienda. Secondo la Cassazione, l’avviamento è una qualità immateriale dell’azienda, che può anche mancare (come accade in un’azienda di nuova formazione che non sia ancora entrata in attività). Ha dato luogo a dispute anche il rapporto tra le nozioni di impresa e azienda. Il codice non dà la definizione di impresa, ma quella di imprenditore: ossia, colui che esercita professionalmente un’attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o servizi. Secondo l’opinione prevalente, l’azienda è lo strumento indispensabile per l’attività dell’imprenditore. L’impresa dunque, è l’attività economica svolta dall’imprenditore; l’azienda, invece, il complesso dei beni di cui l’imprenditore si avvale per svolgere l’attività stessa. 94. Il patrimonio Si chiama patrimonio il complesso dei rapporti attivi e passivi, suscettibili di valutazione economica facenti capo ad un soggetto. Qualunque soggetto ha un patrimonio anche se ha soltanto o prevalentemente debiti, perché è comunque soggetto passivo di rapporti giuridici. Ogni soggetto ha un patrimonio ed un patrimonio solo, con il quale risponde dei propri debiti. Non è, di massima, concesso al singolo di staccare beni o dei rapporti giuridici dal proprio patrimonio per riservarli ad alcuni creditori, escludendo gli altri. Ciò può avvenire solo nei casi previsti dalla legge. Peraltro, sono venute moltiplicandosi le ipotesi in cui la legge consente la separazione di taluni cespiti dal restante patrimonio di un medesimo soggetto. Su detti cespiti (c.d. patrimonio separato) possono agire in via esecutiva non già – come sarebbe la regola – tutti i creditori del titolare, bensì solo alcuni di essi (così sottratti al concorso degli altri, in funzione dell’interesse che la legge intende tutelare). Si pensi , per es., al patrimonio di chi ha accettato l’eredità con beneficio di inventario, sul quale non possono far valere le proprie ragioni i creditori del defunto ed i legatari. Diverso dal patrimonio separato è il patrimonio autonomo: il primo termine allude al distacco di una parte del patrimonio, che continua ad appartenere allo stesso soggetto; il secondo è invece quello che viene attribuito ad un nuovo soggetto, mediante la creazione di una persona giuridica (ad es. società di capitali, associazione riconosciuta , ecc) od anche solo di un ente che, sebbene sprovvisto di personalità, sia dotato di autonomia patrimoniale, ancorché imperfetta (es. società di persone, associazione non riconosciuta). 95. Beni pubblici e beni degli enti ecclesiastici Di beni pubblici si parla in due sensi: a) beni appartenenti ad un ente pubblico: c.d. beni pubblici in senso soggettivo; b) beni assoggettati ad un regime speciale, diverso dalla proprietà privata, per favorire il raggiungimento dei fini pubblici cui quei cespiti sono destinati: c.d. beni pubblici in senso oggettivo. Sono pubblici in senso oggettivo i beni demaniali ed i beni del patrimonio indisponibile. Tradizionalmente, i beni demaniali si distinguevano a loro volta in: La figura del negozio giuridico è stata delineata dalla dottrina tedesca del XIX sec mediante un processo di astrazione rispetto ai più importanti tipi di atti: si è rilevato, infatti, che istituti quali il contratto, il testamento, il matrimonio, presentano il tratto comune per cui dei privati enunciano in una dichiarazione (unilaterale, bilaterale o plurilaterale a seconda dei casi) gli effetti giuridici che intendono conseguire (es. acquisto della proprietà). In tutti questi casi, la volontà manifestata produce effetti giuridici, creando, modificando o estinguendo situazioni giuridiche soggettive. Il negozio giuridico, secondo la dottrina tradizionale, è una dichiarazione di volontà con la quale vengono enunciati gli effetti perseguiti ed alla quale l’ordinamento giuridico – se la finalità dell’atto è meritevole di tutela e se esso risponde ai requisiti fissati dalla legge per le singole figure negoziali – ricollega effetti giuridici conformi al risultato voluto (es., trasferimento della proprietà di un bene da un soggetto ad un altro; nomina di un erede; ecc). Il fenomeno negoziale risponde alla necessità di attribuire ai singoli una sfera di autonomia, entro la quale i privati possano decidere da sé come regolare i propri interessi, ottenendo dalla legge che gli atti posti in esssere siano resi vincolanti ed impegnativi. Nonostante la grande importanza che il negozio riveste, il cc non gli dedica un’apposita disciplina: nel codice sono regolati il contratto, il testamento, il matrimonio, ma non il negozio giuridico in generale. Peraltro, al contratto il cc dedica una disciplina organica e articolata: l’intero titolo II del libro IV regola la parte generale del contratto; inoltre, l’art. 1324 cc dispone che “salvo diverse disposizioni di legge, le norme che regolano i contratti si osservano, in quanto compatibili, per gli atti unilaterali tra vivi aventi contenuto patrimoniale”: ciò rende la disciplina dei contratti tendenzialmente applicabile a tutti gli altri negozi giuridici inter vivos e a contenuto patrimoniale, sicché quella disciplina costituisce il paradigma della disciplina dei fenomeni negoziali. Non sarebbe però corretto dedurne una sicura ed immediata applicabilità, in via analogica, di quella disciplina a qualsiasi altro tipo di negozio, diverso dal contratto, essendo evidente, per es., che i negozi aventi carattere non patrimoniale, come il matrimonio, presentano profili eterogenei rispetto alla logica della disciplina del contratto, il quale attiene a rapporti di carattere patrimoniale. 99. Classificazioni dei negozi giuridici: a) in relazione alla struttura soggettiva Se il negozio giuridico è perfezionato con la dichiarazione di una sola parte si dice unilaterale (ad es. testamento). Non si deve peraltro confondere la nozione di parte con quella di individuo: per parte si intende un centro d’interessi, perciò si può avere una parte composta da una pluralità di persone (parte soggettivamente complessa). Se le dichiarazioni di volontà sono dirette a formare la volontà di un organo pluripersonale di una persona giuridica o di una collettività organizzata di individui (es. deliberazione dell’assemblea di un condominio), si ha l’atto collegiale, nel quale si applica il principio di maggioranza. Dalle figure finora esaminate si distingue quella dell’atto complesso: anche questo consta di più volontà tendenti ad un fine comune, ma, a differenza di quanto avviene nell’atto collegiale, queste volontà si fondono per formarne una sola. Per esempio la dichiarazione dell’inabilitato e del suo curatore. Che significato ha questa fusione (nell’atto complesso) o distinzione (nell’atto collegiale) delle dichiarazioni di volontà individuali? Il valore pratico della distinzione è il seguente: quando le dichiarazioni si fondono in una sola, il vizio di una di esse inficia senza rimedio la dichiarazione complessa (per es., se il curatore di un inabilitato è stato costretto da violenza a consentire l’alienazione di un bene di quest’ultimo, il vizio si riflette interamente sulla validità della dichiarazione della “parte” venditrice, ossia l’inabilitato assistito dal curatore. Invece, se la dichiarazione di voto di un partecipante ad un’assemblea è viziata, ciò non travolge automaticamente la deliberazione collegiale: si deve vedere se il voto invalido era determinante ai fini della maggioranza; qualora la maggioranza sussista ugualmente, la deliberazione dell’organo collegiale rimane valida (c.d. prova di resistenza). (atto collegiale e atto complesso non si chiede all’esame) I negozi giuridici unilaterali si distinguono in recettizi, se, per produrre effetto, la dichiarazione negoziale deve pervenire a conoscenza di una determinata persona, alla quale, pertanto, deve essere comunicata o notificata (es., disdetta); e non recettizi, se producono effetto indipendentemente dalla comunicazione ad uno specifico destinatario (ad es., accettazione di un’eredità). Se le parti sono più di una si ha il negozio bilaterale (se sono due) o plurilaterale (se sono più di due). 100. Classificazione dei negozi giuridici: b) in relazione alla funzione In relazione alla funzione di un negozio giuridico distinguiamo i negozi mortis causa (es. testamento), i cui effetti presuppongono la morte di una persona, dai negozi inter vivos (es. vendita). Secondo che si riferiscano ad interessi economici o meno si distinguono i negozi patrimoniali (come il contratto) dai negozi apatrimoniali (es. i negozi di diritto familiare). Nell’ambito dei negozi patrimoniali si collocano i negozi di attribuzione patrimoniale, che tendono ad uno spostamento di diritti patrimoniali da un soggetto ad un altro (es. vendita, donazione). I negozi di attribuzione patrimoniale si distinguono in negozi di disposizione, che importano un’immediata diminuzione del patrimonio mediante alienazione o mediante rinunzia, e negozi di obbligazione, che danno luogo soltanto alla nascita di un’obbligazione, ancorché possa essere diretta al trasferimento di un diritto (ad es., vendita di cosa altrui, nella quale il venditore si obbliga ad acquistare la cosa dal proprietario, in guisa che il compratore possa, di conseguenza, diventarne a sua volta, automaticamente proprietario). I negozi di disposizione si distinguono in negozi traslativi (se attuano il trasferimento del diritto a favore di altri), traslativo-costitutivi (se costituiscono un diritto reale limitato su di un bene del disponente) e abdicativi. Possono però anche darsi negozi che si propongono soltanto di eliminare controversie e dubbi sulla situazione giuridica esistente: sono i negozi di accertamento. Questa figura ha dato luogo a molte discussioni, dal momento che la dottrina riteneva che la funzione di accertamento di situazioni giuridiche doveva considerarsi prerogativa degli organi giudiziari e non dei privati. Tuttavia, simili resistenze sono superate ed ora si ammette che le parti possano validamente chiarire, con un atto di autonomia negoziale, una situazione giuridica incerta. Si è d’accordo nel ritenere che il negozio di accertamento ha effetto retroattivo: lo stato di incertezza viene eliminato ab origine, come se non fosse mai esistito. 101. Negozi a titolo gratuito e negozi a titolo oneroso I negozi patrimoniali si possono distinguere in negozi a titolo gratuito e negozi a titolo oneroso. Si qualifica come negozio a titolo oneroso quando un soggetto, per acquistare qualsiasi tipo di diritto, beneficio o vantaggio, accetta un relativo sacrificio (es., il mutuo), mentre si dice a titolo gratuito il negozio per effetto del quale un soggetto acquisisce un vantaggio senza alcun correlativo sacrificio (es., il deposito). Taluni contratti sono essenzialmente gratuiti, come la donazione o il comodato: la previsione di un corrispettivo snaturerebbe il contratto. In genere, l’acquirente a titolo gratuito è protetto meno intensamente dell’acquirente a titolo oneroso: ad es., il venditore è tenuto a garantire che la cosa venduta sia immune da vizi, mentre il donante, se non è in dolo, non risponde dei vizi della cosa. La gratuità non coincide con la liberalità, che rappresenta la causa della donazione e si connota per l’intento di arricchire il beneficiario di un’attribuzione patrimoniale (donatario); la gratuità è una categoria più ampia, perché comprende tutti i casi di attribuzioni patrimoniali o di prestazioni a fronte delle quali non si ponga una specifica controprestazione da parte del destinatario, che però possono essere sorrette da un intento non liberale del disponente (per es., un imprenditore organizza un servizio gratuito di trasporto dei propri dipendenti per consentire loro di accedere ai locali commerciali). 102. La rinunzia Negozio abdicativo è la rinunzia, che è la dichiarazione unilaterale del titolare di un diritto soggettivo, diretta a dismettere il diritto stesso senza trasferirlo ad altri. Non si esclude che altri possa avvantaggiarsi della rinunzia, ma questo vantaggio può derivare solo occasionalmente e indirettamente dalla perdita del diritto da parte del suo titolare. La rinunzia, per es., al diritto di usufrutto importa la consolidazione dell’usufrutto con la nuda proprietà, per effetto della quale, il potere di godere la cosa ritorna al proprietario; tuttavia tale conseguenza non costituisce effetto diretto della rinunzia che in sé e per sé produce soltanto l’estinzione del diritto di usufrutto: essa, invece, deriva dal principio di elasticità del dominio, in virtù del quale la proprietà, prima compressa, riprende automaticamente la sua espansione originaria, non appena il diritto che la limitava viene meno. Si ritiene che non ricorra la figura della rinunzia se la dismissione del diritto è fatta verso un corrispettivo. Manca, invero, in quest’ipotesi l’elemento della unilateralità, caratteristico della rinunzia. Secondo un orientamento, la rinunzia va tenuta distinta dal rifiuto, che si caratterizza per il fatto che o il diritto non è ancora presente nella sfera del dichiarante e dunque in realtà il soggetto impedisce che vi faccia ingresso (rifiuto impeditivo); oppure il diritto dismesso, pur presente nella sfera del dichiarante, non è ancora pienamente stabile, ossia è suscettibile di essere rimosso con effetto retroattivo (rifiuto eliminativo). Così il soggetto chiamato a divenire erede, che rinunci all’eredità, in realtà impedisce un acquisto al proprio patrimonio: infatti, i beni ereditari non sono mai stati nella titolarità del chiamato, avendo quest’ultimo soltanto il diritto di accettare o meno l’eredità. Nel caso invece in cui un soggetto sia beneficiato dal testatore con un legato, l’acquisto della titolarità del bene legato è immediato (non è richiesta accettazione); e tuttavia il beneficiato può eliminare retroattivamente tale bene dalla propria sfera giuridica con la rinuncia al legato. 103. Elementi del negozio giuridico Gli elementi o requisiti del negozio giuridico si distinguono in elementi essenziali, senza i quali il negozio è nullo, ed elementi accidentali, che le parti sono libere di apporre o meno. In relazione al contratto, la mancanza o il vizio dei suoi requisiti ne comporta la nullità. Gli elementi essenziali si dicono generali se si riferiscono ad ogni tipo di contratto (tali la volontà, la dichiarazione e la causa); particolari, se si riferiscono a quel particolare tipo considerato (ad es., nella vendita elem. part. è il prezzo). Dagli elementi essenziali si distinguono i presupposti del negozio, che sono circostanze estrinseche, necessarie perché il negozio sia valido (ad es., la capacità della persona che pone in essere il negozio). Anche gli elementi accidentali possono essere distinti in generali (condizione, modo, termine) o particolari. In ordine agli elementi accidentali, occorre tener presente che, pur essendo le parti libere di apporli o no, se vengono apposti, incidono sull’efficacia del negozio. La dottrina meno recente soleva aggiungere un’altra categoria di elementi, ossia gli elementi naturali. In realtà si tratta di effetti naturali del negozio, ossia di effetti che la legge considera connaturati al negozio stesso: essi si producono senza bisogno di previsione delle parti, in forza della disciplina legislativa che è stabilita per il tipo di negozio prescelto. Così l’ordinamento ritiene che chi acquista un bene mediante corrispettivo intende essere garantito nel’ipotesi che il bene stesso non risulti di proprietà del venditore, ma di altra persona. Perciò il venditore è sempre tenuto alla garanzia di cui si parla. L’ordinamento, peraltro, non impone inderogabilmente questa garanzia: libere le parti di regolare i propri interessi e quindi libero il compratore di acquistare a suo rischio e pericolo. 104. La dichiarazione La volontà del soggetto destinata a produrre effetti giuridici deve essere dichiarata e cioè esternata, perché gli altri possano averne conoscenza. A seconda dei modi con cui essa avviene, si distingue in dichiarazione espressa (se fatta con parole, cenni o con qualsiasi mezzo idoneo a far palese ad altri il nostro pensiero) e dichiarazione tacita (consistente in un comportamento che, secondo il comune modo di agire e pensare, risulti incompatibile con la volontà contraria). Così, se senza parlare restituisco al mio debitore il titolo d) se il termine è a mese, si segue il criterio ex nominatione e non ex numeratione dierum: il termine scade, cioè, nel giorno corrispondente a quello del mese iniziale (ad es., un termine di un mese a decorrere dal 2 ottobre scade il 2 novembre, non il 1 novembre, come sarebbe se si calcolassero trenta giorni dal 2 ottobre) e) se nel mese di scadenza manca il giorno corrispondente, il termine si compie con l’ultimo giorno dello stesso mese (ad es., il termine di un mese che abbia inizio il 31 gennaio scade il 28 febbraio). 109. Influenza del tempo sull’acquisto e sull’estinzione dei diritti soggettivi Il decorso di un determinato periodo di tempo può dar luogo all’acquisto ovvero all’estinzione di un diritto soggettivo: ciò in quanto, se una situazione di fatto si protrae a lungo nel tempo, l’ordinamento tende a far coincidere la situazione di diritto con quella di fatto. Se il decorso del tempo serve a far acquistare un diritto soggettivo, l’istituto che viene preso in considerazione è l’usucapione; invece, l’estinzione del diritto soggettivo per decorso del tempo forma oggetto di due altri istituti: la prescrizione estintiva e la decadenza. B) LA PRESCRIZIONE ESTINTIVA 110. Nozione e fondamento La prescrizione estintiva produce l’estinzione del diritto soggettivo per effetto dell’inerzia del titolare del diritto stesso, che non lo esercita per il tempo determinato dalla legge. La ragione per cui l’ordinamento riconnette all’inerzia l’estinzione del diritto soggettivo, consiste nell’esigenza di certezza dei rapporti giuridici: il fatto che un diritto soggettivo non venga esercitato induce nella generalità delle persone la convinzione che esso non esista o sia stato abbandonato. D’altro canto, sorgendo contestazioni, riesce difficile, decorso un notevole lasso di tempo, la dimostrazione della nascita di un rapporto giuridico: chi conserva più, a distanza di tempo, le ricevute per dimostrare che un pagamento è stato effettuato? 111. Operatività della prescrizione Essendo stabilita per ragioni di interesse generale, la prescrizione estintiva è un istituto di ordine pubblico: quindi, le norme che stabiliscono l’estinzione del diritto ed il tempo necessario perché ciò si verifichi sono inderogabili. Di conseguenza, le parti non possono rinunziare preventivamente alla prescrizione, né prolungare o abbreviare i termini stabiliti dalla legge. Non è consentita nemmeno la rinuncia fatta mentre è in corso il termine prescrizionale: essa, tuttavia, vale come riconoscimento del diritto soggetto a prescrizione e produce l’interruzione della prescrizione, ossia l’irrilevanza del tempo prescrizionale decorso fino a quel momento. Diversa è, invece, la situazione rispetto alla rinunzia successiva al decorso del termine di prescrizione. Una volta verificatasi, la prescrizione è ormai interesse esclusivo del soggetto che ne è avvantaggiato a farla valere o meno. Si aggiunga che il servirsi della prescrizione estintiva non sempre può risultare conforme all’etica: in certi casi la prescrizione può apparire, dal punto di vista morale, un impium re medium (ad es., se il compratore ha ricevuto a suo tempo la merce, egli ricava un profitto non giustificato sotto il profilo morale, se si avvale della prescrizione del credito relativo al prezzo). Perciò la legge si rimette alla valutazione dell’interessato. Ciò spiega la disposizione dell’art. 2937 cc che consente la rinuncia successiva alla prescrizione: la rinuncia, cioè, effettuata dopo che la prescrizione si è compiuta. La rinunzia può essere tanto espressa che tacita se risulta da un fatto (es., dal riconoscimento inequivocabile del credito) incompatibile con la volontà di avvalersi della prescrizione. Per la stessa ragione – e cioè perché è rimesso alla volontà dell’interessato avvalersi o meno della prescrizione già compiuta – il giudice non può rilevarla d’ufficio. Peraltro, secondo il principio generale secondo cui i creditori possono esercitare i diritti spettanti al proprio debitore (azione surrogatoria, v. 259) – i creditori possono sostituirsi all’interessato e far valere la prescrizione, anche se la parte vi abbia rinunziato. Sempre in virtù del principio per cui la prescrizione non opera automaticamente, il debitore che abbia pagato spontaneamente non può farsi restituire quando versato (senza che rilevi se sapeva o meno che il debito era prescritto): si verifica qui un’ipotesi di obbligazione naturale (v. 191). 112. Oggetto della prescrizione La regola è che tutti i diritti sono soggetti a prescrizione estintiva. Ne sono esclusi i diritti indisponibili (v.61), i diritti della personalità e la responsabilità genitoriale (c.d. diritti imprescrittibili). Anche il diritto di proprietà non è soggetto a prescrizione estintiva, perché anche il non uso è espressione della libertà riconosciuta al proprietario: inoltre, la prescrizione ha sempre come finalità il soddisfacimento di un interesse, laddove l’estinzione del diritto di proprietà per non uso non avvantaggerebbe nessuno, facendo solo diventare nullius la res. Anche il proprietario, peraltro, può perdere il suo diritto qualora un terzo usucapisca la proprietà del bene. Sono inoltre imprescrittibili l’azione di disconoscimento della paternità, se promossa dal figlio, l’azione di contestazione dello stato del figlio, l’azione di impugnazione del riconoscimento del figlio nato fuori dal matrimonio, se promossa dal figlio stesso e, in generale, le azioni di mero accertamento. Non sono prescrittibili nemmeno le singole facoltà, che formano il contenuto di un diritto soggettivo. Esse si estinguono se ed in quanto si estingua il diritto soggettivo. La prescrizione estingue il diritto, come stabilito dall’art. 2934 cc. 113. Inizio della prescrizione Presupposto della prescrizione istintiva è l’inerzia del titolare del diritto. Poiché non si può parlare di inerzia quando il diritto non può essere fatto valere, la prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto avrebbe potuto essere esercitato. Così, ad es., se il diritto deriva da un contratto sottoposto a condizione sospensiva o termine iniziale, la prescrizione decorre dal giorno in cui la condizione si è verificata o il termine è scaduto (perciò, se acquisto casa a Roma a condizione che io venga trasferito entro un anno a roma, il venditore non potrà agire per il pagamento del prezzo se non quando la condizione, cui è subordinata l’efficacia del contratto, si sia verificata; di conseguenza, la prescrizione del credito relativo al pagamento del prezzo comincerà a decorrere soltanto da tale momento). L’impossibilità di esercitare il diritto è peraltro solo quella che deriva da cause giuridiche e non comprende anche gli impedimenti soggettivi e gli ostacoli di mero fatto (es., l’ignoranza da parte del titolare dell’esistenza del suo diritto). 114. Sospensione ed interruzione della prescrizione La prescrizione presuppone l’inerzia ingiustificata del titolare del diritto: essa, quindi, non opera, allorché sopraggiunga una causa che giustifichi l’inerzia stessa, così come nel caso in cui l’inerzia stessa venga meno. Entrano quindi i gioco i due istituti della sospensione e della interruzione della prescrizione. La sospensione è determinata: a) o da particolari rapporti intercorrenti tra le parti: così, ad es., la prescrizione rimane sospesa tra i coniugi, se non legalmente separati; b) o dalla condizione del titolare: così, ad es., la prescrizione rimane sospesa nei confronti dei minori non emancipati e degli interdetti per infermità di mente, se privi di rappresentante legale. Per quanto riguarda i crediti retributivi dei prestatori di lavoro, la giurisprudenza ritiene che il decorso della prescrizione venga sospeso per tutta la durata del rapporto, quantomeno nell’ipotesi in cui la sua stabilità non sia presidiata dall’origine da tutela reale: e ciò, in quanto, in tale ultimo caso, l’inerzia del lavoratore ad azionare i propri diritti potrebbe essere determinata dal timore di un licenziamento. Le cause di sospensione indicate dalla legge sono tassative. Cosicché i semplici impedimenti di fatto (per es., uno sciopero che mi renda impossibile la notificazione di un atto di citazione) non valgono a sospendere il decorso della prescrizione. L’interruzione ha luogo: a) o perché il titolare avvia un procedimento- non importa se giudiziale o arbitrale; se di cognizione o conservativo o esecutivo (v. 119) – volto all’esercizio del proprio diritto. Con la precisazione che, in ipotesi di instaurazione di un giudizio di cognizione, l’interruzione della prescrizione perdura fino al passaggio in giudicato della sentenza che lo definisce. Oggi, la prescrizione è altresì interrotta: (i) dall’avvio di una procedura di mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili o commerciali; (ii) dalla sottoscrizione di una convenzione di negoziazione assistita; (iii) dalla domanda presentata per avviare una procedura di risoluzione extragiudiziale delle controversie previste dagli artt. 141 ss. Cod. cons. b) o perché – quando si tratti di diritti di credito – il titolare pone in essere un qualsiasi atto idoneo a costituire in mora il debitore; c) o perché il soggetto passivo effettua il riconoscimento dell’altrui diritto (ad es., si riconosce debitore nei miei confronti, promettendo di pagarmi appena possibile); riconoscimento che può anche risulatre da un semplice comportamento, purché univoco ed incompatibile con la volontà di negare il diritto stesso (c.d. riconoscimento tacito). L’interruzione e la sospensione della prescrizione – insegna la giurisprudenza – possono essere rilevate d’ufficio dal giudice, sulla base di prove ritualmente acquisite agli atti. Il fondamento dei due istituti è diverso: nella sospensione l’inerzia del titolare del diritto continua a durare, ma è giustificata; nell’interruzione è l’inerzia stessa che viene meno, o perché il diritto è stato esercitato, o perché esso è stato riconosciuto dall’altra parte. Questa differenza si riverbera sugli effetti della sospensione e dell’interruzione, che sono ben diversi: La sospensione spiega i suoi effetti per tutto il periodo per il quale gioca la causa giustificativa dell’inerzia (ad es., finché dura il matrimonio, senza che intervenga separazione legale), ma non toglie valore al periodo eventualmente trascorso in precedenza. Perciò essa può paragonarsi ad una parentesi. Nella sospensione il tempo anteriore al verificarsi della causa che la determina non perde la sua rilevanza, ma si somma con il periodo successivo alla cessazione dell’operatività dell’evento sospensivo. Invece l’interruzione, facendo venir meno l’inerzia, toglie ogni valore al tempo anteriormente trascorso: dal verificarsi del fatto interruttivo, perciò, comincia a decorrere un nuovo periodo di prescrizione. 115. Durata della prescrizione Rispetto alla durata, si distinguono la prescrizione ordinaria e le prescrizioni brevi. La prescrizione ordinaria trova applicazione in tutti i casi in cui la legge non dispone diversamente: essa matura in dieci anni. Un periodo più lungo (vent’anni) è richiesto in armonia con il termine per l’usucapione, per l’estinzione dei diritti reali su cosa altrui. Termini più brevi – giustificati dalla peculiarità dei relativi casi – sono previsti per altre categorie di rapporti. Tra i casi più significativi, vi è il diritto al risarcimento del danno conseguente ad un illecito extracontrattuale, che si prescrive in cinque anni. Nel caso in cui, però, il fatto dannoso costituisca reato, per il quale sia previsto un termine di prescrizione più lungo, quest’ultimo si applica anche all’azione civile di risarcimento del danno; se poi il reato è estinto per causa diversa dalla prescrizione, ovvero è intervenuta una sentenza definitiva, il termine di prescrizione dell’azione civile risarcitoria ritorna a decorrere per la durata stabilita dai primi due comma dell’art. 2947. In cinque anni si prescrivono altresì i diritti a prestazioni periodiche ( ad es., canoni di affitto e locazione). Del pari si prescrivono in cinque anni le azioni di annullamento del contratto, l’azione revocatoria ordinaria e le azioni relative alla tutela e all’amministrazione di sostegno. Ancora più breve (un anno) è la prescrizione dei diritti derivanti da taluni rapporti commerciali (es., mediazione, spedizione, trasporto). Si avverte che – se il 119. Cenni sui tipi di azione Poiché lo stato ha avocato a sé il potere (e dovere) di rendere giustizia, ai consociati è correlativamente riconosciuto il diritto di rivolgersi agli organi all’uopo istituti per ottenere quella giustizia che non possono farsi da sé: questo diritto – cioè il diritto di agire in giudizio – si chiama azione. Chi esercita l’azione, proponendo la domanda giudiziale, si chiama attore (perché agisce); colui contro il quale l’azione è proposta si chiama convenuto (perché è invitato nel suo interesse a presentarsi – a convenire – in giudizio per esporre le proprie ragioni). Il diritto di agire in giudizio è oggetto di una specifica garanzia costituzionale e, quindi, non può essere soppresso o limitato nei confronti di nessuno e per nessuna ragione. Del pari, costituisce diritto inviolabile dei cittadini la possibilità di difendersi in giudizio. La Costituzione prevede altresì che ai non abbienti siano assicurati mezzi idonei per difendersi adeguatamente davanti a qualsiasi giudice. Il nostro ordinamento conosce vari tipi di azione. Se tra Tizio e Caio sorge controversia i ordine alla sussistenza di un determinato diritto soggettivo (ad es., se il corrispettivo di Caio dovuto a Tizio è di 100 ovvero di 200), s’instaura tra i due un processo di cognizione, in esito al quale il giudice individua la regola applicabile al caso concreto (accerta a quanto ammonta il corrispettivo da Caio dovuto a Tizio). L’azione di cognizione può tendere a queste 3 finalità: a) Al mero accertamento dell’esistenza/inesistenza o del modo di essere di un rapporto giuridico controverso (quale è l’importo da Caio dovuto a Tizio) (c.d. azione e, correlativamente, sentenza di mero accertamento); b) All’emanazione di un comando, che il giudice rivolgerà alla parte soccombente, di tenere la condotta che lo stesso giudice riconosce come dovuta (il giudice condannerò Caio al pagamento della somma riconosciuta come dovuta a Tizio). Con lo stesso provvedimento di condanna, se avente ad oggetto l’adempimento di obblighi diversi dal pagamento di somme di denaro, il giudice potrà – al fine di incentivarne l’adempimento spontaneo – prevedere che, in caso di violazione o inosservanza successiva del proprio provvedimento, il condannato debba corrispondere all’altra parte una somma di denaro del danno quantificato o prevedibile e di ogni altra circostanza utile. c) Alla costituzione, modificazione o estinzione di rapporti giuridici. In questa ipotesi la sentenza non si limita ad accertare la situazione giuridica preesistente o ad esprimere un comando concreto, ma modifica la situazione fino a quel momento vigente (c.d. azione e, correlativamente sentenza costitutiva). Un esempio è quello offerto dalla pronunzia di separazione coniugale: i coniugi prima erano tenuti alla coabitazione e all’assistenza reciproca; per effetto della sentenza di separazione questi obblighi cessano o si modificano. Se a fronte di una sentenza che lo condanna a tenere una determinata condotta, Caio, ciononostante, non ottempera neppure a quanto disposto dal giudice, Tizio potrà instaurare contro di lui un processo di esecuzione, la cui finalità consiste nel realizzare coattivamente il comando contenuto nella sentenza (Tizio potrà far vendere coattivamente beni di Caio al fine di soddisfarsi sul relativo ricavato). Per impedire che, nel corso del processo di cognizione, controparte possa porre in essere condotte destinate a frustrare gli effetti di un’eventuale sentenza sfavorevole, l’altra parte potrà avvalersi del processo cautelare (per evitare che, nelle more di un processo di condanna al pagamento di una determinata somma, Caio sottragga i beni su cui Tizio, una volta ottenuta la sentenza sperata, potrebbe esercitare un’azione esecutiva, allo stesso Tizio è concesso richiedere immediatamente il sequestro conservativo dei beni di Caio, rendendo così indifferente, nei confronti dello stesso Tizio, qualsiasi atto dispositivo che Caio dovesse eventualmente porre in essere). 120. La cosa giudicata Per meglio assicurare la conformità della sentenza a giustizia, è concesso alle parti di promuovere il riesame della lite, impugnando la decisione. Tuttavia, questo riesame non può andare all’infinito: verificatesi certe condizioni (decorso di termini, esaurimento dei mezzi di impugnativa concessi dalla legge), il comando contenuto dalla sentenza non può essere più modificato da alcun altro giudice, costituendo res iudicata. Ad eventuali ulteriori tentativi di una delle parti di proseguire il dibattito si può opporre la cosa giudicata. L’efficacia del giudicato concerne anzitutto il processo: esso preclude ogni ulteriore riesame di impugnazione della sentenza. Perciò l’art. 324 c.p.c. – la cui rubrica reca appunto cosa giudicata formale – dice che s’intende passata in giudicato la sentenza che non è più soggetta ai mezzi di impugnazione ivi indicati. Ma la cosa giudicata ha anche un valore sostanziale (c.d. cosa giudicata in senso sostanziale): non soltanto non si può impugnare la sentenza, ma, se in essa è stato riconosciuto il mio diritto di proprietà o di credito, ciò non può più formare oggetto di discussione o di riesame tra me e l’altra parte, neppure in futuri processi. L’art. 2909 cc dice che l’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato ad ogni effetto fra le parti, i loro eredi ed aventi causa. La cosa giudicata in senso sostanziale consiste, dunque, nella definitività dell’accertamento contenuto nella sentenza anche al di fuori del processo nel quale è stata pronunziata: così, ad es., se Tizio ha contestato il mio diritto di proprietà su un bene che voglio vendere, io posso mostrare al potenziale acquirente la sentenza che ha respinto la domanda di Tizio e tranquillizzarlo che sarà sicuro da ogni suo ulteriore attacco. 121. Il processo esecutivo (esecuzione in forma specifica degli obblighi di dare, fare e non fare) Se non viene spontaneamente adempiuto neppure il comando contenuto nella sentenza, colui a cui favore detto comando è stato emesso, può iniziare il procedimento esecutivo. Peraltro, solo in alcuni casi detto procedimento riesce ad assicurare proprio quel risultato voluto dal comando contenuto nella sentenza: c.d. esecuzione forzata in forma specifica. Ciò accade nelle ipotesi in cui sia rimasto ineseguito: a) un obbligo avente ad oggetto la consegna di una cosa determinata, mobile o immobile (ad es., l’obbligo dell’inquilino di riconsegnare l’unità mobiliare al proprietario alla scadenza del contratto di locazione) b) un obbligo avente ad oggetto un facere fungibile (ad es., l’obbligo dell’appaltatore di ultimare l’edificio che si è impegnato a realizzare; nel qual caso l’avente diritto – poiché “nemo ad factum precise cogi potest” – potrà ottenere che esso sia eseguito da altro, seppure a spese dell’obbligato. Ove si tratti invece di in esecuzione di un obbligo avente ad oggetto un facere infungibile (ad es., l’obbligo assunto dal famoso tenore di cantare alla Scala), l’avente diritto – non potendo la prestazione, proprio perché infungibile, essere eseguita da altri che dall’obbligato – potrà ottenere soltanto il risarcimento del danno; c) un obbligo avente ad oggetto quel particolare facere (infungibile) consistente nella conclusione di un contratto (ad es., l’obbligo che il proprietario si sia assunto in forza di un contratto preliminare, di vendere il proprio appartamento ad un determinato acquirente); nel qual caso l’avente diritto potrà ottenere dal giudice una sentenza costitutiva che produca gli effetti del contratto non concluso (nel nostro es., una sentenza che trasferisca la proprietà dell’appartamento dal promittente venditore inadempiente al promissario acquirente); d) un obbligo avente ad oggetto un non facere (ad es., l’obbligo di non sopraelevare un muro); nel qual caso l’avente diritto potrà ottenere, a spese dell’obbligato, la distruzione della cosa che sia stata realizzata in violazione di detto obbligo. Ovviamente, sempre che la violazione dell’obbligo di non facere si sia tradotta nella realizzazione di un opus suscettibile di distruzione. In caso contrario (si pensi all’ipotesi di violazione del patto di non concorrenza), l’avente diritto – non potendo materialmente impedire che controparte continui a tenere la condotta vietata – potrà ottenere soltanto il risarcimento del danno. La forma di gran lunga più importante di procedimento esecutivo è quella che ha per oggetto l’espropriazione dei beni del debitore: c.d. esecuzione mediante espropriazione forzata. In questo procedimento i beni colpiti dall’esecuzione vengono venduti ai pubblici incanti e la somma ricavata ripartita tra i creditori. Questo procedimento ha inizio con il pignoramento, che è l’atto con il quale si indicano i beni assoggettati all’azione esecutiva. Effetti di diritto sostanziale di pignoramento: l’art. 2913 cc stabilisce che non hanno effetto, in pregiudizio del creditore pignorante, gli atti di alienazione dei beni sottoposti a pignoramento. Siffatta inefficacia dipende dalla destinazione dei beni alla espropriazione. Detta inefficacia è relativa: può essere fatta valere solo dal creditore pignorante e dai creditori intervenuti nell’esecuzione. Naturalmente, la legge tiene conto anche della situazione dei terzi che abbiano acquistato in buona fede, ignorando il pignoramento. Se si tratta di mobili non registrati, basta l’acquisto del possesso a salvaguardare il diritto del terzo. Se si tratta di beni registrati, la protezione del terzo è attuata per il tramite della trascrizione (v. 681 ss). CAPITOLO XII: LA PROVA DEI FATTI GIURIDICI 122. Nozioni generali L’esito di un giudizio può dipendere dalla soluzione di una quaestio facti, ossia dall’accoglimento di una delle contrapposte versioni che, ai fini di decidere, vengono fornite dalle parti. Tutte le volte in cui di una circostanza – rilevante ai fini della decisione – le parti forniscono ricostruzioni contrastanti, il giudice è tenuto a scegliere tra le contrapposte versioni che gli vengono prospettate. Nel giudizio civile, peraltro, sono le parti che devono preoccuparsi di indicare al giudice i mezzi di prova (documenti, testimonianze, ecc) in base ai quali ciascuna ritiene di accreditare la propria versione dei fatti: c.d. principio dispositivo. Il giudice deve infatti giudicare iuxta alligata et probata partium, sulla base cioè di quanto allegato e provato dalle parti. Al giudice spetta valutare se i mezzi di prova siano: a) Ammissibili, ossia conformi alla legge; b) Rilevanti, ossia abbiano ad oggetto fatti che possano influenzare la decisione della lite; Dopo aver ammesso e assunto le prove richiestegli, il giudice valuterà la loro concludenza, ossia la loro idoneità o meno a dimostrare i fatti. A tal fine, il giudice riterrà provata una circostanza quando le prove raccolte lo abbiano convinto che una delle due versioni dei fatti sia convincente e sia quella che ben si concilia con il materiale probatorio raccolto. In ogni caso, il giudice deve motivare la propria decisione, spiegando le ragioni del suo convincimento, non essendogli consentito trarre elementi da fonti di informazione che non siano ritualmente acquisite in giudizio con tutte le garanzie processuali. Al giudice è consentito far autonomamente ricorso alle nozioni di comune esperienza (c.d. fatti notori), per tali intendendosi quelle (ad es., circostanza dell’esito di un referendum) acquisite alla conoscenza della collettività con tale grado di certezza da apparire indubitabili ed incontestabili. 123. L’onere della prova Può darsi che nel processo sia del tutto mancata la prova, ovvero che i risultati delle prove raccolte siano non persuasivi o addirittura contraddittori. Se non ritiene di avere elementi sufficienti per decidere, come deve regolarsi il giudice? Dovrà far applicazione della regola dell’onere della prova, in base alla quale il rischio della mancanza o insufficienza o contraddittorietà della prova di un fatto controverso è addossato alla parte su cui grava l’onere della prova: che avrà, quindi, tutto l’interesse a fornirne la dimostrazione in giudizio, se non vuole correre il pericolo di veder respinta la domanda o l’eccezione fondata su detto fatto. Naturalmente, il problema più delicato diventa quello di accertare, rispetto a ciascun fatto, su quale delle parti ricada l’onere della prova. In linea di principio, può dirsi che ricade su colui che invoca proprio quel fatto a sostegno della sua tesi: onus probandi incumbit ei qui dicit. Rimane, tuttavia, la difficoltà, rispetto a taluni fatti, di accertare l’esatta qualifica da attribuire alla circostanza contestata, al fine di decidere su - Con firma elettronica qualificata (firma elettronica avanzata creata da un dispositivo per la creazione di una firma elettronica avanzata e basata su un certificato qualificato per firme elettroniche) - Con firma digitale (particolare tipo di firma qualificata basata su un sistema di chiavi crittografiche, una pubblica e una privata, correlate tra loro, che consente al titolare di render manifesta e verificare la provenienza e l’integrità di un documento informatico) che, al pari di una scrittura privata, fa piena prova, se non disconosciuta. Peraltro, se il titolare intende disconoscerla (a differenza della scritt. priv.) ha l’onere di fornirne la prova. Documento elettronico sottoscritto con firma elettronica o qualsiasi altro tipo di firma elettronica autenticata dal notaio o da altro pubblico ufficiale, che è equiparata alla scrittura privata autenticata. 126. La prova testimoniale La testimonianza è la narrazione fatta al giudice da una persona estranea alla causa in relazione a fatti controversi di cui il teste abbia conoscenza. Il testimone è chiamato a rendere la propria deposizione oralmente davanti al giudice. Peraltro il giudice può disporre che essa venga assunta fuori udienza mediante dichiarazione scritta, cui il teste appone la propria firma autenticata. La prova test. può avere ad oggetto solo fatti obiettivi, non apprezzamenti o valutazioni personali del teste. Essa è considerata con una certa diffidenza dal legislatore, sia per il rischio di testi interessati o compiacenti, sia per il rischio di deformazioni inconsapevoli nello sforzo di ricordare. Conseguentemente, la prova test. incontra alcuni limiti legali di ammissibilità. In primo luogo la prova test. non è ammissibile quando sia invocata per provare il perfezionamento o contenuto di un contratto di valore superiore a 2,58 euro. Non si tratta, peraltro, di un divieto rigido: il giudice può consentire la prova oltre il limite anzidetto tutte le volte che lo ritenga opportuno (considerata anche l’esiguità dell’importo indicato dalla legge). Inoltre il giudice deve ammettere la prova test qualora ricorrano le seguenti ipotesi: (i) quando vi sia un principio di prova scritta (es. ricevuta): quando cioè vi sia agli atti un documento da cui scaturisca la verosimiglianza di un fatto controverso; (ii) quando la parte si sia trovata nell’impossibilità morale o materiale di procurarsi una prova scritta (es., contratto concluso tra persone legate da intima parentela); (iii) quando la parte abbia perduto senza sua colpa il documento che le forniva la prova. In secondo luogo la prova test non è ammissibile se tende a dimostrare che anteriormente o contemporaneamente alla stipulazione di un accordo scritto sono stati stipulati altri patti, non risultanti però dal documento. Quando la prova testimoniale è invece invocata a dimostrazione che, successivamente alla formazione di un documento, è stato stipulato un contratto aggiunto o contrario al contenuto di esso, il giudice può ammetterla solo se ritiene verosimile che siano state fatte aggiunte o modificazioni verbali. In terzo luogo, la prova test. non è ammissibile se tende a provare un contratto che deve essere stipulato (forma ad substantiam) o provato (forma ad probationem). In questi casi, la prova test è ammissibile esclusivamente ove ricorra la terza ipotesi. 127. Forma ad substantiam e forma ad probationem Quando la forma è richiesta ad substantiam costituisce un elemento essenziale del contratto; cosicché, ove il requisito formale non sia osservato, l’atto è irrimediabilmente nullo. La prova della stipulazione dell’atto con la forma richiesta ad substantiam, ovviamente, può essere data con la produzione in giudizio del documento in cui l’atto stesso è consacrato. Il documento attraverso cui è stata manifestata la volontà contrattuale è essenziale per la validità e prova dell’atto. Unica eccezione è il caso in cui la parte abbia perduto senza sua colpa il documento: in tal caso, potrà essere ammesso ogni tipo di prova (testimonianza, confessione, giuramento), se volta a dimostrare (i) l’originaria esistenza del documento; (ii) la perdita incolpevole di esso; (iii) il suo contenuto. Da tale principio si ricava che il legislatore impone alla parte l’onere di custodire l’atto, onde poterlo esibire al giudice in ogni momento; altrimenti, mancando il documento o la prova della sua perdita incolpevole, il giudice deve concludere che esso non si è mai formato. Ben diversa è la situazione, quando una forma sia richiesta ad probationem tantum. In tal caso, infatti, l’atto compiuto senza l’osservanza della forma indicata dalla legge non è nullo: l’unica conseguenza è il divieto della prova testimoniale e di quella presuntiva (sempre che la parte non provi di aver perduto il documento). Il divieto vige chiaramente solo per la parte del negozio, non per i terzi. Infatti, il divieto della prova testimoniale è volto a indurre le parti a precostituire un documento in cui l’atto risulti consacrato; seppure, in caso di forma ad probationem, la mancanza del documento non pregiudichi irreparabilmente la possibilità per le parti di valersi dell’atto. Innanzitutto, se la formazione del contratto e quanto con esso pattuito costituisce un fatto non contestato, il giudice deve considerarlo provato (laddove, quando si tratta di forma ad substantiam, nemmeno la concorde ammissione delle parti circa l’avvenuta formazione dell’atto sarebbe sufficiente a superare il principio generale cogente per cui, in assenza del documento, l’atto si ha per non perfezionato). In secondo luogo, trattandosi di forma richiesta ad probationem, quand’anche la formazione dell’atto o il suo contenuto fossero contestati in giudizio, la parte che volesse ciononostante dimostrare che il negozio si è realmente perfezionato o quale ne sia il contenuto, potrebbe richiedere l’interrogatorio formale della controparte, nella speranza di ottenere una confessione, o potrebbe deferirle il giuramento decisorio (v.130). 128. Le presunzioni Per presunzione si intende ogni argomento, congettura, illazione, attraverso cui – essendo già provata una determ. circostanza (c.d. fatto base) – si giunge logicamente a considerare provata altresì un’altra circostanza, sfornita di prova diretta (ad es., dalla circostanza che sia decorso già un certo periodo di tempo dal momento in cui si poteva pretendere il pagamento di un debito, per il quale è regola di esperienza che il pagamento avviene in breve tempo, si trae la presunzione che il debito sia già stato pagato, sebbene manchino prove dirette del pagamento: c.d. prescrizione presuntiva). Le presunzioni si dicono legali quando è la stessa legge che attribuisce ad un fatto valore di prova in ordine ad un altro fatto, che quindi viene presunto: la legge, ad es., presume che chi ha il possesso di una cosa altrui sia in buona fede. Le presunzioni legali possono essere: a) Iuris et de iure (o assolute), laddove non ammettono prova contraria (ad es., la presunzione di un concepimento durante il matrimonio); b) Iuris tantum (o relative), laddove ammettono prova contraria. Quest’ultima può essere fornita facendo ricorso a qualsiasi mezzo di prova, a meno che non sia previsto diversamente dalla legge; Le presunzioni si dicono invece semplici, quando non sono prestabilite dalla legge, ma sono lasciate al prudente apprezzamento del giudice, il quale può ritenere provato un fatto quando ricorrano indizi “gravi, precisi e concordanti”. Il giudice ben potrebbe fondare la propria decisione anche solo su presunzioni semplici. Di più: gli elementi assunti a fonte di prova presuntiva non debbono essere necessariamente più di uno, ben potendo il convincimento del giudice fondarsi anche su di un solo elemento, purché grave e preciso. Alle presunzioni semplici non si può fare ricorso nei casi in cui la legge esclude la prova per testimoni. 129. La confessione La confessione è la dichiarazione che fa la parte fa della verità di fatti a sé sfavorevoli e favorevoli all’altra parte (ad es., ammetto di non aver segnalato tempestivamente il cambiamento della traiettoria di marcia della mia vettura. La confessione non è un negozio giuridico, ma una dichiarazione di scienza, non occorrendo che il dichiarante ne voglia gli effetti. Essa può essere: a) giudiziale, se resa in giudizio, e in questo caso fa piena prova (prova legale): il fatto oggetto di confessione non può più essere considerato controverso dal giudice (anche se il confitente, pentitosi o ricredutosi, dovesse muovere tardive contestazioni), cosicché il giudice deve senz’altro assumerlo come vero e porlo alla base della propria decisione. La confessione giudiziale può essere fatta spontaneamente, ma, il più delle volte, è provocata mediante interrogatorio formale della parte. b) stragiudiziale, se resa fuori dal giudizio. Se è fatta alla parte o al suo rappresentante, ha il valore di prova legale; se è fatta ad un terzo, può essere apprezzata liberamente dal giudice. A differenza di uqella giudiziale, la confessione stragiudiziale dev’essere, a sua volta, dimostrata. La confessione può essere revocata – cioè, la sua efficacia probatoria può essere vinta – soltanto se si dimostra che essa è stata determinata da errore di fatto o da violenza, non essendo sufficiente la prova della semplice divergenza tra quanto dichiarato e quanto effettivamente accaduto. La confessione si dice qualificata quando la parte riconosce la verità di fatti a sé sfavorevoli, ma vi aggiunge altri fatti o circostanze tendenti ad infirmare l’efficacia del fatto confessato, ovvero a modificarne o estinguerne gli effetti (ad es., riconosco di aver ricevuto 100 a mutuo, ma oppongo di aver già restituito la somma). In questo caso bisogna distinguere: a) Se l’altra parte non contesta la verità dei fatti o delle circostanze aggiunte, la dichiarazione fa piena prova nella sua integrità. b) Se l’altra parte la contesta (ad es., nega che il debito sia stato pagato), è rimesso al giudice di apprezzare l’efficacia probatoria della dichiarazione confessoria; Distinta dalla dichiarazione confessoria, è la dichiarazione ricognitiva: mentre la prima ha ad oggetto l’asseverazione di fatti a sé sfavorevoli e favorevoli all’altra parte (ad es., dichiaro di aver ricevuto 100 a mutuo), la seconda ha invece ad oggetto l’asseverazione di diritti o rapporti giuridici (es., dichiaro di essere tuo debitore di 100) e ha, sul piano probatorio, una rilevanza diversa rispetto a quella della confessione (v. 427). 130. Il giuramento Il giuramento è un mezzo di prova legale cui si può ricorrere nel corso di un giudizio civile, al fine della dimostrazione di fatti (ma non di situazioni o rapporti giuridici). Il giuramento può essere decisorio o suppletorio. Il primo si chiama così perché riguarda circostanze che hanno valore decisorio in ordine ad un thema decidendum su cui il giudice è chiamato a pronunciarsi; cosicché l’esito del giuramento preclude ogni ulteriore accertamento al riguardo: per questo, anche il giuramento è una prova legale e il suo esito fa piena prova, quand’anche i fatti con esso dedotti siano già stati accertati o esclusi in base ad altre risultanze probatorie. Anzi, l’efficacia probatoria del giuramento è la più intensa che si possa immaginare: infatti, se da un lato vincola, quale prova legale, il giudice al suo esito, da altro lato tale vincolo si riflette sulla pronuncia del giudice, che dovrà senz’altro dichiarare vittoriosa la parte che ha giurato e soccombente l’altra, senza che quest’ultima abbia la possibilità di provare il contrario. Il giuramento decisorio può essere deferito solo ad iniziativa di una delle parti in lite (e non può mai essere ammesso dal giudice d’ufficio). La parte che assume l’iniziativa chiede al giudice di invitare controparte a confermare, sotto giuramento, se il fatto oggetto di contestazione si è davvero verificato secondo quanto dalla stessa finora sostenuto nel processo; cosicché, ove si tratti di un’affermazione mendace, la parte si troverà nell’alternativa o di abbandonare la tesi finora affermata, ovvero di giurare il falso, commettendo spergiuro (con ogni conseguente rischio, anche penale). Il giuramento non è ammissibile se non quando sia relativo ad un fatto proprio della parte cui è deferito (in tal caso si parla di giuramento de veritate), ovvero quando sia relativo alla conoscenza che essa ha di un fatto altrui (giuramento de scientia). La parte alla quale il giuramento sia stato deferito può, a sua volta, riferire il giuramento all’avversario, a condizione che il fatto che ne è oggetto sia comune ad entrambi. Il giuramento viene reso in giudizio personalmente dalla parte, alla presenza del giudice, che deve ammonire il giurante sull’importanza morale dell’atto e sulle conseguenze penali di eventuali dichiarazioni false da lui rese. Se la parte si rifiuta di giurare o non si presenta, senza Costituzione dichiara che “la proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge”: tale garanzia implica che al legislatore non è consentito di sopprimere l’istituto della proprietà privata e che sarebbe altresì in contrasto con i principi costituzionali un’eventuale trasformazione del nostro sistema in un ordinamento in cui i beni siano prevalentemente collettivizzati. A ciò, tuttavia, si aggiunge che la Costituzione, all’art. 42, demanda espressamente al legislatore il compito di determinare “i modi di acquisto, di godimento ed i limiti, allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti”. In altre parole, il legislatore è legittimato ad intervenire per delineare – con riferimento a singole categorie di beni – il contenuto dei poteri che competono al proprietario (c.d. interventi conformativi dei vari istituti proprietari): e ciò, al fine di garantire che il relativo esercizio comunque realizzi una funzione sociale: funzione da ricollegarsi sia all’esigenza di realizzare uno sfruttamento economicamente efficiente dei beni, sia all’esigenza di instaurare più equi rapporti sociali; e più in generale all’esigenza di tutelare tutti quei valori ed interessi costituzionalmente protetti (salute, lavoro, dignità della persona, ecc), che potrebbero risultare sacrificati da un’illimitata ed esclusiva utilizzazione privatistica dei beni. In sintesi: (i) la conformazione dei poteri dominicali compete, in via esclusiva, al legislatore (c.d. riserva di legge); (ii) il legislatore è legittimato a prevedere compressioni dominicali solo se giustificate dalla necessità di garantire che gli stessi non vengano esercitati in contrasto con l’utilità sociale. In funzione di una serie ininterrotta e scoordinata di interventi normativi nel dopoguerra, oggi è corretto parlare piuttosto che della proprietà, quale regime dominicale unitario, delle proprietà, per indicare che le situazioni di appartenenza si atteggiano diversamente a seconda dell’oggetto cui si riferiscono e/o del soggetto cui competono. Ad es., ben diversi sono i poteri di godimento e disposizione che competono al proprietario di un abito, rispetto a quelli che competono al proprietario di un bene culturale; ben diversi sono i poteri che competono al titolare di una proprietà esclusiva rispetto a quelli che competono al comproprietario. Va segnalato che la disciplina della proprietà non si esaurisce più nelle sole regole di derivazione nazionale: ad es., ricordiamo, a tal proposito l’art. 17 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE, secondo cui “ogni persona ha il diritto di godere della proprietà dei beni che ha acquistato legalmente, di usarli, di disporne e di lasciarli in eredità”. La proprietà si ritiene tradizionalmente caratterizzata: a) dall’elasticità: invero, i poteri che normalmente competono al proprietario possono essere compressi in virtù della coesistenza sullo stesso bene di altri diritti reali (ad es., servitù, usufrutto): tali poteri però sono destinati a riespandersi automaticamente non appena dovesse venire meno il diritto reale: ad es., allorquando si estingue il diritto di usufrutto gravante sul bene, il potere di godimento del proprietario, fino a quel momento praticamente azzerato in conseguenza di poteri spettanti all’usufruttuario, riassume l’originaria ampiezza; b) dalla imprescrittibilità: la proprietà non si può perdere per non uso, bensì soltanto per l’usucapione che altri abbia a perfezionare a proprio favore; (vedi ragioni di imprescrittibilità parag. 112); c) dalla perpetuità: è opinione diffusa che quella di una proprietà ad tempus sarebbe una contraddizione in termini. Si fa peraltro notare che l’ordinamento conosce talune ipotesi di proprietà temporanea: si pensi, ad es., alla proprietà superficiaria a termine. 133. Espropriazione e indennizzo L’art. 42 Cost. dispone che “la proprietà privata può essere, nei casi previsti dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi di interesse generale”. La norma tende a ricercare un punto di equilibrio fra l’interesse del proprietario alla conservazione dei suoi diritti sul bene e il contrapposto interesse della collettività ad utilizzarlo, ove occorra, a fini di pubblico interesse (ad es., per destinarlo alla realizzazione di opere pubbliche). A tal fine la Costituzione prevede che la posizione del privato possa essere sacrificata solo in presenza: a) di un interesse generale; b) di una previsione legislativa che lo consenta (c.d. riserva di legge); c) di un indennizzo che compensi il privato del sacrificio che subisce nell’interesse della collettività. Cosa si deve intendere per espropriazione e cosa per indennizzo? Quanto al primo problema, senz’altro superata è la concezione tradizionale, secondo cui si avrebbe espropriazione solo nel caso di trasferimento della titolarità di un bene dal precedente proprietario (espropriato) ad un altro soggetto (beneficiario dell’espropriazione): c.d. espropriazione traslativa. La Corte Costituzionale insegna infatti che rientrano nella nozione di espropriazione anche quelle limitazioni che – pur non determinando, per il proprietario, la perdita del suo diritto – siano comunque “tali da svuotare di contenuto il diritto di proprietà, incidendo sul godimento del bene tanto profondamente da renderlo inutilizzabile (…)”: c.d. espropriazione larvata o limiti espropriativi. Invero, la Corte tende a distinguere fra disposizioni che si riferiscono ad intere categorie di beni, sottoponendo tutti i beni appartenenti alla categoria ad un particolare regime di godimento e/o disposizione, e disposizioni che si riferiscono invece a singoli cespiti, restringendo i poteri del proprietario rispetto a quelli riconosciuti, in via generale, agli altri titolari di beni appartenenti a quella medesima categoria: le prime (ad es., quelle che prevedono restrizioni ai poteri di godimento e di disposizione spettanti a tutti i proprietari di beni culturali) non rientrano nel concetto di espropriazione, bensì in quello di conformazione del contenuto del diritto di proprietà sui beni appartenenti a quella determinata categoria e, conseguentemente, non comportano indennizzo; le seconde (ad es., quelle che impongono particolari restrizioni al singolo titolare il cui fondo sia gravato da vincoli alla coltivazione, a tutela della sicurezza dei voli che si effettuano nell’aeroporto limitrofo) rientrano invece nel concetto di espropriazione e necessitano di indennizzo. Quanto al secondo problema - quello relativo ai criteri con cui il legislatore deve attenersi per la determinazione dell’indennizzo da corrispondere al soggetto che subisce l’esproprio - la Corte Costituzionale ha escluso che l’indennizzo debba necessariamente consistere in un integrale risarcimento del pregiudizio economico sofferto dall’espropriato (valore venale del bene), ma neanche esso sia stabilito in termini simbolici o irrisori, dovendo piuttosto rappresentare un serio ristoro del pregiudizio conseguente all’espropriazione. Tant’è che oggi il D.P.R. 327/2001 contempla una serie di meccanismi di quantificazione dell’indennità di esproprio miranti a ragguagliarla, in ipotesi di espropriazione traslativa, al valore venale del bene e, in ipotesi di vincolo espropriativo o espropriazione parziale, al pregiudizio effettivamente sofferto dall’espropriato. Al fine di incentivare la cessione volontaria della proprietà del bene senza necessità di addivenire ad un formale decreto di esproprio, la legge prevede che il corrispettivo della cessione sia maggiore rispetto all’indennizzo. Si verifica spesso che la P.A. (es., un Comune) realizzi un’opera pubblica su un fondo privato occupato illegittimamente, senza aver prima adottato un valido provvedimento espropriativo. In tale ipotesi, l’Autorità è legittimata – “in presenza di attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico (…)” ed in “assenza di ragionevoli alternative” – ad adottare un provvedimento (c.d. provvedimento di acquisizione coattiva), in forza del quale l’immobile viene acquisito, non retroattivamente al suo patrimonio indisponibile: c.d. acquisizione sanante. Al proprietario è riconosciuto un indennizzo per il pregiudizio – patrimoniale e non patrimoniale – sofferto: quantificati, il primo in misura corrispondente al valore venale del bene e, il secondo, forfettariamente in misura pari al 10% di detto valore venale. 134. La proprietà dei beni culturali Il D.Lgs. 42/2004 delinea un peculiare regime proprietario per i beni culturali, per tali intendendosi le cose, mobili e immobili, che presentano interesse artistico storico e archeologico o che, comunque, costituiscono testimonianze aventi valore di civiltà. In particolare – onde garantirne la protezione e la conservazione per fini di pubblica fruizione – impone al privato proprietario tutta una serie di vincoli: a) sia quanto al potere di godimento: ad es., prevedendo che i beni culturali non possano essere distrutti, deteriorati, danneggiati o adibiti ad usi non compatibili con il loro carattere storico o artistico; contemplando che, in talune ipotesi, possa esserne imposta la visita da parte del pubblico per scopi culturali; b) sia quanto al potere di disposizione: ad es., prevedendo l’obbligo di denuncia degli atti che trasferiscono, in tutto o in parte, la proprietà di detti beni; il diritto di prelazione dello Stato, della regione o degli altri enti pubblici interessati, in caso si alienazione a titolo oneroso; ecc. E’ altresì previsto che i beni culturali possano essere espropriati per causa di pubblica utilità, quando l’espropriazione risponda ad un importante interesse a migliorarne le condizioni di tutela ai fini della fruizione pubblica. 135. La proprietà edilizia Al proprietario di un’area interessata all’edificazione compete il c.d. ius edificandi, cioè il diritto di costruire. Gli è altresì riconosciuta la facoltà di impegnarsi a prestare il proprio consenso affinché la cubatura (volumetria) che risulta realizzabile sulla sua area venga dalla P.A. attribuita al proprietario di un fondo vicino: c.d. cessione di cubatura. Il relativo atto è soggetto a trascrizione, con conseguente opponibilità ai terzi. In ogni caso, l’attività di trasformazione urbanistica o edilizia del territorio può essere svolta solo nel rispetto delle previsioni degli strumenti urbanistici e dei regolamenti edilizi. Per gli interventi di maggior impatto è necessario il previo rilascio, da parte dell’Autorità comunale del permesso di costruire, che comporta la corresponsione di un contributo commisurato all’incidenza degli oneri di urbanizzazione e al costo di costruzione, destinato alla realizzazione di opere di urbanizzazione primaria (es., strade, fognature) e secondaria (asili, chiese); mentre, per gli interventi di minore impatto, è sufficiente una comunicazione da indirizzarsi all’Amministrazione comunale. Tradizionalmente, gli strumenti urbanistici erano espressione di provvedimenti adottati unilateralmente e autoritativamente dalla Pubblica Amministrazione. Tuttavia, la legge, oggi, ne conosce altri che fanno invece ricorso a meccanismi di tipo privatistico, come la convenzione di lottizzazione, in forza della quale, a fronte dell’autorizzazione, da parte del comune, di un piano di lottizzazione proposto dai proprietari di aree interessate, questi ultimi si assumono una serie di impegni nei confronti del Comune stesso (es., la cessione gratuita di aree per le opere di urbanizzazione). Al fine di evitare l’abusivismo edilizio, la legge fa ricorso – accanto a quelli amministrativi (es., rimozione o demolizione dell’opera abusiva) – anche a strumenti di tipo privatistico. Ad esempio: a) sanziona con la nullità gli atti aventi ad oggetto il trasferimento o la costituzione di diritti reali su terreni, ove agli atti stessi non sia allegato il certificato di destinazione urbanistica, contenente le prescrizioni urbanistiche riguardanti l’area interessata; b) sanziona con nullità gli atti aventi ad oggetto il trasferimento o la costituzione di diritti reali su edifici, la cui costruzione sia iniziata dopo il 17 marzo 1985, ove agli atti stessi non risultino gli estremi del permesso per costruire. c) vieta alle aziende erogatrici di servizi pubblici di somministrare le loro forniture per l’esecuzione di opere prive di permesso di costruire e sanziona con la nullità i relativi contratti, ove la richiesta dell’utente non sia corredata dall’indicazione degli estremi di detto permesso. d) impone a chi abbia violato disposizioni che regolamentano l’attività edilizia l’obbligo di risarcire i danni che terzi (es., i vicini) ne abbiano eventualmente sofferto; e – se si tratta di disposizioni tese a disciplinare le distanze tra costruzioni – consente ai vicini di chiedere la riduzione in pristino (eliminazione delle opere abusive). 136. La proprietà fondiaria In linea verticale, la proprietà fondiaria (la proprietà della terra o dei fondi) si estenderebbe – secondo un brocardo medievale – usque ad sidera, usque ad inferos (cioè all’infinito, sia nel sottosuolo che nello spazio aereo soprastante). Peraltro, l’art. 840 cc dispone che “il proprietario del suolo non può opporsi ad attività di terzi che si svolgano a tale profondità nel sottosuolo o a tale altezza nello spazio sovrastante, che egli non abbia interesse ad escluderle”(ad es., il proprietario non può opporsi all’escavazione di una galleria che non c.d. principio di prevenzione. Invero, a chi edifica per primo è aperta una triplice alternativa: (i) costruire rispettando una distanza dal confine pari ad almeno la metà di quella imposta dalla legge; (ii) costruire sul confine; (iii) costruire ad una distanza dal confine inferiore alla metà di quella prescritta. Il vicino che edifica successivamente: nell’ipotesi (i), deve costruire ad una distanza tale da rispettare il prescritto distacco legale dalla costruzione preesistente; nell’ipotesi (ii), può chiedere la comunione forzosa del muro di confine; nell’ipotesi (iii), può chiedere la comunione forzosa del muro di confine ed avanzare la propria costruzione fino ad esso, occupando lo spazio intermedio, dopo aver interpellato il proprietario se preferisca estendere il muro a confine o procedere alla sua demolizione, o costruire in aderenza. In considerazione del carattere potenzialmente dannoso che assumono rispetto ai fondi vicini, il codice prevede altresì distanze minime dal confine per pozzi, cisterne, fosse e tubi. Inoltre distanze minime dal confine, sono previste – in considerazione del pericolo di frane che ne può derivare – per fossi e canali; nonché – al fine di evitare possibili pregiudizi derivanti dal propagarsi delle radici – per le piantagioni. 141. Le luci e le vedute Le aperture nel muro contiguo al fondo finitimo si distinguono in: a) vedute (finestre, balconi) che consentono non solo di guardare sul fondo del vicino, ma anche di di sporgere il capo su di esso per vedere di fronte (c.d. vedute dirette), obliquamente (oblique) e lateralmente (laterali). Il proprietario può sempre aprire vedute nel muro contiguo al fondo altrui, ma – a tutela della riservatezza del fondo finitimo – deve rispettare le distanze minime dal confine indicate dal codice; b) luci, che sono quelle aperture che, pur consentendo il passaggio di aria e luce, non permettono tuttavia la vista o l’affaccio sul fondo del vicino. A tutela della sicurezze e riservatezza del fondo contiguo, la legge prescrive che la luce abbia determinate caratteristiche (es,, sia dotata di inferriata idonea a garantire la sicurezza del vicino; sia munita di grata in metallo a maglie strette, onde evitare che oggetti possano essere gettati sul fondo contiguo): c.d. luce regolare. Se un’apertura che non rispetta dette caratteristiche costituisce pur sempre una luce (c.d. luce irregolare); ma il vicino ha il diritto di esigere, in ogni momento, che la stessa sia resa regolare. Il proprietario ha sempre la facoltà – espressione del suo diritto dominicale – d aprire delle luci nel suo muro; tuttavia il vicino può chiuderle, ma solo se costruisce in aderenza al muro nel quale le luci risultano aperte. 143. Modi di acquisto della proprietà Nell’ambito dei modi di acquisto della proprietà si suole distinguere tra: a) Modi di acquisto a titolo derivativo, che importano la successione dello stesso diritto già appartenente ad altro soggetto, per cui gli eventuali vizi che inficiavano il titolo del precedente proprietario si riverberano anche sul successore (es., contratto; successione a causa di morte); b) Modi di acquisto a titolo originario, che determinano, invece, la nascita di un diritto nuovo, del tutto indipendente rispetto a quello prima spettante sullo stesso bene ad altro precedente proprietario (occupazione, invenzione, accessione, usucapione, possesso in buona fede di beni mobili); A) L’occupazione consiste nella presa di possesso, con l’intenzione di acquisirle in via permanente e definitiva, di cose mobili, che non sono in proprietà di alcuno (res nullius) o abbandonate (res derelictae). Non sono invece suscettibili di occupazione – in quanto, se non sono di proprietà di alcuno (cioè vacanti), spettano allo Stato – i beni immobili. B) L’invenzione riguarda solo le cose mobili smarrite: queste debbono essere restituite al proprietario o, qualora non se ne conosca l’identità, consegnate al sindaco; trascorso un anno, se non si presenta il proprietario, la proprietà spetta a colui che l’ha trovata. Se invece si presenta il proprietario, quest’ultimo deve al ritrovatore un premio proporzionale al valore della cosa smarrita o un premio nella misura fissata dal giudice; particolare forma di invenzione è quella che riguarda il tesoro (cioè una cosa mobile di pregio, nascosta o sotterrata, di cui nessuno può provare di essere proprietario): esso diviene immediatamente di proprietà del titolare del fondo in cui si trova; ma se è trovato nel fondo altrui, spetta per metà al proprietario del fondo e per metà al ritrovatore. Diversa disciplina è dettata per i beni culturali: da chiunque e in qualunque modo ritrovati, essi appartengono allo Stato; al proprietario dell’immobile dove è avvenuto il ritrovamento e allo scopritore fortuito compete, però, un premio. C) L’accessione opera in caso di stabile incorporazione – per opera dell’uomo o anche per evento naturale – di beni di proprietari diversi: in tale ipotesi, il proprietario della cosa principale acquista la proprietà delle cose che vengono ad essa incorporate. Al riguardo, occorre distinguere tra: a) accessione di mobile ad immobile, che importa – in applicazione del principio per cui la proprietà del suolo si estende verticalmente allo spazio sovrastante – che qualunque piantagione, costruzione o opera esistente al di sopra o sotto il suolo appartiene al proprietario di questo. Il proprietario del suolo acquista ex lege la proprietà di quanto nello stesso suolo venga da chiunque incorporato: superfices solo cedit. Il suolo è sempre considerato cosa principale, quand’anche le cose incorporate dovessero avere un valore di mercato maggiore. Siffatta regola, peraltro derogabile per volontà delle parti, importa la necessità di contemperare i contrapposti interessi del proprietario del suolo con quelli del proprietario di questi ultimi, se diverso. La regola secondo cui superficies solo cedit viene peraltro derogata – anzi, ribaltata (nel senso che è il suolo a cedere a quanto in esso impiantato – in ipotesi di accessione invertita, che si configura allorquando, nel realizzare una costruzione, il proprietario finitimo sconfina sul fondo altrui, sicché l’edificio viene ad insistere a cavallo tra due fondi. Se il proprietario del fondo occupato non fa opposizione entro tre mesi dal giorno in cui la costruzione sul suo fondo ha avuto inizio, il proprietario sconfinante può chiedere che il giudice gli trasferisca la proprietà del suolo occupato a fronte del pagamento, a favore del confinante, di una somma pari al doppio del valore della superficie occupata. b) accessione di immobile ad immobile, che si articola nelle seguenti figure: - alluvione, che consiste nell’accrescimento dei fondi rivieraschi di fiumi e torrenti per l’azione naturale dell’acqua corrente: siffatti terreni alluvionali appartengono al proprietario del fondo incrementato; - avulsione, che consiste nell’unione al fondo rivierasco di porzioni di terreno staccatesi da altro fondo per forza istantanea dell’acqua corrente: dette porzioni di terreno appartengono al proprietario del fondo incrementato; c) accessione di mobile a mobile, che dà luogo alle seguenti figure: - unione, che consiste nella congiunzione di beni mobili appartenenti a proprietari diversi che vengono a formare un tutto inseparabile senza dar luogo a una cosa nuova: la proprietà diventa comune. Se, però, una delle due cose si può considerare principale o è molto superiore per valore, il suo proprietario acquista la proprietà del tutto; salvo l’obbligo di corrispondere all’altro una somma di denaro calcolata secondo i criteri indicati dal codice. - specificazione, che consiste nella creazione di una cosa del tutto nuova con beni mobili appartenenti ad altri (ad es., produco sapone con materie prime altrui). Il codice ha dato importanza all’elemento lavoro: infatti, se è superiore il valore della mano d’opera, la proprietà spetta allo specificatore (salvo l’obbligo di pagare al proprietario il prezzo della materia); altrimenti prevale il diritto del proprietario della materia (che, peraltro, deve pagare il prezzo della mano d’opera). 142-bis. Perdita della proprietà La proprietà si perde in forza di un atto di disposizione (vendita, donazione, ecc) posto in essere dal suo titolare, che ne determini il trasferimento a favore di terzi, che la acquisiscono a titolo derivativo. Si perde altresì in conseguenza all’acquisto che altri ne faccia per usucapione. La proprietà si può estinguere anche per rinuncia da parte del suo titolare. Nel caso in cui la proprietà abbia ad oggetto una cosa mobile, la rinuncia può avvenire anche per facta concludentia (es., abbandonando il bene in discarica); nel caso di un bene immobile, l’atto di rinuncia deve avere forma scritta ed essere trascritto nei pubblici registri immobiliari (il bene verrà acquisito ex lege al patrimonio dello Stato). 143. Azioni di difesa della proprietà A difesa della proprietà sono esperibili le azioni petitorie (le azioni a tutela del possesso saranno le azioni possessorie), che hanno natura reale, in quanto volte a far valere un diritto reale. Esse sono: A) azione di rivendicazione, concessa a chi si afferma proprietario di un bene, ma non ne ha il possesso, al fine di ottenere, da un lato, l’accertamento del suo diritto sul bene stesso e, da altro lato, la condanna di chi lo possiede. Legittimato attivamente è, perciò, chi sostiene di essere proprietario del bene, senza trovarsi nel possesso della cosa. Legittimato passivamente è colui che, avendo il possesso della cosa, ha la c.d. facultas restituendi. Il detentore, peraltro, ove sia convenuto con la reivindicatio, può chiedere di essere estromesso dal giudizio, indicando il soggetto in nome del quale egli detiene la cosa (cd laudatio auctoris), in modo che l’attore possa proseguire l’azione contro quest’ultimo. È sufficiente che il convenuto possieda la cosa al momento della domanda giudiziale: se successivamente abbia cessato di possedere la cosa (es., perché l’ha ceduta a terzi), l’azione può essere legittimamente proseguita nei suoi confronti anche se non potrà più avere l’effetto restitutorio del possesso che le è proprio. Il convenuto sarà obbligato a recuperare la cosa per l’attore a proprie spese, ovvero, in mancanza, a corrispondergliene il valore, oltre a dovergli risarcire il danno. Comunque, il proprietario può sempre rivolgersi contro il nuovo possessore, al fine di ottenere direttamente da quest’ultimo la restituzione del bene. Poiché chi agisce in rivendica fa valere il suo diritto di proprietà, ai fini della domanda è irrilevante il titolo (es., contratto, usucapione, ecc) dallo stesso eventualmente indicato come fonte di essa: la proprietà – come, del resto, anche gli altri diritti reali di godimento – appartiene, infatti, alla categoria dei diritti autodeterminati, individuati, cioè, in base alla sola indicazione del loro contenuto e non anche in base al titolo che ne costituisce la fonte. Per quel che riguarda la prova, l’attore ha l’onere di dimostrare il suo diritto di proprietà. Se l’acquisto è a titolo originario, gli sarà sufficiente fornire la prova di tale titolo (ad es., usucapione, accessione). Se invece l’acquisto è a titolo derivativo (es., compravendita) non basterà la produzione in giudizio del suo titolo di acquisto (es. , il relativo rogito notarile), in quanto l’alienante potrebbe non essere stato il proprietario del bene e quindi, legittimato a trasferirne la titolarità all’acquirente; sicché l’attore dovrà dare la prova anche del titolo di acquisto dei precedenti titolari, fino ad arrivare ad un acquisto a titolo originario: a voler andare all’infinito, la prova potrebbe rivelarsi molto difficile (cd. Probatio diabolica). In proposito soccorrono, però, due istituti: - Rispetto ai beni mobili (non registrati), sarà sufficiente che l’attore provi che – quand’anche avesse acquistato la cosa da chi non ne era legittimo proprietario – ne avrebbe comunque acquisito la proprietà per effetto della regola possesso vale titolo (v. 183), avendo a suo tempo ricevuto, in buona fede, il possesso del bene di cui ora lamenta di non avere il godimento; - Rispetto ai beni immobili – e ai beni relativamente ai quali non possa dimostrarsi il possesso vale titolo – occorrerà invece che l’attore provi che avrebbe comunque acquisito la proprietà della cosa per usucapione. Il convenuto si trova in una posizione molto più comoda rispetto a quella dell’attore: egli può limitarsi a dire possideo quia possideo ed attendere che l’attore provi il suo diritto. L’azione di rivendicazione è imprescrittibile, perché anche il non uso è una manifestazione dell’ampiezza di poteri che spettano al proprietario. Essa dev’essere però rigettata, se il convenuto dimostra di avere acquistato la proprietà della cosa per usucapione. Dalla’azione di rivendicazione si distingue l’azione di restituzione: la prima, di carattere reale, presuppone che colui che si afferma proprietario pretenda la consegna del bene proprio per il fatto di esserne proprietario; l’azione di restituzione, di natura personale, presuppone invece che l’attore agisca in giudzio previsione che, alla sua morte, l’usufrutto sarà di Caio). L’usufrutto successivo è espressamente vietato – e quindi valido solo a favore del primo beneficiario – se costituito per testamento o in forza di donazione. Si ritiene comunque valido l’usufrutto successivo improprio, ossia quello in cui l’alienante a titolo oneroso di un bene se ne riserva l’usufrutto, con la previsione che, alla sua morte, lo stesso competerà a un terzo (o a più terzi congiuntamente, ma non successivamente). 148. L’oggetto dell’usufrutto. Il quasi usufrutto Oggetto di usufrutto può essere qualsiasi specie di bene, ad esclusione dei beni consumabili. Questi ultimi – poiché se utilizzati, perdono la loro individualità (es., cibo, bevanda) – non potrebbero essere restituiti al proprietario alla cessazione dell’usufrutto. Se il godimento di beni consumabili viene attribuito a soggetto diverso dal proprietario, si avrà una situazione che non coincide con quella dell’usufrutto, ma che si suole definire quasi usufrutto: in tal caso, la proprietà dei beni consumabili passa al quasi usufruttuario, salvo l’obbligo di quest’ultimo di restituire il valore dei beni ricevuti, ovvero altrettanti bene dello stesso genere. Oggetto di usufrutto possono invece essere anche beni deteriorabili (es., vestito): in tal caso, l’usufruttario ha diritto di servirsene secondo l’uso al quale sono destinati (se è un abito di gala, non lo potrà indossare tutti i giorni). Alla fine dell’usufrutto, l’usufruttuario è tenuto a restituirli nello stato in cui si trovano. 149. Modi di acquisto dell’usufrutto Modi di acquisto dell’usufrutto possono essere: a) la legge, per quel che riguarda l’usufrutto legale dei genitori sui beni del figlio minore; b) il provvedimento del giudice che, in relazione alle necessità della prole, può cost ituire a favore di uno dei coniugi, l’usufrutto su parte dei beni spettanti all’altro coniuge. c) la volontà dell’uomo: contratto, testamento, promessa al pubblico, donazione obnuziale; con l’avvertenza che gli atti inter vivos che costituiscono il diritto di usufrutto su beni immobili richiedono la forma scritta ad substantiam e sono soggetti a trascrizione. d) l’usucapione e, sui beni mobili non registrati, l’acquisto del possesso in buon fede (v.183) Fino a tempi relativamente recenti, il modo d’acquisto dell’usufrutto più diffuso è stato l’attribuzione di tale diritto al coniuge superstite in sede di successione mortis causa al coniuge defunto (c.d. usufrutto uxorio). La riforma del diritto di famiglia del 1975 ha eliminato siffatto istituto, contemplando, a favore del coniuge superstite, non più il diritto di usufrutto su una quota dei beni relitti, ma la proprietà pieni sugli stessi. 150. Diritti dell’usufruttuario All’usufruttario competono: a) il potere di godimento sul bene, che implica: - la facoltà di trarre dalla cosa tutte le utilità che la stessa può dare, fermo solo l’obbligo di rispettarne la destinazione economica; - il possesso della cosa. Per conseguire il possesso, se esso è esercitato da altri, l’usufruttuario può esperire l’actio confessoria, azione analoga alla reivendicatio, diretta ad accertare l’esistenza del diritto dell’usufruttuario e ad ottenere la condanna del terzo al rilascio del possesso. - l’acquisto dei frutti naturali e civili della cosa. Sappiamo che la proprietà dei frutti naturali si acquista con la separazione, i frutti civili si acquistano giorno per giorno in ragione della durata del diritto. Questa regola generale si applica anche all’usufruttuario, cui spettano i frutti naturali separati durante l’usufrutto ed i frutti civili maturati giorno per giorno fino al termine dell’usufrutto. Tuttavia, il principio dell’acquisto dei frutti naturali per effetto della separazione è attenuato dal legislatore rispetto alla categoria più mportante di frutti naturali, cioè quelli prodotti da un fondo rustico: la ripartizione tra proprietario ed usufruttuario ha luogo, in questo caso, in proporzione della durata del rispettivo diritto nell’anno agrario. Così, se l’anno agrario ha avuto inizio il 1° novembre e l’usufrutto ha termine il 28 febbraio dell’anno successivo (l’usufrutto è durato quattro mesi, cioè un terzo di anno), i frutti dell’annata agraria spetteranno per un terzo all’usufruttuario e per due terzi al proprietario. b) il potere di disposizione del diritto di usufrutto. L’usufruttuario può cedere ad altri il proprio diritto di usufrutto. In ogni caso, la cessione non può danneggiare il nudo proprietario, prolungando la compressione del suo diritto: perciò l’usufrutto si estinguerà egualmente nel termine stabilito nell’atto di costituzione e, in mancanza, con la morte dell’originario primo usufruttuario (non dell’acquirente). c) il potere di disposizione del godimento del bene: ad es., l’usufruttuario non può concedere la cosa che forma oggetto del suo diritto a terzi (es., comodato). Le locazioni concesse all’usufruttuario dovrebbero estinguersi quando si estingue l’usufrutto. Tuttavia il legislatore ha consentito – per assicurare al conduttore una certa continuità del rapporto – che le locazioni in corso al momento della cessazione dell’usufrutto possano proseguire per la durata stabilita, ma a condizione che la locazione e la sua durata risultino da atto pubblico o scrittura privata con data certa anteriore, ed in ogni caso per non oltre un quinquennio dalla cessazione dell’usufrutto. d)la facoltà di apportare miglioramenti alla cosa e di eseguire addizioni. 151. Obblighi dell’usufruttuario Gli obblighi dell’usufruttuario si ricollegano al dovere fondamentale di restituire la cosa al termine del suo diritto. Da ciò deriva che egli è tenuto a: a) usare la diligenza del buon padre di famiglia nel godimento della cosa; b) non modificarne la destinazione; c) fare l’inventario e prestare garanzia, a presidio dell’osservanza degli obblighi di conservazione e restituzione dei beni assoggettati all’usufrutto. La Suprema Corte ritiene che quelle appena ricordate costituiscano vere e proprie obbligazioni dell’usufruttuario nei confronti del proprietario; e che, in ipotesi si loro inadempimento, quest’ultimo ben possa richiedere al primo il risarcimento del danno sofferto. Quanto alla ripartizione delle spese inerenti alla produttività della cosa, l’usufruttuario è tenuto alle spese e agli oneri relativi alla custodia, all’amministrazione, alla manutenzione ordinaria della cosa, alle imposte, ai canoni e agli altri pesi che gravano sul reddito. Sono invece a carico del proprietario le riparazioni straordinarie, cioè quelle che superano i limiti della conservazione della cosa e delle sue utilità per la durata della via umana. 152. Estinzione dell’usufrutto L’estinzione dell’usufrutto si verifica: a) per scadenza del termine o morte dell’usufruttuario; b) per prescrizione estintiva ventennale; c) per consolidazione, ossia per riunione dell’usufrutto e della nuda proprietà in capo alla stessa persona; d) per perimento totale della cosa; e) per abuso che l’usufruttuario faccia del suo diritto, alienando i beni o deteriorandoli o lasciandoli perire per mancanza di ordinarie riparazioni; f) per rinunzia, che, se l’usufrutto ha ad oggetto beni immobili, deve essere fatta per iscritto ed essere trascritta nei pubblici registri immobiliari. Per effetto del principio di elasticità del dominio (v. 132), l’estinzione dell’usufrutto importa l’automatica riespansione della nuda proprietà in proprietà piena. Nell’interesse generale della produzione, la legge non ha vietato all’usufruttuario di eseguire dei miglioramenti, ma ha limitato il credito dell’usufruttario per i miglioramenti fatti alla minor somma tra lo speso e l’aumento di valore conseguito dalla cosa per effetto del miglioramento. 153. Uso ed abitazione L’uso e l’abitazione non sono che tipi limitati di usufrutto: a) l’uso consiste nel diritto di servirsi di un bene e, se fruttifero, di raccoglierne i frutti limitatamente ai bisogni propri e della propria famiglia; b) l’abitazione consiste nel diritto di abitare una casa limitatamente ai bisogni propri e della propria famiglia. A differenza del titolare del diritto d’uso – che potrebbe impiegare l’unità immobiliare che ne costituisse l’oggetto anche per finalità diverse da quella abitativa (es. come ufficio) – l’habitator non può destinare la casa oggetto del suo diritto che all’abitazione diretta propria e dei propri familiari, con conseguente divieto di utilizzarla in altro modo. I diritti d’uso e di abitazione possono sorgere – oltre che per volontà dell’uomo e per usucapione – anche ex lege: l’art. 540 cc prevede che, in caso di morte del coniuge convivente, all’altro siano riservati i diritti di abitazione sulla casa adibita a residenza familiare e di uso sui mobili che la arredano, se di proprietà del defunto o comuni. Dato il loro carattere personale, i diritti d’uso e di abitazione – a differenza dell’usufrutto – non si possono cedere, né il bene può essere concesso in locazione o altrimenti in godimento a terzi. Peraltro, attenendo a diritti patrimoniali disponibili, detti divieti possono essere derogati dalle parti. Per il resto, all’uso e all’abitazione trovano applicazione le disposizioni dettate in tema di usufrutto. Così, ad es, si ritiene che i diritti di uso e di abitazione non possano eccedere la durata della vita del titolare; che di conseguenza, i due diritti si estinguano con la morte del titolare; che pertanto non possano formare oggetti di disposizione testamentaria. D) LE SERVITU’ 154. Nozione La servitù prediale consiste nel peso imposto sopra un fondo (fondo servente) per l’utilità di un altro fondo (fondo dominante), appartenente a diverso proprietario. Essenziale, pertanto, è questa relazione (c.d. rapporto di servizio) tra i due fondi (o predi, dal latino praedium), per cui il fondo dominante si avvantaggia della limitazione che subisce quello servente (ad es., la servitù di passaggio, mentre costringe il proprietario del fondo servente a tollerare che il proprietario del fondo dominante passi sul suo terreno, agevola l’accesso al fondo dominante). L’utilità può consistere anche nella maggiore comodità o amenità del fondo dominante. Si può costituire, ad es., una servitus altius non tollendi per impedire di realizzare una costruzione sul fondo vicino al fine di assicurare l’amenità di un parco. Accanto alle c.d. servitù tipiche, il cui contenuto è previsto e regolamentato dal codice civile, sono altresì ammesse le servitù atipiche che – pur non appartenendo ad alcuno dei modelli legali – possono tuttavia essere liberamente costituite, purché finalizzate all’utilità del fondo dominante. La legge consente anche le servitù industriali, quelle cioè strumentali a quegli utilizzi produttivi del fondo dominante che ineriscano strutturalmente al fondo stesso (es., servitù di passaggio per trasportare le merci prodotte) . Non costituiscono, invece, servitù prediali – ma sono servitù irregolari - le c.d. servitù aziendali, quelle cioè strumentali all’azienda come tale, indipendentemente dal fondo sul quale la stessa viene esercitata (es., il diritto di apporre un’insegna luminosa a vantaggio di un esercizio commerciale). Le servitù possono essere anche reciproche, poste cioè simultaneamente a favore e a carico di due o più fondi, a reciproco vantaggio. Sicché, ciascun fondo si troverà ad essere allo stesso tempo dominante e servente. Non costituiscono servitù prediali – che instaurano una relazione tra due fondi – le servitù irregolari, il cui servizio è prestato a favore di una persona. E’, per es., servitù regolare la servitù di passaggio costruita su un fondo a favore di un altro fondo, perché concede un miglior accesso al fondo dominante; ha il carattere di servitù irregolare quella che attribuisce ad una persona il diritto di passare sul fondo altrui per esercitarvi la pesca. La ragione per cui non sono ammesse servitù se non a favore di fondi consiste nel fatto che i diritti reali su cosa altrui rendano manifesta la soggezione della servitù: la legge vuole evitare che la servitù sorga in base a manifestazioni non chiare ed equivoche, che, non incidendo sensibilmente nella sfera altrui, possono anche essere state tollerate a titolo precario, per ragioni di buon vicinato. Per comprendere le modalità con cui opera il modo di acquisto della servitù costituito dalla destinazione del buon padre di famiglia, occorre tener presente che – se il proprietario di un fondo costruisce sul suo bene opere permanenti (es., strade, ponti) per effetto delle quali una parte del fondo risulta “asservita” ad un’altra parte del medesimo fondo, consentendone un miglior utilizzo – non può sorgere alcuna servitù, perché nemini res sua servit, cioè, non si può costituire servitù sulla cosa propria. Ma, se il fondo cessa di appartenere allo stesso proprietario, allora al legislatore è apparso opportuno che lo stato di fatto, che consentiva ad una parte del fondo di trarre utilità e vantaggi dall’altra parte del fondo, possa continuare legittimamente: a tal fine, il cc prevede che si costituisca ex lege una servitù corrispondente allo stato di fatto preesistente. 159. Esercizio della servitù L’esercizio della servitù è regolato – innanzitutto – dal titolo (contrato, testamento) e – in difetto – dalla legge (cd graduazione delle fonti regolatrici dell’estensione e dell’esercizio della servitù). In ogni caso, il diritto di servitù comprende tutto ciò che è necessario per usarne: c.d. adminicula servitutis, cioè facoltà accessorie, ma indispensabili, per l’esercizio della servitù (es., il diritto di attingere acqua comprende anche il diritto di passaggio sul fondo in cui la fonte si trova). Si chiama modo d’esercizio della servitù il come questa può essere esercitata (a piedi, con mezzi a trazione animale, ecc). Si discute se possa usucapirsi una servitù: ad es., se è stato stabilito nel titolo il passaggio a piedi, posso usucapire il diritto si passare con mezzi a trazione meccanica? Se la servitù non è apparente, è chiaro che, come non si può usucapire la servitù, non si può usucapire neanche il modo. Se la servitù è apparente, la dottrina distingue: se il modo è determinato nel titolo, non si può usucapire in modo diverso, perché solo il diritto è usucapibile; se il modo non è determinato, l’usucapione è ammissibile. L’eventuale dubbio circa l’estensione e le modalità di esercizio deve risolversi in base alla regola secondo cui le servitù devono essere esercitate civiliste, soddisfacendo il bisogno del fondo dominante con il minor aggravio del fondo servente (c.d. principio del minimo mezzo). Corollario di siffatto principio, è il divieto – per il proprietario del fondo dominante – di aggravare e – per quello del fondo servente – di diminuire l’esercizio della servitù. 160. Estinzione della servitù Le servitù si estinguono: a) per rinuncia da parte del titolare, fatta per iscritto. Se la rinuncia ha luogo contro un corrispettivo, occorre un atto bilaterale (contratto). Viceversa, è sufficiente un atto unilaterale; b) per scadenza del termine, se la servitù è a tempo; c) per confusione, quando il proprietario del fondo dominante acquista la proprietà del fondo servente o viceversa; d) per prescrizione estintiva ventennale (cd non uso). In quest’ultimo caso, da quale momento comincia a decorrere il termine per la prescrizione estintiva? Dipende dalla natura delle servitù, che si distinguono in: i) negative, quando attribuiscono al proprietario del fondo dominante il potere di vietare al proprietario del fondo servente di svolgere un’attività sul proprio fondo; a tale potere corrisponde un obbligo di non facere in capo al proprietario del fondo servente. ii) affermative, quando attribuiscono al proprietario del fondo dominante il potere di fare qualche cosa, di svolgere un’attività nel fondo servente (es. attingere acqua); a tale potere corrisponde un obbligo di pati in capo al proprietario del fondo servente. Le servitù affermative si distinguono a loro volta in: 1) continue, quando l’attività dell’uomo è antecedente all’esercizio della servitù: per l’esercizio di siffatte servitù non occorre l’attività dell’uomo (ad es., nella servitù di acquedotto, occorre l’attività dell’uomo per predisporre la conduttura; l’acqua poi scorre da sé); 2) discontinue, quando invece il fatto dell’uomo deve essere concomitante con l’esercizio della servitù (es., in tanto esercito la servitù di passaggio, in quanto transito sul fondo altrui). Orbene: - se la servitù è negativa, il proprietario del fondo dominante nulla deve fare per esercitare la servitù (deve solo controllare che l’altro rispetti il divieto): la prescrizione quindi comincia a decorrere quando il proprietario del fondo servente viola il divieto; - se la servitù è (affermativa) continua, si riproduce la stessa situazione (costruito l’acquedotto, il proprietario del fondo dominante non deve far nulla per ritrarre dalla servitù l’utilità voluta): perciò, anche in questo caso, la prescrizione comincia a decorrere quando si sia verificato un fatto contrario all’esercizio della servitù (es., allorquando l’acquedotto sia stato ostruito); - se la servitù è discontinua, la prescrizione estintiva comincia a decorrere dall’ultimo atto di esercizio (es., dall’ultima volta che sono passato sul fondo servente). L’interruzione del termine ventennale di prescrizione può essere determinata soltanto dalla proposizione della domanda giudiziale. L’impossibilità di fatto di usare la servitù (ad es., crollato l’edificio da cui esercitavo la servitù di veduta), così come la cessazione della sua utilità (es., si inaridisce la sorgente nella servitù di attingere acqua) non fanno, di per sé, estinguere la servitù, perché lo stato dei luoghi potrebbe nuovamente mutare e la servitù divenire ancora utile. Si ha, in questo caso, sospensione della servitù. Il modo di una servitù è soggetto a prescrizione estintiva? Per chiarire il problema: se ho una servitù di veduta da cinque finestre e ne chiudo quattro, posso esercitare la servitù, anche decorso il ventennio, da tutte e cinque le finestre, riaprendo anche le quattro che avevo chiuso, oppure devo limitarmi ad esercitarla dalla sola finestra aperta? Il problema è risolto dal cc: la servitù si conserva per intero, ciò perché per on uso si può estinguere solo il diritto, non il modo, che non ha un valore autonomo. 161. Tutela della servitù A tutela delle servitù è preordinata l’azione confessoria, in forza della quale – di fronte ad una contestazione dell’esistenza della servitù – chi se ne afferma titolare chiede una pronuncia giudiziale di accertamento del suo diritto e, nell’ipotesi in cui la lamentata contestazione si sia tradotta in impedimenti all’esercizio della servitù stessa, anche una pronuncia di condanna alla loro cessazione ed alla rimessione delle cose in ripristino, oltre che al risarcimento del danno. Legittimato attivamente è colui che si afferma titolare della servitù; legittimato passivamente il soggetto che – avendo un rapporto attuale con il fondo servente (es., se ne è proprietario) – contesta l’esercizio della servitù. L’attore in confessoria servitutis deve fornire la prova rigorosa dell’esistenza della servitù. Infatti, l’azione confessoria ha carattere petitorio ed il suo accoglimento presuppone l’accertamento del diritto alla servitù. CAPITOLO XV: LA COMUNIONE E IL CONDOMINIO A) LA COMUNIONE 162. Nozione Un diritto soggettivo può appartenere a più persone, le quali sono – tutte – contitolari del medesimo diritto. Il fenomeno della con titolarità – allorquando ha ad oggetto un diritto reale (ad es., Tizio e Caio, comproprietari del fondo dominante, acquistano una servitù di passaggio sul fondo servante di Sempronio) – prende il nome di comunione pro indiviso (o comproprietà, se trattasi di con titolarità del diritto dominicale; cousufrutto, ecc). Il diritto di ciascuno dei contitolari investe l’intero bene (ad es., se Tizio e Caia acquistano un immobile in comunione, il diritto di ciascuno cade non sulla parte destra o sulla parte sinistra del bene, bensì sul cespite nella sua totalità), seppure il relativo esercizio trovi necessariamente limite nell’esistenza dell’egual diritto degli altri compartecipi. A ciascuno dei contitolari spetta, dunque, una quota ideale sull’intero bene (ad es., se Tizio e Caia acquistano un immobile pagando ciascuno il 50% del prezzo, si dirà che a ciascuno appartiene una quota pari al 50% dell’intero); detta quota è disponibile (ad es., Tizio potrà vendere in qualsiasi momento la sua quota del 50%) e segna, in linea di massima, la misura di facoltà, diritti e obblighi dei rispettivi titolari (ad es., Tizio e Caia, contitolari di un determinato immobile nella misura del 50% ne divideranno i frutti, le spese di gestione, ecc). Nell’ipotesi in cui non sia diversamente previsto, le quote si presumono – presunzione iuris tantum – uguali. L’ordinamento italiano conosce altresì alcuni istituti (es. comunione legale tra coniugi) che si avvicinano, invece, alla figura della comunione senza quote di tradizione germanica, in cui il bene appartiene non già pro quota ai singoli, bens’ unitariamente al gruppo. 163. Comunione e società La comunione si distingue dalla società per il fatto che – mentre i compartecipi alla comunione si limitano ad esercitare in comune il godimento di un determinato bene – i compartecipi alla società esercitano invece in comune un’attività economica volta alla produzione ed allo scambio di beni e servizi. La distinzione diviene più labile allorquando si tratti di bene produttivo (es., un’azienda). In tal caso, si rimane nell’ambito della comunione se i compartecipi non utilizzano il bene, ovvero lo concedono in godimento a terzi (es., Tizio e Caio affittano l’azienda comune a Sempronio, che la gestisce imprenditorialmente), ovvero ancora si limitano a raccoglierne i frutti naturali, senza che la loro attività possa qualificarsi come “d’impresa”. Si scivola invece nell’ambito della società, se i compartecipi esercitano un’attività di impresa. Ad es., se il padre che gestiva un’impresa agricola sul fondo di sua proprietà, morendo, lascia la propria azienda ai tre figli, fra questi ultimi verrà a costituirsi una comunione sull’azienda paterna; se poi uno dei tre figli dovessero continuare l’attività del padre, si costituirà tra questi ultimi una società. 164. Costituzione Quanto ai modi di costituzione, la comunione per quote si distinguono in: a) volontaria, quando scaturisce dall’accordo dei futuri contitolari (es., Tizio e Caio si accordano per comperare insieme un immobile); b) incidentale, quando scaturisce senza un atto dei futuri contitolari diretto alla sua costituzione (es., Tizio e Caio acquistano un immobile in forza di un legato testamentario di Sempronio); c) forzosa, quando scaturisce dall’esercizio di un diritto potestativo da parte di uno dei futuri contitolari (es. comunione forzosa del muro); 165. Disciplina: profili generali Quanto alla disciplina, si è soliti distinguere fra: a) comunione ordinaria