Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

Riassunto manuale di letteratura e cultura inglese, Schemi e mappe concettuali di Letteratura Inglese

Riassunto del manuale di letteratura e cultura inglese (Crisafulli e Elam): capitoli sul Novecento (introduzione, Modernismo, Modernisti e Antimodernisti, il romanzo, il teatro di Beckett) e su Letteratura, nazionalità e regionalismo

Tipologia: Schemi e mappe concettuali

2021/2022

Caricato il 14/12/2022

gaia-100
gaia-100 🇮🇹

4.7

(12)

8 documenti

1 / 23

Toggle sidebar

Spesso scaricati insieme


Documenti correlati


Anteprima parziale del testo

Scarica Riassunto manuale di letteratura e cultura inglese e più Schemi e mappe concettuali in PDF di Letteratura Inglese solo su Docsity! Il Novecento Introduzione Se c’è un termine in grado di descrivere e insieme sintetizzare un’idea del ‘900 letterario e culturale in Inghilterra, questo termine è certamente velocità. La violenza delle lacerazioni e la fretta di ricomporre i frammenti, dovute inizialmente ai traumi dei primi conflitti bellici di portata mondiale e dopo all’azione psicologica della cosiddetta guerra fredda, tragico eufemismo per indicare una strategia di contenimento e rimozione della guerra-guerra; l’inarrestabile precipitazione di fenomeni sociali affascinanti e inquietanti come il femminismo; la sempre più debordante trasformazione della società nel passaggio progressivo da una dimensione territoriale e campestre a una urbana, e poi gradatamente metropolitana. L’aspetto più appariscente è la forte componente autobiografica della rappresentazione letteraria; pare che ogni autore, nei vari e differenziati generi letterari del ‘900 inglese, intenda fare emergere in diverse tonalità, stilistiche e di contenuto, un riflesso delle propria esperienza. Spesso la componente autobiografica si innesta, a partire dall’arcimodello di Ulysses di James Joyce, in una consapevolezza culturale di ascendenza mitica. Il recupero della dimensione mitologica è un altro dei tratti fondanti del ‘900 letterario, non solo inglese. Nella prima metà del secolo le forme predilette sono i generi tradizionali mentre, nella seconda metà del secolo, tendono a imporsi fondamentalmente il romanzo e il cinema. Si possono identificare tre periodi del XX secolo: il primo, che occupa il primo trentennio, è un periodo di realismo psicologico, che mette in relazione gli atteggiamenti emotivi dei protagonisti della tradizione mitica a personaggi contemporanei; un secondo e più breve periodo persegue una nuova mitologizzazione di miti e leggende, sotto la spinta propulsiva anche del cinema, a cavallo della seconda guerra mondiale; e infine il terzo periodo, successivo alla guerra, è caratterizzato da una varietà sconfinata di indirizzi tematici e modelli interpretativi, e mostra un’esponenziale ascendenza del genere fantastico verso la fantascienza. Il ‘900 è anche il secolo dell’alienazione dell’individuo nella società, quella società sempre più tentacolare, sia urbana sia metropolitana, teorizzata dalle varie impostazioni ideologiche che si susseguono. Il Modernismo. Teorie, movimenti, generi Il primo impiego del termine Modernismo in Inghilterra risale agli anni subito dopo la prima guerra mondiale, per designare un esiguo gruppo di scrittori sperimentali: T.S. Eliot, Ezra Pound, James Joyce, Virginia Woolf. In seguito va a indicare un’ampia varietà di movimenti, sia letterari sia artistici, come Impressionismo, Simbolismo, Postimpressionismo, Futurismo, Cubismo e Surrealismo, che si imposero nei primi decenni del ‘900. Secondo una concezione molto espansa del movimento modernista, esso andrebbe addirittura dalla metà dell’800 alla metà del ‘900. Le date di partenza indicate generalmente sono: il 1900, anno della pubblicazione dell’Interpretazione dei Sogni di Sigmund Freud; il 1901, la morte della regina Victoria; il 1910, che è indicato da Virginia Woolf come passaggio fondamentale al cambiamento dell’umanità, con la prima grande mostra postimpressionista, che per la prima volta aveva fatto vedere prospettive frammentate, piani di coscienza spezzettati, tempi discontinui e spazi disomogenei. Un terzo punto costante di riferimento è il 1914, lo scoppio della prima guerra mondiale. Ma prima ancora della catastrofe bellica, altre turbolenze della modernizzazione avevano inciso sul tessuto sociale: le lotte operaie, l’emergere del femminismo, la corsa frenetica verso l’imperialismo. 1. Modernismo versus Modernità Il termine inglese “Modernism” ha i propri equivalenti ideali nel termine “Avant-garde” in Francia, “Expressionismus” in Germania e “Decadentismo” in Italia. Ciò che lega questi eterogenei movimenti è l’angoscia condivisa dai loro esponenti di una crisi di rappresentazione, la percezione ansiogena dell’incapacità di tutte le discipline umanistiche di raffigurare e significare la natura. Sul piano ideologico e speculativo, tutti i movimenti “modernisti” europei tendono a contrapporsi alla modernità, termine con il quale la filosofia designa una categoria di pensiero che risale all’Illuminismo e le cui figure centrali sono il filosofo secentesco René Descartes e nel ‘700 Immanuel Kant. Ai filosofi moderni delle certezze, le avanguardie novecentesche contrappongono i maestri modernisti del sospetto, ovvero Marx, Nietzsche e Freud. La crisi esistenziale, la contestazione dei valori positivi, rivelati e codificati, che contraddistingue il retroterra speculativo delle avanguardie novecentesche, propone un interessante corollario nella manipolazione dei valori religiosi, o quantomeno metafisici. Assai riconoscibili nelle opere di autori del Modernismo sono per esempio varie teorie sul cosiddetto animismo per spiegare i meccanismi del sonno e del sogno e più in generale dei rapporti tra vita e morte. Enorme impatto ebbe la grande mole di studi antropologici ed etnologici, la cui summa è rappresentata dalla massiccia documentazione ed estesa sistemazione dei miti e riti messa a punto da J.G. Frazer nei ben 12 volumi del The Golden Bough, redatto tra il 1907 e il 1915, cui praticamente tutti gli scrittori e artisti modernisti attinsero. Non meno rilevante fu il ricorso a un’interpretazione simultaneamente simbolica della fenomenologia mitico religiosa, quale strumento di coesione ideologica. 2. “Alto” e “basso” Modernismo La critica attuale concorda su una distinzione binaria fra alto e basso Modernismo: in senso non solo cronologico, ma soprattutto con significato tanto estetico quanto sociologico. L’obiettivo primario dei maestri modernisti era la ricerca, peraltro mai del tutto compiuta, di attimi preziosi benché fuggevoli, di penetrazione metafisica di un reale assoluto, immutabile, incorporeo, che per esempio Joyce chiamava “epifania” e la Woolf “momento”. Attimi in cui l’artista intuisce che la realtà deve avere uno scopo, un senso; pur nella consapevolezza che, nell’ambito reale e concreto della cultura contemporanea, il senso sfugge. Da qui un’ulteriore consapevolezza, di ordine espressivo e comunicativo: le forme artistiche e letterarie non possono perseguire la perfezione formale, riflettendo invece la natura parziale e i caratteri frammentari sia delle esperienze quotidiane, sia della tradizione culturale che le rappresenta. Il 1922 è l’anno della pubblicazione dell’Ulysses di Joyce e di The Waste Land di Eliot, il culmine della sperimentazione e del rinnovamento predicati da Ezra Pound dal 1912. Ma proprio i due testi più significativi del Modernismo ne segnalarono anche la natura colta, elitaria, autoreferenziale, nonché l’inaccessibilità linguistica. Secondo Joyce l’artista è un essere superiore, investito unicamente del dovere di denunciare, in un codice di trasmissione verbale proprio, i difetti della creazione dell’altro, antico Dio, quello di cui Nietzsche aveva dichiarato la morte. Tuttavia, a fronte dell’ “alto” Modernismo, ne possiamo incontrare uno diverso, chiamato per convezione “basso” Modernismo, identificabile nella scrittura e nell’editoria di divulgazione popolare. La progressiva emanazione degli Education Acts che allargavano enormemente l’accesso alla scuola e poi all’università provocò una forte richiesta di produzione di giornali e riviste, quale base di diffusione di una letteratura prima solo popolare, poi anche colta. Quello delle riviste è un fenomeno particolarmente rilevante, diviso in due manifestazioni contrapposte, da un lato periodici nati per incontrare il grande pubblico, come The Strand Magazine o Tit Bits che pubblicavano a puntate romanzi sensazionali e polizieschi. Dall’altro lato, riviste specialistiche, rivolte a un pubblico culturalmente più elevato, le quali divennero un fondamentale veicolo di trasmissione per le opere dei principali scrittori, che in tal modo si fecero conoscere con maggiore facilità, rispetto ai canali dell’editoria tradizionale. Le chiamarono “piccole riviste” dal titolo del prototipo Little Review. Tra le più celebri possiamo nominare The Dial, Blackhood’s Magazine, Vanity Fair, nonché periodici ancora più intellettualistici, dal Criterion diretto dallo stesso Eliot all’Egoist, allo Scrutiny. Un ulteriore aspetto rilevante della cultura comunicativa ed economica del Modernismo va individuato nel fatto che la forza di distribuzione dei materiali a stampa dipendeva dall’illuminato mecenatismo di facoltosi patroni, inseriti in ricche attività professionali o commerciali, e caratteristicamente, quasi tutti, americani. 3. Teorie e movimenti: Vorticismo e Imagismo Il Vorticismo si propone come l’unico movimento di avanguardia novecentesca esclusivamente e pecuniariamente inglese. Nasce da un’avvertita necessità di porre in relazione letteratura e arti visive. Ha il suo centro privilegiato a Londra, si evolve sostanzialmente tra il 1913 e il 1915 e trova il proprio riferimento teorico-metodologico, ma anche operativo, nella rivista Blast. L’indiscusso propugnatore del movimento fu l’artista e scrittore Wyndham Lewis. La metafora del vortice la si deve a Ezra Pound, il quale, in una lettera del 1913, memore di un folgorante simbolo di William Blake, la ripropose a distanza di più di un secolo per suggerire l’idea di un centro di intensa e vigorosa attività mentale, da cui deriva la più proficua operatività culturale. Nel 1914, un ristretto gruppo di amici decise di autodefinirsi “vorticista”, affidando alle riviste Manchester Guardian e Spectator scene tardo ottocentesche, testimone di una percezione popolare e anti-intellettualistica della realtà quotidiana. Non va sottovalutato il fatto che, mentre la censura rimane assai attiva, al contempo il pubblico, come gruppo sociale, tende a esercitare un forte sistema di pressioni prescrittive. I testi vengono di solito interpretati da attori che recitano con tecniche codificate nella continuità della tradizione e consolidate dalle aspettative degli spettatori. Un ulteriore ostacolo contro la modernizzazione dell’arte drammatica è costituito dall’inossidabile egemonica istituzione dei teatri del West End, appena scalfita dall'abrogazione, nel 1843, del Patent Act, ovvero la legge che dal ‘700 governava le produzioni dei cosiddetti teatri illegittimi, il cui risultato si era manifestato nell’espansione numerica dei teatri patentati, da due che erano in origine a venti nella metà del secolo e ben 61 nel ‘900. I principali autori modernisti G.B. Shaw, Yeats ed Eliot, ma anche D.H. Lawrence e Wyndham Lewis, per non parlare del Joyce drammaturgo antesignano di Pinter e Beckett, si cimentarono nella produzione teatrale con l’idea che i loro drammi nascessero solo per la messa in scena, storie drammatiche, magari anche liriche o epiche, purché pensate e orientate verso la performance. Diversa appare l’applicazione di principi modernisti nella drammaturgia di W.B. Yeats. Fondamentalmente poeta nonché mitografo per vocazione, Yeats compone tra il 1902 e il 1908 e in seguito tra il 1930 e il 1938 una serie di drammi incentrati sulla tradizione culturale celtica. Da At the Hawks’ Well (1916) fino a The Death of Cuchulain (1938), Yeats persegue un itinerario di mitologia celtica a favore del movimento nazionalista irlandese, inventando a tale proposito un teatro tanto mentale quanto fisico, nell’esperienza culturale, estetica e antropologica dell’Abbey Theatre, dove, per un verso, personaggi fantastici o leggendari traggono concretezza da una tradizione mitologica locale, ma per un altro verso si sublimano nell’astrazione dell’immaginario archetipico. Di tutt’altro stampo fu l’esordio teatrale di T.S. Eliot, con Sweeney Agonistes dove in un sogno fatto di incubi il protagonista eponimo drammatizza un trascendente uxoricidio. Testo sperimentale, di avanguardia, che Eliot dimenticò subito optando per temi religiosi tradizionali, come in Murder in the Cathedral (1935), oppure per prospettive familiari e domestiche, come in The Family Reunion (1939). Né Yeats né Eliot seppero configurare forme di compromesso vincenti, atte a convogliare istanze teoriche moderniste in esperienze teatrali apprezzabili dal vasto pubblico tradizionale. Cosa che invece seppe fare George Bernard Shaw, nella sua incisiva e autoironica ristrutturazione del dramma romantico e borghese tradizionale. Se, per un verso, i suoi drammi preservano una superficie di realismo psicologico, per un altro il ricorso continuo alle qualità intellettualistiche dell’ironia e del paradosso mina le fondamenta del discorso naturalistico. Exiles (1915), l’unico dramma di Joyce, sul piano tematico deve qualcosa a Shaw e più ancora a Anton Cecov e soprattutto a Henrick Ibsen, per la spietata messa a nudo dello scontro di sensibilità e visioni del mondo che si cela dietro i rapporti sia tra coniugi sia tra amici, dove l’autore va comunque ben oltre i suoi modelli, mettendo in scena un autentico psicodramma di paure, falsificazioni, rimozioni e censure, dal complesso edipico all’omosessualità. 7. Il cinema: dal “make it new” al “see it new” Il film configura la quintessenza della forma modernista, soprattutto fino agli ultimi anni ‘20, allorché la nascita del film sonoro mise in discussione quel primato assoluto della visività che contraddistinse la sperimentazione artistica del primo ‘900. Il cinema significò la rottura completa con gli schemi convenzionali della rappresentazione, concretizzando con i mezzi tecnici più idonei il particolare connubio tra innovazione formale e penetrazione mitica del reale, tenacemente perseguito dagli adepti del movimento modernista. La formula poundiana del rendere tutto nuovo la si poté applicare all’imperativo del far vedere tutto nuovo. Il film novecentesco incorpora l’immagine nell’azione, tentando di rappresentare il mondo nel suo naturale moto perpetuo, proprio come auspicavano di poter realizzare le avanguardie artistiche e letterarie (Van Gogh, Munch, Boccioni, Picasso e Kandinsky). Appunto il valore intrinseco della mobilità e del moto informa di sé le forme sperimentali filmiche che cominciano a presentarsi all’inizio degli anni ’20. Molti artisti e letterati proiettano nel cinematografo il modello di tutto quanto l’arte dovrebbe rappresentare nel futuro: spostamento, svolgimento, fluttuazione. Il momento delle avanguardie Il periodo precedente la prima guerra mondiale si propone ovunque quale momento di energica e radicale sperimentazione. Parallelamente al balzo verso l’astrattismo in pittura, al progressivo superamento della tonalità in musica, all’affermarsi in architettura sia dell’espressionismo plastico sia del purismo razionalista, la scrittura modernista cerca, attraverso modalità espressive sempre più sofisticate, di superare la referenzialità del linguaggio, la sua funzione rappresentativa del reale. Un particolare interesse per l’aspetto tipografico del testo induce poeti e scrittori a trattare la pagina come un collage di termini disseminati a caso, secondo il modello inaugurato dai Calligrames di Guillaume Apollinaire, il più influente modernista della Francia prebellica e fautore del Cubismo. Caratteristica delle avanguardie è l’organizzazione di artisti e scrittori, mossi da principi teorici comuni, in gruppi più o meno omogenei, con la tendenza a pubblicare insieme e a individuare tra i membri del movimento un leader che ne diviene portavoce ufficiale. Modernisti e antimodernisti 1. I grandi modernisti 1.1. James Joyce Sebbene la fama di Joyce sia legata principalmente a Ulysses, è tutto il suo percorso evolutivo di scrittore a configurare una traiettoria profondamente rappresentativa del fenomeno modernista. Nato a Dublino nel 1882, si allontanò dalla città nel 1904 per un definitivo esilio verso un’Europa continentale avvertita come storicamente pluriculturale e ideologicamente pluriprospettica. La prima opera importante, una raccolta di quindici racconti scritti tra il 1904 e il 1907, si intitola Dubliners ed è ideata “per smascherare l’anima di quella emiplegia e paralisi che molti considerano una città”. La paralisi dei dublinesi joyciani è simultaneamente morale, intellettuale e spirituale. La struttura dei racconti è suddivisibile in una rappresentazione della sua città natale “sotto quattro aspetti: infanzia, adolescenza, maturità e vita pubblica”. I primi tre racconti, quelli dell’infanzia, sono narrati in prima persona da un bambino e sono accomunati dal tema dell’evasione impossibile; nel gruppo delle storie dell’adolescenza “due racconti di meschini tradimenti sono incorniciati in altri due in cui la prigione di un ambiente squallido e opprimente si richiude su chi aveva voluto evaderne”; le quattro storie della maturità descrivono esistenze frustrate dalla routine incardinata sulla solitudine; la triade sulla vita pubblica conferisce al tema della paralisi il valore metaforico della morte dell’Irlanda stessa nel suo insieme. The Dead, il lungo racconto che conclude la raccolta, discopre una propria configurazione sia tematica sia stilistica, sebbene si connetta al motivo generale della morte. Questo testo inaugurava il metodo tipicamente joyciano (e modernista) dell’autobiografismo estetico, laddove non solo sublima e strania l’autorappresentazione del soggetto in una dimensione artistica e dunque artefatta, ma al tempo stesso la distribuisce fra il protagonista e altri personaggi che gli ruotano attorno, significando ognuno porzioni di referenza e verità autobiografiche. Proprio in questo senso diviene esemplare, prima di Ulysses ma anche di Exiles, il caso del Bildungsroman A Portrait of the Artist as a Young Man, che narra la storia dell’iniziazione di Stephen Dedalus (maschera di Joyce) alla vita artistica, dall'infanzia alla scelta quasi religiosa di divenire, quale scrittore, “un prete dell’immaginazione eterna”. Il nome del protagonista evoca le figure del protomartire Santo Stefano e dell’artefice Dedalo, alludendo anche alla doppia matrice culturale, classica e cristiana, tipica dell’arte di cui i modernisti si fanno promulgatori. Nel romanzo modernista per antonomasia, l’Ulysses, troviamo due protagonisti autobiografici: Stephen Dedalus, alter ego del Joyce giovanile, e una nuova maschera dell’autore più maturo, Leopold Bloom. Questa novecentesca Odissea colloca Stephen nel ruolo di Telemaco, alla ricerca simbolica del Padre, e Leopold in quello di un moderno Ulisse alla ricerca del Figlio. Il tema della “quest” padre/figlio si dispiega in una dimensione ironica e autoironica. Esorbitante e perciò modernista è la quantità e la qualità di discorsi dispiegata nei diciotto episodi del romanzo, che è il primo modello dell’antiromanzo novecentesco. Stephen e Leopold si scontrano per tutto il giorno con i fantasmi delle proprie rimozioni e censure (condivise da Joyce), relative all’idea di paternità, maternità, amore e tradimento coniugale. Il centro delle angosce di Joyce è la figura di donna che assorbe in sé l’idea di famiglia, di patria, di religione, e il rifiuto globale di tali categorie. Si tratta di Molly Bloom, divenuta paradigma incontrastabile del femminismo moderno e modernista. È con questo testo che Joyce inaugura quello che Eliot definisce “metodo mitico” (esemplificato in The Waste Land): manipolare i miti della tradizione mitico-antropologico-letteraria per stabilire correlazioni ironiche e parodistiche tra i mondi assestati della cultura classica e i mondi prospettici delle culture future. Joyce inventa modelli espressivi e retorici diversi per ognuno dei diciotto episodi, tra cui flusso di coscienza, dialogo drammatico, monologo interiore e parodie di varie tecniche narrative. La struttura del testo si presenta tuttavia rigorosa, aristotelica, sillogistica: tre parti distinte, relative ai tre protagonisti. La prima parte ruota attorno a Stephen (studente universitario, il “giovane artista” tuttora in formazione), la seconda a Leopold (moderno Ulisse nelle specie di un viaggiatore di commercio) e la terza a Molly (meta di entrambi i personaggi maschili e conclusione del sillogismo joyciano). Queste tre parti imitano in forma parodistica le tre parti dell’Odissea: nella prima, Telemaco che cerca il padre (Stephen ne ricerca uno spirituale); nella seconda, Ulisse che viaggia per tornare a casa; nella terza, padre e figlio si ricongiungono nel segno della moglie/madre, Penelope ossia Molly. Joyce dedicò gli ultimi diciassette anni della sua vita alla scrittura di un’opera ancora più ambiziosa: il Finnegans Wake, concepito come un inesauribile “work in progress”, il libro più difficile mai scritto in lingua inglese. L’ambizione dell’autore era di costruire una mitologia in cui ogni dettaglio del comportamento umano, dal passato al presente al futuro, potesse venire ricondotto ai cicli della vita e soprattutto della storia: dal modello di Omero, Joyce passa al modello di Giovanbattista Vico. La struttura del testo è ciclica: è una storia astorica che non ha né inizio né mezzo né fine, nella cui evoluzione/involuzione si ripresentano gli stessi personaggi che ripropongono, in altre guise, le medesime situazioni archetipiche. Dal punto di vista strettamente narrativo, questa è la storia di una famiglia irlandese, gli Earwicker, assunta quale microcosmo del macrocosmo umano. 1.2. T.S. Eliot Thomas Stearns Eliot rappresenta per la poesia la più alta e profonda espressione delle istanze estetiche e teoriche del Modernismo. La sua prima raccolta di liriche, composte tra il 1909 e il 1915 e pubblicata nel 1917, trova in The Love Song of J. Alfred Prufrock il primo esperimento di quel “metodo” compositivo che diverrà strutturale nella sua produzione poetica. In accordo con il principio teoretico di “simultaneità”, sia i temi oggetto del discorso poetico, sia i linguaggi descrittivi di quegli argomenti, si pongono in relazione centripeta e compresente. Da Dante e tutta la poesia medioevale a quella elisabettiana e giacomiana, l’autore persegue l’intenzione ironica di sottolineare, per contrasto, l'impossibilità di identificare, nel mondo moderno, personae attendibili o almeno credibili. Il protagonista e narratore è un tipico bostoniano di fine Ottocento che invita il lettore a una passeggiata per la città, dove si confrontano una società del benessere e uno squallore proletario, specchi di una cultura occidentale fallita; perciò la canzone d’amore annunciata nel titolo si presenta aspramente ironica. The Waste Land (1922) rappresenta il vertice di tutta la poesia modernista. Nel percorso di Eliot dall’asciutto e astratto simbolismo dei primi componimenti lirici fino ai danteschi ed elaborati procedimenti allegorici delle ultime esperienze, questo poemetto costituisce il momento centrale, in cui il mito occidentale-cristiano si alimenta di nuove linfe immergendosi nelle più svariate culture, da quelle primitive a quelle orientali. L’opera si compone di cinque sezioni. La prima, The Burial of the Dead, introduce i temi, i simboli e i personaggi di tutto il componimento, prospettandone anche le due possibili risoluzioni: o l’idea del ripetersi inesorabile, e quindi insignificante, del ciclo biologico di nascita/rinascita, oppure la rottura della circolarità naturalistica da parte di un’istanza divina che trasforma la semplice rinascita fisica in resurrezione spirituale. Le altre sezioni articolano e argomentano questo doppio binario. La seconda, A Game of Chess, ci confronta con la possibilità che il dolore si trasformi in esperienza di crescita. La terza sezione, The Fire Sermon, introduce la figura androgina dell’indovino Tiresia, che unifica in sé tutti i personaggi maschili e femminili, sopportando la pena di tutti gli inferni. La quarta sezione, Death by Water, elabora il motivo ancestrale della morte per acqua. L’ultima sezione, What the Thunder Said, porta alla conclusione l’innesto del mito cristiano nei miti pagani prima richiamati, evocando una crocifissione. Alla struttura di base determinata dalla compenetrazione di due miti della fertilità (quello celtico del Re Pescatore che, avendo perso la virilità, trascina il suo popolo e la sua terra in una condizione sterile e improduttiva, e quello cristiano-medievale della ricerca del Graal), Eliot aggiunge innumerevoli derivazioni letterarie, mitico-religiose, favolistiche o fantastiche. Ash-Wednesday (1930), composto dopo l’assunzione della cittadinanza inglese e l’adesione alla chiesa cattolica d’Inghilterra, rappresenta il passaggio dalla Waste Land ai Four Quartets, ultima tappa del Se la grande stagione modernista comprende i decenni dagli anni Venti alla fine degli anni Trenta, lo sperimentalismo in letteratura non cessa tuttavia di esercitare un profondo influsso su molti degli autori attivi anche dopo la seconda guerra mondiale. In questa fase le innovazioni stilistiche e le preoccupazioni tematiche degli inizi del secolo continuano a influire su nuove generazioni di autori. In questa prospettiva, un esempio di grande importanza per originalità e innovazione è Under the Volcano di Malcolm Lowry. Quest’opera va considerata uno dei capolavori del romanzo inglese del ‘900, un romanzo insolito. Tranne il primo, ambientato il giorno dei morti del 1939, gli altri undici capitoli che lo compongono sono ambientati il 2 novembre 1938 in una cittadina messicana. La narrazione si snoda, come in Ulysses e Mrs Dalloway, durante un solo giorno in cui il lettore segue gli spostamenti, i pensieri e i ricordi del protagonista, un ex-console britannico, della moglie da cui è separato e del fratello. Il romanzo, la cui struttura è ricca di anacronie e slittamenti temporali, è incentrato sul tema duplice dell’autodistruzione e del tracollo della civiltà occidentale annunciata dall’imminente trionfo dell’esercito del generale Franco. Il romanzo modernista offre esempi di rilievo anche nella produzione in prosa di Samuel Beckett, specialmente nella sua trilogia Molloy, Malone Dies e The Unnamable. Più avanti, verso la metà degli anni Sessanta, sulla scena letteraria britannica emerge la figura tormentata di B.S. Johnson, altro esponente di spicco dello sperimentalismo narrativo e autore di romanzi popolati da personaggi cupi e dalle vite sofferenti, che in parte rispecchiano la sua personalità minata dalla depressione. L’apice del suo sperimentalismo è rappresentato da The Unfortunates, un romanzo composto da 27 capitoli non rilegati, che rappresentano i frammenti della vita di un amico dello scrittore morto di tumore a soli 27 anni. 2. Realismi Se la traiettoria modernista non si arresta con la seconda guerra mondiale, altrettanto vivace e fecondo è lo sviluppo della fiction realista. Dopo l’esperienza traumatica del conflitto mondiale, molti fra i letterati britannici sentono il bisogno di ritrovare i punti di riferimento fondanti della cultura, della storia e del paesaggio tipici della realtà nazionale e insulare. Così, in questo periodo si diffonde un genere di narrativa che si propone di fornire un ritratto verosimile e attendibile dei mutamenti della realtà sociale ed economica. La vena realistica trova espressione nei romanzi dei cosiddetti “giovani arrabbiati” degli anni Cinquanta. Le opere di questi autori sono generalmente ambientate nelle province, presentano descrizioni dettagliate del mondo delle classi lavoratrici e sono incentrate su vicende private intensamente vissute in cui emerge soprattutto l’insoddisfazione dei giovani nei confronti della realtà fortemente conservatrice dell’epoca. La ribellione degli arrabbiati si concretizza in figure di protagonisti maschili che si scontrano con un sistema retto da un establishment geloso dei propri privilegi. La loro insoddisfazione scaturisce dall’impossibilità di conquistare un proprio spazio in una società che li relega ai medesimi ruoli tradizionalmente ricoperti dai loro padri. Tra le opere di questo filone va citato il romanzo comico Lucky Jim di Kingsley Amis, incentrato su un giovane insegnante universitario di storia medievale che si scontra con i suoi superiori. È spesso indicato come il capostipite del campus novel, il romanzo ambientato nel mondo delle università. Tra le opere di impianto realista del secondo dopoguerra un posto a sé e un’attenzione particolare merita The Go-Between (1952) di L.P. Hartley. Già dall’incipit è evidente come l’opera, interrogandosi sulla distanza fra passato e presente, si sofferma sul problema della memoria e dell’accuratezza del ricordo. L’opera presenta una sofisticata struttura temporale. Nel presente del secondo dopoguerra, il protagonista, Leo Colston, ritorna con la memoria all’estate del 1900 in cui, alla vigilia del suo tredicesimo compleanno, è invitato a trascorrere le vacanze estive nella tenuta di un ricco compagno di scuola. Lì conosce la famiglia e i loro amici e rimane particolarmente affascinato dalla sorella Marian, nonché dalla figura del fattore Ted con cui lei ha un rapporto clandestino. I due amanti iniziano a servirsi di Leo come loro messaggero e il bambino, da innocente, inizia gradualmente a comprendere la natura del loro rapporto. Lo sviluppo narrativo si incupisce fino a culminare nella catastrofe finale, quando la scoperta in flagrante dei due amanti spingerà Ted al suicidio. Segnato da questa esperienza traumatica, da adulto Leo è alla ricerca della comprensione del passato e della capacità di perdonare chi gli ha causato una sofferenza. Recatosi a trovare in visita un’ormai anziana Marian, questa per l’ultima volta gli chiede di essere il suo messaggero e recapitare una lettera al nipote che si rifiuta di entrare in contatto con lei. Accettando di fungere un’ultima volta da “messaggero d’amore”, Leo riuscirà a superare i propri dissidi e a trovare pace. Impostato sullo scarto temporale fra passato e presente, il romanzo torna alle origini del ‘900, cosicché simbolicamente il trauma di Leo rappresenta le sofferenze dell’umanità durante un secolo segnato da disastri e carneficine come mai prima. Il valore allegorico dell’esperienza del bambino è poi ulteriormente arricchito da elementi simbolici ricorrenti, come quello della temperatura esterna che continua a salire o quello della magia e dell’astrologia. Il realismo ha una funzione essenziale in molta narrativa femminile a partire da uno dei romanzi di maggior rilievo dei primi anni ’60, The Golden Notebook di Doris Lessing, opera in cui temi cruciali della riflessione femminista come il lavoro, la maternità, la politica, l’amore e il sesso sono trattati dal punto di vista della realtà sociale e storica in cui si muove la protagonista e costantemente filtrati tramite l’interiorità e l’incessante stesura di vari “taccuini”. Negli anni ’70 ricordiamo poi Anita Brookner e Barbara Pym, spesso accostate a Jane Austen per il ritorno al “romanzo di maniere”. 3. Fantasy, distopie e magie Se tanto il romanzo modernista quanto quello realista del secondo dopoguerra sono spesso venati di componenti magiche o esoteriche, nello stesso periodo il romanzo di impianto prettamente fantastico e magico è una forma narrativa a sé stante di grande diffusione. Ne sono prova le opere del genere comunemente chiamato fantasy pubblicate nel dopoguerra, tra cui emergono quelle di J.R.R. Tolkien e C.S. Lewis, autori rispettivamente di The Lord of the Rings (1954) e The Chronicles of Narnia (1954). Stretti da un legame di amicizia e dalla comune professione di docenti di letteratura inglese presso l’università di Oxford, nelle loro opere questi romanzieri si dedicano alla creazione di nuovi miti e cicli mitologici per un’epoca che sta perdendo la concezione epica dell’esistenza e della storia umana. Altrettanto popolare sin dai primi anni del dopoguerra è il romanzo distopico, forma narrativa che si snoda attorno a riflessioni sul futuro intessute di commenti di natura politica e visioni catastrofiche. Fra queste opere la più nota è senza dubbio Nineteen Eighty Four (1949) di George Orwell, uno dei più celebri ritratti del totalitarismo, della disumanizzazione indotta dai sistemi, del controllo esercitato dai media sugli individui e sulle società intere. Allo stesso modo è nota la favola politica Animal Farm (1945), versione allegorica delle vicende della rivoluzione russa dalle origini all’epoca del totalitarismo staliniano. Negli anni Settanta, rifacendosi a Orwell, Anthony Burgess pubblica Nineteen Eighty Five, altra visione distopica in cui si immagina un’Inghilterra del futuro dominata da una tirannide di matrice sindacalista. All’interno di questo raggruppamento si possono far rientrare i tanti romanzi che rielaborano le modalità narrative e le tematiche della ricchissima tradizione gotica della letteratura inglese. Già negli anni Sessanta, John Fowles utilizza ampiamente i moduli narrativi, i temi e le atmosfere del gotico in The Collector, The Magos e in A Maggot. Negli anni Settanta, Emma Tennant intraprende un lavoro di reinvenzione dei classici del gotico pubblicando Faustine, in cui riscrive il mito di Faust in termini femminili, e Two Women of London, in cui reinventa Dr Jekyll and Mr Hyde denunciando le difficoltà a cui sono esposte le donne povere, sole e con figli. A partire dagli anni Ottanta, Peter Ackroyd inizia a pubblicare una nutrita serie di romanzi regolarmente ambientati a Londra che si addentrano negli aspetti più misteriosi della città. Tra le sue opere ricordiamo Hawksmoor, dedicato a una serie di omicidi avvenuti nel presente che misteriosamente corrispondono ad altrettanti crimini compiuti all’epoca della ricostruzione di Londra dopo il grande incendio del 1666. Il nome che nell’ultimo scorcio del ‘900 è stato forse più insistentemente collegato alla revisione del gotico, e per le cui opere spesso si usa la definizione di “neo-gotico”, è quello di Patrick McGrath. Fra i suoi romanzi che più marcatamente si rifanno agli stilemi del gotico ottocentesco vi è sicuramente The Grotesque (1989), la cui atmosfera cupa e macabra fa da sfondo al monologo interiore di un personaggio dal cervello malato. In questo come nei romanzi successivi, McGrath rielabora coscientemente, ovvero con un gusto tutto postmoderno per la citazione e la riscrittura, le convenzioni narrative e i temi del gotico tradizionale, trasformandoli e attualizzandoli. 4. Metafinzioni Dagli anni Sessanta in avanti acquisisce sempre maggior visibilità una delle correnti fondamentali della narrativa del secondo ‘900, quella dello sperimentalismo metafinzionale. Con “metafinzione” si vuole definire un modo narrativo (già presente in Tristram Shandy e Ulysses) atto a evocare un mondo fittizio ma che contemporaneamente procede ad analizzare i meccanismi narrativi che danno origine a questa illusione di realtà. In generale, la narrativa metafinzionale presenta e analizza i procedimenti del narrare per mostrare come tutto quanto pensiamo essere realtà altro non è che un intreccio di storie e narrazioni, ovvero di finzioni. Negli anni Sessanta, un esempio rilevante di questo tipo di romanzo sperimentale è Alexandria Quartet di Lawrence Durrell. I romanzi che compongono questo ambizioso e imponente complesso narrativo trattano di una serie di eventi situati ad Alessandria d’Egitto prima e durante la seconda guerra mondiale, visti da quattro prospettive distinte. Quest’opera si può ricondurre alle modalità della metafinzione, in quanto i singoli testi presentano momenti di riflessione sui procedimenti narrativi e stilistici. È con The French Lieutenant’s Woman di John Fowles che il romanzo sperimentale di metafinzione diventa un fenomeno letterario di più ampia diffusione tra i lettori. Il romanzo è ambientato nel periodo vittoriano e si incentra su tre personaggi principali: un ricco borghese, la sua promessa sposa e la “donna del tenente francese”, una figura enigmatica che si racconta essere stata sedotta e abbandonata da un militare francese di cui sta ancora aspettando il ritorno. La ricreazione dell’ambiente d’epoca e della cultura vittoriana è accurato e minuzioso, ma non per questo siamo in presenza di un romanzo storico nel senso tradizionale. Tra le modalità di scrittura che raccolgono il consenso degli autori contemporanei, un posto di rilievo spetta al pastiche, ossia quella mimesi talmente accurata di un modello narrativo tradizionale o di un’opera specifica da far credere al lettore di trovarsi in presenza di un originale. Questo tipo di reinvenzione del passato nelle prove migliori è sostenuto da una forte tensione ironica, dal sorriso dell’autore che gioca con il lettore e con la sua perdita progressiva del senso di prospettiva storica. Esempio di pastiche, traboccante di riscritture di poesia vittoriana, è Possession (1990) di A.S. Byatt. Il romanzo, quasi una summa dei tipici procedimenti della metafinzione, ha per protagonisti due critici letterari contemporanei che si mettono alla ricerca del legame insospettato tra una poetessa e un poeta dell’Ottocento, protagonisti delle sezioni narrative ambientate con minuziosa accuratezza nel passato. I suoi personaggi contemporanei sono coscienti di vivere una vicenda postmoderna e di comportarsi secondo le regole già scritte dell’esistenza postmoderna. Un’ulteriore modalità, inscindibile da quella del pastiche, è quella della riscrittura di un’opera o di una trama del romanzo classico secondo un punto di vista contemporaneo. Esempi recenti sono le riscritture di Emma Tennant o quella di Robinson Crusoe a opera di J.M. Coetzee, Foe. In questo ambito, in particolare, un ruolo importante è riservato all’intertestualità e alla citazione. Infine, un posto di rilievo nella produzione recente è occupato dalla metafinzione storiografica, di cui possiamo citare Waterland (1983) di Graham Swift, romanzo che mette al centro dell’attenzione la storia ma con il risultato di continui spostamenti di prospettiva cronologica che crea un senso di disorientamento e vertigine, perché ogni storia ne contiene un’altra più estesa o più ridotta. Ricordiamo anche The Passion (1987) di Jeanette Winterson, la cui trama è ambientata nell’epoca napoleonica e si distribuisce fra il francese Henri e la veneziana Vilanelle, le cui vite procedono parallelamente finché si incrociano tra le file dell’esercito imperiale. È necessario ricordare che la metafinzione storiografica non è l’unica forma di romanzo storico coltivata dagli autori contemporanei. Altrettanto ricco, infatti, è il filone del romanzo storico tradizionale in cui gli autori ricreano il passato in modo verosimile e credibile senza evidenziare le complessità insite nel proprio lavoro di costruzione narrativa e funzionale. Una delle principali rappresentanti di questo genere è Rose Tremain con i suoi Restoration (1989) e Music and Silence (1999). Il teatro di Samuel Beckett 1. Dalla narrativa al teatro Alla fine degli anni ‘40 lo scrittore irlandese Samuel Beckett si trovò a un bivio creativo ed esistenziale. Era alle prese con la sua opera narrativa più importante e impegnativa, la cosiddetta “Trilogia”, ma nel contempo sentiva l’esigenza di trovare spazi espressivi nuovi e diversi. Il senso di angustia creativa che lo scrittore sperimenta durante la composizione del magnum opus era dovuto in parte a fattori biografici, ma in buona parte anche alle stesse caratteristiche della sua scrittura narrativa in quella fase della sua carriera. Se Molloy, il primo romanzo, ha ancora una parvenza di trama, di tipo pseudo-poliziesco, nonché di una Letteratura, nazionalità e regionalismo 1. Lingua e letteratura nel discorso identitario W.B. Yeats espresse il suo disappunto su gran parte del teatro contemporaneo, in quanto privo della “emotion of multitude” e caratterizzato da una monotonia di azioni e tecniche drammatiche che lo fanno apparire povero di fronte alla “moltitudine” del teatro di Shakespeare o Ibsen. Nonostante oggigiorno numerosi autori scozzesi, irlandesi e gallesi scelgono di scrivere in inglese standard e non in una delle varietà regionali, continua a proliferare in inglese una produzione letteraria polifonica e multiculturale. La letteratura “inglese” ha ormai superato la priorità colonialista e imperialista di affermarsi nella sua unicità nazionale e linguistica, abbracciando una visione pluralista, intra-nazionale e multilinguistica. Molto prima degli scrittori provenienti o residenti nelle ex-colonie, intere generazioni di autori gallesi, scozzesi e irlandesi dovettero affrontare problemi e interrogativi sulla propria identità linguistica e nazionale, soprattutto in seguito agli atti unionisti, tanto che vari studi analizzano il cosiddetto “colonialismo interno” delle isole britanniche. Partiremo dalla Gloriosa Rivoluzione del 1688 come prima data cruciale nella nascita dell’idea di Britishness, oltre che delle reazioni nazionaliste che si tradussero nei movimenti cosiddetti regionalisti dal secolo scorso a oggi. Il nazionalismo è un’ideologia nata dopo la Rivoluzione francese che combina il patriottismo all’odio verso le altre nazioni e, di conseguenza, è quasi sempre accompagnato al colonialismo e all’imperialismo. Il regionalismo è un patriottismo su piccola scala in quelle regioni che si distinguono dal resto della nazione per identità e tradizioni. Talvolta può trasformarsi in movimento politico con l’obiettivo di raggiungere un’autonomia fiscale e amministrativa o sfociare in forme di separatismo e terrorismo. Il Galles fu annesso all’Inghilterra in seguito agli Atti d’Unione del ‘500. Il 1688 portò a un’ulteriore centralizzazione amministrativa nel Parlamento inglese e a un ruolo secondario del Consiglio del Galles. Per evitare la successione al trono di James Edward Stuart e lo spettro del cattolicesimo da lui professato fu promossa l’unione dei Parlamenti di Scozia e Inghilterra nel 1707, unione che suggellò la nascita della Gran Bretagna. Gli scozzesi tentarono di restituire al trono la dinastia Stuart attraverso le ribellioni giacobite del 1715 e del 1745, ma ormai i vantaggi economici e politici dell’unione avevano offuscato i sentimenti nazionalisti di gran parte della popolazione. L’Irlanda diede asilo al re cattolico James II, ma nel ‘700 era essenzialmente una nazione rurale di lavoratori cattolici sfruttata da signori protestanti e governata da un Parlamento filo-inglese. Così, nel 1690, i sostenitori del re protestante William III of Orange sconfissero definitivamente i seguaci di James II. Con la Rivoluzione francese gli animi sopiti degli irlandesi si risvegliarono, tanto da formare nel 1791 la United Irish Society (o Society of United Irishmen), un movimento riformista minato internamente dalla divisione tra cattolici e protestanti. Tre anni dopo, il movimento riemerse anche più militante, ma i ribelli irlandesi furono massacrati dall’esercito inglese nelle campagne repressive. L’Atto d’Unione del 1800 poneva fine alla cosiddetta “Protestant Nation” e sanciva la nascita del Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda. Questi processi storici suscitarono delle riflessioni su concetti quali “nazione” e “identità nazionale”. Secondo Benedict Anderson, l’idea di nazione è parte dell’immaginario di una specifica comunità di individui, quindi non si riferisce semplicemente a “the same people living in the same place”. Il canone letterario deve essere considerato contingente, temporale, relativo, in quanto prodotto di determinati fattori culturali ed economici in un determinato periodo storico. Applicando questa teoria alla letteratura “inglese”, la supremazia culturale, economica e politica assunta dall’Inghilterra sulle sue vicine nel corso della storia potrebbe spiegare perché la letteratura prodotta da queste ultime sia stata a lungo trattata come periferica e marginale. Con l’erosione, già da fine ‘800, del modello ideale di unità politica e culturale sotto l’insegna dell’Union Jack e con l’influsso crescente del Modernismo e del Postmodernismo, sia la società raffigurata da quell’insegna sia il canone della letteratura inglese si sfaldarono, facendo emergere le voci di altre “comunità immaginate”. L’Easter Rising del 1916 in Irlanda fu più che altro una rivolta contro l’impero della lingua inglese pur utilizzando quella lingua stessa come codice comune integrato in una nuova idea di Irishness. Nel ‘900 la lingua, così come la letteratura, inglese si frantumò in molteplici espressioni e forme, non solo attraverso il processo di decolonizzazione ma anche grazie all’assorbimento da parte dell’inglese standard di elementi locali. A partire dal secondo ‘900, l’uso della lingua inglese, in virtù di tali ibridazioni, non costituisce più un “problema” per gli scrittori irlandesi, scozzesi e gallesi, dato che quella lingua porta ormai anche i segni della loro storia. Nonostante esistano una “letteratura scozzese”, una “letteratura irlandese” e una “letteratura gallese”, per comprendere termini complessi quali Scottishness, Irishness e Welshness, bisogna esaminare il loro rapporto sia con la “letteratura inglese” sia con quella di altre realtà regionali o nazionali, in quanto è proprio la multi- e interculturalità a definire questi termini. Il ‘900 segna il passaggio dall’ “inner being” della cultura inglese al “being between” delle diverse culture sorte dalla disgregazione dell’organicità della tradizione inglese, quell’organicità che T.S. Eliot, paradossalmente e contrariamente a Yeats, considerava essenziale per lo sviluppo di una letteratura nazionale. 2. “Is there a Scottish literature?” Nel 1919 Eliot scrive un articolo dal titolo Was there a Scottish Literature?, nel quale relega la letteratura scozzese a una posizione periferica in quanto troppo divisa tra elementi regionali (come la lingua scozzese o il gaelico) e la tentazione di assimilare aspetti della cultura inglese dominante. Secondo Eliot, i poeti scozzesi che adottano la lingua inglese tradiscono l’autenticità della propria cultura, a differenza degli “Scottish Makars” (poeti scozzesi del ‘400 e ‘500). Secondo Eliot e il poeta scozzese Edwin Muir, a partire da Robert Burns (seconda metà del ‘700) intelletto e sentimento si sono dissociati a tal punto da impedire lo sviluppo di una letteratura “organica”, che fu sostituita da una produzione discontinua e frazionata per la presenza simultanea di elementi scozzesi, gaelici e inglesi. In realtà già da prima dell’unione con l’Inghilterra, la Scozia presentava una situazione culturale di continui interscambi tra diverse lingue e tradizioni. Queste diversità emergono anche nelle opere che concorrono alla formazione di un canone letterario scozzese, tra cui il poema epico nazionale The Brus di John Barbour (nel ‘300) sulle guerre d’indipendenza scozzesi fino alla morte del re-eroe Robert I. Inoltre, già da prima del 1707, la Scozia aveva aperto i propri confini all’influsso di altre culture, prima fra tutte quella inglese, per esempio con il matrimonio di James IV di Scozia e la figlia del re inglese Henry VII. Inoltre con la Riforma protestante nella seconda metà del ‘500, l’inglese divenne la lingua ufficiale nell’istruzione scolastica. Altrettanto stretti furono i rapporti con la corte francese, soprattutto con la dinastia degli Stuart. Durante lo “Scottish Enlightment”, un’ulteriore testimonianza dell’internazionalizzazione della cultura scozzese è data dalle numerose traduzioni in diverse lingue europee delle opere dei rappresentanti dell’Illuminismo scozzese (David Hume, Thomas Reid). Anche James Macpherson con The Work of Ossian e Walter Scott hanno contribuito a rafforzare l’immagine internazionale della Scozia. Le tensioni, contraddizioni e ibridazioni generate a partire dal 1707 non portarono soltanto alla schizofrenia culturale che Gregory Smith definisce “Caledonian Antisyzygy”, ma anche a una forma di “Negative Capability” creativa o “creative schizophrenia”. L’espressione “Caledonian Antisyzygy” si riferisce al carattere distintamente contradditorio della cultura scozzese. Smith analizza la presenza simultanea di elementi realistici e fantastici nella tradizione letteraria scozzese come una manifestazione della schizofrenia essenziale che la caratterizza. Muir legge tale dualismo come il risultato di una “dissociazione di sensibilità” fra pensiero e sentimento a seguito dell’unione con l’Inghilterra. Contrariamente alla “Negative Capability” di John Keats, la “Caledonian Antisyzygy” è stata a lungo associata con una condizione negativa e controproducente per la letteratura e l’arte scozzesi. Sarà Hugh MacDiarmid a volgere il segno da negativo a positivo negli anni ’20 e ’30 del ‘900, durante il cosiddetto “Rinascimento scozzese”. La Scozia vide comunque svilupparsi una letteratura fiorente, poliedrica e multilinguistica da parte sia di coloro che decisero di viverci per sempre (Robert Burns, Walter Scott) sia di coloro che scelsero l’esilio (Robert Louis Stevenson, Thomas Carlyle). La diaspora di tanti scrittori scozzesi dall’800 ad oggi suggerisce una definizione di Scottishness che esula dall’ancoraggio a una specifica zona geografica. Nel lungo monologo drammatico in scozzese A Drunk Man Looks at the Thistle (1926), Hugh MacDiarmid celebra l’eccentricità culturale, l’eterogeneità linguistica e le possibilità infinite offerte all’immaginazione creativa dalla commistione di tradizioni diverse. Dal cercare di resuscitare lo scozzese degli “Scottish Makars” negli anni ’20, negli anni ‘30 MacDiarmid passò a favorire il plurilinguismo, l’unione nella diversità e l’interdisciplinarità. La teoria di Eliot e Muir della “dissociazione della sensibilità”, della discordanza tra “lingua della mente” e “lingua del cuore”, tra intellettualismo e sentimentalismo, legata all’avvento del puritanesimo in Inghilterra e del calvinismo in Scozia, è confutata dall’opera di tutti quegli autori scozzesi che oggi scrivono in un inglese in cui l’esperienza individuale si fonde con la cultura di un popolo, la storia di una nazione e l’inconscio collettivo. Per tutto il ‘700 e l’800, nonostante alcuni momenti di cupe meditazioni metafisiche o di nostalgiche fughe verso il passato, la produzione letteraria scozzese è già contraddistinta da quelle forme eterogenee e polifoniche e da quel dialogo interculturale e interlinguistico propri della modernità e postmodernità. L’espressione “kailyard school” o “kailyard tradition” si riferisce ai racconti e romanzi, apparsi a fine ‘800 e ambientati nelle piccole comunità di contadini o tessitori, che divennero portavoce di valori opposti alla società industriale, quali la solidarietà familiare, la purezza etica e la rettitudine morale. Tra gli esponenti più rappresentativi troviamo James Matthew Barrie con il romanzo The Little Minister (1891). Per tutto il corso del ‘700, la tradizione vernacolare di coloro che considerano lo scozzese una lingua adatta all’espressione letteraria era affiancata dalla scrittura in inglese dei “literati” e da quella in gaelico o Scots Gaelic. Poeti come Robert Fergusson e Robert Burns scrivevano in un vernacolo letterario che anticipa il “synthetic Scots” di MacDiarmid, caratterizzato da toni e registri ora alti, ora bassi. Dietro all’apparente candore delle sue poesie, Burns nasconde un atteggiamento ironico, scrivendo sia poesie rurali sia in vena comico-satirica. Grazie alla sottile ironia e all’efficace mélange di inglese e scozzese, le poesie di Burns trovarono un accesso più facile tra gli intellettuali edimburghesi rispetto alle poesie più apertamente satiriche e realistiche di Fergusson, ritenute poco adatte a raffigurare la loro “Atene del Nord”. La poesia di Burns contribuì a formare il senso d’identità nazionale tanto quanto la poesia di James Macpherson. Per quanto diversi per temi e stilemi, Burns e Macpherson raggiunsero entrambi una fama europea, accanto a Walter Scott e R.L. Stevenson. La letteratura dell’800 ereditò la leggenda della pittoresca “land of romance”, che i romanzi di Scott contribuirono a diffondere ora stigmatizzando ora idealizzando il mito degli Stuart e la cultura delle Highlands. D’altra parte, però, Scott stesso aveva ben chiara la percezione del presente della Scozia e dei suoi conflitti interni, primo fra tutti il dilemma di una nazione “colonizzata” dalla tradizione inglese ma attivamente partecipe nell’impresa coloniale promossa dall’impero britannico. Anche il teatro registrò l’ambigua posizione degli scozzesi riguardo all’identità britannica, in particolare quel teatro spesso “illegittimo” che tentò di denunciare le aporie del sistema coloniale. Questi rapporti misero in crisi l’identità nazionale, ma stimolarono anche importanti dibattiti culturali e la produzione letteraria contemporanea. All’inizio del ‘900, Scott è stato accusato di aver inventato il mito delle Highlands, del kilt e della cornamusa, simboli in realtà forgiati dai “Lowlanders” tra ‘700 e ‘800. Tuttavia, questi simboli possono essere letti come una strategia di negoziazione con il “colonizzatore” dal significato simile a quello assunto dall’appropriazione da parte degli scrittori postcoloniali della lingua inglese adattata alle loro esigenze. La modernità di Scott consiste nell’aver messo in scena, attraverso il conflitto tra “loyalists” (difensori della tradizione) e “opponents” (sostenitori del progresso), l’eterna tensione dell’umanità tra desiderio di permanenza e aspirazione verso il nuovo. Questa contesa attraversa tutta la letteratura scozzese dell’800. Parlare di Irishness oggi è quindi problematico, soprattutto perché il paradigma antagonistico basato sull’opposizione tra similarità (Irishness) e differenza (Englishness) sta gradualmente lasciando il posto al concetto di ibridismo. In altre parole, a partire dagli anni ’70 del ‘900, grazie al cosiddetto Revisionismo in ambito storiografico e critico, la letteratura irlandese vuole sostituire all’impostazione di un’Irlanda falsamente idilliaca e unificata da irremovibili valori tradizionalisti quella di un’Irlanda dinamica, molteplice e poliedrica. Il Revisionismo ha però negato totalmente l’eredità coloniale dell’Irlanda, identificando l’Atto di Unione del 1800 come l’inizio della sua integrazione all’interno del Regno Unito nonché della sua diretta partecipazione all’espansione dell’impero britannico. Sono però inconfutabili alcuni atteggiamenti ostili degli inglesi, come la discriminazione della popolazione cattolica e la repressione violenta sia dei moti rivoluzionari sia delle proteste pacifiche. L’interesse di numerosi romanzieri irlandesi per il tema della violenza, dell’orrore e del macabro a partire dagli autori del gotico ottocentesco, tra cui Bram Stoker (1847-1912), affonda le sue radici proprio nella storia del colonialismo e della decolonizzazione irlandesi. Alcuni scritti contemporanei cercano un compromesso tra le istanze revisioniste e le formulazioni essenzialiste che rischiano di sfociare in un pericoloso nazionalismo. Per esempio, Roddy Doyle (1958-) mostra i limiti delle posizioni nazionaliste che tendono a sottolineare l’isolazionismo piuttosto che l’internazionalismo dell’Irlanda nel romanzo The Commitments (1987), il primo volume di una trilogia ambientata nell’immaginaria Barrytown, l’alter-ego del sobborgo di Dublino dove Doyle è cresciuto. Il titolo si riferisce alla band musicale formata dal protagonista e alcuni suoi amici, che si ritrovano per suonare musica soul. L’adozione della musica afroamericana genera un legame implicito tra i neri d’America e gli abitanti del nord di Dublino, che formano un microcosmo chiuso diventando un’immagine simbolica della nazione irlandese nel contesto europeo di quegli anni, prima della “Celtic Tiger” e dell’ingresso nella Comunità europea. D’altra parte, il collegamento con la tradizione soul può anche essere letto come una strategia per sottolineare l’importanza di certe aperture culturali contro un tipo di regionalismo malsano in quanto chiuso e autoreferenziale. In The Commitments e nei romanzi successivi, Doyle utilizza un linguaggio che è già di per sé come un “Third Space”, in quanto punto di contatto tra inglese standard, anglo-irlandese e slang tipicamente irlandese di etimologia gaelica. In Paddy Clarke Ha Ha Ha (1993), l’eponimo adolescente protagonista parla un inglese colorito da espressioni dialettali mentre i suoi insegnanti insistono sull’apprendimento e l’uso del gaelico, che viene tradotto in nota in inglese. In altre parole, il passato non deve essere dimenticato, ma non deve nemmeno diventare un ostacolo nell’acquisizione di conoscenze diverse provenienti da altre culture. Tuttavia, nel romanzo The Woman Who Walked Into Doors (1996), Doyle sembra quasi contraddire questo atteggiamento di apertura interculturale rappresentando una donna vittima della violenza del marito. Alcuni critici confrontano questa figura femminile con Kathleen Ni Houlihan, l’icona femminile del nazionalismo irlandese, ma può anche essere letta in chiave prettamente artistico-letteraria più che ideologica o politica. Doyle appartiene alla generazione degli scrittori della cosiddetta “New Dublin”, una Dublino che dagli anni ’80 vive un periodo di trasformazioni sociali e culturali talmente radicali che i suoi interpreti letterari non si riconoscono più né nel modello joyciano, per quanto già cosmopolita, né nella tradizione della Gaeltacht tesa a promuovere ossessivamente la lingua e la cultura gaeliche contro ogni contaminazione esterna. Questa posizione anti-nazionalista riflette la tendenza della critica postcoloniale nel condannare l’idea stessa di nazione-stato etnicamente e linguisticamente “pura”. Alcuni scrittori contemporanei identificano nell’imperialismo britannico l’origine del nazionalismo irlandese. Il discorso sulla nazione non scompare del tutto dal romanzo contemporaneo, così come non scompaiono i traumi della storia irlandese, il cosiddetto “complesso coloniale” dell’Irlanda che conduce a un senso d’inferiorità, d’insicurezza e di vittimismo. D’altra parte, però, gettando dubbi sulla tendenza a identificare l’Irishness con le tradizionali preoccupazioni per la nazionalità, la lingua irlandese e la religione cattolica, numerosi romanzi contemporanei sfuggono a determinate categorizzazioni di genere. Pur tentando di allontanarsi dall’influenza joyciana, la derivazione di certi presupposti e concetti dei romanzieri contemporanei è chiara. Doyle e altri scrittori irlandesi, tra cui John Banville e Colm Tóibín, si rendono conto che il loro punto di riferimento non è né l’Irlanda dei nazionalisti né la tradizione inglese nella sua continuità, bensì una cultura “inglese” liberata dai legami con le proprie origini e sviluppatasi in un contesto altro. Dagli anni ’60, la letteratura nel Sud vive un periodo di fioritura che raggiunge il suo climax nella cosiddetta “New Irish Renaissance” degli anni ’90. Sia nella prima generazione, rappresentata da Samuel Beckett, sia nella seconda generazione di John Banville, Colm Tóibín e Roddy Doyle, la tradizione ritorna attraverso una rivisitazione dei temi joyciani o della big house novel, ma accanto a una contraddizione in cui la dimensione privata e pubblica si sovrappongono e il linguaggio riflette l’ibridismo e il pluralismo della realtà rappresentata. La big house novel è una tradizione narrativa emersa nell’800 per rappresentare i rapporti di convivenza e i conflitti fra la classe aristocratica protestante e il ceto lavorativo prevalentemente cattolico. Il genere continuò a prosperare nel secondo ‘900, anche se fu rinnovato e sottoposto a sperimentazione. Contrariamente alla narrativa precedente, dagli anni ’60 le due tradizioni principali del realismo e dello sperimentalismo spesso convivono all’interno della stessa opera, come in Birchwood (1973) di Banville, un romanzo storico postmodernista spesso paragonato a The French Lieutentan’s Woman (1969) di John Fowles, in quanto presentano entrambi una dimensione autoreferenziale e metanarrativa e numerosi riferimenti a un modello principale: Thomas Hardy per Fowles e, per Banville, Maria Edgeworth, autrice del romanzo regionale per antonomasia Castle Rackrent (1800). D’altra parte, la fiction irlandese è sempre stata “anti-tradizionale”: basti pensare all’antiromanzo per eccellenza, The Life and Opinions of Tristram Shandy, Gentleman di Laurence Sterne. Nell’Irlanda del Nord, soprattutto in seguito ai “Troubles”, i romanzi diventano il principale strumento d’indagine politica. Gli autori erano abili a sfuggire al sensazionalismo e alla rappresentazione morbosa e stereotipata delle tragedie individuali e familiari che ritroviamo nel filone della troubles fiction. Colin Bateman si distingue all’interno di questa corrente per averne proposto una riscrittura in chiave ironica o parodica, come nel suo romanzo Divorcing Jack (1995). Tuttavia, nonostante la nuova pagina storica aperta dal Good Friday Agreement, le ferite del passato rimangono una costante del romanzo nord-irlandese. Sia nella Repubblica sia nell’Irlanda del Nord, nella poesia contemporanea i temi relativi alla nazione a alla tradizione emergono accanto a preoccupazioni legate alla contemporaneità, alla realtà dell’urbanizzazione e della globalizzazione. L’Irlanda rurale è riletta in chiave realistica e con tono disincantato da Patrick Kavanagh (1904-1967), erede della tradizione yeatsiana che si fa anche portavoce delle istanze joyciane nel tradurre il realismo psicologico dell’individuo immerso nel contesto sia rurale sia urbano, alla prese con l’incomunicabilità e l’emarginazione. In quest’ottica di rilettura della storia irlandese al di là dei miti e degli stereotipi rientra la demitizzazione dell’ambiente rurale nel poema The Great Hunger (1942) di Kavanagh. Tale rilettura della storia e dei miti irlandesi è fondamentale anche per il “Field Day”, cui parteciparono alcuni poeti che, sin dagli anni ’60, diedero origine a un movimento denominato “Northern Renaissance”. Il connubio tra passato e presente, tradizione e modernità, trova un’espressione straordinaria nei versi del premio Nobel Seamus Heaney (1939-), in particolare nella raccolta Station Island (1984), dove la tradizione gaelica, il modello dantesco e la contemporaneità si fondono senza dar luogo a contraddizioni o tensioni culturali. Paul Muldoon derivò ispirazione e non angoscia dal suo trasferimento in America, come dimostra nel poema-pastiche intertestuale Madoc: A Mystery (1990). La mescolanza di tradizione e innovazione trova espressione anche nel teatro irlandese contemporaneo. Soprattutto dalla fondazione dell’Irish Literary Theatre da parte di Yeats e Lady Gregory nel 1897, il teatro ha assunto un ruolo primario nella creazione dell’identità nazionale. Dopo il ventennio di stasi che seguì la proclamazione della Repubblica, dovuto soprattutto alla censura introdotta nel 1929 e abolita solo nel 1967, il teatro irlandese attraversò una stagione di grande rinascita e produttività. Nel 1969 Beckett ricevette il premio Nobel, nel 1966 fu inaugurato il nuovo Abby Theatre e nel 1968 il Lyric Theatre a Belfast: sono tutti segnali di una volontà di rinnovamento culturale e sperimentazione teatrale che culminò nel movimento “Field Day”. Al centro della scena permane ancora oggi il dibattito su quell’identità contemporaneamente regionale, nazionale e internazionale che l’Irlanda ha acquisito nel corso della sua storia. Così come nella poesia contemporanea, la traduzione di testi stranieri, insieme alla sperimentazione linguistica e formale, è oggi una delle preoccupazioni centrali dei drammaturghi e delle compagnie teatrali. A queste contaminazioni dall’esterno deve essere però affiancata la costante preoccupazione, soprattutto dei drammaturghi del Nord, per la situazione politico-culturale locale e gli effetti dei traumi della storia irlandese. Sia la produzione di Sam Thompson sia quella di John Boyd mostrano un interesse centrale per i conflitti sociali, politici e religiosi. Brian Friel, nel suo capolavoro Translations (1981), ritorna sul tema della crisi identitaria dell’isola identificandone l’origine nella colonizzazione inglese. Marina Carr ha rivolto la propria attenzione al contesto irlandese per denunciare la limitatezza di certe istituzioni e convinzioni obsolete. Un simile tono di denuncia caratterizza anche il teatro di Tom Murphy, le cui pièces esplorano le tensioni della società irlandese dalla prospettiva interiore dei personaggi intrappolati nell’incomunicabilità come gli anti-eroi del teatro dell’Assurdo. Gli scrittori irlandesi hanno la tendenza di sovvertire, ridefinire e ibridare i generi tradizionali e canonici, un atteggiamento che risale alle origini della letteratura irlandese, dall’epica in prosa medievale a Swift, Wilde, Joyce e Beckett. La tendenza alla trans-nazionalità, unita all’apertura socio-economica e culturale, rende la letteratura irlandese partecipe del multiculturalismo, multivocalismo e relativismo propri della condizione postmoderna. 4. Nazionalità e regionalismo in Galles Il termine “Wales” deriva dall’anglosassone welsche, ovvero “stranieri”, vocabolo con cui gli invasori designarono nel V secolo d.C. i Celti romanizzati. Furono poi i Normanni a occupare i sei regni gallesi, nonostante la resistenza opposta dalla popolazioni locali, fino all’annessione di gran parte del paese all’Inghilterra durante il regno di Edward I. L’imperialismo politico e culturale degli inglesi non frenò lo spirito patriottico locale, tanto che nel corso del ‘400 i nobili gallesi capeggiarono varie rivolte contro la corona inglese, fino a ottenere il primo Parlamento gallese e la fondazione di due università. L’annessione del Galles all’Inghilterra fu sancita de iure durante il regno di Henry VIII con gli Atti d’Unione, che proclamarono l’abolizione del sistema legale gallese e dell’uso formale della lingua celtica, sebbene la maggior parte della popolazione continuasse a parlare solo gallese. Il Galles si oppose anche all’anglicanesimo imposto da Henry VIII attraverso l’adesione al cattolicesimo, fino alla secessione dalla chiesa anglicana con la creazione della chiesa presbiteriana del Galles a inizio ’800. Nell’800, inoltre, nacque il primo movimento cartista e sindacale. Ebbero così inizio le proteste a favore dell’autonomia nazionale, che portarono alla fondazione del partito nazionalista, a una prima forma di devoluzione con la proclamazione di Cardiff come capitale autonoma nel 1955, e infine alla devoluzione del 1997, con la quale il Galles ottenne un limitato autogoverno attraverso l’istituzione dell’Assemblea del Galles. Il gallese è parlato ancora oggi da un’ampia fascia della popolazione, tanto da essere tuttora adottato da vari scrittori. In alcuni casi, l’apprendimento del gallese ha rappresentato una precisa scelta da parte degli scrittori in età adulta in quanto cresciuti in contesti familiari anglofoni. Nonostante l’assimilazione dell’inglese come codice letterario comune, la letteratura anglo-gallese registra più frequentemente rispetto a quella irlandese e scozzese la resistenza a ogni influenza proveniente dall’Inghilterra, come emerge nel romanzo How Green Was My Valley (1939) di Richard LLewellyn, un’aperta denuncia degli effetti dell’industrializzazione importata dagli inglesi. Nella narrativa più recente i riferimenti alle incursioni inglesi in territorio gallese sono nascosti all’interno di una narrazione di tipo allegorico e talvolta grottesco, come nel romanzo Stump (2003) di Niall Griffiths, una pulp fiction su due criminali da strapazzo di Liverpool in viaggio all’inseguimento di un povero alcolista gallese. L’atteggiamento eccessivamente nostalgico di Llewellyn nei confronti di una società rurale passata, già idealizzata nella letteratura gallese di fine ‘800, è messo in discussione da alcuni scrittori contemporanei, primo fra tutti Emyr Humphreys, che nel romanzo Outside the House of Baal (1965) mostra i limiti e i rischi dell’accanita difesa del patrimonio culturale gallese contro ogni ingerenza esterna rappresentando il conflitto generazionale. Nonostante la consapevolezza che la tradizione gallese rischia di sgretolarsi sotto il peso delle nuove esigenze della società moderna, Humphreys è portavoce di una generazione di scrittori che si oppone alla chiusura e al conservatorismo, pur avendo lui stesso scritto un romanzo e vari drammi in gallese. D’altra parte, la maggioranza degli scrittori gallesi continua a sottolineare e difendere il concetto di “comunità” contro l’individualismo imperante nella società moderna e industrializzata e contro le gerarchie