Scarica Riassunto manuale di storia del pensiero politico e più Dispense in PDF di Storia Del Pensiero Politico solo su Docsity! Riassunto manuale di storia del pensiero politico Indice Omero 2 Eschilo 2 Erodoto 2 Democrazia, oligarchia e tirannide 3 Augusto 4 La svolta costantiniana 4 Giovanni da Parigi 5 I comuni 6 Brunetto Latini 6 Tolomeo da Lucca 6 Remigio de’ Girolami 6 I glossatori 6 Il costituzionalismo 7 Henry Bracton 7 John Fortescue 7 Il puritanesimo 8 La rivoluzione di Cromwell 8 Livellatori 8 Gli zappatori 9 Libertini e Pascal 9 La corte 10 Baldassare Castiglione 10 Baltasar Gracián 10 La scolastica spagnola 11 Francisco de Vitoria 11 Francisco Suarez 12 Baruch Spinoza 12 L’assolutismo in Francia 15 I parlamenti 15 Bossuet 16 Pierre Bayle 16 Il liberalismo nobiliare 16 Il diritto naturale 17 Samuel Pufendorf 17 La Francia dell’illuminismo 17 Denis Diderot 18 Voltaire 18 L’illuminismo scozzese 18 Adam Smith 19 Ferguson 20 Thomas Paine 20 Kant 20 Fichte 23 I controrivoluzionari cattolici 25 Maistre 26 Bonald 26 Lamennais 26 Donoso Cortés 27 Liberalismo e positivismo in Francia 27 Henri Saint-Simon 27 Comte 27 John Stuart Mill 28 Spencer 29 Il darwinismo sociale 30 1 Omero Autore che prima dei filosofi del VI secolo forniva i modelli di virtù e le modalità di relazioni etico- politiche. Iliade e Odissea Strumenti di educazione dei giovani, basati sull’ideale aristocratico dell’eccellenza della virtù (areté). Da questi due poemi emergono però anche una forte fragilità del mondo e dei rapporti di potere. Infatti, al centro della narrazione dell’Iliade c’è una crisi di autorità, la quale analogamente può essere ritrovata pure nell’Odissea. -Virtù eroica: valore fisico e morale, che non solo era appannaggio di pochi, cioè i capi del ghenos, ma aveva caratteristiche che la destinavano a generare un perenne antagonismo tra gli eroi. Essa era identificata con la forza e l’onore (timé), inteso come eccellenza, ideologia aristocratica, che spinge a una perenne messa alla prova di se stessi per evitare il disonore o la vergogna. Il conseguimento della virtù tende al riconoscimento di una supremazia del singolo eroe ed è incapace di risolvere i problemi della pace e della giustizia. L’Iliade si conclude senza che il diritto sia ristabilito e nell’ambito del sistema di valori omerico non sembra esserci alcuna regola capace di stabilire il diritto. La morale eroica sembra inconciliabile con il concetto del diritto e pare sfociare in un conflitto tanto esterno quanto interno. Gli assetti di potere risultano fragili quando sono chiamati a funzionare dentro ad una comunità di molti re. Da una parte gli eroi hanno bisogno continuamente di legittimare la propria posizione di eccellenza con l’esibizione della forza; dall’altro lato però il potere ha bisogno di altre fonti di legittimazione rispetto alla potenza dell’eroe. -Dualismo: concetto che precorre tra la virtù individuale, formata da forza, coraggio e consiglio e la collocazione in soggetti diversi di queste due qualità, che non permette la completa legittimazione del potere. Dualismo e tensione che percorrono l’Iliade, dove Agamennone è dotato di uno scettro ma non di forza, Achille è un eroe pieno di forza ma deve essere temperato dalla saggezza di un altro. Lancia e guerra da un lato, parlare e convincere dall’altro; forza e onore da una parte, giustizia dall’altra. -Giustizia: occuperà una scena centrale con Esiodo, Solone e Sofocle. Città, convivenza e forme della socialità sono assicurate dalle leggi (nomos) e dal loro rapporto con la giustizia. Eschilo In Eschilo compare l’idea che la città è inseparabile dalla giustizia e questa ha la meglio su altri valori, sia eroici che domestici. Trilogia: Orestea (458 a.C.), tema della necessità di interrompere la catena causale colpa- giustizia-vendetta-vendetta e della vendetta-nuova colpa. Atena decide di creare un tribunale umano contro l’infinita ripetizione della vendetta-giustizia incarnata da un susseguirsi di omicidi che macchiano il ghenos di Agamennone. Nell’ultima tragedia della trilogia, le Eumenidi, si mostra che attraverso l’Aeropago, la contesa tra dei si avvia alla soluzione. Grazie all’intervento di Atena, il tribunale può emettere una sentenza di assoluzione nei confronti di Oreste, che lo strappa dalla furia delle Erinni e sancisce la capacità del nuovo diritto della città di essere interpretato come più forte del vecchio diritto del ghenos. La tragedia mette in scena l’istituzione della giustizia della città, che tiene il mezzo tra anarchia e dispotismo e si incarna nei nomoi, cioè le leggi che esprimono la saggezza giuridico-politica della città, la sua capacità di attenersi al criterio della misura, realizzando il bene comune. L’istituzione del tribunale rappresenta il luogo politicamente più denso di significati, in quanto è sacro e divino e mostra la volontà di Eschilo di sottolineare che c’è un rapporto tra l’ordine divino della giustizia e le istituzioni politiche di Atene. Erodoto Padre della storia e della politica in quanto presenta, discute e compara la classica tripartizione delle forme di governo. 2 riflessione che sarebbe stata connotata da un’eclissi della “scienza politica” e sostituita dalla teologia. Gli autori del pensiero politico medievale hanno in comune alcuni principi, tra cui il più importante è l’impossibilità della fondazione e legittimazione del potere al di fuori della finalità etico-religiosa che esso deve perseguire, e al di fuori di una sua legittimazione a partire dal disegno di Dio. Se da una parte Roma si cristianizza, dall’altra il cristianesimo si romanizza, prendendo sia il diritto romano che l’attitudine ad assumere nei confronti del testo biblico lo stesso atteggiamento di rispetto che sia attribuiva al Corpus iuris. Inoltre, se l’autorità politica era stata legittimata e rafforzata dal cristianesimo, essa era però anche potenzialmente criticata. Questa grande alleanza celava al proprio interno delle profonde contraddizioni, lasciando all’Occidente un dualismo tra poteri e autorità diverse, religiosi e laici. Questo dualismo fu, in verità, anche fonte di libertà, perché impedì ogni subordinazione del potere all’autorità religiosa, rendendo al contempo impensabile ogni autodivinizzazione ed estensione illimitata del potere. La donazione di Costantino La donazione di Costantino è un documento, “confezionato” nella metà del VIII secolo nella cancelleria pontificia, che ha lo scopo di legittimare e affermare la completa autonomia di Roma da Bisanzio (intento di Papa Gelasio). Tale documento si presenta come un resoconto con il quale Costantino, dopo aver ricevuto il battesimo e poco prima di morire (337), dona a Papa Silvestro e ai suoi successori il palazzo del Laterano, il diadema imperiale, l’intera città di Roma e le province italiane. In base a questo documento il papato dell’età gregoriana poteva legittimare la propria pretesa alla plenitudo potestatis e la presenza di un vero e proprio Stato della Chiesa, interpretandolo come la restituzione al Patrimonium Petri di quello che gli spettava. L’incoronazione di Carlo Magno nell’800 e la successiva stabilizzazione del rito dell’incoronazione degli imperatori da parte dei papi assumeva il carattere di una renovatio imperii e di una traslatio imperii. Giovanni da Parigi Punti chiave della corrente realistica: -profonda unità della respublica Christiana -struttura gerarchica incarnata dall’imperatore e dal suo riconoscimento della supremazia pontificia Giovanni da Parigi prende le distanze da queste idee, tanto che la sua opera può essere considerata come un annuncio della necessità di pensare alle entità politiche al di fuori del quadro della loro inclusione e subordinazione tanto alla Chiesa quanto all’Impero. Tractatus de regia potestate, origini e funzioni del “regimen regale” Capitolo I: afferma, secondo modelli aristotelici e tomisti, che il “regimen regale” deriva dal diritto naturale e dal diritto delle genti. Inoltre, riconosce il fatto che l’uomo è ordinato non solo al bene ma anche al “fine soprannaturale che è la vita eterna”, ribadendo comunque la necessità della compresenza di piani e livelli distinti nella vita dell’uomo. L’attenzione alla logica della distinzione è talmente forte che, anche quando riconosce la superiore dignità del potere spirituale, è subito costretto ad aggiungere che tale dignità non è maggiore in ogni ambito della vita. Inoltre, il potere spirituale e la potestà secolare (potere temporale) non derivano l’uno dall’altro, ma convivono l’uno accanto all’altro. Il risultato è la restituzione alla Chiesa e al pontefice del potere che gli appartiene. A questo punto, il mondo, che ora è autonomo, riceve un’attenzione nuova. Inoltre, egli ribadisce la necessità della pluralità dei regni e delle forme politiche. L’Impero e la sua unicità non convergono alla molteplicità degli organismi politici, che deve essere governata da una molteplicità di poteri che devono assumere le forme che meglio si adattano alla molteplicità su cui devono intervenire. Sulla difesa teorica della pluralità innesta un discorso riguardante l’autonomia del regno di Francia, secondo la tesi per la quale l’origine della Francia moderna proveniva dai Franchi, popolo libero e liberatore entrato sulla scena della storia di Francia dopo Costantino. In questo modo, essi erano non solo estranei alla logica della 5 “donazione”, ma erano anche all’origine di un ordine politico indipendente sia dalla Roma pagana che dall’Impero cristiano. I comuni In età romana, il nome “comune” designava il complesso degli abitanti di un municipio. Tale termine fu ripreso per descrivere, attorno alla metà del XII secolo, la nuova realtà istituzionale che caratterizzava l’Italia settentrionale e il nord Europa. Si trattava del fenomeno dell’autonomia politica delle città che definiva dapprima l’autonomia da altri poteri politici ed ecclesiastici, e passava poi a istituire le forme del governo della loro comunità. La sua evoluzione è stata caratterizzata dal passaggio da una fase in cui il potere di governo era affidato a una magistratura collegiale a una in cui si consolidò un accentramento di potere nelle mani di un podestà. I Comuni hanno rappresentato il ritorno a una pratica di governo ispirata all’autonomia, alla libertà e all’apprezzamento per l’autodeterminazione. I comuni costituirono tante repubbliche popolari, bisognose di giustificare la propria lotta contro l’Impero, contro quel potere politico universale che sembrava il solo a essere legittimo. Questa ricerca di giustificazione si manifestò attraverso due vie: -teorici della politica che sostengono la preferibilità di un governo popolare -teorici del diritto che sulla tradizione romanistica favorevole all’Impero innestano il riconoscimento della legittimità degli atti di quelle entità politiche minori che siano autonome e autosufficienti Brunetto Latini Ha difeso i concetti di libertà e di autogoverno, scrive i “Livres dou Tresor”, vasta enciclopedia del sapere del 1266, in cui distingue le forme del potere nei “tipi ideali” della Francia e dell’Italia. Secondo lui, gli abitanti della Francia sono sottomessi alla signoria mentre in Italia i cittadini eleggono i loro podestà e i loro signori. Egli propende a ritenere che solo la forma italiana sia quella veramente “politica”, opposta a quella “regale”. Inoltre, è possibile vedere nella sua opera alcuni caratteri del futuro repubblicanesimo. Tolomeo da Lucca Scrive tra il 1300 e il 1305 la continuazione del “De regimine principum” di Tommaso d’Aquino, introducendo una novità, secondo Tolomeo, il regime “politico” è il potere di più persone, cioè democratico, che si caratterizza sia per l’elettività delle cariche sia per la sottomissione dei governanti alle leggi. Remigio de’ Girolami Sostiene che per natura l’uomo tende al bene comune della sua città, a cui è unito dall’amore. Il bene comune della città è un ordine complesso e corporativo, il cui prodotto è la pace, supremo bene politico e morale. I glossatori La rinascita del diritto romano nella sua versione giustinianea, molto attenta a sottolineare le prerogative dell’Imperatore, aveva favorito le ragioni dell’Impero nelle sue controversie con il papato. I Glossatori, chiamati così per la loro abitudine a commentare con una glassa (commento) i testi del Corpus iuris, sembravano avvallare quella supremazia dell’imperatore su tutto il creato che si esprimeva sia nella possibilità di stabilire la legge sia di assumere atteggiamenti di tutore della stessa Chiesa. Le generazione dei post-glossatori, chiamata Commentatori, vede la figura di Bartolo di Sassoferrato, che riconosceva l’esistenza di “sovranità” anche in assenza di una concessione da parte dell’autorità imperiale. Egli, commentando il “Digesto”, lasciò trapelare l’idea che le città che non riconoscevano un superiore fossero ormai da intendersi come capaci di governarsi da sé. Come i sovrani dei regni potevano reclamare per sé la pienezza dei poteri, così i Comuni potevano affermare di essere principi a loro stesso. Le città del Regnum Italicum che non riconoscevano alcun superiore, costituivano un popolo libero, e detenevano sulla popolazione lo stesso potere che l’imperatore possiede in generale. Bartolo scrive anche il “De tyranno”, opera in 6 cui procede a distinguere il tiranno ex parte exercitii, cioè divenuto tale esercitando in modo ingiusto il potere, dal tiranno ex defectu tituli, che è tale perchè governa illegittimamente, senza averne titolo e diritto. Il costituzionalismo Il mondo barbarico e feudale danno più peso al popolo. In ambito germanico, la cessione da parte del popolo dei propri diritti al re non è una totale alienazione, ma deve essere vista come affidamento temporaneo e condizionato dell’esercizio del potere, che risulta popolare quanto a origine e consensuale e pattizio quanto al suo esercizio. L’humus germanica e la concezione medievale della legge furono alla base del costituzionalismo medievale. La legge doveva essere “scoperta”, non era mai in pieno possesso del legislatore ma costituiva la trama di rapporti razionali e fondati sull’anteriorità della giustizia rispetto alla legge. La legge era quindi concepita come iustum, giustizia e non come comando. Inoltre, il Medioevo è caratterizzato dalla presenza di un diritto che è espressione della società e della molteplicità degli ordinamenti presenti. Il carattere negoziale e pattizio del diritto e della libertà intesa come privilegio accordato alla collettività e alla città e della costituzione della stessa “sovranità”, emerge con chiarezza nella Magna Charta concessa dal re Giovanni Senza Terra ai baroni nel 1215. Henry Bracton Pubblica nel 1240 il “De legibus et consuetudinibus Angliae”, vasta enciclopedia del diritto in cui vengono affrontati vari argomenti attinenti alla vita sociale e privata quotidiana. Per Bracton solamente l’Inghilterra può vantare una legge senza legislatore, che pur essendo non scritta non smette di essere valida, esprimendosi nella consuetudine. Questo fondamento consuetudinario del diritto implica la rilevanza costituzionale e giurisprudenziale della consuetudine. Alle leggi viene attribuito un carattere di intangibilità poiché non possono né essere mutate né abolite senza il comune consenso. La molteplicità dei soggetti necessari alla promulgazione della legge immette un’istanza pluralistica all’interno della sua formazione, impedendo la sua arbitraria manipolazione. Bracton ricorda, inoltre, i limiti del potere supremo, che se deve essere superiore a ogni altra istanza politica, non deve dimenticare i propri limiti. Egli ribadisce che quello che fa di un re un re è reggere il regno secondo il diritto, e non il semplice regnare. Inoltre, mentre nella funzione di governare (gubernaculum) egli sembra non sottoposto e non sottoponibile a una istanza superiore, in quella della iurisdictio è vincolato al diritto e all’equità. Il re di Bracton è dunque un custode della costituzione e dell’equità naturale. John Fortescue Al centro del suo pensiero si pone la difesa, mediata attraverso l’aristotelismo e il tomismo, della differenza tra il “dominum regale” e quello “regale et politicum”. Egli sostiene che è decisiva l’origine differente della legge nei due tipi di forma politica. Mentre l’essenza del dominium regale (regno di Francia) è la coincidenza che si manifesta tra legge e volontà del sovrano, la natura della legge nel dominio “regale et politicum” implica un ruolo essenziale della volontà del cittadino. Questo partecipa attraverso i propri rappresentanti in Parlamento alla formazione della legge che vale in forza di tale consenso. Fortescue sceglie il secondo tipo di governo caratterizzato da un certo grado di consenso e dove si realizza una maggiore equità. Il re non può governare mediante leggi diverse da quelle a cui il popolo ha dato il proprio assenso. Rispetto al primo tipo di potere regale, che è violento, il secondo ha come principio giuridico la consuetudine. La preferibilità si basa sulla capacità di incarnare la superiorità del diritto di natura e la sua equità rispetto al diritto positivo. Fortescue riconduce l’attività di dire la legge all’interpretazione dei principi dell’equo e del giusto. Il costituzionalismo tende quindi a difendere la libertà attraverso una teoria dell’equità che costruisce un limite al potere di governo. Linea giuridico-politica che fu portata avanti da Thomas Smit e Edward Coke nel ‘500. Coke, in particolare, difende la tesi dell’intangibilità della common law da parte del re e della necessaria sottomissione della sua stessa prerogativa al 7 Egli analizza le tradizionali motivazioni all’obbedienza, affermando che sono due: si obbedisce al principe a causa della sua maestà e a causa della razionalità e giustezza sia dei suoi comandi sia delle leggi del regno. In Montaigne questa desacralizzazione delle motivazioni delle azioni dei principi procede con la critica della presunta razionalità delle leggi. Montaigne nega una fondazione razionale alle leggi, riconducendo le loro fonti ai costumi e alle usanze, eppure continuano ad apparire irrinunciabili perché senza gli uomini si divorerebbero tra di loro. Montaigne si pone all’inizio del cammino che sarà poi percorso da Hobbes, attraverso il suo pensiero si capisce che la teoria dell’assolutismo nascente, fa nascere dal proprio seno i soggetti moderni, i quali sono sottomessi al potere, ma al tempo stesso ne risultano la vera giustificazione e legittimazione. Inizia dai libertini il rapporto ambiguo fra il soggetto moderno e lo Stato. Successore di Montaigne fu Etienne de la Boétie, che scrisse in gioventù il “Discours sur la servitude volontaire” e che fu letto come un manifesto contro la tirannide della monarchia francese e come un invito alla ribellione. Egli mise al centro della propria analisi del potere il rapporto di complicazione tra soggetti e Stato. Ogni potere si fonda non solo sulla forza ma anche su un’obbedienza dei singoli. Pierre Charron scrive “La sagesse” in cui, tramite i consigli della prudenza, cerca di ricostruire l’ordine politico puntando sulla scissione tra interno ed esterno. Egli afferma che l’ordine sarà rifondato solo quando l’obbedienza al potere sarà esterna, dovuta e non intimamente motivata. Al contrario, affinché si formi un ambito politico, necessario ai soggetti per conservare la vita, si devono neutralizzare i conflitti, le credenze e riportare allo spazio dell’intimità e del privato tutto ciò che turberebbe l’ordine politico. Blaise Pascal è convinto dell’assoluta contingenza del diritto, segue la strada dell’obbedienza. Egli dimostra che alla base del diritto e del potere vi è la forza. Tuttavia, accetta totalmente il diritto e lo Stato, riconoscendoli alle logiche del mondo, alla sua sopravvivenza. La corte Si afferma in questo periodo la coppia del re con la sua corte. La novità si basa sull’assoluta centralità che all’interno di ciascuno stato assume la corte con il suo gravitare attorno al sovrano e al suo consiglio privato. Baldassare Castiglione Scrive “Il Cortegiano” in cui rappresenta la corte reale del duca di Urbino, questo testo vuole dettare le regole per la migliore formazione dell’uomo di corte, assegnando come specifica professione all’uomo quella delle armi, consigliando la lotta e la caccia, a cui unisce la grazia, la capacità di procurarsi un’eccellenza senza finzione. Naturalezza e grazia nell’esibire virtù e arte hanno anche il risultato di far sembrare il proprio sapere maggiore di quello che non è. Questa considerazione sulla logica del sembrare svela l’intrinseca politicità del Cortegiano, mentre Castiglione ne idealizza la figura. Dal Cortegiano nacque una letteratura capace di guardare alle relazioni politiche non solo a partire dai rapporti tra gli Stati e delle loro politiche di potenza, ma anche di quelle relazioni fra i singoli che si instauravano all’interno di una corte. Baltasar Gracián Scrive “L’Oracolo manuale” in cui il vero tratto caratteristico della saggezza del cortigiano e dell’uomo di mondo consiste nel sembrare. La prudenza consiste in una doppia strategia: la segretezza che impedisce agli altri di penetrare nell’intimo della volontà e dei pensieri dell’uomo prudente e la consapevole costruzione artificiale di una parvenza di verità. Nel rapporto concorrenziale con gli altri occorre assicurarsi tutte le posizioni di vantaggio possibili, non bisogna scoprirsi mai del tutto per non rendere i propri comportamenti prevedibili da parte di tutti gli altri. Da qui nasce l’invito a essere riservati, inoltre raccomanda di costruire una verità apparente e artificiale. Ma la legittimazione dell’inganno e della simulazione non equivale a fare del comportamento simulato quello più consigliabile perché anche la menzogna è prevedibile. Il 10 vero significato della prudenza è un invito all’innovazione, a comportamenti accorti e adatti di volta in volta al mutare delle circostanze. La scolastica spagnola Se in Europa, il pensiero politico del 1500-1600 era caratterizzato dalla Riforma e dai problemi della guerre civili di religione, in altri contesti, come l’Italia e la Spagna i punti chiave erano il tacitismo, la Ragion di Stato e l’antimachiavellismo. La scoperta dell’America e la colonizzazione delle Indie impose alla cultura iberica nuovi temi. Problematiche si riscontravano sia in ambito religioso che in ambito politico. Sul tema religioso si poneva una questione riguardante l’origine degli indiani d’America, se discendessero da Adamo oppure se si dovesse riconoscere legittimità al poligenismo, alla nascita dell’umanità da capostipiti distinti; altra questione riguardava il valore universale della predicazione di Cristo e della redenzione resa possibile dalla sua incarnazione. Sul piano politico si poneva la questione riguardante il problema di legittimare la scoperta dell’America e del dominio spagnolo su quei territori e sul popolo indigeno oppure di limitare i danni di quegli eventi (es. schiavitù) che turbavano le coscienze cristiane. Su queste questioni furono in contrasto personalità come Sepulveda e padre Bartolomé de Las Casas. La contesa fu risolta tramite la convocazione, nel 1550 dall’imperatore Carlo V, di una commissione che si concluse in un nulla di fatto. Per Sepulveda gli indios, con il loro comportamento selvaggio, possono essere considerati come “diversi” dall’umanità europea. Las Casas affidò alla sua “Brevissima relacion de la destruycon de las Indias” il compito di perorare la causa dell’abolizione della schiavitù per gli indios. Egli rovescia il senso dei dati antropologici insistendo sulla naturale mitezza e onestà di quelle popolazioni che sembrano create da Dio e descrivendo la bontà di tutti i loro costumi. Sostiene che gli indigeni sono esenti dalle malattie morali degli europei, mentre sembrano in possesso della ragione dell’intelligenza libera. La sua “relacion” viene redatta nel 1539 circa, quando alla questione degli indios aveva dedicato attenzione anche Francisco de Vitoria. Francisco de Vitoria Tiene un gruppo di “relectiones” all’Università di Salamanca dedicate al potere civile, ecclesiastico, al diritto di guerra e alla questione degli indios. Egli dichiara di volersi confrontare con il problema giuridico della legittimità del dominio esercitato dagli spagnoli sugli indios. Comincia ad affrontare la questione della legittimità al possesso. Gli Indios erano per diritto naturale e senza bisogno di grazia divina padroni dei loro beni. Egli passa in rassegna altre tesi, come quella secondo cui il dominio sugli indios è stato conferito agli spagnoli dall’imperatore o dal Papa. Vitoria sostiene che né per diritto naturale, né per diritto divino, né per diritto umano esiste un sovrano del mondo. Il diritto degli spagnoli al dominio delle Americhe è però legittimato da Vitoria tramite il diritto internazionale. È il diritto internazionale o il diritto delle genti che per Vitoria legittima il primo contatto tra gli spagnoli e gli indios. Vitoria legittima l’impossessamento spagnolo della terra degli Indios sulla base del fatto che questi avrebbero ostacolato il commercio spagnolo. Il dominio spagnolo in America nasce da una “guerra giusta” contro gli Indios per salvaguardare il diritto naturale al commercio da loro minacciato. Nella conclusione del trattato è presente anche la tesi che per completare la legittimazione del potere del re di Spagna sulle Americhe ci dovrebbe essere un atto volontario. Nel 1528, con la “Relectio” sul potere politico, Vitoria aveva individuato in Dio la sua causa efficiente, ma nella società e nella comunità politica la sua causa materiale. Il potere viene da Dio, ma non è Dio che sceglie i governanti. Per Vitoria, il processo con cui il potere si costituisce non è una delega temporanea ma una vera e propria alienazione, il grande ruolo assegnato alla volontà della maggioranza all’atto di fondazione dello stato viene meno quando il potere è stato già costituito. Tale oscillazione di pensiero può essere compresa a partire dall’esigenza di combattere il diffondersi delle teorie radicali e democratiche che erano portatrici di un’ostilità nei confronti di ogni autorità e potere. Di fronte a tale ostilità, Vitoria reagisce opponendo una linea di mediazione, che accetta da un lato elementi contrattualistici e dall’altro li delimita. 11 Francisco Suarez Al centro dei suoi interessi si pone il problema della vecchia Europa scossa dalla Riforma e divisa tra calvinismo e l’anabattismo. Si volge alla politica per dedurne i principi da una teoria generale dell’ordine e del diritto di natura. Nella “Defensio catholicae fidei contra anglicanae sectae errores” esalta e radicalizza il ruolo giocato dal diritto naturale come fondamento dell’autonomia originaria delle comunità politiche. Anche nel “Tractatus de legibus ac de Deo legislatore” del 1612 Suarez si presenta come un teorico dello stato di natura, inteso come una situazione originaria di assoluta libertà ed eguaglianza degli uomini. Suarez deve dare giustificazione del fatto che da questa libertà naturale si passa alla condizione politica fondata sul comando e sull’obbedienza. Ricostruisce il processo razionale in virtù del quale è avvenuta la transizione dalla società naturale a quella politica. Le leggi umane sono capaci sia di provvedere al bene comune, indicando la via per il suo perseguimento, sia di costringere gli uomini a realizzarlo. Per natura si è liberi, ma si è anche condotti a obbedire al potere. Essenziale è la coesistenza della necessità di trascendere l’originaria libertà e del principio del libero consenso; principio che è più volte ribadito nel caso di un governo monarchico. Comprende che c’è una contraddizione tra il fatto che il consenso è dato da individui singoli e che dalla somma delle loro volontà debba derivare una sorta di volontà politica generale. Per risolvere questa difficoltà, Suarez deve presupporre che lo Stato che viene prodotto come unità politica sia il frutto di una precedente unificazione morale. La debolezza del presupposto individuale nel giustificare la nascita dello Stato è superata facendo del popolo una universitas, dotata di una propria personalità giuridica e di una propria volontà, in grado di produrre l’unificazione politica e il potere sovrano in grado di conservarla e di tutelarla. Ogni stato è destinato a permanere e a non essere inglobato all’interno del potere universale dell’Impero. Il riconoscimento della legittimità della pluralità degli Stati non significa che il genere umano equivalga a un puro nome, ma consiste in una qualche unità, che li rende membri di una comunità internazionale dotata di un proprio diritto. Il diritto delle genti sarebbe stato ricondotto anche alla natura razionale e sociale tanto dell’uomo quanto degli stati. Baruch Spinoza Rielabora le suggestioni delle correnti dell’umanesimo rinascimentale, dell’eterodossia razionalistica ebraica di Maimonide e dei più recenti sviluppo del razionalismo filosofico-politico seicentesco in una concezione monistica e materialistica dell’essere. Sotto il profilo politico coglie e valorizza le implicazioni eversive dei populisti della dottrina di Hobbes, ma rifiuta di dichiarare chiusa la forma politica, aprendola al continuo intervento della prassi e della potenza della moltitudo e sottoponendo a una critica radicale il rapporto verticale tra sovranità e cittadinanza. La sua è una filosofia della vita e della gioia, l’uomo libero desidera direttamente il bene, cioè agire, vivere, conservare il proprio essere avendo come fondamento la ricerca del proprio utile. Si ricollega al Machiavelli dei “Discorsi” e apporta un contributo a una variante del pensiero repubblicano che si propone alla conciliazione del massimo di ordine con il massimo di “disordine”. Oggetto di indagine diventano quindi le forme della liberazione. Natura e politica In una lettera del 1674 formula la distanza che separa la propria filosofia da quella di Hobbes. In questa lettera non troviamo una rivendicazione del primato del diritto sull’autorità, ma in virtù dell’identificazione tra diritto e potenza, viene affermato il primato della potentia, intesa come l’elemento “costituente” della forma politica, sulla potestas, cioè il potere “costituito”. Il diritto naturale di cui Spinoza argomenta la persistenza all’interno della civitas non si definisce lockaniamente come il residuo di un’originaria alienazione, né come principio di limitazione e bilanciamento, presentandosi nella sua assolutezza, cioè nella democrazia. La continuità fra natura e politica costituisce l’esito di un percorso teorico che ridefinisce il significato dei due termini. Nel sistema della filosofia spinoziana matura (esposta nell’Etica) l’identificazione di Dio, 12 L’assolutismo in Francia Il 1624 rappresenta una data centrale nell’esperienza dell’antico regime in Francia, in quanto il cardinale Richelieu diventa membro ufficiale del Consiglio superiore, iniziando l’opera di centralizzazione e assolutizzazione del potere del monarca che verrà portata a termine dal cardinale Mazzarino sotto il regno di Luigi XIV. All’interno delle leggi fondamentali del regno, Luigi XIV rafforzò il proprio potere attraverso la creazione di un esercito permanente, di corti di giustizia regie e un forte controllo sulla Chiesa di Stato, secondo i principi del gallicanesimo. A ciò si aggiunse una politica doganale ed economica, di cui Colbert fu il principale artefice, improntata sulle teorie mercantilistiche, secondo le quali la vera ricchezza della nazione era determinata dalle manifatture, dall’accumulazione di metalli preziosi e dalla limitazione degli scambi con i concorrenti commerciali. Con la morte di Luigi XIV l’assolutismo inizia a mostrare segni di cedimento. Fu il sistema stesso dell’assolutismo, caratterizzato dall’invenzione e dalla moltiplicazione delle figure dei funzionari e dalla mancata convocazione degli stati generali a creare le condizioni della propria disgregazione. Lo stesso assolutismo creò le condizioni per l’affermarsi dell’individualismo, concetto alla base della rivendicazione dei diritti di eguaglianza di tutti i cittadini, non più sudditi, affermata dalla rivoluzione. Esso finì per promuovere un processo di livellamento fra i propri sudditi, attaccando la novità, i corpi intermedi e le corporazioni, e determinando l’idea che la giustizia, emanata dal re, doveva essere uguale per tutti, così come la pressione fiscale. I parlamenti Il sistema dell’Ancien regime era organizzato secondo due forme di potere: -il re: potere assoluto e indipendente da ogni altra autorità, detiene anche il potere giudiziario, che viene esercitato nella forma di justice retenue (proprio intervento diretto) o nella forma di justice déleguée, cioè attraverso i Parlamenti (corti di giustizia) -organi di consiglio: potere su delega del re Il primo parlamento ad essere istituito fu quello di Parigi nel 1454. I parlamenti avevano un potere delegato, ma le loro decisioni erano revocabili solo con un atto del Consiglio del re, cioè l’organo supremo di giustizia. Inoltre, hanno il diritto di rimostranza, cioè diritto di veto sulle decisioni del re in materia giuridico-giudiziaria, e il diritto di registrazione, secondo il quale ogni editto reale per entrare in vigore doveva essere registrato dai Parlamenti, partecipano all’amministrazione del regno. Questa complessa organizzazione determina un intreccio di funzioni di governo e di giustizia, che porta alla formazione di una sorta di contropotere. Contro i parlamenti furono istituite le figure degli intendenti di justice, police e finances. Nel 1614 con l’Editto di Saint-Germain fu sottratta al controllo parlamentare l’autorità amministrativa. Come risposta si ebbe, nel 1648, un periodo di Fronda parlamentare che affermò il ruolo dei Parlamenti come custodi delle leggi fondamentali e pose l’accento sul diritto di rimostranza. La Fronda terminò nel 1651 quando Luigi XIV iniziò il suo regno e nel 1673 revocò il diritto di rimostranza. Con la morte di Luigi XIV nel 1715 i Parlamenti riconquistarono il diritto di rimostranza. La crisi del XVIII secolo tra monarchia e parlamenti è sintomo della crisi dell’intero sistema politico d’Ancien régime, determinata da molteplici fattori come la crescita della popolazione, la mobilità sociale e l’aumento dei prezzi. Dal punto di vista politico fu una crisi di rappresentanza, in quanto sia i sostenitori della monarchia che quelli dei Parlamenti rivendicano il diritto a rappresentare la nazione francese. Lo scontro si pone tra un’idea di monarchia rappresentativa e una proposta di società corporativa. In entrambi i casi, l’idea di rappresentanza che si sostiene è quella di Antico regime, secondo la quale si distingue tra reprasentatio in toto e reprasentatio singulariter. Ciò che l’Ancien regime non riesce a superare e che ne determinerà il crollo è l’intreccio tra funzioni giudiziarie e funzioni politico-amministrative. La prima moderna assemblea parlamentare si avrà con la proposta di Sieyes di eleggere un’Assemblea nazionale. 15 Bossuet Principale teorico dell’assolutismo monarchico e del diritto divino dei re in Francia, scrive la “Storia universale”. Protagonista della storia è la provvidenza di Dio, che guida il destino degli uomini. Bossuet si basa sulla profezia delle quattro monarchie universali narrata nel libro di Daniele del Vecchio Testamento, in cui si prevede la successione dei grandi regni mondani. L’Impero Romano, in particolare, ha visto sorgere il regno di Dio, ospitando la venuta di Cristo. Il Sacro romano impero di Carlo Magno è giustificato in quanto attua la renovatio dell’Impero Romano. Per Bossuet, la monarchia francese è stata istituita per volontà divina al fine di conservare l’eredità romano-carolingia, e ha ereditato dal Sacro romano impero la missione di realizzare la volontà di Dio. Bossuet nella Politica nega il diritto di resistenza all’autorità, che ha una legittimazione provvidenziale, e afferma che l’autorità non può che essere ereditaria, regia e assoluta. Difensore dell’idea di monarchia assoluta, afferma l’impossibilità per l’uomo di resistere alla volontà di Dio e alla sua regalità. La monarchia è la forma di governo migliore e più naturale, in quanto esprime il governo di Dio sugli uomini e del padre sui figli. Nel monarca c’è l’immagine della grandezza di Dio, è un’autorità sacra, paterna, razionale e assoluta. Nella figura del monarca si concentra tutta la potenza dello Stato, il re detiene il diritto di giudicare e l’uso della forza da parte della Corona nei confronti del popolo e dei grandi del regno risulta legittimato in quanto è impossibile resistere alla sua volontà. Pierre Bayle Indaga sul concetto di ragione contrapposto a quello di autorità, politico o religiosa. Egli sottopone all’indagine razionale della ragione scettica la natura umana e i modelli teorico-politici. Il problema è la ricerca della soluzione del conflitto e della pacifica convivenza tra gli individui, affrontata dal punto di vista della questione della tolleranza. Su questo tema, le sue riflessioni derivano dal suo atteggiamento di scetticismo intellettuale e dalla revoca dell’Editto di Nantes. L’editto di Fontainebleau, con il divieto di matrimoni tra cattolici e protestanti sanciva l’emarginazione politica e sociale dei protestanti in Francia. Bayle riconosce la necessità per lo Stato che non ci siano disordini per motivi religiosi, essendo la religione uno dei principali motivi di guerra civile. Tuttavia, rifiuta la costruzione hobbesiana dell’uomo-lupo, sostituendovi una concezione più moderata, fondata sullo scetticismo libertino. Si può leggere l’opera di Bayle come l’anello conclusivo della speculazione libertina sull’uomo e sul rapporto fra ragione e coscienza, e come il tentativo di portare a compimento alcuni motivi del pensiero pascaliano, attraverso l’affermazione della distinzione fra coscienza e obbedienza. La tolleranza viene teorizzata per determinare la piena distinzione tra spirituale e temporale. Senza si arriverebbe alla rovina dello spirito evangelico e alla rovina dell’autorità politica, della sovranità. Egli propone uno Stato secolare monarchico, che sia al di sopra delle parti. Uno stato che deve mediare tra l’esigenza di limitare il culto pubblico, in difesa della pace civile, e di evitare la diffusione di dottrine socialmente sovversive e il rispetto della coscienza dei singoli attraverso la tolleranza. Riconosce che il legame tra Stato e religione è determinato da interessi di potere e di comodo. Il problema è quello di garantire la libertà di coscienza, intesa come salvaguardia del sentimento religioso contro l’idolatria provocata dalla lotta fra sette e cattolici. Egli rivendica la capacità di libertà dell’uomo che vive in società e che si serve dei propri egoismi come mezzo per costruire una società da un cittadino che sappia essere al tempo stesso sovrano e suddito. Nel 1678 pubblica il Commentaire philosophique sur ces paroles de Jésus-Christ, Contrains-les d’entrer, nel quale afferma la necessità del rispetto delle regole morali, facendo della religione una questione della coscienza del singolo. Il liberalismo nobiliare Corrente che si sviluppa contro l’assolutismo teorico di Bossuet i cui principali esponenti sono Fénelon, Saint-Simon e Boulainvilliers. Fénelon nella “Lettera a Luigi XIV” mette in guardia il monarca dai rischi della politica assolutistica. La sua opera più importante sono “Le avventure di Telemaco” in cui critica la politica di Luigi XIV e l’interventismo economico di Colbert, esercitato in nome del libero commercio, che deve essere esercitato in un’ottica evangelica di parsimonia e 16 frugalità. Saint-Simon criticò il peso che aveva assunto la burocrazia regia e opponeva l’idea di un potere per mezzo dei consigli, e una forma embrionale di decentramento amministrativo. Boulainvilliers difende il ruolo della nobiltà nella cogestione del potere nella storia della Francia contro il dispotismo amministrativo della monarchia e contro le pretese di un maggiore peso avanzate dal Terzo stato. Ciò che accomuna questi autori è la polemica contro l’esercizio da parte del re del suo potere. È da evitare è la tirannide, cioè la forma dispotica dell’esercizio del potere. Il potere del re viene riconosciuto come assoluto ma non come illimitato. La discussione tra i teorici dell’assolutismo reale e quelli del liberalismo nobiliare si svolse sul piano della legittimazione storica delle due tesi. Nacquero due tesi opposte: la thèse nobiliaire, sostenuta da Fenelon, che difendeva le prerogative dei Parlamenti e dei corpi costituiti nobiliari, fondandole nelle antiche tradizioni di libertà e di nobiltà dei Franchi. Dall’altra si pose la thèse royale che sosteneva la legittimità della monarchia assoluta francese sulla base della sua diretta discendenza dai re franchi e della continuità dell’imperium da Roma a Luigi XIV. Entrambe le teorie rivelano che nel 1700 emerge il nesso che lega la narrazione storica e la teoria politica. Il diritto naturale La Riforma protestante produsse, oltre che una territorializzazione della confessione religiosa, un profondo ripensamento del fondamento dell’obbligazione politica, che fu all’origine del processo di laicizzazione del diritto denominato giusnaturalismo. Il giusnaturalismo afferma l’esistenza di un diritto naturale, inteso come sistema di diritti soggettivi di norme di condotta intersoggettiva diverso e precedente da quello costituito dalle norme poste dallo stato. Tale sistema ha validità per sé ed è superiore al diritto dello Stato. Alla base dell’obbligazione politica viene posto il riconoscimento dei diritti naturali, intesi come diritti innati, l’esistenza dello stato di natura e la stipulazione di un contratto sociale, che è generatore dell’obbligazione politica nella sua forma statuale. Il diritto naturale moderno vuole essere esplicitamente la fonte di legittimazione dell’ordine politico. Samuel Pufendorf Tenta di dare un fondamento teorico all’assetto costituzionale dei territori tedeschi nel XVII secolo. Come Grozio ha una visione non negativa dello stato di natura ma vede la naturale socievolezza dell’uomo fondata sopra un principio di utilità, che è la tensione al benessere propria di ogni individuo. Tale principio è sancito dalla legge di natura. Nello stato di natura di Pufendorf esiste un elemento di tensione tra il perseguire la propria utilità da parte dei singoli e la socialità. Questa sensazione spinge gli individui a uscire dallo stato di natura. Spinti dall’istinto verso il benessere e dalla naturale ricerca della felicità, gli individui attraverso due patti e un decreto costituiscono la civitas, la società politica retta dal potere sovrano, realizzando quella socialità che nello stato di natura rischiava di rimanere solo un’aspirazione. Con il primo patto di unione gli uomini si uniscono, obbligandosi e costituendo il coetus, il corpo politico, che stabilisce la forma di governo dello Stato. Con il secondo patto gli individui delegano a una persona sola, il sovrano, il proprio potere di comando. Si introduce la differenza tra chi comanda e chi obbedisce all’interno dello Stato. Il potere sovrano è definito inviolabile e irrevocabile, ma non deve diventare un potere sul punto di trasformarsi in arbitrio. La fiducia che lega sudditi e sovrano deve essere basata su uno scambio reciproco. Con il secondo patto il sovrano garantisce stabilità e ordine in cambio di obbedienza alle proprie leggi. Pufendorf separa temporalmente i due momenti della costituzione del corpo politico e dell’istituzione della volontà sovrana, che in Hobbes si danno contemporaneamente al momento del patto fra gli individui di natura. La sottomissione indica la riduzione della volontà dei singoli a quell’unica volontà sovrana che si manifesta attraverso il comando razionale della legge. La Francia dell’illuminismo Opera di centrale importanza del periodo fu l’Enciclopedia, uscita in 17 volumi, dal 1751 al 1765, guidata prima da Diderot e d’Alembert e dal 1758 solo da Diderot. Partecipano tutti i più importanti esponenti del secolo. Nel discorso preliminare d’Alembert esprime lo scopo e l’obiettivo dell’opera. Cronologia, storia e geografia diventano le basi di una moderna scienza 17 funzionamento dell’ordine politico attraverso la produzione di ricchezza mostra che il paradigma hobbesiano della sovranità è in crisi. Nella sua opera ritroviamo un’indagine storica delle modalità complesse in cui si danno i rapporti fra singoli individui e fra individui e società all’interno dello Stato. I compiti del sovrano sono tre: -proteggere la società dalla violenza -proteggere ogni membro della società dall’ingiustizia e dall’oppressione -erigere e conservare opere pubbliche e certe istituzioni pubbliche Al sovrano non spetta sovrintendere all’attività produttiva dei privati. La presenza del sovrano permette l’esercizio di un sistema politico e economico, fondato sul lavoro e sul libero scambio commerciale, guidato dall’azione della mano invisibile. La presenza del sovrano sancisce il riconoscimento del primato che la questione economica assume per la scienza politica. Tuttavia, Smith non descrive da dove il sovrano trae e in che modo esplica la propria capacità normativa. Se alla base della società si pone il prudent man, che è il cittadino, allora con la figura del legislator Smith mostra l’utopia della perfetta razionalità politica moderna. Ferguson Tema centrale è lo sviluppo della società e il passaggio attraverso i diversi stadi di civilizzazione che ogni società compie. Nel “Saggio sulla storia della società civile” individua quattro stadi attraverso i quali le società evolvono e che vengono definiti in base alla struttura economica che in essi prevale. Attenzione rivolta allo stadio commerciale, osservato dal punto di vista delle dinamiche del lavoro e di divisione della società che il commercio produce. La moderna società civile è caratterizzata da un’ampia divisione sociale del lavoro e dalla diffusione di attività sempre più specializzate. Egli ritiene che il destino delle società commerciali possa essere sia di libertà che di tirannide. Perciò vede l’importanza di un public spirit che domini la scena politica ed espone una visione dinamica e conflittuale della politica. Da qui deriva la critica alla concezione giusnaturalistica del contratto e dello stato di natura. L’ideale repubblicano rimane un’aspirazione fondata sulla disposizione d’animo interiore alla virtù che prevede un’immediata traduzione in nuovi assetti istituzionali. Ferguson difende la monarchia temperata inglese. Thomas Paine Pubblica “The Rights of Man” in risposta alle “Reflections on the Revolution in France” di Burke del 1790. Già famoso nelle ex-colonie per l’opera “The Common Sense”, nel quale, sulla base del principio del senso comune, discute dei rapporti fra madrepatria e colonie, denunciando la tirannide della monarchia inglese. Pone la distinzione tra società e governo, la società è frutto dei bisogni dell’individuo, il governo nasce dalla perversità umana. Esso è un male necessario quando è perfetto, mentre è un male intollerabile quando è imperfetto. Il governo migliore è quello repubblicano e la missione delle colonie è di mostrare la possibilità di una nuova via segnata dalla libertà e dalla salvaguardia dei diritti umani. In “The Rights of Man” troviamo centrale il tema dei diritti degli individui e il concetto di uguaglianza, affermando il primato della costituzione, che è emanazione della volontà e della centralità del popolo sovrano, sul governo. La rappresentanza è intesa come democratica, vicina a quella giacobina, che esprime la vera volontà di tutta la nazione, in “The Age of Reason” rivendica la necessità della libertà religiosa. Kant La politica diventa oggetto di analisi tra la fine degli anni ’80 e la prima metà degli anni ’90 del XVIII secolo, in coincidenza con l’elaborazione della dottrina del contratto originario. Morale, diritto, politica Il pensiero politico di Kant, nonostante sia fondato sulla distinzione fra uomo noumenico e uomo fenomenico, pone in relazione la politica e la morale attraverso il diritto. La morale 20 kantiana si basa sulla perfetta coincidenza tra libertà assoluta e dovere incondizionato che trova espressione nell’imperativo categorico. Nella morale l’uomo è portatore di una volontà libera priva di contenuti specifici, consiste nel dovere di agire come se fosse “universale” e nel rispettare tale universalità (umanità e libertà razionale) negli altri, cioè di trattare ciascun uomo come se fosse un fine in sé, senza strumentalizzarlo. La morale è una regola universale che ha la propria origine nella ragione e da cui è assente ogni forma di riferimento a un fine empirico. Il dovere si configura come la forma imperativa della legge morale. Il soggetto morale, con la sua volontà libera, è orientato al dovere e non alla felicità. In quanto uomini noumenici essi sono liberi e indipendenti, ma essendo l’uomo anche fenomenico (dimensione empirica dell’esistenza), egli appartiene a due mondi: -è un essere razionale determinato dalla ragione pratica -è un essere sensibile determinato dalle inclinazioni naturali La storia politica è la dimensione della forza e della violenza, ma il principio della filosofia politica kantiana è che l’uomo ha una destinazione morale e deve agire in modo da realizzare l’idea morale di libertà. Egli intende indicare com’è possibile che l’obbligazione, che è campo della politica orientata alla morale, si organizzi secondo ragione. Kant sostiene che il potere può e deve essere sottomesso al diritto. Accanto all’obbligazione morale Kant introduce un’obbligazione politica che assume la forma del diritto, che regola la coesistenza degli individui. Il diritto deriva dalla ragione pura pratica intesa come la facoltà di agire secondo leggi universali ed è la forma e l’obiettivo della politica. Il diritto è legge, il cui comando è esterno, in quanto un ordinamento giuridico positivo è un ordinamento coercitivo. Inoltre, la politica ha il diritto come fine, nel senso che il suo scopo è di promuovere e realizzare una condizione nella quale sia riconosciuta a ogni individuo una sfera di indipendenza personale protetta dalle leggi. La politica è quindi orientata alla morale, benché non le spetti istituire le leggi morali. Stato di natura e contratto originario Kant propone una ricostruzione della genesi della politica per indicare come deve svolgersi, cioè secondo la ragione pratica (morale) e la ragione politica (diritto). C’è una doppia origine dello Stato: una reale, dalla forza, e una ideale, dal contratto. La prima è l’essere, la seconda è il dover essere. Kant sostiene che lo Stato deve comportarsi come se fosse nato dal contratto. Lo Stato organizza la libertà esteriore, giuridica e fenomenica. Lo stato di natura viene concepito come l’orizzonte del diritto privato, e cioè naturale, che è anteriore alla costituzione del diritto pubblico, ossia del diritto positivo dello Stato. Nello stato di natura manca un’autorità legittima che dirima le controversie in maniera giuridicamente vincolante. Se lo stato di natura si caratterizza per la sovranità delle volontà particolari, il suo superamento coincide con l’affermazione della volontà generale, ossia con una condizione in cui l’esercizio del potere è legittimato dalle leggi. Lo stato di diritto è la comunità razionale che per garantire a ciascuno la libertà esterna affida la decisione sul diritto al potere pubblico e non a persone private. Il potere pubblico decide attraverso la legge universale. Il contratto originario stabilisce una costituzione universalmente giuridica tra uomini che hanno deciso di rinunciare allo stato naturale e determina l’unione delle volontà allo stato naturale. Il contratto originario determina l’unione delle volontà particolari e private di un popolo in una volontà comune e pubblica, è un’idea regolativa di origine razionale. Anche per Kant il contratto ha luogo tra individui che si uniscono attraverso la comune sottomissione alle leggi, volontà che si esprime attraverso il principio di rappresentanza, secondo la regola della maggioranza. La rappresentanza ha la conseguenza che la legge è frutto della volontà universale e razionale del sovrano, il quale è obbligato a fare le leggi come se derivassero dalla volontà comune. Il popolo è tenuto a sottomettersi alla legge. Kant riconosce al popolo diritti inalienabili, questi non hanno il significato di diritti coercitivi, il popolo non ha diritto di resistenza. Con il diritto di resistenza ogni cittadino avrebbe il diritto di 21 affermare la validità pubblica della pretesa di diritto di sindacare l’attività del sovrano, ciò configurerebbe un secondo potere sovrano accanto al potere sovrano esistente, minando l’ordinamento costituzionale e rendendo instabile ogni costituzione giuridica. Al cittadino viene riconosciuta la possibilità di esprimere pubblicamente il proprio dissenso nei confronti del decreto del re, ma se non raggiunge lo scopo di far modificare la legge, l’obbedienza resta dovuta. Kant sostiene che il sovrano deve comportarsi come se fosse legittimato da un patto, perché attraverso egli si realizza la volontà generale razionale, ossia quella che è presente nel popolo. L’obiettivo è che il potere si conformi alla ragione e si orienti alla libertà. Il contratto ha valore regolativo, serve ad attuare l’idea stessa del diritto, il quale provvede a fare in modo che la volontà esterna di ciascuno possa convivere con la libertà esterna dell’altro in base a una legge universale della libertà. I singoli rinunciano alla libertà selvaggia dello stato di natura per riprenderla nella società civile come forma regolata e limitata da leggi pubbliche. Stato e democrazia Lo “Stato di diritto” è quello fondato sul diritto in quanto forma astratta e razionale all’interno della quale tutti gli uomini sono liberi ed eguali. Il diritto è l’unico bene comune cui lo Stato può dedicarsi. La politica è la pratica del diritto e il diritto rende possibile la conciliazione della politica con la dimensione. Lo Stato kantiano è quella forma di ordine politico che è costruito in modo tale da salvaguardare l’accordo possibile fra la libertà esterna e l’interiore riserva morale che costituisce l’ambito autentico della libertà umana. È uno strumento funzionale alla garanzia dei diritti soggettivi delle persone, quei diritti innati che vanno ricavati dalla ragione, alla quale le leggi positive devono ispirarsi. Lo Stato deve costituirsi in modo da garantire la libertà di ogni membro della società, come uomo, l’uguaglianza di ogni membro con ogni altro, come suddito, l’indipendenza di ogni membro di un corpo comune, come cittadino. Lo Stato deve impedire che l’uomo serva a fini altrui, l’obbligazione verso terzi deve essere libera e reciproca e tale da non intaccare la personalità morale. Il principio della libertà dell’individuo serve a giustificare la critica a un governo paterno, che non solo elimina ogni distinzione tra sfera domestica e società civile, ma calpesta la soggettività morale degli individui. Lo stato di diritto deve garantire l’uguaglianza davanti alla legge e deve offrire a ogni individuo l’opportunità di godere della propria indipendenza. La proprietà occupa un ruolo centrale perché ha la funzione di assicurare all’individuo il più ampio orizzonte possibile di libertà compatibile con la libertà degli altri. La proprietà, per Kant, preesiste allo stato e si fonda sul possesso, ha un carattere provvisorio, in quanto non è difesa dalla violenza altrui attraverso le leggi. Lo Stato nasce quindi per tutelare la proprietà privata e solo il proprietario assume la qualità di autentico cittadino. Anche se ognuno nasce come cittadino potenziale, è necessario che disponga di reddito, di merito o di sostanze. Quella kantiana è una prospettiva antidemocratica perché concepisce lo status economico o il censo come presupposto necessario per godere integralmente dei diritti politici. Struttura dello Stato: accoglie il principio della separazione dei poteri e distingue tra forma di Stato o forma del dominio, e forma di governo. Accanto alle forme politico-costituzionali affianca la classificazione delle forme di governo, ponendo l’alternativa tra forma repubblicana e forma dispotica. Il regime ideale è quello repubblicano, stato di diritto che si fonda sulla separazione dei poteri, mentre quello dispotico è caratterizzato dall’esecuzione arbitraria delle leggi e dall’uso della volontà pubblica come sua volontà privata. Nel regime repubblicano il vero potere appartiene al legislativo che può deporre o riformare l’esecutivo. Ogni forma di governo che non sia rappresentativa e non conosca la separazione dei poteri è una non-forma, ad esempio la democrazia è dispotismo (“Per la Pace perpetua”). Nella “Metafisica dei costumi” avvicina la democrazia a una forma di governo di tipo repubblicano, in quanto concepita come un regime compatibile con il sistema rappresentativo. La democrazia degenera in dispotismo quando vi è identità tra reggitore e legislatore, e quando la volontà unica del popolo pretende di valere immediatamente. La volontà del popolo può prendere forma solo attraverso lo scarto tra persona rappresentativa e popolo sovrano. 22 di controllo a cui spetta il diritto di giudicare. Funzione che porta l’istituzione degli efori, la cui funzione è quella di giudicare i titolari del potere di governo. Dato che la comunità non esercita più alcuna attività di governo diventa necessario istituire un organo di garanzia e di controllo. Di fronte a questo organo l’esecutivo è responsabile come se fosse dinanzi al tribunale dell’intera comunità. Gli efori, eletti a suffragio universale tra gli uomini più esperti, non dispongono di un diretto potere di intervento. Hanno la funzione di sospendere la validità di tutte le norme giuridiche. Senza l’appello degli efori il popolo non può convocarsi legalmente e non esiste come corpo sociale. Solo se tutto il popolo insorge come un uomo solo e viene organizzato dai dotti viene garantito diritto di resistenza. La rivoluzione è legittima, ma è una sospensione del diritto che è possibile solo grazie all’appello a un’istanza morale. La società e la nazione Fichte mantiene un’impostazione individualistica. Una società complessa comincia a delinearsi mediante il recupero dei ceti o delle corporazioni. Questa rivalutazione dei ceti si sviluppa nello “Stato commerciale chiuso” dove si registra una trasformazione del ruolo dello Stato, che diventa promotore di moralità e educatore alla libertà. A partire dal 1800 tende ad attribuire allo Stato un vero e proprio potere di costituire la società giuridica. Il ruolo predominante dello stato si manifesta sia nell’organizzazione del corpo sociale, sia nello sforzo di raggiungere l’autosufficienza economica, lo Stato deve organizzarsi come un tutto chiuso, sostituendo l’economia liberale di mercato e il commercio mondiale con un’organizzazione economica pianificata e con l’isolamento degli Stati. L’intervento dello Stato in economia ha lo scopo di garantire a ciascuno il diritto alla proprietà come diritto a un’attività e al lavoro. Ha il compito di sorvegliare l’intera produzione e distribuzione dei beni. Si rende necessaria un’azione educativa e pedagogica dello Stato volta alla moralizzazione degli uomini. Nei “Tratti fondamentali dell’epoca presente” la successione di Riforma, Stato moderno e Stato di ragione postrivoluzionario si accompagna a un’interpretazione dell’illuminismo come assoluta indifferenza per ogni verità. Fichte vede un possibile superamento di questa negatività attraverso una nuova positività morale. Nei “Discorsi alla nazione tedesca” il suo obiettivo è quello di utilizzare il tema della cultura indirizzandola verso il popolo tedesco, con il fine di promuovere una rinascita morale basata sulla presa di coscienza di una specifica identità nazionale. Fichte si rivolge al popolo tedesco in modo da ravvivare l’orgoglio nazionale e da riguadagnare l’indipendenza e l’unità nazionale. Il principio di nazionalità porta la tradizione illuministica della libertà e della ragione dal piano europeo a quello nazionale. Lo Stato nazionale tedesco può così realizzare la libertà. Unico compito dello Stato è l’educazione. Inoltre, istituisce una gerarchia in cui al vertice c’è l’Eterno, ossia la libertà assoluta, la nazione come involucro dell’eterno e lo Stato come strumento della nazione e ha il compito di realizzare lo Stato nazionale tedesco. Una volta che lo Stato tedesco avrà unificato tutto il popolo tedesco, la Germania potrà diventare custode e garante dell’ordine europeo. All’idea moderna dell’equilibrio degli Stati subentra quella dell’ordine delle nazioni. La politica ha moralizzato lo stato di natura ed ha concepito lo Stato come strumento ordinativo di coercizione esteriore e di momento necessario di avvicinamento alla completa libertà. I controrivoluzionari cattolici I controrivoluzionari contestano sia la rivoluzione che l’intero sistema di pensiero illuministico e rivoluzionario, a partire dall’assunto della fondazione naturalmente trascendente della società e del potere politico, il loro intento è di dimostrare il meccanismo instabile di distruzione e costruzione della ragione rivoluzionaria e di risalire a monte della crisi rivoluzionaria, per interpretarla alla luce di un rigido determinismo teologico-politico. Essi credono che Dio sia il fondamento ultimo della legittimità politica e che l’ordine politico sia incentrato su Dio. La storia si incarica di tramandare le forme come tradizione, in una sorta di eterna ripetizione e conferma. Per il naturalismo cristiano di questi autori, il potere unico trascende ogni possibilità di intervento autonomo da parte degli uomini. La coincidenza tra volontà di Dio, ordine naturale e storia li porta a negare che l’ordine politico sia costruibile attraverso elementi di libertà e razionalità che lo renderebbero un prodotto umano. Il principio della fondazione divina dell’ordine diventa una teologia politica deterministica. Per sovranità intendono che il sovrano è un diretto 25 ministro di Dio e il suo mandato è quello di conservare e amministrare un ordine che è intrinsecamente stabile, che è l’unico possibile e regolato dalla volontà di Dio e della natura. La sovranità non può quindi essere assoluta. Il potere non viene limitato attraverso gli strumenti classici del giusnaturalismo e del contrattualismo. Il diritto di resistenza è solo quello tradizionale dei ceti, che richiama il sovrano ai limiti naturali del suo potere, oppure attribuito al solo pontefice. I controrivoluzionari hanno compreso le dinamiche della loro epoca, come la necessità del potere e della religione per dare stabilità alla società e che la ragione moderna critica e distruttrice è portata a costruire un potere politico più forte e invadente di quello tradizionale. Maistre Sostiene che la ragione individuale è impotente e capace di produrre solo opinioni divergenti. Afferma che ci dovrebbe essere una religione nazionale, una religione politica, resa obbligatoria dal sovrano per motivi di coesione interna. Nel “Saggio sul principio generatore delle costituzioni politiche” ribadisce che il fondamento della politica è Dio e l’unica legittimità si giustifica per la lunga durata. La Provvidenza divina vuole che l’uomo sia incapace di governarsi, che la sovranità sia fondata sul sacrificio e sulla punizione. Nelle “Considerazioni sulla Francia” la Rivoluzione francese gli sembra la manifestazione storica dell’impossibilità che l’uomo con la sua ragione possa essere artefice della storia, che un ordine politico fondato sull’uomo sia instabile e impossibile. Nella rivoluzione ad agire è Satana, ma non è la spiegazione ultima che fornisce all’evento. Maistre sostiene che solo Dio è motore della storia. La rivoluzione è destinata ad affondare nel nulla, mentre l’ordine torna a regnare. La politica potrà essere sottratta dagli squilibri e dall’oscillazione tra assolutismo e ribellione solo se la sovranità riconoscerà la propria fondatezza in Dio e se accetterà i limiti nell’autorità del Papa. Bonald Centra il proprio impianto teorico sulla critica dell’astrattezza moderna e sulla teoria del linguaggio, visto come dono immediato di Dio all’uomo. La dottrina della “Legislazione primitiva”, rivelazione divina nel linguaggio, serve a negare autonomia alla parola e alla ragione umana e a dare spiegazione razionale ai rapporti politici. La ragione è un valido strumento per comprendere la logica sistematica di un mondo che l’uomo non può modificare. Nel potere politico prende forma una legge metafisica secondo la quale ogni rapporto tra gli enti deve essere il risultato di un’azione causale. La sua visione della società assume una spiegazione che obbedisce a un ritmo ternario: le triadi di Causa, Mezzo, Effetto e di Potere, Ministro e Suddito sono organizzate per cerchi concentrici. Per Bonald è il potere di conservare coesione sociale e legittimazione alla società. Ogni rapporto politico è concepito come un caso applicativo di questa regola ternaria che si presta a divenire funzionale allo sviluppo di un sistema della società. Esiste una società politica guidata dall’aristocrazia, e una società civile. La prima protegge la seconda. La fondazione religiosa e naturale della politica e dei rapporti di potere si manifesta nei parallelismi tra forme del dogma e forme della politica. Questa teologia politica, teorizzata nella “teoria del potere” consente di definire la rivoluzione come una manifestazione infernale e come la negazione di ogni civiltà e di ogni potere conservatore. Ma grazie alla rivoluzione la Francia ha potuto espellere da sé i vizi che la debolezza dell’autorità vi aveva lasciato crescere. Lamennais Pone al centro della propria argomentazione il senso comune, che per lui è il principio d’autorità, coincidente con la stessa ragione umana, la quale si dà una religione, per appagare il bisogno di certezze. La religione più perfetta è quella più razionale e che fornisce maggiori certezze all’uomo e alla società. La ragione moderna, che considera la religione come un proprio strumento, è una ragione irrazionale. Per Lamennais solo Dio è l’autore della società e solo il cristianesimo cattolico ne è l’unica garanzia di conservazione. Egli è convinto dell’instabilità delle istituzioni rivoluzionarie e della stessa Rivoluzione, di cui condanna la violenza e la prevaricazione economica e politica che attua nei confronti della Chiesa e dei più deboli. Matura l’ostilità alla gestione borghese della politica postrivoluzionaria e la convinzione che si debba cogliere nel presente l’opportunità di correggere le contraddizioni e le instabilità del mondo moderno e di dare vita a un vero e proprio patto cattolico. Egli vuole tentare di restaurare l’ordine politico cattolicizzando la rivoluzione. 26 Donoso Cortés Reagisce alla rivoluzione europea del 1848, opere principali: -“Discorso sopra la dittatura” -“Discorso sopra la situazione dell’Europa” -“Saggio sul cattolicesimo, liberalismo e sul socialismo” -“Lettera al cardinal Fornari” Punto di partenza è la legge naturale dell’ordine, cioè l’assunto che l’ordine politico possa essere fondato su Dio, che spiega e giustifica le strutture gerarchiche del dominio, sia nella famiglia, sia nella società e nello Stato. Condivide la spiegazione teologico-politica della storia moderna e delle dinamiche, messe in moto dall’individualismo protestante e dal suo razionalismo. Si tratta di un declino inarrestabile e nel “Discorso sull’Europa” prefigura una dissoluzione nichilistica per il vecchio continente. È consapevole che la rivoluzione del 1789 ha segnato il declino del principio di legittimità divina del re e che la rivoluzione del 1848 ha segnato la fine di ogni sogno di restaurazione del nesso tra trono e altare. Ma segna anche la fine delle illusioni della borghesia di potersi opporre alla criminalità del socialismo. È consapevole di ciò che i liberali ignorano, cioè la stretta connessione tra ordine religioso e politico. Non esistono possibilità di equilibrio tra Dio e Satana, come invece credono i liberali, la cui civiltà indecisa sarà spazzata via nel 1848 dalle forze mortali che i borghesi hanno evocato. Di fronte a questa minaccia, Donoso sostiene che al nemico assoluto si può rispondere solo con l’affermazione assolutamente sovrana, una decisione radicale in favore della dittatura cattolica. Liberalismo e positivismo in Francia Il liberalismo postrivoluzionario tende a porre l’accento sul fatto che i pericoli per la libertà possano derivare dalle leggi che dovrebbero garantirla. Le dinamiche politiche della rivoluzione hanno rivelato che libertà e democrazia possono entrare in un rapporto di contraddizione. Henri Saint-Simon Nella Francia della restaurazione viene individuato un modello alternativo al liberalismo moderato, cioè il positivismo. La società industriale non è solo fonte di problemi, ma è anche l’unica dotata di un principio positivo d’azione. In questo principio la società lacerata e disorganizzata può trovare una base di unità e di organizzazione. Questa prospettiva si inquadra all’interno di una filosofia della storia basata sull’alternarsi di epoche organiche a epoche critiche. Il progresso scientifico ha privato di legittimità l’organizzazione sociale del Medioevo e della prima età moderna. L’epoca contemporanea è bisognosa di un nuovo ordine, nuova organizzazione e nuova legittimità, riscontrabile nella filosofia positiva. Essa è la scienza che individua le vere leggi fondamentali della natura e della società. La politica si configura come una parte della scienza generale, un’articolazione particolare del nuovo sistema scientifico. Nasce il desiderio di una politica perfettamente conoscibile, certa e stabile, che affida alla classe degli intellettuali e scienziati il compito di procurare regole generali di condotta e di anticipare il trionfo politico del sapere. Questa prospettiva ha lo scopo di accrescere la ricchezza nazionale mediante la produzione e trova il suo principio costituente nella cooperazione sociale. La società industriale viene vista come un’età positiva, governata da grandi industriali e banchieri. Il principale problema si pone tra ceti produttivi e ceti improduttivi, i quali si contraddistinguono per i loro privilegi, la loro gloria e la guerra. Il governo si trasforma nell’amministrazione delle cose. Comte Comte prende da Maistre l’immagine della società medievale come espressione storica di una società organica e l’interpretazione della storia moderna come processo della sua progressiva 27