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Riassunto Manuale di storia del pensiero politico, Sintesi del corso di Storia Delle Dottrine Politiche

Manuale di storia del pensiero politico a cura di Calo Galli. Riassunto più completo possibile, Probabili piccoli errori di battitura.

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021
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Scarica Riassunto Manuale di storia del pensiero politico e più Sintesi del corso in PDF di Storia Delle Dottrine Politiche solo su Docsity! MANUALE DI STORIA DEL PENSIERO POLITICO I – GLI INIZI DELLA POLITICA MODERNA L’umanesimo politico L’inizio della contesa fra Firenze e Milano, che animò la polemica dei primi cancellieri della repubblica fiorentina, viene ora datato negli anni 20 del 200, quando a Bologna si produssero le artes dictandi, che si proponevano di insegnare la redazione di testi “persuasivi”. L’ars dictandi incontra la politica perfezione gli strumenti di propaganda, la retorica diventa potente mezzo di diffusione dei valori della cultura classica. Uno dei concetti fondamentali della teoria politica del periodo diventa quello della nobiltà della politica e della natura quasi divina dei reggitori e dei riformatori dello stato. Coluccio Salutati seppe incarnare il modello dell’intellettuale impegnato, che aderisce e difende un modello di vita attiva e politica non tradizionale. Egli sosteneva che i sapienti devono occuparsi della politica. Per lui la legge deve preoccuparsi del benessere di città, regni e di tutto il genere umano, rendendo possibile la libertà. Un programma di difesa repubblicana fu portato avanti da Leonardo Bruni, il quale ritiene che la virtù degli antichi sia sopravvissuta nella Firenze moderna, come si può vedere nel legame fra magnificenza architettonica, prosperità economica e libertà politica. L’esaltazione della libertà, in quanto indipendenza da poteri esterni e autogoverno interno, si accompagna all’apprezzamento delle virtù repubblicane che si possono riassumere nella dedizione alla patria e al bene comune. La virtù non è pensata come una disposizione innata ma come una forza interiore alla portata di chiunque la ricercasse. Questa filosofia della virtù ha profonde ripercussioni sull’ordine politico. Poggio Bracciolini critica la vita inattiva e l’ozio, esalta la virtù capace di costruire il proprio mondo e di meritarsi agi e ricchezze. Rappresenta sia una riprovazione morale sia una difesa al desiderio di possedere e accumulare ricchezze in cui s’incarna l’avarizia. Generalmente l’avaro è visto come un nemico interno della città, dedito solo a sé, per Bracciolini invece l’avarizia qualche volta serve perché è in sintonia con la ricerca dell’utile, è un’acquisizione di denaro che aumenta le possibilità di vita. Gli avari e più in generale i ricchi sono di grande utilità per i ricchi e per lo stato. L’esaltazione dell’attività e del successo mondano continua con Matteo Palmieri e Leon Battista Alberti, il primo crede che la vita solitaria sia meno elevata di quella civile, il secondo ritiene che sia necessario unire la ricerca dei beni materiali con quella dell’onore e della virtù, in una vita privata capace di dispiegarsi nella dimensione sociale. L’Alberti sostiene però che la dimensione sociale non riesca più a confluire in quella politica, il privato si afferma come un valore capace di fronteggiare la dimensione pubblica. La “scelta fra Cesare e Bruto”, rimane per gli umanisti, sostanzialmente sempre aperta. Una buona parte si schierava dalla parte di Cesare, Coluccio Salutati apprezza il principe e la sua capacità di interpretare i bisogni profondi della società, certo, la tirannide rimane per lui contraria ad ogni valore ma è più complessa e sfumata la questione di chi fosse stato originariamente investito di un legittimo titolo all’esercizio del potere di governo, ma poi si fosse comportato tirannicamente. Egli da grande rilievo al tema del consenso, sembra vedere nel formarsi dei principati un qualcosa di positivo e un rimedio ai mali promossi dai partiti e dalle fazioni, dietro al principe può scorgersi il consenso del popolo. Cesare non fu mai in questo senso, un tiranno. Nascono da questo momento tutta una serie di trattati sul principe, guida suprema dello stato che legittima la sua preminenza grazie al possesso di virtù mondane che gli provengono più dalla meditazione sulla storia antica e moderna che dai modelli biblici. Machiavelli Egli scrisse le sue opere solo una volta allontanatosi dalla vita politica. Per lui la logica delle cose del mondo è tutta interna alle cose stesse, e questa logica è l’ineliminabile presenza della contingenza nelle vicende umane. L’assenza dell’ordine dell’essere assume il nome di fortuna, termine con il quale si manifesta la sua convinzione che la storia non obbedisca al disegno provvidenziale cristiano ma sia un ciclo di accadimenti che l’uomo non può controllare. L’unico modo per dare un senso al trionfo della contingenza è l’agire politico virtuoso che si oppone alla fortuna. Il caso e i modi per arginarlo costituiscono uno dei problemi su cui Machiavelli più si concentra, si interroga inizialmente sui motivi per cui lo stesso tipo di azioni a volte giova ed altre no, concludendo che il successo derivi dalla coincidenza della natura dei tempi e della natura degli uomini. Chi è tanto saggio da conoscere i tempi, e tanto abile da modificare la propria natura per conformarvisi può veramente fare la differenza a livello di potere. I Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio sono strutturati in tre libri e divisi secondo l’intenzione di discorrere prima delle cose accadute a Roma per consiglio pubblico, poi di quelle che il popolo romano fece all’esterno ed infine delle azioni degli uomini “particulari”. Machiavelli legge la storia di Roma in controluce rispetto ai problemi di Firenze e alle possibili alternative rappresentate da Venezia. I problemi del presente entrano nei discorsi tramite due vie: la prima si può cogliere nella riflessione sulla crisi della repubblica romana sul cui sfondo appare Firenze oppure nell’illustrazione della crisi finale del vivere libero e la necessità di entrare nei modi cattivi, la seconda è costituita invece dalla tensione tra l’esemplarità degli antichi e la loro inattualità. Egli si chiede come mai esista una pluralità di forme politiche e riconosce dietro ciascuna degli umori e una facilità di ingresso nel circuito della degenerazione. Ciascun umore da solo può dare vita ad una sola forma politica che se è buona è anche breve e se è cattiva è instabile. Così avviene che il principe (buono) si faccia tiranno (cattivo), che questo venga sconfitto dagli ottimati (buoni) e che questi si facciano poi oligarchi (cattivi), che questi vengano abbattuti dalla repubblica popolare (buona) e che questa si trasformi in licenziosa, pronta ad essere governata da un nuovo principe, in un infinito circolo. Il pensiero di Machiavelli si apre alla considerazione della fragilità degli organismi politici sottoposti alla logica del mutamento. Il movimento circolare viene proiettato anche a livello internazionale. Machiavelli ricorda il suggerimento di certi pensatori di adottare un sistema costituzionale misto, la mescolanza degli umori risponde al tentativo di interrompere il ciclo delle transizioni. Rompendo con la tradizionale idea che la concordia si identifichi con il bene politico, Machiavelli assegna al conflitto e alla disunione un valore positivo rendendolo direttamente motore della politica stessa. A Roma il conflitto fu portato sul livello pubblico e tenuto sotto controllo dal tribunato della plebe, se Sparta e Venezia hanno posto la guardia della libertà in mano ai nobili, Roma la affida alla plebe. Per lui questa scelta fu opportuna poiché i desideri della plebe sono naturalmente compatibili con il diritto e con la libertà di tutti ed anche perché la politicizzazione della plebe comporta “milizia”. Questa scelta filopopolare non si basa su un’ideologia che prevede la naturale bontà del popolo ma sul riconoscimento al popolo di minori possibilità di usurpare la libertà e l’uguaglianza, i nobili infatti per le loro risorse economiche sono più pericolosi in questo senso. Non trascurabile è anche la preferenza di una repubblica volta all’ingrandimento militare, il popolo infatti deve essere armato. La certezza di Machiavelli è che un organismo politico per rimanere sano deve incanalare le proprie energie conflittuali dentro meccanismi istituzionali, perciò non si deve neutralizzare il conflitto interno perché di riflesso di spegnerebbe ogni energia politica. L’unità della forma politica rimane però un bene, nel caso di Roma l’unità era garantita non solo dalla costituzione ma anche dalla religione che aveva assunto un significato civile e non privato. A partire da ciò Machiavelli dà vita ad un nuovo circolo virtuoso: quello che lega una religione così intesa ai buoni ordini e questi alle armi e queste al successo complessivo della repubblica. Ma la virtù politica è fragile, la corruzione è l’insorgere della malattia nel corpo politico, è il disprezzo delle leggi e la ricerca del bene di una Stati moderni era sufficiente a far guardare con preoccupazione alle sorti di Firenze che incapace di fronteggiare gli eventi e di porre argini allo strapotere della fortuna. Occorreva dunque restituire la guida della cosa pubblica a quella classe ottimatizia depositaria della saggezza e della prudenza. Ragionando sui modi per organizzare la libertà, Guicciardini indirizza la sua attenzione al problema del Consiglio che dovrà senza dubbio essere grande, composto da tutti quelli adatti alla cittadinanza; essere giudice delle leggi nuove o della correzione delle vecchie; occuparsi di tutte quelle cose che rendono sicura la libertà. Ma ciò non significa che il Consiglio debba essere il motore della vita politica dello stato, infatti Guicciardini è convinto che le cose gravi importanti e difficili non potrebbero essere affidate al Consiglio, perché lì non possono essere trattate né in modo segreto, né rapido, ma soprattutto non competente. Il centro dell'iniziativa politica deve dunque essere collocato in altri organi ristretti. Apprezza l’idea di un gonfaloniere a vita (repubblica di Venezia), accompagnato però da istituzioni capaci di controllare la sua autorità affinché non diventi tirannica e pericolosa per la libertà. Guicciardini immagina quindi che egli abbia al suo fianco gli uomini più savi della città riuniti in un consiglio a vita. Guicciardini ritiene legittima l’esigenza dell’uguaglianza e altrettanto legittima l’esigenza di vedere riconosciuta la differenza dei gradi fra i cittadini. Uno stato ben formato darà soddisfazione ad entrambe le parti lasciando aperto l'accesso al cursus honorum e sottraendo la totalità delle decisioni politiche al Consiglio grande. La crisi della prudenza, nel tempo si nota un profondo mutamento di natura politica e intellettuale. Si evidenzia un'attenzione all’ insuperabile varietà degli accidenti, che si ripercuotono inevitabilmente negativamente sulla stessa pensabilità del concetto di prudenza. Questo è il nodo teorico che emerge con chiarezza, è impossibile il prevedere razionale e l'azione conforme alla regola e di conseguenza si segnala una sorta di inutilità pratica del sapere dei savi, della prudenza e dei prudenti. La prudenza risulta indebolita ma non interamente corrosa, da sola non basta ma unita alla forza e alla fortuna, può ancora giocare un qualche ruolo. Il primo elemento dell’antropologia di Guicciardini consiste nel tenere un atteggiamento dubbioso e sospettoso verso le apparenze, nel non avere piena fiducia nelle promesse, nei trattati e nelle alleanze; il secondo individua la trama razionale della politica solo nei moventi soggettivi dei singoli. Impigliata tra possibilità della previsione razionale e logica del 'caso per caso', la prudenza non riuscirà così mai a strutturarsi secondo una regola, ma sarà sempre presentata insieme al caso e alla fortuna, mai protagonista degli eventi politici. II – LA RIFORMA Erasmo Erasmo dominò la scena culturale del primo ventennio del Cinquecento. Convinto che fosse possibile operare una mediazione fra la saggezza pagana e la fede cristiana lottò tenacemente sia contro un cristianesimo asservito al mondo e ai suoi valori, sia contro un mondo insensibile al messaggio cristiano; proponendo una totale renovatio di società e stato. Emblematica nel suo ragionamento è la figura del sileno che con la sua differenza e contraddizione tra esterno e interno, diventa il pretesto per invitare a guardare più in là delle apparenze. Erasmo elogia la povertà e l'umiltà ma attacca anche i valori decaduti della nobiltà, della regalità e anche del sacerdozio, che dal semplice prete al papa, sembra dimentico della propria missione e attaccato ai beni materiali. L'amore per l'unità dei cristiani e la volontà di fondare una politica evangelica, lo portano a stigmatizzare la guerra come emblema del male assoluto e radicale. La Querela pacis si presenta come una vera e propria summa di un ragionato pacifismo. Contro la guerra stanno sia l'evidenza dell’unità del genere umano, sia l'insegnamento del Cristo. Gli orrori della guerra di cui parla non sono solo quelli “tradizionali” ma consistono anche in una generale e negativa trasmutazione dei valori, la guerra infatti genera l'indifferenza religiosa, di conseguenza non può essere conciliabile con il cristianesimo, da un lato quindi attacca la pratica della guerra cristiana e dall'altro critica il presunto valore positivo della guerra, il concetto di guerra giusta. A questo proposito, Erasmo mostra la differenza tra la riparazione di un torto tra i privati e la presunta riparazione del torto tra Stati. Nel primo caso, un'azione giudiziaria prende di mira un singolo per salvaguardare la collettività, nel secondo, invece, l'intento di punire qualcuno, talvolta uno solo, è soddisfatto solo attraverso la tribolazione di migliaia di innocenti. Nelle idee più tarde non c'è posto per la guerra, se non come sua stessa esorcizzazione, la guerra dev’essere l’ultima spiaggia per il principe. L'altra faccia della medaglia è rappresentata dal peso conferito all'analisi della tirannide, lato negativo della regalità. Partendo dal presupposto che nella sua epoca si giungeva al principato non tramite l'elezione, ma per nascita, Erasmo capisce che si può influire sulla politica solo se si riesce a operare in senso pedagogico sul principe. Il principe cristiano va per prima cosa legittimato tramite l'esibizione dei titoli che hanno caratterizzato l'esercizio del suo potere. Con questo criterio di una legittimazione a posteriori, Erasmo sembra voler accettare la casualità del potere, e al contempo sottolineare come non sia esente dal giudizio sia degli uomini sia di Dio. Per questo invita il principe a ricordare che deve esistere una sorta di consenso fra governanti e governati. Abolita, alla luce della libertà del cristiano, qualsiasi giustificazione della servitù, ricordata la necessità di un patto tra principe e popolo, apprezzata una “mistione” nella configurazione dello Stato, Erasmo insegna da un lato al principe a essere sottomesso alle leggi e dall'altro a invitarlo a una moderata esazione fiscale. Il principe sarà cristiano non a parole ma con un fare operoso e retto che lo renderà figura terrena dello stesso Iddio. Erasmo si eresse a campione dei valori dell'umanesimo che aveva sempre difeso e indica una via media tra le tesi opposte che, pur riconoscendo alla grazia il suo ruolo, non annullasse la facoltà dell'uomo di dire di sì o di no alla grazia stessa. Lutero Erasmo non ruppe con Roma solo per la sua volontà di rimanere all'interno della Chiesa, sia pure auspicandone una riforma, Martin Lutero, invece, non si sentiva testimone di una felice fusione tra antichità e cristianesimo ma piuttosto della severità del giudizio di Dio e dell'angoscia circa il proprio stato di eletto o di dannato. Egli comincia a pensare che le opere siano inefficaci per la salvezza, a differenza della fede. Le opere da sole non sarebbero riuscite a esprimere altro che la natura non libera dell'arbitrio umano, sempre servo del peccato. Ovviamente quindi in occasione della predicazione delle indulgenze Lutero esprime posizioni estremamente critiche, culminate nelle sue 95 tesi, che gli costarono la scomunica da Leone X con la Bolla Exsurge Domine nel 1520. La frattura tra Lutero e il papato è inevitabile se si tiene conto che il primo immagina la grazia in relazione alla sola fides individuale del singolo credente e smantella la centralità nella Chiesa del sacerdozio e della mediazione. Lutero tiene conto non della bontà delle opere, ma di quella dei giusti, la salvezza consiste nell'azione di Dio. In questo modo salta tutto l'apparato ecclesiastico destinato alla produzione delle opere buone in favore della teoria del “sacerdozio universale”, e i sacramenti si riducono a due, battesimo ed eucarestia. Ma se la soggettività moderna è fattore di destabilizzazione dell'ordine tradizionale, la libertà del cristiano è accompagnata dal dovere dell'obbedienza alle autorità politiche esteriori (la riforma può realizzarsi solo grazie all'alleanza con i principi tedeschi). Il momento individualistico veniva così bilanciato da un forte richiamo alla centralità dell'autorità, il potere deve proteggere i buoni e punire i malvagi, e deve perfino riformare la Chiesa. L'età medievale affiancava al potere politico, in posizione quasi sempre di superiorità, il potere spirituale della Chiesa che invece Lutero distrugge. Questa missione non è esente da interne tensioni, viene dimostrata infatti sia l'assoluta libertà del cristiano sia l'assoluta servitù del cristiano, questa duplice natura e la conseguente duplice natura dei due regni, celeste e terreno, mostra il credente, libero, grazie alla fede, e al contempo sottomesso alle cose e alle persone. Quest'interna dialettica si chiarisce se si fa attenzione al fatto che il potere politico è per Lutero una coazione soltanto esteriore, che non tocca l'essenza vera, la libertà interiore, del cristiano giusto. Ma il cristiano, pur non avendo bisogno del potere, mostra di essere giusto proprio obbedendogli. In ogni caso a chiunque pensi che possa venire un tempo in cui la funzione coattiva e repressiva del potere non sarà più necessaria, Lutero ricorda che ciò equivarrebbe a sciogliere “lacci e catene alle bestie selvagge”. Di conseguenza è inevitabile per il cristiano l'obbedienza esteriore all'autorità: la differenza fra i due regni, quello della libertà interiore e quello della obbedienza esteriore, è insuperabile. La Riforma in Europa Guardando agli sviluppi della riforma si può notare una straordinaria varietà di proposte religiose e politiche nell'articolato mondo protestante. Accanto al luteranesimo, la predicazione di Zwingli a Zurigo, che fa delle istituzioni politiche un dono di Dio per porre rimedio al peccato; oppure la parola di Bucero a Strasburgo, in cui emergono i segni di una teoria della resistenza affidata ai 'magistrati inferiori', ma si tratta in realtà di un vero pullulare di sette. Ciò si tradusse spesso in fughe di massa dalla propria patria, cercando rifugio in città conformi con il proprio credo religioso, che portarono i sociniani alla formulazione di una teoria della tolleranza e della moderazione nei rapporti con gli altri, mentre creò in altri gruppi una forma di intransigenza morale e politica. Il problema della grazia e quello della salvezza per Lutero non avevano nulla a che fare con un impulso al rivoluzionamento dei rapporti economico-politici, quale si manifestò invece nelle varie correnti dei “santi” tedesche ed inglesi che tradussero la volontà di rinnovamento dell'uomo interiore in un programma politico orientato ad affidare alla comunità degli eletti un progetto di riforma anche politica. La Riforma aveva chiamato tutti a un protagonismo spirituale prima impensabile che si coniuga perfettamente con l’onda di malcontento che già da tempo attraversa la società. Gli strati inferiori della popolazione avevano già mostrato una certa vicinanza alle idee egualitarie, pauperistiche e comuniste di Jan Hus e ora uomini come Storch e Stübner li infiammavano di nuovo, prospettando loro un ritorno alle condizioni di vita della Chiesa primitiva. Gli avversari li chiamarono anabattisti, cioè ribattezzatori non perché volevano battezzare due volte, ma perché volevano battezzare solo quegli adulti che, con pieno ed intimo convincimento, si fossero associati alla Chiesa degli eletti. Il rinnovamento e l'abolizione della servitù è argomento di uno dodici articoli dei contadini di Lotzer, che in generale esprimevano la richiesta di restituire alla comunità quei diritti, quegli usi e quei possessi che le erano stati tolti, di resistere all'espropriazione dei produttori rurali e alla recinzione delle terre. Questi piccoli fuochi divennero un incendio quando vi si unì Thomas Müntzer che volle riunificare quei due regni che Lutero aveva distinto. Il suo profetismo ebbe serie conseguenze politico-sociali, perduta la speranza che i principi si unissero al movimento, presenta non solo come necessario, ma anche come possibile, il progetto di detronizzare gli empi in favore degli umili. Sostanzialmente invita il credente a confidare in Dio e a ripulire la cristianità dagli empi con sommo zelo e con scrupoloso ardore. Lutero prese le distanze in modo netto dalle agitazioni dei contadini; ma anche lui per combattere gli anabattisti, finirà con l'elidere quelle distinzioni a cui in precedenza aveva dato rilievo. La necessità di prendere le distanze da Müntzer ebbe l'effetto di spingere a consumare la dialettica tra i due regni, e a risolverla in un senso nettamente opposto a quello del suo antagonista, ossia assegnando una funzione sempre più “sacerdotale” all'autorità secolare. Lutero invitava infatti i signori a scannare e a massacrare, sentendosi però al contempo servi e ministri di Dio e della sua ira contro chi riteneva il battesimo l'inizio di una liberazione della carne e di una comunanza dei beni perché, in pratica, un principe spargendo sangue può guadagnarsi il Cielo meglio che altri pregando. Calvino Il puritanesimo La diffusione del protestantesimo, avvenuta con la promulgazione dell'Atto di supremazia, ci permette di comprendere come quell'atto segnasse la fine di un difficile equilibrio tra diversi poteri. Quella rivoluzione, infatti, da un lato era l'espressione di una forte egemonia della corona, dall'altro aveva contribuito a scatenare forze politico-religiose destinate a sconvolgere i delicati equilibri costruiti dal costituzionalismo, attraverso la forza di una teologia politica che, come quella puritana, sembrava incapace di contenere l'esperienza religiosa nel solo ambito della coscienza individuale e privata del singolo credente. Il termine di Puritanes, inizialmente designava con intenti dispregiativi quell'insieme di persone unificate dal rifiuto della Chiesa anglicana tanto nei suoi aspetti teologico- liturgici quanto in quelli più propriamente disciplinari. La rivoluzione dell'anglicanesimo, venne sempre più identificata come una manovra politica incapace di rappresentare le profonde istanze di riforma religiosa diffuse dal calvinismo, che avevano avuto modo di radicalizzarsi durante la restaurazione del papismo da parte di Maria la Cattolica. Gli esiliati di questo confluiti a Ginevra tornarono nell'isola con l'esigenza di un dominio religioso su tutti gli aspetti della vita individuale e civile. Fra le altre cose prende piede l'idea che la nuova Gerusalemme dovesse e potesse essere costruita nel presente storico in cui stava per venire a compimento il tempo della fine. L'attesa della pienezza dei tempi, così come la teoria della predestinazione, si tradussero in un attivismo a volte frenetico atto a favorire la maturazione dei tempi. I “santi” cercavano di informare la propria vita ai precetti della Bibbia con manuali, breviari, trattati con cui scandire devotamente ogni ora e ogni attività della giornata; e cercavano anche una riforma della Chiesa che l'allontanasse da quella struttura gerarchica e verticistica. Ora, secondo i puritani, la vivente esperienza religiosa dei credenti non poteva scorrere ingessata nelle formule dell'anglicanesimo, e la Chiesa non poteva essere compresa che come autentica congregatio fidelium dotata di strutture organizzative capaci di rappresentare il nuovo protagonismo dei santi. Il riconoscimento della piena autonomia di ciascuna comunità ecclesiale si univa alla richiesta di una struttura democratica per il governo di ciascuna Giacomo I L'attribuzione alla corona di ampi poteri nella sfera religiosa (Enrico VIII) era solo un tassello di un processo di rafforzamento della monarchia avviato dai Tudor e proseguito con gli Stuart, in particolare Giacomo I. Questi pubblicò due importanti opere in cui, secondo i dettami della tradizione degli specula principis, mette l'accento, contro i puritani, sullo stretto legame tra governo civile ed ecclesiastico, polemizzando con chi predicava una forma di governo democratica. La parità richiesta dai santi non può coesistere, a parere di Giacomo, né con l'ordine della Chiesa, né con la pace dello stato. Se la polemica contro la democrazia dei puritani individuava il nemico da battere nelle teorie politico-religiose che invocavano la priorità del popolo sul re, un altro versante al quale Giacomo I dedicò molta attenzione fu costituito dalla nobiltà e dai teorici del Parlamento. I “grandi” che si erano fatti teorici del Parlamento avevano cercato di imbrigliare la libertà d'azione del re riferendosi alla supremazia che la legge esercitava su di lui. Ora Giacomo sembra replicare con l'analisi delle conseguenze politiche della propria teoria della “conquista”. All'origine degli assetti politici non è da porsi un popolo che sceglie un re e stabilisce con lui le regole del governo, ma un re che è tale per avere conquistato il suolo, la terra e gli abitanti. Derivando da sé e dall'atto di forza creatrice di diritto ogni titolo alla legittimazione del proprio rango e della propria funzione, il re non deve dunque sottostare né alla legge, né al Parlamento, perché semmai sono questo e quella a derivare da lui; rovesciando quindi la formula di Bracton. Solo a Dio compete il giudizio sulla correttezza del rapporto fra re e sudditi, e perciò a lui solo il re deve rendere conto. Giacomo spiega dunque con argomenti tratti dalla Bibbia la sua teoria del diritto divino dei re, per lui tutto il potere e tutta l'autorità vengono conferiti ai re direttamente da Dio ed essi possono unificare nella sudditanza e nell'obbedienza la multitudo facendola diventare un populus. La rivoluzione e Cromwell Quando nel 1642 scoppiò il conflitto tra la corona ed il Parlamento era chiaro che il conflitto sarebbe stato difficilmente riconducibile entro alvei costituzionali. In campo c'era un nuovo protagonista politico, i puritani, che si erano riuniti in assemblee, alleatesi con i difensori dei diritti del Parlamento portando una nuova energia. La scelta presbiteriana rappresentava un'alternativa democratica e partecipativa, poiché ammetteva il principio dell'elezione da parte di tutti i membri adulti della comunità del Consiglio degli anziani cui era affidata la direzione della comunità. Il moto rivoluzionario trovò la sua arma vincente nel New Model Army di Oliver Cromwell che capì prima e meglio degli altri che un esercito di uomini liberi di umili natali, ma disciplinato e pienamente convinto della bontà della causa per cui combatteva, sarebbe stato migliore di uno formato da professionisti. La sua vittoria segna non solo la nascita di un nuovo comandante ma anche quella di un abile politico pronto a lottare sia contro il decreto di scioglimento dell’esercito voluto dal Parlamento sia contro i seguaci del re. Cromwell costruiva così la propria forza sulla lotta, e giustificava la rivoluzione con la chiarezza che solo il creatore di un ordine nuovo può possedere. La repubblica ebbe però vita. Pochi anni prima a Putney si era svolto un acceso dibattito nell'esercito sul futuro istituzionale del paese e si profilò la presenza di un'ideologia incentrata sulla richiesta del suffragio universale maschile. L'ipotesi dell'estensione del suffragio non venne accettata da tutti, portavoce dei critici di tale estensione fu Ireton, che motivò il proprio rifiuto sulla base di due argomentazioni. In primo luogo, dalla semplice esistenza in vita non si poteva dedurre un diritto naturale alla rappresentanza politica e in secondo luogo temeva era una sorta di radicalizzazione delle richieste politiche che la rivoluzione aveva reso possibili. I livellatori Il movimento dei levellers, i cui leader furono Lilburne, Overton e Walvyn, fu essenzialmente interessato al diritto e alla politica, identificando i propri avversari dapprima con i privilegi nobiliari, poi, con lo stesso Parlamento. An Agreement of the Free People of England non solo non fa cenno ad alcuna volontà di ripartire le ricchezze, ma prevede addirittura l'illegittimità di qualsiasi proposta di livellare i beni degli uomini, abolire la proprietà privata o introdurre la comunità dei possessi. È chiaro dunque che ciò che si intendeva livellare ed eguagliare era il peso politico dei cittadini d'Inghilterra, che ciò contro cui si combatteva era il dispotismo e il privilegio. Forse ciò che spaventava gli oppositori era il loro insistente ricorso al diritto di natura, ma è facile accorgersi che la carica potenzialmente eversiva del diritto di natura era stata bilanciata da un intento restaurativo dei diritti che si rifaceva esplicitamente alla tradizione della common law e del costituzionalismo. I livellatori difesero sostanzialmente un programma politico ispirato ai principi del radicalismo democratico. I capisaldi del pensiero politico dei levellers stanno nella legittimazione dell'esercizio del potere solo sulla base del principio della rappresentanza eletta a suffragio universale maschile, si sostiene poi che tutti gli eletti devono rivestire cariche temporanee e che dopo il breve periodo in cui le hanno esercitate devono ritornare all'uguaglianza naturale con gli altri cittadini, inoltre, si afferma l'illegittimità della costrizione in qualsivoglia questione concernente la fede, la religione o il culto di Dio. Nel complesso, si tratta di una mediazione tra le istanze democratiche e quelle più schiettamente liberali, che pongono il movimento dei levellers lontano dalle correnti estreme della rivoluzione. Gli zappatori Ai livellatori si affianca un gruppo più radicale che si definisce col nome di “veri livellatori” e oggi conosciuto con quello di zappatori. Leader capace di sostenere dal punto di vista ideologico la loro azione politica fu Winstanley, autore The Law of Freedom, in cui discute il problema di portare avanti la rivoluzione fino al suo completo compimento, che sarà realizzato solo se si eviterà che un potere si sostituisca a un altro. Fare della rivoluzione il mezzo con cui sovvertire gli attuali rapporti di potere economico e politico significa innanzitutto azzerare i rapporti di proprietà e provocare una netta cesura tra il tempo del re e le leggi del presente. Winstanley propone un comunismo che consiste nella ridistribuzione della terra che può essere posseduta o per nascita o per conquista e nel primo caso allora si deve riconoscere che la nascita non discrimina fra nessuno, mentre nel secondo a maggior ragione si deve giungere a una conclusione ugualitaria. Le sue convinzioni si traducevano nella speranza di poter tornare indietro nel tempo fino al punto in cui era ignoto il peccato originale della società. Assertore di una concezione piena della libertà, Winstanley la definisce con toni biblici come quella condizione capace di dare a tutti gli uomini nutrimento e sostentamento. Winstanley analizza anche le forme di governo, dividendole secondo le modalità con cui è gestita la terra. E quindi la monarchia è una comune servitù politica imposta a sudditi resi perpetuamente litigiosi dalla divisione ineguale della terra, mentre caratteristica del governo repubblicano è invece la libertà. Una libertà che voglia organizzarsi secondo le logiche del comunismo deve riconoscere l'inadeguatezza del sistema giuridico e sostituirlo con leggi brevi e chiare per tutti, con un sistema politico e economico incentrato sul primato del bisogno e della repressione dell'ozio. Tutti i funzionari saranno eletti da coloro che ne hanno bisogno, e dureranno in carica solo un anno, sia per poter consentire quell'alternanza di comando e obbedienza, sia per stroncare sul nascere il prevalere dell'interesse. Per Winstanley è centrale il problema della proprietà, in quell’epoca è di cruciale importanza il fatto che le terre demaniali vengano appropriate individualmente attraverso il sistema delle enclosures, delle recinzioni con cui antichi e nuovi proprietari sottraggono le terre all'uso comune. Questo inizio di utilizzazione capitalistica della terra consente l'accumulazione primaria di capitale, ma produce anche una grande massa di nuovi poveri. La reazione dell'opinione pubblica di fronte a queste novità fu duplice: da un lato la cultura approvò i processi di appropriazione individuale della terra e diffuse un nuovo atteggiamento nei confronti dei poveri, dall'altro espresse la nostalgia del mondo antico e il sogno della redenzione dai mali del presente. Il repubblicanesimo In Inghilterra in quegli stessi anni si consolida anche un gruppo di pensatori che precede, accompagna e segue l'esperienza d'instaurazione della repubblica e il suo crollo, con una maggiore attenzione alle dinamiche politico-istituzionali. Si tratta del nutrito gruppo pensatori che condivisero obiettivi polemici e propositivi ed ebbero in comune tanto le “fonti” quanto il lessico politico di ispirazione classica. I membri di questa corrente erano accomunati da un'opzione repubblicana che faceva del commonwealth quel tipo di convivenza capace di realizzare valori quali la libertà personale, la partecipazione diretta e appassionata alla vita politica, e l'autogoverno collettivo. A livello istituzionale si esprimevano nell'apprezzamento del governo misto come garanzia della partecipazione di tutti e nella fortissima avversione alla tirannide, contro la quale teorizzavano la resistenza fino al tirannicidio. Per perorare la causa repubblicana, gli autori procedono generalmente attraverso due opzioni teoriche. Attraverso la prima cercano di annullare le differenze tra la forma regale e la sua degenerazione tirannica, attraverso la seconda, mostrano l'incompatibilità tra la libertà e la monarchia, e l'eccellenza della repubblica come unica forma politica che consente l'esplicarsi della libertà. La convinzione che l'autogoverno fosse possibile solo attraverso una generale e diffusa presenza di virtù politica tra i cittadini insieme alla convinzione dell'eccellenza abitato da popoli felici, risiede nella mancanza della proprietà privata e del denaro. Poiché tutti gli abitanti dell'isola praticano a rotazione l'agricoltura e tutti gli altri mestieri necessari e tutti lavorano, il lavoro occupa solo sei ore al giorno nella vita di ciascuno. Questi abitanti consumeranno inoltre i loro pasti in comune, veglieranno ai bisogni dei malati e avranno tutto ciò che è necessario a una vita semplice. Non essendo tormentati dalla necessità di un lungo periodo di lavoro, né dalla fame, sono altresì esenti da altri tormenti, hanno poche leggi e credono in una religione che scoraggia le dispute in quanto unificata, nonostante la pluralità dei culti, dalla comune credenza nell'immortalità dell'anima e nell'esistenza della provvidenza. Gli utopiani sono poi spinti verso uno stato di benessere da due altri importanti fattori: una teoria e una pratica della felicità e una restaurazione dei legami comunitari e solidaristici che allontanano il rischio della solitudine e collocano ciascuno all'interno dell'accogliente seno della comunità. Secondo Moro il più importante dei saperi è quello che conduce alla saggezza e i consigli della saggezza sono quelli di un uso moderato dei piaceri. I problemi cominciano quando ci si domandi di quale tipo è, e quale spazio occupi, il potere politico nell'isola. Da qualche segnale, come la presenza della guerra giusta per liberare altri popoli dalla tirannide, l'esistenza degli schiavi, dei magistrati e della loro funzione di controllo sulla vita sociale nella sua totalità, di un principe, di un Senato, si sarebbe indotti a pensare a una presenza forte e manifesta del potere. Tuttavia le cariche sono tutte elettive e il dialogo tra la popolazione dell'isola e le proprie istituzioni sembra piuttosto forte. In Moro la politica è mescolata da un lato alla morale e dall'altro all'amministrazione, tanto da far pensare che il legame sociale intenso e totalizzante sostituisca il potere politico. L'utopia in Europa Il legame tra utopia e modernità è doppio: l'utopia esprime da un lato il disagio della modernità contro le sue contraddizioni e dall'altro le caratteristiche meno accidentali della modernità stessa. Si pensi, per ciò che riguarda il primo punto, alla protesta dell'utopia contro la rottura dei tradizionali legami comunitari imposta dal capitalismo nascente, mentre per il secondo punto, al contrario, la modernità dell'utopia si esprime nella sua volontà di affermare la potenza e l'estensione della signoria del pensiero umano sulla società e sulla storia, sottraendo la storia stessa al potere del caso e affermando la possibilità di realizzare il regno della felicità su questa terra. Un'altra e diversa contraddizione dell'utopia sta nel fatto che essa da una parte si concepisce come realistica, cioè come analisi concreta del presente e dei suoi mali e dall'altra le soluzioni che essa prospetta per i problemi che individua sono si razionali negli obiettivi ma non nei mezzi per raggiungerli. Da questo punto di vista l'utopia non è un progetto politico, ma l'espressione di un'esigenza, che non si sa come realizzare. L'utopia sembra incapace di uscire dalle contraddizioni in cui nasce e da cui in definitiva trae alimento. La fortuna dell'utopia in Europa fu davvero impressionante, come testimonia la sua presenza nelle varie aree culturali. In Italia la diffusione del genere fu opera di Doni, editore dell’Utopia, che ne compose anche una, il Mondo Savio e Pazzo, dove forte era l'attenzione al tema della redenzione sociale dei diseredati e la speranza di realizzazione del benessere per tutti i membri della comunità. Si ricorda anche La Repubblica immaginaria di Agostini, che presenta tanto un attento esame dei mali sociali quanto una ferma volontà di rinnovamento. Sembra di notare una sorta di depotenziamento dello spirito utopico sia nella produzione di Patrizi, nel suo progetto de La città felice, sia in Foglietta con il suo Della Republica di Genova. L'ossessione per l'unità tipica dell'utopismo diventa assolutamente predominante nella riflessione di Campanella. Si prenda a esempio la descrizione architettonica della Città del sole e quella delle sue mura di cinta; ebbene, sorpassata la prima muraglia, si trovano palazzi tutti uniti per giro col muro, che puoi dir che tutti siano uno. Nonostante vi siano buone ragioni, anche militari, per sostenere la bontà di una tale conformazione, il dominio dell'unità e della totalità si incarna qui in una forma che riesce a realizzare l'idea quasi nella sua purezza e interezza. A livello politico quest'idea si realizza nell'immaginare una repubblica dove tutto è in comune e niente può essere appropriato individualmente. Il primato metafisico dell'unità si unisce all'antica opzione morale a favore della comunità, e al disprezzo per la scellerata brama di possesso e per l'amor proprio. Elementi che spezzano l'unità, introducendo nella società divisioni che impediscono la realizzazione sulla terra della comunità dei santi, animati dalle stesse volontà e tendenti ai medesimi fini. In Campanella emerge quindi ancora una volta un'antica concezione politica secondo cui pubblico e privato hanno un rapporto di forte opposizione e di esclusione reciproca. Se la repubblica vuole restare fedele all'idea del primato del pubblico, questo deve essere dotato di ricchezze e di capacità sufficienti a soddisfare le esigenze di cittadini che adotteranno un sistema di vita comunistico per il soddisfacimento dei bisogni di ogni genere, da quelli materiali a quelli sessuali. La Città del sole è repubblica dal punto di vista sociale ed economico, ma non lo è dal punto di vista più strettamente politico e istituzionale. Il suo sistema di potere si identifica con una vera e propria monocrazia, col governo del principe sacerdote affiancato da collaterali quali Potenza, Sapienza e Amore, che però altro non sono che articolazioni dell'Uno. L’unico adatto a dare voce alla verità. Se il comunismo rappresenta il modo con cui Campanella intende redimere i mali del mondo, lo stesso obiettivo è perseguito in Inghilterra da Bacone attraverso l'applicazione e l'incremento delle conoscenze scientifiche alla società così come emerge dalla Nuova Atlantide. Nonostante l'insularismo e il racconto di viaggio l'intenzione non è più volta verso la rigenerazione sociale della comunità, ma solo verso la pianificazione sociale della scienza e verso la sua applicazione alla società. La scienza è per lui votata a una completa manipolazione della natura che manifesta la sua intima vocazione tecnica. Bacone, poco incline a rivoluzionare i rapporti politici, rivoluziona al contrario le modalità di produzione e di applicazione della scienza all'intera società. La scienza socialmente organizzata e disciplinata, trova il suo punto d'appoggio e di formazione nella casa di Salomone, in cui l'investigazione delle cause e dei principi delle cose è fin dall'inizio strettamente legata alla possibilità della sua applicazione. Ecco allora apparire la salute collettiva. IV – LA PRIMA MODERNITÀ Machiavellismo e antimachiavelismo La situazione politica italiana ed europea nella prima metà del XVI secolo pareva orientata verso il rafforzamento dei principati e delle monarchie nazionali. Se si eccettuano il caso di Venezia e dell'Olanda, il mondo sembrava non potersi reggere che su forti monarchie, le quali dappertutto rafforzavano i propri apparati amministrativi, militari, burocratici e ideologici. In questo clima i Discorsi di Machiavelli, a sfondo repubblicano, sono inattuali, e anche la drammaticità che percorreva il Principe subiva una profonda semplificazione. Privato dei suoi motivi teorici più profondi, il libro fu interpretato come una sorta d'appendice dell'armamentario tecnico dell'arte di governo e come elenco di massime prudenziali per conservare il potere dei principi. Ci fu forse una sorta di corrente machiavelliana ma rimase decisamente minoritaria se consideriamo le precoci critiche attirate dal Principe da parte di esponenti di prestigio della cultura cattolica impegnati a rifondare il potere sulla legge naturale e a riconnettere l'esercizio del potere politico con i suoi fini legittimanti più alti, come la salvezza e il benessere del popolo, e la realizzazione del Bene comune. È opinione comune che l'antimachiavellismo si sviluppi con l’opera di Pole che voleva giustificare il proprio operato di difensore della fede cattolica contro lo scisma d'Inghilterra. Egli ricorda l'impressione negativa che gli aveva dato Cromwell, discutendo con lui sui doveri del consigliere, affermando che compito del consigliere non è di fungere da coscienza morale del sovrano, ma di indagare e assecondare lo scopo che il sovrano si prefigge, ossia nel far realizzare ai sovrani i loro desideri di potenza, anche criminali, attraverso il formale ed esterno rispetto dei valori civili e religiosi generalmente condivisi. Presto, però, il vero interlocutore diventa Machiavelli. La mancanza di fede, la simulazione delle virtù, l'invito a essere temuto più che amato, il primato dell'utile sulla giustizia, sembravano indicare al principe comportamenti malvagi ed empi. Pole riconosceva la natura complessa del libro, e pur vedendolo come un trattato sulla tirannide lo attribuiva a una precisa vocazione antitirannica di Machiavelli, il quale, secondo Pole, voleva che quel principe si rovinasse con le sue stesse mani. In seguito questa ipotesi di intenzione obliqua cadde in favore di un'interpretazione che vedeva la piena e univoca equivalenza tra il machiavellismo e l'ateismo, e tra questo e la tirannide. Diversi trattati antimachiavellici affrettarono la condanna all'Indice dell'intera opera di Machiavelli, ma non determinarono un vero e proprio salto di qualità. Questo fu da attribuirsi piuttosto al periodo delle guerre di religione in Francia, quando la connessione interpretativa fra machiavellismo e tirannide si fece sempre più intensa. All'indomani della strage della notte di san Bartolomeo molti videro nell'azione di Caterina de' Medici, l'applicazione delle massime Machiavelliane. Si sviluppa così un antimachiavellismo protestante che ebbe il suo campione nell'ugonotto Gentiller. Il compito che questi si era assegnato era di smontare la pretesa scienza politica di Machiavelli con la finalità politica di smascherare i principi tirannici cui ormai la monarchia francese ispirava il proprio corso, e di porre le premesse per un ritorno a modalità regali e non tiranniche di esercizio del potere. La prima cosa da fare era dunque mostrare come la scienza di Machiavelli fosse debole e rovinosa e come invece fosse ammirevole quella dei buoni e antichi francesi. Suddiviso il pensiero di Machiavelli in un grande numero di massime sui vari temi, Gentillet pone il proprio centro argomentativo nella necessità di allargare le occasioni e il peso dei 'consigli', al fine di indirizzare la decisione del sovrano secondo modalità costituzionali. Egli ricorda i limiti del potere assoluto dei re e la necessità che il loro potere sia accompagnato dal potere civile, che in Francia è dagli Stati generali. Questi infatti sono, a suo parere, la seconda colonna, insieme al re, sulla quale è fondata la monarchia. Da ciò scorgiamo la sua volontà di ripristinarli nella loro funzione di consiglio e l'adesione al costituzionalismo, nonché la specificità dell'antimachiavellismo ugonotto rispetto a quello cattolico. I monarcomachi La reazione contro la politica accentratrice della monarchia nel caso dei monarcomachi, non si orienta tanto contro Machiavelli quanto contro i fondamenti della tirannide, e produce l'abbozzo di una teoria contrattuale dello Stato e del potere politico. I monarcomachi sono un gruppo di intellettuali calvinisti che propongono la possibilità della resistenza armata e perfino dell'uccisione di un re, divenuto tiranno. Quindi non solo da parte cattolica, ma anche da parte protestante, si reagisce ai processi di formazione dello Stato moderno attraverso il recupero di originari rapporti fra natura e politica, fra popolo e sovrano. Le strategie argomentative cui fecero ricorso i membri di questo gruppo sono due. La prima è quella di Hotman, la seconda è quella fatta propria da de Bèze e Duplessis-Mornay, in cui si assiste a una mediazione tra argomenti biblici e argomenti giuridici, dai quali risulta che il potere è condizionato dal rispetto dei patti intercorsi tra re e popolo. Le due vie sono destinate a sommarsi e non a escludersi, e manifestano la comune volontà di legittimare la resistenza degli ugonotti e dell'intero paese al dinamismo accentratore della monarchia francese avviata verso l'assolutismo. Hotman intendeva mostrare che lo sconvolgimento dell'assetto costituzionale prodotto dalla politica del re era superabile attraverso la restaurazione dell'antica e saggia police, il sistema di governo che dissociava monarchia e sovranità, che conduceva a collocare la sovranità sempre nel popolo e nell'assemblea degli 'Stati' e con il considerare la forma monarchica come un potere di governo delegato e in certo senso subalterno, elettivo e sempre revocabile. Hotman approda alla distinzione tra re e reame, al reame spettano i poteri di tutte le parti che lo compongono e in conseguenza il re deve sapere di essere solo il momentaneo titolare di una sottrarre al re e di restituire agli olandesi i loro diritti di sovranità di cui quello abusa. La realtà politica è contrassegnata da un primato dell'associazione mediante cui gli uomini si obbligano reciprocamente alla mutua comunicazione di ciò che è utile e necessario alla vita sociale. La consociatio, definita simbiotica, è il vero punto di partenza dell'intera Politica. In Althusius come in Bodin non abbiamo all'inizio della politica gli individui, ma le concrete forme storiche delle associazioni, all'interno delle quali gli individui sono pensabili. In questo procedere, un punto soprattutto sembra di decisiva importanza, come nelle associazioni private si entra volontariamente, mediante un patto così si entra volontariamente anche nell'associazione pubblica. All'interno dell'associazione privata vi è bisogno di un rettore, che viene istituito col comune consenso e che è superiore ai singoli membri dell'associazione, ma è minore rispetto all'associazione nel suo complesso, allo stesso modo, il potere di governo nell'associazione generale sarà un potere concesso dal popolo. Questa analogia fra diritto privato e diritto pubblico serve a fermare il primato delle associazioni sui singoli privati e non vi è ragione perché non si possa applicare a uno Stato i medesimi principi che valgono per regolare la vita delle associazioni minori. Questo rifiuto di entrare nella logica moderna dell'autonomia della politica lo porta a ricordare che il potere supremo è subordinato alla legge naturale, a quella divina, alle leggi civili e all'equità. Questa sovranità dello Stato non azzera le associazioni simbiotiche in cui si articola, piuttosto, le riunifica. La sovranità dello Stato è in realtà federale, perché si nutre del “foedus”, del patto fra associazioni minori. Se il titolare della sovranità è il corpo politico del popolo nel suo complesso chi esercita la sovranità non è il popolo. Esercitare in concreto sovranità vuole dire 'amministrare', governare, e il popolo affidò il governo a ministri, trasferendo loro l'autorità ed il potere necessari all'espletamento dei loro compiti. Alla sommità della piramide amministrativa Althusius pone non un potere, ma due: quello del sommo magistrato e quello degli efori. Gli efori, eletti attraverso i suffragi di tutti, non devono solo eleggere a loro volta il sommo magistrato, ma devono continuare a rappresentare l’intero corpo sociale anche davanti al sommo magistrato. Necessario ma costitutivamente pericoloso, il potere supremo va dunque controllato e bilanciato da un altro potere. Insomma, per impedire la tirannide e per ricondurre al tempo stesso la ribellione entro un processo costituzionale, Althusius afferma che, nel caso in cui il magistrato supremo infranga le leggi fondamentali del regno, gli efori hanno il potere di deporlo. Inoltre, caratteristico del già ricordato ampio riconoscimento delle autonomie di tipo federale, è il diritto che concede ai singoli efori o agli stati del regno di salvaguardarsi da un tiranno che non sia riconosciuto come tale da tutta la collettività. Insomma, Althusius pensa che le ragioni che legittimano l'esistenza dello Stato e l'obbedienza ai magistrati debbano essere verificate di volta in volta e non assunte una volta per tutte. I libertini e Pascal Se il vasto fenomeno del libertinismo si presenta unificato da una volontà di rinnovamento e di liberazione che lo rendono moralmente sospetto, le sue proiezioni politiche furono assai meno rivoluzionarie, e si ispirarono piuttosto a un ideale conservativo di tipo nuovo. Teorici della necessità di un profondo rinnovamento della cultura, imbevuti di ideali antichi e pagani, materialisti ed eredi della tradizione rinascimentale, e al tempo stesso scettici e increduli, i libertini riconobbero che le leggi del dominio politico sono artificiali, ma non chiesero mai il ritorno a un ipotetico stato di natura, apportando invece nuovi argomenti alla necessità dell'obbedienza. Punto di riferimento del movimento è certamente Montaigne che immette nella modernità una soggettività strutturata intorno alle categorie del movimento e della transizione. Mette dunque al centro della propria filosofia il problema di trovare una saggezza pratica capace di garantire la salvezza, la sua pace e la sua sicurezza. Questo obiettivo si raggiunge con la politica che perde la sua caratteristica rinascimentale di 'eccellenza', di condizione della vita 'nobile' e virtuosa. La politica non è più la destinazione più alta dell'attività umana e civile, ma una necessità esterna e strumentale, atta a salvaguardare la possibilità biologica della vita. Il potere deve conservare la pace tra gli uomini, e per rivitalizzare un potere che appare ormai indebolito Montaigne mette in campo una strategia che è insieme innovatrice e conservatrice. Infatti per conservare l'ordine sociale occorre innovare sul terreno della giustificazione dell'origine del potere, e sui motivi dell'obbedienza. Grazie alla Riforma, il mondo moderno conosce una nuova e inedita importanza della soggettività, ma al tempo stesso la religione ha perduto la propria funzione di stabilizzazione politica, diventando anzi veicolo di crisi. Se dopo la Riforma nulla può restare come prima, è naturale che anche l'obbedienza debba vedere rifondate le proprie motivazioni. Innanzi tutto Montaigne analizza le tradizionali motivazioni dell'obbedienza e ne riconosce la debolezza. Le motivazioni dell'obbedienza erano due: si deve obbedire al principe a causa della sua maestà; si deve obbedire al principe a causa dell'intrinseca razionalità dei suoi comandi e delle leggi del regno. La maestà, però, non è che una parola, e spesso non corrisponde alla natura intima del monarca che sostanzialmente è un ruolo che è loro capitato in sorte e che interpreta come può. Montaigne nega inoltre ogni possibilità di fondazione razionale alle leggi, riconducendo le loro fonti ai costumi e alle usanze, chi vuole risalire alla fonte delle leggi per conferire loro maggiore autorità trova che il fondamento è spesso futile o disgustoso. Eppure le leggi continuano ad apparire irrinunciabili di fronte ai terribili rischi di una guerra civile, Montaigne lascia la libertà nell'interiorità dell'animo, chiede che il singolo si comporti esteriormente in obbedienza a leggi che, pur non essendo né giuste né razionali, esigono che a esse razionalmente si obbedisca. I soggetti moderni sono sottomessi al potere, ma al tempo stesso ne risultano la vera giustificazione e legittimazione, dato che al potere chiedono la propria salute e il proprio benessere, e sono disposti ad abbatterlo se non le ottengono. Amico di Montaigne, La Boétie aveva composto il Discours sur la servitude volontarie, che nel clima infuocato delle guerre di religione era stato letto come un manifesto contro la tirannide della monarchia francese, come un invito all'aperta ribellione. In ogni caso, mette al centro della propria analisi del potere il rapporto di coimplicazione tra soggetti e Stato. Ogni potere a suo parere si fonda non solo sulla forza, ma su un'obbedienza dei singoli che è in realtà volontaria, che nasce da una sorta di volontà di schiavitù. All'autore è chiaro, con grande anticipo, che lo Stato moderno esige la presenza di soggetti, titolari di diritti ma anche desiderosi di obbedire al potere. Ai soggetti è indirizzato anche il pensiero di Charron, i consigli della prudenza cercano di ricostruire l'ordine politico puntando sulla scissione tra interno ed esterno. L'ordine sarà rifondato solo quando l'obbedienza al potere sarà esterna, dovuta e non intimamente motivata: se essa scaturisse da un intimo convincimento, sarebbe preda della soggettività e delle sue oscillazioni. Al contrario, perché si formi un ambito pubblico si devono neutralizzare i conflitti, le credenze, e riportare allo spazio dell'intimità e del privato tutto ciò che turberebbe l'ordine politico. Anche Pascal incontra il problema dell'ordine e si confronta con Montaigne, di cui condivide lo sguardo critico nei confronti del tasso di giustizia realizzabile. Anche lui dopo avere minato le fondamenta tradizionali del diritto e del potere, dimostra che alla loro base vi è la sola forza che si fa riconoscere di primo acchito, e senza dispute. Eppure, accetta totalmente il diritto e lo Stato, riconoscendoli necessari alle logiche del mondo, alla sua sopravvivenza. Che essi siano essenziali non significa però che siano pienamente e razionalmente giustificati. La corte Rispetto all'immagine medievale del re e del Parlamento in conflitto o in collaborazione, e a quella moderna della sovranità statale e dell'individuo che si fronteggiano, anche un'altra nuova coppia sembra ora affermarsi: il re e la su corte. Era naturale che un pensiero politico consapevole dei mutamenti intervenuti con il rafforzamento delle monarchie volgesse la propria attenzione al problema costituito dalla vita di corte, perché era lì che si giocavano infatti i destini degli uomini e che si costruivano le fortune dei potenti. Castiglione nel Cortegiano (riferimento corte Urbino) vuole dettare le regole per la migliore formazione dell'uomo di corte, assegnandogli come professione quella delle armi, associandogli la caccia, svago e passatempo che unisce il piacere con l'utile, visto che ha una certa similitudine di guerra. Dopo avere elencato gli utili esercizi ginnici prende le distanze su dalla schiera di scrittori che avevano messo al primo posto la sola vigoria fisica e vi unisce a questa la grazia. Naturalezza e grazia nell'esibire virtù e arte hanno anche un altro importante risultato: fanno sembrare il sapere, o le potenzialità, di chi compie una qualsiasi azione molto maggior di quello che è. Questa considerazione sulla logica del sembrare, del costruire artificialmente la propria potenza, svela l'intrinseca politicità del Cortegiano, se Castiglione ne idealizza la figura dedita agli ozi e al culto della bellezza, indica anche la logica del dominio come suo naturale destino. Che la corte fosse scuola di politica fu sempre più chiaro nelle successive tappe di questa letteratura. Graciàn scrive l’Oracolo, il riferimento di Castiglione al 'sembrare', quasi a essere il vero tratto caratteristico della saggezza del cortigiano e dell'uomo di mondo. La prudenza consiste in una doppia strategia: la segretezza che impedisce agli altri di penetrare nell'intimo della volontà e dei pensieri e la consapevole costruzione artificiale di una parvenza di verità. Da questo presupposto discende dunque l'imperativo di non scoprirsi mai del tutto, per non rendere i propri comportamenti prevedibili da parte degli altri. Di qui nascono gli inviti a essere riservati e a modificare spesso il proprio comportamento. Oltre a questo uso accorto del silenzio e del tacere, Graciàn raccomanda di costruire una verità apparente e artificiale che non equivale a fare del comportamento simulato quello più consigliabile perché perfino la menzogna, diventata un'abitudine, è prevedibile e l'inganno, una volta svelato, perderà la propria funzione. Il vero significato della prudenza di Graciàn è dunque un invito all'innovazione, a comportamenti accorti e adatti di volta in volta al mutare delle circostanze. La Ragion di Stato Una delle ultime grandi dottrine politiche elaborate in Italia è la trattatistica della Ragion di Stato, vasta corrente intellettuale unificata dalla volontà di mediare tra due istanze insopprimibili dell'età barocca: che la politica non abbandoni il riferimento ai principi etico-religiosi, ma anche che da questo suo legame con la religione non tragga motivi di debolezza, ma anzi di forza. Il problema all'ordine del giorno per molti intellettuali cattolici era la constatazione del divorzio tra l'utile e l'onesto. La corte e lo Stato sembravano impermeabili ai principi di una sana politica, ciò che era in linea con la ragione civile era contraddetto dalla ragione di Stato. Queste nuove regole di successo puramente mondano ponevano alla cultura cattolica parecchi problemi costringendola a tentare di riconquistare il terreno perduto. Il primo grande nemico era ovviamente Machiavelli, che aveva dissociato la politica dalla morale cristiana affermando che il cristianesimo impediva strutturalmente il successo militare. Su questo terreno occorreva reagire, e la messa all'indice delle opere di Machiavelli non chiuse la questione, perché nel frattempo era nata una corrente storico-politica di pensatori che commentavano Tacito. La moda del tacitismo poneva l’attenzione sui primi sei libri degli Annales e non si riusciva a capire se l'attenzione al comportamento dell'imperatore Tiberio, alla sua capacità di simulazione e ai segreti della gestione del potere, fosse solo un'analisi distaccata oppure fosse un modo per continuare a riflettere sul realismo politico attraverso un autore meno 'infernale' di Machiavelli. Tale moda crebbe e impensierì quanti la videro come una nuova versione di una cattiva Ragion di Stato. Botero, è codificatore di una sua versione buona e lodevole della cattiva Ragion di Stato machiavelliana. Nella sua opera compare il Dio biblico, Signore degli eserciti, custode della potenza militare. Botero garantisce la superiorità delle milizie cristiane su quelle pagane. Inoltre polemizza contro la barbara maniera di governo desunta da Machiavelli e da Tacito seppur la sua opera trascenda le motivazioni polemiche, presentandosi come una vera e un'intelligenza adatta a ricevere la fede cattolica. Vitoria, si mostra attento ai temi politici e pensatore originale rispetto la questione degli Indios. Nell’ultima delle sue relazioni dichiara di volersi confrontare con il problema giuridico della legittimità del dominio esercitato dagli Spagnoli sugli Indios. Egli comincia ad affrontare la questione chiedendosi se questi popoli fossero, prima dell'arrivo degli spagnoli veri e legittimi possessori del loro paese. Citando il principio tomista la grazia non abolisce la natura ma la perfeziona ne deriva che né la fede né la grazia conferiscono titolo di legittimità al possesso, ma questo deriva solo dal diritto naturale e da quello umano, quindi gli Indios, benché erano veri padroni dei loro beni, e vivevano in vere strutture politiche. Quest'attenzione alla natura che ha i propri diritti, anche se non è stata toccata dalla grazia, mette Vitoria in rotta di collisione con quanti facevano del territorio degli Indios un bene di proprietà di nessuno legittimandone così la conquista. Ribadito che gli Indios sono autosufficienti per natura e che non è vero che si trovino nell'impossibilità di gestirsi a causa del peccato originale, Vitoria passa in rassegna altre tesi, come quella secondo cui il dominio sugli Indios è stato conferito agli Spagnoli dall'imperatore o dal papa. Con non poco coraggio egli sostiene che né per diritto naturale, né per diritto divino, né per diritto umano esiste un sovrano del mondo, e che tale non è l'imperatore, e nemmeno il papa. Non solo distingue nettamente potestà spirituale e temporale, ma non vuole nemmeno dedurre dal primato della dimensione spirituale immediate conseguenze nell'ambito temporale, arrivando a dire che anche se gli Indios si fossero rifiutati di riconoscere la sovranità di Cristo non si può per questo far loro guerra, né causare loro alcuna molestia. Il diritto degli Spagnoli alla conquista e al domino delle Americhe è però legittimato da Vitoria per la via di quella sorta di diritto internazionale di cui egli è considerato l'inventore. In virtù di tale diritto che gli spagnoli lecitamente percorrono quei territori e commerciano con i loro abitanti senza recare loro danno. Fondata sul diritto naturale la possibilità del commercio nella pluralità dei suoi sensi legittima poi l'impossessamento spagnolo della terra degli Indios sulla base del fatto che questi avrebbero ingiustamente ostacolato il commercio spagnolo e anche la giusta appropriazione spagnola dei beni americani. Benché Vitoria sembri restaurare la sostanza della conquista, sembrerebbe presente anche la tesi che per completare la legittimazione del potere del re di Spagna sulle Americhe ci dovrebbe essere un atto volontario, in base al principio secondo cui uno Stato può costituire il proprio sovrano attraverso il consenso della maggior parte. Una tesi simile aveva già trovato compiuta espressione quando Vitoria, commentando il passo della Lettera ai Romani di Paolo sull'origine divina del potere, aveva individuato in Dio la sua causa efficiente, ma nella società e nella comunità politica la sua causa materiale. Se il potere viene da Dio, non è però Dio che sceglie i governanti: la concreta individuazione della forma e dei titolari del potere compete solo alla comunità e nello specifico preferisce parlare di maggioranza. Ma il processo attraverso cui il potere si costituisce è una vera e propria alienazione, il grande ruolo assegnato alla volontà della maggioranza viene meno quando il potere è stato già costituito. Tale oscillazione di pensiero può essere compresa a partire dall'esigenza di combattere il recente diffondersi di teorie radicali e democratiche. Suarez non ha più al centro dei propri interessi il problema del Nuovo Mondo, ma quello della vecchia Europa scossa dalla Riforma e divisa. È per fronteggiare tali rischi che si volge alla politica per dedurne i principi da una teoria generale dell'ordine e del diritto di natura. Nella Defensio catholicae fidei cantra anglicanae sectae errores, Suarez assume una posizione ancora più netta di quella di Vitoria a proposito della volontà della maggioranza e del diritto naturale quali fondamenti dello Stato. Contro la monarchia di diritto divino difesa da Giacomo I, esalta e radicalizza il ruolo del diritto naturale come fondamento dell'autonomia originaria delle comunità politiche, con un chiaro intento ostile all'assolutismo monarchico. Anche più tardi si presenta come un teorico dello stato di natura, inteso come una situazione originaria di assoluta libertà ed eguaglianza degli uomini. Suarez deve a questo punto dare una giustificazione del fatto che da questa libertà naturale si passi alla condizione politica, fondata sul comando e sull'obbedienza, ricostruisce quindi il processo razionale in virtù del quale è avvenuta la transizione, sostenendo che la legge di natura da un lato prevede l'originaria libertà dell'uomo, dall'altro spinge l'uomo, per autoconservazione, a entrare coscientemente all'interno della comunità, sono infatti necessarie leggi umane capaci sia di provvedere al Bene comune, indicando la via per il suo perseguimento, sia di costringere gli uomini a realizzarlo. Per natura si è quindi liberi, ma si è anche condotti razionalmente a obbedire al potere. Essenziale è quindi la coesistenza della necessità di trascendere l'originaria libertà e del principio del libero consenso, presupposto indispensabile a legittimare tale trascendimento. Nell'analizzare le modalità attraverso le quali si manifesta questo consenso alla formazione della comunità e alla sottomissione al potere, Suarez capisce che c'è una contraddizione tra il fatto che, da una parte, il consenso è dato da individui singoli, e che, dall'altra, dalla somma delle loro volontà particolari debba derivare una sorta di volontà politica generale. Per risolvere questa difficoltà deve presupporre che lo Stato sia il frutto di una precedente unificazione morale, che fa della moltitudine di individui che si trovano in natura un solo corpo. La debolezza del presupposto individualistico nel giustificare la nascita dello Stato è quindi superata facendo del popolo non una indistinta moltitudine atomistica ma una universitas, dotata di una propria personalità giuridica e di una propria volontà in grado di produrre l'unificazione politica e il potere sovrano in grado di conservarla e di tutelarla. Strutturato e reso autosufficiente dalla sovranità, ogni Stato è comunità perfetta, destinata a permanere indipendente. Nonostante però la divisione in cui attualmente si trova l’umanità, essa conserva sempre una qualche unità quasi politica e morale. Questa unità non riassorbe in sé giuridicamente e politicamente gli Stati, ma li rende membri di una comunità internazionale dotata di un proprio diritto, in mezzo tra quello naturale e quello civile. Il diritto delle genti, il diritto internazionale sarebbe stato ricondotto alla natura razionale e sociale tanto dell'uomo quanto degli Stati. V – IL SOGGETTO E LO STATO Le dinamiche storico-politiche che nel XVII secolo fanno uscire l'Europa dalle guerre civili di religione ruotano attorno alla formazione dello Stato assoluto e all'esercizio della Ragion di Stato. È lo Stato il protagonista principale della politica moderna. La guerra e la pace sono possibili solo fra Stati sovrani. Dal punto di vista della politica interna lo Stato moderno realizza una sia pur relativa modernizzazione e razionalizzazione del potere per quanto riguarda la centralizzazione del comando. Questa razionalizzazione si arresta però davanti a differenze sociali e politiche che non può e non vuole superare, confermata è la naturale ineguaglianza degli uomini e in generale l'assetto gerarchico e corporato della società. Il potere politico, è razionale nel suo esercizio, ma non si legittima a partire dall'individuo, bensì da un ordine naturale che è anche divino. L'antecedente dell'illuminismo sta nella filosofia politica del contrattualismo razionalistico, il cui obiettivo è fare della politica il regno della ragione, della sicurezza e dell'ordine, cioè un ambito a completa disposizione dell'uomo, artificiale, costruito per i fini del soggetto moderno. Questo è il soggetto borghese, che per primo ha interesse a una politica ritrascritta in chiave individualistica. È attraverso il contratto che il pensiero politico razionalistico persegue l'obiettivo di razionalizzare la politica. Per questa via il soggetto rivendica un'autonomia della politica dalla morale tradizionale e dalla teologia di tipo diverso da quella di Machiavelli, il contrattualismo esige che la politica abbia un nuovo inizio assoluto, e richiede una rottura sia con la natura sia con la storia. Questo nuovo inizio è espresso nella figura del patto stipulato da individui singoli che vogliono uscire dallo stato di natura in quanto insicuro, per trovare pace e ordine nell'artificio politico razionale, il quale custodisce e rende efficaci i diritti naturali di ciascun uomo. La natura non è quindi fondamento dell'ordine politico in senso pieno, ma contiene in sé solo germi di ordine che vanno tutelati nella dimensione politica, dove divengono diritti civili e politici. Il potere politico che nasce da un patto è la sovranità dello Stato, che esprime la razionalità di tutti, e rappresenta la volontà politica di tutti. Dal punto di vista della storia del pensiero politico, il contrattualismo razionalistico dà vita alla teoria dell'assolutismo, del liberalismo, della democrazia e dello Stato costituzionale di diritto; ciò che in questi rimane costante è il nesso fra patto e sovranità razionale. Su questa costante si instaurano due variabili che da essa dipendono nelle diverse risposte che si danno alla questione se l'energia politica che i cittadini manifestano nel contratto sia tutta destinata a costruire l'ordine politico rappresentativo e a confluire in esso, o se invece una parte resti presso di loro. La seconda variabile, riguarda invece il modo con cui questi autori rispondono alla domanda se e come sia possibile limitare il potere che nasce dalla ragione di tutti. Infatti questo potere tende a essere illimitato, il che pone problemi a quello stesso individuo dal quale, e a favore del quale, il potere è nato. Hobbes Thomas Hobbes elabora una filosofia tutta centrata sul conflitto mortale, da evitare, e sull'ordine, da costruire. La sua destinazione è la fuga dal summum malum, cercando di dare risposta definitiva alla questione del disordine, decisamente attuale nella sua Europa. La sua risposta raggiunge la propria forma matura nel Leviatano nel 1651. Hobbes si riferisce al mostro biblico del libro di Giobbe: è il potere più alto che esista, è stato creato per non aver paura e anzi da incuterla, signoreggia e tiene a freno i superbi e con lui non si possono stringere patti. Queste sono appunto le caratteristiche dello Stato. In apertura del libro il frontespizio mostra l'immagine di un gigantesco uomo, il cui corpo è costituito da molti piccoli uomini, ha in capo una corona, in atteggiamento di protezione verso il paese che domina e sovrasta, reca in una mano la spada (il potere politico) e nell'altra il pastorale (il potere spirituale). All'origine dello Stato hobbesiano c'è una lettura nuova della natura umana. Se convenzionalmente il conflitto avveniva tra gruppi per Hobbes avviene fra singoli individui, inoltre, il conflitto è di consueto una questione di Giustizia violata mentre per Hobbes è invece un dato naturale. La natura è assenza di ordine, la parola è solo un segno convenzionale che un uomo associa a certe sue sensazioni. Anche le passioni, sono movimenti interni all'uomo, che precedono i suoi movimenti fisici. Perfino la volontà umana è determinata solo dal desiderio o dalla repulsione, non da un fine metafisico o morale. In natura non ci sono né armonie prestabilite né gerarchie stabili fra gli esseri umani, che sia fisicamente sia intellettualmente sono sostanzialmente uguali, e ugualmente animati da un'energia vitale circa equivalente: cioè dal potere o diritto naturale, che si può anche definire libertà. Questo potere è l'insieme dei mezzi che ciascuno ha per soddisfare i propri desideri e si estende su tutte le cose che servono all'uomo per rimanere in vita. Quindi l'uomo è non solo naturalmente uguale, ma cerca anche sempre di esercitare il proprio diritto, cioè di appagare il desiderio, non ha fini suoi propri raggiunti i quali possa trovare la quiete, e questo fino alla morte. Quindi l'uomo è anche naturalmente conflittuale: dalla sua condizione naturale nascono competizione, inimicizia e guerra tra uomini. L'uomo è lupo per l'altro uomo (Plauto): dal che si genera diffidenza reciproca. Infine gli uomini sono naturalmente in preda alla vanagloria, cioè vogliono sempre essere valutati dagli altri più di quanto questi siano disposti a fare. In natura dunque c'è sempre guerra, di tutti contro tutti, sono impossibili un potere stabile e una vita civile evoluta. Con Hobbes è quindi tramontata l'immagine antichissima, aristotelica, dell'uomo come animale razionale e sociale, la natura umana è animale, ma non è sociale. Quindi anche i comportamenti asociali dell'uomo non sono una colpa né un reato, perché in natura non c'è alcuna legge efficace, e quindi non ci sono né Giustizia né ingiustizia, poiché, appunto, per Hobbes la giustizia è solo il rispetto dei patti validi, che in natura non ci sono. Il troppo alto tasso di conflitto che vi si genera, rende necessaria l'uscita dallo stato di natura, che avviene per l'utilità di ciascuno, per la paura della morte, e per un calcolo razionale che ci fa comprendere che il nostro vero criminale (interno), che comporta la fine della teoria tradizionale della 'guerra giusta'. Lo Stato è un Dio mortale: è un artificio fatto dagli uomini, che errori e casualità possono distruggere. Le cause di dissoluzione dello Stato consistono, essenzialmente, nell'incomprensione della necessità dell'assolutezza del potere del sovrano e nella pretesa del soggetto di avere diritti che precedono lo Stato. Inoltre lo Stato non è che una macchina, uno strumento, e merita ubbidienza solo finché 'funziona', finché è capace di realizzare l'ordine: una sconfitta in guerra del sovrano libera i sudditi dalla lealtà verso di lui. Teologia politica Quello del rapporto fra religione e politica è un problema; Hobbes, aveva individuato i semi della religione nella superstizione, nel timore e nell’ignoranza. Ovviamente l'unica eccezione è data dalla religione rivelata e dal Salvatore. Così mentre delle religioni diverse da quella cristiana, e quindi false, si sono serviti i legislatori dell'antichità per insegnare ai sudditi l'ubbidienza, il problema di Hobbes è come si possa obbedire al Dio cristiano, i cui insegnamenti sono parte della politica divina. La soluzione del problema è il Leviatano. Lo Stato non può essere presentato come un'entità che prescinde dal rapporto con la religione, anzi, lo Stato può nascere bene solo dalla retta comprensione del comando divino. Lo Stato deve quindi presentarsi come Stato cristiano, e la politica laica e razionalistica come teologia politica. La teologia politica giustifica con argomentazioni religiose il fatto che la politica non sia fondata sulla religione in senso tradizionale; si fonda non sulla presenza di Dio, ma sulla Sua assenza, come fondamento della politica. L'argomentazione teologico-politica di Hobbes inizia dalla distinzione fra regno di Dio per natura e regno di Dio per patto. In generale regno di Dio significa per Hobbes, regno civile di Dio che regna su di un popolo, come accadde quando Dio regnava su Israele. Nel regno di Dio per patto si obbedisce alla legge positiva divina, cioè a ogni volere di Dio, il problema si pone quando Dio non comanda più direttamente gli uomini; il che avvenne quando Israele volle avere un re, come gli altri popoli. Cessato e mai più restaurato il regno di Dio per patto, la storia è quindi per Hobbes storia del disordine, cioè storia della mancanza di un sicuro criterio di obbedienza e di pace. Dio continua però a regnare sugli uomini, non direttamente per patto ma per natura: i Suoi comandi sono appunto le leggi naturali razionali e dato che Dio è inconoscibile agli uomini e quindi non c'è modo di stabilire un rapporto logico con Lui, l'unico modo per rendergli onore è obbedire alle Sue leggi e dunque al Leviatano, che facendo rispettare le leggi naturali, fa rispettare la volontà di Dio. Cristo è l'ultimo profeta autentico, venuto a rinnovare il patto fra Dio e l'umanità ed è portatore anche di una promessa. Credere che “Gesù è il Cristo” significa collocarsi nel tempo che sta fra l'ascensione di Cristo e la resurrezione generale di tutti gli uomini sapendo che in questa epoca non ci si può attendere alcuna forma di presenza diretta e immediata di Dio nel mondo. Questa assenza del sacro spiega l'atteggiamento verso le profezie, la Scrittura, i miracoli. Per lui non si deve credere a sedicenti profeti che insegnino al popolo a disobbedire al sovrano, vero profeta di Dio. Anche le Scritture, che suppliscono la mancanza di profezia dopo Cristo, contengono una parola di Dio che ha bisogno dell'interpretazione del sovrano per essere decifrata e obbedita. E anche i miracoli si deve dubitare, è il sovrano colui che ha la facoltà di decidere in ultima istanza se un certo fatto è un miracolo o non lo è. Naturalmente un privato ha sempre la libertà di credere ciò che vuole ma questo non toglie che la religione in quanto comportamento esteriore deve essere pubblica e uniforme, sottratta agli individualismi e ai fanatismi. Hobbes ha come obiettivo polemico non solo i protestanti, ma anche il cattolicesimo. Come si può vedere dalla critica a Bellarmino sulla potestas indirecta, teoria secondo cui il pontefice pur non avendo diretto potere politico sui cristiani, ha un potere sulle anime e può fare appello alle coscienze dei fedeli per incitarli a disobbedire a leggi emesse dai sovrani, se contrarie alle leggi di Dio. Questa posizione è inaccettabile per Hobbes. La Chiesa di Roma, in quanto vuole comandare politicamente, è solo uno Stato come gli altri, in cui il papa esercita un potere politico simile a quello di ogni altro Stato; di conseguenza la pretesa che tutti i cristiani, i cittadini di ogni Stato, obbediscano al papa equivale alla pretesa che i cittadini di uno Stato obbediscano a uno Stato straniero. Lo Stato razionale del Leviatano è cristiano, perché i sudditi sanno che il sovrano è l'unico luogotenente pubblico di Dio, colui attraverso il quale la legge di Dio si realizza. Ciò a cui Hobbes pensa è una politicizzazione della religione, ma nel senso che il controllo dello Stato sulla religione serve solo a impedire che la religione abbia effetti politici conflittuali. Locke Anche John Locke si colloca all'interno della sintassi individualistica e contrattualistica, ma instaura importanti variazioni sul tema della legittimità e dei limiti del potere politico. Ciò è dovuto al diverso obiettivo politico: mentre quello di Hobbes era la costruzione dello Stato assoluto, quello di Locke è la rivoluzione antiassolutistica. Locke costruisce un modello di ordine politico che consenta di limitare il potere, a beneficio del cittadino e della società; a questo fine introduce sia la partizione delle funzioni del potere, sia il rispetto dei diritti naturali degli uomini, ovvero i concetti chiave del costituzionalismo moderno e del liberalismo. Egli pubblica due Trattati sul governo che diventano il manifesto della Gloriosa rivoluzione e del partito whig. Locke scrive il Primo trattato contro il Patriarca di sir Filmer, manifesto del partito regio, dato che teorizzava il diritto divino dei re. Locke ritrascrive le tesi parlamentariste nella sintassi del patto e della sovranità popolare. Il Primo trattato risponde al suo primo obiettivo di battere l'assolutismo cattolico, il Secondo trattato a quello di sconfiggere i possibili esiti assolutistici del contrattualismo. Il Primo trattato sul governo è la 'teologia politica' di Locke. Locke sostiene l'interruzione di ogni comunicazione, ontologica e politica, fra Cielo e Terra. La tesi di Filmer è che nessun uomo nasce naturalmente libero, ma sempre e solo soggetto ad un re; e questo a sua volta trae il proprio titolo di legittimità da due principi: dall'autorità paterna sul genere umano e dalla proprietà di tutte le cose del mondo, conferite da Dio ad Adamo. Locke intende dimostrare che Adamo non ebbe da Dio alcun potere sugli uomini, né sulle cose, non è sovrano, né per creazione, né per donazione divina, né per paternità: la creazione diede ad Adamo solo l'esistenza. Locke prende poi in esame la questione dell'eredità di Adamo presa da certi uomini, mostrando che questa sarebbe stata, nel caso, trasmessa a tutti eredi e cioè ad ogni uomo. Nel complesso, la comunicazione diretta e immediata fra Cielo e Terra, se mai c'è stata, è interrotta. Anche Locke, come Hobbes, ambienta la propria teoria politica in un'epoca di disincanto in cui non è Dio ma la ragione umana a costituire la base e il fondamento di legittimità del potere politico. Il Secondo trattato sul governo passa alla costruzione dell'ordine politico razionale. Lo stato di natura e i diritti Locke inizia, come Hobbes, dallo stato di natura, che egli descrive come una condizione naturale dell'uomo di perfetta libertà e di uguaglianza, governato dalla legge di natura il cui contenuto razionale è che gli uomini non devono nuocersi a vicenda, né considerarsi subordinati o sovraordinati gerarchicamente gli uni agli altri. Soprattutto, ciascun uomo è giudice ed esecutore della legge di natura, e può punire chi la trasgredisce. Rispetto a quello di Hobbes lo stato di natura lockeano è più complesso. Può facilmente trasformarsi in stato di guerra, essendo questo il risultato del diritto di autodifesa, a cui ogni uomo può ricorrere quando subisce ingiustizia da qualcun altro e non c'è nessuna autorità superiore; ma, a differenza che in Hobbes, questo stato, pur probabile non è normale. Un'altra differenza decisiva sta nel fatto che per Locke la proprietà è un diritto naturale come la libertà e la vita. Pur ammettendo che la terra appartiene in comune a tutta l'umanità sostiene che il singolo uomo, lavorando, diviene unico ed esclusivo proprietario di ciò che ha lavorato. Soprattutto interessa a Locke affermare che sono l'appropriazione, la recinzione e la lavorazione della terra a costituire il titolo della proprietà privata anche in natura e che la disuguaglianza creata dal lavoro è moltiplicata dall'uso della moneta. Locke sostiene poi che in natura gli uomini sono sottoposti a una sola autorità, quella dei genitori, e la donna a quella dell’uomo ma che le naturali gerarchie familiari valgano nell'ambito privato, non nella sfera pubblica. Il corpo politico L'antropologia di Locke è quindi più moderata e meno negativa di quella di Hobbes. Anche nel Saggio sull'intelligenza umana sostiene che lo spirito umano è in grado di tenere in sospeso l'esecuzione di un desiderio: questo controllo della ragione sulle passioni, possibile già in natura, rende lo stato naturale complesso. Già in natura vige una legge morale e razionale di reciproco rispetto degli uomini e delle loro proprietà, e quindi già in natura è teoricamente possibile una qualche coesistenza. Insomma il contratto razionale non azzera la natura, ma la migliora. Lo stato di natura presenta tre difetti: non vi è legge certa, perché soggetta ad interpretazioni, non vi è un giudice riconosciuto ed imparziale e non vi è un potere esecutivo. Siamo quindi in presenza di un patto in senso moderno, fondato sulla logica dell'autorizzazione: ciascun singolo autorizza la società politica a fare le leggi. Anche quello di Locke è un patto di unione fra eguali, che costituisce un'entità politica prima non esistente, al cui potere i contraenti si sottomettono. A differenza di quanto accade in Hobbes, tale patto però non richiede necessariamente che le logiche dell'autorizzazione diano vita a un'istituzione sovrano- rappresentativa; e di conseguenza il potere legislativo può essere esercitato tanto dal corpo politico direttamente, quanto da suoi rappresentanti fiduciari. L'uomo quando entra in società aliena sia il proprio diritto alla vita, libertà e proprietà, sia il diritto a giudicare e ad applicare la legge naturale, ovvero il diritto di fare giustizia: ma solo quest'ultimo è da tutti veramente ceduto al corpo politico, mentre gli altri diritti vengono restituiti, garantiti dalla legge comune, trasformati in diritti civili e politici. Le leggi universali e imparziali, che il corpo politico a maggioranza costruirà e renderà efficaci, dovranno rispettare i diritti naturali degli individui associati, il potere legislativo non potrà essere assoluto. Chi pensa, come Hobbes, che il patto crei un sovrano assoluto, impegna tanta fatica intellettuale per peggiorare la condizione naturale dell'uomo. Per di più nessun popolo può essere così stolto da darsi in pasto al Leviatano. I poteri A questo punto, Locke può passare all'analisi più dettagliata del corpo politico. Il potere legislativo risiede presso il popolo sovrano, il quale di solito lo delega ai suoi rappresentanti eletti, riuniti in un Parlamento, tale potere non può essere in contraddizione con i diritti naturali degli uomini nello stato di natura, non può essere arbitrario né assoluto; in particolare che non può violare la proprietà e deve dare formalmente il proprio assenso ad ogni tassazione del popolo. Nel complesso il liberalismo inaugurato da Locke si presenta come un radicale aggiornamento del tradizionale costituzionalismo inglese. L'obiettivo di limitazione del potere assume ora l’aspetto della tripartizione del potere nelle sue tre funzioni, che per Locke sono: il legislativo, come potere supremo ma non assoluto; l'esecutivo, cioè il governo che ha il potere di applicare le leggi, e di punire i trasgressori e infine il potere federativo, ossia la gestione della 'politica estera', dei rapporti non con chi è sottoposto alla legge, ma con chi rispetto alla comunità politica è in uno stato di natura. Poiché nello stato di natura lockeano vige la legge razionale della giustizia, si può parlare di guerra giusta o ingiusta. È da notare che il re di cui parla Locke non è il sovrano di Hobbes infatti mentre il legislativo è il corpo politico sovrano che nasce dal patto di unione, l'esecutivo invece riceve un incarico fiduciario, ossia è frutto di un diverso e specifico patto tra il corpo politico e il re; se il re rompe questo rapporto di fiducia, entrando in conflitto col legislativo, la sua forza è illegittima e il popolo sovrano ha il pieno diritto di reagire. È questo, con ogni evidenza, l'obiettivo politico di Locke: legittimare la resistenza del Parlamento. Locke arriva poi a trattare della tirannide che non è per nulla equivalente al potere legittimo, come al contrario sosteneva Hobbes, e si caratterizza anzi per l'esercizio illegale, o abusivo, o eccessivo, della forza da parte del supremo magistrato, cioè del titolare del potere esecutivo, contro il quale c'è diritto di resistenza. Locke prevede che il popolo sovrano non sia obbligato a delegare il proprio potere legislativo a rappresentanti ciò non toglie che tale delega può loro essere revocata in casi estremi, se legiferano senza rispettare le logiche originarie del patto sociale, cioè la difesa dei diritti naturali dei cittadini. La tolleranza Che la sfera pubblico-sociale sia in potenziale opposizione al potere politico popolo è elemento costitutivo della stessa democrazia. Non a caso il suo giudizio sulla teocrazia è ambivalente, poiché critica, sì, la superstizione, ma nota la strutturale affinità della teocrazia con la democrazia. La differenza è che la superstizione religiosa pone le masse nella soggezione a potenze esterne mentre la critica della religione libera gli uomini dall'immaginazione mistificata e rende possibile un uso politico collettivo dell'immaginazione liberata. La grande cesura prodotta dal cristianesimo è così valorizzata nella misura in cui essa rende possibile un definitivo superamento della superstizione. La venuta di Cristo innesca un duplice movimento: l'universalizzazione della fede e la sua interiorizzazione; è così resa impossibile la teocrazia. E questo duplice movimento fa anche dell'esteriorità della legge, in tutte le sue possibili accezioni, un elemento residuale, retaggio di un passato che può e deve essere superato. In termini politici, il cristianesimo rende possibile la realizzazione della democrazia. La democrazia Il regime democratico è presentato come quello che più si accosta all'ordinamento naturale e che meglio corrisponde a quella libertà che la natura concede a ciascuno. Infatti, nessun individuo aliena il proprio diritto a favore di un altro, tutti gli individui restano uguali, come lo erano prima nello stato di natura. Nonostante il lessico contrattualistico è notevole la distanza del modello teorico proposto da Spinoza rispetto alla tradizione, seppur non escluda la condivisione di alcuni presupposti teorici soprattutto di un comune orizzonte problematico. Il patto spinoziano risulta da un insieme di cause che costringono gli uomini a unire le proprie forze. Il suo criterio istitutivo è l'utilità. Assai più che su un trasferimento di diritti l'assolutezza del potere democratico si fonda su uno 'spostamento' delle potenze individuali a comporre, attraverso la mediazione della ragione, un'unica potenza collettiva. Il potere sovrano non istituisce alcuna cesura rispetto al principio dell'identità naturale di diritto e potenza, limitandosi a esprimere lo spostamento dell'ambito di validità di quel principio dal piano individuale al piano collettivo. E tale potere sarà tanto più potente quanto più ampio sarà l'aggregato di potenze individuali in cui il suo diritto si radicherà. Sorto per contrastare le passioni antisociali degli uomini e per mantenere la loro condotta entro i confini della ragione, l'imperium comune vive altresì del dispiegamento delle stesse potenze individuali che lo costituiscono, progressivamente liberate dalla paura e arricchite nella cooperazione sociale. La libertà di pensiero e di espressione in cui consiste l'elemento caratteristico di una libera comunità politica è piuttosto l'indice di questo processo di continua produzione e riproduzione dell'ordine politico. Nel Trattato politico questa origine laica e fisico-materiale del potere politico si traduce nella programmatica rivendicazione di una metodologia realistica, contro le costruzioni chimeriche a cui i filosofi sono sospinti per la loro tendenza a concepire gli uomini non così come sono, ma come vorrebbero che fossero. È quindi incoerente la difesa, che pure Spinoza avanza, della potestà maritale a cui sono soggette le donne sulla base di una loro supposta inferiorità naturale rispetto agli uomini. Ma il materialismo politico spinoziano trova poi la propria definizione più precisa nel principio per cui il diritto di sovranità o dei sommi poteri non è altro che il medesimo diritto naturale determinato dalla potenza, non già dei singoli, ma della massa, che viene guidata come da una mente sola. Spinoza, per indicare il soggetto della potenza collettiva che determina il diritto di sovranità, usa il termine multitudo. La multitudo dà così piena espressione al radicamento dell'imperium nel processo materiale di formazione della sua legittimità, consentendo di pensare il 'paradosso' di una forma politica in cui l'assolutezza del potere si trova a fronteggiare la persistente assolutezza del diritto naturale dei singoli, che non viene meno nello stato civile. E ancora una volta la democrazia si mostra non solo il regime più adatto a realizzare quella sintesi, ma la 'verità' di ogni forma politica. A proposito del governo monarchico, Spinoza dichiara di adottare come unica regola nel descriverne la forma maggiormente 'virtuosa' quella di individuare le condizioni perché il popolo riesca a far sì che la potenza del re sia esclusivamente determinata dalla propria potenza. L'aristocrazia, per contro, viene presentata come una sorta di grado intermedio tra monarchia e democrazia, la cui potenza cresce nella misura in cui si amplia la composizione del consiglio aristocratico. VI – L’ANTICO REGIME E L’ILLUMINISMO L’antico regime L'inizio dell'Antico regime si può situare alla metà del XV secolo, quando intorno alla società per ceti si organizzò un sistema di potere dotato di precise strutture istituzionali: il controllo sul territorio da parte del potere centrale, le prime forme di amministrazione pubblica centralizzata, la riorganizzazione delle istituzioni giuridiche, l'assolutismo monarchico. La Francia di Luigi XIV e della Reggenza, e la Prussia degli Hohenzollern sono i casi più tipici della costruzione istituzionale dello Stato assoluto d'Antico regime, una forma di potere il cui obiettivo politico complessivo fu di superare la frammentazione e la pluralità dei centri di potere tipiche del sistema feudale. Nel XVII secolo il sistema raggiunge il proprio apogeo, e prima della metà del Settecento entra in crisi, proprio nel momento in cui l'Antico regime porta a compimento il proprio progetto di dominio attraverso la politica di potenza dei monarchi assoluti. Nel Settecento si renderà palese l'anacronismo di una società ancora strutturata secondo i ceti e di uno Stato che nei rapporti di potere non riesce a superare questa struttura. Il regime pertanto, nonostante i tentativi e le proposte di riforme era inevitabilmente diretto verso la catastrofe rivoluzionaria. È nella prima delle Assemblee costituenti francesi che viene per la prima volta usato con precisione il termine Ancien regime. Attraverso la sistematica demolizione delle strutture portanti dell'assolutismo monarchico i costituenti francesi compresero chiaramente che stavano sostituendo un regime nuovo a uno antico. Sarà più tardi Tocqueville a sistematizzare pienamente il concetto di Antico regime. In definitiva, ciò che contraddistingue l'Antico regime è la concezione organica della società nella quale il potere esiste per natura e non per contratto, e la conseguente assenza dell'idea di una sovranità rappresentativa della volontà di tutti gli individui consociati nel corpo politico. L'assolutismo in Francia Data centrale nell'esperienza di Antico regime in Francia può essere considerata il 1624, quando il cardinale Richelieu viene a fare parte ufficialmente del Consiglio superiore, iniziando quell'opera di centralizzazione e di assolutizzazione del potere del monarca che sarà portata a termine dal suo successore, Mazzarino. La strategia dell'assolutismo francese si articolò in diverse modalità. All'interno delle leggi fondamentali del regno Luigi XIV rafforzò il proprio potere attraverso la creazione di un esercito permanente, finanziato da un sistema di esazione delle tasse, di corti di giustizia regie, direttamente sottoposte al monarca, e un forte controllo sulla Chiesa di Stato, secondo i principi del gallicanesimo. A ciò si aggiunse un'abile politica doganale ed economica, di cui Colbert, fu il principale artefice; egli, seguendo le teorie mercantilistiche, promosse soprattutto il commercio e l'industria. A partire dalla morte di Luigi XIV, l'assolutismo francese inizia a mostrare segni di cedimento, pressato tra le rimostranze degli antichi ordini sociali che rivendicano le proprie prerogative, e le richieste di più ampio riconoscimento politico della borghesia emergente all'interno del Terzo stato. Fu il sistema stesso dell'assolutismo, caratterizzato dalle figure dei funzionari, e dalla mancata convocazione degli Stati, a creare le condizioni della propria disgregazione. L'assolutismo si fece promotore dell’individualismo che lo portò alla rovina promuovendo un processo di 'livellamento' fra i propri sudditi, attaccando costantemente la nobiltà, i corpi intermedi e le corporazioni, e determinando, almeno in linea di principio, l'idea che la giustizia, emanata dal re, doveva essere uguale per tutti, così come la pressione fiscale. I Parlamenti In questo quadro diventa rilevante la vicenda dei Parlamenti francesi, costantemente in conflitto lungo tutto l'Ancien regime con il potere centrale in nome della rappresentanza della nazione. Il sistema francese d'Ancien régime era organizzato secondo due istanze di potere: il re, il cui potere era assoluto, e gli organi di consiglio (il Consiglio del re, i Parlamenti, gli Stati Generali ecc.), che avevano potere solo su delega del re. Anche il potere giudiziario apparteneva al re, che lo esercitava attraverso le alte corti di giustizia, i Parlamenti. Il primo Parlamento ad essere istituito fu quello di Parigi, ne furono progressivamente istituiti altri in tredici province, su tutto il territorio francese. I Parlamenti non avevano un potere autonomo, ma delegato; eppure le loro decisioni erano revocabili solo da un atto del Consiglio del re, l'organo supremo di giustizia. Inoltre i Parlamenti avevano il diritto di rimostranza, diritto di veto sulle decisioni del re in materia giuridico-giudiziaria, e il diritto di registrazione, secondo il quale ogni editto reale per avere vigore doveva necessariamente essere registrato dai Parlamenti. Questa complessa organizzazione determinava un intreccio che portava i Parlamenti ad essere una sorta di contropotere della monarchia. Contro il potere dei Parlamenti furono istituite le figure degli intendenti di justice, direttamente dipendenti dal monarca, con attribuzioni giurisdizionali, compiti di polizia e amministrativi, e poteri attivi di controllo nell'amministrazione finanziaria dello Stato. Inoltre, con l'Editto di Saint-Germain fu sottratta al controllo parlamentare l'autorità amministrativa. Come risposta a questi provvedimenti, che andavano verso la centralizzazione, si ebbe un breve periodo di Fronda parlamentare, che, affermò il ruolo dei Parlamenti quali custodi delle leggi fondamentali e pose fortemente l'accento sul diritto di rimostranza, teorizzando di fatto una forma di monarchia controllata. La Fronda ebbe termine quando Luigi XIV iniziò il suo lungo regno, la cui politica fu contrassegnata anche dalla lotta contro i Parlamenti culminata con la revoca del diritto di rimostranza. Con la morte di Luigi XIV i Parlamenti ebbero nuovamente un ruolo centrale. Ciò tuttavia non impedì che il contrasto tra monarchia e Parlamenti diventasse sempre più forte. Da un lato, queste vicende evidenziano la necessità pratica da parte del potere centrale di contrattare la neutralità dei Parlamenti per governare, dall'altro emerge che i Parlamenti furono snodo centrale e inevitabile delle vicende politiche francesi. Dal punto di vista politico si tratta di una crisi di rappresentanza: sia i sostenitori della monarchia sia i sostenitori dei Parlamenti rivendicano il diritto storico a rappresentare la nazione francese. Ciò determina l'impasse del sistema che si trova teso tra il dispotismo amministrativo sostenuto dalla Corona, e le pretese di rappresentanza corporativa avanzate dai Parlamenti. Lo scontro è tra un'idea di monarchia rappresentativa e una proposta di società corporativa, quale tentativo di creare un sistema di organizzazione politica e sociale alternativo. Tuttavia, in entrambi i casi l'idea di rappresentanza che si sostiene è quella di Antico regime. Ciò che l'Ancien regime non riesce a superare e che ne determinerà il crollo è l'intreccio, nei Parlamenti, tra funzioni giudiziarie e funzioni politico-amministrative, che inficiava da sempre le istituzioni della rappresentanza in Francia. Solo con la proposta di Sieyes di eleggere un'Assemblea nazionale, diversa e opposta rispetto agli Stati Generali, si avrà la prima moderna assemblea parlamentare, non più con funzioni di cooperazione con il governo, ma con funzioni di rappresentanza della sovranità della nazione, depositaria del potere legislativo. Bossuet Fu principale teorico dell'assolutismo monarchico e del diritto divino dei re in Francia. La sua teoria politica si inserisce nell'ambito dell'interpretazione teologica della storia da lui delineata nella Storia universale. Protagonista della storia è la provvidenza di Dio, che guida il destino degli uomini. Bossuet si basa sulla profezia delle quattro monarchie universali narrata nel Vecchio Testamento, in cui si prevede la successione, nella storia dell'umanità, dei grandi regni mondani: gli Imperi egiziano, assiro-persiano, greco-macedone e romano; quest'ultimo, in particolare, ha visto sorgere il regno di Dio, ospitando la venuta di Cristo. In questo quadro che fa il Sacro romano impero di Carlo Magno, con il quale si conclude la storia secondo Bossuet, è giustificato in quanto attua la renovatio dell'Impero romano. La monarchia francese è stata istituita per volontà divina al fine di conservare l'eredità romano-carolingia, e ha ereditato dal Sacro romano impero la missione di realizzare pienamente la volontà di Dio. In potere, finisce per limitare il potere degli altri e viceversa. Lo sguardo storico-comparatistico non consente all'autore di proporre il modello inglese in quanto tale alla Francia. Per tale motivo nel caso della Francia Montesquieu si erge a difensore della funzione di controllo e limitazione svolta dai Parlamenti nei confronti del potere monarchico. Il balance of power inglese è pesantemente adattato alle tradizioni costituzionali francesi, l'ideale di monarchia moderata gli ispira, nel caso francese, la teoria della necessità dei 'corpi intermedi', indispensabile baluardo della libertà della nazione. In questo quadro si inserisce la tematica della tolleranza. Pur riprendendo alcuni temi machiavelliani Montesquieu si ritrova su posizioni vicine a quelle di Hobbes. Pur ritenendo auspicabile l'unità religiosa all'interno dello Stato, afferma la tolleranza, concessione del sovrano al pluralismo religioso, come male minore. Rimane in ogni caso il dovere dello Stato di controllare che non si introducano nella compagine politica sempre nuove religioni. L'assolutismo in Prussia Le vicende storiche e istituzionali che segnarono l'assolutismo d'Antico regime in Prussia sono diverse da quelle francesi. Gli Hohenzollern, divenuti re di Prussia da principi elettori che erano, si trovarono a dover fronteggiare oltre che la resistenza dei ceti anche l'Impero. A partire dal XVII secolo i giuristi e i teorici politici iniziarono a riflettere sulla forza dello Stato in contrapposizione alla debolezza strutturale dell'Impero. Nella discussione politica che si sviluppa nell'ambito di quelle che verranno definite le scienze camerali e tra i teorici tedeschi della ragion di Stato emerge il tema del bene e dell'ordine della collettività, contro ogni atteggiamento individualistico. Temi centrali sono la questione della sovranità e quello della 'polizia', la pratica dell'amministrazione territoriale che legge l'organizzazione sociale come un ordine naturale ma complesso, che dunque deve essere bene ordinato, cioè amministrato. La forma e la pratica dell'amministrazione vengono denominate 'polizia'. Con la trasformazione della polizia in cameralistica si assiste in Prussia alla sottrazione di competenze amministrative ai ceti e alla centralizzazione di queste nelle mani del re. Ed è proprio sull'attività di polizia e sul suo controllo che si gioca il rapporto fra monarca e ceti territoriali. Uno dei momenti centrali nella vicenda d'Antico regime in area tedesca è senza dubbio la pace di Vestfalia (1648), che, oltre a riconoscere la legittimità della confessione calvinista, propone nei territori tedeschi una nuova determinazione dei rapporti fra Impero, principi e ceti territoriali. Viene infatti proclamato lo jus territoriale, che significa il riconoscimento di fatto della sovranità dei principi. La pace di Vestfalia può perciò essere considerata l'origine della moderna forma delle relazioni internazionali, fondate sulla regolamentazione giuridica del sistema delle alleanze e sul riconoscimento della territorialità dello Stato. Il cameralismo È un movimento di pensiero politico. Il termine deriva dalla Kammer, la Camera, organo privato di governo nel quale il principe, aiutato dai più stretti collaboratori, dirigeva i propri affari. Con il tempo gli affari camerali divennero quelli finanziari e amministrativi. Il cameralismo fu la teoria e la pratica amministrativa attraverso le quali il Grande elettore di Prussia, ma ancora di più Federico Guglielmo I e Federico II cercarono di attuare l'organizzazione e il consolidamento della struttura unitaria e accentrata dello Stato. Il cameralismo può essere considerato la fase intermedia, dello 'Stato del benessere', che sta fra lo Stato per ceti d'Antico regime e lo Stato di diritto del XIX secolo. La pratica del cameralismo produsse un'organizzazione di tipo burocratico e anche una sorta di razionalizzazione del comando giuridico. Il diritto è pensato quale prodotto della volontà del principe. Le riforme amministrative di Federico Guglielmo I portano alla soppressione di ogni dualismo tra ceti e principe a favore di quest'ultimo; nella medesima direzione vanno anche la riforma giudiziaria e l'opera di codificazione di Federico II. È con quest'ultimo che l'assolutismo giunge al proprio apogeo. Come si è già osservato per la Francia, anche in Prussia elementi caratterizzanti il processo di assolutizzazione sono la necessità di un esercito stanziale, di un sistema di tassazione centralizzato, di un'organizzazione amministrativa stabile ed efficiente, di un impulso alle attività economiche. Il diritto naturale La Riforma protestante oltre che una territorializzazione della confessione religiosa, produsse anche un profondo ripensamento del fondamento dell'obbligazione politica, che fu all'origine di quel processo di laicizzazione del diritto denominato giusnaturalismo. Criticando il fondamento divino che sostanziava la concezione scolastica del diritto naturale, il giusnaturalismo moderno afferma l'esistenza di un diritto naturale, inteso come sistema di norme di condotta diverso e precedente da quello costituito dalle norme poste dallo Stato. Tale sistema ha validità per sé ed è superiore al diritto dello Stato. A partire da tale assunzione i teorici pongono alla base dell'obbligazione politica il riconoscimento dei diritti naturali innati, l'esistenza di uno stato di natura e la stipulazione di un contratto sociale fra tutti gli individui. Il diritto naturale moderno vuole essere esplicitamente la fonte di legittimazione dell'ordine politico. Da qui la sua maggiore efficacia pratica, ma anche la contraddizione per cui pur essendo 'naturale', non può fare a meno, per essere effettuale, della politica. Grozio È un importante esponente di questa dottrina, pone il diritto naturale quale fondamento del diritto riconosciuto valido fra gli uomini. Sulla base del principio del ricorso alla naturale ragione dell'uomo gli individui sono naturalmente socievoli e perciò portati a ricercare forme di convivenza pacifica. Ciò dà origine all'associazione politica fondata sul riconoscimento di un diritto comune, il cui rispetto è garantito dalla presenza di un sovrano, a cui i consociati hanno delegato la sovranità di origine pattizia. Grozio è consapevole della rottura dell'unitarietà del cosmo cristiano e delle controversie teologiche sull'origine del potere e del diritto che pongono in crisi i fondamenti della dottrina del diritto naturale. Cuore della sua argomentazione è pertanto la volontà di fondare la validità del diritto naturale e la conseguente legittimità della società politica che su esso si fonda. Arriva a dimostrare la cogenza del diritto naturale anche in assenza di Dio. La dimostrazione dell'esistenza del diritto naturale non è sufficiente per garantire che le sue norme vengano rispettate: da qui la necessità dell'istituzione di un'altra forma di diritto a ciò preposta, il diritto volontario, poiché prodotto della volontà del sovrano, che assume la forma della legge. Grozio, poi, distingue il diritto volontario in diritto civile e diritto delle genti che regolamenta i rapporti fra Stati. Si assiste pertanto al tentativo non di limitare la guerra, ma di giuridificarla attraverso il complesso intreccio che si stabilisce fra diritto di natura, diritto civile e diritto delle genti. La 'guerra giusta' esiste in quanto guerra 'pubblica' dello Stato, regolamentata sulla base del rispetto del diritto internazionale e di quella ragione naturale. Pufendorf tenta di dare un fondamento teorico a quello che stava diventando l'assetto costituzionale dei territori tedeschi. Cala la teoria di Grozio all'interno del contesto statuale, a differenza di Hobbes ha una visione non negativa dello stato di natura, sosteneva la socievolezza dell'uomo, fondata sopra un principio di utilità, che è la tensione al benessere propria di ogni individuo. Tale principio è sancito dalla legge di natura. Dunque nello stato di natura esiste un elemento di tensione tra il perseguire la propria utilità e la socialità, che è anch'essa una condizione naturale; questa sensazione spinge gli individui a uscire dallo stato di natura. Spinti dall'istinto verso il benessere e dalla naturale ricerca della felicità, gli individui attraverso due patti e un decreto costituiscono la civitas. Con il primo patto, di unione, gli uomini si uniscono e costituiscono il coetus, il corpo politico. Con il secondo patto gli individui delegano a una persona sola, il sovrano, il proprio potere di comando. Il secondo patto dà vita ad un potere sovrano definito inviolabile e irrevocabile, ma non deve diventare un potere sempre sul punto di trasformarsi in arbitrio, come Pufendorf interpreta il Leviatano di Hobbes. Neppure il secondo patto di Pufendorf è però estraneo alle logiche della modernità politica. Infatti rispetto as Hobbes non fa altro che separare temporalmente i due momenti della costituzione del corpo politico e dell'istituzione della volontà sovrana. La sottomissione di cui parla, in definitiva, sta ad indicare la riduzione della volontà dei singoli a quell'unica volontà sovrana che si manifesta attraverso il comando razionale della legge. L'età dei lumi L'illuminismo è l'uscita dell'uomo da una condizione di minorità di cui è egli stesso responsabile. Per analizzare più da vicino l'illuminismo lo si deve tuttavia contestualizzare storicamente, è stato detto che si può assumere come sua data d'inizio arbitraria il 1680, inteso come l'anno di apogeo dell'assolutismo di Luigi XIV e del dominio francese in Europa, e il 1789 invece, con lo scoppio della rivoluzione può segnare una sorta di termine. Furono in particolare gli illuministi francesi, i philosophes, a scendere in campo contro la tradizione e l'autorità, in nome del progresso e di una riforma razionale della società. La filosofia dei Lumi pensa sé stessa non come una metafisica, ma come una filosofia innanzitutto morale e politica, una filosofia 'militante'. Si tratta di un ordine nuovo, che parte dalla consapevolezza della necessità di ridare all'uomo un posto riconoscibile nell'universo; un universo pensato a partire solo dall'esperienza umana liberata dalla tradizione. I due termini che meglio definiscono il concetto di ragione, l'unico strumento di cui l'uomo secondo l'illuminismo può disporre, sono critica e potere. La ragione illuministica opera infatti come critica del passato. D'altra parte il potere, inteso hobbesianamente come la capacità di compiere un'azione, è l'unica capacità propria dell'individuo moderno. La critica determina un passaggio dall'ambito del trascendente a quello della realtà positiva, affermando che l'uomo conosce solo attraverso le proprie sensazioni: la sua mente è una tabula rasa e non esistono in lui idee innate. Dunque l'uomo è totalmente libero nelle proprie capacità conoscitive e ciò gli permette di esercitare il potere razionale. Tutto ciò porta alla determinazione dei nuovi concetti di natura e di natura umana, che viene elaborata anche in modo polemico nei confronti della tradizione scolastica precedente. La 'nuova' natura e la 'nuova' ragione presentano ai philosophes il problema di determinare una nuova etica individuale e sociale che indirizzi l'uomo e lo tragga fuori da quella condizione di solitudine angosciosa determinata dalla fine della tradizione. Di fatto si configura una nuova fede, un vangelo della ragione e del progresso. I tre precetti che guidano il XVIII secolo, la fiducia nella ragione, l'ottimismo verso il futuro e il sentimento di umanitarismo, sono la laicizzazione delle tre virtù teologali del cristianesimo, fede, speranza e carità. La nuova 'concorrenza' tra fede e ragione riporta al centro del dibattito filosofico la questione del concetto di religione e della funzione che essa ha nel determinare la condotta umana. In particolare l'illuminismo riflette su come giustificare la presenza del male nel mondo; la giustificazione del male a partire dalla volontà divina, fonte di giustizia, che si esprime attraverso modalità spesso incomprensibili per la razionalità umana. E tuttavia ciò è anche testimonianza della ormai manifesta incapacità dell'uomo a dare risposte definitive ai problemi della conoscenza, della morale, della politica. Il movimento dei Lumi non fu tuttavia unitario, tanto che non solo si possono distinguere diversi tipi geografici di illuminismo, ma anche nello stesso gruppo vi sono diverse interpretazioni del mondo naturale e umano. Costante in tutti è la riflessione sulla libertà, che l'illuminismo francese trae dalla cultura inglese. Dio ha creato l'uomo libero e come tale lo ha lasciato nel mondo, in balia della sua ragione e delle sue passioni; il problema è allora sapere usare tale libertà e giungere a determinare fin dove essa si estende o debba estendersi. Prodotto esemplare di questo movimento culturale e politico è l'immagine moderna dell'intellettuale, di cui i philosophes saranno i primi esempi. Gli illuministi prendono il posto e il ruolo che era stato dei chierici medievali, cioè interpretano la funzione di custodi di valori, in particolare della libertà. Si crea, in definitiva, una nuova coscienza all'interno del gruppo dei philosophes, che prendono coscienza di essere un gruppo sociale che si pensa indipendente, autonomo e libero da ogni influenza del potere e che decide di servirsi di questa sua condizione per dei mestieri, uscita in 17 volumi, guidata prima da Diderot e d'Alembert, poi solo dal primo che raccolse attorno a sé i principali esponenti della cultura francese settecentesca. Nel Discorso preliminare d'Alembert esprime scopo e obiettivo dell'opera: l'Enciclopedia vuole esporre l'ordine e i rapporti fra le conoscenze umane, mostrando i principi generali, ma anche i dettagli essenziali. Cronologia, storia e geografia diventano le basi di una moderna scienza della società. Obiettivo è porre il sapere a disposizione del maggior numero di persone. D'altra parte Diderot nella voce Enciclopedia chiarisce l'indipendenza politica che è alla base dell'opera. Diderot nella voce Autorità politica afferma che fondamento del potere del re è un contratto stipulato per l'utile della società: il principe riceve dai sudditi stessi l'autorità. Il contratto di cui qui si parla sembra avvicinarsi al contratto affermato nelle teorie monarcomache. Infatti, nonostante Diderot nel proseguire della voce ribadisse l'impossibilità della resistenza ai sovrani, il suo scritto fu giudicato sovversivo. La polemica contro la concezione assolutistica e paternalistica del potere regio continuò a essere presente anche nelle voci che vennero redatte successivamente. Nella voce Sovranità emerge il tema del consenso quale base del potere politico. Risulta evidente la polemica nei confronti della monarchia francese e dei rischi di degenerazione nel dispotismo che l'assolutismo correva. Se pure gli illuministi non giunsero ad assumere posizioni dichiaratamente democratiche, essi iniziarono una riflessione sulla necessità della rappresentanza dei cittadini nel governo. Significativa per la radicalizzazione della politica illuminista è la voce Rappresentanti, redatta probabilmente da d'Holbach, ma con la forte presenza di Diderot. “I rappresentanti di una nazione sono cittadini scelti, che in un governo temperato vengono incaricati dalla società di parlare a suo nome”: in questa voce ciò che viene proposto è il modello della monarchia inglese. D'altra parte la voce segue la teoria lockiana nel porre quale fondamento dell'obbligazione politica la difesa della proprietà. La constatazione dell'impossibilità di realizzare una vera politica di riforma dell'assolutismo regio determinò una svolta radicale nel pensiero di Diderot, che si orienta su posizioni più decisamente antiassolutistiche e tendenzialmente democratiche. Egli riconosce a questo punto come unico sovrano e legislatore il popolo e il suo diritto a condannare anche in maniera cruenta quel sovrano che vada contro la volontà generale. Diderot in questi anni è influenzato dalla tradizione del repubblicanesimo. Voltaire Se Diderot è la figura principale del progetto culturale dell'Enciclopedia, emblema dell'illuminismo è senza dubbio Voltaire, capo carismatico dei philosophes, fu il protagonista della lotta per le riforme, che egli concentrò intorno alla strenua rivendicazione della tolleranza. Nella sua vasta produzione, costante è l'elemento politico e la proposta dello Stato di leggi e della garanzia della libertà politica e di opinione per gli uomini. Nelle principali opere politiche di Voltaire non viene proposta una specifica forma di Stato, ma ritroviamo una sorta di relativismo politico che fa ritenere a Voltaire che ogni Stato deve avere la forma di governo che meglio rispetta i costumi della nazione che guida. Lo Stato di cui parla Voltaire è l'ordine politico fondato sulla libertà della legge. Il filosofo aveva affermato il tema della libertà della legge razionale in opposizione ad un'idea di politica, di derivazione machiavelliana, fondata sulla potenza. Si ritrovano i concetti principali del moderno contrattualismo seppur senza un esplicito riferimento. L'originalità sta nel ripensare il paradigma della modernità politica alla luce della questione della tolleranza, che di quel modello diventa in tal modo il cuore, ma anche il suo superamento. Voltaire attraverso la tolleranza affronta temi quali nazione, storia o economia. La storia è letta da Voltaire secondo un ordine secolarizzato, profano e laico, che si determina progressivamente lungo il corso degli eventi e in cui viene posta maggiore attenzione ai rapporti economici. Ne emerge un 'vangelo laico' del lavoro centrato su di una sorta di tolleranza economica. Tuttavia è proprio la dimensione storica della sua riflessione che mette in luce la difficoltà, l'ambiguità, ma anche la novità del pensiero: la questione della differenza culturale e antropologica. Da un lato si trovano nelle sue pagine affermazioni che seguono la teoria poligenetica dell'uomo, implicante la costruzione di una gerarchia delle razze. Dall'altro l'elaborazione di una teoria economica della tolleranza lo porta ad avere una visione della differenza non più negativa, ma indifferente, irrilevante. La fisiocrazia Nelle posizioni in materia economica di Voltaire forte è l'eco della dottrina fisiocratica, sviluppatasi in Francia in ambito illuminista. Esponente principale fu Quesnay. Il nome di fisiocrazia sta a indicare la concezione secondo la quale centrale nell'economia deve essere il governo della natura, preponderante sul commercio e l'industria. I fisiocratici affermano l'esistenza di un ordine naturale razionale che si regge su tali principi e propongono una serie di riforme di cui si fece interprete il ministro Turgo. Essi vedono nella terra la base della ricchezza. Sono pertanto tra i primi a cogliere la centralità nella dialettica economica della produzione di un surplus che costituisce la vera origine della ricchezza. Le posizioni fisiocratiche portavano a una critica del sistema sociale e politico che non consentiva una libera attività di investimento. Nasce la teoria del dispotismo legale: nel monarca devono concentrarsi il potere legislativo e quello esecutivo al fine di rendere possibile la realizzazione positiva dei dettami della natura e la conseguente felicità dei sudditi. Benché si preveda l'istituzione di una magistratura indipendente che deve controllare l'accordo tra leggi e ordine naturale, è evidente che il progetto politico della fisiocrazia andava contro la teoria della separazione dei poteri. L'illuminismo materialistico e radicale Nell'ambito dell'illuminismo francese posizioni più radicali furono assunte Helvétius e d'Holbach. Helvétius sostiene una visione della natura umana strettamente materialista, sensista e orientata all'utilitarismo. L'uomo non nasce né buono né cattivo: ogni suo comportamento è diretto dalla legge dell'interesse. D'altra parte afferma la naturale uguaglianza degli uomini (comprese le donne), fondandola sulle identiche capacità intellettuali di riconoscere quello che è il proprio utile. Il compito del legislatore è perciò quello di operare una vasta opera di riforma al fine di accordare l'interesse privato e quello pubblico. Obiettivi polemici sono il fanatismo religioso e il dispotismo, a cui oppone la necessità di un sistema educativo egualitario. I principi della filosofia materialista di Helvétius si ritrovano in d’Holbach. L'utile è la legge che regola la condotta degli uomini: la felicità è la base del contratto che lega sovrano e nazione. La politica deve fondarsi perciò sulla natura, l'esperienza e l'utilità generale. Il naturalismo di d'Holbach non riconosce però un'uguaglianza originaria fra gli uomini; anzi, la ricerca della felicità è fondata sulla consapevolezza dell'ineguaglianza, che porta gli uomini ad aiutarsi reciprocamente. La politica si fonda solo sulla conoscenza della natura e sulla legge di natura che spinge alla felicità. Da un punto di vista pratico, tuttavia, pensa all'emancipazione degli individui attraverso un riformismo in senso rappresentativo dell'assetto costituzionale dello Stato. È poi centrale che egli veda il sovrano come una figura essenzialmente umana. In linea teorica il riformismo di d'Holbach va in direzione della sovranità popolare, ma dal punto di vista pratico la rappresentanza politica a cui pensa è quella dei proprietari terrieri, che di fatto esclude i due terzi degli abitanti della Francia del tempo. All'interno del movimento illuminista francese si sviluppò una linea di pensiero che poneva al centro della riflessione la necessità di realizzare un'assoluta uguaglianza fra gli uomini. Appartiene a questa corrente il pensiero di Meslier, che affronta la questione del rapporto tra religione e politica, e afferma una filosofia atea, proclamata in nome della fratellanza e dell'egualitarismo che accomuna gli uomini e il cui riconoscimento solo può liberare l'uomo dall'oppressione politica e della superstizione. Elementi di socialismo o protocomunismo si ritrovano anche in Morelly, la cui opera influenzò l'ala più radicale della rivoluzione. Lo stato di natura, storicamente esistito, era caratterizzato da un'assoluta uguaglianza e comunità di beni, distrutte dall'introduzione della proprietà privata. Per ripristinarlo egli pensa a uno Stato fondato sull'abolizione della proprietà privata, fatti salvi i mezzi per i bisogni e i lavori quotidiani. Il principio che regge questo Stato è “la Ragione vuole, la Legge comanda”. La critica della proprietà quale fonte dei mali della società è presente anche in Mably. Analizzando l'uomo che vive in società, vi trova una continua ricerca del proprio benessere ed è per tale motivo che la politica deve avere un ruolo centrale, perché essa è la scienza che permette il maggior benessere collettivo. Propone una forma di governo repubblicana che prevede l'abolizione graduale della proprietà e il ruolo centrale di un legislatore. Nel pensiero di Mably è costante la tensione fra utopia politica e realtà storica. Afferma la necessità della rappresentanza politica della nazione, tuttavia il “grido” della nazione può sempre revocare ogni mandato rappresentativo. Il radicalismo, fu portato alle conseguenze estreme dal marchese di Sade, che realizza la critica dell'illuminismo quale opera di autorischiaramento, svelandone il volto nascosto, cioè la violenza che domina il mondo naturale e l'inevitabile nichilismo e pessimismo che colpisce l'individuo che su ciò riflette. Nella sua opera filosofica accanto a un compendio di tutte le forme di erotismo propone una riflessione sulla morale e sulla politica, contesta l'utopia materialista e atea di d'Holbach e Helvétius: oppone una visione nichilista, dura e violenta della natura umana. Il tema illuminista della felicità viene identificato con il piacere, ma il piacere umano, nella visione tragica che Sade ha della natura umana, è sempre e soltanto violenza: il godimento deriva dal dolore che si procura all'altro. La rivoluzione conferma Sade nelle proprie convinzioni: è espressione violenta della natura che costantemente nel suo moto distrugge e ricrea forme di vita. La Germania Parallelamente si sviluppò nei territori tedeschi un'Aufklärung (rischiaramento) attenta ai contenuti politici del dibattito illuministico. Caratteristica degli illuministi tedeschi è la collaborazione stretta con i sovrani: la progressiva emancipazione della ragione umana dal fanatismo, dalla superstizione, dalla tirannia può avvenire solo se guidata da un sovrano assoluto che sa interpretare il diritto naturale attraverso leggi positive tese a realizzare il benessere e l'ordine dello Stato e dei sudditi. L'illuminismo in Germania si sviluppò influenzato anche dai principi cameralistici di razionalizzazione e centralizzazione del comando sovrano e dalle teorie della scuola del diritto naturale. È indubbio che l'autore più importante dell'illuminismo tedesco è Kant, ma ve ne sono anche molti altri. Comuni a tutti sono i principi della tolleranza religiosa, ribadita da Lessing che narra di un re che morendo lasciò un anello a ciascuno dei suoi tre figli, assicurando a ognuno che egli è l'unico erede del prezioso bene. I tre figli combattono l'uno contro l'altro credendo ciascuno che gli altri due siano dei falsari, finché non riconoscono la comune derivazione dal medesimo padre di tutti e tre gli anelli. Gli anelli sono raffigurazione delle tre religioni monoteistiche (cristianesimo, ebraismo, islamismo) e l'intento di Lessing è quello di dimostrare l'assurdità della lotta intollerante e la necessità che si giunga ad un reciproco riconoscimento delle religioni come espressioni ugualmente legittime di una sola volontà divina. Oltre alla tolleranza sono comuni agli autori tedeschi il riconoscimento di un'equa amministrazione della giustizia, la garanzia del rispetto dei diritti naturali e la connessione che si individua fra l'esigenza di benessere e quella di ordine e, di conseguenza, il riconoscimento del dovere di essere felici. Dominante nella riflessione politica di Thomasius è il concetto di felicità. Afferma la strumentalità dell'associazione fra gli individui. Se scopo della società è consentire all'individuo di realizzare le proprie inclinazioni, scopo dello Stato è quello di permettere e mantenere l'esistenza della società contro il ritorno nel disordine dello stato di natura. Particolare attenzione, poi, dedica alla questione del diritto. Nell'agire dell'uomo egli individua tre ambiti: quello interno, che è regolato dalla legge di natura; quello esterno, che è dominato dalla coazione della legge positiva emanata dal sovrano; e un terzo ambito, quello della prudenza, ci comprende tutte quelle azioni private che possono essere sanzionabili dall'opinione pubblica. In Wolff è centrale il tentativo di dedurre dal dovere il diritto, anche naturale. Afferma il benessere quale motore che guida l'ordine politico. Il singolo ha il dovere naturale di raggiungere invadere e occupare pressoché completamente lo spazio della società civile. Si afferma per la prima volta in Scozia il concetto di una società civile commerciale. Hume Crede che alla base dell'ordine sociale e politico non vi è un contratto stipulato da individui che sono negativamente liberi e razionali e dunque necessitati a darsi un ordine diverso. Al contratto Hume oppone il concetto di evoluzione, processo naturale che determina attraverso il cammino storico le regole del giusto comportamento. Per Hume non c'è una profonda discontinuità tra uomo presociale e uomo sociale, proprio perché l'uomo di natura non è radicalmente egoista, ma caratterizzato da socievolezza nei confronti degli altri e 'simpatia'. Hume identifica l'uomo sociale con l'uomo di natura, e dunque ai suoi occhi la società è il reale 'stato di natura' dell'uomo, perché è nella società che vengono 'educati' gli istinti della natura umana. La naturale socievolezza humeana è diversa poiché è intesa come necessità, per ciascun uomo, di rafforzare la propria identità passionale. La società è un utile strumento che permette alle passioni di essere soddisfatte in maniera più sicura. Ciò significa che per lui la funzione educativa della società determina un aumento dei bisogni, rendendo pertanto necessaria, lungo il corso dell'evoluzione, la costituzione di un nuovo sistema organizzativo per regolamentare una struttura sociale che il naturale progresso della natura umana rende sempre più complessa. La socievolezza e la simpatia naturali risultano a questo punto dello sviluppo sociale troppo deboli per garantire spontaneamente un ordine pacifico; emerge perciò la necessità di un governo e di una teoria della giustizia che tutelino, in particolare, la proprietà. Per Hume il governo non ha una funzione creativa rispetto alla società, non ne è l'origine e la causa efficiente, ma serve solo come 'aiuto' alla debolezza di carattere costitutiva della natura umana. Il consorzio politico è un miglioramento di ciò che già c'è in natura. Hume vede coesistere nel consorzio civile un insieme di virtù naturali istintive con un insieme di virtù civili che permettono all'uomo di vivere all'interno della comunità politica. Tale mistione di virtù costituisce il principio della sua teoria della giustizia, che è razionale in quanto fondata sul motivo dell'utile e che si produce quando emerge la necessità di tutelare la proprietà. Hume affronta poi il problema della stabilità della società politica e il rapporto tra autorità e libertà. Benché non tratti mai esplicitamente del concetto di sovranità anche Hume deve riconoscere la necessità di una forma di coazione al fine di salvaguardare la convivenza civile, ma affermando al tempo stesso anche l'imprescindibile dovere di salvaguardare la libertà del singolo. Smith riprende, modificandolo, il concetto humeano di 'simpatia', che in lui è il porsi del soggetto nella situazione dell'altro per esprimere giudizi di approvazione o disapprovazione sul suo comportamento sociale. Al concetto di simpatia Smith affianca quello di 'proprietà' o 'appropriatezza', che definisce il rapporto di adeguatezza o inadeguatezza tra l'affezione provata da un soggetto e l'oggetto che la causa. Tale rapporto è prodotto dal costume sociale. Smith riconosce la società come necessaria manifestazione della specificità umana e, quindi, la naturalità della società. Nella descrizione dell'uomo appare anche un'altra qualità, la prudenza. La compenetrazione tra passioni egoistiche e passioni sociali, di propriety e prudence, è il tema centrale di Smith, infatti, analizzando la giustizia, evidenzia lo stretto rapporto che intercorre tra passioni egoistiche e passioni sociali regolatrici del comportamento del prudent man. Nel pensiero di Smith questo rapporto è trattato come rapporto tra sfera economica e sfera politica. Osserva i rapporti giuridici, politici, economici con un approccio storico-empirico che lega strettamente il carattere economico della jurisprudence con la storicità delle forme giuridiche e politiche. Il dualismo fra passioni egoistiche e passioni sociali ritorna centrale attraverso l'immagine metaforica della mano invisibile (una sorta di razionalità provvidenziale che si preoccupa di coniugare l'interesse del singolo con l'interesse collettivo). Se è indubbio che la Ricchezza delle nazioni è una ricostruzione storico-giuridica delle forme sociali e politiche, proprio l'analisi del rapporto tra ricchezza e potere che costituisce il tema dell'opera, fa emergere una riflessione che è anche politica. Più problematico è il rapporto tra virtù e interesse, ed è per questo che deve introdurre la figura politica del sovrano, che ha un compito di mediazione politica e normativa fra i diversi interessi in campo. Nell'opera di Adam Smith non ritroviamo una teoria normativa della politica, ma un'indagine storica delle modalità complesse in cui si danno i rapporti fra singoli individui e fra individui e società all'interno dello Stato. Emblematica è la figura del sovrano i cui compiti sono essenzialmente tre: proteggere la società dalla violenza che può provenire da altre società, proteggere ogni membro della società dall'ingiustizia e dall'oppressione, erigere e conservare certe opere pubbliche e certe istituzioni pubbliche. Ciò che non spetta al sovrano è, invece, sovrintendere all'attività produttiva dei privati e indirizzarla in modo da essere funzionale all'interesse della società. Smith comprende la contraddizione che sta fra interesse privato e interesse pubblico e prova a risolverla attraverso la figura del sovrano legislatore: ciò che tuttavia Smith non descrive è da dove il sovrano tragga e in che modo esplichi la propria capacità normativa. Ferguson Riprende molti dei temi presenti nella speculazione di Smith, in particolare l'attenzione per lo sviluppo della società e per il passaggio attraverso i diversi stadi di civilizzazione che ogni società compie. Individua quattro stadi attraverso i quali tutte le società evolvono e che vengono definiti in base alla struttura economica che in essi prevale, e cioè la caccia, la pastorizia, l'agricoltura e il commercio. L'attenzione di Ferguson è rivolta in particolare allo studio dello stadio commerciale della civiltà, quello a lui contemporaneo. Ciò che caratterizza le moderne società civili e commerciali è un'ampia divisione sociale del lavoro che si riproduce sia a livello dello Stato sia a livello della società. Questa attenta analisi storica serve quale base concreta su cui fondare la propria teoria. Riproducendo lo schema storico già presente in Machiavelli, ritiene che il destino delle società commerciali possa essere sia di libertà sia di tirannide, a seconda che la scelta sia o meno per una visione dell'individuo quale cittadino soldato. Perciò Ferguson vede l'importanza di un public spirit che domini la scena politica, riproponendo la teoria machiavelliana e repubblicana della necessità del conflitto virtuoso fra i cittadini quale garanzia di libertà e baluardo contro l'oppressione e il dispotismo. La rivoluzione americana Il 4 luglio 1776, riuniti nel Congresso continentale, i rappresentanti delle tredici colonie inglesi dell'America del nord spiegavano attraverso un breve testo, la Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d'America, il motivo della loro ribellione e affermavano la necessità dell'indipendenza dalla madrepatria. La Dichiarazione di indipendenza è uno dei testi centrali della modernità occidentale, un testo complesso in cui si intrecciano diverse tradizioni filosofiche. Redatta da T. Jefferson, che la sottopose alle correzioni di B. Franklin e J. Adams, formalmente si situava nella tradizione giuridica inglese dei documenti di protesta. Ma in realtà la Dichiarazione è un documento politico totalmente nuovo, perché finisce con il distruggere e scardinare il legame fra monarca e sudditi, proclamando il diritto dei governati di scegliersi il e, per ciascun cittadino, i diritti naturali alla vita, alla libertà e al perseguimento della felicità. Si possono distinguere due parti in questo testo: nella prima parte Jefferson, afferma l'evidenza dell'uguaglianza degli uomini, dei diritti naturali, della necessità del consenso dei governati per la legittimità dei governi, dell'esistenza del popolo americano quale popolo libero; nella seconda parte si trovano le esplicite imputazioni rivolte direttamente al re Giorgio III attraverso l'elenco dei torti subiti dagli americani che gli procurano l'accusa di tirannia. Ciò determina la necessità della secessione. La Dichiarazione si conclude con una sorta di giuramento civico di impegno reciproco fra i cittadini che li lega nella vita, nelle fortune e nell'onore. Uno dei temi centrali è l'accusa di tirannia al monarca inglese su cui è evidente l'influsso della teoria repubblicana della libertà attiva e virtuosa del cittadino. Soprattutto, è grande l'influenza di un testo inglese, le Cato's Letters, che costituirono la base teorica per l'opposizione dei coloni americani all'autorità della madrepatria, in esse è centrale il tema della virtù politica e la difesa della libertà, sia politica sia religiosa, contro la tirannide. In queste lettere si attacca l'idea assolutistica del potere negando la teoria dell'autorità paterna, e in nome della libertà si difende il tirannicidio. Nessuna nobiltà di nascita, nessuna competenza, per gli autori, legittimano il dominio di una minoranza, perché il popolo è in grado di governarsi da sé. I diritti naturali che vengono richiamati in apertura della dichiarazione sono quelli lockeani, con la sostituzione della proprietà con la felicità. Jefferson riprende poi la tradizione giusnaturalista dell'individuo portatore di diritti naturali, su cui viene fondato il potere di autogovernarsi in nome della libertà. A questa tradizione si affianca l'elemento teologico, attraverso cui viene creato il mito della Nuova Gerusalemme. Il patto che stringono i coloni americani fra di loro, e che ne giustifica l'indipendenza, se da una parte vuole essere la realizzazione storico-politica del contratto giusnaturalista, dall'altra riprende le procedure del patto, o covenant, che nella tradizione biblica lega Dio e il suo popolo. La Dichiarazione di indipendenza rende così possibile sia la creazione del popolo universale, cioè del popolo che afferma i diritti di tutti gli altri uomini di tutti gli altri popoli, costituito da individui portatori di diritti, ma anche la definizione del popolo storico e particolare, il popolo americano, che introduce, almeno in linea teorica, il concetto di nazione, dal cui riconoscimento sono esclusi gli inglesi, gli indiani d'America, i neri e le donne. Nel complesso, veramente importante è l'idea di una politica democratica che si sottrae alla rigida ossessione dell'unità politica che invece la democrazia sul continente europeo eredita dal pensiero razionalistico della sovranità. In America, il popolo esiste unitariamente come nazione, ma questa esistenza unitaria è garantita dalla sua autocostituzione come popolo e non dalla sovranità. La Costituzione federale La guerra fra coloni e inglesi si concluse con il riconoscimento dell'indipendenza dei tredici Stati. Questi si diedero ognuno una costituzione scritta fondata sul principio della sovranità popolare. Già esisteva la Confederazione degli Stati Uniti, che aveva devoluto al Congresso continentale i poteri in materia di guerra e di politica estera. In seguito venne convocata la Convenzione, un'assemblea di delegati degli Stati con il compito di rafforzare il potere centrale della Confederazione, destituendo di fatto il vecchio Congresso continentale. Nell'ampio dibattito che si svolse in questa occasione il pensiero americano sul governo mostra di prescindere dal concetto europeo-continentale di sovranità, la forma politica che emerse fu assolutamente nuova, quella della repubblica federale. Con la federazione saltava la logica della sovranità: venivano a coesistere assemblee legislative indipendenti, quella federale e quelle statali, non sovrane ma fornite di competenze per lo più fiscali e amministrative. In questa battaglia spicca la figura di Hamilton, il primo che firmò la Costituzione e che si impegnò a lungo nella lotta per la ratifica. Documento principale di tale dibattito è il Federalist che raccoglie gli 85 articoli, scritti oltre che da Hamilton, che aveva anche redatto il piano dell'opera, da Jay e Madison. Gli articoli di Hamilton sottolineano fortemente l'esigenza di un potere federale forte e in grado di agire, mentre la mano di Madison, il vero architetto della costituzione, si ritrova là dove si pone l'accento sulla necessità di limitare il potere, anche quello federale, e sull'esigenza di stabilire strumenti di controllo e bilanciamento su di esso. L'opera si divide in due parti: i primi 36 articoli attaccano la confederazione, i successivi difendono la costituzione federale. La federazione deve essere scelta perché viene ritenuta la forma politica meglio in grado di garantire la pace, ma anche l'unica barriera possibile contro le fazioni interne, in quanto permette il duplice processo di accentramento degli interessi di carattere generale e il decentramento degli interessi di carattere locale. La Costituzione degli Stati Uniti si afferma come una costituzione decisamente democratica. Del sistema inglese riprende la tradizione del governo limitato, cioè dell'istituzione di un governo in cui i poteri sono tutti intrinsecamente limitati da quella originaria sovranità popolare. Centrale è la distinzione tra regime democratico e regime repubblicano: la repubblica offre migliori garanzie di controllo delle fazioni rispetto a un regime classicamente democratico, cioè a partecipazione diretta dei cittadini al governo. Ciò che contraddistingue la virtù del popolo americano è la lotta contro la tirannia del monarca inglese, questo motivo determina la scelta di convocare le elezioni a brevi del sopruso e dello sfruttamento che è lo Stato, il quale non fa che incrementare un processo di decadimento scandito in tre tappe. Il tratto conclusivo della parabola storica dell'umanità coincide con l'affermazione del dispotismo e della schiavitù politica. A quella cattiva uscita dallo stato di natura che è la storia umana come si è sviluppata fino a lui, Rousseau non oppone però un ritorno allo stato di natura ma il progetto di nuove associazioni basate sulla volontà generale. Il contratto Il concetto di volontà generale viene concepito nella voce Economia politica dell'Enciclopedia come il solo fondamento possibile di uno Stato basato su un patto di equità. Il contratto a cui pensa Rousseau è un patto di associazione e non un patto di sottomissione e non implica quindi né l'alienazione parziale della propria libertà a qualcun altro che sia preesistente né l'alienazione integrale della propria capacità politica al Terzo nato dal patto, al Leviatano. Anche il patto a cui pensa Rousseau è un patto d'unione ma si differenzia da quello di Hobbes per due aspetti fondamentali: ha come fine non l'alienazione ma la disalienazione dell'uomo, cioè la sua liberazione, e non genera un'istituzione sovrana ma una comunità. La prima caratteristica discende dal fatto che il contratto rousseauiano non serve a uscire dallo stato di natura, ma a correggere radicalmente il corso corrotto della storia. La seconda caratteristica significa che la sovranità non è rappresentabile e istituzionalizzabile, che è davvero un Tutto omogeneo e onnipotente. La sicurezza comune non deve implicare la sottomissione al sovrano: la politica non può consistere nel pagare la sicurezza con la libertà. Si tratta di creare le condizioni che permettano agli uomini di unirsi in un corpo politico senza per questo dover rinunciare ai propri diritti inalienabili di libertà, cioè di uguaglianza e di indipendenza reciproca. Bisogna trovare una forma di associazione che difenda e protegga con tutta la forza comune la persona e i beni di ciascun associato. In Rousseau l'uguaglianza non è un mero dato di fatto ma un valore, da ripristinare se va perduto. Condizione essenziale del patto è l'alienazione totale di ciascun associato, con tutti i suoi diritti, alla comunità. Ogni contraente cessa di essere persona privata e assume la nuova qualità di membro indivisibile del Tutto. Nasce in questo modo un corpo morale e collettivo che possiede una sua vita, una sua volontà. Ciò che i singoli individui cedono nel patto è l'insieme dei loro diritti individuali presociali allo scopo di tutelarsi. La persona pubblica che si forma attraverso l'unione di tutte le altre si chiama repubblica o corpo politico. Quest'ultimo è definito Stato dai suoi membri quando è passivo, corpo sovrano quando è attivo, potenza in relazione agli altri corpi politici. Questa completa rinuncia ai diritti naturali ha favorito una interpretazione di Rousseau come pensatore totalitario, si tratta tuttavia di una prospettiva che non coglie appieno il rapporto stabilito da Rousseau tra libertà e obbligo politico. Anzitutto obbedire alla volontà generale non significa nient'altro che obbedire a sé stessi in quanto membri del corpo politico: non c'è l'elemento terroristico del totalitarismo. Inoltre l'alienazione totale non implica la soppressione dei diritti naturali dell'individuo, ma la loro trasformazione in diritti civili. Con il contratto sociale la libertà naturale viene ceduta in cambio della libertà civile. Mentre nello stato di natura la garanzia della libertà è costituita dall'assenza di relazioni interumane, in ambito sociale essa dipende dalla forza dello Stato e dalla subordinazione delle volontà particolari alla volontà generale. La volontà generale non si configura pertanto come una volontà estranea, ma come un'espressione cogente della sua stessa volontà. La politica in Rousseau non è più strumentale, ma è portatrice di valori morali. Certo, viene meno il 'faccia a faccia' tra cittadino e Stato nel quale la modernità liberale fa coincidere la libertà: verso il potere non c'è diffidenza né richiesta di limitazione; in sostanza, il suo contratto è un patto del popolo con sé stesso. La volontà generale è ben diversa dalla volontà di tutti: quest'ultima è solo la somma degli interessi individuali, e non ha un'autonoma esistenza politica. Tuttavia, il consenso unanime è richiesto unicamente al momento della stipulazione del patto sociale, mentre in tutte le altre circostanze è valida la regola della maggioranza, purché in questa siano presenti le caratteristiche della volontà generale. L'esercizio della volontà generale, cui spetta la funzione di emanare le leggi, riposa sulla sovranità del popolo, che va intesa come una realtà assoluta, in quanto non è limitata da alcuna legge o costituzione avendo già in sé stessa il perseguimento del pubblico bene come limite fondamentale, e indivisibile, poiché la sovranità non può essere divisa in parti diverse. Inoltre, essa è inalienabile. Ma anche quando si verifica la degenerazione dei valori morali, quando prevalgono le passioni particolari, la volontà generale non scompare; rimane piuttosto allo stato latente. La deviazione dalla recta ratio della coscienza e dell'interesse comune che si verifica può offuscare nei cittadini la visione dell'interesse generale, ma non può cancellarlo. La democrazia Per Rousseau, qualunque sia la forma di governo, la costituzione dello Stato deve essere democratica e repubblicana: la sovranità appartiene alla totalità dei cittadini considerati come un solo corpo, una persona morale. Il patto fonda una volontà comune sempre presente, non un'istituzione sovrana e rappresentativa. Quando un popolo elegge dei rappresentanti e affida loro il mandato di esercitare la potestà legislativa, abdica alla propria sovranità, in quanto la volontà del Parlamento è destinata in questo modo a diventare la volontà sovrana dello Stato. Se commisurata alla totalità della nazione, la volontà del Parlamento si configura come una volontà particolare, espressione di una parte solta del corpo sociale. L’irrappresentabilità della volontà generale vale non solo per l'attività legislativa ordinaria, ma anche per l'atto straordinario attraverso cui un popolo si dà una costituzione, una forma politica permanente. A quest'ultimo scopo, infatti, Rousseau introduce la figura demiurgica del legislatore; è questo che, dall'esterno e in virtù della propria superiore saggezza, propone al popolo la costituzione formale senza coinvolgere la sovranità del popolo. Per questa concezione della sovranità popolare Rousseau è stato generalmente considerato come il teorico della democrazia moderna, anche se nel Contratto sociale egli preferisce parlare di repubblica. Quello di Rousseau è un contratto che dà vita a un potere democratico in cui non c'è l'alienazione fra uomo e cittadino, tra privato e pubblico. Ciò significa sia che non ci sono istituzioni in cui la sovranità si rappresenti e si alieni. È, quella di Rousseau, se non una democrazia totalitaria certo una democrazia totale, che si fa carico di tutti gli uomini e di tutto l'uomo, della sua integrità. Non pensa la libertà politica come sicurezza della privata indipendenza, bensì come cittadinanza, vale a dire come partecipazione collettiva al potere e al corpo politico. Di fatto, la corretta espressione della volontà generale si verifica pienamente solo nel contesto di una comunità virtuosa. Rousseau pone una netta differenza fra sovranità, cui spetta l'emanazione delle leggi, e governo, cui compete la loro esecuzione. Il governo è soltanto un ministro del popolo sovrano e non deriva da un patto, ma dalla legge. Ferma restando la natura democratica dello Stato fondato sul patto, il governo come concreto esercizio del potere può essere affidato dal popolo a persone o istanze diverse, senza che ciò comporti alcuna delega della sovranità popolare. Rousseau ritiene possibili tre forme di governo. Quando il corpo sovrano rende depositario del governo tutto il popolo o la sua maggioranza si ha la democrazia, la forma di autogoverno popolare in cui legislativo ed esecutivo tendono a coincidere. E tuttavia non è mai esistita una vera democrazia, né mai esisterà. Il governo democratico sarebbe infatti concretamente possibile unicamente a condizioni molto particolari: stato di dimensioni limitate, comunità di uomini virtuosi, sostanziale uguaglianza economica. La classificazione delle forme di governo comprende poi l'aristocrazia, in cui il governo è nelle mani di una minoranza, e la monarchia in cui sta in uno solo. Non ogni forma di governo è tuttavia adatta a qualsiasi paese. In generale, il governo democratico è adatto per gli Stati piccoli, l'aristocrazia per quelli di media grandezza, la monarchia per i grandi Stati, in quanto gli Stati troppo estesi territorialmente richiedono di fatto un governo dispotico-burocratico, e l'estraneità reciproca tra i cittadini impedisce la sincerità, la partecipazione e l'amor di patria. L'alternativa tra la politica della virtù e la politica della potenza è evitabile unicamente attraverso il sistema dei governi federali. L'unità dello Stato non dipende soltanto dalle sue dimensioni, così come la coesione del corpo politico non dipende soltanto dalla partecipazione virtuosa. Rousseau giunge ad attribuire alla religione una funzione decisiva per la solidità dello Stato. Si tratta tuttavia di una religione civile distinta dalla religione dell'uomo e dalla religione del prete. La religione civile è una metafora della stessa virtù politica, e chi la rifiuta va condannato come asociale. Questa necessità della religione civile è presente sulla base di una doppia eredità: essa riprende tanto il tema repubblicano di origine machiavelliana dell'amor di patria sancito religiosamente quanto la teologia politica di Hobbes, al quale tuttavia Rousseau rimprovera di non essere stato abbastanza radicale nel combattere la Chiesa. La rivoluzione Alla vigilia della rivoluzione, l'assolutismo monarchico francese poggia ancora su strutture politiche e amministrative logore e arcaiche, fondate su clero, nobiltà e Terzo stato. Condizionata da un'aristocrazia impegnata a difendere i propri privilegi sociali e fiscali, la corona non appare ormai più in grado di intraprendere autonomamente la riforma delle istituzioni e della società. Non a caso la rivoluzione francese è prima di tutto una rivoluzione contro l'Ancien régime, di cui costituisce l'abbattimento dell'intero complesso delle relazioni politiche e sociali. La rivoluzione francese fu anche un evento realmente epocale, nel senso che ruppe col passato e aprì un orizzonte nuovo e irreversibile. Le sue dinamiche complessive furono di accelerazione e di progresso. Tuttavia, pur con queste importanti e visibili caratteristiche unitarie, la rivoluzione francese è stata anche un insieme storico, politico, intellettuale, profondamente contraddittorio. Prima di tutto la rivoluzione è stata sia distruttiva sia costruttiva; oltre che abbattimento dell'Antico regime la rivoluzione ne è per un importante aspetto la prosecuzione e il compimento. La rivoluzione francese è stata il tentativo di realizzare praticamente i presupposti del razionalismo politico moderno, di fare cioè della politica una costruzione razionale. Le solenni dichiarazioni scritte dei diritti dell'uomo e del cittadino che si susseguono sono le più imponenti manifestazioni di questo intento razionalistico e individualistico. Tuttavia la rivoluzione ha prodotto anche il superamento e la rottura del razionalismo politico, perché l'azione rivoluzionaria si svolge non attraverso il singolo ma attraverso il popolo. Si tratta di un 'insieme' che è una collettività naturale e soggetto portatore immediato di potenza politica illimitata, e intrinsecamente conflittuale. Il primo aspetto attribuisce al popolo un potere costituente che non può trovare limite alcuno nei poteri costituiti. Il secondo aspetto, poi, implica la reintroduzione della guerra all'interno della politica. E questa politica fondata sulla 'presenza' sostanziale e polemica contraddice i due presupposti fondamentali del razionalismo politico moderno: la costruzione rappresentativa dell'ordine politico e l'esclusione del conflitto dalla politica interna. La rivoluzione francese presenta poi altre intrinseche contraddizioni; è un sistema di avvenimenti per molti versi coatto, i cui movimenti erano determinati più da logiche interne obbligate che da libere scelte dei protagonisti politici. La rivoluzione pareva sottrarsi alla volontà umana, così che, una volta cominciata, nessuno riusciva più a darle un termine. E non a caso la rivoluzione francese conoscerà fasi sia monarchiche, costituzionali e liberali (gli inizi), sia repubblicane, democratiche e radicali (girondini), sia terroristiche (giacobini), sia neoaristocratiche (termidoro), sia imperiali (Napoleone). E sarà conclusa solo con una Restaurazione che in realtà della rivoluzione accetta alcune conquiste. Per non parlare poi del fatto che i principi universalistici della rivoluzione sono stati recepiti, in Europa, in senso particolaristico: i valori rivoluzionari sono stati il cemento di base e la legittimazione dei singoli Stati e del loro nazionalismo. Infine, pur rivolta contro l'autorità, e in particolare contro l'alleanza fra trono e altare, la rivoluzione nelle sue fasi più intense, si legittima appunto riproponendo le tensioni alla salvezza e al rinnovamento delle esistenze proprie della tradizionale religione trascendente. Insieme al compito di interpretarla, la rivoluzione francese, in virtù della direzione 'progressiva' che ha impresso al tempo della politica, ha lasciato anche il compito di realizzarne gli ideali; il che ha prodotto nell'Ottocento la distinzione fra destra liberale moderata e sinistra democratica. I giacobini Nel periodo in cui dominarono la Convenzione, attraverso il Comitato di salute pubblica, i giacobini attuarono una politica interna che si proponeva di restaurare la natura contro la corruzione della società, proprio attraverso la politica. I loro obiettivi hanno lo scopo di promuovere una reintegrazione dell'uomo con sé e con gli altri, con la storia futura e con la natura. Questa reintegrazione implica che si realizzi una sostanza, la volontà generale, capace di garantire piena libertà a tutti in cambio della dedizione di ciascuno. Il valore centrale e originario riconosciuto all'individuo, coesiste con la presunzione che esso si trovi in uno stato di minorità che gli impedisce di essere libero e che richiede un'autorità capace di portare alla luce la 'vera' volontà di ciascuno e di restituire quella 'bontà' originaria che secoli di oppressione hanno sfigurato o represso. Ma, finché la sostanza buona del popolo incorrotto non viene recuperata, il partito rivoluzionario ha il diritto e il dovere di liberare il popolo da tutto ciò che gli impedisce di essere libero, e di guidarlo in direzione del bene. È qui che si vede che cosa significa l'appello continuo alla volontà generale della nazione, e il rifiuto del principio di rappresentanza. Il pensiero politico di Robespierre ha come modello la democrazia degli antichi, quindi individua nella virtù il principio animatore della democrazia. Invece di contrapporre democrazia diretta e democrazia rappresentativa, egli pensa che la democrazia possa includere elementi sia dell'una sia dell'altra. La volontà di realizzare una democrazia fondata sulla volontà generale, si coniuga con il tentativo di introdurre una dimensione di uguaglianza che è di ordine civile piuttosto che socioeconomico, e che serve a dare effettiva consistenza alla sovranità popolare. Robespierre pone gravi limiti all'istituto della rappresentanza: è temporanea e soggetta a continui controlli da parte del popolo sovrano, che deve vigilare contro la corruttibilità dei suoi deputati. Ne deriva una concezione strumentale delle istituzioni: la costituzione non crea infatti un vero e proprio potere esecutivo. La sovranità che risiede nel popolo come corpo unitario è una e indivisibile, e la separazione tra potere legislativo e potere esecutivo equivale a una semplice distinzione di funzioni. È decisivo sottolineare che non solo le istituzioni, ma anche la politica in generale è uno strumento grazie al quale la società e il popolo possono venire rigenerati e riportati alla virtù. Si tratta di sradicare l'individualismo e l'egoismo; poiché però sono ormai radicati, il Terrore diviene uno strumento inevitabile per realizzare la libertà, l'uguaglianza e la fraternità. La virtù, che è l'unica via per eliminare definitivamente il dispotismo, richiede anche l'esaltazione del senso etico istintivo del popolo: per questo Robespierre nega l'ateismo e cerca di dare al Terrore una più solida legittimazione. Questa razionalistica fede nella legge e nella sua capacità di eliminare gli elementi nocivi alla omogeneità del corpo sociale dà luogo a una concezione che attribuisce alla rivoluzione il potere di rigenerare integralmente la società umana. Secondo Saint-Just, la società è naturale ma, se lasciata priva di elementi ordinativi, è destinata a produrre una condizione di guerra generalizzata tra gli uomini. La politica è stata storicamente l'istituzionalizzazione ingiusta e vessatoria di questa guerra, e ha realizzato di fatto il comando dei vincitori sui vinti. Si tratta quindi di superare l'orizzonte della politica con un uso temporaneo e strumentale di un'altra politica. Il trionfo del bene comune non dipende da una evoluzione immanente allo sviluppo storico, ma dalla volontà e dall'energia rivoluzionaria che si realizzano nell'azione del governo. La rivoluzione ebbe un impatto anche nelle colonie francesi, in particolare a Santo Domingo dove gli schiavi diedero vita ad una rivoluzione che portò all’abolizione della schiavitù e alla nascita del primo stato indipendente a maggioranza nera: Haiti. Gli insorti erano guidati in un primo momento da Louverture ed in un secondo momento da Dessalines i quali cercano di mobilitare militarmente e produttivamente la popolazione, nell’ottica di una modernizzazione. Kant Il problema di Rousseau e dei giacobini, di rigenerare la società con la ragione e di affermare la virtù attraverso la politica, è presente anche in Kant, ma in forme del tutto peculiari. La politica diviene oggetto di tematizzazione esplicita in una fase relativamente tarda del suo pensiero, la svolta coincide con la elaborazione della dottrina del contratto originario. Il tratto 'rivoluzionario' del pensiero di Kant sta nella rigorosa e consequenziale applicazione della ragione alla politica, e nella tesi che se la politica non coincide con la morale razionale della libertà, tuttavia non ne può neppure essere programmaticamente il contrario. Morale, diritto, politica Benché fondato sulla distinzione fra uomo noumenico e uomo fenomenico il pensiero politico di Kant non contrappone politica e morale, ma le pone anzi in relazione attraverso il diritto. La morale kantiana si basa sulla perfetta coincidenza tra libertà assoluta e dovere incondizionato che trova espressione nell'imperativo categorico. La morale consiste nel dovere, che il soggetto ha, di agire come se fosse 'universale' e nel rispettare tale universalità negli altri, ovvero di trattare di ciascun uomo come se fosse un fine in sé, senza strumentalizzarlo. La morale è quindi una regola universale che ha la propria origine nella ragione e da cui è assente ogni riferimento a un fine empirico; in altri termini, il dovere è qualcosa di puramente formale e si configura come la forma imperativa della legge morale. È poi importante notare che il soggetto morale, con la sua volontà libera, è orientato al dovere e non alla felicità. In quanto esseri morali, gli uomini sono liberi e indipendenti. Poiché esiste tuttavia anche l'uomo fenomenico, l'uomo appartiene a due mondi: oltre che un essere razionale determinato dalla ragione pratica è anche un essere sensibile determinato dalle inclinazioni naturali. La storia politica, nella sua realtà empirica, è sicuramente la dimensione della forza e della violenza; eppure, il principio fondamentale è che l'uomo ha una destinazione morale, e che pertanto può e deve agire in modo da realizzare nella realtà l'idea morale di libertà; ovvero, che si possono pensare e realizzare le condizioni di una trasformazione della politica come amorale regno del potere in una politica come regno del diritto che rispetta la destinazione morale dell'umanità. Anche la politica così orientata alla morale resta il campo della forza e dell'obbligazione; ma lo sforzo di Kant è indicare come sia possibile che l'obbligazione si organizzi secondo ragione. Il potere può e deve essere sottomesso al diritto. Accanto alla obbligazione morale, introduce quindi anche una obbligazione politica che assume la forma del diritto. Il diritto deriva dalla ragione pura pratica intesa come la facoltà di agire secondo leggi universali, e funge da ponte fra politica e libertà, insomma è la forma e al tempo stesso l'obiettivo della politica. In quanto forma della politica, il diritto è legge, prodotta dallo Stato che agisce con la perfezione di una 'macchina legislativa'. Il comando della legge è però soltanto esterno, in quanto un ordinamento giuridico positivo è sempre un ordinamento coercitivo. Inoltre la politica ha il diritto come fine: suo scopo è promuovere il regno del diritto, ossia realizzare una condizione nella quale sia riconosciuta a ogni individuo una sfera di indipendenza personale protetta dalle leggi. Quindi, benché non spetti alla politica istituire le leggi morali, essa non è un ambito moralmente neutro; anzi è orientata alla morale. Stato di natura e contratto originario Quella di Kant è una ricostruzione della genesi della politica non per stabilire come essa si svolse, cioè secondo la forza, ma per indicare come essa debba svolgersi, cioè secondo ragione: secondo la ragione pratica (la morale) e secondo la ragione politica (il diritto). C'è anzi una doppia origine dello Stato: una reale, dalla forza, e l'altra ideale, dal contratto. La prima è l'essere, la seconda è il dover essere; Kant insomma sostiene che lo Stato deve comportarsi come se fosse nato dal contratto, anche se alcuni elementi di forza non potranno mai essere del tutto abbandonati. Lo stato di natura non viene concepito da Kant come una condizione pregiuridica, ma come l'orizzonte del diritto privato che è anteriore alla costituzione del diritto pubblico, ossia del diritto positivo dello Stato. Nello stato di natura manca un'autorità legittima che dirima le controversie in maniera giuridicamente vincolante: quindi, lo stato di natura impedisce al diritto di affermarsi in quanto diritto, e poiché il diritto è una forma di relazione tra uomini liberi dettata dalla ragione, il superamento dello stato di natura è necessario secondo ragione. Se lo stato di natura si caratterizza per la sovranità delle volontà particolari, il suo superamento coincide con l'affermazione della volontà generale. Di conseguenza, la prima cosa che ognuno è obbligato a decidere, se non vuole rinunciare a ogni concetto di diritto, è di uscire dallo stato di natura e di unirsi con tutti gli altri al fine di sottomettersi a una costrizione esterna pubblicamente legale. Lo Stato di diritto è la comunità razionale che per garantire a ciascuno la libertà esterna affida la decisione sul diritto al potere pubblico e non a persone private. Stabilire un ordinamento politico conforme al principio della universalità equivale a giustificarlo sulla base di una volontà generale o comune. È per questa ragione che Kant ricorre allo strumento concettuale del contratto originario, promosso dalla volontà generale (riunita) del popolo, il quale stabilisce una costituzione universalmente giuridica tra uomini che hanno deciso di rinunciare allo stato naturale. Il contratto originario è una idea regolativa di origine razionale. Anche per Kant il contratto ha luogo tra individui che si uniscono attraverso la comune sottomissione alle leggi, ma la volontà comune si esprime attraverso il principio moderno di rappresentanza, secondo la regola della maggioranza. La rappresentanza moderna ha la conseguenza che la legge è frutto della volontà universale e razionale del sovrano, riconosciuta come propria dai cittadini. Il sovrano è obbligato a fare le leggi non in modo arbitrario, ma come se esse dovessero derivare dalla volontà comune. Il popolo è tenuto in ogni caso a sottomettersi alla legge. Anche se riconosce al popolo diritti inalienabili, derogando ai quali il sovrano commette un'ingiustizia nei confronti dei cittadini, questi diritti non hanno il significato di diritti coercitivi. Il popolo non ha quindi alcun diritto di resistenza. Infatti, con il diritto di resistenza ogni cittadino avrebbe il diritto di affermare la validità pubblica della propria pretesa di diritto: ma avanzare pretese personali di diritto non è altro che lo stato di natura contrapposto allo Stato di diritto pubblico ordinato dalla ragione. Questo non significa che al cittadino non debba essere riconosciuta la possibilità di esprimere pubblicamente il proprio motivato dissenso, ammettere che il sovrano non possa mai sbagliare sarebbe come rappresentarselo ispirato da Dio. Come si vede, quello che dal punto di vista teorico è l'uscita dallo stato di natura, dal punto di vista storico-politico è la necessità di superare il dispotismo assolutistico. L'obiettivo della filosofia politica di Kant è che il potere si conformi alla ragione e si orienti, attraverso il diritto, alla libertà. Rispetto a Hobbes l'idea del contratto ha valore regolativo: il riunirsi degli uomini nello Stato non segue una logica utilitaristica, ma serve ad attuare l'idea stessa del diritto, il quale provvede a fare in modo che la volontà esterna di ciascuno possa convivere con la libertà dell’altro. Stato e democrazia Lo Stato a cui Kant pensa è Stato di diritto, perché anzitutto è fondato sul diritto in quanto forma astratta e razionale, in secondo luogo, perché è uno Stato che promuove il diritto, e questo anzi è l'unico 'bene comune' cui lo Stato può dedicarsi. La politica è dunque la pratica del diritto, e il diritto rende possibile la conciliazione della politica con la dimensione morale, da cui la politica è distinta ma al cui perseguimento deve tendere. Kant non delinea il profilo di uno Stato realmente esistente, è uno strumento funzionale alla garanzia dei diritti soggettivi delle persone, innati, che vanno ricavati dalla ragione, alla quale le leggi positive devono ispirarsi. Ciò significa che lo Stato deve impedire che l'uomo serva anche solo esteriormente a fini altrui: questo non significa impedire a un individuo di obbligarsi verso terzi, ma che l'obbligazione deve essere libera e reciproca. Il principio della libertà dell'individuo serve a giustificare la critica dell'imperium paternale, cioè di un governo paterno nel quale i sudditi siano come dei figli minorenni incapaci di decidere e siano costretti ad attendersi dalla benevolenza dello Stato indicazioni su come debbano essere felici. Tale governo non solo elimina ogni distinzione tra sfera domestica e società civile, ma, trattando l'individuo come oggetto di amministrazione, calpesta la soggettività morale degli individui. Dal secondo punto di vista lo Stato di diritto deve garantire a ogni individuo l'uguaglianza in senso civile, ossia l'uguaglianza dinanzi alla legge. Dal terzo punto di vista lo Stato deve offrire a ogni individuo in quanto cittadino l'opportunità di godere della contraddizioni del progetto razionalistico moderno e dall'altra di reinterpretare quelle contraddizioni da un diverso punto di vista. È necessario chiarire che 'superare' in ambito dialettico vuol dire 'rendere comprensibili' le contraddizioni, consentire che vengano riconosciute come attività umana; e che 'concretezza' significa l'apertura della filosofia politica alla storia e alle realtà che in essa si manifestano, cioè il principio di nazionalità e l'economia capitalistica. Nel complesso, quindi, il pensiero dialettico si sforza di far sì che le contraddizioni dell'età moderna possano essere vissute non come cieco destino ma come 'gradini' verso la piena libertà. Il pensiero dialettico è caratterizzato dall'enfatizzazione della contraddizione, dalla sua reinterpretazione in chiave storica, e infine dalla libertà come liberazione dalla contraddizione. Perciò il pensiero dialettico è in complesso più esigente, ma anche più ottimistico, del razionalismo moderno, perché chiede alla politica ben più di quanto chiedeva quello: cioè di non essere soltanto la dimensione in cui si realizza la composizione parziale e ma di accogliere e di ospitare esigenze tanto di critica radicale quanto di libertà, sia assoluta sia concreta e storica. Fichte Nella riflessione politica di Fichte il tema kantiano della libertà diviene principio e fine di un’azione filosofica che attraversa sia la rottura della rivoluzione francese, sia il rapporto con lo Stato, per affermare una positività morale realizzabile grazie allo Stato di ragione. La ripresa e il rafforzamento dell'originaria autonomia morale del soggetto e della sua libertà si traduce in una prospettiva che vuole organizzare la politica in modo da superare la distinzione tra il mondo morale dello spirito e il mondo empirico della storia. Il dovere morale kantiano diviene principio di azione politica. Se poi comune a entrambi è l'esigenza di rivendicare la libera espressione del pensiero, in Fichte non c'è solo il tentativo di valutare la rivoluzione come un importante evento storico, ma c'è anche l'esigenza di pensarne le condizioni di legittimità, e quindi di rivedere il paradigma giusnaturalistico. Fichte inoltre avverte più decisamente il problema dell'inadeguatezza tedesca di fronte alla rivoluzione. In quest'ottica punta sugli intellettuali perché siano la guida filosofica e morale del popolo verso la libertà. Rivoluzione e libertà politica Fichte sostiene una concezione contrattualistica e antidispotica dello Stato, mostrandosi sensibile al tema della libertà di pensiero. Nella Rivendicazione, che ha quale obiettivo polemico centrale l'istituto della monarchia ereditaria di diritto divino, Fichte critica il meccanicismo assolutistico rielaborando l'argomento kantiano volto a distinguere la felicità, che l'uomo si attende da Dio, dalla protezione dei diritti esterni, che il cittadino si aspetta dal sovrano. Il tema della libertà di pensiero viene sviluppato in base alla distinzione tra diritti che sono alienabili, e diritti che sono invece assolutamente inalienabili. Tra questi ultimi vi è la libertà di critica nella dimensione pubblica. Apparso in una fase in cui non si era ancora esaurito il periodo del Terrore e quindi si moltiplicavano le prese di distanza nei confronti della rivoluzione, il Contributo vuole mostrare la 'legittimità' della rivoluzione dal punto di vista teorico. Questa deriva dal fatto che gli uomini dispongono del diritto inalienabile di modificare la propria volontà, e dal fatto che lo Stato è solo uno strumento per l'affermazione delle volontà libere degli uomini. Fichte ritiene che il futuro, la dimensione del progresso e del perfezionamento all'infinito, obblighi gli uomini a non considerare immutabili le costituzioni tramandate, opponendosi in questo modo alle teorie tradizionalistiche. La legittimità della rivoluzione discende da un diritto naturale-razionale che appartiene al soggetto. La legge positiva è obbligatoria solo perché sono gli uomini stessi a imporsela. Lo Stato è quindi il prodotto delle volontà libere degli uomini ed è un sistema coercitivo meramente esteriore. Il vero fine dell'umanità è realizzabile solo attraverso la libertà empirica in uno Stato fondato sul contratto. Questo atteggiamento individualistico porta a concepire lo Stato, del quale auspica l'estinzione, come uno strumento per fini superiori. Questa prospettiva emerge con chiarezza nelle Lezioni sulla missione del dotto, in cui lo Stato viene concepito in funzione del proprio annientamento, così come il compito dei genitori è di rendersi superflui, educando individui autonomi. Ma per realizzare adeguatamente questo scopo è necessaria la mobilitazione di coloro che possiedono la coscienza teorica più sviluppata, i dotti. È molto precoce in Fichte la tensione tra esigenza di ordine e esigenza di libertà, vale a dire tra l'esigenza di uscire, grazie alla morale, dalla logica della politica come coercizione, e il riconoscimento di un ambito di necessaria supremazia della legge generale. Un primo tentativo di conciliare queste due tendenze contrastanti è dato dalla distinzione tra quattro cerchie concentriche di diversa grandezza e di valore decrescente dalla più esterna alla più interna: la prima, e più ampia, circoscrive la legge morale; l'ultima, la più piccola, coincide con la sfera del contratto statale, il quale fa nascere lo Stato e nel quale l'uomo diviene cittadino. Lo Stato e la rappresentanza Questo è infatti il motivo conduttore del Fondamento del diritto naturale secondo i principi della dottrina della scienza, in cui la libertà morale e razionale dell'individuo, pregiuridica e prestatuale, viene posta come tesi, mentre la dimensione giuridica della coesistenza di più libertà si configura quale antitesi. L'ingresso nello Stato è un atto necessario, in quanto un diritto naturale prestatuale non esiste realmente prima di essere garantito dallo Stato. Come si vede, l'esigenza fichtiana di dedurre il diritto dalla morale si scontra con il fatto che di diritto si può parlare soltanto nello Stato, ossia nel quadro dell'unità politica. La politica è quindi lo snodo obbligato verso l'affermazione della libertà e della morale. Tuttavia questo obiettivo è raggiungibile solo se lo Stato è rappresentativo. Che il potere venga delegato è il primo principio di ogni costituzione. Di qui nasce la critica alla democrazia diretta, che è per lui l'ordinamento più insicuro, in quanto tutti i singoli pretendono di esercitare immediatamente il potere che dovrebbe invece competere alla comunità nel suo insieme. In altri termini, la contraddizione della democrazia è dovuta al fatto che in essa la comunità è giudice e parte in causa al tempo stesso, e dall'altro pretende di giudicare in merito alla conformità al diritto nell'esercizio del proprio potere. Per impedire il dispotismo democratico è necessario che la comunità non sia titolare del potere e non sia giudice della propria causa. In Fichte i tre poteri (esecutivo, legislativo, giudiziario) non sono separati, ma si concentrano nel governo in linea con la logica che impone l'unità del potere. La distinzione tra uno Stato conforme al diritto e uno Stato contrario al diritto non dipende dalla divisione del potere dagli altri due poteri, ma da una distinzione più originaria. Si tratta di una funzione che deve rimanere all'intera comunità, che non può essere alienata e che porta all'istituzione di una magistratura elettiva, gli efori. Fichte riprende questa istituzione da una tradizione di pensiero premoderna. Gli efori, eletti a suffragio universale tra gli uomini più esperti e probi, non dispongono di un diretto potere di intervento. La loro funzione è piuttosto quella di emanare l'interdetto, cioè di sospendere la validità di tutte le norme giuridiche. Spetta al popolo decidere tra le ragioni dei governanti e le ragioni degli efori. Solo se tutto il popolo insorge come un sol uomo e viene organizzato politicamente da quegli efori naturali che sono i dotti, viene garantito diritto di resistenza. La società e la nazione Nonostante la supremazia del Tutto sulle parti, Fichte conserva una impostazione individualistica: da un lato, infatti, gli efori non hanno nulla a che fare con quelli di cui parlava Althusius, che dovevano difendere e rappresentare comunità organizzate in strutture civili autonome; dall'altro, allo Stato spetta solo il compito di garantire i contratti di proprietà che i singoli stipulano tra di loro. Una società complessa comincia a delinearsi in Fichte mediante il recupero dei ceti o delle corporazioni, ai quali attribuisce valore morale. Oltre questa rivalutazione dei ceti si registra anche una trasformazione del ruolo (pur sempre strumentale) dello Stato, che da difensore dei diritti diviene promotore di moralità ed educatore alla libertà. Se in precedenza Fichte aveva preso le mosse dal diritto del singolo per arrivare alla comunità e allo Stato, ora invece, tende ad attribuire allo Stato un vero e proprio potere di costituire la società giuridica, sino ad affermare che lo Stato è il benefattore. Il ruolo predominante dello Stato si manifesta sia nell'organizzazione del corpo sociale sia nello sforzo di raggiungere l'autosufficienza economica. In questo modo lo Stato deve organizzarsi come un tutto chiuso. L'intervento dello Stato in economia ha lo scopo di garantire a ciascuno il diritto alla proprietà come diritto a una attività e quindi al lavoro. In precedenza Fichte riteneva ancora possibile una sorta di conciliazione naturale tra l'egoismo dei singoli e la vita ordinata della comunità, ma dal momento in cui l'illuminazione razionale degli uomini destinata a costituire uno Stato di ragione si scontra con resistenze e immaturità che impediscono l'armonizzazione spontanea della libertà, degli interessi e delle volontà individuali, si rende necessaria un'azione educativa e pedagogica dello Stato volta alla moralizzazione degli uomini. La successione di Riforma, Stato moderno e Stato di ragione postrivoluzionario si accompagna a un'interpretazione dell'illuminismo come assoluta indifferenza per ogni verità e della completa licenza senza freno: lo stato della completa peccaminosità. Di questa condizione negativa Fichte vede tuttavia possibile un superamento attraverso l'affermazione di una nuova positività morale. Ora Fichte tende a sottolineare il ruolo che lo Stato ha nel porre ordine nella società: non è più la libertà a infrangere il dispotismo e spianare la strada alla virtù, ma è l'intervento pedagogico dello Stato che prepara la virtù e quindi la libertà. La disfatta di Jena e l'occupazione napoleonica della Prussia offrono l'opportunità di realizzare quell'azione filosofica che è alla base del suo pensiero politico. Per quanto il fine rimanga quello della libera personalità del singolo, questo obiettivo politico diviene ora appannaggio di un popolo, quello tedesco, che nell'autorealizzazione ha come fine l'intera umanità. Anche se la cultura mantiene una posizione centrale, essa perde la propria connotazione universalistica. Si rivolge direttamente al popolo tedesco per analizzarne le peculiari caratteristiche storiche, così da ravvivare l'orgoglio nazionale e da riguadagnare l'indipendenza e l'unità nazionale. In particolare, la nazione tedesca può assumere questo compito proprio in conseguenza delle sue caratteristiche apparentemente contraddittorie: da una parte essa è tagliata fuori dalla storia, ed è pura e primordiale per la sua lingua incontaminata; dall'altra parte deve farsi erede e continuatrice della moderna ragione europea. Lo Stato nazionale tedesco, incarnazione di un popolo primitivo e originario rimasto integro e puro. Fichte sembra inoltre istituire una gerarchia al cui vertice viene posto l'Eterno, ossia la libertà assoluta, che viene ad assumere tratti sempre più scopertamente religiosi, poi la nazione quale involucro dell'eterno, e infine lo Stato quale strumento della nazione. In particolare, spetta allo Stato nazionale tedesco, che è culturalmente superiore a tutti gli altri Stati, il compito di realizzare l'umanità fra gli uomini. Fichte non pensa affatto a una politica di conquista. All'idea moderna dell'equilibrio degli Stati subentra così quella ottocentesca dell'ordine delle nazioni. In questa missione tedesca si conclude l'impulso morale che aveva governato la riflessione fichteana, che si era configurata come impeto liberatorio verso la piena libertà. Ed è precisamente nella moralizzazione della politica ma anche nella sua dimensione pratica, che si può riassumere il senso ultimo della sua teoria: questa ha moralizzato lo stato di natura ed ha concepito lo Stato non solo come uno strumento ordinativo di coercizione esteriore, ma anche come un momento necessario di avvicinamento alla completa libertà. Hegel La riflessione hegeliana, sulla storia e la ragione, inizia dalla contraddizione irrisolta della speculazione fichteana, quella fra libertà del singolo e libertà assoluta dell'universale, fra morale e mondo storico. Che Hegel trasforma nella contraddizione fra l'Idea e la realtà, e ne trova il superamento-comprensione nello Spirito. Lo Spirito è la Ragione; non è però il moderno principio razionalistico a priori su cui costruire la politica, ma è anzi l'insieme universale delle contraddizioni storico-concrete che il soggetto incontra nel lavoro, nel suo rapportarsi all'oggetto, ed è anche al tempo stesso il loro superamento e compimento logico-ideale. In altre parole, pensa a una Ragione che non è la moderna ragione calcolante o costruttiva, ma è l'Idea, l'origine del pensiero e si manifesta l'apertura del soggetto verso la dimensione della realtà sovraindividuale; il luogo in cui si formano nuclei di eticità concreta e consapevole. Lo Stato è per Hegel l'universale, ma non come insieme di particolari; è universale certo di sé. Ciò non vuol dire però che lo Stato operi la distruzione o l'annullamento del soggetto singolo e della società civile, perché anzi lo Stato per esistere ha bisogno di passare attraverso la profonda contraddizione che è la società civile. Nella società civile ciascuno è sia fine a sé stesso sia parte del disegno infinito della ragione universale che si concretizza nello Stato. Questo è il punto di vista che rivela la civiltà come immanente momento dell'assoluto. La società hegeliana non si annulla nello Stato, ma è immanente al suo interno, in quanto è nella società che si manifesta il momento della libertà soggettiva, il riconoscimento del valore infinito degli individui. In Hegel è perciò presente il riconoscimento del valore degli interessi particolari per l'interesse universale, del valore delle sfere finite in cui si articola la società nel determinare la sfera infinita dello Stato. I ceti o corporazioni mostrano la predisposizione del particolare a riconoscersi quale universale nello Stato. Hegel ne individua principalmente tre: il ceto sostanziale, composto dai proprietari terrieri, quello formale, che di fatto rappresenta il nuovo mondo industriale, e il ceto universale, composto da coloro che non lavorano per i propri interessi, ma immediatamente sono al servizio dell'interesse universale. In questo terzo 'stato' Hegel vede il ruolo centrale della burocrazia. L'articolazione in ceti rappresenta l'apertura della società civile all'universale e segna il passaggio nella sfera dello Stato. La rappresentanza cetuale, si differenzia dalla rappresentanza atomistica del contrattualismo. La rappresentanza è pensata in maniera cetuale perché in essa la società si rappresenta come ciò che essa è. Lo Stato hegeliano, organizzato in monarchia costituzionale, è costituzione concreta di società, libertà moderna e distinzione dei poteri, ma non è il prodotto di questi elementi. Che lo Stato sia etico significa che esso non è solo un prodotto del soggetto, ma che anzi sa realizzare l'unità di coscienza soggettiva e ordine oggettivo. Un'altra grande differenza fra lo Stato hegeliano e lo Stato del razionalismo moderno sta nel rapporto fra religione e politica, questo rapporto è in Hegel di superamento e di inveramento della religione nella politica. Lo Stato hegeliano è un momento dello Spirito oggettivo, non dello Spirito assoluto: nel sistema hegeliano lo Stato non è il punto di arrivo del processo dello Spirito, ma solo un momento di passaggio. Lo Stato non ha perfezione in sé, ma resta aperto sulla contingenza e sulla storia. La sovranità hegeliana rappresenta il rapporto immediato che lega Idea e contingenza, evidenza che nel particolare si esprime l'universale. La decisione politica suprema è affidata da Hegel a un individuo concreto, il monarca. Con questa figura manifesta il proprio estremo realismo politico, rivelando la consapevolezza della contingenza della politica moderna. E ciò è testimoniato anche dal fatto che l'ultima parte della sezione Stato è dedicata alla storia del mondo. La storia del mondo è letta da Hegel come la storia della libertà che segue nel suo sviluppo il corso del sole, da Oriente a Occidente, realizzando infine lo Stato; tuttavia lo Stato non è l'ultima figura di questo processo. Oltre lo Stato sta il tribunale del mondo, la fattualità storica, che è signora della vita e della morte degli Stati. Questo concetto significa che non può esistere l'ottimo Stato e neppure la Verità calata nella politica. Dunque, lo Stato hegeliano non è mai definitivamente conciliato, appare percorso dalla contraddizione, che comprende e tuttavia non risolve. La plebe è il prodotto dei processi inerenti all’attività industriale di accumulazione delle ricchezze che determinano la dipendenza della classe che è legata al lavoro. Tuttavia, proprio tale dipendenza dal lavoro non permette alla plebe di entrare nelle dinamiche di riconoscimento e di libertà che sottostanno alla dialettica del lavoro. Conclusioni Con il sistema hegeliano il pensiero politico moderno giunge al proprio pieno compimento, in quanto Hegel supera il dualismo della teoria della rappresentanza che lega sovrano e singoli. La filosofia di Hegel vuole essere capace di assecondare il reale storico e politico in ogni sua piega e frattura e di interpretarlo dal punto di vista dell'Intero. La filosofia hegeliana esprime da una parte grande concretezza, superando le opposizioni astratte del razionalismo; ma dall'altra rivela astrattezza, perché la conciliazione del reale con il razionale avviene solo dal punto di vista del filosofo, che comprende ma non risolve, non cambia il mondo. Nel comprendere la necessità di modificare i meccanismi di accesso al voto Hegel mostra di sapere interpretare i profondi mutamenti politici e sociali in atte nella società europea. Tuttavia, il suo resta lo sguardo del filosofo sul mondo, che ne rivela le intrinseche dinamiche, ma che lascia aperta la necessità di cambiarlo. IX – L’ORDINE DOPO LA RIVOLUZIONE La cultura europea degli anni della restaurazione è caratterizzata dalla consapevolezza della necessità di rimediare alla rottura rivoluzionaria, e di integrarne alcuni principi all'interno dell'ordine politico. Questo obiettivo viene perseguito attraverso due strategie, la prima, controrivoluzionaria, vuole individuare un principio di stabilità del potere politico che ne fornisca le basi immutabili e 'trascendenti'; tale principio viene individuato nella tradizione. La seconda strategia, più sensibile a quel bisogno di rinnovamento che si è manifestato con la rivoluzione ma che si sta ulteriormente imponendo con l'incipiente affermazione della società industriale, tende a prendere le distanze dagli esiti radicali e democratici dell'esperienza rivoluzionaria, e a 'raffreddare' l'energia. Appartengono a questo secondo ambito sia le proposte del liberalismo moderato, sia le nuove elaborazioni di una filosofia positiva capace di disciplinare il comportamento delle varie classi e di promuovere la società industriale come il sistema definitivo di organizzazione sociale. In generale si assiste a un recupero politico del concetto di 'natura', intesa come fondamento della tradizione gerarchica, dei doveri, del principio di organizzazione. I controrivoluzionari Gli oppositori della rivoluzione sottolineano il carattere distruttivo per quei processi di lunga durata in cui va ritrovata la garanzia di stabilità dell’ordine politico. Va sottolineato che il tema del longum tempus, della lunga durata, significa qualcosa di diverso in Burke e nei controrivoluzionari cattolici. Se comune all'uno e agli altri è la polemica contro le 'astrattezze' della ragione rivoluzionaria, e la rivendicazione del passato quale deposito di valori e sedimentazione di esperienze, in lui il principio sta tutto nel lento sovraindividuale divenire storico, mentre nei cattolici la lunga durata di un ordine politico è la dimostrazione a posteriori della sua vera legittimità, che consiste nella sua fondazione, in ultima istanza, su Dio. Burke è impegnato nell’affermazione della costituzione, delle istituzioni e delle tradizionali libertà britanniche, nella tutela dei diritti dei sudditi indiani, oltre che nel celebre attacco all’illuminismo e alla rivoluzione. Avanza la prima teorizzazione del mandato libero, opposto al mandato imperativo, affermando che ogni rappresentante non tutela gli interessi particolari dell’elettorato ma l’indivisibile interesse generale. Il principio del mandato libero è la base teorica del moderno parlamentarismo liberale e della forma politica dello stato moderno. A differenza della Gloriosa rivoluzione che si era limitata a ripristinare una tradizione costituzionale, quella francese è stata una rivoluzione che ha cercato di fare tabula rasa del passato, e di costruire un nuovo ordine, fondato su principi privi di spessore storico. Per Burke la vita associata degli uomini è governata dallo scorrere delle generazioni, legate tra di loro da un contratto originario ed eterno; è in nome del peso degli elementi extrarazionali (affetti, istinti, abitudini) della politica, che condanna drasticamente la pretesa dei philosophes di derivarne una politica 'scientifica'. La scienza politica è sperimentale, nel senso che richiede prudenza. L'eguaglianza morale dell'umanità riposa non sui diritti naturali dell'uomo, ma sulla virtù dei singoli, così come l'equilibrio sociale scaturisce non dall'opera dello Stato, ma dalla naturale ricomposizione del dissidio tra interessi conflittuali. Tra ordine naturale e ordine politico vi è infatti una simmetria provvidenziale, fondata sul principio evolutivo. Burke vede bene che all'aspetto distruttivo della ragione rivoluzionaria si affianca necessariamente quello costruttivo: la rivoluzione abbatte lo Stato esistente, ma ne crea uno nuovo, più potente. In nome di questi principi e di queste preoccupazioni, respinge la soppressione di quelle istituzioni intermedie che si erano storicamente dimostrate capaci di arginare la pretese del potere politico. L'adesione alle istituzioni storicamente consolidate e l'appello alla religione vengono opposti alla barbara filosofia illuministica, il cui costruttivismo è desti nato a fare naufragio per la sua astrattezza. I controrivoluzionari cattolici La dottrina dei controrivoluzionari cattolici non contesta soltanto la rivoluzione, ma l'intero sistema di pensiero illuministico e rivoluzionario. Anche i controrivoluzionari cattolici hanno l'intento di dimostrare che il meccanismo di distruzione e di costruzione tipico della ragione rivoluzionaria è di per sé instabile. Ma il loro intento è di risalire a monte della crisi rivoluzionaria, per interpretarla alla luce di un rigido determinismo teologico- politico. Per loro Dio è il fondamento ultimo (o primo) della legittimità della politica. L'ordine politico è centrato su Dio. Per il naturalismo cristiano di questi autori, il potere 'unico' trascende ogni possibilità di intervento autonomo da parte degli uomini. La coincidenza tra volontà di Dio, ordine naturale e storia li porta a negare che l'ordine politico sia costruibile attraverso libertà e razionalità che lo umanizzerebbero. In questa logica è del tutto inutile cercare di sostituire a Dio l'uomo e la sua ragione poiché ogni tentativo non produce altro che instabilità e disordine, la modernità è quindi un'epoca votata alla catastrofe. Il principio della fondazione divina dell'ordine diventa una teologia politica deterministica: i dogmi religiosi sono il fondamento dell'ordine politico. Anche la loro concezione della sovranità si inscrive in questa prospettiva: il sovrano è un diretto ministro di Dio e il suo mandato è quello di amministrare un ordine che è intrinsecamente stabile. Per questo la sovranità non può essere assoluta. Il potere è limitato dall'ordine stesso della natura e dalla volontà di Dio. Per la stessa ragione il diritto di resistenza è solo quello tradizionale dei ceti. Benché sordi alle novità e agli ideali della loro epoca, i controrivoluzionari ne hanno compreso alcune dinamiche: ad esempio, una è il ruolo necessario del potere e della religione per dare stabilità alla società; l'altra è che la ragione moderna critica e distruttrice è anche intrinsecamente portata a costruire un potere politico ben più forte e invadente di quello tradizionale. Maistre Fortemente pessimista sulla natura umana, sostiene che la ragione individuale è perfettamente impotente, capace com'è di produrre solo opinioni divergenti; contro la libertà religiosa e l'individualismo propugnati dal protestantesimo afferma che ci debba essere una religione nazionale, politica, resa obbligatoria dal sovrano per motivi di coesione interna. Il fondamento della politica non è l'uomo, ma Dio. L’espressione “la storia è la politica sperimentale”, significa che è la dimostrazione di una legittimità della politica che sfugge la ragione. La Provvidenza divina vuole che l'uomo sia incapace di governarsi, che la sovranità sia fondata sul sacrificio e sulla punizione più che sulla razionalità. La rivoluzione francese pare la manifestazione storica dell'impossibilità che l'uomo possa essere artefice della storia. Che un ordine politico fondato sull'uomo sia sempre instabile e impossibile è testimoniato dal fatto che i rivoluzionari solo in apparenza sono i protagonisti della rivoluzione: nella rivoluzione non è l'uomo ad agire, ma Satana. Tuttavia neppure questa è la spiegazione ultima che fornisce dell'evento rivoluzionario; egli vede nella rivoluzione la modalità concreta per mezzo della quale la divina Provvidenza prepara la salvezza della Francia e la reintegrazione del potere. Solo Dio è il motore della storia. Se infatti la rivoluzione fosse stata unicamente il risultato di un accecamento delle menti umane, essa non avrebbe potuto avere la forza di rovesciare un ordine voluto da Dio. Proprio la durata e gli apparenti successi della rivoluzione testimoniano del fatto che essa è stata un 'miracolo' di origine divina, un'espiazione per punire la corruzione dell'Antico. La politica potrà essere sottratta al destino moderno di essere perennemente squilibrata e oscillante fra assolutismo e ribellione se la sovranità si riconoscerà fondata su Dio e non sulla ragione, e se accetterà di trovare i propri limiti nell'autorità del papa. Bonald Il suo impianto teorico è centrato sulla critica dell'astrattezza moderna e sulla Tuttavia, a differenza dei pensatori politici che hanno concepito la proprietà come qualcosa di preesistente alla società e di indipendente da essa, per Constant la proprietà esiste solo perché esiste la società, e quindi essa non è altro che una convenzione sociale. La sua funzione politica è fondamentale, in quanto solo la proprietà rende gli uomini capaci dell'esercizio dei diritti politici. La vera libertà è la libertà personale fondata sulla proprietà privata. Gli stessi termini sono rintracciabili anche nella baronessa de Staél, che teorizza la scissione della libertà in civile e politica, così come la distinzione tra libertà degli antichi e dei moderni. Madame de Staél difende la possibilità di esistere isolatamente dagli affari pubblici. La libertà civile, recidendo il legame che la collegava all'idea di cittadinanza e di partecipazione, non viene più opposta alla libertà 'naturale', ma alla libertà politica. Secondo Constant la nostra libertà deve basarsi sul pacifico godimento dell'indipendenza privata. Mentre cioè la libertà dei moderni è centrata sui diritti dell'individuo, la libertà degli antichi era una libertà collettiva, caratterizzata da una forma di esercizio diretto, senza rappresentanti, della sovranità popolare. Sovrani relativamente alla cosa pubblica, gli individui erano interamente sottomessi all'autorità collettiva nei rapporti privati. Nel mondo moderno l'individuo può esprimere liberamente la propria individualità. Lo Stato non è più l'autorità collettiva, ma solo una organizzazione attraverso la quale una nazione affida ad alcuni individui ciò che essa non può o non vuole fare da sé. Tutto ciò è il risultato di un processo sociale dovuto alla convergenza di tre fattori: l'espansione dello Stato moderno, l'abolizione della schiavitù, e la crescita dei commerci. Anche se i popoli per godere la libertà a loro più conveniente hanno fatto ricorso al sistema rappresentativo, essi devono esercitare una sorveglianza attiva e costante sui loro rappresentanti. A differenza del costituzionalismo di Constant e di Madame de Staèl, il liberalismo moderato dei cosiddetti dottrinari, il cui esponente più significativo è Guizot, evita di affrontare il problema della sovranità, e concepisce la società come un organismo che delega alla monarchia il compito di difendere i diritti costituiti. In particolare Guizot fu assertore delle origini medievali dei sistemi rappresentativi e parlamentari e teorico del juste milieu tra assolutismo e democrazia, trovando nello Stato di diritto. Meno impacciata dal moderatismo fu la costituzione del Belgio, che invece ribadiva il primato del Parlamento in nome della sovranità popolare. Dopo quella della Norvegia, la Carta del Belgio è una delle più antiche dell'Europa contemporanea ed ha costituito il modello della Costituzione prussiana, oltre che di tutta una serie di Stati monarchici avviati al rinnovamento delle proprie strutture istituzionali. Saint-Simon Nella Francia della restaurazione, l'esigenza di trovare una risposta alla crisi dell'ordine politico innescata dal disordine del periodo rivoluzionario e napoleonico porta a individuare un modello alternativo al liberalismo moderato, che appariva sempre meno adeguato a stabilizzare una società attraversata da continue tensioni politiche e dalla nascente questione sociale, prodotta dall'avvento della società industriale. Questa alternativa è il positivismo. Se il Settecento si era limitato a distruggere il vecchio ordine sociale, ora si tratta di gettare le basi di una costruzione nuova in grado di riportare la politica, la morale e la filosofia alla loro vera occupazione, che è quella di costituire la felicità sociale, individuandone la garanzia nell'industria, l'unica fonte di ogni ricchezza e di ogni prosperità. La società industriale non è quindi solo fonte di problemi, è anche l'unica dotata di un principio positivo d'azione, vale a dire la produzione di beni. Questa prospettiva di ricostruzione si inquadra all'interno di una filosofia della storia che si basa sull'alternarsi di epoche organiche ed epoche critiche, come il periodo che dalla Riforma protestante porta alla rivoluzione francese. Il progresso scientifico ha privato di legittimità l'organizzazione sociale del Medioevo e della prima età moderna. L'epoca contemporanea è quindi bisognosa di un nuovo ordine e la filosofia positiva è il fondamento di una nuova sintesi sociale, e cioè di un nuovo sistema organico di religione, politica, morale ed economia. La filosofia positiva è infatti la scienza che individua le vere 'leggi' fondamentali della natura e della società. La politica si configura come una parte della scienza generale e va anch'essa riorganizzata in conformità con lo spirito di questo sistema. Si profila in questo modo il sogno di una politica perfettamente conoscibile che affida a una classe, quella degli intellettuali e scienziati, il compito di procurare a tutte le altre regole generali di condotta. Questa prospettiva, che dal punto di vista politico si presenta da un lato come regime parlamentare, dall'altro come regime industriale, ha come scopo, di accrescere la ricchezza nazionale mediante la produzione e trova il suo principio costituente nella cooperazione sociale. La società industriale viene concepita come un'età positiva e scientifica ossia dai grandi industriali e banchieri. Per Saint-Simon il principale problema sociale non consiste nel conflitto tra lavoratori e datori di lavoro, ma tra ceti produttivi e ceti improduttivi. Questo modello politico-sociale è destinato a rendere superfluo il governo; la vittoria dei ceti produttivi si traduce nell'edificazione di una sorta di società senza Stato. Neppure la nuova epoca organica può tuttavia prescindere da una sua religione, capace di realizzare concretamente il principio dell'amore del prossimo senza dover fare ricorso a principi teologici tradizionali. Comte La solidarietà necessaria alla società industriale deve essere assicurata da un sistema intellettuale equivalente alla religione cristiana; ma a questo proposito è soprattutto Comte che tende a richiamarsi al modello di società organica tracciato dal pensiero della Restaurazione. Comte non ritiene che la società medievale sia l'unico modello di società organica: la restaurazione di quel sistema è ormai diventata improponibile. Mentre cioè l'antico sistema sociale l'ordine escludendo il progresso, e mentre il sistema intermedio ha consentito il progresso ma ha distrutto l'ordine, il sistema della società industriale è destinato a poggiare sulla conciliazione tra ordine e progresso. A differenza di Saint-Simon, Comte afferma la priorità dello sviluppo intellettuale su quello politico e ritiene che l'avvento del nuovo sistema sociale non si collochi in un futuro prossimo: soltanto quando il sistema del sapere sarà giunto a conclusione allora vi saranno le condizioni necessarie alla completa edificazione della società industriale. Lo stadio positivo si configura come la conclusione di un processo storico articolato in tre età, teologica, metafisica e scientifica, a cui corrispondono tre stadi di evoluzione interna delle scienze. Ogni stadio è caratterizzato da una diversa modalità di spiegazione dei fatti storici e naturali. Lo stadio teologico o fittizio caratterizza il passaggio dell'uomo dalla natura alla cultura, presenta una società fondata sul lavoro degli schiavi e sulla guerra, mentre il governo è di tipo teocratico e militare. Lo stadio metafìsico o astratto dissolve le fantasie mitiche e religiose e le sostituisce con le entità astratte del pensiero filosofico, dal punto di vista sociale si affermano l'individualismo, l'egoismo, l'utilitarismo, la sovranità è del popolo. L'ultimo stadio, quello scientifico o positivo, sostituisce alla fantasia e al ragionamento astratto l'osservazione e il rispetto dei fatti. Promuovere questo stadio anche nella politica, nella morale e nell'economia, è il compito della filosofia positiva. L'aspetto statico della teoria vede opporsi una tendenza disorganica o critica, negativa, che attraversa la società di oggi, e una tendenza organica, positiva, che deve appunto consolidarsi nel sistema industriale. Come ogni società organica, anche la società industriale viene qualificata in termini di consenso. Il persistente antagonismo tra imprenditori e lavoratori viene ricondotto alla incompiutezza della società industriale. Per questo è necessario un coordinamento che dapprima intellettuale, poi morale infine politico. L'autorità intellettuale e morale del sapere legittima l'esercizio dell'autorità politica. La solidarietà tra le diverse componenti della società industriale non deve essere tale da ostacolare il progresso. La Germania L'illuminismo e la rivoluzione francese producono in Germania reazioni del tutto particolari, anche al di là delle posizioni della grande filosofia e della grande letteratura. Herder annuncia quella riscoperta delle tradizioni e delle culture nazionali destinata a venire poi sviluppata. Non a caso si deve a Herder la creazione del termine nazionalismo, anche se la sua valorizzazione della individualità nazionale e culturale germanica è funzionale soprattutto alla rivendicazione del più generale diritto delle genti a manifestare in modo autonomo la propria specificità. Ogni popolo va infatti considerato quale manifestazione unica e originale della divinità. In questo modo contribuisce alla formazione dell'umanità, che consiste in una armonica ricomposizione delle successive conquiste storiche dell'uomo. Egli concepisce la storia, come la natura, nei termini di uno sviluppo sottoposto a leggi immutabili. Natura e storia cooperano all'educazione dell'uomo all'umanità poiché l'unità profonda di questi due mondi deriva dall'essere entrambi creazione e manifestazione di Dio. Ciò si verifica attraverso la successione delle epoche storiche, dall'Oriente, sede originaria del genere umano, dalla Grecia, epoca storica di istituzioni libere, e dalla antichità germanica, in cui si verifica quella convergenza tra cristianesimo e spirito nordico che lascia intravedere l'inizio di un nuovo ciclo storico. Il romanticismo La cultura romantica in Germania si esprime anzitutto nella critica della ragione così come era stata intesa dagli illuministi. La cultura romantica ritiene di individuare nel Terrore e nell'imperialismo napoleonico l'estrema applicazione di una razionalità che pretende di avere validità universale. La ragione illuministica si è trasformata, secondo i romantici, da principio di libertà, eguaglianza e giustizia a strumento di oppressione, livellamento e violenza. A questo tipo di ragione i romantici oppongono il principio della soggettività come sentimento concreto. L'interiorità soggettiva romantica si sottrae alle conseguenze organizzative che scaturiscono da un rigoroso individualismo: rifiuta cioè il momento esterno e razionalistico della politica. L'interiorità spirituale si configura come un principio reattivo che non solo non è in grado di fondare un'autonoma e coerente prospettiva politica, ma che anzi tende a sublimare ogni problema reale in una sfera 'superiore', ossia la sfera poetica. Nel pensiero di Schlegel il romanticismo si basa sul tema dello Stato interiore, ossia su di una politica sentimentalizzata che si traduce nel rifiuto di ogni differenza politica e istituzionale. Ciò è dimostrato dalla sostanziale indifferenza per il dibattito relativo ai problemi connessi sia alle forme istituzionali della politica sia alla questione sociale. La sostanziale mancanza di chiarezza nei confronti della rivoluzione francese traspare anche dalla evoluzione della sua biografia intellettuale, che da una iniziale fase repubblicana lo porta a convertirsi al cattolicesimo. Aderisce alla consueta tematica controrivoluzionaria: rifiuto del meccanicismo artificiale dello Stato moderno e valorizzazione dell'organicismo, ruolo centrale della religione come veicolo tradizionale di legittimazione e come fattore di limitazione del potere del monarca, valorizzazione del Medioevo quale epoca organica, in quanto basata su una organizzazione corporativa della società oltre che armonicamente regolata per effetto della convergenza sui criteri morali e religiosi piuttosto che sugli interessi economici. Ad anticipare le successive teorie dello Stato organico, della monarchia cristiana, della Germania come antitesi alla Francia è tuttavia Novalis, che traccia, in termini destinati a diventare ricorrenti nel lessico politico successivo, il paradigma del cattolicesimo universalistico medievale come modello insuperato di ordine politico e di unità spirituale. Nelle sue opere, conferma d'altra parte l'immagine del romanticismo politico come di una poeticizzazione della politica attraverso la proiezione esterna dell'Io sentimentale. Novalis elabora una concezione dello Stato come un grande uomo entro il quale le corporazioni rappresentano i singoli organi, la nobiltà la facoltà morale, il clero la facoltà religiosa, i dotti l'intelligenza, il re la volontà. Il principio sentimentale al quale attribuisce forza politica è l'amore, capace di operare una riunificazione organica di ciò che è separato. Non sono la ragione, l'opinione, l'interesse o l'artificio a dare vita al corpo comune ma la devozione emotiva dei sudditi per la vita della monarchia e per la coppia regale. Vede nel cristianesimo la forza rigeneratrice in grado di ricomporre l'unità spirituale d'Europa, che, lacerata dalla Riforma e dalla rivoluzione, deve alla moderna secolarizzazione la perdita della propria sensibilità spirituale. La conciliazione organicistica e sentimentale di individuo, società e Stato trova in Müller una sistemazione reazionaria. Egli avanza una proposta di riorganizzazione organica dell'intera società che vede nello Stato la realizzazione di un principio politico universale, che non si traduce né in generando la guerra di popolo, capace di mobilitare gli entusiasmi e le energie di un'intera nazione contro i propri nemici interni ed esterni. La chiamata alle armi di tutti i cittadini dello Stato ha mobilitato l'intero patrimonio di energie della nazione, e non solo ha annullato la distinzione tra civili e militari ma ha anche dimostrato che la politica contiene in sé la guerra. Definisce la guerra come un atto politico e distingue fra guerra assoluta in senso astratto e la guerra storica, concreta e reale, tutta intrisa di politica nell'origine. Questa guerra reale può essere tanto intensa da essere assoluta, ma nasce dalla politica. L'essenza della guerra non sta nel combattimento. La triade di popolo, condottiero e governo dimostra che la guerra è un atto politico, e che la politica viene a includere entro di sé la dimensione della guerra, contenendola non come un corpo estraneo. L'obiettivo di Clausewitz è certo quello di superare la guerra di gabinetto, ma anche di mantenere saldamente la guerra nelle mani dello Stato, che deve diventare Stato nazionale consapevole delle proprie energie e della propria storia. Clausewitz si pone pertanto sia un obiettivo pratico, ossia quello di organizzare l'esercito di popolo, sia un obiettivo teorico, che è quello di ricondurre la guerra assoluta reale nel contesto della razionalità politica statuale. L’Inghilterra Bentham A differenza di quanto accade sul continente, la corrente del liberalismo inglese che fa capo a Bentham e a Mill si pone in un rapporto di evidente continuità con il pensiero politico illuministico. Dai suoi maestri deriva infatti tanto la mentalità analitica quanto lo spirito riformatore. L'ispirazione razionalistica sta alla base sia del tentativo di costruire una scienza della morale quale scienza esatta, sia di una visione individualistica della società, intesa come somma degli individui che la compongono, e dei loro interessi. La tendenza riformatrice tende a considerare il piacere e il dolore, come risorse. Alla finzione del contratto originario come fondazione del governo, oppone una concezione della società politica basata sull’esistenza di un’abitudine all’obbedienza dei governati nei confronti dei governanti. La scienza benthamiana della sovranità discende da una specifica concezione della natura umana alla luce della quale è possibile denunciare il potenziale anarchico dei diritti naturali. Un diritto è il prodotto della legge intesa come espressione della volontà sovrana. Simili condizioni non hanno luogo nello stato di natura. Legge e diritti naturali sono entità fittizie e perciò possono coincidere di volta in volta con i mutevoli sentimenti di approvazione e disapprovazione degli individui mossi dal proprio interesse. La critica al contrattualismo non coincide con una condanna alla rivoluzione che è piuttosto il segno di una rottura ormai avvenuta del rapporto tra comando e obbedienza. Poiché la disposizione all’obbedienza non è data una volta per tutte ma è condizionata da un calcolo utilitaristico, è necessario che il governo agisca secondo il principio della maggior felicità per il maggior numero. La riforma diventa così lo strumento attraverso il quale prevenire la rivoluzione, modificando le istituzioni e le leggi prima che un numero politicamente rilevante di individui possa giungere a calcolare l’utilità della resistenza. Si dedica ad un progetto di riforma del diritto penale. Questo è una leva fondamentale di riproduzione dell’obbedienza, dal momento che la sanzione p considerata alla stregua di una fonte di dolore e piacere. La realizzazione del principio della maggior felicità per il maggior numero è legata alla possibilità di calcolare la forza e il valore dei dolori e dei piaceri individuali. Sulla base di diversi criteri il legislatore deve valutare gli effetti della sanzione. L'importanza di questa impostazione è data dal fatto che assume come punto di partenza un condizionamento sociale dell'agire individuale. Se è vero che tutti gli individui calcolano è altrettanto vero che il loro calcolo avviene all'interno di condizioni determinate come il rango, la proprietà, il sesso, l'età, una specifica conformazione del governo. L'astratto principio di uguaglianza è declinato nei termini di un eguale accesso alla giustizia e realizzato attraverso un criterio di equivalenza. In termini pratici, ciò significa che una legislazione penale conforme all'utile dovrà infliggere pene proporzionali alle differenti condizioni degli individui. L'applicazione del principio d'equivalenza alla legislazione penale rispecchia una particolare concezione della società come società commerciale nella quale, secondo la definizione fornita da Adam Smith tutti, in misura maggiore o minore, scambiano. In questo quadro, gli interessi individuali sono solo apparentemente contrapposti e le differenze si ricompongono grazie alla dinamica virtuosa dello scambio. Per questa ragione si oppone a qualunque intervento del governo nella sfera economica: nessuno meglio del singolo individuo conosce il proprio interesse. Ogni minaccia alla sicurezza della proprietà o alla società di mercato costituisce una minaccia per la realizzazione del bene pubblico. Questa prospettiva subisce però significative correzioni a ridosso della Rivoluzione francese. In un primo momento d'oltremanica, prevedono un progetto di riforma costituzionale e legislativa. Gli sviluppi terroristici della rivoluzione determinano una marcata presa di distanza. Bentham critica il discorso dei diritti naturali contenuto nelle diverse versioni della Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino, sottolineando il loro potenziale distruttivo della società come tale. In particolare, se portata alle estreme conseguenze la dichiarazione d'uguaglianza metterebbe in discussione non solo i rapporti di potere necessari ma più in generale la proprietà privata ovvero la struttura portante della società stessa. Il problema era particolarmente cogente nel contesto storico inglese, nel quale il fenomeno del pauperismo assumeva dimensioni senza precedenti, alimentando il dibattito culminato con la pubblicazione di Malthus. L'affermazione dell'universale uguaglianza degli uomini poteva essere rivendicata dai non-proprietari per porre in questione ogni diseguaglianza in termini di possesso, e dunque minacciava direttamente un sistema di produzione della ricchezza nazionale fondata proprio sull'esistenza di quelle disuguaglianze. Sono questi gli anni in cui Bentham dedica la sua attenzione alla riforma delle leggi sui poveri, secondo il modello di istituzione sociale noto come Panopticon, tratta di un progetto architettonico pensato in prima battuta come struttura carceraria, per migliorare le condizioni del sistema britannico, ma presto orientato alla finalità di governare grandi masse di indigenti col garantire loro la sussistenza in cambio di prestazioni lavorative. Il Panopticon è descritto come una struttura circolare, al centro della quale si erge una torre d'ispezione circondata da celle che, grazie alla disposizione a raggiera e a un particolare gioco di luci, sarebbero perfettamente visibili per il sorvegliante il quale è, da parte sua, invisibile per gli internati. Questi ultimi, di conseguenza, potrebbero indotti a comportarsi rettamente non tanto dall'effettiva sorveglianza esercitata su di loro, quanto dalla presunzione di poter essere, in ogni momento, sorvegliati. Il Panopticon, dunque, è in primo luogo un'imponente struttura disciplinare. Ed è proprio questo sistema che rende la struttura panottica adeguata alle Industry Houses, i luoghi di contenimento degli indigenti che, se non lavorassero, graverebbero sui bilanci pubblici. Il senso di minaccia per l'ordine proprietario suscitato dalla Rivoluzione francese ha effetti profondi anche sull'impegno di Bentham a favore delle riforme costituzionali. Prende in esame la possibilità e le conseguenze di un'estensione del suffragio in un contesto nel quale la maggior parte degli individui costituita è di poveri. Se in un primo momento inclina a favore della sicurezza della proprietà in luogo dell'uguaglianza, in un secondo prevede l'estensione del suffragio anche alle donne, con la sola esclusione dei folli e degli analfabeti. La convinzione che l'uguaglianza politica non costituisca una minaccia per la proprietà e per l'ordine familiare è però superata dai fatti del 1792-93, e in particolare dai massacri di settembre e dalla dichiarazione francese di guerra contro la Gran Bretagna, che spingono Bentham ad assumere una posizione antidemocratica. Solo nel 1809 egli torna ad abbracciare l'impegno per le riforme radicali, in parte grazie all’incontro con James Mill. La democrazia rappresentativa è considerata la condizione di possibilità di una riforma costituzionale, i cui criteri sono sintetizzati nel suo imponente codice costituzionale che affonda le sue radici nella teoria psicologica. Muovendo dal principio della sovranità popolare Bentham afferma la necessità di una forma di governo repubblicana e di un sistema di controllo istituzionale basato su una specifica organizzazione dei poteri, il monocameralismo. La sua teoria giuridica ha contribuito alla definizione del codice penale indiano. La sua proposta costituzionale è stata fondamentale all'interno dei processi di costituzionalizzazione delle repubbliche indipendenti dell'America del sud. La potenza logica dell'utilitarismo, che si deve al suo introdurre il calcolo nella politica e nella morale, spiega la sua vitalità nel mondo anglosassone e gli sviluppi che ne sono stati dati. L'idea secondo cui il criterio di valutazione deve essere sensibile alle conseguenze delle scelte, e queste conseguenze devono essere valutate nella prospettiva dell'utilità o disutilità che esse generano sulla vita degli individui, si presta infatti a giustificare una politica riformatrice che legittima i governi come massimizzatori dell'utilità aggregata o collettiva. Si tratta di una prospettiva che non è priva di problemi. James Mill il suo impegno consiste essenzialmente nel tentativo di applicare al tema del governo i principi affermati da Bentham in campo giuridico. Mill propugna la modifica del sistema rappresentativo della Camera dei Comuni per difendere una forma più ampia di rappresentanza. Come Bentham, anche Mill ritiene che l'ampliamento della rappresentanza non possa fare appello né a concezioni astratte come le dichiarazioni dei diritti, o generali come la separazione dei poteri, né al principio della rappresentanza degli interessi, ma che debba essere inserito in una prospettiva suscettibile di equilibrare l'interesse egoistico e individuale con l'interesse collettivo. La migliore forma di governo in grado di realizzare questa esigenza di bilanciamento è la democrazia rappresentativa, che si configura come l'espressione più adeguata di una società composta da individui volti a ottenere il massimo di soddisfazione privata, supportata inoltre da un'opinione pubblica illuminata in grado di operare da strumento di controllo degli atti del Parlamento e del governo. Il dualismo fra rappresentanti e rappresentati può essere temperato dalla brevità del mandato, poiché, quanto più breve è il periodo di tempo nel corso del quale il rappresentante conserva la propria funzione, a paragone del periodo di tempo in cui è semplice membro della comunità sociale, tanto più diviene difficile compensare la rinuncia agli interessi del periodo più lungo con gli eventuali profitti del malgoverno del periodo più breve. Mill inoltre ritiene che l'educazione politica dei cittadini richieda una progressiva estensione del suffragio, che tuttavia rimane vincolato a restrizioni legate al genere, all'età, al censo. Ciò non impedisce ai cittadini di giungere a una consapevolezza tale dei propri interessi individuali da permettere l'attuazione del principio utilitaristico della massimizzazione dell'utilità per il maggior numero. Come Bentham, infine, anche Mill non mostra particolare sensibilità nei confronti delle garanzie costituzionali per la libertà. La riforma auspicata da Bentham e Mill viene attuata nel 1832. Il Reform Bill modifica una situazione che non solo riservava il diritto di voto a una esigua minoranza di cittadini, ma che inoltre collegava l'elettorato attivo ai borghi putridi, collegi elettorali periferici, che con il tempo erano diventati sempre meno rappresentativi e sempre più strumento di manovre elettorali da parte dei proprietari terrieri locali. X – SOCIETÀ E NAZIONE La questione sociale Hegel era appena morto quando a Lione, al grido insorsero i lavoratori della seta. Quello che a molti parve l'inizio della guerra dei poveri contro i ricchi era, per un socialista come Blanc, la dimostrazione sanguinosa dei vizi economici del regime industriale. La plebe di cui aveva parlato Hegel si avviava a uscire dalla marginalità. I dibattiti che in quegli stessi anni si sviluppano attorno al tema del pauperismo registrano i caratteri inquietanti del nuovo oggetto destinato a dominare gli sviluppi del pensiero politico nel corso dell'Ottocento, la miseria e lo stato di bisogno affliggono ora masse enormi di lavoratori, da cui dipende la creazione della ricchezza nel nuovo mondo industriale; la società moderna, anziché essere progressiva civilizzazione, pare ospitare nel suo seno una contraddizione lacerante. Nella prima metà del XIX secolo la scoperta e l'analisi della questione sociale; dall'altra, tuttavia, egli ritiene che l'avvento del proletariato sulla scena della storia europea abbia una volta per tutte installato la questione sociale nel cuore del problema politico. Da questa consapevolezza deriva l'urgenza di por mano all'edificazione di una scienza della società che sia in grado di individuare le condizioni per un armonico inserimento del proletariato nell'ordine sociale, che lo privi dei suoi caratteri più minacciosi. Sotto il profilo politico la proposta di Stein pone l'accento sull'esigenza che lo Stato predisponga un'attività amministrativa che assuma come proprio oggetto centrale quello di elevare le classi basse. La monarchia sociale proposta da Stein può essere considerata all'origine di una forma specifica di riformismo statale che, sembrò trovare una prima realizzazione nell'ampio sistema di assicurazioni obbligatorie a tutela del proletariato industriale varato da Bismarck. Marx L'evoluzione della sua dottrina è scandita dalle grandi cesure rivoluzionarie di cui fu testimone, dalle vorticose trasformazioni e dalle spettacolari crisi di quel modo di produzione capitalistico alla cui analisi dedicò la propria vita. Il pensiero di Marx è in realtà un cantiere aperto, disseminato di frammenti e abbozzi inconclusi. La società Benché precocemente immerso nello studio delle diverse tradizioni del materialismo, il giovane Marx considerava urgente il confronto con Hegel, in cui vedeva il punto più alto raggiunto dal pensiero politico del suo tempo. Spogliata di ogni parvenza di universalità e di ogni interno principio di ordine (i ceti), la società moderna si rivela al giovane Marx come dominio assoluto delle particolarità e teatro del loro scontro. In La sacra famiglia e l'Ideologia tedesca, avviene l'introduzione del concetto di classe. A contraddistinguere la società civile è più l'antagonismo sociale fra le classi. L'elemento della scissione implica la scoperta del carattere politico della società moderna: la società è tendenzialmente divisa in due campi nemici, borghesi e proletari. Lungi dal poter essere riassunta nell'universale statale la politica percorre nelle forme della guerra l'intero spettro dei rapporti sociali. Ciò determina il passaggio di Marx dall'iniziale radicalismo democratico al punto di vista comunista. Nella misura in cui l'uomo non è nient'altro che il membro della società civile, ovvero il bourgeois, i cosiddetti diritti dell'uomo non sono altro che i diritti dell'uomo egoista, dell'uomo separato dall'uomo e dalla comunità. La critica marxiana della distinzione fra società civile e Stato si precisa dunque come critica di un'alienazione, che passa all'interno stesso di ogni uomo. Marx deriva da questa analisi la convinzione che ogni prospettiva di emancipazione solo politica sia insufficiente e impedisca anzi la liberazione genuinamente umana. Cominciano qui a manifestarsi i motivi che avrebbero condotto Marx alla rottura con la sinistra hegeliana, accusata di essersi arrestata alla critica delle rappresentazioni teologiche, o meramente politiche e di non avere fatto il decisivo passo in direzione della critica delle determinazioni materiali e sociali dell'assoggettamento. Intanto nei Manoscritti economico- filosofici Marx comincia a indagare l'alienazione non più solo politica, ma anche economica. A venire in primo piano è ora il fatto che il prodotto del lavoro si contrappone ad esso come un essere estraneo, come una potenza indipendente da colui che lo produce: il lavoratore perde il controllo del mondo esterno proprio mentre la sua attività diviene centrale per la produzione di quel mondo. Questo spostamento in direzione della critica dell'economia politica conduce Marx a concentrare la propria attenzione sulla classe operaia, il proletariato, che in virtù della propria oggettiva posizione nel sistema capitalistico della produzione custodisce il segreto sia dell'assoggettamento sia della liberazione. Negli anni successivi, si sarebbe progressivamente allontanato dalla prospettiva dei suoi scritti giovanili, riducendo il raggio d'azione del concetto di alienazione, che nel suo significato filosofico forte implica un necessario riferimento all'idea di un'essenza umana originaria, corrotta dallo sviluppo storico; e avrebbe concentrato la propria analisi sul processo di produzione e continua trasformazione della stessa natura umana. Costante tuttavia la convinzione che all'interno della moderna società capitalistica si fosse formata una classe, quella proletaria, potenzialmente in grado di ergersi a soggetto storico di una rivoluzione che abolisce il dominio di tutte le classi insieme con le classi stesse, che in seno alla società odierna è già l'espressione del dissolvimento di tutte le classi. Pensato non come antitesi del moderno individualismo, ma come compimento delle sue promesse, il comunismo indica prima di tutto in Marx la modalità di azione storica di questa classe, il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente. La proprietà privata deve essere abolita nella società comunista non come facoltà dei singoli individui di appropriarsi dei prodotti sociali, ma come base che consente alla borghesia di appropriarsi del lavoro altrui. La storia La storia di ogni società esistita fino ad ora è storia di lotte di classi: così comincia il Manifesto del partito comunista. Queste parole ricapitolavano il nucleo centrale di quella concezione materialistica della storia che Marx aveva elaborato compiutamente negli anni precedenti. Definito negativamente come abolizione della proprietà privata, il comunismo è altresì presentato, proprio sulla base di tale concezione, come il risolto enigma della storia. Il suo movimento allude a un possibile superamento di quella struttura antagonistica della società che ha posto l'intera storia umana sotto il segno del dominio dell'uomo sull'uomo. L'idea fondamentale della concezione marxiana della storia è che la produzione economica e la struttura sociale che ne deriva necessariamente, in ogni epoca storica costituisce la base per la storia politica e intellettuale di quella stessa epoca. Nell'Ideologia tedesca, questa concezione della storia si era applicata in primo luogo alla delucidazione del termine che compare nel titolo dell'opera: quello di ideologia. Muovendo dal presupposto secondo cui non è la coscienza che determina la vita, ma la vita che determina la coscienza, Marx e Engels avevano affermato che, se si parte dagli uomini realmente operanti, sulla base del processo reale della loro vita si spiega anche lo sviluppo dei riflessi e degli echi ideologici di questo processo di vita. Le ideologie sono infatti in tutte le loro espressioni necessarie sublimazioni del processo materiale della loro vita. Funzione dell'ideologia è in questa prospettiva legittimare i rapporti di dominio che caratterizzano lo stato di cose presente tanto che le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti. La ricorrenza di certi termini può dare l'impressione che la concezione materialistica della società e della storia si riduca a uno schema rigidamente deterministico, secondo il quale la struttura economica condiziona in modo automatico ogni sovrastruttura. L'insieme dei rapporti di produzione definisce la struttura economica della società, il modo di produzione. È il processo oggettivo di sviluppo delle forze produttive che a un dato punto nella storia di una formazione sociale entra in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti. Allora, secondo lo schema dialettico hegeliano della negazione della negazione, subentra un'epoca di rivoluzione sociale. Queste frasi sembrano porre la rivoluzione comunista come esito automatico e necessario di uno sviluppo oggettivo dello stesso modo di produzione capitalistico, l'antagonismo che lo impronta pone al tempo stesso le basi per il superamento di ogni antagonismo. In realtà le cose stanno in modo assai più complicato. Marx scrive significativamente: gli uomini fanno la propria storia, ma non la fanno in modo arbitrario, bensì nelle circostanze che essi trovano immediatamente davanti a sé, determinate dai fatti e dalla tradizione. La concezione materialistica della storia si apre a riconoscere un significato ben più cospicuo all'azione volontaria e consapevole degli uomini, ponendo quello che diventerà il problema del partito e della coscienza di classe. Il Manifesto Già nell'Ideologia tedesca si affermava che i singoli individui formano una classe solo in quanto debbono condurre una lotta comune contro un'altra classe, il che pone le basi per la distinzione fra la classe in sé e la classe per sé (ovvero capace, per via dell'acquisizione di una coscienza di porsi come soggetto politico). Interni al movimento reale, i comunisti ne sono dunque al contempo l'elemento più avanzato: da ciò deriva la critica delle immagini del socialismo prevalenti all'interno dei movimenti rivoluzionari europei dell'epoca. Ad essere respinta è ogni concezione passatista del socialismo, costruita sulla nostalgia e sulla rappresentazione idilliaca delle condizioni dei lavoratori. È questa la funzione della vera e propria apologia del ruolo sommamente rivoluzionario della borghesia. Nessuna nostalgia e nessun sentimentalismo sono dunque concessi alla rivoluzione comunista. Il secondo fronte polemico su cui si colloca il Manifesto, è quello definito dall'esigenza di sottoporre a critica il socialismo e il comunismo critico-utopico: per quanto venga riconosciuta a questi sistemi di pensiero l'importanza di aver per primi scorto l'antagonismo delle classi, essi sono accusati di aver privilegiato una critica del capitalismo ispirata ad astratti principi morali di giustizia anziché l'azione storica del proletariato. La concezione di Marx del comunismo sarebbe rimasta invariata lungo l'intero arco della sua opera. A modificarsi radicalmente sarebbe stato piuttosto l'orizzonte temporale al cui interno Marx pensava la rivoluzione comunista. Il Manifesto è pervaso dalla convinzione di un'imminente crisi generale del capitalismo. Se questa convinzione era destinata a essere suffragata dalla rivoluzione del febbraio ‘48, il massacro degli operai parigini insorti determinò indubbiamente un brusco ritorno alla realtà, i cui tempi e il cui percorso di affermazione sarebbero stati ben più lunghi e complessi di quanto originariamente auspicato. Marx si dedicò così dapprima a comporre una serie di scritti sulla storia delle rivoluzioni del 1848 poi abbandonò l'impegno politico diretto e si immerse nelle lunghe giornate di studio dei classici dell'economia politica. La critica dell'economia politica Uno dei temi fondamentali in questo contesto è il cosiddetto feticismo della merce. Si deve subito chiarire che con questa espressione Marx non intende denotare un'illusione, bensì un'apparenza socialmente necessaria, ovvero un modo di presentarsi della realtà economica che ha un'oggettiva necessità nella struttura del modo di produzione capitalistico. La merce è una delle principali astrazioni reali che, ricapitolano in sé tutto l'insieme dei rapporti sociali contribuendo a determinare la forma concreta che essi assumono. In particolare, la merce è prodotta da un determinato lavoro umano e ha uno specifico valore d'uso, ovvero una sua utilità per il compratore. Gli uomini sono dominati dal feticismo delle merci, che tende a invadere l'intero spettro dei rapporti sociali in un'universale reificazione. Il vero arcano del modo di produzione capitalistico non sta nello scambio di merci, ma nello sfruttamento su cui esso si regge; e lo sfruttamento può essere colto soltanto se si abbandona la superficie della circolazione di merci e se si penetra “nel segreto laboratorio della produzione”. È infatti nel processo produttivo che viene consumata la forza-lavoro. La merce che, attraverso il contratto di lavoro, il singolo operaio vende liberamente al singolo capitalista non è infatti il lavoro concreto svolto di giorno in giorno, ma appunto la forza-lavoro, l'astratta capacità di lavorare. Il prezzo di questa merce (il salario pagato all'operaio) è la misura di questa astratta capacità di lavorare, quanto è socialmente necessario a riprodurla. Marx definisce lavoro necessario la parte della giornata lavorativa consumata a questo scopo. Ma questa quota non esaurisce la giornata lavorativa. Marx chiama pluslavoro la parte di giornata lavorativa in cui l'operaio “sgobba oltre i limiti del lavoro necessario”, senza produrre alcun valore per sé: e il pluslavoro “crea plusvalore”. Non è dunque un criterio morale ciò che definisce la nozione marxiana di sfruttamento. Al cuore del modo di produzione capitalistico, al di sotto della trama dei rapporti contrattuali che ne costituiscono il criterio formale di 'giustizia', Marx coglie dunque la traccia di una guerra che prorompe in superficie nella regolazione della giornata lavorativa: il capitalista, nel suo tentativo di renderla più lunga possibile per ampliare i margini del pluslavoro, fa valere il suo diritto di acquirente della forza- lavoro, esattamente come l'operaio fa valere il suo diritto di venditore volendo limitare la giornata lavorativa a una grandezza normale determinata. Si scontrano quindi diritto contro diritto e fra diritti eguali decide la forza. Il concetto marxiano di sfruttamento è quindi dinamico. Il capitale stesso non è nulla al di fuori del rapporto sociale antagonistico che lo costituisce. Una volta posta come grandezza fissa la quota di lavoro necessaria alla riproduzione della forza-lavoro, al capitalista si presenta, come prima possibilità di estendere il pluslavoro, il prolungamento della giornata lavorativa. Ma attorno alla durata della giornata lavorativa si combatte una guerra, da cui può allarga, accentua la propria indipendenza e moltiplica le proprie attribuzioni. Sorge così la minaccia di un dispotismo più esteso e più mite di quelli tradizionali, che avvilirebbe gli uomini senza tormentarli. Gli uomini appaiono isolati e dissociati gli uni dagli altri, indifferenti al destino della patria, totalmente assorbiti nella cura dei propri affari; gli individui democratici non solo gli appaiono propensi a sopportare un potere immenso e tutelare a suo giudizio essi possono addirittura giungere a considerare un simile dispotismo come un vantaggio. Tanto più che questa specie di servitù potrebbe combinarsi con qualche forma esteriore di libertà, e che non le sarebbe impossibile stabilirsi all'ombra stessa della sovranità popolare, assumendo i tratti di una tirannide della maggioranza. Queste considerazioni gli valsero la fama di profeta, sia in riferimento al regime bonapartista, sia in riferimento ai totalitarismi del XX secolo. Su un punto conviene tuttavia qui concentrare l'attenzione, il dispotismo di tipo nuovo che Tocqueville descrive raramente obbliga all'azione, ma si oppone continuamente al fatto che si agisca, costituisce l'esito estremo di quella dinamica di progressiva spoliticizzazione della società. È il completo assorbimento dell'individuo nella ricerca del suo utile privato a far sì che l'amore della tranquillità pubblica sia spesso l'unica passione politica. Tocqueville prende insomma le distanze dal liberalismo classico. Per combattere i mali che l'uguaglianza può produrre ritiene che l’unico rimedio efficace sia la libertà politica. La società aristocratica può essere rimpianta, ma non restaurata; l'uguaglianza e la democrazia sono il destino. Gli Stati Uniti presentano da questo punto di vista indicazioni preziose. Sotto il profilo 'antropologico', l'irrequietezza del carattere di quel popolo giovane pare per il momento rappresentare un potente 'vaccino' contro il rischio della mediocrità democratica. Ma poi, sotto il profilo istituzionale, una serie di accorgimenti contrasta efficacemente le tendenze dispotiche del potere democratico. Infine, sotto il profilo sociale, negli Stati Uniti si è sviluppato un ricco tessuto di associazioni intermedie, nutrite tra l'altro dalla condivisione di credenze religiose; tali associazioni tendono a porsi, per Tocqueville, come una sorta di surrogato democratico della ricca articolazione delle società aristocratiche. Se il dispotismo democratico tende a restaurare il dominio paterno, le associazioni alludono a una forma di legame sociale fondata sulla piena valorizzazione del principio della fraternità. Il dispiegamento di questa forma di legame sociale appare la condizione fondamentale perché sia possibile immaginare una società in cui tutti, considerando la legge come opera propria, l'amerebbero e vi si sottometterebbero senza fatica. In queste condizioni diviene finalmente possibile per Tocqueville pensare una composizione tra libertà individuale e collettiva: quando ciascuno avesse dei diritti e la sicurezza di poterli conservare, verrebbe a stabilirsi tra tutte le classi una fiducia sincera e una sorta di reciproca condiscendenza. Le condizioni perché la sovranità di tutti realizzi un equilibrio di uguaglianza e libertà sono quindi assai complesse e non possono essere limitate al piano dell'ingegneria istituzionale. La Francia Marx individua nel colpo di Stato bonapartista del 1852 un costante rafforzamento del potere esecutivo, similmente la pensa anche Tocqueville. Nella sua analisi la rivoluzione del 1789 risulta ricondotta a una continuità di lungo periodo della storia francese e dunque smentita nella sua pretesa più ambiziosa, quella per cui i francesi avevano inteso compiere il più grande sforzo di un popolo, al fine di spezzare ciò che erano stati sino allora da ciò che da allora in poi volevano essere. La storia dell'Antico regime in Francia appare contraddistinta dalla progressiva espropriazione di potere di quell'aristocrazia che si poneva come il bastione di una pluralità di libertà fondate su una pluralità di privilegi. È dunque l'amministrazione assolutista ad anticipare la rivoluzione, che subentra nel momento in cui il dinamismo della nuova società che era andata maturando all'ombra della centralizzazione monarchica del potere entra definitivamente in contraddizione con le vecchie forme costituzionali. La rivoluzione non è stata in grado di sostituire quell'orizzonte di valori con una nuova 'religione civile', lasciando così spazio al dilagare senza freni di un gretto individualismo dove ogni virtù pubblica è destinata a perire. La critica di Tocqueville non deve essere in alcun modo confusa con una liquidazione reazionaria dei principi del 1789. Sul terreno indicato da tali principi egli si colloca anzi con decisione, convinto dell'assurdità di ogni vagheggiamento di un ritorno al passato. Quel che gli sta a cuore mostrare è che in Francia la tendenza all'affermazione dell'uguaglianza reca indelebile il segno del processo storico da cui ha avuto origine, del disciplinamento dall'alto attuato dalla monarchia assoluta. L'esito bonapartista della rivoluzione apparve quindi come una conferma dei suoi timori. La rivoluzione sociale e i suoi soggetti, che egli aveva visto chiaramente stagliarsi all'orizzonte già nell'insurrezione di febbraio, non mancavano di giustificazioni nella sua prospettiva. Dopo che il movimento dell'uguaglianza aveva distrutto tutti i privilegi lasciando intatta solo la proprietà e facendo di essa l'ostacolo principale all'uguaglianza degli uomini, era necessario per chi non ne godeva sviluppare almeno il pensiero di abolirla. Indipendentemente dal profondo disprezzo che Tocqueville nutriva per i capi socialisti, il socialismo in quanto tale gli appariva tuttavia come una conseguenza della centralizzazione che avrebbe realizzato il dispotismo democratico; come un movimento che tendeva verso una società in cui lo Stato si incarica di tutto, in cui l'individuo non è nulla, in cui la società agglomera in sé stessa. Per Tocqueville la libertà implicava una capacità d'azione, individuale e sociale, che la politica centralistica statuale aveva in Francia ormai dissolto; il socialismo, abolendo la proprietà privata non avrebbe in alcun modo ripristinato la libertà individuale. John Stuart Mill L'incontro con l'opera di Tocqueville ebbe un ruolo fondamentale nello spostare i suoi interessi dall'astratta teoria della democrazia liberale ai concreti problemi della sua organizzazione, ma non si può parlare di ricezione passiva considerate l'originalità della sua formazione e la prossimità del suo pensiero politico alle problematiche specifiche del liberalismo britannico. Avviato dal padre entra a contatto certamente con l'utilitarismo benthamiano ma da ciò che egli stesso ci dice andò maturando una progressiva crisi interiore, accresciuta dalle istanze romantiche, che lo condusse a prendervi le distanze. L'attenzione agli aspetti qualitativi della felicità, nonché alla dimensione 'interiore' della personalità e del carattere, sarebbero rimasti elementi costanti anche dopo che egli ebbe nuovamente assunto posizioni interne all'utilitarismo. Mill giunse certamente ad accettare il principio della maggior felicità possibile per il maggior numero di individui, nonché la dottrina secondo cui il piacere e la liberazione dalla sofferenza sono le uniche cose desiderabili come scopo: tuttavia, muovendo dalla provocatoria constatazione che è meglio essere un essere umano insoddisfatto che un porco soddisfatto, si differenziava nel tentativo di introdurre una gerarchia dei piaceri che riconosceva la superiorità delle disposizioni intellettuali e sociali. Ne risultava era un netto ridimensionamento dei tratti 'egoistici' della ricerca dell'utile individuale. Al tempo stesso Mill sottolineava che il benessere è il risultato del perseguimento di molteplici fini e che l'azione umana non poteva essere ricondotta all'unico movente della ricerca dell'utile. Sotto il profilo politico il giovane Mill si caratterizzò in un primo tempo per la piena aderenza alle posizioni del radicalismo. Maturò un interesse crescente per la questione sociale e per le condizioni delle classi lavoratrici, accentuato dal confronto con le rivendicazioni politiche del movimento cartista. Mill distingueva la sfera della produzione, ritenuta soggetta a esigenze fisiche e a leggi altrettanto ferree di quelle naturali, dalla sfera della distribuzione e dello scambio, in cui le regole sono integralmente sociali, e dunque modificabili. Si apriva così la possibilità di un intervento redistributivo da parte dello Stato, teso a moderare la virulenza dei contrasti di classe. Libertà, personalità, rappresentanza Su queste basi diveniva difficile circoscrivere le funzioni del governo tracciando una linea di demarcazione tra sfera pubblica e sfera privata. Vi sono molti casi nei quali i governi, con l'approvazione generale, assumono poteri ed eseguono funzioni che non possono essere giustificati se non dalla semplice ragione che corrispondono alla convenienza generale. Il ripensamento delle basi e della natura della libertà civile, o sociale è reso necessario proprio dalla registrazione del dato di fatto ineluttabile che la tendenza di tutti i mutamenti è di rafforzare la società e di diminuire il potere dell'individuo. Non sembra sussistere una contraddizione fra le tesi del trattato sull'economia politica e l'intenzione del saggio sulla libertà. Quest’ultimo dice che il solo scopo per il quale l'umanità è giustificata a interferire nella libertà d'azione di chiunque, è quello di autoproteggersi. Il criterio dell'autoprotezione appare perfettamente compatibile con quello della convenienza generale. Egli sottolinea del resto che tale criterio si applica in generale alla sfera della coercizione e del controllo, ma la tirannia della maggioranza, contro cui si rivolge il monito di Mill nel saggio Sulla libertà, è definita come una tirannia sociale più potente di qualsiasi oppressione politica e pare dunque coincidere con le pressioni esercitate sul singolo individuo dall'opinione pubblica. La triplice definizione della libertà - libertà di coscienza, di seguire i propri gusti e le proprie inclinazioni, di associazione - presuppone uno specifico modello di autonomia individuale che si tratta di tutelare; Mill individua nello stigma sociale la principale minaccia che grava su di essa. La sua riflessione coinvolge uno dei concetti cardinali del paradigma politico liberale: quello di opinione pubblica. Lo spazio pubblico dell'opinione, che per il liberalismo classico costituiva l'elemento positivo di mediazione tra Stato e società, si rivela nella sua analisi potenziale luogo di formazione di una mediocrità collettiva; e quest'ultima, esercitando potenti pressioni conformistiche, tende a soffocare il carattere dell'individuo. La nozione di carattere è di fondamentale importanza nel pensiero di Mill. Nel saggio Sulla libertà il libero e multiforme sviluppo della personalità come perno della libertà mostra tutta la sua valenza politica: è rivolta a garantire la vitalità dello spazio sociale dell'opinione e della cultura. Fondamentali sono le Considerazioni sul governo. Il libro appare dominato dal riconoscimento dell'importanza delle opinioni e convinzioni di personalità influenti. La riflessione intellettuale, lo spirito di intrapresa, il coraggio sono gli elementi fondamentali del 'carattere' che il governo rappresentativo deve sforzarsi di promuovere, così come soltanto la piena valorizzazione politica di quegli elementi consente di moderare gli eccessi e di contrastare i pericoli che al governo rappresentativo sono per sua essenza connaturati. Le Considerazioni sono un testo radicale nel sostenere l'inopportunità di limitare in alcun modo il suffragio, se non sulla base del principio per cui gode del diritto di voto soltanto chi paga le tasse. Se Mill aggiunge che è necessario, per rendere davvero universale il suffragio, che anche le classi più povere vengano gravate degli oneri della tassazione, occorre notare che egli non mette in discussione il principio essenziale. Anche su queste basi la decisa perorazione della necessità di ammettere ai diritti politici ogni singolo lavoratore presenta il rischio di una legislazione di classe imposta da una maggioranza numerica che appartiene alla sola classe sociale dei lavoratori manuali. Per risolvere questo problema ritiene necessaria la garanzia della rappresentanza delle minoranze adottando il sistema proporzionale. Mill, per contrastare il pericolo di una legislazione di classe, non si limita a raccomandare l'adozione di tale sistema, ma insiste sulla necessità di prevedere un complesso criterio di differenziazione del 'peso' dei singoli elettori. È convinto che la persona dotata di qualità superiori ha diritto a esercitare un'influenza superiore. Queste qualità non possono essere attestate dalla proprietà, ma soltanto dal grado di istruzione. I rischi connaturati al governo rappresentativo possono essere dunque contrastati soltanto prevedendo una rappresentanza privilegiata per la cultura. La soggezione delle donne Per quanto la riforma elettorale britannica del 1867 abbia determinato un ampliamento del suffragio, si impose come opera canonica sul governo parlamentare quella dell’avversario politico di Mill, il liberal-conservatore Bagehot. Egli sottolinea come si sia gradualmente affermata una nuova distribuzione dei poteri, che ha soppiantato, a vantaggio della Camera bassa, l'antico principio del rapporto triangolare fra il re, la Camera dei lord e la Camera dei comuni. In queste condizioni ciò che rende efficace la Costituzione inglese risiede nella stretta unione del potere esecutivo con quello legislativo. Nell'esporre i capisaldi della teoria interessando molti rami industriali, veniva inoltre presentato come garanzia di per sé sufficiente a equiparare i diritti dei cittadini bianchi e neri. La questione nazionale L'altro grande tema da cui sono dominati gli sviluppi storici e dottrinali nel corso dell'Ottocento è rappresentato dalla questione nazionale. Essa si pone come fattore di crisi dell'ordine tradizionale ma indica al tempo stesso un modello di integrazione politica, spesso in funzione antisocialista, delle contraddizioni sociali determinate dal progredire dell'industrializzazione; l'emergere della questione nazionale asseconda poi le dinamiche di democratizzazione, ma contemporaneamente pone le basi per la diffusione di ideologie imperialistiche, per una profonda trasformazione dei principi di legittimazione delle guerre nonché per l'avvio di nuovi processi di discriminazione delle minoranze, su basi più o meno apertamente razziste. L'immagine tradizionale è stata criticata da quanti hanno posto in evidenza come essa corrisponda a un postulato centrale in tutte le ideologie nazionaliste, quello che configura la nazione come un'entità originaria. Oggi si tende piuttosto a insistere sui caratteri fittizi di quelle comunità immaginate che sono le nazioni moderne. Non sono le nazioni a fare gli Stati e a forgiare il nazionalismo, bensì il contrario. Certo, elementi 'oggettivi' come la lingua e le tradizioni hanno grande peso nella definizione del senso di appartenenza a una comunità; ma questi elementi sono insufficienti a produrre quella forma di comunità che è la nazione. Quest'ultima si rivela essere il prodotto dell'operare di un complesso insieme di fattori politici e culturali attraverso cui l'appartenenza nazionale viene imponendosi come elemento decisivo nel determinare l'identità di uomini e donne. È certamente la rivoluzione francese a sancire l'ingresso del concetto di nazione, in una posizione di assoluta rilevanza, nel pensiero politico moderno. Ai dibattiti e ai conflitti che fecero seguito alla rivoluzione risale anche la formulazione della grande antitesi che avrebbe dominato nei decenni successivi lo sviluppo dei diversi modi di intendere la nazione e il nazionalismo in Europa. Infatti si era affermata una nozione 'civica' e tendenzialmente individualistica dell'appartenenza nazionale; invece in Germania, si impose un diverso concetto di nazione: nelle condizioni di frammentazione amministrativa e dinastica in cui versavano i territori tedeschi, l'unità della nazione veniva rintracciata non tanto sul terreno politico, quanto su quello della condivisione di una lingua e di una cultura comuni. Questo secondo modo di intendere la nazione lasciava indubbiamente più spazio alla valorizzazione politica di elementi come la terra e il sangue. Gli stessi sviluppi del diritto di cittadinanza nei due paesi sono stati influenzati dalla contrapposizione indicata. E tuttavia essa ha un valore che potremmo definire solo idealtipico: mentre infatti non consente di classificare compiutamente i diversi modelli di concettualizzazione dell'appartenenza nazionale che prevalsero nei diversi paesi europei, essa non corrisponde neppure pienamente agli sviluppi empirici del nazionalismo in Francia e in Germania. Il nazionalismo dell'Ottocento è comunque un fenomeno estremamente complesso, che andrebbe tra l'altro studiato in una prospettiva non soltanto europea. La grande epopea delle lotte di liberazione nazionale conquistò l'adesione e l'attiva partecipazione di una parte cospicua della cultura europea, come nel caso della Grecia. Se la Grecia si prestava particolarmente a suscitare la simpatia degli intellettuali, anche i moti per l'indipendenza della Polonia, il cui territorio era stato diviso tra la Prussia, l'Austria e la Russia, scossero a più riprese l'opinione pubblica europea. I patrioti polacchi in esilio parteciparono con entusiasmo ai moti e alle aspirazioni di tutte le nazionalità oppresse; molti di loro inoltre vennero progressivamente sviluppando un atteggiamento slavofilo, che li conduceva a contrapporsi a ogni prospettiva di occidentalizzazione dei popoli slavi. L'esaltazione della specificità dei popoli slavi non fu esclusivo e appannaggio di autori romantici e in ultima istanza progressisti, essa giocò un ruolo centrale nello sviluppo del movimento “panslavista”, che auspicava la formazione di un grande Impero continentale attorno alla Russia zarista, a cui era preclusa l'espansione coloniale in territori extraeuropei. Analoghi obiettivi di costruzione di un grande spazio continentale omogeneo contraddistinsero la diffusione in Germania e in Austria del pangermanismo, la seconda variante di quei movimenti in cui Hannah Arendt ha individuato uno snodo fondamentale per la formazione di un nazionalismo di tipo aggressivamente imperialistico e razzista. Giuseppe Mazzini e il Risorgimento italiano Indipendentemente dalle differenze di convinzioni ideologiche e politiche che animarono gli uomini e le donne protagonisti dei moti risorgimentali, e che li portarono a dividersi tra laici e neoguelfi, democratici e moderati, repubblicani e monarchici, unitari e federalisti, si può convenire che nelle modalità con cui essi immaginarono la nazione italiana le differenze tendono a cadere. Un'unica intenzione guida storici, letterati e pittori che si dedicano a ricomporre in una narrazione complessiva della storia nazionale eventi storici assai distanti fra loro e spesso privi di ogni valore patriottico: destare all'azione politica un soggetto storico oppresso da tiranni stranieri e lacerato da divisioni interne, la nazione italiana. Occorre aggiungere che proprio la forza di un'immagine fondamentalmente olistica della nazione fu alla base della delusione di molti per il concreto manifestarsi all'indomani dell'unificazione di spaccature sociali, politiche e territoriali. Sotto il profilo delle dottrine politiche, l'immaginazione nazionale italiana si muove all'interno della tensione fra gli ideali civici e repubblicani che avevano animato il triennio giacobino di fine Settecento e lo sforzo di pervenire al concetto di una comunità etno-nazionale compatta, dotata di una propria storia, di proprie tradizioni e di una propria missione. Tipica è la figura di Giuseppe Mazzini, che del movimento risorgimentale fu il vero e proprio apostolo. Decisive furono le esperienze personali e storico-politiche. La sua idea, espressa nel Manifesto della “Giovine Italia” è che le grandi rivoluzioni si compiano più coi principii, che con le baionette, nel senso di una preponderanza dell’aspetto morale su quello materiale. L'affermazione del primato della dimensione morale e spirituale sarebbe rimasta un elemento caratteristico del pensiero e dell'opera di Mazzini. L'individualismo e l'enfasi sui diritti tendono a divenire gretto materialismo e a nutrire una politica opportunistica egli accusa proprio la teoria dei diritti di avere posto le condizioni perché gli uomini, senza vincolo comune, senza unità di credenza religiosa e di scopo, pensassero unicamente alla propria vita, senza scrupoli verso gli altri. L'idea del dovere rappresenta per Mazzini il decisivo passo avanti rispetto ai diritti delle dottrine rivoluzionarie francesi; per lui, l'origine di ogni dovere sta in Dio, e la sua immediata realizzazione terrena non può che essere la patria. Mazzini fa della nazione una realtà etico-religiosa, in grado di superare infine ogni dissidio tra fede e ragione. Il principio nazionale si coniuga qui, in altri termini, con il principio sociale. La riflessione di Mazzini, da questo punto di vista, presenta numerosi punti di contatto con le critiche che all'ideale borghese della libertà vengono contemporaneamente mosse da autori socialisti: per quanto egli affermi a più riprese il carattere sacro della proprietà Mazzini è animato lungo l'intero arco della sua vita da un profondo sdegno morale per le condizioni degli operai e denuncia in molti suoi scritti il fatto che, senza l'uguaglianza, la libertà è destinata a rimanere un'illusione per i più. Mazzini dà espressione alla sua profonda avversione per la politica del giusto medio, accusata di non essere altro che eclettismo politico, senza passato, senz'avvenire, senza logica, senza sviluppo, sistema paralitico, che non s'attenta rifiutare i principi rigeneratori, ma s'industria a strozzarli in fasce. Proprio questo atteggiamento lo avrebbe condotto a porsi in una posizione di dura opposizione nei confronti del moderatismo dell'altro protagonista dell'unificazione italiana, Cavour: esso si traduce infatti in Mazzini nel rifiuto di ogni via di mezzo tra la libertà e il dispotismo, nonché nell'identificazione di sovranità nazionale e sovranità popolare contro la stessa ipotesi di una monarchia costituzionale. È la convinzione della coincidenza fra idea nazionale e idea democratica, del resto, a consentire di auspicare un radicale rifacimento della carta geografica d'Europa, tra le nazioni non potrà che regnare armonia e affratellamento. Inviso ai moderati per il suo radicalismo democratico, Mazzini fu criticato anche da 'sinistra': se infatti Pisacane giunse ad accusarlo di misticismo e a rifiutare il carattere genericamente umanitario del suo pensiero, Ferrari criticò i tratti 'cospirativi' della tattica politica mazziniana. Anch'egli attestato su posizioni socialiste, individuava nel povero il protagonista della rivoluzione nazionale italiana e contrapponeva ai dogmi della religione e della metafisica il regno della scienza. Ma anche da un diverso punto di vista nella fase preunitaria, le posizioni di Ferrari si distinsero notevolmente da quelle di Mazzini egli sviluppò il progetto di un'Italia composta da libere repubbliche democratiche tra loro federate. È questo un tema al centro degli scritti di Cattaneo, che fu tra l'altro uno dei primi a impiegare la formula degli “Stati uniti d'Europa” per indicare l'obiettivo di fondo verso il quale i movimenti nazionali dovevano indirizzarsi. Assai più di Ferrari, Cattaneo fu il vero pensatore federalista del Risorgimento, individuava allo stesso tempo nei tratti burocratici degli Stati nazionali centralizzati una minaccia per quei valori di libertà, pluralismo e diversità di cui era sostenitore. Tali idee derivarono dall'insegnamento di Romagnosi, che, nella sua opera, si proponeva di analizzare la situazione economica lombarda e italiana comparandola con lo sviluppo dei paesi allora economicamente più avanzati. Temi centrali erano la libertà di commercio e lo sviluppo del mercato nazionale. Dal punto di vista del pensiero politico Romagnosi pone al centro della propria riflessione il concetto di utile e di diritto alla felicità, intesa quale perfezionamento non solo morale, ma anche economico e politico. Riflettendo sulla situazione politica italiana rende centrale la questione dell'unità nazionale. Essa diventa il cuore della sua civile filosofia, a cui sono associati il principio della stabilità della nazione e la legge naturale di socialità. L'ispirazione schiettamente democratica di Cattaneo differenziava d'altra parte le sue posizioni e quelle di Minghetti, che individuava in un prudente decentramento la condizione per rafforzare le borghesie liberali delle provincie e per fare di queste un baluardo contro la democraticizzazione. Minghetti può valere come esponente paradigmatico di quell'attitudine al compromesso tipica della borghesia italiana in età post-unitaria, attitudine che si esplica sia nella commistione delle tradizioni dottrinali sia nell'eclettismo delle concrete soluzioni politiche. La guerra di secessione americana Agli occhi di molti osservatori contemporanei, la guerra civile americana fece esplodere la contraddizione originaria insita nella Costituzione statunitense: la legittimazione nei fatti della schiavitù nel momento stesso in cui essa proclamava i principi inviolabili della libertà repubblicana. Di fondamentale importanza nel contesto è la guerra di secessione, e il XIII emendamento con cui nel 1865 l'abolizione della schiavitù entrò a far parte della Costituzione, nel processo di definitivo consolidamento dell'unità nazionale statunitense. Iniziata per preservare la vecchia Unione la guerra civile fece nascere un nuovo Stato-nazione americano, lo stesso presidente Abraham Lincoln si risolse soltanto dopo molte esitazioni ad assumere la sua più radicale iniziativa: il Proclama di emancipazione degli schiavi. Per quanto fosse contrario alla schiavitù aveva infatti assegnato la priorità alla difesa dell'Unione, contemporaneamente perseguendo l'esclusione della schiavitù dai nuovi territori: sua convinzione era che in queste condizioni la schiavitù sarebbe gradualmente e lentamente morta di morte naturale anche al sud. Proprio in polemica con i sostenitori di una soluzione graduale del problema della schiavitù aveva preso le mosse il movimento abolizionista statunitense. Garrison si rifiuta esplicitamente di usare la moderazione in una causa come quella della schiavitù, fu tra i promotori dell'American Anti-Slavery Society, che interpretava la lotta abolizionista in una chiave etica e morale, come esercizio della libertà di coscienza individuale, intesa però non soltanto come libertà di pensiero e di parola, ma anche e soprattutto come libertà di agire politicamente. In questo contesto la militanza abolizionista era parte di un più ampio programma di riforma morale e spirituale del genere umano centrato sulla temperanza e l'educazione. In quegli stessi anni prende forma anche uno specifico e autonomo movimento abolizionista afro-americano. In questo caso, i temi etici e morali della nonviolenza lasciano il campo a obiettivi e strategie politiche volte più al raggiungimento della libertà e della piena