Scarica Riassunto "Manuale di storia del pensiero politico - C. Galli" e più Sintesi del corso in PDF di Storia Delle Dottrine Politiche solo su Docsity! STORIA DELLE DOTTRINE POLITICHE A.A. 2018/2019 Laudani-Rudan MICHELANGELO BALLABENE Storia delle dottrine politiche | Michelangelo Ballabene 1 Storia delle dottrine politiche | Michelangelo Ballabene 4 2. Marx ................................................................................................................................ 96 3. Tocqueville ...................................................................................................................... 99 4. John Stuart Mill ............................................................................................................. 101 5. Liberalismo e darwinismo sociale ................................................................................. 103 6. La questione nazionale .................................................................................................. 104 7. Imperialismo e questione coloniale ............................................................................... 109 8. Sviluppi del pensiero politico cattolico ......................................................................... 109 9. Il pensiero politico del movimento operaio ................................................................... 111 IL NOVECENTO E L’ETÀ GLOBALE ...................................................................................... 113 XIII. La crisi dell’ordine politico moderno ............................................................................... 113 1. Nietzsche ....................................................................................................................... 114 2. Tönnies .......................................................................................................................... 115 3. Weber............................................................................................................................. 116 4. Gli etilisti ....................................................................................................................... 118 5. Il marxismo: 1900-1920 ................................................................................................ 122 6. Il nazionalismo .............................................................................................................. 124 7. Il cattolicesimo democratico .......................................................................................... 127 8. Liberali e democratici .................................................................................................... 129 9. Politica ed economia ...................................................................................................... 133 10. I totalitarismi .............................................................................................................. 134 11. Il pensiero dialettico .................................................................................................. 139 11.2 La Francia .................................................................................................................. 142 12. I pensatori radicali della crisi ..................................................................................... 145 Storia delle dottrine politiche | Michelangelo Ballabene 5 IL MONDO MODERNO E LE SUE FORME I. Gli inizi della politica moderna 1. L’umanesimo politico I primi cancellieri della Repubblica di Firenze si identificano con una corrente repubblicana veicolata dall’umanesimo, caratterizzata dalla polemica da loro condotta in nome della Florentina libertas verso l’espansionismo dei Visconti. Negli anni seguenti l’ars dictandi, prodotta nei corsi di retorica a Bologna, incontrò la politica ed intervenne a perfezionare gli strumenti di propaganda per l’autonomia delle singole città, oltre che della salvaguardia ideologica del valore delle libertà. Venne così a diffondersi l’ideale dell’eccellenza della vita politica, anche grazie all’eredità la- sciata dal Somnium Scipionis, secondo il quale: “[…] per tutti coloro che hanno conservato, aiutato, ingrandito la patria, è assicurato in cielo un posto particolare, dove i beati si godono l’eternità.” In questo periodo si forma uno dei concetti fondamentali della teoria politica: quello della nobiltà della politica, e della natura quasi divina dei reggitori o riformatori degli Stati. Coluccio Salutati (1331-1406) seppe incarnare il modello dell’intellettuale “impegnato”. Egli sostenne che i sapienti devono occuparsi della politica e che le loro attività vanno considerate quasi divine. Nel De nobili- tate, Salutati spiega che le leggi si preoccupano del benessere delle città, dei regni e di tutto il genere umano, e dunque rendono possibile anche la libertà. A difesa della libertà repubblicana si colloca anche Leonardo Bruni (1370-1444), che succedette a Salu- tati come cancelliere della Repubblica. Nella Laudatio florentinae urbis e nella Historiam Florentini populi libri XII egli dimostra che la virtù degli antichi era sopravvissuta nella Firenze moderna: la libertà fece di Firenze il motore della liberazione dell’Italia dalla minaccia della schiavitù e il modello per tutte le altre città. Vi è un’esaltazione della libertà nei suoi due sensi: indipendenza da ogni potere esterno e autonomia e autogoverno all’interno, che accompagna gli umanisti. La virtù repubblicana consiste nella dedizione alla patria e al bene comune, e nella sua difesa con le armi: da qui deriva il concetto di cittadinanza come attiva partecipazione alle vicende politiche della città. Tra il XIV e il XV secolo l’ideologia repubblicana raggiunse il suo sviluppo più alto, ma una volta rag- giunti i suoi scopi (difesa contro la tirannia dei Visconti) influenzò la vita spirituale di Firenze, promuovendo una filosofia dell’azione individuale nella società. Essa aveva la propria base nel concetto di virtù di origine romana: una forza interiore alla portata di chiunque la ricercasse. Dunque, la nobiltà di sangue e del denaro perse la propria posizione di privilegio, tant’è che l’umanesimo si trovò associato all’ascesa di nuove classi. Poggio Bracciolini (1380-1459) critica la vita dei monaci, condannando l’ozio ed esaltando una virtù che sia capace di costruire il proprio mondo. Nel De avaricia egli rappresenta sia una riprovazione morale sia una difesa del desiderio di possedere e accumulare ricchezze in cui si incarna l’avarizia. L’avaro è dedito solo a sé, dimentico del bene pubblico, impossibilitato a coltivare l’amicizia e la benevolenza: è un nemico interno alla città. A volte, però, l’avarizia è utile, essendo in sintonia con la ricerca dell’utile: il fondamento di que- sta ricerca è lo sforzo all’autoconservazione degli esseri viventi, dunque l’avarizia è un’acquisizione di de- naro che aumenta la possibilità della vita. L’esaltazione dell’attività e del successo mondano prosegue con Matteo Palmieri e Leon Battista Alberti: le loro due opere principali, La vita civile e I libri della famiglia, rappresentano il meglio dell’etica ideale dell’umanesimo e dei suoi valori. Palmieri crede che la vita solitaria sia meno elevata e completa di quella civile, e che nulla sia più apprez- zato da Dio che dirigere e governare con giustizia gli uomini. Viene esaltato l’amor di patria, e la vita poli- tica è vista come destinazione etica di un’umanità capace di coniugare l’utile e l’onesto. Nel messaggio etico di Alberti troviamo invece un velo di tristezza: questo messaggio pone al centro l’in- vito a saper unire la ricerca della masserizia con quella dell’onore e della virtù. Ma la dimensione sociale non riesce più a confluire in quella politica. Il privato, inteso come intimità e lontananza dal pubblico, si af- ferma come un valore in grado di fronteggiare la dimensione pubblica in un rapporto dialettico. Questo ripie- garsi su di sé è il risultato della mutata situazione storica che porta una nuova attitudine degli intellettuali Storia delle dottrine politiche | Michelangelo Ballabene 6 verso la vita politica. A Firenze governava Cosimo de’ Medici, mentre intorno prolificavano regni e Signo- rie. La virtù che gli umanisti avevano esaltato come unica forma di nobilitazione doveva essere riconosciuta sia che si manifestasse nei valori borghesi – che sembrava difendere e favorire- sia che si mostrasse all’opera nell’azione di tutti i signori pervenuti al Principato grazie alla loro virtù, appunto. Il leader del repubblicanesimo Salutati all’inizio del Quattrocento si orienta verso l’apprezzamento del prin- cipe. Per lui, la tirannide restava il contrario di ogni valore politico e civile: il tiranno che avesse assunto il proprio potere senza alcuna forma di legittimazione (ex defectu tituli) poteva giustamente essere ucciso da qualunque cittadino. Viene data importanza anche al tema del consenso, concentrando l’analisi sulle trasformazioni delle istitu- zioni repubblicane in vere e proprie Signorie o Principati: la loro formazione era qualcosa di positivo, un ri- medio ai mali promossi dai partiti e dalle fazioni. Egli dimostra che dietro il potere del tiranno poteva scor- gersi il consenso del popolo: Cesare non fu mai un tiranno, essendo stato chiamato legittimamente al go- verno per i suoi meriti. Parte da qui il cammino verso una serie di trattati sul principe: in questo campo operava la tradizione degli specula principis1, che dall’antichità al Medioevo ruotava attorno all’idea dell’esemplarità virtuosa della vita del principe e all’elenco delle virtù che egli doveva possedere, che hanno una propria specificità e autono- mia. Il Principe legittima la propria preminenza grazie a virtù mondane che gli provengono più dalla medita- zione sulla storia antica e moderna che dai modelli biblici. 2. Machiavelli Niccolò Machiavelli nasce a Firenze nel 1469. Ha 25 anni quando Carlo VII, re di Francia, scende nella penisola provocando un terremoto politico nella sua città. Durante il periodo della Repubblica di Savonarola non riesce a procurarsi un incarico pubblico, ma nel 1498 con la cacciata del frate occupa il posto di cancel- liere. È un funzionario che ama la sua patria, la serve con fedeltà e vorrebbe vederla assumere un ruolo di grande potenza. Nell’estate del 1512 i Medici tornano a Firenze e a novembre Machiavelli perde l’incarico. Durante la sua vita da esule a Sant’Andrea in Percussina la volontà di agire e capire ebbe la meglio sullo sconforto: qui prende vita la trattazione sulle repubbliche, i Discorsi, che viene interrotta per scrivere Il Prin- cipe. Alla sua morte, nel 1527, il pubblico non conosceva ancora le sue opere. Le sue grandi opere vengono dunque scritte dopo che viene allontanato dalla vita politica, ma già nel Discorso fatto al magistrato dei Dieci sopra le cose di Pisa, del 1499, si nota lo sforzo di prevedere gli eventi futuri indicandone la struttura in modo realistico. Per Machiavelli la logica delle cose del mondo è tutta interna alle cose stesse. Gli uomini agiscono cercando di avere successo in un mondo ostile e indiffe- rente all’uomo, in mezzo ad altri uomini intrinsecamente malvagi ed egoisti. L’assenza dell’ordine dell’es- sere assume il nome di fortuna: è presente la concezione neopagana che la storia non obbedisca al disegno provvidenziale cristiano, ma sia un ciclo di accadimenti di cui l’uomo non ha né può avere il controllo. L’ac- cadere non ha in sé un progresso, dunque rende possibile, vista l’invarianza della natura umana, l’imitazione degli antichi anche da parte dei moderni. Per dare senso al trionfo della contingenza occorre l’agire politico virtuoso: la virtù è quell’energia umana che si oppone alla fortuna, senza adeguarvisi passivamente, consen- tendo agli uomini di uscire da sé stessi e dal proprio egoismo. La considerazione della difficile interpretabilità del reale, dell’opacità dell’accadere non sfocia nello scetticismo, bensì è la premessa di un tentativo di interpretazione più profondo della realtà. Individuati i due aspetti della realtà politica – la natura dei tempi e la natura degli uomini- considera il successo come la coin- cidenza armoniosa di queste due facce: “et quello è felice che riscontra il modo del procedere del suo con el tempo, et quello per opposito è infelice che si diversifica con le sue azioni da el tempo et da l’ordine delle cose” Chi è tanto saggio da conoscere i tempi, e tanto abile da modificare la propria natura conformandosi a loro, potrebbe comandare alle stelle et a’ fati. a. I Discorsi I Discorsi sulla prima deca di Tito Livio sono strutturati in tre libri: 1 Specchio del principe, o manuale di virtù ad uso dei reggitori, fu un genere letterario di grande diffusione e apprezzamento nel Me- dioevo Storia delle dottrine politiche | Michelangelo Ballabene 9 guerra et ordini e disciplina di essa”. Non sono necessarie doti quali la magnificenza, lo splendore, la libe- ralità bensì la parsimonia, la sicurezza fondata sulla forza, la simulazione e la dissimulazione: non una natura sola ma almeno due, quella della golpe e quella del lione. Esiste una connessione fra questi capitoli e la trattazione sul peso della fortuna, contenuta nel XXV capi- tolo. L’entrare nel male da parte del principe è reso necessario dal tentativo di fronteggiare l’imprevedibile corso degli eventi e della fortuna: per arginare il suo potere è d’uopo obbedire alla più cogente tra le leggi della politica, ossia quella di vincere e mantenere lo Stato. Le strategie per domare la fortuna differenziano il principe virtuoso da quello che non lo è, ma una vittoria totale sulla fortuna è impossibile in quanto, nono- stante le sue virtù politiche, il principe avrebbe sempre incontrato nel suo cammino la contingenza, l’impre- visto. Viene dato peso anche ai rapporti sociali e alle forze reali che da essi si sprigionano, essendo un ulteriore fattore di limitazione dell’agire politico del principe. Nel capitolo XI, sul Principato civile, Machiavelli di- mostra la profonda unitarietà dei motivi di fondo del suo pensiero: analizza il caso in cui qualcuno con il fa- vore degli altri suoi cittadini diventa principe della sua patria. Divenendo principe con l’appoggio dei Grandi si incorre in due pericoli: non si potrà comandarli a piacimento né soddisfare “onestamente” le loro voglie, poiché consisteranno nell’opprimere il popolo. È necessario per il principe avere il populo amico: solo in questo modo egli potrà essere capo anche militare del suo popolo, armandolo senza doverlo temere. c. Dell’arte della guerra Machiavelli sottolinea l’importanza di tornare ai modi antichi (di Roma), ovvero a quella connessione tra buone leggi e buone armi che in quel contesto aveva dato buona prova di sé. Per tentare di ripristinare quell’ethos che li aveva sorretti occorre armarsi di milizie proprie, impedendo così che la guerra diventasse un mestiere con cui arricchirsi. Viene data più importanza alla fanteria contro l’odierna sopravvalutazione della cavalleria e dell’artiglieria, che tendono a far diventare la guerra un fatto socioeconomico. d. Le Istoriae Fiorentine Nello scrivere questa opera, Machiavelli si cala nel presente: sembra perdere la speranza in quella renovatio tanto auspicata, il che lo porta a interrogarsi sulle cause della decadenza di Firenze, città che sembrava nata per accrescere le divisioni interne, o crearle in caso di loro assenza. A Firenze le divisioni si moltiplicavano, dividendo i nobili tra loro e poi quelli dal popolo, e poi ancora quest’ultimo internamente. Esse avvenivano su un piano privato ed economico: la genesi esclusivamente privata degli scontri viene messa continua- mente in luce. Anche le contese più schiettamente politiche non hanno prodotto istituzioni nelle quali scor- rere: mentre a Roma le contese di definivano “disputando”, a Firenze si definivano “combattendo”. Se a Roma i rapporti di forza dei gruppi sociali si cristallizzavano in leggi, a Firenze le inimicizie si conclude- vano con “lo esilio o la morte”. La legge, infine, non era la mediazione tra interessi diversi, ma esprimeva la volontà del vincitore di cancellare lo sconfitto. 3. Guicciardini Francesco Guicciardini, nato a Firenze nel 1483, avvocato. Nel 1511 è ambasciatore presso il re di Spa- gna; tornato in Italia viene nominato da Leone X governatore di Modena, poi di Reggio e Parma. Restaurata la repubblica fiorentina è accusato di non averne impedito il saccheggio. Nel 1537 viene allontanato da Fi- renze e dalla politica attiva: scrive dunque Storia d’Italia. Membro dell’aristocrazia fiorentina ed educato ai suoi valori, nei quali si riconobbe seriamente, anche Guicciardini è un sostenitore dei valori della repubblica. Si colloca però su un’altra sponda rispetto a Ma- chiavelli: quella dell’accentuazione della funzione politica degli Ottimati. a. Gli Ottimati e la prudenza Nella sua piena maturità politica, Guicciardini prende le distanze dal suo grande amico, scrivendo nel 1530 le Considerazioni intorno ai Discorsi di Machiavelli. Da un lato egli elogia la mistione e la com- partecipazione alle funzioni di tutela della repubblica tra le classi e gli umori che la compongono, dall’altro confessa una scelta di campo diametralmente opposta a quella di Machiavelli: Storia delle dottrine politiche | Michelangelo Ballabene 10 “Ma quando fussi necessitato mettere in una città o uno governo, meramente di nobili o uno di plebe, crederò sia manco errore farlo di nobili; perché essendovi più prudenza ed avendo più qualità, si potrà sperare si mettino in qualche forma ragionevole […]” La sua scelta filonobiliare ed antipopolare appariva già chiara nelle Storie fiorentine, scritte a venticinque anni. Guicciardini individua l’inizio del mutamento costituzionale che avrebbe portato a una pericolosa mar- ginalizzazione dei grandi nel governo di Lorenzo de’ Medici, abituato a seguire solo el suo consiglio e pa- rere, al punto che quella città che una volta era stata libera e conservava il nome della libertà, era in realtà tiranneggiata da un solo cittadino. I problemi che sono rimasti a Firenze dopo la sua morte sono da attribuirsi all’assenza di un potere forte e perpetuo, in grado di vegliare sull’interesse dello Stato. Si aggiunge che “tutti e’ disordini che fanno e’ numeri grandi, quando hanno innanzi le cose non punto digeste” nonché la lun- ghezza del deliberare e la mancata segretezza delle deliberazioni prese. Occorre dunque restituire la guida della cosa pubblica a quella classe ottimatizia, depositaria di saggezza e prudenza. Nell’ipotesi che Firenze potesse tornare dallo Stato di uno alla sua prima libertà, viene scritto il Dialogo del reggimento di Firenze. Guicciardini pone la sua attenzione sul problema del Consiglio: senza dubbio deve essere largo ed universale, composto da tutti quelli adatti alla cittadinanza politica, deve essere giudice delle leggi nuove e correttore di quelle vecchie. Ma questa cosa significa essere il motore della vita politica dello Stato? No. Con questa risposta negativa, egli fonda la propria proposta istituzionale atta a dare peso politico ai pru- denti, attraverso la formula della necessità che le deliberazioni importanti siano ristrette a un numero minore di persone. Le cose difficili non potrebbero essere affidate al Consiglio, non potendo essere trattate lì né in modo segreto, né con rapidità, ma soprattutto perché, data la natura dei consiglieri, non possono essere da loro né intese né ben esaminate. Guicciardini tenta di conciliare la necessità di un’alternanza di magistrati al governo con la cura, la dili- genza e l’unitarietà dell’azione politica. Seguendo il modello della repubblica di Venezia (dogato) egli sot- tolinea il proprio apprezzamento per un gonfaloniere a vita, accompagnato dagli ordini buoni: istituzioni ca- paci di controllarne l’autorità. Dunque, per bilanciare il potere del gonfaloniere, è necessario che gli vengano affiancati gli uomini principali e più savi della città. Questo avrebbe alcuni benefici: 1) Le deliberazioni importanti di sua competenza sarebbero maneggiate da chi le intende, e non vanno nelle mani della moltitudine. 2) Il Senato costituirebbe un freno alla eccessiva potenza del gonfaloniere 3) Le cose sarebbero assai meglio governate dai cittadini più savi e virtuosi, e che simili cittadini avrebbero una vita istituzionale e politica per mettere la loro virtù a servizio dello Stato Guicciardini persegue il pensiero del contemperamento della legittima esigenza dell’uguaglianza con la non meno legittima esigenza di vedere riconosciuta la differenza dei gradi dei cittadini. Lo Stato non sarà mai ben formato se non sarà capace di trovare una via per rendere politicamente produttivo quel desiderio di essere stimati e onorati che spinge l’ambizione dei migliori verso pensieri ed azioni onorevoli. È dunque ne- cessario lasciare aperto l’accesso al cursus honorum, ma anche sottrarre la totalità delle decisioni politiche al Consiglio grande: la necessità di un bilanciamento nasce dall’esigenza di tutelare queste esigenze. b. La crisi della prudenza Nelle Considerazioni e nei Ricordi si nota un profondo cambiamento di natura politica e intellettuale. Viene colpita l’essenza dell’argomentare di Machiavelli ed evidenziata una sorta di intrascendibilità del par- ticolare, un’attenzione alla insuperabile varietà degli accidenti. È il nodo teorico che emerge nei Ricordi: l’impossibilità della previsione razionale e dell’azione conforme alla regola, che segnala una sorta di inutilità pratica della virtù dei savi e dei prudenti. Si nota il peso della fortuna. Non sottrae agli uomini la volontà di fare, ma si ha l’impressione che questo fare sia il risultato della sua intima doverosità, che indice dalla spe- ranza di prevedere e padroneggiare gli eventi. La prudenza risulta indebolita, da sola non basta, ma, unita alla forza e alla fortuna può ancora giocare un ruolo. In questa nuova antropologia di Guicciardini ci sono elementi chiave: occorre tenere un atteggiamento dubbioso verso le apparenze, non avere piena fiducia nelle promesse, nei trattati e nelle alleanze; viene indi- viduata la trama razionale della politica solo nei moventi soggettivi dei singoli. Guicciardini ricostruisce i principi di una sapienza politica secondo cui gli uomini hanno in generale poca bontà e fede. Storia delle dottrine politiche | Michelangelo Ballabene 11 II. La Riforma Agli inizi del Cinquecento, lo sviluppo dell’umanesimo in Europa colpisce per la varietà delle forme e sensi- bilità che esso ispirò: sono agli antipodi, infatti, il neopaganesimo di Machiavelli e la filosofia cristiana di Erasmo, che vagheggiava un principe diverso, dedito alla pace e soprattutto intimamente cristiano. 1. Erasmo Gert Geertsz, detto Erasmo, nacque a Rotterdam nel 1466 e, compiuti gli studi a Parigi, visse in varie città europee. Propugnò una riforma religiosa capace di ricondurre il cristianesimo alla purezza delle origini; curò la traduzione in tedesco dei Nuovo Testamento (1516) e stigmatizzò il malcostume ecclesiastico con L’elogio della follia (1509). Pur essendo sensibile ai valori della Riforma, prese le distanze da Lutero nel De libero arbitrio (1524). Morì nel 1536. Erasmo, data la sua attività di editore di testi tanto pagani quanto cristiani, dominò la scena culturale del primo ventennio del Cinquecento, fino a quando la rivoluzione luterana con le sue conseguenze posero fine al suo programma di evangelismo politico. È convinto che fosse possibile una mediazione tra saggezza pa- gana e fede cristiana, ravvivando entrambe le culture: portare questo messaggio fu per lui una lotta contro un mondo insensibile al messaggio cristiano, che riposava sulla passiva accettazione di tradizioni senza senso. Il suo giudizio critico sul mondo spinse Erasmo a formulare una teoria critica della società e dello Stato, una proposta di renovatio che partiva dalla messa in dubbio dei valori del suo tempo: il suo commento al prover- bio antico “I Sileni di Alcibiade” è l’esempio. I sileni sono statuette di legno che, se chiuse, raffigurano un goffo suonatore di flauto, mentre una volta aperte mostrano qualcosa di divinamente bello: sono il pretesto per invitare a guardare più in là delle apparenze, sovvertire le opinioni comuni e i giudizi più saldi. Erasmo si produce in un elogio della povertà e dell’umiltà, del rifiuto della gloria, mentre attacca i va- lori decaduti della nobiltà, ridotta all’enumerazione di discendenze antiche; la regalità, passata da servizio a mero esercizio di un potere troppo spesso tirannico; del sacerdozio dimentico della propria missione e pronto a gridare allo scandalo “non appena si intaccano le proprietà fondiarie o le rendite del clero”. L’amore per l’unità dei cristiani e la volontà di fondare una politica evangelica, spingono Erasmo verso un netto rifiuto della guerra, considerata emblema del male assoluto e radicale. La Querela pacis (1517) si pone come summa di un ragionato pacifismo: contro la guerra stanno sia l’evidenza della profonda unità del genere umano, sia l’insegnamento di Cristo. Alla pace, scacciata da ogni dove, umile e perdente, Erasmo af- fida l’invito alla conversione dei cristiani: invito che ha tra i suoi obiettivi, oltre che mostrare gli orrori mate- riali e spirituali della guerra, la sua delegittimazione mediante la critica alla guerra “giusta”. Gli orrori della guerra consistono anche in una generale e negativa trasmutazione dei valori, che porta ad apprezzare il bri- gantaggio, il fratricidio, il disprezzo delle leggi. La guerra “genera l’indifferenza religiosa, l’inosservanza delle leggi, l’audacia e la disponibilità ad ogni crimine”. La guerra appare inconciliabile con il cristianesimo, infatti Erasmo critica la guerra cristiana. L’intento di punire qualcuno è soddisfatto solo attraverso la tribolazione di migliaia di innocenti. Troppo spesso inol- tre, tra gli intenti promotori delle guerre ci sono le volontà dei principi di imporre più facilmente la loro ti- rannide ai sudditi. A questo pacifismo bisognerà dare il giusto peso se si vogliono comprendere i presupposti dell’Institutio del 1516. In quest’opera non c’è spazio per la guerra, se non per esorcizzarla: “un buon principe non entrerà in guerra se non quando, dopo aver tentato di tutto, vedrà che non può proprio evitarla con nessun mezzo. Se si procede così, difficilmente una guerra potrà mai sorgere”. Erasmo fa anche un’analisi della tirannide, lato negativo della regalità. Partendo dal presupposto che alla sua epoca si giungeva al principato semplicemente per nascita, Erasmo capisce che si può influire sulla poli- tica solo se si riesce a operare in senso pedagogico sul principe: la scelta dei princìpi su cui ispirare la con- dotta del sovrano diventa il mezzo con cui fare politica, l’unico con cui l’intellettuale può tentare di influen- zare il corso degli eventi. Secondo Erasmo il principe cristiano va per prima cosa legittimato, e l’unica legittimazione possibile sta nell’esibizione, non dei titoli che ne hanno reso possibile l’ascesa al trono, ma di quelli che ne hanno carat- terizzato l’esercizio del potere. Grazie a questo criterio di legittimazione a posteriori, pare voler accettare la casualità del potere, ma contemporaneamente sottolineare il fatto che sul suo esercizio grava il giudizio sia Storia delle dottrine politiche | Michelangelo Ballabene 14 disperando di sé, è passato per una immensa sofferenza del cuore e per una dolorosa tribolazione, a confidare in Dio e a ripulire la cristianità dagli empi governanti con sommo zelo e scrupoloso ardore. Lutero prese le distanze dalle agitazioni dei contadini in modo netto: anche lui però, per combattere gli anabattisti, finirà con l’elidere quelle distinzioni a cui in precedenza aveva dato rilievo. La necessità di allon- tanarsi da Muntzer ebbe l’effetto di spingere a consumare la dialettica tra i due regni, e a risolverla in un senso nettamente opposto a quello del suo antagonista: Lutero finirà con l’assegnare una funzione sempre più sacerdotale all’autorità secolare. 4. Calvino Jean Cauvin, nato nel 1509 a Nyon, laureato in diritto nel 1529, cominciò a dubitare dell’efficacia degli atti di devozione e dell’intercessione dei santi. Nel 1533 le sue idee lo resero sospetto a Parigi, e iniziò una vita errabonda. Nel 1535 esce la sua opera capitale, l’Institution de la religion chretienne; nello stesso anno si stabilisce a Ginevra, dove come capo riconosciuto del protestantesimo francese, assunse funzioni di rilievo nel governo della città e nella confessionalizzazione della sua vita politica. Muore nel 1564. L’intensa fase di sperimentazione religiosa e politica non durò all’infinito, e trovò una sua forma istitu- zionale nel pensiero e nell’opera di Calvino. La sua esperienza religiosa sembra ispirata a caratteri meno spettacolari, anche se ebbe esisti di straordinaria durezza, rigore dogmatico ed energia politica. Il tratto carat- teristico del suo pensiero politico emerge nella lettera dedicatoria delle Istituzioni, indirizzata al re di Francia Francesco I: per il riformatore, che sta presentando un trattato di teologia e di morale, si tratta di sapere “in che modo la gloria di Dio sarà mantenuta in terra”, cioè di sapere come Dio riceverà l’onore che si merita, questione altamente politica, visto che “il vero re è colui che ha la coscienza di essere vero ministro di Dio al governo del Suo regno. Al contrario, colui che regna non avendo come meta la gloria di Dio, non esercita potere regale, ma pirateria”. Rispetto al processo di secolarizzazione, all’autonomia della politica guadagnata dal pensiero europeo nelle sue componenti laiche, in Calvino si afferma un pensiero che riduce a nulla l’autonomia dell’attività secolare al di fuori del riconoscimento della signoria di Dio sul mondo; la funzione del potere è, con altri mezzi, la stessa della Chiesa: rendere manifesto il patto che Dio ha stretto con il popolo degli eletti. La vita del cristiano risulta dunque scandita dal completo assoggettamento, tramite l’obbedienza al potere, al volere e alla provvidenza di Dio. Calvino condivide la critica luterana alla Chiesa gerarchica cattolica, che anche in lui deriva dalla teoria che è solo la grazia divina a produrre la salvezza dell’uomo. Il credente ha il dovere dell’assoluta dedizione alla volontà nascosta di Dio: benché essa si compia necessariamente, l’uomo deve agire in questo mondo per compierla. L’agire umano non produce e non merita la salvezza, ma è in grado, se coronato dal successo mondano, di dimostrare che il singolo è assistito dalla grazia di Dio. Sono tesi tipicamente calvinistiche l’im- perscrutabilità del disegno divino, sia la ricerca del successo mondano come certificazione della salvezza. Da questo aspetto, posto da Max Weber alle origini del capitalismo, deriva anche un’etica sociale: il princi- pio della rinuncia a se stessi, in modo tale da preferire gli altri a noi, sia per quanto riguarda l’onore sia per quanto riguarda l’utilità. La migliore realizzazione dell’imperativo dell’assoggettamento del nostro interesse a quello degli altri è l’atteggiamento caritatevole e operoso con cui l’individuo organizza la propria vita tutta all’interno del proprio lavoro, che è la sua vocazione terrena. Calvino no dissolve l’unità della Chiesa nella molteplicità delle singole azioni dei singoli credenti, anzi, pur lottando contro il papismo e la sua gerarchizzazione della vita della Chiesa, egli impone al credente un doppio giogo: quello del suo ufficio mondano e quello della religione, condivisa con la sua comunità e la sua Chiesa. La sua Chiesa non conosce l’autorità che media fra Cielo e Terra, ma solo i pastori incaricati di dif- fondere il verbo. Le modalità di scelta dei pastori sono interessanti: Calvino introduceva, suo malgrado, forti elementi di democrazia nella vita religiosa e politica del suo tempo. La sua teoria del governo civile è esposta nell’ultimo capitolo del quarto libro delle Istituzioni, e sembra voler fronteggiare due pericoli: l’anarchia tipica degli anabattisti e gli adulatori dei principi che estendono la loro potenza fino al punto di farli quasi gareggiare con Dio. Calvino accoglie la duplicità di piani nei quali si svolge la vita dell’uomo: quello spirituale e quello politico. Ma i rapporti tra Stato e Chiesa sono regolati dal principio per cui i magistrati operano all’interno di uno Stato cristiano avendo come fine non tanto quello di tenere in pace e giustizia il mondo, quanto di renderlo cristiano tutelando così i valori spirituali: è necessaria la loro cooperazione. Lo Stato non è l’insieme dei rapporti contrattuali tra i suoi membri: scopo del governo temporale è quello di garantire e mantenere il servizio di Dio nella sua forma esteriore: tutto ciò rese Ginevra una teocrazia austera e intollerante. Storia delle dottrine politiche | Michelangelo Ballabene 15 Per i privati deve valere tuttavia una riserva, quella che l’obbedienza non deve distogliere dall’obbedire a Colui alla cui volontà tutti gli editti regi debbono attenersi, cioè a Dio. Calvino pone dunque il limite all’obbedienza nel rispetto delle norme morali e religiose da cui il fedele crede che la sua salvezza dipenda: è dunque prevista e raccomandabile una forma di disobbedienza passiva. Questa sembra ampliarsi quando si passa ai magistrati intermedi: se esistessero nei tempi moderni, sarebbe loro compito esercitare un’opposi- zione più intransigente e attiva nei confronti del sovrano iniquo. Ci sono elementi che consentono la disobbedienza al potere, motivata da cause religiose: di qui l’ideale di una sorta di democrazia religiosa, dell’autogoverno dei giusti. 5. Riforma e tolleranza La Riforma pretese per sé la libertà religiosa, il diritto all’esercizio di un culto diverso da quello general- mente professato. Grazie all’opera di Calvino, anche la Riforma assunse un aspetto istituzionale che la portò a confondere la funzione dei pastori con quella dei magistrati. I riformati non pensarono né che fosse auspicabile, né che fosse possibile che su uno stesso territorio convi- vessero più fedi. O che vi fosse dissenso rispetto a quelle dominanti, o che lo Stato proclamasse la propria neutralità in materia religiosa: cattolicesimo e protestantesimo erano infatti uniti nel fronte dell’intolleranza verso gli “eretici”. VEDI PAG 130 SERVETO/CASTELLIONE III. Costituzione, rivoluzione, repubblica e utopia 1. Il costituzionalismo La libertà si fonda su molte radici, e una di questa è da individuare – per l’Inghilterra e per il resto d’Eu- ropa – nelle libertà e nei privilegi tipici del rapporto feudale. Se nel mondo romano vigeva il principio per cui quod principi placuit legis habet vigorem, ora nel mondo barbarico e feudale, secondo il dettato della lex regia de imperio, viene dato peso al popolo, assente nella prima parte della lex regia. In ambito germanico la cessione da parte del popolo dei propri diritti al re non è una totale alienazione, ma è vista solo come l’affi- damento temporaneo e condizionato dall’esercizio del potere. Questa specificità del mondo germanico fu già messa in luce da Tacito, che scrisse che quei popoli non solo trattavano i loro affari in un’assemblea gene- rale, ma sceglievano o eleggevano i loro re, decisi a non consegnare loro una potenza infinita aut libera. L’humus germanica del feudalesimo e la concezione medievale della legge furono favorevoli allo svi- lupparsi del costituzionalismo medievale. La legge era quindi concepita come iustum, Giustizia, che come iussum, comando. Il Medioevo è inoltre caratterizzato dall’assenza dello Stato e dalla presenza di un diritto che non è espressione della sovranità politica ma piuttosto della società e della molteplicità degli ordina- menti in essa presenti. Il carattere negoziale e pattizio del diritto e della libertà è inteso come privilegio accordato a collettività e a città, ed emerge con chiarezza nella Magna charta libertatum, concessa da Giovanni Senza Terra nel 1215: è un atto scaturito dalla volontà del sovrano col consiglio di altri soggetti, e che vuole essere impegna- tivo tanto per chi lo ha concesso quanto per i suoi successori, e che si sostanzia nella statuazione di un certo numero di privilegi. A questa logica va iscritto anche l’Habeas corpus (1679), che vietava la detenzione ar- bitraria dei sudditi e l’arresto di chicchessia se non in forza di un giudizio legale dei suoi pari e secondo le leggi del Paese. 2. Bracton Le idee che informavano la Magna charta vennero rese sistematiche da uno dei più grandi giuristi della storia d’Inghilterra, Henry Bracton nel De legibus et consuetudinibus Angliae (1240). Quest’opera è una vasta enciclopedia del diritto in cui vengono affrontati una miriade di argomenti attinenti alla vita sociale e privata quotidiana. Secondo Bracton, legge e consuetudine stanno insieme, almeno in In- ghilterra: infatti, rispetto ad altri paesi, le cui leggi sono scritte e dietro la scrittura delle quali è possibile ri- conoscere l’espressione della volontà degli organi che le hanno promulgate, la sola Inghilterra può vantare una legge senza legislatore, che si esprime nella consuetudine antichissima cui fanno ricorso i giurisprudenti per emettere le loro sentenze. La consuetudine assume dunque una rilevanza costituzionale e giurispruden- ziale, e un valore anche rispetto ad altre istanze normative, prima fra tutte quella della volontà sovrana. Storia delle dottrine politiche | Michelangelo Ballabene 16 Questa impostazione del problema, che sarà tipica dei giuristi della common law, spiega il carattere di intangibilità attribuito alle leggi, che non possono essere né mutate né abolite senza il comune consenso e consiglio di coloco col consenso e consiglio dei quali furono approvate. La molteplicità dei soggetti neces- sari alla promulgazione della legge impedisce la sua arbitraria manipolazione. Bracton rammenta anche i limiti del potere supremo: se esso deve essere superiore rispetto a ogni altra istanza politica, non deve tuttavia dimenticare i propri limiti, ribaditi con la formula il re non deve essere sottoposto agli uomini ma a Dio ed alla legge, perché è la legge che fa i re. Quello che fa di un re un re, è il reggere il regno secondo il diritto, e non il semplice regnare: egli è legittimato alla funzione di amministrare la giustizia solo se si spoglia della propria volontà per diventare espressione della legge, che è intelletto senza passione (formula aristotelica). Nella sua funzione di governante, cioè nella sfera del gubernaculum, egli sembra non sottoposto e non sottoponibile a una istanza superiore, mentre in quella della iurisdictio egli è vincolato al diritto e all’equità. Il re di Bracton è un custode della costituzione e dell’equità naturale. 3. Fortescue Al centro del suo pensiero sta la difesa – attraverso aristotelismo e tomismo – della differenza tra il do- minium regale e quello regale et politicum. È decisiva la differente origine della legge nei due tipi di forma politica: l’essenza del dominuium semplicemente regale è la coincidenza che lì si manifesta tra legge e vo- lontà del sovrano, mentre la natura del nominium regale e politico implica invece un ruolo essenziale anche della volontà dei cittadini. Questi, che non sono subiecti, partecipano attraverso i propri rappresentanti in Parlamento alla formazione della legge che, una volta statuita attraverso il consenso dei sudditi, vale proprio in forza di tale consenso. Tra i due tipi di governo, Fortescue preferisce il secondo: in questo si realizza una maggiore equità, poi- ché il re non può governare mediante leggi diverse da quelle a cui il popolo ha dato il proprio assenso. È dunque meglio anche per il popolo essere sottoposto a questa forma di governo. Come principio giuridico di questa forma di governo ci sono delle consuetudini, su cui tutte le leggi del regno si formano, e la cui dif- fusa accettazione testimonia la loro intrinseca saggezza. La preferibilità di questo governo si basa dunque non solo sulla maggiore utilità che esso produce per i sud- diti, ma anche sulla sua capacità di incarnare la superiorità del diritto di natura e la sua equità rispetto al di- ritto semplicemente positivo. Le leggi umane sono nient’altro che regole con le quali si manifesta la perfetta giustizia. 4. Il puritanesimo Il protestantesimo si diffuse in Inghilterra con la promulgazione dell’Atto di supremazia, fatta votare dal re al parlamento nel 1534, che segnò la fine di un difficile equilibrio tra diversi poteri. Quella rivoluzione era da un lato espressione di una forte egemonia della corona, dall’altro aveva contribuito a scatenare forze politico-religiose destinate a sconvolgere gli equilibri costruiti dal costituzionalismo attra- verso una teologia che sembrava incapace di contenere l’esperienza religiosa nel solo ambito della coscienza individuale del singolo credente. Il termine puritanes iniziò a circolare dopo la metà del Cinquecento per indicare, in termini dispregia- tivi, un insieme di persone unificate dal rifiuto verso la Chiesa anglicana. La rivoluzione dall’alto, rappresen- tata dall’anglicanesimo venne sempre più identificata dai puritani con una manovra politica incapace di rap- presentare le profonde istanze di riforma religiosa diffuse dal calvinismo. Gli esiliati di questo periodo, con- fluiti a Ginevra entrarono in contatto con un’esperienza religiosa di ben altra radicalità, e tornarono sull’isola portando con loro l’esigenza di un dominio religioso su tutti gli altri aspetti della vita individuale e civile. Si fece strada l’idea che la nuova Gerusalemme dovesse e potesse essere costruita nel presente storico in cui si stava arrivando al tempo della fine. L’attesa della pienezza dei tempi non si tradusse però in una forma di quietismo, ma nel suo contrario: un attivismo spesso frenetico atto a favorire la maturazione dei tempi o a dare ai fedeli la certitudo salutis. I “santi” cercavano di informare la propria vita individuale e familiare ai precetti della Bibbia, e cerca- vano una riforma della Chiesa che la allontanasse da quella struttura gerarchica e verticistica. La formula di Giacomo I “no bishops no king” esprime la solidarietà tra la Chiesa Alta, rappresentata dai vescovi, e la mo- narchia, quindi la vicinanza tra anglicanesimo e papismo. Secondo i puritani, la vivente esperienza religiosa dei credenti non poteva essere ingessata nelle formule dell’anglicanesimo, e la Chiesa non poteva essere compresa che come autentica congregatio fidelium dotata di strutture organizzative capaci di rappresentare il nuovo protagonismo dei santi. Storia delle dottrine politiche | Michelangelo Ballabene 19 La proprietà è tale o per nascita o per conquista: nel primo caso bisogna ricordare che la nascita non di- scrimina fra nessuno, nel secondo a maggior ragione si deve giungere a una conclusione ugualitaria. Wistan- ley aveva la speranza di poter tornare indietro nel tempo fino al punto in cui era ignoto il peccato originale della società: il comprare, il vendere, il dividere la terra in modo ineguale. Assertore di una concezione piena della libertà, la definisce con toni biblici e appassionati come quella condizione capace di dare a tutti gli uo- mini, grazie a un buon uso comune della terra, nutrimento e sostentamento. Wistanley analizza anche le forme di governo, dividendole secondo le modalità con cui è gestita la terra. Il governo regale è fondato sulle categorie del vendere e del comprare, sulla guerra e sul primato della vo- lontà del re. Il governo repubblicano è caratterizzato dalla libertà: una libertà che voglia organizzarsi se- condo le logiche del comunismo deve riconoscere l’inadeguatezza del sistema giuridico precedente e sosti- tuirlo con leggi emanate dal Parlamento, e con un sistema politico e economico incentrato sul primato del bisogno e della repressione dell’ozio. Tutti i funzionari saranno eletti da coloro che ne hanno bisogno e dureranno in carica solo un anno, per stroncare sul nascere quel prevalere dell’interesse privato sul pubblico. Il problema della proprietà è centrale, così come i rimedi ai disastrosi effetti prodotti dalla sua diseguaglianza. Le terre demaniali, con i connessi usi civici comuni, come il diritto di pascolo, o di raccolta della legna, a partire dal Cinquecento vengono appropriate individualmente attraverso il sistema delle enclosures: questo inizio di utilizzazione capitalistica della terra consente l’accumulazione primaria di capitale, ma produce an- che una grande massa di nuovi poveri. La reazione dell’opinione pubblica fu duplice: la cultura approvò i processi di appropriazione individuale della terra e diffuse un nuovo atteggiamento nei confronti dei poveri, visti come pericolosi sovvertitori dell’ordine sociale, ma espresse anche la nostalgia del mondo antico e il sogno della redenzione dai mali del presente. 9. Il repubblicanesimo In una società come quella inglese non si deve pensare che il dibattito politico fosse limitato alle catego- rie e alle correnti culturali già elencate. In quegli anni si era consolidato anche un gruppo di pensatori che precede, accompagna e segue l’esperienza di instaurazione della repubblica (1649-1660) con una maggiore attenzione alle dinamiche più schiettamente politico-istituzionali. I membri di questa corrente erano accomunati da un’opzione repubblicana che faceva del commonwealth non solo una forma di governo non monarchica, ma quel tipo di convivenza capace di realizzare valori quali la libertà personale, la partecipazione diretta e appassionata alla vita politica, e l’autogoverno collettivo. Questi valori implicavano a livello teorico un’accezione di libertà come assenza di dominio e dunque auto- governo, e si esprimevano a libello istituzionale nell’apprezzamento del governo misto come garanzia della partecipazione di tutti e nella forte avversione alla tirannide: la resistenza è teorizzata fino al tirannicidio. Questi autori procedono verso due opzioni teoriche: cercano di annullare le differenze tra la forma re- gale e la sua degenerazione tirannica e mostrano l’incompatibilità tra la libertà e la monarchia così intesa, e l’eccellenza della repubblica come nuova forma politica che consente l’esplicarsi della libertà, che coincide con l’autogoverno. Esso è possibile solo con la presenza di virtù politica tra i cittadini insieme alla convin- zione dell’eccellenza morale della partecipazione: ciò fa del repubblicanesimo qualcosa di più di un sem- plice preferenza istituzionale antimonarchica. Il repubblicanesimo è un sistema di pensiero, una filosofia po- litica. 10. Milton John Milton nacque nel 1608 e legò la sua fama all’opera Paradise Lost, in cui manifestò la propria ade- sione ai principi puritani. Difese la repubblica con l’azione. Milton legò la sua vita a difesa della libertà repubblicana, a partire dal 1643 quando difese il divorzio e l’estensione delle libertà inglesi dalla sfera pubblica a quella privata. Nel pamphlet l’Areopagitica difende le ragioni filosofiche ed etico-politiche della tolleranza e della libertà contro un decreto del Parlamento che isti- tuiva la censura sulla stampa. È animato da due convinzioni: la fiducia che la verità abbia bisogno del con- fronto e anche dell’errore per crescere e manifestarsi, e che non si via vita morale, e nemmeno libertà poli- tica, senza la pluralità delle opinioni, senza il male, senza la tensione individuale verso il bene. Convinto che un buon libro sia qualcosa di diverso da un libro pieno di verità, Milton ne difende il diritto alla stampa mediante l’argomento che anche l’errore è di grande ausilio per la conquista del Vero. Sostiene un’opzione morale che consiste nel valutare il processo della conoscenza, le modalità morali del suo pro- dursi, molto più di quanto sia disposta ad apprezzare i suoi contenuti. Storia delle dottrine politiche | Michelangelo Ballabene 20 L’accento posto sulla questione etica serve a giustificare anche eticamente la libertà di parlare e di di- scutere liberamente secondo coscienza. Contro l’uniformità che nascerebbe anche dal migliore degli ordina- menti possibili, Milton si fa paladino della molteplicità, della varietà e delle differenze, ed estende il diritto della critica dalla Chiesa allo Stato. Con The Tenure of Kings and Magistrates (1649) Milton si inserisce nel dibattito sollevato da quanti ritene- vano che la sacralità e l’inviolabilità della persona non consentisse né la sua detenzione né la sua esecuzione. Milton intende provare la legalità della deposizione e dell’uccisione di “a Tyrant, or wiched King” da parte del popolo, qualora i magistrati ordinari non lo avessero fatto di propria iniziativa dopo un regolare verdetto. Difende in questo scritto la rivendicazione di una originaria appartenenza del potere al popolo, che quando decideva di trasferirlo al re non lo alienava, ma lo affidava nella forma di un rapporto fiduciario, delegandolo a un commissario che era tenuto a rendere conto del proprio operato e della sua conformità alle indicazioni del committente. Milton riduce molto la distanza e la differenza tra re e tiranno. Tiranno non è solo il re che si macchia dei delitti che la tradizione generalmente gli imputava; tiranno è il re come tale, perché la stabilizzazione della monarchia attuata nella successione ereditaria, o nel rifiuto del rendere conto trasforma quello che do- vrebbe essere un funzionario dello Stato nel padrone dello Stato, cioè tende a svincolare il re dalle promesse e dai patti, e a porlo in una posizione di superiorità rispetto agli altri uomini. Questa mancata distinzione è la logica conseguenza di una teoria della libertà come autogoverno, che intende la deposizione del sovrano non solo come punizione, ma come premessa indispensabile per la realizzazione del valore politico della libertà, che può passare solo attraverso la riappropriazione popolare della sovranità. Il problema non è costituito dall’involuzione tirannica della regalità ma dallo stesso istituto monarchico che, paragonato agli ideali di li- bertà e di autogoverno, si rivela non necessario, gravoso e dannoso. La monarchia costituisce una forma di governo gravosa e dispendiosa, ma non è questo calcolo delle utilità il terreno che Milton sceglie per provare la superiorità delle repubbliche libere. Anche se la libertà re- pubblicana produce un aumento delle ricchezze e del potere di una nazione, Milton guarda al valore della repubblica prevalentemente nel suo aspetto morale: è quella forma di governo che dà valore all’uguaglianza, che dà preminenza al pubblico e all’universale, che postula l’esercizio costante delle virtù morali e politiche da parte dei cittadini, i quali si assumono l’onere morale e politico della libertà. Ne risulta che la repubblica non solo realizza la giustizia e l’equità, ma induce alla nobiltà d’animo, all’abolizione della servitù e del ser- vilismo. La carica che il principio della libertà di pensiero aveva assunto nell’Areopagitica si trasforma dal punto di vista politico in un repubblicanesimo lontano non solo dal radicalismo democratico dei livellatori, ma an- che dalla carica libertaria che dovrebbe essere tipica del modello repubblicano. Ne “The Readie and Easie Way to estabilish a free Commonwealth” Milton ritiene che per organizzare politicamente la libertà non si debba por mano a una radicale legge agraria; occorre un Consiglio generale degli uomini più capaci, scelti dal popolo perché si occupino di volta in volta dei pubblici affari in vista del bene comune, cioè una sorta di Senato o di aristocrazia delle capacità. Le attribuzioni e la durata del Consiglio devono essere perpetue, come sono le funzioni di governo che è chiamato ad assolvere. Milton affianca al Consiglio ampi poteri locali e federativi in grado di bilanciarlo, ma nelle sue argo- mentazioni egli rivela non pochi dubbi sulla naturale bontà del popolo. È contro il principio dell’alternanza nell’esercizio delle cariche, poiché ogni pratica elettiva potrebbe produrre il rischio di escludere molte delle persone migliori e più capaci e di inserire al loro posto altrettante persone immature, inesperte o non altret- tanto leali. Condivide il sospetto classico per le ambizioni degli elementi popolari. 11. Harrington James Harrington pubblicò nel 1656 The Common-wealth of Oceana, in cui espresse con pienezza quell’adesione al governo misto che costituisce uno degli aspetti più rilevanti del repubblicanesimo, condito con una dose di utopia. Occorre isolare il nucleo teorico di quest’opera, che sta nella convinzione che la struttura politica rispecchia la struttura sociale, la forma della divisione e dell’organizzazione della proprietà terriera. Questa convinzione è da un lato un’acquisizione teorica in grado di cogliere il livello profondo della storicità delle forme politiche; dall’altro è anche una proposta politica capace di fondare il governo repubbli- cano su qualcosa di più profondo di un’esigenza etico-politica. Il fatto che la repubblica sia presentata come una necessità non significa che per Harrington essa non incarni anche un valore: l’eguaglianza, che infatti non rappresenta solo un prodotto dei tempi, ma anche il valore politico che meglio d’altro sorregge il valore della libertà. È convinto del fatto che la disuguaglianza dei possessi si traduca politicamente nella soggezione e nel servaggio dei meno abbienti, e che la libertà Storia delle dottrine politiche | Michelangelo Ballabene 21 politica esiste se vi è autosufficienza economica. Harrington lega anche in senso positivo libertà e proprietà, facendo della seconda uno strumento per l’affermazione della prima. La forma che la libertà deve assumere è quella mista. Egli offre al pubblico colto e allo stesso Cromwell il modello di una repubblica la cui complessa articolazione dimostra l’apprezzamento dell’autore per la mol- teplicità e per il pluralismo tipici dello Stato misto. La repubblica ha bisogno di una certa grandezza solo politica. È questa quella che Harrington intende reintrodurre in ambito politico, allo scopo di ottenere il migliore funzionamento possibile per la macchina del suo Stato. Il punto di partenza è costituito da una legge agraria capace di fissare un limite ai possessi, graduata, senza che ciò pregiudichi l’attribuzione della cittadinanza, cioè dei diritti politici. La coincidenza della cittadinanza con la titolarità della proprietà terriera non introduceva elementi permanenti di scissione nell’interesse e nelle aspirazioni del corpo sociale che era costituito da cittadini tutti proprietari e tutti armati. Il Senato non era dunque portatore di un interesse economicamente diverso da quello del popolo, e rappre- sentava un’esigenza politica riassumibile nella gravità del suo consiglio, nella sua virtù e nelle sue cono- scenze tecniche. Harrington pone al centro del suo progetto il principio dell’’eleggibilità a scrutinio segreto per tutti i membri del Parlamento e per tutte le cariche, e anche il principio di rotazione. Mostra di preferire alla libertà greca il sistema romano: il popolo avrebbe obbedito solo alle leggi che aveva votato, che sarebbero state pro- gettate solo dai sapienti. Era il popolo a scegliere i sapienti come propri rappresentanti, e questo sistema sembrava consentire un buon livello di circolazione delle élite. L’aristocrazia è per il popolo come l’anima per il corpo: la nobiltà avrebbe impiegato il proprio tempo nella cura degli affari pubblici, vedendo ricono- sciuto e pubblicamente utilizzato il proprio merito. Da parte sua, il popolo armato costituisce la materia dello Stato: il suo compito è soprattutto quello d costituire la guardia della libertà attraverso l’approvazione o il rifiuto delle proposte legislative selezionate dal Senato. In ultima istanza prevalgono gli interessi econo- mici. Harrington tiene ferma l’equivalenza tra repubblica e l’interesse dei molti: il popolo che nel suo sistema ha la titolarità del potere deliberativo come potere ultimo di decisione, gode della libertà non solo attraverso il concreto esercizio di questo potere, ma anche costituendo il supremo potere giudiziario, come ultimo Tri- bunale d’appello. La libertà è tutelata all’esterno dall’esercito e all’interno da un vasto sistema di decentramento ammini- strativo, capace di promuovere l’autogoverno locale e introdurre il gusto per la partecipazione e l’abitudine di obbedire alle decisioni pubbliche nella vita stessa di ogni cittadino. 12. Moro Thomas More, nato nel 1478, umanista inglese e amico di Erasmo, venne canonizzato da Pio XI nel 1935. Il nome di utopia è legato a un piccolo libro pubblicato da Tommaso Moro nel 1516: questo termine in- dica un luogo che non esiste, in cui però esiste ciò che nella società moderna non esiste più, cioè il benes- sere, la felicità dei suoi membri, e soprattutto la giustizia. Il libro è diviso in due parti: la prima descrive la situazione miserevole della società inglese, dove i contadini sopraffatti dalla violenza sono anche spogliati del proprio per colpa dei nobili che avevano recintato le terre, dove grandi politici preparavano le guerre pensando che le imprese e le glorie militari valessero più delle arti della pace. Moro ha una ferma opposi- zione alla brama di possesso che si incarna nell’istituzione della proprietà privata. Il passaggio tra primo e secondo libro, tra il male e il bene, ha luogo quando il protagonista arriva alla descrizione di un nuovo mondo da lui visitato: il segreto della felicità di questo mondo risiede nella mancanza della proprietà pri- vata e del denaro, che ha come contropartita una vita trascorsa nell’abbondanza di tutto ciò che è necessario. Poiché tutti gli abitanti praticano a rotazione l’agricoltura e tutti gli altri mestieri necessari, poiché tutti lavo- rano, il lavoro occupa solo sei ore al giorno nella vita di ciascuno, tempo che è ampiamente sufficiente a sod- disfare la necessità del popolo. I prodotti del lavoro vengono portati ad un mercato dove ogni padre di fami- glia domanda tutto ciò di cui lui o i suoi abbisognano e, senza danaro, senza prestazione alcuna, ottiene tutto ciò che chiede. Gli utopiani sono altresì esenti da altri tormenti tipici dei popoli civili: hanno poche leggi e ignorano le arti e le dispute dei dialettici moderni, credono in una religione che scoraggia le dispute e l’odio tra le sètte, e che è unificata dalla comune credenza dell’immortalità dell’anima. Essi sono spinti verso uno stato di benessere da altri due fattori: una pratica della felicità e una restaurazione dei legami comunitari e solidaristici. Secondo Moro il più importante dei saperi è quello che conduce alla saggezza. Il piacere nella vita ci viene imposto dalla natura stessa: è un piacere orientato dalla virtù in una direzione individuale ma anche Storia delle dottrine politiche | Michelangelo Ballabene 24 di ripristinarli nella loro funzione di consiglio, oltre che l’adesione di Gentillet alle tesi del costituzionali- smo. 2. I monarcomachi La reazione di parte della cultura francese contro la politica accentratrice della monarchia, nel caso dei mo- narcomachi, non si orienta tanto contro Machiavelli quanto contro i fondamenti della tirannide, producendo l’abbozzo di una teoria contrattuale dello Stato e del potere politico. Sono un gruppo di intellettuali calvinisti che – abbandonata la tesi dell’obbedienza passiva – propongono la possibilità della resistenza armata e per- fino dell’uccisione di un re. Dunque, anche da parte protestante si reagisce ai processi di formazione dello Stato moderno attraverso il recupero di originari rapporti fra natura e politica, fra popolo e sovrano. Le strategie argomentative cui fecero ricorso sono due. La prima è quella della Francogallia di François Hotman; la seconda è propria di Théodore de Bèze e Philippe Duplessis-Mornay, in cui si assiste a una mediazione tra argomenti biblici e argomenti giuridici. Le due vie – storica e pattizia – sono destinate a som- marsi e non a escludersi, e manifestano la diversa sensibilità dei vari autori, ma anche la loro comune vo- lontà di legittimare la resistenza degli ugonotti e dell’intero paese al dinamismo accentratore della monarchia francese avviata verso l’assolutismo. Hotman intendeva mostrare che lo sconvolgimento dell’assetto costituzionale prodotto dalla politica del re era superabile con la restaurazione dell’antica e saggia police, il sistema di governo che dissociava monar- chia e sovranità, collocando quest’ultima sempre nel popolo e nell’assemblea degli Stati, considerando la forma monarchica come un potere di governo delegato e in certo senso subalterno, elettivo e sempre revoca- bile. Egli approda alla distinzione tra re e reame – mortale il primo, immortale il secondo – per affermare che al reame spettano i poteri di tutte le parti che lo compongono, e dunque il re deve sapere di essere solo il momentaneo titolare di una funzione di governo. Gli Stati sono il tutto, e a questi spetta il ruolo del consiglio politico. Un’ordinata libertà era stata compatibile con la forma di governo monarchico fino a quando la mo- narchia aveva rispettato le istituzioni di consiglio e controllo. Un’altra malattia aveva corroso lo Stato: un’al- leanza tra la monarchia capetingia e il ceto degli avvocati aveva eroso dall’interno poteri e funzioni dell’as- semblea degli Stati per concentrarli nel Parlamento di Parigi. Le fonti e il modo di procedere di Hotman si concentrano su una tradizione costituzionalistica di pensiero che aveva in Francia il suo modello in Claude de Seyssel. Un’altra linea è quella di Beza e di Duplessis-Mornay: l’impianto delle loro opere è tutto interno ai problemi classici sollevati dal rapporto tra religione e politica, alla volontà di preserare la purezza della fede, al dovere e ai limiti dell’obbedienza al comando ingiusto o tirannico del sovrano. In Beza4 si trova l’affermazione secondo cui si deve obbedienza incondizionata solo alla volontà di Dio, e pietà e carità costituiscono confini invalicabili alla legittimità degli ordini del magistrato. Beza teorizza in primis la liceità della disobbedienza, per poi passare alla teoria della resistenza attiva e infine a quella del tirannicidio. Sulla stessa linea di pensiero si colloca Junius Brutus5, primo tirannicida, in cui la teoria monarcomaca rag- giunge il suo punto più alto. La resistenza al re si vuole sempre presentare come un atto costituzionale, non come un invito indiscriminato alla ribellione, e si fonda sulla teoria del doppio patto. Un primo patto viene stipulato tra il popolo e Dio; il potere del re è certamente istituito da Dio, e consiste nella jurisdictio, ma il popolo inteso come totalità ben ordinata è senz’altro considerato superiore, nel complesso, al sovrano. Il se- condo patto avviene tra re e popolo, stabilendo che il popolo obbedisca fedelmente al re che avesse coman- dato con giustizia. Ma il popolo non è la moltitudine dei singoli individui, quanto piuttosto un insieme arti- colato e complesso di corpi sociali dotati di valenza politica. I magistrati, gli efori, sono associati al regno, inferiori al re come singoli ma a lui supreriori come rappresentanti dei corpi sociali e politici: sono loro a ne- gare l’obbedienza al re se questi ha infranto i patti sottoscritti ricorrendo così al diritto di resistenza. In quanto procuratore, il re perde gradatamente ogni autonomia nei confronti del vero titolare della sovranità, il popolo corporato. 3. I giuristi Le ragioni e le radici medievali del costituzionalismo operavano allo stesso modo anche in Francia, dove era infatti radicata la tesi di una certa condivisione del potere tra re e nobiltà. Vi erano buone ragioni per 4 Du droits des magistrats sur leurs subiets (1574) 5 Vinciciae contra turannos (1579) Storia delle dottrine politiche | Michelangelo Ballabene 25 reclamare forme di partecipazione al potere che lo rendevano sostanzialmente plurale. La battaglia dei giuri- sti si svolse sul numero e sull’estensione delle prerogative – atti politici individuali, riservati al sovrano – che la monarchia poteva legittimamente vantare rispetto ad altri concorrenti poteri. All’inizio troviamo La Monarchie de France (1519) di Claude de Seyssel che, considerando lo Stato fran- cese meglio ordinato nella sua struttura rispetto agli altri, comincia a descrivere tale struttura parlando di tre freni: la religione, la giustizia e la police, ossia buone leggi, le ordinanze e i costumi. Il significato politico del riferimento alla religione appare chiaro dal nesso che Seyssel istituisce tra un re che vive cristianamente e l’impossibilità che diventi tiranno. Se in Francia la giustizia è meglio assicurata che altrove, questo di- pende dai Parlamenti che sono stati istituiti per lo scopo di frenare la potenza assoluta di cui vorrebbero usare i Re. Per illustrare la police, si sofferma sulla necessità di mantenere intatte le regole della giustizia. Punto successivo del dibattito è la forma di governo più giusto: nell’idea di condivisione di poteri di Seyssel pare profilarsi l’origine di una confusione di ruoli che avrebbe potuto aumentare i conflitti. Per questo alcuni giuristi ritennero che l’unica via per evitare ogni confusione fosse quella di estendere i poteri, i diritti e i pri- vilegi spettanti al re. Alcuni di loro si erano incamminati sulla via tracciata dall’italiano Alciato, il quale equiparava il monarca all’imperatore romano, sostenendo che a lui spettasse il merum imperium, una facoltà di comando piena e incondizionata. Su questa linea si collocano Bartolomeo de Chasseneue Charles de Grassaille, accomunati dal tentativo di fondare la sovranità solo attraverso l’enumerazione dei suoi diritti. La superiorità dal re, così costruita per accumulazione di diritti, si avvicina alla plenitudo potestatis e al me- rum imperium; ma solo con Bodin la questione di che cosa sia la sovranità farà un vero salto di qualità. 4. Bodin I Six livres de la Republique traggono la propria ragion d’essere dal desiderio di rifondare sia il co- mando sia l’obbedienza, in una situazione in cui erano entrambi compromessi. Secondo Bodin, le guerre ci- vili di religione e il machiavellismo sono le due facce di uno stesso problema: la crisi dello Stato e dell’auto- rità, che va restaurata per evitare i pericoli della tirannide. La sua restaurazione dello Stato è una grande in- novazione, dato che il centro del suo pensiero è il concetto di sovranità assoluta. Bodin definisce lo Stato come il governo giusto che si esercita con potere sovrano su diverse famiglie e su tutto ciò che esse hanno in comune. Il primo presupposto è che l’associazione familiare sia originaria e naturale; lo Stato ha la necessità di avere qualcosa di comune e di pubblico, come il tesoro pubblico. Si insi- ste su quel governo, insieme giusto e sovrano, che definisce l’anima dello Stato: la sovranità, insomma, ap- pare fin da subito come il cardine su cui poggia l’intera struttura dello Stato. Bodin deduce logicamente il concetto di sovranità e da questo le conseguenze necessarie. La sovranità è quel potere assoluto e perpetuo che è proprio dello Stato; perpetuo, perché non sottopo- sto a vincoli temporali che limitandone l’esercizio ne farebbero inevitabilmente un potere derivato proprio da chi pone quei limiti; assoluto, perché non riconosce alcuna istanza superiore, ed è in grado di dare leggi ai sudditi, restando da parte sua esente – absolutus, sciolto – sia dalle leggi dei suoi predecessori sia da quelle che esso stesso ha fatte. La sovranità è indivisibile e inalienabile. È utile fare una comparazione con le idee sul summum imperium che Bodin stesso aveva espresso nel 1566 nel Methodus. Nel VI capitolo troviamo un’analisi della società politica e delle forme in cui questa si organizzava. Bodin divide qui la regalità legittima in due specie: quella che non è vincolata da alcuna legge e quella che al contrario lo è, e si domanda se non sarebbe bene che una legge emanata e approvata dal con- senso di tutti fosse rispettata anche dal principe che l’ha fatta. La risposta è per lui affermativa, e lo porta a catalogare quella di Francia tra le monarchie limitate, asserendo che l’autorità regia gli sembra in Francia moderata dai poteri che la costituzione assegna ai magistrati. Dieci anni dopo, Bodin accentua l’assolutezza della sovranità fino a porsi sulla strada che condurrà ad Hobbes. Egli enfatizza infatti i caratteri distintivi della sovranità, che è solo uno dei centri del suo pensiero. A essa si affianca infatti una rigorosa difesa del diritto privato, dell’intangibilità della proprietà e della giu- stizia; è questa difesa a distinguere la sovranità assoluta dall’arbitrio, e a farne anche intravedere alcuni li- miti. Il pensiero di Bodin sembra oscillare tra due principi entrambi assoluti: i diritti irrevocabili della famiglia e il potere legislativo assoluto del sovrano. Lo Stato ben ordinato a cui egli guarda è allora quello monarchico, dove il potere di Uno è legittimo e regale, ovvero legale. La sua definizione insiste sull’obbedienza dei sud- diti alle leggi del re, ma anche a quelle di natura. Questa teoria della monarchia royale è meglio specificata attraverso la differenza e l’opposizione fra questa e altre modalità di esercizio del potere dell’Uno: quella seigneuriale e quella tyrannique: comune a queste due forme è il mancato rispetto dell’autonomia della pro- prietà, che anche così si rivela per Bodin il fulcro delle garanzie di libertà. Storia delle dottrine politiche | Michelangelo Ballabene 26 Una libertà che è ciò che Bodin sostituisce agli Stati generali e alle magistrature: i magistrati sono ufficiali che dispongono del potere di comandare, e possono sì fare le loro rimostranze ai superiori, ma devono però sempre obbedire ed eseguire gli ordini ricevuti. Ogni condivisione del potere introduce elementi di debolezza e confusione nella compagine statale: ciò spiega come nell’esposizione delle forme di Stato Bodin riconosca la loro classica tripartizione, negando le- gittimità proprio alla forma mista: vedendo nella mistione l’origine delle perturbazioni negli Stati, e temendo pericolose conseguenze dall’applicazione dei suoi principi, Bodin ne confuta le basi teoriche. La convin- zione che la mistione generi la corruzione di uno Stato non esclude da parte di Bodin un’attenzione analitica alla politica concreta e alle molteplici forme in cui si organizzava concretamente il potere dello Stato. Anzi, egli distingue tra forme di Stato, che sono solo le tre semplici e che riguardano l’individuazione del soggetto della sovranità, e forme di governo, che possono essere molteplici, avendo a che fare con le modalità se- condo le quali la sovranità viene esercitata. Nell’ultimo libro della Republique, relativo alle forme di giustizia, Bodin ne individua tre: quella commuta- tiva o aritmetica, cara agli Stati popolari che vogliono la divisione uguale di cariche, onori, uffici; quella di- stributiva o geometrica, tippica degli Stati aristocratici; quella regia o armonica, che fa in modo che onori e dignità vadano ai ricchi, i profitti ai poveri. L’esigenza di armonizzazione del corpo sociale che percorre tutta la Republique costituisce il segno della volontà di Bodin di costruire la sovranità senza sovvertire alle radici l’ordine civile e senza quindi l’inten- zione di ricreare artificialmente quest’ordine secondo i propri disegni. 5. Althusius Johannes Althusius sembra rappresentare subito una possibile alternativa federale rispetto alla scelta unita- ria della Republique. Considerato ai suoi tempi un pensatore esecrando e pericoloso, vista la sua adesione alle tesi monarcomache, egli opera una riflessione sulla sovranità riconoscendola essenziale ai fini della con- servazione di ogni corpo politico. Nella prefazione alle III edizione della sua opera maggiore, la Politica me- thodice digesta del 1614, dichiara: “ho attribuito i cosiddetti diritti di sovranità non al sommo magistrato, ma allo Stato, cioè all’associazione generale. La maggior parte dei giuristi li attribuisce esclusivamente al principe.” L’originalità del suo pensiero sta nella rivendicazione dell’appartenenza della sovranità al popolo, che in nessun caso potrebbe rinunciare a tale diritto né trasferirlo definitivamente ad altri. Come nessuno potrebbe, anche volendo, trasferire ad altri la vita di cui gode, così l’associazione politica non può essere neppure concepita senza la titolarità di quella sovranità che rappresenta per il corpo politico quello che la vita è per il corpo umano. Althusius riflette e giustifica la rivolta dei Paesi Bassi contro il re di Spagna come un giusto tentativo di sottrarre al re e restituire agli olandesi i loro diritti di sovranità di cui quello abusa: è dunque il suo un tentativo di ripensamento complessivo della realtà politica. Essa è contras- segnata da un primato dell’associazione mediante cui gli uomini, con un patto espresso o tacito, si obbligano reciprocamente alla mutua comunicazione di ciò che è utile e necessario alla vita sociale. La consociatio, definita “simbiotica” è il vero punto di partenza dell’intera Politica. Nonostante tutte le differenze tra i due autori, in Althusius come in Bodin non abbiamo all’inizio della politica gli individui, i soggetti autonomi portatori di diritti, come avverrà nel giusnaturalismo moderno, ma le concrete forme storiche delle associa- zioni, dalla famiglia alla corporazione, fino a quella consociatio publica che è l’associazione politica gene- rale. Come nelle associazioni private si entra volontariamente, mediante un patto, così si entra volontariamente anche nell’associazione pubblica. All’interno di essa è necessario un rettore, istituito col comune consenso dei colleghi, che è superiore ai singoli membri. Il potere di governo nell’associazione generale, per quanto esteso, sarà concesso dal popolo e sempre minore del potere di chi lo concede. Questa analogia fra diritto privato e diritto pubblico serve ad Althusius per affermare il primato delle asso- ciazioni sui singoli privati che ne fanno parte e ne ricevono qualche potere, e di conseguenza per estendere all’associazione generale la logica pattizia e contrattualistica tipica delle associazioni minori. Ciò vale anche per lo Stato, costituito dalla reciproca obbligazione di molte città e province: non vi è ragione perché non si possa applicare a uno Stato – qualunque sia la forma del suo regime – i medesimi principi che valgono per regolare la vita delle associazioni minori. Il potere supremo è subordinato alla legge naturale, a quella divina, alle leggi civili e all’equità; la summa potestas viene ricondotta dal monarca al corpo dell’associazione generale, cioè allo Stato, come sua Storia delle dottrine politiche | Michelangelo Ballabene 29 loro politiche di potenza, ma anche dal microcosmo di quelle relazioni concorrenziali fra i singoli: divenne sempre più chiaro che la corte fosse scuola di politica. 7.2 Graciàn Nell’Oracolo manuale del 1647, Baltasar Graciàn fa un chiaro riferimento a Castiglione nell’invito ri- volto al lettore a tenersi lontano dall’affettazione, poiché quanto meglio si può fare una cosa, con tanta più cura si deve nascondere l’artificio, perché gli altri vedano che quella perfezione nasce naturalmente. La prudenza delle massime dell’Oracolo consiste in una doppia strategia: la segretezza che impedisce agli altri di penetrare nell’intimo della volontà e dei pensieri dell’uomo prudente, e la consapevole costruzione artifi- ciale di una parvenza di verità. Infatti, nel rapporto concorrenziale con gli altri occorre assicurarsi tutte le posizioni di vantaggio possibili: dunque l’imperativo di non scoprirsi mai del tutto, per non rendere i propri comportamenti prevedibili. Di qui nascono gli inviti ad essere riservati, poiché il silenzio prudente e cauto è il santuario della saggezza. Oltre all’uso accorto del silenzio e del tacere, Graciàn raccomanda di costruire una verità apparente e artificiale: ma la legittimazione dell’inganno e della simulazione non equivale a fare del comportamento simulato quello più consigliabile, poiché anche la menzogna, diventata un’abitudine, è prevedibile. Il vero significato della prudenza di Graciàn è dunque un invito all’innovazione, a comporta- mento accorti e adatti di volta in volta al mutare delle circostanze: questa prudenza è solo pallido ricordo dell’energetica virtù di Machiavelli in aperto conflitto con la Fortuna. 8. La Ragion di Stato Una delle ultime grandi dottrine politiche elaborate in Italia, è la trattatistica della Ragion di Stato, cor- rente intellettuale unificata dalla volontà di mediare tra due istanze insopprimibili dell’età barocca: che la politica non abbandoni il riferimento ai principi etico-religiosi, ma anche che da questo suo legame con la religione non tragga motivi di debolezza, ma anzi di forza e di efficacia pratica. Il problema era la constata- zione del divorzio tra l’utile e l’onesto che percorre come un filo rosso la trattatistica politica del Cinque- cento. La corte e lo Stato sembravano impermeabili ai principi di una sana politica. Le nuove regole di suc- cesso puramente mondano ponevano alla cultura cattolica parecchi problemi costringendola a tentare di ri- conquistare il terreno perduto. Il primo grande nemico era ovviamente Machiavelli, che aveva lanciato un’inedita sfida, affermando che il cristianesimo impediva strutturalmente il successo militare. La questione non si chiuse nel 1559, con la messa all’Indice delle opere machiavelliane, poiché nel frattempo era nata una corrente storico-politica di pensatori che commentavano Tacito. Da quando Carlo Pasquale inaugurò nel 1581 la moda del tacitismo, l’attenzione che i commentatori dedicavano ai primi sei libri degli Annales dello storico romano sembrò per lo meno equivoca. Non si riusciva a capire se l’attenzione al comportamento dell’imperatore Tiberio fosse solo un’analisi distaccata, oppure fosse un modo per continuare a riflettere sul realismo politico attraverso un autore meno infernale di Machiavelli. 8.1 Botero Campione della reazione contro la cattiva Ragion di Stato machiavelliana, e codificatore di una sua versione buone e lodevole, fu Giovanni Botero. Nel 1583 pubblica il De regia sapientia, il cui primo libro conteneva una In Nicolaum Machiavellum digressio; lì fa la sua comparsa il Dio biblico, Signore degli eser- citi, geloso custode della potenza militare che Egli dispensa ai Suoi fedeli. Qualche anno dopo esce il suo libro più fortunato, Della Ragion di Stato: nella dedica dell’opera si polemizzava ancora contro la barbara maniera di governo desunta da Machiavelli e da Tacito. L’opera si pre- senta come una vera e propria nuova scienza politica. Il libro si apre con una definizione dello Stato come dominio fermo sopra popoli. Botero presenta la conser- vazione come un obiettivo difficile, non solo perché essa deve lottare contro la tendenza naturale alla deca- denza, ma anche perché s’acquista con forza, si conserva con sapienza: e la forza è comune a molti; la sa- pienza è di pochi. La sua opera avrà per tanto l’obiettivo di individuare le specifiche tecniche necessarie al principe per il mantenimento del suo dominio. Basta arrivare alla liberalità per accorgersi della presenza di un’importante novità. In Botero prudenza politica – che è allo stesso tempo una scienza e una pratica – di- rige da sola tutte le azioni del principe, anche quelle virtuose: le esige non solo per la loro intrinseca bontà Storia delle dottrine politiche | Michelangelo Ballabene 30 ma in quanto producono effetti politici positivi. La liberalità verso i poveri, per esempio, non è solo racco- mandata in conformità con i precetti delle Sacre Scritture, ma soprattutto perché non si potrebbe immaginar cosa più atta e più efficace per conciliare l’animo de’ popoli e per obbligarli al suo Signore. Per Botero la prudenza non è, come si è visto in Graciàn, un sapere privato fondato sul silenzio e la simula- zione, ma è una tecnica pubblica di governo, che ha le sue fonti nella storia, e che deve essere capace di adattarsi ai luoghi, ai tempi, alle persone in tutte le possibili combinazioni dei loro reciproci rapporti. Deve inoltre essere agile e flessibile; essa si presenta anche in modo sistematico. Il primo insegnamento della pru- denza è che nelle deliberazioni de’ Prencipi l’interesse è quello che vince ogni partito. E perciò non deve fidarsi d’amicitia, non di affinità, non di legge, non d’altro vincolo, nel quale, chi tratta con lui, non habbia fondamento d’interesse. La Ragion di Stato definisce se stessa come una conoscenza, come una dritta regola, come una con- travvenzione alle ragioni ordinarie in vista del Pubblico Bene; queste definizioni hanno origine nel prelimi- nare riconoscimento che il bene e il benessere dello Stato, cioè il suo interesse, sono lo scopo di ogni azione politica prudente. “Ragion di Stato è poco altro che ragione d’interesse.” Si possono quindi ricondurre all’unità le molteplici strategie di governo, se si sottolinea la centralità che nel pensiero di Botero assume la categoria dell’interesse. Nel caso dei poveri, che sono un pericolo per la tranquillità pubblica perché fatalmente desiderosi di novità, la Ragion di Stato cerca di interessarli, di in- cluderli nella vita della società con l’obbligarli a fare qualche cosa, cioè ad attendere, a l’agricoltura […]. Se i popoli conquistati sono naturalmente portati alla rivoluzione, bisognerà che il principe con ogni mezzo faccia del suo meglio perché questi abbiano interesse nel suo Dominio e governo. Bodero adotta una strate- gia di intervento che mira da un lato a mantenere il valore fondamentale della pace pubblica, e dall’altro a favorire attivamente l’accrescimento delle ricchezze e del benessere dei sudditi e del regno. È dentro questa strategia che bisogna collocare la pratica di un vero e proprio governo economico della so- cietà proposta da Botero; un governo che non solo salvaguarda l’iniziativa economica dei sudditi assicu- rando il non intervento da parte del sovrano, ma spinge il principe a diventare sia una forza regolatrice del gioco economico dei sudditi, sia in certi casi un attore economico e sociale per proprio conto. Il Principe, per mantenere il proprio popolo nell’obbedienza, deve non solamente procurargli il benessere, ma deve anche minare direttamente all’ingrandimento del proprio Stato, attraverso l’accrescimento della po- polazione e delle sue forze, che si traducono in accrescimento della potenza anche militare. Da qui deriva l’attenzione alla promozione dell’agricoltura e alle condizioni preliminari per il suo migliore esercizio, e so- prattutto l’invito rivolto al principe affinché egli stesso si dedichi, quando necessario, al commercio. La Ragion di Stato consiste anche in una serie di precetti: il consiglio di affrontare il male al suo primo apparire, ma anche quello di mettere tempo in mezzo se il male è più grande delle forze del principe; quello di fingere di non vedere l’ingiustizia dei più potenti e i delitti che il principe non è in condizione di punire; infine, l’invito a non opporsi direttamente alla moltitudine perché il principe non potrà facilmente avere la meglio su di essa. 8.2 Naudé Presto si iniziò a distinguere tra una buona e una cattiva Ragion di Stato. La cattiva aveva le sue regole e il suo carattere ben definito già da molti anni prima di Botero: si trattava di una Ragione che gli scrittori politici avevano definito come tirannica e che si era organizzata intorno agli arcana imperii e al principio che permetteva al principe di compiere quegli atti extra legem che Gabriel Naudé avrebbe poi chiamato coups d’État, “colpi di stato”, cioè azioni permesse solo allo Stato in caso di necessità per il pro- prio Bene. Data l’equivalenza tra Stato e principe, questa ragione accorda al principe la facoltà di derogare dalla stretta osservanza dei principi del giusto e dell’onesto, come dalle leggi, e gli conferisce la libertà di divincolarsi da ogni rapporto giuridico con i propri sudditi. Il principe risulta il solitario titolare dell’azione politica all’in- terno dello Stato. Questa Ragion di Stato, di ispirazione machiavelliana, trovò la propria summa in Les Considéra- tions politiques sur les coups d’État, del 1639. Questi scritti rappresentano un approccio al problema politico decisamente diverso e opposto rispetto a quello di Botero. Naudé propone di intendere la Ragion di Stato come la trasgressione del diritto comune per il bene comune, dando per scontata quella differenza incolma- bile tra ragione politica e morale che Botero invece combatteva: per Naudé i coups non fondano la loro Storia delle dottrine politiche | Michelangelo Ballabene 31 legittimazione sul diritto delle genti, civile o naturale, ma soltanto sulla considerazione del bene e dell’uti- lità pubblica, che spesso passa al di sopra di quella dei privati. Naudé sottolinea il principio che la conservazione del popolo sia legge suprema, assolve il principe da molte piccole circostanze e formalità alle quali la giustizia lo obbliga: in tal modo i principi sono i signori delle leggi, allungandole o accorciandole, confermandole o abolendole. Da queste basi parte una dilunga- zione sulla dissimulazione e sulla simulazione, sull’uso della ragione come pretesto per atti politici, per arri- vare a mettere sullo stesso piano i segreti dello Stato e di governo, i colpi di Stato e i segreti connessi con l’esercizio dell’imperium. 9. La scienza dello Stato Botero nel corso di pochi anni aveva dato alle stampe altre due opere importanti: il Delle cause della grandezza e magnificenza delle città, e le Relazioni Universali. Entrambe rientrano nello stesso disegno della Ragion di Stato: basandosi sul presupposto che per consentire a ciascun organismo politico di perse- guire il proprio interesse e la propria ragione, bisognava prima individuare la loro natura e consistenza, e il loro possibile interagire sullo scacchiere internazionale. Occorre un sapere preliminare che sappia valutare le grandezze politiche in gioco, non più misurando lo spazio dello Stato o il giro delle mura della città, ma la moltitudine de gli abitanti, e la possanza loro. Lo Stato deve quindi saper misurare la propria potenza, e occorrono diverse condizioni affinché la sua ricchezza sia grande. Elementi utili per far affluire nelle città e negli Stati il denaro – misura e denominatore universale della potenza – sono i privilegi, le esenzioni, le immunità, la residenza cittadina della nobiltà. Rimandando anche nelle Cause alla trattazione dell’industria e della molteplicità delle arti che egli stesso aveva fatto nella Ragion di Stato, Botero ribadiva la necessità di una scienza dello Stato capace di at- tenta disamina critica delle fonti della ricchezza pubblica e privata, e dei mezzi per il suo incremento. Gover- nare fu soprattutto intervenire sulle dinamiche di diffusione della ricchezza, rovesciando la paura del muta- mento e del movimento che con poche eccezioni era stata tipica della tradizione del pensiero politico. Invece di temere il disordine prodotto dall’abbondanza della popolazione, il principe avrebbe fatto bene a cercare di aumentarlo, avrebbe fatto meglio a favorire le dinamiche dell’arricchimento, favorendo in prima persona la circolazione economica e quindi l’interessamento dei propri sudditi allo Stato e all’ordine sociale. L’Opera di Antoine de Montchrestien6 ha al proprio centro questa moderna teoria dell’ordine visto come dinamico ordinamento degli interessi che conduce alla tranquillità e alla pace. Il problema della paura del disordine è talmente urgente in Montchrestien da spingerlo ad affermare che non è un bravo politico co- lui che è capace di sterminare briganti e ladri, ma colui che è capace di impedire il loro nascere e proliferare. Le cure per l’accrescimento dell’utile e del profitto sono la parte più importante dell’arte politica: di qui l’elogio dell’agricoltura, la sottolineatura dell’interesse che il principe deve avere per il buon esercizio delle arti e dei mestieri, e la proposta di una strategia protezionistica atta a rafforzare la produzione interna. Ac- canto al protezionismo, elementi importanti sono l’impedire l’ozio e il vagabondaggio, e il sollecitare, attra- verso l’emulazione reciproca fra i produttori, la concorrenza interna. Così facendo, il sovrano non solo avrà uno Stato ricco e fiorente, ma otterrà obbedienza e rispetto. 10. La Scolastica spagnola Il pensiero politico del Cinquecento e del Seicento ha il proprio centro nella Riforma e nei problemi sol- levati dalle guerre civili di religione. La Spagna dovette però – pur conoscendo il successo della Ragion di Stato e dell’antimachiavellismo – fronteggiare una sfida particolare: la scoperta dell’America e la colonizza- zione imposero alla cultura iberica temi imprevisti che trovarono una risposta nella scuola di Salamanca. È difficile anche solo immaginare con quanta radicalità la scoperta del Nuovo Mondo abbia sfidato la cultura europea del Cinquecento. Essa pose all’ordine del giorno, ad esempio, il problema se gli indigeni americani discendessero da Adamo o se invece si dovesse riconoscere legittimità al poligenismo. Una volta stabilito che gli indigeni e la loro terra entravano a far parte dei domini spagnoli, entravano in gioco pro- blemi più specificatamente politici, come quello di legittimare l’accaduto o di limitare i danni di quegli eventi che, come la riduzione in schiavitù, turbavano le più sensibili coscienze cristiane. Su tali questioni furono in contrasto Juan Ginés de Sepulveda e Bartolomé de Las Casas; il rumore della loro contesa spinse l’imperatore Carlo V a convocare nel 1550 una commissione di teologi e di giuristi inca- ricata di dirimere la controversia. Per Sepulveda nel comportamento selvaggio degli Indios erano ravvisabili 6 Scrittore e avventuriero ugonotto. Scrive “Traicté de l’oeconomie politique Storia delle dottrine politiche | Michelangelo Ballabene 34 alla natura e costruito con mezzo solo umani per i fini del soggetto moderno. Questo è il soggetto borghese, che ha interesse a una politica ritrascritta in chiave individualistica, cioè antiorganica e antinobiliare. È attraverso il contratto che il pensiero politico razionalistico persegue l’obiettivo di razionalizzare la politica, di realizzare la mediazione razionale: la politica è legittima quando l’ordine politico è costruito da un rapporto razionale fra soggetto e soggetto, e fra soggetti e Stato. Il contrattualismo esige che la politica abbia un nuovo inizio assoluto, e richiede una rottura sia con la natura sia con la storia, anche con l’antichità tanto cara a Machiavelli. L’esigenza di tabula rasa è una rivoluzione, espressa nella figura del patto stipu- lato da individui singoli che vogliono uscire dallo stato di natura in quanto insicuro, per trovare pace e ordine nell’artificio politico razionale, che custodisce e rende efficaci i diritti naturali di ciascuno – vita, libertà e proprietà. Essi, nella dimensione politica, divengono diritti civili e politici. Il potere politico che nasce da un patto fra individui è la sovranità dello Stato, che esprime la razio- nalità di tutti, e rappresenta la volontà politica di tutti. La sovranità produce una legge universale che regola la vita di tutti i cittadini, uguali tra di loro. Lo Stato ha progressivamente assunto il monopolio della politica, che tendenzialmente si concentra tutta nella sovranità e nelle istituzioni pubbliche. Anche la lotta politica in età moderna si presenta come lotta per lo Stato e contro lo Stato, perché questo non invada gli ambiti che deve difendere e rendere possibili: l’ambito della libertà privata e l’ambito della società. Il contrattualismo razionalistico dà vita alla teoria dell’assolutismo (stato assoluto di Hobbes), del liberalismo (Locke), della democrazia (Rousseau), dello stato costituzionale di diritto (Kant): in questi autori è costante il nesso fra patto e sovranità razionale. Ciò significa che per ognuno degli autori la legittimità della politica si colloca nel consenso attivo e razionale di tutti. Da questa costante dipendono due variabili; la prima sta nelle diverse risposte che si danno alla questione se l’energia politica che i cittadini manifestano nel contratto sia tutta destinata a costruire l’ordine politico rappresentativo, o se invece una parte resti presso di loro. La seconda variabile riguarda il modo in cui questi autori rispondono alla domanda se e come sia possibile limitare il potere che nasce dalla ragione di tutti: esso tende ad essere illimitato, il che pone problemi a quello stesso individuo dal quale, e a favore del quale, il potere è nato. Questa difficoltà si risol- verà o con una ripresa e adattamento del costituzionalismo medievale, o col federalismo; la forma-Stato con- tinentale si caratterizzerà soprattutto perché presenta la limitazione del potere dello Stato come un’autolimi- tazione della sovranità che si configura come Stato di diritto, oppure come la triplice distinzione dei poteri. Due razionalisti come Hobbes e Rousseau rispondono però negativamente: per Hobbes il cittadino non ha libertà davanti alle leggi del Leviatano, mentre per Rousseau la libertà del cittadino sta proprio nell’obbedire alla Volontà Generale. Locke e Kant, i due padri del moderno liberalismo, rispondono invece positivamente. 1. Hobbes Thomas Hobbes elabora una filosofia politica tutta centrata sul conflitto morale, da evitare, e sull’or- dine, da costruire. Non più il summum bonun, ma la fuga dal summum malus, e quindi la salvaguardia della nuda vita è il fine della politica. Questa inversione è determinata dalla volontà di Hobbes di dare risposta de- finitiva alla questione del disordine: la sua risposta raggiunge la propria forma matura nel Leviatano, opera del 1651, uscita in coincidenza quasi perfetta con la statualizzazione vestfaliana della politica europea e con la rivoluzione di Cromwell e dei puritani. Il punto di avvio per comprendere questo testo è decifrarne il titolo completo: Leviathan, or the Matter, Form and Power of a Commonwealth ecclesiastical and civil. Hobbes per definire lo Stato nato dal contratto usa il termine Leviatano: non è la sua mostruosità ciò che gli interessa, ma una serie di caratteristiche dell’animale. Il Leviatano è il potere più alto che esista, ed è stato creato in modo da non avere paura ed anzi incuterla; signoreggia e tiene a freno i superbi; infine con lui non si possono stringere patti. Queste sono le caratteristiche dello Stato. Il frontespizio del libro mostra l’immagine di un gigantesco uomo – il cui corpo è costituito da piccoli uomini – che ha in capo una corona e che reca in una mano la spada e nell’altra il pasto- rale. 1.1 Natura, patto, artificio All’origine dello Stato hobbesiano c’è una lettura nuova della natura e della natura umana in partico- lae. Per Hobbes avviene un conflitto tra singoli individui, che sono gli unici attori primari e originari della politica: questo conflitto, che è interpretato di consueto come una questione di Giustizia violata, come una lacerazione dell’ordine dell’essere a cui si può rimediare solo reprimendo i malvagi, è per Hobbes un dato naturale. Storia delle dottrine politiche | Michelangelo Ballabene 35 La natura è infatti assenza di ordine, morale o politico. Questa tesi viene sostenuta con gli strumenti della fisica materialistica, cioè attraverso l’atomismo e attraverso una teoria della conoscenza che fa della ragione solo l’elaborazione intellettuale delle sensazioni materiali esercitate dai corpi esterni sul corpo umano. Perfino la volontà umana è determinata solo dal desiderio o dalla repulsione, non da un fine metafi- sico o morale. L’uomo è una parte particolarmente disordinata della natura. In Natura non ci sono né armonie prestabi- lite né gerarchie stabili fra gli esseri umani, che dal punto di vista fisico e intellettuale sono sostanzialmente uguali. Tutti sono inoltre ugualmente animati da un’energia vitale circa equivalente in tutti: cioè dal potere o diritto naturale, che si può anche definire libertà: questo potere è l’insieme dei mezzi che ciascuno ha per soddisfare i propri desideri e si estende su tutte le cose che servono all’uomo per rimanere in vita. L’uomo cerca sempre di esercitare il proprio diritto, cioè di appagare il desiderio di ricchezze, onore e comando. Egli non ha dunque fini propri, raggiunti i quali possa trovare la quiete; strutturalmente incompleto, proietta an- gosciosamente la propria incompletezza nel futuro. L’uomo è anche naturalmente conflittuale: dalla sua condizione naturale nascono inimicizie, competi- zione e guerra fra uomini che sono tutti uguali in natura, e dunque mai al sicuro l’uno dall’altro (homo homini lupus). Infine, essi sono naturalmente in preda alla vanagloria, cioè vogliono sempre essere valutati dagli altri più di quanto questi siano disposti a fare. In natura, fra di loro c’è sempre guerra – che discende dal diritto di tutti su tutte le cose – almeno come possibilità sempre presente: sono dunque impossibili un po- tere stabile e una vita civile evoluta. Con Hobbes tramonta dunque l’immagine, di origine aristotelica, dell’uomo come animale razionale e sociale: la natura umana è animale, ma a differenza di quella di certi animali non è sociale; anche il bene, come il male, non ha alcuna consistenza oggettiva, ma è solo il nome soggettivo dei diversi e mutevoli desi- deri di ciascuno. In natura non c’è alcuna legge efficace, e quindi non si sono né Giustizia, in quanto ordine dell’essere, né ingiustizia. Per Hobbes la giustizia è solo il rispetto dei patti validi, che in natura non ci sono. Il troppo alto tasso di conflitti che vi si genera, rendono necessaria l’uscita dallo stato di natura, che avviene per l’utilità di ciascuno: ossia per una passione soggettiva, la paura della morte, e per un calcolo razionale. Questa razionalità è la legge naturale: un comando della ragione che vieta ad un uomo di fare ciò che è le- sivo della sua vita. La legge naturale della pace è il comando morale che costituisce il quadro entro cui si legittima la poli- tica, che fa riferimento a un nuovo comando morale che obbliga alla conservazione della vita umana e quindi alla costruzione dell’ordine politico. Machiavelli e Hobbes, pur tanto distanti fra loro, hanno in co- mune l’abbandono del tradizionale terreno della morale cristiana quale fondamento e legittimazione della politica. La legge naturale si specifica in parecchie leggi, in tutto diciannove, di cui le più importanti sono le prime tre: ogni uomo deve ricercare la pace; a tal fine ogni uomo deve lasciar cadere il proprio diritto su tutte le cose in misura pari a tutti gli altri uomini; tale mutua cooperazione è un patto che va rispettato. Tutte le leggi di natura, benché universali, immutabili ed eterne, non sono propriamente leggi, ma qua- lità che dispongono gli uomini alla pace e all’obbedienza, ossia obbligano la coscienza dell’uomo, ma non i suoi comportamenti esteriori. L’obiettivo della politica è dunque costruire le condizioni che consentono a tutti di obbedire alle leggi di natura e quindi di vivere in pace. Occorre costruire un’unità politica artificiale, e a tal fine Hobbes introduce i concetti di attore, autore e rappresentanza. I singoli uomini nello stato di natura devono autorizzare un at- tore che agisce per conto loro, come loro rappresentante. Che un uomo solo rappresenti e impersoni i molti autori, e agisca per loro, da loro autorizzato, produce appunto l’unità ricercata. Quell’uomo o istituzione è il sovrano. Il problema di come costruire il sovrano è risolto da Hobbes nel XVII capitolo: l’obiettivo si raggiunge attraverso la logica del patto e della rappresentanza politica moderna, che nel Leviatano trova il proprio fon- damento: qui la rappresentanza subisce una trasformazione radicale, divenendo lo strumento grazie al quale si rappresenta e si costituisce efficacemente l’interesse universale di tutti e di ciascuno, cioè la volontà gene- rale di vivere in pace. Il concetto hobbesiano di patto è distinto da quello di contratto, perché il secondo è solo il mutuo trasferi- mento del diritto, mentre il primo si proietta avanti nel tempo e implica l’instaurazione della fiducia reci- proca. La rappresentanza si realizza quindi attraverso un patto di tutti con tutti, il cui contenuto è la cessione Storia delle dottrine politiche | Michelangelo Ballabene 36 del diritto naturale8 di ciascuno a un terzo, esterno al patto e creato dal patto, unico depositario del diritto na- turale di ciascuno. La formula del patto è: “Io autorizzo e cedo il mio diritto di governare me stesso a quest’uomo, o a questa assemblea di uomini, a condizione che tu gli ceda il tuo diritto e autorizzi tutte le sue azioni in maniera simile.” Il prodotto del patto è il Leviatano: esso è l’artificio che rende possibile la vita associata in forma stabile. Quello di Hobbes è un patto orizzontale fra uguali, dal quale nasce l’obbedienza a un terzo che è stato generato dal patto senza prendervi parte. È questo dunque un pactum unionis. Il rappresentante è signore dei rappresentati, appunto perché senza di esso quelli non hanno esi- stenza politica. Ubbidendo al sovrano si ubbidisce in realtà a colui che noi stessi abbiamo creato per farci esistere come corpo politico. La politica è la sola via grazie alla quale i lupi vengono trasformati in uomini civili, gli uomini naturali in cittadini. Hobbes, da padre del razionalismo politico moderno, fa della politica una scienza applicata, una tecnica che ha come fine la costruzione della sovranità, ed esclude che la politica possa legittimarsi altri- menti che con la ragione, che cioè possa fondarsi sulla trascendenza o sulla tradizione. Il concetto di auctori- tas è quindi capovolto: non è più l’istanza – come la Chiesa - che legittima la politica mettendo in relazione il Cielo e la Terra, ma è il sommo potere, la sovranità, autorizzata dal patto di ognuno con ciascun altro, che raccoglie in sé l’originaria facoltà di azione che pertiene a ogni uomo nello stato di Natura. Da Hobbes nasce uno dei tipici problemi della politica moderna: la scomparsa di una fondazione superiore del potere politico, che fa sì che non sussista più la tradizionale differenza fra autorità e potere, fra Giustizia e legge positiva. Non c’è nulla che un sovrano possa fare a un suddito che possa essere chiamato ingiusti- zia, poiché ogni suddito è l’autore di ogni atto che fa il sovrano. Hobbes sostiene anche che non c’è differenza fra regno legittimo e tirannide. Dal patto hobbesiano si vede inoltre l’impossibilità del diritto di resistenza: la struttura del patto di unione fa sì che non ci si possa opporre al Leviatano. Non ci si può rifiutare di obbedire allo Stato, appellandosi ai patti – mai esistiti – fra lo Stato e il cittadino: questo infatti non esiste prima di esso. La disubbidienza, la resistenza non sono quindi un diritto a cui un popolo oppresso possa appellarsi. La disubbidienza è possibile e, se molto estesa, distrugge lo Stato, facendo tornare gli uomini allo stato di natura. Tutta la capacità di agire che ciascuno ha in natura deve essere lasciata cadere perché possa affermarsi la consapevolezza della necessità dello Stato, e, benché fondata sull’individuo, la politica di Hobbes ne prevede l’alienazione quasi completa; in ciò sta la differenza con Locke. Con la costruzione della sovranità il pensiero moderno abbandona l’antichissima idea che la politica consista nel governo del diverso sul diverso, del migliore sul peggiore, all’interno di un quadro di ordine dell’essere; d’ora in poi la politica è sovranità, dominio impersonale e razionale della legge universale e arti- ficiale, che si applica agli uguali. 1.2 Il sovrano Si tratta ora di capire quali sono le caratteristiche e i meccanismi di funzionamento di questa persona civile che è un uomo artificiale. Hobbes elabora la teoria di uno Stato che è assoluto in senso logico, ma è ben più razionale e coerente degli Stati assoluti storici, e può quindi affermare che il sovrano rappresentativo è titolare di un potere indivisibile, incondizionato, irresistibile. Ciò è vero sia nella monarchia, sia nell’aristocrazia, sia nella democrazia. Nemico di ogni separazione del potere sovrano, del parlamentarismo e del ruolo autonomo della magistratura, Hobbes esclude ogni possibilità di separazione dei poteri. Il sovrano non solo ha il diritto di scegliere i ministri, di dichiarare la guerra e di comandare l’esercito, ma soprattutto non deve rispondere a nessuno del proprio operato, e non deve cedere a nessuno il proprio potere di punire e di premiare, e di giudi- care, interpretando e applicando le proprie leggi. Dentro lo Stato nessuno, oltre il sovrano, è tito- lare di un potere politico indipendente. In Hobbes la convinzione che il sovrano sia la condizione stessa di possibilità dell’esistenza della vita civile associata è così radicale che egli affida alla deci- sione del sovrano anche l’instaurazione della proprietà privata, che è un’istituzione resa possibile dalla politica, e reputa causa di dissoluzione dello Stato la pretesa che il diritto di proprietà valga in assoluto, anche contro il sovrano. 8 Eccetto il diritto all’autodifesa Storia delle dottrine politiche | Michelangelo Ballabene 39 diffidare di chiunque pretenda di compiere miracoli, che di solito sono inganni e mistificazioni; ed è il so- vrano colui che ha la facoltà di decidere in ultima istanza se un certo fatto è un miracolo o non lo è. Naturalmente, un privato ha sempre la libertà di credere o di non credere in cuor suo a quegli atti che sono stati dati come miracoli. Ciò non toglie che la religione in quanto comportamento esteriore deve essere pub- blica e uniforme, sottratta agli individualismi e ai fanatismi protestanti. Hobbes ha come obiettivo polemico non solo i protestanti, ma anche il cattolicesimo, che contrappone allo Sato la Chiesa con la sua oggettività pubblica. Si vede l’intento anticattolico nel XLII capitolo del Le- viatano, dedicato alla confutazione delle posizioni di Bellarmino sulla potestas indirecta: questa è la teoria secondo cui il pontefice pur non avendo diretto potere politico sui cristiani, ha però un potere sulle anime e può fare appello alle coscienze dei fedeli per incitarli a disobbedire a leggi emesse dai sovrani. Questa posi- zione è inaccettabile per Hobbes, che critica la pretesa della Chiesa cattolica di essere stata fondata da Cristo come una gerarchia, mentre è solo l’insieme dei fedeli che credono che Gesù è il Cristo, e da lui ha avuto solo il compito di insegnare agli uomini le verità di fede e di obbedire al sovrano. La Chiesa di Roma, in quanto vuole comandare politicamente, è quindi solo uno Stato come gli altri, in cui il papa esercita un potere politico simile a quello di ogni altro Stato; di conseguenza, la pretesa che tutti i cri- stiani, i cittadini di ogni Stato, obbediscano al papa equivale alla pretesa che i cittadini di uno Stato obbedi- scano a uno Stato straniero. È, tuttavia, il cristianesimo la fonte del potere politico degli Stati: facendo convertire tutti i loro sudditi, i re sono infatti supremi pastori del gregge cristiano, il che significa che potere civile e potere religioso sono la stessa cosa. Quando i sudditi sono cristiani, solo essi sono davvero obbedienti; solo chi crede e afferma pubblicamente che Gesù è il Cristo è consapevole della radicale assenza del sacro nel mondo, e quindi della necessità di obbedire, intanto, al sovrano se si vuole davvero la pace. Lo Stato razionale del Leviatano è quindi cristiano; i predicatori cristiani sono pubblici funzionari, il cui insegnamento, controllato dallo Stato, deve essere coerente con questa interpretazione del cristianesimo e dello Stato come luogotenente di Dio. La proposta hobbesiana è il contrario della tradizionale fondazione religiosa della politica. Dalla “cac- cia al Leviatano” si difende con uno scritto10 in cui Hobbes pensa a una politicizzazione della religione, nel senso che il controllo dello Stato sulla religione serve solo a impedire che essa abbia effetti politici conflit- tuali. La religione è la ricerca del modo migliore per obbedire a Dio e realizzare la pace, e lascia aperta in prospettiva la possibilità che essa, divenuta grazie alla neutralizzazione dello Stato una materia non più poli- ticamente pericolosa, possa essere deregolata e possa quindi uscire dall’interiorità a cui l’aveva ridotta Hob- bes. Nella quarta parte del Leviatano Hobbes ribadisce la propria avversione alle interpretazioni sbagliate delle Scritture. Avversato dagli illuministi come teorico dell’assolutismo e dai tradizionali come ateo, Hobbes venne riscoperto nel Novecento come il cruciale pensatore del rapporto ineludibile fra Stato e individuo, come teo- rico del nesso fra sovranità, legge, cittadinanza, e come colui nel cui pensiero si racchiudono molte delle ra- gioni e delle contraddizioni caratteristiche della stagione politica dello Stato nella modernità. 2. Locke Anche John Locke si colloca all’interno della sintassi individualistica e contrattualistica, ma rispetto ad Hobbes vi instaura importanti variazioni sul tema della legittimità e dei limiti del potere politico. Ciò è do- vuto al diverso obiettivo politico: quello di Locke è la rivoluzione antiassolutistica. Egli costruisce un mo- dello di ordine politico che consenta di limitare il potere, e a questo fine introduce sia la partizione delle fun- zioni del potere, sia il rispetto dei diritti naturali degli uomini, ovvero i concetti chiave del costituzionalismo moderno e del liberalismo. I due Trattati sul governo sono il manifesto della Gloriosa rivoluzione del 1689: l’affermazione dei whig, del parlamentarismo e della limitazione costituzionalistica del potere regale, contro l’assolutismo cat- tolico degli Stuart. Locke scrive il Primo trattato sul governo contro il Patriarca di Robert Filmer, manifesto del partito regio, dato che teorizzava il diritto divino dei re, l’opposizione politica alternativa a quella whig. L’obiettivo polemico di Locke è duplice: intende prima colpire la modernità cattolica, estranea al contratto, di Filmer; in secondo luogo, rendere le dottrine moderne del contratto adatte a ospitare le libertà individuali e sociali. Il Primo trattato risponde al primo obiettivo, il secondo al secondo. 10 Risposta al libro pubblicato dal dott. Bramhall, intitolato “La cattura del Leviatano”, 1668 Storia delle dottrine politiche | Michelangelo Ballabene 40 2.1 Il “Primo trattato sul governo” Questo trattato è la teologia politica di Locke. In questo testo egli sostiene contro Filmer l’interruzione di ogni comunicazione ontologica e politica fra Cielo e Terra. La tesi di Filmer è che nessun uomo nasce na- turalmente libero, ma sempre e solo soggetto alla monarchia assoluta di un re; questo trae a sua volta il pro- prio titolo di legittimità da due principi: dall’autorità paterna che Dio ha dato ad Abramo sul genere umano, e dalla proprietà conferitagli su tutte le cose del mondo. Locke intende dimostrare che Adamo non ebbe da Dio alcun potere sugli uomini, né sulle cose. Adamo infatti non è sovrano, nel senso proprio di padre-padrone, né per creazione, né per donazione divina, né per paternità: la creazione gli diede solo l’esistenza, non il dominio politico sui figli, né sulla moglie, né pos- sesso esclusivo delle cose del mondo, donate all’intera umanità. Locke prende in esame la questione dell’eredità di Adamo, mostrando che questa regalità per grazia di Dio sarebbe stata trasmissibile ai suoi eredi; infatti, ogni figlio di Adamo avrebbe dovuto goderne, alla pari coi propri fratelli, a meno che Dio non abbia donato il potere assoluto a qualcuno, facendolo re sui propri fra- telli. La regalità di diritto divino non è trasmissibile, e anche se fosse stata trasmessa, la discendenza di Adamo è ormai irriconoscibile. Locke, come Hobbes, ambienta la propria teoria politica in un’epoca di disincanto in cui non è Dio ma la ragione umana a costituire la base e il fondamento di legittimità del potere politico. 2.2 Il “Secondo trattato sul governo” Locke passa qui alla costruzione dell’ordine politico razionale. 2.2.1 Lo stato di natura e i diritti Locke inizia dallo stato di natura, che egli descrive come una condizione naturale dell’uomo di perfetta libertà e di uguaglianza, governato dalla legge di natura, il cui contenuto è che gli uomini non devono nuo- cersi a vicenda, né considerarsi subordinati o sovraordinati gerarchicamente gli uni agli altri. Ciascun uomo è giudice ed esecutore della legge di natura, e può punire chi la trasgredisce, perché il colpevole è nemico di tutta l’umanità. Lo stato di natura lockeano è più complesso, caratterizzato da una Giustizia che in linea teorica potrebbe trovare da sola applicazione pratica, e che non la trova solo per motivi contingenti, dovuti alla parzialità e alla passionalità degli uomini, da cui può nascere il disordine. Benchè – contro Hobbes – siano distinti dal punto di vista logico, lo stato di natura può facilmente trasformarsi in stato di guerra, essendo questo il risul- tato del diritto all’autodifesa, a cui ogni uomo ricorre quando subisce un’ingiustizia da qualcun altro e quando manca un’autorità superiore a cui appellarsi per ottenere giustizia. Una volta iniziata, la guerra diffi- cilmente trova soluzione o termine. Essa non è la condizione normale dell’umanità nello stato di natura, ma si presenta o come ingiusta aggressione o come giusta resistenza ad essa. Un’altra differenza con Hobbes sta nel fatto che per Locke la proprietà è un diritto naturale come la li- bertà e la vita: ogni singolo uomo, lavorando, diviene unico ed esclusivo proprietario di ciò che ha lavorato, anche senza il consenso esplicito degli altri. Il lavoro fornisce alle cose lavorate un valore differente – pone in ogni cosa la differenza di valore – che consente la disuguaglianza fra gli uomini. Appropriazione, recin- zione e lavorazione della terra costituiscono il titolo radicale della proprietà privata anche in natura, e la di- suguaglianza creata dal lavoro è moltiplicata dall’uso del denaro, che consente alla proprietà estensioni di terra più vaste di quanto possano essere lavorate. Nel VI capitolo Locke sostiene che in natura gli uomini sono sottoposti a una sola autorità, quella dei genitori; nel VII afferma la superiorità del marito sulla moglie. Locke crede che le naturali gerarchie fami- liari valgano nell’ambito privato, ma non nella sfera pubblica: anticipando Kant, egli afferma che il potere politico non può prendere ad esempio quello paterno e maritale, perché a differenza di questo si rivolge a maggiorenni liberi. 2.2.2 Il corpo politico L’antropologia di Locke è quindi più moderata e meno negativa di quella hobbesiana. Nel Saggio sull’intelligenza umana egli sostiene che lo spirito umano è in grado di tenere in sospeso l’esecuzione di un atto e la soddisfazione di un suo qualunque desiderio; questo controllo della ragione sulle passioni rende lo stato naturale di Locke diverso e più complicato di quello di Hobbes. Già in natura vige una legge morale e razionale di reciproco rispetto degli uomini e delle loro proprietà, e quindi già in natura è teoricamente possi- bile qualche coesistenza: pertanto, il patto di cui Locke si serve ha lo scopo di creare un ordine politico arti- ficiale che non è l’opposto dello stato di natura, ma che serve a garantire meglio i diritti naturali. Storia delle dottrine politiche | Michelangelo Ballabene 41 Il contratto razionale non azzera dunque la natura, ma la migliora. Il patto è veramente necessario per generare l’ordine politico razionale: per questo egli si dimostra esponente del razionalismo contrattualistico. Lo stato di natura presenta tre difetti che lo rendono scomodo; non vi è legge certa; non vi è un giudice riconosciuto ed imparziale; non vi è un potere esecutivo. Locke sostiene quindi che ciascun uomo può libera- mente rinunciare al proprio potere naturale di punire le infrazioni alla legge di natura e rimetterlo nelle mani della comunità, che così diviene arbitra di tutte le controversie. Questa comunità – Commonwealth – è una repubblica: ma a volte Locke la definisce società civile o società politica. Siamo in presenza di un patto in senso moderno, fondato sulla logica dell’autorizzazione: ciascun sin- golo autorizza la società politica a fare le leggi, e a renderla esecutiva grazie alla forza che ogni uomo ha conferito alla società. È dunque un patto di unione fra eguali: tale patto non richiede però necessariamente che le logiche dell’autorizzazione diano vita a un’istituzione sovrano-rappresentativa; e di conseguenza il potere legislativo può essere esercitato tanto dal corpo politico direttamente, quanto dai suoi rappresentanti fiduciari. Per comprendere le caratteristiche del corpo politico creato dal patto, bisogna sottolineare che per Locke, quando l’uomo entra in società, aliena sia il proprio diritto alla vita, libertà e proprietà, sia il diritto a giudicare ed applicare la legge naturale, ovvero il diritto di farsi giustizia da sé. Sol quest’ultimo diritto è ve- ramente ceduto da tutti al corpo politico, mentre i singoli cedono ciascuno i propri diritti solo per vederli re- stituiti, trasformati in diritti civili e politici11. Le leggi universali e imparziali che il corpo politico costruirà e renderà efficaci, dovranno rispettare i diritti naturali degli individui associati; il potere legislativo, che coincide con il corpo politico sovrano creato dal patto, non potrà essere assoluto. Il sovrano assoluto, infatti, è sottratto alla legge e quindi i sudditi non sanno a chi appellarsi nel caso in cui la legge promulgata dal sovrano leda i loro diritti naturali; un sovrano assoluto è in uno stato di natura, perché lascia ai sudditi solo l’opzione dell’appello al cielo. Se è vero che nessun re- gime può avere diritto all’obbedienza di un popolo che non vi abbia liberamente consentito, è evidente che nessun popolo può essere così stolto da darsi in pasto al Leviatano. Il contrattualismo di Hobbes è come cre- dere che gli uomini sono così pazzi da evitare i danni che possono recar loro le faine e le volpi col pensare di trovare la salvezza nell’essere divorati dai leoni. Per Locke tutta la storia sacra e profana dell’umanità dimostra che gli ordini politici nacquero da con- tratti di questo tipo, orientati a salvaguardare la libertà naturale degli uomini associati: con ciò si rende mani- festa la differenziazione di Locke rispetto ad Hobbes, e soprattutto a Rousseau, il quale pensa ad un contratto sociale capace di correggere radicalmente i cattivi ordini politici che, a partire dall’instaurazione della pro- prietà privata, si sono susseguiti nella storia. 2.2.3 I poteri Locke può ora passare all’analisi più dettagliata del corpo politico in quanto potere legislativo sovrano. Esso risiede presso il popolo sovrano, il quale di solito lo delega ai suoi rappresentanti eletti che, riuniti in un Parlamento, possono legiferare in permanenza o anche solo periodicamente. Il potere legislativo non può es- sere in contraddizione con i diritti naturali degli uomini nello stato di natura (libertà e proprietà); non può essere arbitrario, ma deve essere universale, imparziale e non assoluto; in particolare, non può violare la pro- prietà e deve dare formalmente il proprio assenso ad ogni tassazione del popolo. Il liberalismo moderno inaugurato da Locke si presenta come un radicale aggiornamento del tradizio- nale costituzionalismo inglese: la limitazione giurisdizionale del potere politico è qui ritrascritta in termini di diritti naturali inalienabili dall’uomo, e indisponibili per il potere. L’obiettivo di limitazione del potere as- sume l’aspetto della tripartizione del potere nelle sue tre funzioni: il legislativo, l’esecutivo, il federativo. Poiché nello stato di natura lockeano vige la legge razionale della giustizia, si può parlare di guerra giusta (di difesa) o ingiusta (di aggressione), cosa impossibile fra i Leviatani di Hobbes. Il re di cui parla Locke non è il sovrano di Hobbes: la subordinazione lockeana dell’esecutivo, cioè del re, al legislativo equivale a dire che mentre il legislativo è il corpo politico sovrano che nasce dal patto di unione, l’esecutivo invece riceve un incarico fiduciario (trust), ossia è frutto di un diverso e specifico patto – non di unione, ma di fiducia – tra il corpo politico e il re. Se il re rompe questo rapporto di fiducia, la sua forza è illegittima e il popolo sovrano ha il pieno diritto di reagire: l’obiettivo politico di Locke è legittimare 11 “L’unico modo con cui uno si spoglia della sua libertà naturale e assume i vincoli della società civile consiste nell’ac- cordarsi con altri uomini per riunirsi in una comunità, per vivere gli uni con gli altri con comodità, sicurezza e pace, nel sicuro possesso delle proprietà, e con garanzia maggiore contro chi non vi appartenga.” Storia delle dottrine politiche | Michelangelo Ballabene 44 dall’interno stesso di tale disordine, e il controllo che permette all’uomo di conseguire su di esso – ovvero la comprensione razionale degli affetti – non può che essere relativo. Questa trama di relazioni tra affetti e ragione costituisce la filigrana del rapporto tra natura e politica istituito da Spinoza; il diritto naturale viene equiparato alla potentia di ciascun individuo: “è dunque determinato e definito non da una saggia razionalità, bensì dalla propria cupidigia e dalle proprie pos- sibilità; […] ne segue che ogni individuo [nello stato di natura] ha un diritto sovrano su tutto ciò che cade sotto il suo potere, ossia che il diritto di ciascuno si estende fin là dove giunge la sua particolare potenza.” Siamo in uno scenario hobbesiano. Spinoza indica da una parte nel diritto naturale la radice dell’ugua- glianza fra gli uomini, e ravvisa d’altra parte in esso il motore di relazioni interindividuali segnate dalla con- creta possibilità della collisione fra i diversi diritti naturali, cioè della guerra. Tuttavia, agisce anche una spontanea tendenza degli uomini ad associarsi; da ciò può sorgere un potere co- mune che trae la propria forza da una dinamica di composizione delle potenze individuali. La dinamica com- positiva che fa nascere il potere sovrano ha come modello il processo della reciproca comunicazione del moto fra corpi molto vicini, che li porta a comporre un sol corpo. Quella dinamica viene descritta attraverso il lessico del contrattualismo: ma, contrariamente a Hobbes, la ragione sociale che presiede all’associazione politica non ha in Spinoza caratteri costruttivistici, e non immette in un ordine artificiale. La summa potestas spinoziana radica il proprio diritto in un aggregato collettivo di potenze individuali che la costituiscono attraverso un movimento percorso dalla persistenza degli antagonismi naturali e sempre aperto alla possibilità della trasformazione. 3.2 L’immaginazione La dimensione collettiva del bene comune si presenta come prodotto di un processo costitutivo sempre aperto. Al ruolo politico dell’immaginazione è in buona parte dedicato il Trattato teologico-politico: questa opera istituisce un nesso strettissimo da una parte fra il timore e la superstizione, dall’altra fra questa coppia concettuale e il regime monarchico, il cui massimo interesse consiste nel mantenere gli uomini nell’inganno e nel nascondere sotto lo specioso nome di religione la paura con cui essi devono essere sottomessi. Di con- tro a tale regime si pone la libera comunità e il libero giudizio del singolo. La paura, di per sé, non è sufficiente a sostenere nessun regime politico, neppure quello più dispotico. L’ordine politico non può prescindere dalla condivisione di un comune orizzonte di senso da parte di coloro che sono ad esso soggetti, non può evitare di stringersi in un rapporto costitutivo con l’animo delle masse. Nella continua produzione e riproduzione di questo orizzonte di senso consiste il decisivo ruolo dell’imma- ginazione. La funzione centrale della parola profetica nella storia nasce dal fatto che i profeti – che hanno colto le rivelazioni divine con l’immaginazione – hanno saputo farne il racconto in una forma tale da susci- tare l’immaginazione del popolo e motivarne l’animo alla devozione e all’obbedienza. La grande narrazione teologica contenuta nelle Scritture assume così l’aspetto di un dispositivo politico orientato a produrre l’obbedienza e la soggezione delle masse. La parola profetica si presenta tuttavia capace di tessere la trama immaginaria che sostiene e sola rende possibile una forma politica determinata, la teocra- zia ebraica. Insomma, l’analisi critica delle Scritture diviene un’analisi delle passioni del corpo sociale, svolta sul terreno storico in funzione della politica. Ciò porta alla luce un nesso tra la politica, l’immagina- zione e l’animo delle masse, che ci mostra come il problema politico assuma, in Spinoza, una qualità nuova: per lui la ragione deve sciogliere dalla tirannia della paura e ricondurre a un terreno in cui un progetto laico di emancipazione faccia della salvezza un’opera genuinamente umana. L’immaginazione collettiva del po- polo è per Spinoza elemento costitutivo della stessa democrazia. La differenza è che la superstizione reli- giosa pone le masse nella soggezione a potenze esterne, mentre la critica della religione che Spinoza pro- spetta libera gli uomini dall’immaginazione mistificata e rende possibile un uso politico collettivo dell’im- maginazione liberata: appunto, la costituzione della democrazia. Su questo punto si misura la distanza da Hobbes, la cui critica della profezia è invece volta a neutraliz- zare le rivendicazioni rivoluzionarie delle sette puritane radicali. La grande cesura prodotta dal cristianesimo è così valorizzata da Spinoza nella misura in cui essa rende possibile un definitivo superamento della superstizione. La venuta di Cristo innesca un duplice movimento: l’universalizzazione della fede e la sua interiorizzazione: questo fa anche dell’esteriorità della legge un ele- mento residuale, retaggio di un passato che può e deve essere superato. Il cristianesimo, in termini politici, rende possibile la realizzazione della democrazia. Storia delle dottrine politiche | Michelangelo Ballabene 45 3.3 La democrazia Nel XVI capitolo del Trattato viene presentato il regime democratico come quello che più si accosta all’ordinamento naturale e che meglio corrisponde a quella libertà che la natura concede a ciascuno. Nes- sun individuo aliena il proprio diritto a favore di un altro; bensì aliena il suo diritto a favore della totalità del corpo sociale di cui egli costituisce una parte. Ed è perciò che tutti gli individui restano uguali, come lo erano prima nello stato di natura. Emerge una distanza da Hobbes nel modo più limpido laddove si consideri che quella democratica è per Spinoza la forma politica per eccellenza, perché è quella che maggiormente si avvicina allo stato di natura. Esso stesso soggetto alla legge universale della determinazione casuale che regola il dispiegamento della po- tenza naturale, il patto spinoziano risulta da un insieme di cause che costringono gli uomini ad unire le pro- prie forze. Il suo criterio istitutivo è l’utilità. Assai più che su un trasferimento di diritti, l’assolutezza del potere democratico si fonda su uno spostamento delle potenze individuali a comporre, attraverso la mediazione della ragione, un’unica potenza collettiva. Il potere sovrano non istituisce alcuna cesura rispetto al principio dell’identità naturale di diritto e potenza. Tale potere sarà conseguentemente tanto più potente, assoluto e autonomo quanto più ampio sarà l’aggregato di potenze individuali in cui il suo diritto si radicherà. L’imperium comune vive altresì del dispiegamento delle stesse potenze individuali che lo costituiscono, progressivamente liberate dalla paura e arricchite nella cooperazione sociale. La libertà di pensiero e di espressione, in cui consiste l’elemento caratteristico di una libera comunità politica, è indice di questo pro- cesso di continua produzione e riproduzione dell’ordine politico, che libera progressivamente l’animo delle masse dalla schiavitù in cui esse tendono a ridurlo se non sono guidate dalla ragione. Troviamo una traduzione di questa origine laica del potere politico in primo luogo nella programmatica rivendicazione di una metodologia realistica. Il modo in cui questa rivendicazione si svolte – riconducendo l’origine della politica alla tendenza universale di tutti gli uomini alla propria conservazione – comporta una significativa amplificazione delle valenze egualitarie della dottrina di Spinoza. È quindi incoerente la difesa avanzata dall’autore della potestà materiale a cui sono soggette le donne. Ma il materialismo politico spino- ziano trova la propria definizione più precisa nel principio per cui il diritto di sovranità o dei sommi poteri non è altro che il medesimo diritto naturale determinato dalla potenza, non già dei singoli, ma della massa. Spinoza, per indicare il soggetto della potenza collettiva che determina il diritto di sovranità, usa il termine multitudo. L’assenza del principio rappresentativo è rafforzata dalla mancata riproposizione dello stesso lessico contrat- tualistico. In ogni caso – contro ed oltre lo scenario del pactum unionis hobbesiano e della rappresentanza sovrana del popolo – il Trattato porta alle sue estreme conseguenze la prospettiva fisico-materiale che vede la moltitudine costituire un corpo politico collettivo la cui forma non è mai definitiva e bloccata in una rap- presentazione. La multitudo dà così piena espressione al radicamento dell’imperium nel processo materiale di forma- zione della sua legittimità. La democrazia si mostra non solo il regime più adatto a realizzare quella sintesi: è lo stesso svolgimento dell’analisi delle altre due forme tradizionali di regime politico a dimostrarlo. A pro- posito del regime monarchico, Spinoza dichiara di adottare come unica regola quella di individuare le condi- zioni perché il popolo riesca a far sì che la potenza del re sia esclusivamente determinata dalla propria e sia presidiata dalla propria forza. L’aristocrazia viene presentata come una sorta di grado intermedio tra monar- chia e democrazia, la cui potenza e assolutezza del cui potere crescono nella misura in cui si amplia la com- posizione del consiglio aristocratico. Nel Trattato viene dunque esposto un processo di democratizzazione che la multitudo impone a qualsiasi forma di governo, Nei decenni successivi alla sia morte, Spinoza ha esercitato un’influenza soprattutto sotterranea; fu poi Hegel a bollare di acosmismo il sistema spinoziano, riconsegnandolo all’anomalia e opponendo a esso la forza ricompositiva della sua sintesi dialettica. 4. Stato e mondo coloniale La teoria moderna della sovranità non è soltanto una risposta alla crisi dell’ordine politico medievale provocata dalla Riforma e dalle guerre civili di religione. Altrettanto decisive per la sua affermazione sono state le scoperte geografiche e i processi di colonizzazione del Nuovo Mondo. Viene inaugurata una nuova fase storica all’interno della quale – fra Cinquecento e Seicento – l’At- lantico si è affermato come unico grande sistema regionale che ha unito in uno stesso spazio politico l’Eu- ropa, l’Africa e le Americhe. Cuore di questo nuovo spazio politico è la nave coloniale: essa è proiezione Storia delle dottrine politiche | Michelangelo Ballabene 46 marittima dello Stato territoriale. Al tempo stesso, la nave coloniale è stata anche il veicolo principale per la formazione e la diffusione di una nuova cultura della ribellione che accomunava dissidenti religiosi, schiavi fuggiaschi, commoners e il nascente proletariato, che proprio nella nave coloniale ha trovato un prototipo della fabbrica moderna. Per descrivere questa nuova ribelle soggettività plurale, multietnica e transnazionale, il pensiero politico dell’epoca è ricorso all’immaginazione mitologica dell’idra. Per rispondere a questa minaccia, il razionali- smo politico moderno ha affiancato al contratto un’altra strategia di neutralizzazione del conflitto: la sua esternalizzazione, fuori dai confini dello Stato. Le autorità politiche inglesi infatti praticavano l’esportazione della disobbedienza sull’altra sponda dell’Atlantico attraverso l’impiego forzato nelle spedizioni di crimi- nali: per Bacon, il modo più sicuro per prevenire le sedizioni è togliere loro la materia. Le colonie ameri- cane divennero così uno strumento politico per rimuovere dalla città questa materia di sedizione, vere e pro- prie prigioni senza mura. Il risultato principale di questo processo di esternalizzazione del dissenso è stata la divisione dell’At- lantico in due spazi politici qualitativamente diverso: lo spazio ordinato degli Stati europei e quello disordi- nato e selvaggio del mondo coloniale. Questa riconfigurazione spaziale della politica moderna può ritenersi realizzata in Inghilterra con la Restaurazione di Carlo II. Nel Secondo trattato sul governo di Locke viene spiegato come nei contesti coloniali l’ordine sia sem- pre il risultato di una conquista; il potere politico è quindi puramente dispotico e agisce in modo arbitrario. Il potere coloniale non può di conseguenza avere alcun diritto alla soggezione e all’obbedienza, anche quando è esercitato da un legittimo conquistatore. Il suo potere è equiparabile al diritto di autorità dei briganti o dei pirati, che estorcono agli uomini promesse vincolanti solo con la forza, e colpiscono i deboli per ridurli all’obbedienza. In Hobbes questa specificità del potere coloniale non era ancora così chiara ed evidente. A suo avviso i diritti e le conseguenze della sovranità che ne derivano sono gli stessi dello Stato per istituzione: qui si obbe- disce per timore di colui a cui ci sottomettiamo, mentre nel primo caso avviene per paura l’uno dell’altro. Per Locke questa spiegazione non è sufficiente: se anche si ammettesse che i vinti di una guerra di con- quista si sono sottomessi consenzienti alla nuova autorità politica resterebbe infatti da considerare se le pro- messe estorte con la forza e senza diritto possano essere giudicate un consenso, e fino a che punto vincolino. Il governo di un conquistatore, imposto con la forza a un vinto, non impone al vinto obbligazione alcuna. Nel contesto coloniale non si può quindi parlare di appello al cielo, se non in senso puramente nominale, perché, almeno in potenza, l’appello è sempre operante e non necessita di alcuna specifica giustificazione. Infatti, su tutto ciò che un altro ottiene da me con la forza, io conservo il diritto di riprenderglielo immedia- tamente; l’obbedienza dei sudditi dipende esclusivamente dalla capacità del conquistatore di costringere spada alla gola i vinti a piegarsi alle sue condizioni. Riconoscere questa legittima immanenza della disobbedienza nei contesti coloniali era per Locke la mi- glior difesa contro la ribellione e il mezzo probabilmente più adatto a impedirla. L’evidenza storica dimostra che il popolo maltrattato di cui si calpesta il diritto è pronto a sbarazzarsi della soma che pesa grave su di lui, poiché la volontà dell’uomo è intimamente ostinata, ribelle e avversa a ogni obbedienza. Per far sì che gli uomini diventino obbedienti è necessario dunque che essi considerino quella struttura politica – lo Stato – un luogo all’interno del quale sono garantite eccezionali condizioni di sicurezza e tutela. L’invenzione della di- versità coloniale serve a quest’obiettivo: all’inizio, spiega Locke, tutto il mondo era come l’America; lo Stato è il modo in cui l’uomo moderno civilizzato cerca di sfuggire a questo destino. In quanto eccezione, lo Stato può quindi richiedere eccezionali circostanze di obbedienza, le sole in grado di garantire ai cittadini certezza della proprietà e sicurezza nella legge. Sotto lo Stato civile europeo è necessario che all’usurpazione si aggiunga anche la tirannide, il governo privato della cosa pubblica e l’abbandono di quella volontà collet- tiva di ordine, che vivifica la politica statuale. VI. L’Antico Regime e l’illuminismo L’inizio dell’Antico regime si può situare, almeno per quanto riguarda la Francia, alla metà del XV se- colo, quando intorno alla società per ceti si organizzò un sistema di potere dotato di precise strutture istitu- zionali: il controllo sul territorio da parte del potere centrale, le prime forme di amministrazione pubblica centralizzata, la riorganizzazione delle istituzioni giuridiche, l’assolutismo monarchico. La Francia di Luigi XIV e la Prussia degli Hohenzollern sono i casi più tipici della costruzione istituzionale dello Stato assoluto d’Antico regime: una forma di potere il cui obiettivo politico complessivo fu di superare la frammentazione e la pluralità dei centri di potere tipiche del sistema feudale. Storia delle dottrine politiche | Michelangelo Ballabene 49 della grandezza di Dio. Bossuet aggiunge alle attribuzioni tipiche della regalità medievale anche la moderna caratterizzazione asso- luta del potere, con argomenti simili a Bodin. Nella figura del monarca si concentra tutta la potenza dello Stato; poiché è impossibile resistere alla sua volontà, ne risulta legittimato l’uso della forza da parte della Corona non solo nei confronti del popolo, ma anche verso i Grandi del regno, da cui più facilmente possono venire forme di ribellione. La teoria di Bossuet fu lo strumento teorico attraverso il quale la monarchia di Luigi XIV perseguì la propria strategia di assolutizzazione del potere. 1.3 Bayle Il concetto di ragione emerge con forza nel pensiero di Pierre Bayle, che lo contrappone a quello di au- torità, politica o religiosa. Egli sottopone all’indagine razionale della ragione scettica la natura umana e i modelli teorico-politici. Il problema di Bayle è la ricerca della soluzione del conflitto e della pacifica convi- venza fra gli individui, che viene affrontata dal punto di vista della questione della tolleranza. Le sue rifles- sioni, oltre che determinate dal suo scetticismo intellettuale, sono dettate da motivi contingentidi ordine poli- tico, in particolare dall’impressione suscitata dalla recova dell’Editto di Nantes a opera di Luigi XIV nel 1685. L’Editto di Fontainebleau16 sanciva definitivamente l’emarginazione politica e sociale dei protestanti in Francia; a questo Bayle rispose con un pamphlet. Bayle, come Hobbes, riconosce la necessità per lo Stato che non ci siano disordini per motivi religioni, poiché la religione è uno dei principali motivi di guerra civile. Ma della costituzione hobbesiana rifiuta la radicale antropologia negativa dell’uomo-lupo, sostituendovi una concezione più moderata fondata sullo scetticismo libertino nei confronti della natura umana. Si può leggere la sua opera come l’anello conclusivo della speculazione libertina sull’uomo e sul rap- porto fra ragione e coscienza, come il tentativo di portare a compimento alcuni motivi del pensiero pasca- liano, attraverso l’affermazione della netta distinzione che si pone fra coscienza e obbedienza. La tolleranza viene teorizzata da Bayle al fine di determinare la piena distinzione tra spirituale e temporale: l’assenza di tale distinzione porta alla rovina dell’autorità politica, della sovranità, lacerata da tensioni al suo interno. Egli propone pertanto uno Stato secolare monarchico, che non appoggi una determinata religione, ma sia al di sopra delle parti; uno Stato che deve mediare tra l’esigenza di limitare il culto pubblico e di evi- tare la diffusione di dottrine socialmente sovversive da una parte, e il rispetto della coscienza dei singoli at- traverso la tolleranza dall’altra. Bayle riconosce che il legame tra Stato e religione è per lo più determinato da interessi di potere e di co- modo: occorre salvaguardare – o recuperare – il vero sentimento religioso. La doppia valenza della richiesta di tolleranza da lui avanzata mostra come la sua prospettiva risulti essere più radicale di quella di Hobbes: Bayle giunge a separare nettamente, avanzando una proposta di tolleranza anche per gli atei, il teologico dal politico. Il problema principale è garantire la libertà di coscienza, intesa come salvaguardia del sentimento religioso contro l’idolatria provocata dalla lotta fra sette e cattolici. Ma egli va anche oltre il libertinismo e la rigida posizione hobbesiana centrata sull’assoluto rapporto di obbedienza che lega sovrano e sudditi, poiché rivendica in più la capacità di libertà propria dell’uomo che vive in società e che si serve dei propri egoismi come mezzo per costruire una società abitata da un cittadino che sappia essere al tempo stesso suddito e so- vrano. La necessità del rispetto delle regole morali fa della religione una questione della coscienza del singolo e non una questione politica. 1.4 Il Liberalismo nobiliare Accanto e contro l’assolutismo di Bossuet si sviluppò in Francia una corrente di pensiero di origine no- biliare, che sosteneva la causa dei privilegi e delle libertà rivendicati dai Parlamenti: si parla di liberalismo nobiliare. François de Salignac de la Mothe Fénelon mette in guardia il monarca dai rischi della politica asso- luta, che porta alla rovina i sudditi, vera grandezza della Corona francese. Egli critica fortemente la politica di Luigi XIV e l’interventismo economico del suo ministro Colbert, in nome del libero commercio: questo va esercitato in un’ottica evangelica di parsimonia e frugalità, non in vista della diffusione del lusso. Louis de Rouvroy, duca di Saint-Simon, criticò non tanto l’idea dell’assolutezza del potere regale, quanto 16 Storia delle dottrine politiche | Michelangelo Ballabene 50 il peso che, in conseguenza dell’assolutismo, aveva assunto la burocrazia regia. A questa egli oppose l’idea di un potere per mezzo dei consigli, una forma embrionale di decentramento amministrativo. Il pensiero di questi personaggi è accomunato dalla polemica contro l’esercizio da parte del re del suo potere, che da assoluto si è trasformato in arbitrario. A partire dagli ultimi decenni del XVII secolo, infatti, in Francia ormai nessuno mette in discussione il principio dell’assolutezza del potere monarchico; si dibatté sul modo nel quale tale assolutezza era praticata. In questi autori il potere del re è riconosciuto sì assoluto, ma non illimitato; deve essere regolato e moderato attraverso il ristabilirsi degli antichi usi e tradizioni fran- cesi, con una serie di altre istituzioni poste sotto il controllo della gerarchia nobiliare. In quest’ottica l’idea di Fénelon di riprendere la convocazione degli Stati Generali al fine di correggere l’esercizio del potere asso- luto monarchico. La discussione tra teorici – assolutismo reale vs liberalismo nobiliare - si svolse sul piano della legitti- mazione storica delle due tesi, da cui nacquero due opposte teorie dell’origine delle istituzioni politiche in Francia. Da una parte i fautori della thèse nobiliaire: difendeva le prerogative dei Parlamenti e dei corpi costituiti no- biliari, fondandole nelle antiche tradizioni di libertà e di nobiltà dei Franchi. Questa tesi fu fatta propria dai Parlamenti alla metà del XVIII secolo, che la radicalizzarono fino a sostenere che i Parlamenti erano storica- mente i rappresentanti del popolo contro i rischi di degenerazione dispotica della monarchia. Dall’altra parte i sostenitori della thèse royale: sostenevano la legittimità della monarchia assoluta francese sulla base della sua diretta discendenza dai re franchi e della continuità, per traslazione, dell’imperium da Roma a Luigi XIV. I Franchi non erano stati in origine liberi e indipendenti, ma si erano sottomessi al loro re con lo stesso grado di ubbidienza dei Galli, e avevano rispettato la civiltà e le leggi dei Romani. Entrambe le teorie rivelano che nel Settecento emerge il nesso che lega narrazione storica e teoria poli- tica, poiché il sapere storico diventa una delle armi di lotta politica, dal momento che ci si serve della storia quale fondamento della legittimazione del potere e dello Stato 2. Montesquieu La discussione sui limiti da porre all’esercizio del potere monarchico contro le degenerazioni dispotiche è ripresa da Charles-Louis de Secondat, barone di La Brède e di Montesquieu. Nelle sue opere questo tema esce dal riferimento specifico alla situazione francese, per entrare in una riflessione universale sulle forme di governo. La definizione di spirito generale17 è indicativa dell’operazione compiuta da Montesquieu: un allarga- mento dell’orizzonte della prospettiva del pensiero politico moderno, che va ad abbracciare le cause più pro- fonde che sono all’origine e regolano il meccanismo dello Stato. La sua analisi fa entrare nel campo del pensiero politico un metodo capace di determinare un nuovo concetto di legge, cioè di cogliere i rapporti necessari che derivano dalla natura delle cose. È un metodo per spiegare la stretta relazione che intercorre tra leggi naturali e leggi umane. L’opera di Montesquieu è un quadro di ricostruzione storico-sociale delle istituzioni umane: gli uomini sono per lui esseri sociali, il che lo pone in polemica con la visione hobbesiana dello stato di natura; nell’analisi sociologica di Montesquieu gli ordini politici non si costruiscono artificialmente, ma evolvono lungo il corso della storia. È presente anche il filo rosso del discorso politico moderno, la necessità cioè di ordinare politicamente il conflitto, che è affrontata attraverso il concetto di legge. Per quanto sociali, gli uomini non potrebbero vivere senza le leggi, che sono ciò che sorregge la trama dei loro rapporti. Viene riconosciuta la necessità che si sia usciti dallo stato di natura per garantire che la socialità naturale divenga reale e che dalla lotta per il potere possa uscire una stabile obbligazione politica. In questo quadro si delinea l’originale teoria delle forme di governo, elaborata secondo la dialettica di natura e principio. “Fra la natura del governo e il suo principio vi è questa differenza, che la sua natura è ciò che lo fa essere quello che è, il suo principio ciò che lo fa agire.” Le forme di governo riconosciute legittime da Montesquieu sono tre: quella monarchica, quella repub- blicana e quella dispotica. La natura del governo repubblicano è che il popolo detenga il potere sovrano, 17 “Molte cose governano gli uomini: il clima, la religione, le leggi, le massime del governo, gli esempi dell’antichità, i costumi, le usanze; se ne forma uno spirito generale che ne è il risultato.” Storia delle dottrine politiche | Michelangelo Ballabene 51 quella del governo monarchico che il principe abbia il potere sovrano e lo eserciti secondo leggi stabilite, quella del governo dispotico che un uomo solo possa governare arbitrariamente. Il principio che muove la repubblica democratica è la virtù; quello della repubblica aristocratica è la mode- razione; quello della monarchia è l’onore, mentre la paura è il principio del dispotismo. Con la legittima- zione del dispotismo Montesquieu allarga il proprio sguardo di scienziato sociale fino a comprendere anche l’Oriente: un punto di vista esterno sull’Europa, essendo l’Oriente il suo specchio negativo. Il dispotismo orientale diventa infatti un mezzo per criticare la monarchia assoluta. Le considerazioni svolte a proposito del dispotismo servono a ricordare che questo è sempre una minac- cia presente anche per gli Stati occidentali e per la loro libertà. La libertà politica è quella condizione che garantisce la sicurezza del cittadino e che viene tutelata sia attraverso norme penali e imposizioni di tributi, sia attraverso un sistema di governo organizzato in modo tale da non permettere a nessuno di abusare del po- tere. Ciò è possibile solo se si praticano forme di distribuzione dei poteri contro i pericoli che possono prove- nire dalla concentrazione di tutte le funzioni in un unico organo o persona. Montesquieu studia le forme at- traverso il tema dei limiti del potere politico e quello dell’autonomia e dell’indipendenza dei tribunali. In questo senso si spiega l’elogio alla costituzione inglese: la forma costituzionale della monarchia inglese ga- rantisce la libertà del cittadino attraverso la distinzione delle funzioni dei poteri, che sono separate e recipro- camente bilanciate secondo il modello del balance of power. Condizione ideale della libertà politica sarebbe che i tre poteri – legislativo, esecutivo, giudiziario – rimanessero in stato di inazione in un equilibrio per- fetto. Lo sguardo storico-comparatistico non consente all’autore di proporre il modello inglese in quanto tale alla Francia: nel caso francese Montesquieu si erge a difensore della funzione di controllo e limitazione svolta dai Parlamenti nei confronti del potere monarchico. L’ideale di monarchia moderata gli ispira, nel caso francese, la teoria della necessità dei corpi intermedi, indispensabile baluardo della libertà della na- zione. L’appoggio ai Parlamenti va considerato all’interno della sua concezione della monarchia quale forma di governo moderato, auspicabile perché l’uomo nella civiltà occidentale non deve essere governato dalla volontà di uno solo, ma si devono ricercare freni e contrappesi al potere, per garantire le libertà dell’indivi- duo. In questo quadro si inserisce la tematica della tolleranza: Montesquieu si ritrova su posizioni vicine a quelle di Hobbes. Entrambi, infatti, sentono il problema di evitare sommovimenti e conflitti all’interno dello Stato e perciò stabiliscono uno stretto rapporto fra leggi e religione. Montesquieu, pur ritenendo auspicabile l’unità religiosa all’interno dello Stato, afferma la tolleranza, concessione del sovrano al pluralismo reli- gioso, come male minore, quando si manifestino conflitti religiosi in seguito alla presenza di diverse forme di culto all’interno dell’ordine politico. Rimane il dovere dello Stato di controllare che non si introducano nella compagine politica sempre nuove religioni. Ciò segna il superamento della concezione libertina della religione: Montesquieu si inserisce con la riven- dicazione della tolleranza nella linea del moderno pensiero politico liberale. Tuttavia, egli oltrepassa la posi- zione di Bayle, e dà alla tolleranza una connotazione di elemento di civiltà. La sua tolleranza assurge a va- lore civile ed etico, ed è rivendicata anche in nome del lume naturale della ragione. 3. L’assolutismo in Prussia Il tentativo del principe di creare uno Stato nazionale gestito dalla volontà centrale e contro la disper- sione dei poteri pubblici, tipica dell’era feudale, è un elemento comune tra l’esperienza dell’assolutismo francese e quella tedesco-prussiana. Le dinamiche che segnano l’assolutismo dell’Antico regime in Prussia sono tuttavia diverse. Gli Hoen- zollern si trovarono a dover fronteggiare, oltre che la resistenza dei ceti e dei corpi istituiti, anche l’Impero. Il contrasto in area tedesca fu dunque fra Impero e territori: l’opera di razionalizzazione amministrativa, politica e giudiziaria fu realizzata nei diversi territori, mentre l’Impero manteneva – almeno formalmente – la struttura e le dinamiche feudali. A partire dal XVII secolo i giuristi e i teorici politici di area tedesca iniziarono a riflettere sulla forza dello Stato territoriale. Nella discussione politica che si sviluppa nell’ambito di quelle che verranno definite scienze camerali, e tra i teorici tedeschi della Ragion di Stato, emerge il tema del bene e dell’ordine della collettività contro ogni atteggiamento individualistico. Altri temi centrali sono la questione della sovranità e della polizia. La forma e la pratica dell’amministrazione vengono denominate polizia, attività che fino alla metà del secolo è controllata dai ceti; con la trasformazione della polizia in cameralistica, si assiste in Prus- sia a una lenta ma continua sottrazione di competenze amministrative ai ceti, e alla centralizzazione di questi Storia delle dottrine politiche | Michelangelo Ballabene 54 potere sempre sul punto di trasformarsi in arbitrio – come Pufendorf interpreta il Leviatano; la fiducia che lega sudditi e sovrano deve essere basata su di uno scambio reciproco. Pufendorf risulta su posizioni non molto distanti da quelle di Hobbes. Rispetto al filosofo inglese, egli non fa altro che separare temporalmente i due momenti della costituzione del corpo politico e dell’istituzione della volontà sovrana. La sottomissione di cui parla, in definitiva, non è la sottomissione di tipo feudale, ma sta ad indicare la riduzione della volontà dei singoli a quell’unica volontà sovrana che si manifesta attraverso il comando razionale della legge, emanata dal superiore e garantita dalla forza che gli è stata delegata per patto. “L’illuminismo è l’uscita dell’uomo da una condizione di minorità di cui è egli stesso responsabile. Sapere aude!” È questo il motto dell’illuminismo. Così Kant nel 1784 forniva la risposta alla domanda: che cos’è l’illu- minismo? tratteggiandone il motivo centrale: il coraggio del sapere, un sapere non trascendente, ma proprio di ogni uomo dotato di ragione, attraverso il cui uso l’uomo deve strutturare autonomamente la propria esi- stenza. L’illuminismo va contestualizzato storicamente, chiedendosi quando inizia e che cos’è il secolo dei Lumi: si può assumere come data di inizio il 1680 – anno dell’apogeo dell’assolutismo di Luigi XIV – quando si palesa già la crisi di tutta una civiltà che sfocerà nella Rivoluzione francese del 1789. 5. I concetti dell’illuminismo Furono gli illuministi francesi, i philosophes, a scendere in campo contro la tradizione e l’autorità, in nome del progresso e di una riforma razionale della società. Per la prima volta la filosofia dei Lumi pensa di potere realizzare nella pratica quell’ordine già presente, potenzialmente, nelle teorie del razionalismo mo- derno di Cartesio, Hobbes, Locke, Spinoza, Newton e Bayle. Essa è innanzitutto una filosofia morale e poli- tica, una filosofia militante: si tratta di un ordine nuovo, che parte dalla consapevolezza della necessità di ridare all’uomo cartesiano un posto riconoscibile nell’universo, che è pensato a partire solo dall’esperienza umana liberata dai lacci della tradizione. I due termini che meglio definiscono il concetto di ragione sono critica e potere. La ragione illuminista opera infatti come critica: critica dell’uomo, del reale, della tradizione e della filosofia del passato, presen- tandosi in tal modo come uno strumento di forte dinamismo. D’altra parte, il potere, inteso come la capacità di compiere un’azione21, è l’unica capacità propria dell’individuo moderno, una volta liberatosi dal dominio dell’autorità trascendente. L’uomo conosce solo attraverso le proprie sensazioni: la sia mente è una tabula rasa e non esistono in lui idee innate. Dunque, egli è totalmente libero nelle proprie capacità conoscitive e ciò gli permette di eserci- tare il potere razionale, di elaborare la realtà che lo circonda senza più dipendere da un modello o da una legge trascendente. Ciò porta alla determinazione dei nuovi concetti di natura – interpretata da Newton fisi- camente, come moto sottoposto a leggi razionali – e di natura umana. Tale concezione pone il problema di definire nuovamente il luogo e il ruolo dell’uomo nell’universo, dato che si supera il dogma della Provvidenza divina. Ma così si apre un nuovo dibattito, quello sul male, uno dei problemi centrali della speculazione illuministica. Il problema è quello di determinare una nuova etica individuale e sociale, che indirizzi l’uomo e lo tragga fuori da quella condizione di solitudine ango- sciosa determinata dalla fine della tradizione. È l’ideologia del progresso, il cammino da compiere lungo la via della ragione al fine di trionfare sulle tenebre del male, per ricostruire una nuova idea di uomo e di so- cietà. Si configura di fatto una nuova fede, un vangelo della ragione e del progresso. I tre precetti che guidano il XVIII secolo – fiducia nella ragione, ottimismo verso il futuro e sentimento di umanitarismo – sono la lai- cizzazione delle tre virtù teologali del cristianesimo: fede, speranza, carità. Torna al centro del dibattito la questione del concetto di religione e della funzione che essa ha nel determi- nare la condotta umana: l’illuminismo riflette sul problema di come giustificare la presenza del male nel 21 In maniera hobbesiana Storia delle dottrine politiche | Michelangelo Ballabene 55 mondo. Questo è il tema della teodicea22. Ciò dimostra la manifesta incapacità dell’uomo a dare risposte de- finitive ai problemi della conoscenza, della morale, della politica, che produce lo scetticismo. Il movimento dei Lumi non fu tuttavia un movimento unitario, tanto che se ne possono distinguere di- versi tipi23 geografici, tutti con peculiarità proprie, ma il movimento guida fu quello dei Lumières francesi. Costante in tutti è la riflessione sulla libertà: Dio ha creato l’uomo libero e come tale lo ha lasciato nel mondo, in balia della sua ragione e delle sue passioni; il problema è allora sapere usare tale libertà e giun- gere a determinare fin dove essa si estende o debba estendersi. Da qui nascono le dispute tra i sostenitori del libero arbitrio e quelli delle teorie deterministiche. Avranno origine, a partire da questo tema, anche le discussioni inerenti più direttamente la sfera pratica, influenzando in tal modo i diversi orientamenti politici. Prodotto esemplare del movimento illuminista è l’immagine moderna dell’intellettuale, di cui i philoso- phes saranno i primi esempi: essi interpretano la funzione di custodi di valori. Alle autorità tradizionali si sostituisce un nuovo corpo di giudici della società, che ne sono al tempo stesso i portavoce. A partire dalla metà del XVIII secolo si crea, in definitiva, una nuova coscienza all’interno del gruppo dei philosophes, che prendono coscienza di essere un “partito”, che decide di servirsi di questa sua condizione per influenzare sia il potere politico sia la società. In questo clima, Jurgen Habermas ha individuato i primi fermenti della nuova sfera dell’opinione pub- blica, un luogo di discussione e diffusione delle idee, connotato da una relativa libertà di giudizio, che fa sentire la propria voce pubblica attraverso la diffusione di gazzettes e giornali. Dopo il 1780 si determinerà l’esaurimento della funzione critica dei parti philosophique; con la Rivoluzione si assisterà poi a un’ulteriore trasformazione nella funzione del philosophe, che diventerà il deputato, il rappresentante non tanto della so- cietà colta, ma della nazione. Nell’ideologia illuministica l’universalismo, nella sua proiezione esterna diventa il processo di civilisa- tion che investirà nell’ottica del progresso tutti i popoli. Emerge una visione che dimostra, nel suo rappor- tarsi con ciò che è all’esterno e quindi altro, l’incapacità per la dottrina dei Lumi di riconoscere le differenze. 6. La politica e i Lumi Nelle opere politiche degli illuministi ritroviamo tutti i temi del moderno pensiero politico24. Essi però vengono trattati non in maniera omogenea, coerente e uniforme, bensì in presa diretta, a partire cioè dalla contingenza storica diventando parte di una discussione che verte essenzialmente sulle istituzioni politiche e sulla convivenza sociale. È il caso dell’argomentazione sul diritto naturale: negli scritti dei philosophes si ritrova una sopravvivenza di questa tematica che per lo più viene però usata come un artificio retorico. La loro riflessione è infatti attenta, più che alla teoria, alla ricaduta pratica che determinate idee hanno nel campo dell’azione sociale. La critica illuminista alle strutture del potere rivela la crisi di una forma istituzio- nale – l’assolutismo dell’Antico regime – e di una società caratterizzata ancora da una struttura gerarchica di tipo feudale. Quella settecentesca è una società in profonda trasformazione - sta nascendo la borghesia – fon- data su nuove forme di rapporti economici strettamente legati alle dinamiche del lavoro industriale Di fronte a ciò il sistema dell’Antico regime non appare più in grado di garantire la stabilità dell’ordine politico. Dal XVIII secolo la politica moderna conosce la concretezza della società, però prima di tutto pensata dai philosophes come un ambito che deve essere regolato dallo Stato. Il problema politico è la necessità di individuare un centro di potere unico e stabile; ciò che cambia radicalmente è appunto questo centro, che passa dallo Stato assoluto a un nuovo regime che affianca al potere sovrano dello Stato un ambito più artico- lato di forze economiche, politiche, intellettuali. Questo pensiero complica il quadro del razionalismo giu- snaturalistico: la politica non è più appannaggio solo dell’istituzione di governo, ma nello spazio che sta tra lo Stato e l’individuo si pone un’entità nuova, la società. Da qui la continua azione sociale, di intervento pra- tico e teorico nell’amministrazione dello Stato e nell’esercizio della giustizia, che è alla base dell’operazione dell’Enciclopedia, condotta da Diderot e d’Alembert. Se in linea teorica il pubblico a cui si rivolgono gli illuministi è costituito da tutti gli individui razionali, i Lumi hanno una visione negativa del popolo, considerato irragionevole, a cui perciò non viene riconosciuta ancora rappresentanza politica, ma che deve essere guidato e istruito. Solo con la dottrina rousseauiana della 22 Giustificazione del male a partire dalla volontà divina, fonte assoluta di giustizia, ma che si esprime attraverso moda- lità spesso incomprensibili per la razionalità umana. 23 Encyclopédie (Diderot, d’Alembert; Voltaire e Rousseau; Materialisti; radicali. 24 Diritti naturali, giustizia, progresso, libertà, ragione, natura, tolleranza, legge, sovranità, nazione. Storia delle dottrine politiche | Michelangelo Ballabene 56 sovranità del popolo e la piena identificazione operata da Sieyes fra popolo e nazione nel Terzo stato tale posizione verrà superata. Dalla riflessione politica ne nasce un’altra, costantemente tesa tra due poli opposti: l’utopia di una so- cietà governata dalla ragione, e il sentimento della necessità di riformare, secondo ragione e giustizia, l’esi- stente, a partire dalla constatazione delle reali forze in campo. In questo si spiega il peculiare rapporto dei philosophes francesi con i sovrani assoluti. Come tutte le istituzioni, anche la monarchia fu sottoposta a cri- tica a partire dalla dottrina dei diritti naturali degli individui, che in quanto preesistenti le forme politiche – e dunque anche il potere dei re – devono essere tutelati. Lo Stato a cui pensano gli illuministi è fondato sui principi naturali di libertà e uguaglianza formale e dunque sul piano teorico è inconciliabile con la dottrina del potere assoluto del re. Però, durante il XVIII secolo si istituì un rapporto di collaborazione fra philoso- phes e sovrani assoluti attraverso l’incontro tra le riforme amministrative, giudiziarie ed economiche poste in essere dai sovrani europei, e i principi illuministici. L’intervento riformatore si diresse in particolare con- tro i privilegi ecclesiastici: nasce in questi anni l’idea della necessità di sottoporre al controllo statale l’edu- cazione, sottraendola alla Chiesa. La pratica delle riforme fu molto blanda nei confronti della feudalità laica, a testimonianza della diffi- coltà della modernità riformista nello scardinare antichi privilegi. Quando, negli anni Ottanta, la stagione di riforme fallì, fu palese l’impossibilità teorica e pratica di conciliare i dettami della Ragion di Stato e un’idea di politica fondata sulla potenza, con una visione della politica che mirava a realizzare una nuova forma di potere. D’altra parte, gli stessi monarchi europei dovettero affrontare serie di difficoltà nell’applicazione delle riforme, e non proseguirono su questa via per timore del caos politico e sociale che tali mutamenti25 avrebbero prodotto. Questa impasse fu la causa prossima della rivoluzione, scoppiata pochi anni dopo. 7. La tolleranza Politica e religione rimasero strettamente legate per tutto il XVIII secolo, e nello stesso periodo non vi è parola pronunciata dagli illuministi che non abbia una forte connotazione antiecclesiastica. La polemica è nei confronti di tutte le religioni confessionali che impongono i propri dogmi oscurando la ragione degli in- dividui, ma in particolare l’attacco è rivolto contro la Chiesa cattolica e l’alleanza fra trono e altare su cui si fondava l’assolutismo. Al dogmatismo delle religioni storiche si oppongono la religione naturale e l’affer- mazione della tolleranza. Il tema della religione naturale fu elaborato in Inghilterra in ambienti deistici e diffuso in Europa da Voltaire attraverso le Lettere inglesi. La concettualizzazione lockiana della tolleranza e, in particolare, il pro- blema della vera religione con l’implicita distinzione fra credere e conoscere, fu uno dei motivi ispiratori del deismo, dottrina filosofica da distinguere dal teismo26: solo con la Critica della ragion pura di Kant si arri- verà a una loro chiara distinzione. Il movimento deista si sviluppò in Inghilterra alla fine del Seicento e il suo portavoce fu John Toland. Egli rifiutava della Scrittura tutto ciò che non si accorda con la ragione e col principio dell’uniformità della natura; conseguentemente, affermava quale unico vero credo quello nella religione naturale. Questa è priva di dogmi e si basa sul riconoscimento dell’esistenza di un Essere Supremo, assolutamente razionale, creatore del mondo terreno, ispiratore negli uomini di una ragione e di una morale comuni, perché naturali, e quindi giuste; un Essere che però non interviene mai direttamente nelle vicende umane. Il deismo si presenta come un sistema rigidamente intellettualistico, ritenendo i miracoli e i misteri reli- giosi i veri nemici della fede religiosa, poiché ne offuscano il reale contenuto. In questo quadro il cristiane- simo non è più letto come una religione storica, ma viene interpretato quale religione naturalmente eterna, che afferma la necessità della tolleranza universale basata sul riconoscimento della comune natura degli uo- mini. La polemica deista assume pertanto una connotazione politica; infatti, le affermazioni dei deisti erano tese a negare l’autorità temporale e politica dell’episcopato, e a fondare una nuova etica laica per i nuovi ceti borghesi da sostituire alle sopravvivenze dell’antico assetto gerarchico della società. I temi del deismo divennero centrali nella lotta per la tolleranza, condotta in primis da Voltaire. L’epoca dei Lumi può essere racchiusa anche fra il 1689 e il 1787: dall’anno di approvazione in Inghilterra del Toleration Act alla promulgazione dell’Editto di tolleranza verso i protestanti da parte di Luigi XIV. La rivendicazione della tolleranza è centrale nella lotta politica contro l’infame (oscurantismo, fanatismo…) per il raggiungimento delle riforme giuridiche, amministrative e sociali proposte dai Lumi al fine di realizzare 25 Ad esempio, l’abolizione della servitù, Federico II e Caterina II 26 Credenza in un Dio personale, trascendente, creatore, in qualche modo chiaramente determinato. È una dottrina che si oppone al panteismo e al deismo Storia delle dottrine politiche | Michelangelo Ballabene 59 che costituisce la vera origine della ricchezza. Le loro posizioni portavano inevitabilmente a una critica del sistema sociale e politico che non consentiva una libera attività di investimento: garante di questa è, secondo Quesnay, un’unica autorità sovrana, che ha solo il compito di emanare le leggi positive. Questa teoria politica viene definita da Pierre-Paul Le Mercier de la Rivière come dispotismo legale: egli sostiene che nel monarca devono concentrarsi il potere legislativo e quello esecutivo al fine di rendere possibile la realizzazione positiva dei dettami della natura, enunciati nella dottrina fisiocratica, e la conse- guente felicità dei sudditi, identificata nella possibilità di accrescere la libertà e la proprietà individuali. Ben- ché si preveda l’istituzione di una magistratura indipendente che deve controllare l’accordo tra leggi e ordine naturale, è evidente che il progetto politico della fisiocrazia andava contro la teoria della separazione dei po- teri e l’esistenza dei corpi intermedi. 8.4 L’illuminismo materialistico e radicale Posizioni più radicali furono assunte da Claude-Adrien Helvétius e d’Holbach. In De l’esprit Helvétius sostiene una visione della natura umana strettamente materialista, sensista e orientata all’utilitarismo. Ogni comportamento dell’uomo è diretto dalla legge dell’interesse. Egli afferma la naturale uguaglianza degli uo- mini, fondandola sulle identiche capacità intellettuali di riconoscere quello che è il proprio utile. Viene dun- que espresso il compito del legislatore di operare una vasta opera di riforma al fine di accordare l’interesse privato e quello pubblico. Obiettivi polemici sono il fanatismo religioso e il dispotismo, a cui viene opposta la necessità di un sistema educativo rigorosamente egualitario e una forma di governo in cui i cittadini ubbi- discano solo alle leggi che si sono dati. Nel Sistema della natura di d’Holbach troviamo i principi della filosofia materialista. L’utile è la legge che regolala condotta degli uomini, tesa alla ricerca del piacere, identificato con la felicità propria e degli altri: la felicità è dunque la base del contratto che lega sovrano e nazione. La politica deve perciò fondarsi sulla natura, l’esperienza e l’utilità generale. D’Holbach non riconosce però un’uguaglianza originaria fra gli uomini; la ricerca della felicità è anzi fondata sulla consapevolezza dell’inuguaglianza, che porta gli uomini ad aiutarsi reciprocamente. La politica si fonda solo sulla conoscenza della natura e sulla legge di natura che spinge alla felicità. Tuttavia, d’Holbach non chiede una rivoluzione fondata su un radicale egualitarismo, ma pensa all’emancipazione degli individui attraverso un riformismo in senso rappresentativo dell’assetto costi- tuzionale dello Stato. È centrale che egli veda il sovrano come una figura essenzialmente umana, che trova la propria giustificazione nell’essere depositaria della delega del potere da parte del corpo sociale. La ri- forma politica prevede la libertà di opinione religiosa e di espressione, la ridistribuzione del carico fiscale, un nuovo sistema educativo; in linea teorica, il riformismo di d’Holbach va in direzione della sovranità po- polare, ma dal punto di vista pratico la rappresentanza politica a cui pensa è quella dei proprietari terrieri, che di fatto esclude i due terzi degli abitanti della Francia del tempo. Nel movimento illuminista francese si sviluppò inoltre una linea di pensiero che poneva al centro della riflessione la necessità di realizzare un’assoluta uguaglianza fra gli uomini. Appartiene a questa corrente il Testamento di Jean Meslier: in questa opera egli affronta la questione del rapporto tra religione e politica, e afferma una filosofia atea, proclamata in nome della fratellanza e dell’egualitarismo che accomuna gli uo- mini e il cui riconoscimento solo può liberare l’uomo dal giogo dell’oppressione politica e della supersti- zione. Elementi di socialismo o protocomunismo si trovano anche in Morelly, la cui opera influenzò l’ala più radicale della Rivoluzione e fu tra le fonti della Congiura degli Eguali di Babeuf. Lo stato di natura, storica- mente esistito secondo Morelly, era caratterizzato da un’assoluta uguaglianza e comunità di beni, distrutte dall’introduzione della proprietà privata. Per ripristinarlo egli pensa a uno Stato fondato sull’abolizione della proprietà privata, fatti salvi i mezzi per i bisogni e i lavori quotidiani e sul dovere di ogni cittadino di contri- buire all’utilità generale. Il principio che regge questo Stato è la Ragione vuole, la Legge comanda, che de- termina una visione fortemente coattiva della legge. La critica della proprietà quale fonte dei mali della società è presente anche in de Mably. Analizzando l’uomo che vive in società, egli vi trova una continua ricerca del proprio benessere ed è per tale motivo che la politica deve avere un ruolo centrale, perché essa è la scienza che permette il maggior benessere collettivo. Viene proposta una forma di governo repubblicana ispirata alla teoria platonica e alla costituzione di Sparta. Nel pensiero di Mably è costante la tensione fra utopia politica e realtà storica: ecco perché nell’esperienza del Settecento egli ritiene realizzabile la sua utopica repubblica se la si pensa nella forma di una monarchia repubblicana, fondata su una forte limitazione del potere esecutivo, sorta di qeuilibrio istitu- zionale fra i due poteri. Egli afferma anche la necessità della rappresentanza politica della nazione; tuttavia, Storia delle dottrine politiche | Michelangelo Ballabene 60 il grido della nazione può sempre revocare ogni mandato rappresentativo. Di fatto, sei anni prima della presa della Bastiglia, Mably teorizza con queste parole la possibilità della rivoluzione. Il radicalismo fu portato alle conseguenze estreme negli scritti di Sade, che critica l’illuminismo svelan- done il volto nascosto, cioè la violenza che domina il mondo naturale e l’inevitabile nichilismo e pessimismo che colpisce l’individuo che su ciò riflette. Nella sua opera più importante, La filosofia nel boudoir, Sade contesta l’utopia materialista e atea di d’Hobach e Helvétius: all’aspirazione a costruire una società politica in cui si concilino virtù dei consociati e felicità pubblica, egli oppone una visione nichilista, dura e violenta della natura, e quindi della natura umana. Il tema illuminista della felicità viene identificato con il piacere, ma il piacere umano è sempre e soltanto violenza: il godimento deriva dal dolore che si procura all’altro. Le passioni appaiono perciò indomabili anche per i precetti di una ragione liberatasi dai vincoli della teologia e dall’autorità e fattasi umana, quale è quella degli illuministi. La rivoluzione è espressione violenta della na- tura che costantemente nel suo moto distrugge e ricrea forme di vita. Sade oppone all’ordine giuridico impo- sto dalla rivoluzione, che aggiunge alla violenza naturale quella prodotta dall’iniquità della legge, un’idea di anarchia della società, fondata sull’abolizione del diritto di proprietà e su di un numero esiguo di leggi. 9. La Germania Parallelamente alle Lumières francesi si sviluppò nei territori tedeschi un’Aufklärung (rischiarimento) attenta ai contenuti politici del dibattito illuministico. Caratteristica degli illuministi tedeschi è la collabora- zione stretta con i sovrani: la progressiva emancipazione della ragione umana dal fanatismo può avvenire solo se guidata da un sovrano assoluto che, in quando primo magistrato dello Stato29 sa interpretare il diritto naturale attraverso leggi positive tese a realizzare il benessere e l’ordine dello Stato e dei sudditi. L’illumini- smo in Germania venne influenzato dai principi cameralistici di razionalizzazione e centralizzazione del co- mando sovrano, e dalle teorie della scuola del diritto naturale. L’autore più importante dell’illuminismo tedesco è Kant, ma tra i principali esponenti troviamo Thomasius, Lessing e Wolff. Comuni a tutti gli autori sono i principi della tolleranza religiosa, ribadita da Gotthold Lessing nel dramma Nathan il Saggio, del 1789. In quest’opera, Lessing riadatta la novella dei tre anelli del Decame- rone: narra che un re, morendo, lasciò un anello a ciascuno dei suoi tre figli, assicurando a ognuno che egli è l’unico erede del prezioso bene; i tre figli combattono l’uno contro l’altro finché non riconoscono la comune derivazione dal medesimo padre di tutti e tre gli anelli. Gli anelli sono la raffigurazione delle tre religioni monoteistiche, e l’intento di Lessing è di dimostrare l’assurdità della lotta che le religioni conducono l’una contro l’altra, e la necessità che si giunga a un reciproco riconoscimento delle religioni come espressioni – ugualmente legittime - di una sola volontà divina. Oltre alla tolleranza, sono comuni negli autori tedeschi anche il riconoscimento di un’equa amministra- zione, della giustizia, la garanzia del rispetto dei diritti naturali e la connessione che si individua fra l’esi- genza del benessere (Wohlfahrt) e quella di ordine, e di conseguenza, il riconoscimento del dovere di essere felici. Il motivo del benessere e della felicità dei sudditi attraversa tutta la riflessione politica tedesca del XVIII secolo, e solo Kant polemizzerà contro questa concezione eudemonistica30 della politica. Dominante nella riflessione politica di Christian Thomasius è il concetto di felicità. Egli critica la teo- ria di Grozio della socialità come istinto naturale e afferma invece la strumentalità (e dunque artificialità) dell’associazione fra gli individui, in quanto orientata a realizzare la felicità dell’uomo. Se lo scopo della so- cietà è consentire all’individuo di realizzare le proprie inclinazioni, scopo dello stato è quello di permettere e mantenere l’esistenza della società contro il ritorno nel disordine dello stato di natura. Thomasius dedica at- tenzione anche alla questione del diritto: nell’agire dell’uomo individua tre ambiti; quello interno, regolato dalla legge di natura31; quello esterno32; quello della prudenza33. Emerge allora la percezione di quello spa- zio, pubblico ma separato e distinto dallo Stato, che nel secolo successivo verrà determinato con il concetto di società civile. In Christian Wolff è centrale il tentativo di dedurre dal dovere il diritto – anche quello naturale – che così non risulta derivato dalla ragione individuale. Secolarizzando la teoria di Leibniz, Wolff afferma il 29 Secondo Federico II 30 L'eudemonismo è la dottrina morale che riponendo il bene nella felicità (eudaimonia) la persegue come un fine natu- rale della vita umana 31 Che è morale e sede di virtù 32 Dominato dalla coazione della legge positiva emanata dal sovrano 33 Comprende le azioni private che possono essere sanzionabili dall’opinione pubblica pur non essendo giudicabili dalla legge Storia delle dottrine politiche | Michelangelo Ballabene 61 benessere quale motore che guida l’ordine politico. Il singolo ha il dovere naturale di raggiungere il benes- sere: a questo scopo, attraverso un contratto viene istituito lo Stato, che ha come compito quello di garantire ai sudditi la possibilità di realizzare il proprio dovere. È la teoria dello Stato di polizia, sintesi di ordine e di benessere, in cui il monarca con la propria polizia regolamenta attraverso una serie di norme ogni aspetto della vita dei sudditi, in vista del benessere e della felicità di tutta la società. 10. L’Italia Anche per l’Italia si può parlare di un movimento illuminista, diffuso in tutta la penisola, ma in partico- lare in due grandi centri: Milano e Napoli. Due caratteristiche segnano il movimento italiano: la diretta parte- cipazione dei suoi principali esponenti al governo delle proprie città, e la necessità di stabilire un rapporto di confronto politico con la Chiesa cattolica. Tutti gli illuministi italiani, infatti, affermano la necessità di una laicizzazione della vita politica italiana. Tema comune è il bisogno di riformare e modernizzare ogni ambito della vita politica: ciò può essere compiuto solo in presenza di una forte collaborazione tra governanti rifor- matori e ceti colti. Una delle esposizioni teoriche più importanti è quella che si trova in Della pubblica felicità, oggetto de’ buoni principi di Ludovico Antonio Muratori. Il tema illuministico della felicità viene declinato da Mura- tori alla luce del tema evangelico della carità e dell’amore del prossimo, che da un punto di vista politico viene letto come volontà del bene pubblico. Tutti dunque devono collaborare al miglioramento del mondo. La discussione napoletana sottolinea la necessità di costituire una nuova classe dirigente, attenta a quelli che sono i nuovi indirizzi delle scienze pratiche – politica ed economia. In particolare, Antonio Genovesi, in Lezioni di commercio, ossia di economia civile, sostenne la necessità di una riforma del commercio in vista dell’arricchimento del ceto medio attraverso misure legislative di uguaglianza fiscale contro gli ingiusti pri- vilegi ecclesiastici e baronali. Gaetano Filangieri proponeva una riforma della legislazione che interessava ogni aspetto della vita della società. Nella sua opera dominavano il principio dell’uguaglianza davanti alla legge, la necessità di abolire il maggiorascato34 per favorire la crescita della piccola proprietà fondiaria, la richiesta dell’educa- zione statale e la liberalizzazione della stampa. Egli pensa ancora che la spinta riformatrice debba provenire ed essere diretta dalla monarchia, ma prevede uno spazio anche per l’opinione pubblica, dove hanno ruolo centrale i filosofi, che debbono controllare l’attività dei sovrani. Milano fu centro di elaborazione e produzione illuminista, poiché un gruppo di uomini dell’élite cultu- rale si riunì nell’Accademia dei Pugni e diffuse le proprie idee grazie a Il Caffè, rivista dei fratelli Verri. Ani- matore della cultura milanese fu Pietro Verri, la cui opera aveva l’obiettivo politico di collaborare con il sovrano austriaco in una reale opera di riforme, che portasse alla realizzazione del governo della legge con- tro la tradizione e i privilegi dei corpi intermedi. Nel suo periodo di funzionario alle finanze nella Lombardia austriaca, egli cercò di attuare i principi che aveva esposto nelle Meditazioni sull’economia politica. Verri vede alla base dell’unione fra gli individui un contratto sociale stipulato in nome della libertà; ciò lo porta a sostenere un legame fra libertà politica e libertà economica. Gli uomini sono guidati in ogni ambito della vita dalla ricerca dell’utile e del piacere. Egli prevede anche una riforma della giustizia. I motivi centrali del pensiero degli uomini del Caffè mostrarono già nel decennio 1770-1780 la distanza dal reale obiettivo del riformismo austriaco, teso invece solo a un’opera di centralizzazione del potere. Diverso è il caso di Cesare Beccaria. In Dei delitti e delle pene (1764) Beccaria aveva affrontato la questione della riforma del diritto penale, affermando una concezione della pena più rispettosa della dignità umana e proporzionata al reato commesso. Al fondo della sua riforma 35 sta una visione utilitaristica e con- trattualista del corpo sociale, fondata su un principio di egualitarismo di tutti di fronte alla legge in polemica con i privilegi della nobiltà. Le leggi dello Stato riformato di Beccaria devono garantire la massima felicità possibile, e il sovrano è inteso quale depositario e garante delle leggi stesse. 10.1 Vico Giambattista Vico era contro la ragione cartesiana e il metodo delle idee chiare e distinte: nella Scienza Nuova egli afferma una ragione che comprende sia l’azione dell’uomo, che è creatore della propria storia, sia la guida della Provvidenza divina. Vico rifiuta l’idea di un progresso lineare nella storia umana: questa è 34 Il diritto di maggiorasco (in latino majoratus, in spagnolo mayorazgo) era, nell'antico sistema successorio, il diritto del primogenito di ereditare tutto il patrimonio familiare. 35 Che prevede: chiarezza delle leggi, separazione tra potere legislativo e giudiziario, pubblicità del processo, presenza di giurati… Delinea i fondamenti giuridici dello Stato di diritto. Storia delle dottrine politiche | Michelangelo Ballabene 64 fine di salvaguardare la convivenza civile, affermando al tempo stesso l’imprescindibile dovere di salvaguar- dare la libertà del singolo. La nuova considerazione humeana del rapporto natura umana-ragione-sentimento, intesi non più come reciprocamente escludentisi, ma di reciproca compenetrazione, sarà ripresa da Adam Smith. 11.2 Smith Nella sua Teoria dei sentimenti morali Adam Smith riprende, modificandolo, il concetto humeano di simpatia, che in lui è il porsi del soggetto nella situazione dell’altro per esprimere giudizi di approvazione o disapprovazione sul suo comportamento sociale, indipendentemente da ogni giudizio morale. Viene affian- cato il concetto di proprietà, o appropriatezza, che definisce il rapporto di adeguatezza o inadeguatezza tra l’affezione provata da un soggetto e l’oggetto che la causa. In campo etico, Smith riconosce la società come necessaria manifestazione della specificità umana e, quindi, la naturalità della società. Alla connotazione di proprietà si affianca perciò nella descrizione dell’uomo la prudenza, che sta a fondamento dell’organizzazione sociale: questa guida la condotta del pru- dent man, l’”io medio sociale”. La compenetrazione tra passioni egoistiche e sociali, di virtù e interesse, è il tema centrale di Smith. Egli, analizzando la giustizia, evidenzia lo stretto rapporto che intercorre tra passioni egoistiche e passioni sociali regolatrici del comportamento del prudent man. Questo rapporto è trattato come rapporto tra sfera economica e sfera politica, elaborando una teoria stadiale che pensa lo sviluppo umano come una succes- sione di tappe. Smith osserva i rapporti giuridici, politici, economici con un approccio storico-empirico che lega strettamente il carattere economico della jurisprudence con la storicità delle forme giuridiche e politi- che. Troviamo dunque le prime analisi sulle dinamiche economiche e sociali che hanno portato alla forma- zione della società civile e sulla necessità che vi siano istituti atti a regolare, con gli strumenti della giuri- sprudenza, la convivenza all’interno del sistema politico. È qui evidente la critica radicale al modello del normativismo giusnaturalistico. Il dualismo fra passioni ritorna centrale anche nella Ricchezza delle nazioni attraverso l’immagine meta- forica della mano invisibile. Il rapporto tra virtù e interesse, che determina la relazione sia fra i singoli indi- vidui sia fra individui e società, costituisce il cuore teorico dell’opera. Essa è una ricostruzione storico-giuri- dica delle forme sociali e politiche; proprio l’analisi del rapporto tra ricchezza e potere che ne costituisce il tema fa emergere una riflessione che è anche politica. In quest’opera diventa più problematico il rapporto che Smith aveva delineato tra virtù e interesse, e per questo deve introdurre la figura politica del legislator – il sovrano – che ha un compito di mediazione politica e normativa fra i diversi interessi in campo. La scelta di indagare il funzionamento dell’ordine politico attraverso la produzione di ricchezza mostra che il paradigma hobbesiano della sovranità è ormai in crisi ed in ulteriore elaborazione: diventa evidente che la sfera politica non può porsi come totalmente autonoma rispetto a quella economica e a quella etica. Emblematica della contraddizione che può intercorrere tra interesse economico del singolo e interesse politico generale è la figura del sovrano, i cui compiti sono essenzialmente tre: proteggere la società dalla violenza, proteggere ogni membro della società dall’ingiustizia e dall’oppressione, erigere e conservare opere e istituzioni pubbliche. Ciò che non gli spetta è sovrintendere all’attività produttiva dei privati e indi- rizzarla in modo da essere funzionale all’interesse della società. La presenza del sovrano permette la possibi- lità di esercizio di un sistema politico e economico, fondato sul lavoro e sul libero scambio commerciale, che darà origine al sistema capitalistico borghese, guidato dall’azione della mano invisibile. La presenza del sovrano sancisce il riconoscimento del primato che la questione economica viene ad assumere per la scienza politica. Smith non descrive tuttavia da dove il sovrano tragga e in che modo espli- chi la propria capacità normativa. Se, infatti, alla base della società sta il prudent man, che di fatto è il citta- dino, la cui condotta non è guidata dalla volontà resa razionale, ma da un intreccio irresolubile di passioni egoistiche e sociali – di sympathy, propriety e prudence – di virtù e interesse, allora con la figura del legisla- tor Smith mostra l’utopia della perfetta razionalità della politica moderna, che da lui in poi non potrà più es- sere pensata come autonoma dalla sfera dell’economia politica e da quella etico-morale. 11.3 Ferguson Molti dei temi presenti nella speculazione di Adam Smith si ritrovano nell’opera di Adam Ferguson, in particolare l’attenzione per lo sviluppo della società e per il passaggio attraverso i diversi stadi di civilizza- zione che ogni società compie. Ferguson individua quattro stadi attraverso i quali tutte le società evolvono, e Storia delle dottrine politiche | Michelangelo Ballabene 65 che vengono definiti in base alla struttura economica che in essi prevale: la caccia, la pastorizia, l’agricoltura e il commercio. La sua attenzione è rivolta in particolare allo studio dello stadio commerciale della civiltà, quello a lui contemporaneo, che osserva dal punto di vista delle dinamiche del lavoro e di divisione della società che il commercio produce. Le moderne società civili sono caratterizzate da un’ampia divisione sociale del lavoro che si riproduce sia a livello dello Stato, sia a livello della società, caratterizzata dalla diffusione di attività sempre più parcellizzate e specializzate. Questa analisi storica serve come base concreta della teoria politica di Ferguson, che risente anche dell’influenza del repubblicanesimo anglosassone. Ferguson mostra che le grandi civiltà sono sottoposte a un processo di ascesa, grandezza e decadenza, e ritiene che il destino delle società commerciali possa essere sia di libertà sia di tirannide, a seconda che la scelta sia o meno per una visione dell’individuo quale cittadino soldato, la cui virtù politica si espleti nella partecipazione diretta alla vita politica, contro il dispotismo della divisione del lavoro e delle prerogative sempre più ampie concesse all’esecutivo. Egli vede dunque l’importanza di un public spirit che domini la scena politica, riproponendo la necessità del conflitto virtuoso fra i cittadini quale garanzia di libertà e baluardo contro l’oppressione e il dispotismo. Da qui deriva la sua critica alla concezione giusnaturalistica del contratto e dello stato di natura a cui oppone l’ideale della repubblica. Tuttavia, proprio l’impianto storico che sostiene il pensiero politico di Ferguson non lo porta ad auspicare per l’Inghilterra l’instaurazione di una repubblica. Il suo ideale repubblicano, in definitiva, rimane un’aspirazione di stampo moraleggiante fondata sulla disposizione d’animo interiore alla virtù, che non prevede un’immediata traduzione in nuovi assetti istituzionali. 12. La rivoluzione americana Il 4 luglio 1776 a Philadeplhia i rappresentanti delle tredici colonie inglesi dell’America del nord spie- gavano attraverso un breve testo, la Dichiarazione di indipendenza degli Stati Uniti d’America, il motivo della loro ribellione al re inglese Giorgio III, affermando la necessità dell’indipendenza delle colonie dalla madrepatria. La Dichiarazione è uno dei testi centrali della modernità occidentale, in cui si intrecciano il repubblica- nesimo anglosassone, la tradizione teologica protestante puritana, il giusnaturalismo lockeano, la teoria del senso comune scozzese, il motivo antitirannico illuminista. Redatta da Thomas Jefferson, Benjamin Franklin e John Adams, formalmente essa si situava nella tradizione giuridica inglese dei documenti di protesta che venivano inviati dai sudditi inglesi alla Corona. In realtà, la Dichiarazione è un documento poli- tico totalmente nuovo, perché finisce col distruggere e scardinare il legame fra monarca e sudditi, procla- mando il diritto dei governati di scegliersi il governo (affermazione della sovranità popolare) e, per ciascun cittadino, i diritti naturali alla vita, alla libertà e al perseguimento della felicità; si istituiva così il popolo americano, e si affermava per la prima volta in un documento politico il diritto alla rivoluzione. Possiamo distinguere due parti nel documento: nella prima viene affermata l’evidenza dell’uguaglianza degli uomini, dei diritti naturali, della necessità del consenso dei governati per la legittimità dei governi, dell’esistenza del popolo americano quale popolo libero; nella seconda si trovano le imputazioni rivolte di- rettamente al re Giorgio III, attraverso l’elenco dei torti subiti. Ciò determina la necessità della secessione, la distinzione politica e giuridica fra americani e inglesi. La Dichiarazione si conclude con una sorta di giura- mento civico di impegno reciproco fra i cittadini che li lega nella vita, nelle fortune e nell’onore. Uno dei temi centrali della Dichiarazione è l’accusa di tirannia al monarca inglese. La stesura venne in- fluenzata da un testo inglese, le Cato’s Letters, che costituirono la base teorica per l’opposizione dei coloni americani all’autorità della madrepatria. Composte fra il 1720 e il 1723 da John Trenchard e Thomas Gor- don, le Cato’s Letters costituiscono uno dei più importanti testi del repubblicanesimo inglese settecentesco, poiché in esse è centrale il tema della virtù politica e la difesa della libertà, sia politica sia religiosa. Nelle lettere si attacca l’idea assolutistica del potere, negando la teoria dell’autorità paterna, e in nome della libertà si difende il tirannicidio. Nessuna nobiltà di nascita, nessuna competenza, per gli autori, legittimano il domi- nio di una minoranza, perché il popolo è in grado di governarsi da sé. Ritroviamo anche i temi lockeani del contratto, del rapporto fiduciario che lega governanti e governati, della necessità del controllo su chi esercita il potere, della proprietà come principio primo di ogni potere. La teoria politica di Locke è anche una delle fonti usate da Jefferson nella stesura del documento: i diritti natu- rali che vengono richiamati in apertura sono infatti quelli lockeani, con la sostituzione della proprietà con la felicità. Jefferson riprende anche la tradizione giusnaturalista dell’individuo portatore di diritti naturali, su cui viene fondato il potere come potere costituente che appartiene al popolo, composto di individui uguali e virtuosi, di autogovernarsi in nome della libertà. Storia delle dottrine politiche | Michelangelo Ballabene 66 A questa tradizione razionalistica si affianca l’elemento teologico, attraverso cui si crea il mito della Nuova Gerusalemme. Il patto che stringono i coloni americani fra di loro, e che ne giustifica l’indipendenza, riprende le procedure del patto che nella tradizione biblica lega Dio e il suo popolo. La tradizione puritana del covenant, che sta alla base del viaggio del 1620 dei padri pellegrini, si ritrova nella Dichiarazione: è il motivo dell’esodo attraverso le acque battesimali dell’Oceano Atlantico dal dispotismo dell’Europa verso un mondo nuovo e selvaggio, fuori dalla civiltà e dunque civilizzabile. Viene resa possibile la creazione del popolo universale, che afferma i diritti di tutti gli altri uomini di tutti gli altri popoli, costituito da individui portatori di diritti, ma anche la definizione del popolo storico – in particolare americano- che introduce, almeno in linea teorica, il concetto di nazione. Ciò che vi è di importante nella Dichiarazione è l’idea di una politica democratica che si sottrae alla ri- gida ossessione dell’unità politica che invece la democrazia sul continente europeo eredita dal pensiero ra- zionalistico della sovranità. L’impianto giusnaturalistico, storico ed empirico della politica americana si mo- stra diverso da quello razionalistico, deduttivo e costruttivistivo della politica europea continentale. Sostegno alla causa delle colonie arriva dall’inglese Edmund Burke, che affermò la necessità del nesso fra tassazione e rappresentanza, facendo proprie le rivendicazioni delle colonie inglesi (no taxation without representation). Contrario a una soluzione conflittuale, egli è a favore di un compromesso che riconosca ai coloni il diritto delle libertà inglesi e che, fondandosi sull’esperienza storica, tenga conto della comune uti- lità, dato che è impossibile separare il giusto dall’utile, e che in politica è sbagliato fare discorsi astratti di giustizia ed applicare troppo rigidamente la ragione geometrica. 12.1 La Costituzione federale La guerra fra coloni e inglesi si concluse nel 1783 con il riconoscimento dell’indipendenza de tredici Stati. Questi si diedero ognuno una costituzione scritta, fondata sul principio della sovranità popolare. Nel 1781 era stata istituita la Confederazione degli Stati Uniti; in seguito, nel 1787 venne convocata la Conven- zione, un’assemblea con il compito di rafforzare il potere centrale della Confederazione. Si trattava di supe- rarne la forma e di ratificare una nuova costituzione degli Stati Uniti nella forma della federazione. In questa occasione il pensiero americano sul governo mostra di prescindere dal concetto europeo-conti- nentale di sovranità, intesa quale potere indivisibile e legibus solutus. Emerse una forma politica assoluta- mente nuova, quella della repubblica federale. Con la federazione saltava la logica della sovranità: all’in- terno del medesimo sistema politico, gli Stati Uniti d’America, venivano a coesistere assemblee legislative indipendenti, quella federale e quelle statali, non sovrane ma fornite di competenze per lo più fiscali e ammi- nistrative. In questa battaglia spicca la figura di Alexander Hamilton, che si impegnò nella lotta per la ratifica. Hamilton scatenò una campagna giornalistica per convincere l’opinione pubblica, inizialmente ostile al rico- noscimento di una costituzione valida per tutti gli Stati. Documento principale del dibattito è il Federalist, i cui articoli furono scritti, oltre che da Hamilton, anche da John Jay e James Madison. Gli articoli di Hamilton sottolineano l’esigenza di un potere federale forte e in gradi di agire, mentre la mano di Madison si trova là dove si pone l’accento sulla necessità di limitare il potere, anche quello federale, e sull’esigenza di stabilire strumenti di controllo e bilanciamento su di esso. Il ragionamento da cui partono gli articoli del Federalist è sempre fondato sul buon senso; la federazione deve essere scelta perché viene ritenuta la forma politica meglio in grado di garantire la pace, ma anche l’unica barriera possibile contro le fazioni interne, in quanto permette il duplice processo di accentramento degli interessi di carattere generale e il decentramento degli interessi di carattere locale. La Costituzione si afferma come una costituzione decisamente democratica, frutto del potere costituente esercitato dal popolo americano, alla cui base sta sempre il riconoscimento della sovranità popolare. Del si- stema inglese il Federalist riprende la tradizione del governo limitato. Centrale nella discussione è la distin- zione tra regime democratico e regime repubblicano operata da Madison: la repubblica offre migliori garanzie di controllo delle fazioni rispetto a un regime classicamente democratico, cioè a partecipazione diretta dei cittadini al governo, ed è in grado di estendere la sua influenza su un numero maggiore di cittadini e su una maggiore estensione territoriale. La difficoltà contro la quale si scontra l’idea della repubblica è la teoria settecentesca dell’impossibilità che esistessero repubbliche se non in piccoli spazi e per brevi periodi. La soluzione viene trovata da Madison nella repubblica federale. Il federalismo è infatti capace di istituire una forma politica unitaria e molto estesa, sia dal punto di vista spaziale sia da quello economico, in grado di resistere alla spinta disgregatrice delle fazioni, ma anche di lasciare che le singole parti della federazione vivano attivamente la propria libertà. Storia delle dottrine politiche | Michelangelo Ballabene 69 diventassero necessarie le società politiche e le norme giuridiche. Essi avvertono l’esigenza di stringere delle convenzioni e di sottomettersi a un’autorità comune per evitare la guerra di ognuno contro tutti. È stato ne- cessario l’artificio del contratto sociale, che fa nascere le società civili permettendo la pace. Il pactum unio- nis sul quale queste si fondano si configura come un patto ingiusto, come una forma di organizzazione giuri- dica che giustifica legalmente un’azione di rapina praticata dai ricchi ai danni dei poveri. Rousseau immagina infatti che siano proprio i possidenti ad avere proposto quel patto iniquo, così sinte- tizzato: “Voi avete bisogno di me, perché io sono ricco e voi povero; stipuliamo dunque un accordo fra noi: permetterò che abbiate l’onore di servirmi a patto che mi diate il poco che vi resta in cambio del disturbo che mi prenderò dandovi de- gli ordini.” La necessità di sancire quel patto anche sul piano giuridico e politico è all’origine dello Stato, istitu- zione del sopruso e dello sfruttamento, il quale non fa che incrementare un processo di decadimento scandito in tre tappe: la fondazione della legge e il diritto di proprietà, l’istituzione della magistratura, la trasforma- zione del potere legittimo in potere arbitrario, che coincide con l’affermazione del dispotismo e della schia- vitù politica. A quella cattiva uscita dallo stato di natura che è la storia umana come si è sviluppata fino a lui, Rous- seau non oppone un ritorno allo stato di natura, ma il progetto di nuove associazioni basate sull’uguaglianza e la ragione, ossia sulla volontà generale 1.2 Il contratto Il concetto di volontà generale viene concepito nella voce Economia politica dell’Enciclopedia come il solo fondamento possibile di uno Stato basato su un patto di equità. Il contratto a cui pensa Rousseau è un patto di associazione, e non implica quindi né l’alienazione della propria libertà a qualcun altro che sia preesistente – come nel pactum subjectionis – né l’alienazione inte- grale della propria capacità politica al Terzo nato dal patto – come nel pactum unionis. È quindi un patto d’unione orizzontale, ma si differenzia da quello di Hobbes per due aspetti fondamentali: ha come fine non l’alienazione ma la disalienazione dell’uomo, e non genera un’istituzione sovrana ma una comunità. Il contratto serve a correggere radicalmente il corso corrotto della storia; e da ciò deriva anche che l’obiettivo del patto rousseauiano è rifare l’uomo, restituirgli l’integrità che la storia gli ha tolto. La disalie- nazione si può ottenere solo con l’alienazione totale dell’uomo al Tutto che nasce dal contratto con tutti gli altri uomini. La sovranità non è per Rousseau rappresentabile e istituzionalizzabile, è un Tutto omogeneo e onnipo- tente, capace di esercitare la propria potenza in ogni direzione. La sicurezza comune non deve implicare la sottomissione al sovrano: la politica non può consistere nel pagare la sicurezza con la libertà. Si tratta quindi di creare le condizioni che permettano agli uomini di unirsi in un corpo politico senza per questo dover ri- nunciare ai propri diritti inalienabili di libertà. Bisogna: “trovare una forma di associazione che difenda e protegga con tutta la forza comune la persona e i beni di ciascun associato, e per la quale ciascuno, unendosi a tutti, non obbedisca tuttavia che a se stesso, e resti libero come prima.” In Rousseau l’uguaglianza non è un mero dato di fatto, ma un valore. Condizione essenziale del patto è l’alienazione totale di ciascun associato, con tutti i suoi diritti, alla comunità. Nasce in questo modo un corpo morale e collettivo che possiede una sua vita, una sua volontà e un suo io comuni. I singoli individui cedono l’insieme dei loro diritti individuali presociali. La persona pubblica che si forma attraverso l’unione di tutte le altre si chiama repubblica o corpo politico. Quest’ultimo è definito Stato dai suoi membri quando è pas- sivo, corpo sovrano quando è attivo, potenza in relazione agli altri corpi politici. Obbedire alla volontà generale non significa nient’altro che obbedire a sé stessi in quanto membri del corpo politico: non c’è insomma, in Rousseau, l’elemento terroristico, nichilistico e ideologico tipico del to- talitarismo. Inoltre, l’alienazione totale di ciascun associato con tutti i suoi diritti all’intera comunità non im- plica la soppressione dei diritti naturali dell’individuo, ma la loro trasformazione in diritti civili. Con il con- tratto sociale la libertà naturale viene ceduta in cambio della libertà civile. Mentre però nello stato di natura la garanzia della libertà è costituita dall’assenza di relazioni interu- mane, in ambito sociale essa dipende dalla forza dello Stato e dalla subordinazione delle volontà particolari alla volontà generale, il sovrano, che mantiene i cittadini in quella condizione di rigorosa uguaglianza che per ognuno rappresenta un presupposto di libertà. Nel corpo politico ciascun uomo ha rinunciato alla propria Storia delle dottrine politiche | Michelangelo Ballabene 70 alienazione, alla propria particolarità, all’egoismo e all’amor proprio, all’ipocrisia e all’ambizione. Grazie alla politica, è rinato, è divenuto integro. La politica quindi non è strumentale ma portatrice di valori. Verso il potere non c’è diffidenza, né richiesta di limitazione; il contratto sociale di Rousseau è un patto del popolo con sé stesso. La libertà è l’ubbidienza alla legge che si prescrive a sé stessi. La volontà generale è ben diversa dalla volontà di tutti: quest’ultima è solo la somma degli interessi in- dividuali, e non ha un’autonoma esistenza politica. Tuttavia, il consenso unanime è richiesto unicamente al momento della stipulazione del patto sociale, mentre in tutte le altre circostanze è valida la regola della mag- gioranza, purché in questa siano presenti le caratteristiche della volontà generale. La volontà generale coincide con l’interesse comune; è sempre retta, infallibile, giusta, indistruttibile. L’esercizio della volontà generale, cui spetta la funzione di emanare le leggi, spetta alla sovranità del popolo, che va intesa come una realtà assoluta, in quanto non è limitata da alcuna legge o costituzione; è indivisibile, poiché la sovranità non può essere divisa in parti diverse. Essa è inalienabile, in quanto Rousseau ritiene inammissibile l’impegno di un popolo che acconsenta, anche volontariamente, ad alienare la sua sovranità. Rinunciare alla sovranità significa sacrificare la libertà e quindi la propria stessa dignità di uomini. Anche quando prevalgono le passioni, la volontà generale non scompare. La deviazione dalla recta ratio della coscienza e dell’interesse comune che si verifica può offuscare nei cittadini la visione dell’interesse generale, ma non può cancellarlo, in quanto esso è sempre coessenziale all’esistenza politica. 1.3 La democrazia Per Rousseau, qualunque sia la forma di governo, la costituzione dello Stato deve essere democratica e repubblicana: la sovranità appartiene alla totalità dei cittadini considerati come un solo corpo, un ente collet- tivo o una persona morale. Rousseau rifiuta sia la teoria di Hobbes sulla persona rappresentativa dello Stato, sia il principio di Locke della delega o della rappresentanza: il popolo non può alienare o trasmettere l’esercizio della sovranità in quanto essa è sostanzialmente volontà, e la volontà non si rappresenta. La volontà del Parlamento – nel caso ce ne fosse uno - si configura come una volontà particolare, espressione soltanto di una parte del corpo sociale. I deputati eletti dal popolo sono per Rousseau solo com- missari: a loro compete la preparazione e la proposta delle leggi, ma al popolo spetta il diritto in ultima istanza di ratificarle o respingerle. L’irrappresentabilità della volontà generale vale anche per l’atto straordinario attraverso cui un popolo si dà una costituzione, una forma politica permanente. Rousseau, a questo scopo, introduce la figura demiur- gica del legislatore, che dall’esterno e in virtù della propria superiore saggezza, propone al popolo la costitu- zione formale senza coinvolgere la sovranità del popolo; egli ha un ruolo indiretto e pedagogico, in quanto si limita ad agevolare e a canalizzare l’espressione della volontà generale, che resta però sempre sovrana in ul- tima istanza, libera di accettare o meno le proposte del legislatore. Per questa concezione della sovranità popolare Rousseau è stato considerato come il teorico della demo- crazia moderna, anche se egli preferisce parlare di repubblica. Il suo è un contratto che dà vita a un potere democratico in cui non c’è l’alienazione fra uomo e cittadino, tra privato e pubblico; non si sono istituzioni in cui la sovranità si rappresenti e si alieni, e l’uomo, entrando nel Tutto politico, ritrova sé stesso tutto inte- gro. È quella di Rousseau una democrazia totale – e non totalitaria -, il che significa che la sua politica è molto più esigente di una politica liberale, e che aspetti del giusnaturalismo convivono con aspetti della tra- dizione repubblicana. Rousseau non pensa la libertà politica come sicurezza della privata indipendenza, bensì come cittadinanza, come partecipazione collettiva al potere e al corpo politico. Ciò non implica una teorizzazione della democrazia diretta. Rousseau sta parlando di forma dello Stato: il fatto che la sovranità sia unica e venga assimilata al potere legislativo non implica l’identificazione tra le- gislativo ed esecutivo. Egli pone una netta differenza tra sovranità, cui spetta l’emanazione delle leggi, e go- verno, cui compete la loro esecuzione: il governo è solo un ministro del popolo sovrano, che deriva dalla legge. Il governo come concreto esercizio di potere può essere affidato dal popolo a persone o istanze di- verse, senza che ciò comporti alcuna delega della sovranità popolare. Rousseau ritiene possibili tre forme di governo: democrazia, aristocrazia, monarchia. Quando il corpo sovrano rende depositario del governo tutto il popolo o la sua maggioranza si ha la democrazia, forma di au- togoverno popolare. Tuttavia, non è mai esistita né mai esisterà una vera democrazia: non si può immaginare che il popolo resti riunito in assemblea permanente. Il governo democratico sarebbe possibile solo a partico- lari condizioni: uno Stato di dimensioni limitate, comunità di uomini virtuosi, sostanziale uguaglianza eco- nomica. La conclusione è paradossale: se ci fosse un popolo di dei, si governerebbe democraticamente. Un governo così perfetto non si addice agli uomini. Storia delle dottrine politiche | Michelangelo Ballabene 71 Non ogni forma di governo è tuttavia adatta a qualsiasi paese. L’alternativa tra la politica della virtù (piccolo Stato) e la politica della potenza (grande Stato) è evitabile unicamente attraverso il sistema dei go- verni federali. L’unità dello Stato, inoltre, non dipende solo dalle sue dimensioni: Rousseau giunge ad attri- buire alla religione una funzione decisiva per la solidità dello Stato. Si tratta di una religione civile posta in- teramente sotto il controllo dello Stato, che serve ad accentuare gli impegni morali e civili assunti con il patto da ciascun contraente. La religione civile è una metafora della stessa virtù politica, e chi la rifiuta va condannato non come empio ma come asociale. Questa necessità della religione civile è presente sulla base di una doppia eredità: riprende tanto il tema repubblicano di origine machiavelliana dell’amor di patria san- cito religiosamente quanto la teologia politica di Hobbes. 2. La rivoluzione Alla vigilia della rivoluzione, l’assolutismo monarchico francese poggia ancora su strutture politiche e amministrative logore e arcaiche, tradizionalmente fondate sulla distinzione di tre ordini: clero, nobiltà e Terzo stato. La Rivoluzione francese del 1789 è prima di tutto una rivoluzione contro l’Ancien régime, di cui costituisce l’abbattimento dell’intero complesso delle relazioni politiche e sociali. Essa fu un evento realmente epocale che ruppe col passato e aprì un orizzonte politico nuovo; non fu quindi, né volle essere, né fu percepita come un ritorno dell’ordine politico su sé stesso, come un recupero delle origini. Le sue dinamiche complessive furono anzi di accelerazione e di progresso, che trasformano il tempo della politica in un tempo in fuga verso il futuro. La Rivoluzione è stata anche un insieme storico, politico, intellettuale, profondamente contraddittorio. Essa è stata sia distruttiva sia costruttiva; oltre che l’abbattimento dell’Ancien régime, la Rivoluzione ne è per un importante aspetto40 la prosecuzione e il compimento. Si può ben dire che, a differenza di quella ame- ricana, la Rivoluzione francese è la rivoluzione della sovranità. La Rivoluzione è stata il tentativo di realiz- zare praticamente i presupposti del razionalismo politico moderno, di fare cioè della politica una costitu- zione reale, così che il cittadino abiti un’architettura politica, lo Stato, del tutto riconducibile a ragione. Tuttavia, ha prodotto anche il superamento e la rottura del razionalismo politico, perché l’azione rivolu- zionaria si svolge attraverso il popolo, o la nazione: una collettività che si presenta come naturale e come soggetto portatore immediato di potenza politica illimitata, e intrinsecamente conflittuale. Il primo aspetto attribuisce al popolo un potere costituente che non può trovare limite alcuno nei poteri costituiti, cioè nelle norme costituzionali. Dunque, la legislazione non è una produzione di norme giuridiche certe, ma è conce- pita come emanazione diretta della sempre mutevole e onnipotente sovranità popolare. Viene, inoltre, rein- trodotta la guerra all’interno della politica. Essa presenta altre intrinseche contraddizioni; affermazione della libertà e dell’agire umano – oltre che dell’uguaglianza e della fraternità –, apparve ben presto un sistema di avvenimenti per molti versi coatto. Pareva sottrarsi alla volontà umana, così che, una volta cominciata, nessuno riusciva più a darle un termine. Sarà conclusa solo con una Restaurazione che della Rivoluzione accetta, benché in forma moderata, alcune delle sue conquiste politiche. I principi universalistici della Rivoluzione sono stati recepiti, in Europa, in senso particolaristico: i va- lori rivoluzionari sono stati il cemento di base e la legittimazione dei singoli Stati e del loro nazionalismo. La Rivoluzione nelle sue fasi più intense si legittima riproponendo le tensioni alla salvezza e al rinnova- mento delle esistenze proprie della tradizionale religione trascendente. La Rivoluzione lascia il compito di realizzarne gli ideali; il che ha prodotto nell’Ottocento la distinzione fra destra liberale moderata e sinistra democratica. Ciò che nella vicenda rivoluzionaria si trova insieme, in- fatti, si dividerà in correnti politiche e ideali contrapposte. Spartiacque fra Antico Regime e compimento ot- tocentesco della modernità, essa è stata anche lo spartiacque fra ideologie che, nate intorno alla sua eredità, hanno poi dominato buona parte del Novecento. 3. Sieyes Emmanuel-Joseph Sieyes è tra gli interpreti della rivoluzione colui che per primo propone la concezione del potere costituente, traendone anche le conseguenze più radicali. 40 La centralizzazione della vita politica attuata dalla Rivoluzione Storia delle dottrine politiche | Michelangelo Ballabene 74 Non solo le istituzioni, ma anche la politica in generale è per i giacobini solo uno strumento grazia al quale la società e il popolo possono venire rigenerati e riportati alla virtù. E la virtù, che è l’unica via per eli- minare definitivamente il dispotismo, richiede anche l’esaltazione del senso etico istintivo del popolo: per questo Robespierre nega l’ateismo e cerca, attraverso il culto civico dell’Essere Supremo ispirato al deismo, di dare al Terrore una più solida legittimazione. Questa razionalistica fede nella legge dà luogo in Saint-Just a una concezione che attribuisce alla rivo- luzione il potere di rigenerare integralmente la società. Secondo Saint-Just, la società è naturale ma, se la- sciata priva di elementi ordinativi, è destinata a produrre una condizione di guerra generalizzata tra gli uo- mini. Si tratta quindi di superare l’orizzonte della politica, e cioè della violenza e dell’ingiustizia, con un uso temporaneo e strumentale di un’altra politica, capace di pervenire alla affermazione di leggi insieme giuste e costrittive e, di conseguenza, a istituzioni che ripristino i naturali rapporti sociali rigenerando i rapporti so- ciali corrotti e degenerati. La Rivoluzione ebbe un forte impatto anche nelle colonie francesi: si ha nel 1804 la nascita del primo Stato indipendente a maggioranza nera, Haiti. La Dichiarazione dei diritti scatenò infatti nella colonia aspet- tative contraddittorie, che fecero esplodere il fragile equilibrio politico e sociale su cui essa si era retta fino ad allora. La gente di colore libera pensava di poter avanzare le proprie rivendicazioni su un piano di parità con i bianchi. Il conflitto uscì definitivamente dal suo alveo costituzionale nell’agosto del 1791, quando gli schiavi di origine africana diedero vita a una violenta ribellione di massa in nome della piena e immediata emancipa- zione. Sotto la guida di Toussaint Louverture gli insorti raggiunsero rapidamente il controllo di larga parte dell’isola, grazie anche al sostegno iniziale della Convenzione. Una volta acquisito il controllo dell’isola, Louverture si dedica al consolidamento della rivoluzione attraverso una costante mobilitazione militare e produttiva della popolazione. Questo programma di modernizzazione e di educazione morale dei nuovi citta- dini liberi di colore ha trovato uno sbocco concreto nella Costituzione del 1801, che sanciva l’abolizione della schiavitù sull’isola, e per mezzo della quale Louverture assumeva il ruolo di governatore a vita. Egli venne catturato nel 1802, e quando apparve chiara l0intenzione del governo francese di ristabilire la schia- vitù sull’isola, il processo rivoluzionario riprese sotto la guida di Kean-Jacques Dessalines, che il 1° gen- naio 1804 dichiarò l’isola una libera repubblica indipendente. L’esperienza di Haiti ha influenzato profondamente la riflessione politica successiva. L’estensione della rivoluzione nel mondo coloniale determina infatti un effetto di spiazzamento per il pensiero politico mo- derno. I giacobini neri si autorappresentano come i deputati neri che raccolgono la volontà generale di un soggetto che si riconosce in tale virtù dalla comune esperienza dell’assoggettamento all’amministrazione re- pressiva del lavoro coloniale, ma anche dalla lunga tradizione del marronaggio. Vista dallo specchio coloniale di Haiti, la modernità rivoluzionaria perde così i propri connotati neutrali e universali, e diventa invece la posta in gioco di un confronto aperto e irrisolto tra inclusione ed esclusione, liberazione e disciplinamento. 6. Kant In Kant la politica diviene oggetto di tematizzazione esplicita in una fase relativamente tarda del suo pensiero, dopo aver elaborato la dottrina del contratto originario. Il tratto rivoluzionario del suo pensiero sta nella rigorosa e consequenziale applicazione della ragione alla politica, e nella tesi che se la politica non coincide con la morale razionale della libertà, tuttavia non ne può neppure essere programmaticamente il contrario, né può pretendere di godere di una morale autonoma, né può fondarsi su di una morale solo utilitaristica. 6.1 Morale, diritto, politica Benché fondato sulla distinzione fra uomo noumenico e uomo fenomenico, il pensiero politico di Kant non contrappone politica e morale, ma le pone anzi in relazione attraverso il diritto. La morale kantiana si basa sulla perfetta coincidenza tra libertà assoluta e dovere incondizionato che trova espressione nell’imperativo categorico. Nella morale l’uomo è portatore di una volontà libera priva di contenuti specifici e per la quale vige unicamente il principio seguente: agisci in modo che la massima della tua volontà possa sempre valere nello stesso tempo come principio di una legislazione universale. La morale consiste nel dovere, che il soggetto ha, di agire come se fosse universale, e nel rispettare tale universalità ne- gli altri. La morale è quindi una regola universale che ha la propria origine nella ragione; il dovere è qualcosa di puramente formale e si configura come la forma imperativa della legge morale: buona è la volontà che è Storia delle dottrine politiche | Michelangelo Ballabene 75 determinata oggettivamente dalla legge e soggettivamente dal rispetto della legge. Il soggetto morale con la sua volontà assolutamente liberta è orientato al dovere e non alla felicità. In quanto uomini noumenici, esseri morali, gli uomini sono liberi. Poiché tuttavia esiste anche l’uomo fenomenico, l’uomo appartiene a due mondi, ed è infatti anche un essere sensibile determinato dalle inclinazioni naturali. La storia politica è sicuramente la dimensione della forza e della violenza; il principio fondamentale della filosofia politica kantiana è che l’uomo ha una destinazione morale. Si possono pensare e realizzare le condizioni di una trasformazione della politica come amorale regno del potere in una politica come regno del diritto che rispetta la destinazione morale dell’umanità. Lo sforzo di Kant è indicare come sia possibile che l’obbligazione si organizzi secondo ragione. Il che significa che per lui il potere può e deve essere sottomesso al diritto. Kant introduce una obbligazione poli- tica che assume la forma del diritto; questo si riferisce alla libertà esteriore nella convivenza e regola la coe- sistenza degli individui, intesi come persone giuridiche, attraverso una limitazione della loro libertà. Il diritto deriva dalla ragione pura pratica intesa come la facoltà di agire secondo leggi universali, e funge da ponte tra politica e libertà. È la forma e al tempo stesso l’obiettivo della politica. In quanto sua forma, il diritto è legge, prodotta dallo Stato; il comando della legge è però soltanto esterno, e in ambito politico il dovere viene compiuto per osservanza della legge, e non per la sua intrinseca doverosità, come avviene in ambito morale. La politica ha il diritto come suo fine: suo scopo è appunto promuovere il regno del diritto, ossia realizzare una condizione nella quale sia riconosciuta a ogni individuo una sfera di indipendenza personale protetta dalle leggi. 6.2 Stato di natura e contratto originario Lo Stato a cui Kant pensa è Stato di diritto, fondato sul diritto in quanto forma astratta e razionale, che promuove il diritto, unico bene comune a cui lo Stato può dedicarsi. La politica è dunque la pratica del di- ritto. Lo Stato kantiano è dunque quella forma di ordine politico che, pur nella sua coattività, è costruito in modo tale da salvaguardare l’accordo possibile fra la libertà esterna e l’interiore riserva morale che costitui- sce l’ambito autentico della libertà umana. Egli non delinea il profilo di uno Stato realmente esistente: il suo Stato è uno strumento funzionale alla garanzia dei diritti soggettivi delle persone, quei diritti innati che vanno ricavati dalla ragione, alla quale le leggi positive devono ispirarsi. Lo Stato deve costituirsi in modo da garantire la libertà di ogni membro della società come uomo, l’uguaglianza come suddito, l’indipendenza come cittadino. Lo Stato deve impedire che l’uomo serva anche solo esteriormente a fini altrui: questo non significa im- pedire a un individuo di obbligarsi verso terzi, ma che l’obbligazione deve essere libera e reciproca, tale da non intaccare la personalità morale. Kant critica l’imperium paternale: il governo paternalistico è il peggiore governo possibile, poiché non solo elimina ogni distinzione tra sfera domestica e società civile, ma, trattando l’individuo come oggetto di amministrazione, calpesta la soggettività morale degli individui. Lo Stato di diritto deve garantire a ognuno l’uguaglianza in senso civile, ossia dinanzi alla legge. Deve offrire a ogni individuo in quanto cittadino l’opportunità di godere della propria indipendenza (economica), sulla quale si fonda l’uguaglianza politica e cioè la partecipazione al potere legislativo. In questo modo la proprietà viene a occupare un ruolo centrale nel pensiero giuridico-politico kantiano, in quanto la sua fun- zione consiste nell’assicurare all0individuo il più ampio orizzonte possibile di libertà compatibile con la li- bertà altrui. Diversamente da Hobbes, per Kant la proprietà non è una creazione dello Stato e neppure, come per Locke, un concetto fondato sul lavoro: essa preesiste allo Stato e si fonda sul possesso, che è un rapporto pu- ramente naturale e soggettivo regolato dal diritto. È proprio per tutelare la proprietà che gli uomini passano dallo stato di natura allo stato civile, trasformando la loro acquisizione la provvisoria a perentoria. Lo Stato nasce e si costituisce per difendere la proprietà privata e solo il proprietario assume qualità di autentico citta- dino. Anche se ognuno nasce come cittadino potenziale, è necessario che disponga di un reddito, di merito o di sostanze, che sia quindi padrone di sé, per diventare cittadino effettivo. Non è cittadino pleno jure chi non possieda una qualche proprietà che gli procuri i mezzi per vivere e sia costretto a cedere l’uso delle sue forze a qualcun altro per riceverne un salario. Per quanto riguarda la struttura dello Stato, Kant accoglie il principio della separazione dei poteri. Egli affianca al tradizionale schema aristotelico delle forme politiche, la classificazione delle forme di governo, ponendo l’alternativa fondamentale tra forma repubblicana e forma dispotica. Il regime ideale è quello re- pubblicano – ovvero lo Stato di diritto – che si fonda sulla separazione dei poteri, mentre il regime dispotico è caratterizzato dalla esecuzione arbitraria delle leggi, e dall’uso, da parte del governante, della volontà pub- blica come sua volontà privata. Nel regime repubblicano il vero potere sovrano appartiene al legislativo: né Storia delle dottrine politiche | Michelangelo Ballabene 76 il sovrano né il reggitore possono giudicare. Ogni forma di governo che non sia rappresentativa e non cono- sca la separazione dei poteri è una non-forma, poiché il legislatore vi può assumere contemporaneamente anche il ruolo di esecutore. Perciò in Per la pace perpetua Kant afferma che la democrazia è dispotismo: in democrazia ognuno vuole essere signore. Nella Metafisica dei costumi, al contrario, la democrazia viene avvicinata piuttosto a una forma di go- verno di tipo repubblicano, come un regime pienamente compatibile con il sistema rappresentativo. Si tratta di evitare che i rappresentanti e i mandatari del popolo sovrano si avvalgano dell’investitura al potere rice- vuta attraverso il suffragio per annullare il principio rappresentativo e la separazione tra legislativo ed esecu- tivo. Essa degenera in dispotismo quando vi è identità tra reggitore e legislatore. La volontà unitaria del popolo, cui spetta il potere legislativo, non può prendere forma se non attraverso lo scarto tra persona rappresentativa e popolo sovrano. Il pensiero kantiano sulla democrazia può essere con- siderato come un tentativo di rivedere il concetto di sovranità popolare per temperarne gli eccessi giacobini. 6.3 La storia, l’illuminismo e l’ordine internazionale In Kant è presente l’idea che il cammino dell’umanità verso un ordine civile razionale sia inevitabile. Egli ritiene che nel corso delle cose umane sia possibile scoprire un disegno della natura, un filo conduttore che fa da principio direttivo della storia, e che si attua attraverso le azioni degli individui e dei popoli senza che questi ne abbiano consapevolezza. Il problema più grande è pervenire ad attuare una società civile che faccia valere universalmente il diritto. Kant valuta anche la Rivoluzione, che viene considerata secondo un duplice profilo. Come fatto violento essa non può essere giustificata; come obiettivo e come risultato giuridico e storico viene invece considerata come la più significativa manifestazione della tendenza storica a una costituzione razionale. È un atto di en- tusiasmo e passione, che nasce dal diritto di un popolo di darsi una costituzione che esso crede buona. La costituzione repubblicana, lo Stato di diritto, sono obiettivi storicamente adeguati e all’altezza dei tempi che si vogliono illuminati. L’illuminismo – definito come il coraggio di sapere, l’uscita dalla mino- rità- è insomma lo scopo della storia. L’illuminismo, che insegna a rispettare la razionalità e la libertà in- terne ed esterne dell’uomo, e anzi a farne il centro della persona umana, non esprime tanto la vocazione a emancipare l’umanità da vincoli giuridici, quanto da quelli politici, ossia a indebolire la tutela che il potere esercita sull’uomo. Kant distingue tra uso pubblico e uso privato della ragione. Il primo è l’uso che ne fa uno studioso di- nanzi all’intero pubblico dei lettori; il secondo coincide con l’impegno o con la funzione che gli viene affi- data. In quanto privati, sottoposti all’obbligo di non creare ostacoli all’esercizio delle funzioni amministra- tive del governo, i cittadini non possono che obbedire. L’istanza a entrare in uno Stato civile regolato dal diritto non concerne unicamente i rapporti interni, ma anche quelli esterni della comunità che, in quanto Stato in rapporto con altri Stati, si conserva in una condi- zione di libertà illimitata. Gli Stati non hanno tra loro rapporti necessariamente pacifici; ma la guerra è ormai divenuta un grande oltraggio e un mezzo barbarico, distruttivo e dannoso per la cultura. L’ideale della pace si configura come quella situazione in cui la ragione umana è destinata a realizzarsi attuando una idea di pro- gresso che è anzitutto morale. Se la possibilità della pace perpetua deriva da una fede nel progresso, la sua doverosità deriva dalla stessa razionalità di cui lo Stato è costitutivamente portatore. Finora la razionalità po- litica si è manifestata in una sovranità solo unilateralmente razionale; la sovranità è manifestazione di una ragione escludente ed esclusiva, sempre pronta alla guerra per trionfare, per fare valere le proprie ragioni e i propri interessi. Si deve fare in modo che il diritto internazionale non consista più nello jus ad bellum dei singoli Stati, ma nella sottomissione volontaria della loro sovranità, che è sempre unilaterale, alla razionalità veramente universale della legge internazionale. Se le condizioni negative della pace perpetua hanno tutte a che fare con la forte attenuazione del carattere esclusivo e assoluto della sovranità, quelle positive che Kant elenca sono che la costituzione di ogni Stato dev’essere repubblicana, il diritto internazionale deve fondarsi sopra una federazione di liberi Stati, il diritto cosmopolitico dev’essere limitato alle condizioni di una universale ospitalità. Questa libera federazione di Stati è una tappa intermedia rispetto all’obiettivo finale, una lega di popoli, forma di esistenza universale priva della dimensione statuale, che va distinta dallo Stato dei popoli, visto da Kant negativamente perché uno Stato mondiale posto sotto un unico sovrano potrebbe annullare le libertà e condurre al dispotismo. Kant indica una terza condizione, attinente al diritto cosmopolitico: si tratta del di- ritto di visita, di accogliere ed essere accolti ovunque nel mondo. Storia delle dottrine politiche | Michelangelo Ballabene 79 vincolo giuridico prestatuale, non esiste realmente prima di essere garantito dallo Stato, che dà forma alla libertà naturale di tutti attraverso il riconoscimento e la protezione reciproca. L’esigenza fichteana di dedurre il diritto dalla morale si scontra con il fatto che di diritto si può parlare solo nello Stato. La politica, in quanto realizza il diritto, è quindi lo snodo obbligato verso l’affermazione della libertà e della morale. Questo obiettivo è raggiungibile solo se lo Stato è rappresentativo: è solo nella rappresentanza politica in senso moderno che ciascuno può riconoscere come propria la volontà unica e razionale dello Stato. Di qui la sua critica alla forza preponderante della democrazia diretta, che è l’ordinamento più insicuro poiché tutti i singoli pretendono di esercitare immediatamente il potere che dovrebbe invece competere alla comunità nel suo insieme. In altri termini, la contraddizione della democrazia è dovuta al fatto che in essa la comunità è giudice e parte in causa contemporaneamente. Per impedire il dispotismo democratico è necessario che la comunità non sia titolare del potere di governo, e non sia giudice della propria causa: ciò è possibile con l’istituzione di un ordinamento rappresentativo. Nel Fondamento del diritto naturale il governo rappresenta- tivo serve anzitutto a garantire libertà e proprietà esterne. A differenza di Kant, in Fichte i tre poteri non sono separati, ma si concentrano nel governo in linea con la logica che impone l’unità del potere. Viene istituita una magistratura elettiva, quella degli efori, che hanno funzione di giudicare i titolari del potere di governo. L’esigenza del controllo su tale potere non è affidata a un momento immediatamente democratico; anzi, è proprio perché la comunità non esercita più alcuna attività di governo che diviene necessario istituire un or- gano di garanzia e di controllo, di fronte al quale l’esecutivo è responsabile come se fosse dinanzi al tribu- nale dell’intera comunità. Gli efori, eletti a suffragio universale tra gli uomini più esperti, non dispongono di un diretto potere di intervento: devono solo eliminare l’interdetto, cioè sospendere la validità di tutte le norme giuridiche. Spetta al popolo, immediatamente convocato, di decidere tra le ragioni dei governanti e quelle degli efori. Solo se tutto il popolo insorge come un sol uomo e viene organizzato politicamente dagli efori al popolo viene garantito il diritto di resistenza. La rivoluzione è legittima, ma è possibile solo grazie all’appello a un’istanza morale: la necessità del perfezionamento del genere umano. 1.3 Società e nazione Nonostante la supremazia del Tutto sulle parti, Fichte conserva una impostazione individualistica; gli efori non hanno nulla a che fare con quelli di cui parlava Althusius46, mentre allo Stato spetta solo il compito di garantire i contratti di proprietà che i singoli stipulano tra loro. Fichte recupera i ceti e le corporazioni, ai quali attribuisce valore morale: l’autodeterminazione del sin- golo viene a inserirsi in un’attività socialmente utile e riconosciuta. La rivalutazione dei ceti viene sviluppata nello Stato commerciale chiuso, dove si registra anche una trasformazione del ruolo dello Stato, che da di- fensore dei diritti diviene promotore di moralità ed educatore alla libertà. Dal 1800 Fichte tende ad attribuire allo Stato un vero e proprio potere di costituire la società giuridica, stimolando e costringendo i cittadini a realizzare il regno del diritto, sino ad affermare che lo Stato è il benefattore. Il suo ruolo predominante si manifesta nell’organizzazione del corpo sociale e nello sforzo di raggiungere l’autosufficienza economica. Così, lo Stato deve organizzarsi come un tutto chiuso, senza contatti con l’estero, sostituendo l’economia liberale di mercato e il commercio mondiale con un’organizzazione economica pianificata e con l’isola- mento. L’intervento statale in economia serve a garantire a ciascuno, assicurandolo anche a chi non lo pos- siede, il diritto alla proprietà come diritto a una attività e quindi al lavoro. Lo Stato deve sorvegliare l’intera produzione e distribuzione dei beni. Fichte riteneva ancora possibile una sorta di conciliazione naturale tra l’egoismo dei singoli e la vita or- dinata della comunità, in quanto l’uomo sceglie il patto sociale allo scopo di armonizzare i propri interessi con quelli degli altri. Dal momento in cui l’illuminazione razionale degli uomini destinata a costituire uno Stato di ragione si scontra con resistenze e immaturità che impediscono l’armonizzazione spontanea della libertà, degli interessi e delle volontà individuali, si rende necessaria un’azione educativa e pedagogica dello Stato. Abbiamo in Fichte una interpretazione dell’illuminismo come assoluta indifferenza per ogni verità e della completa licenza senza freno: lo stato della completa peccaminosità. Egli vede tuttavia possibile un superamento attraverso l’affermazione di una nuova positività morale. Egli tende a sottolineare il ruolo che lo Stato ha nel porre ordine nella società: non è più la libertà a infrangere il dispotismo e spianare la strada 46 Affidava loro il compito di difendere e rappresentare comunità organizzate in strutture civili autonome. Storia delle dottrine politiche | Michelangelo Ballabene 80 alla virtù, ma l’intervento pedagogico dello Stato che prepara la virtù e quindi la libertà. Il fine dello Stato non è altro che quello dell’uomo: organizzare tutte le sue relazioni secondo le leggi della ragione. La disfatta di Jena del 1806 e l’occupazione napoleonica della Prussia offrono a Fichte l’opportunità di realizzare quell’azione filosofica che è alla base del suo pensiero politico. Questo obiettivo diventa appan- naggio di un popolo, quello tedesco, che nell’autorealizzazione ha come fine l’intera umanità. Ciò che ora conta è una cultura, una educazione, orientata verso i tedeschi, con finalità specificamente tedesche, in grado di promuovere una rinascita morale basata sulla presa di coscienza di una specifica identità nazionale. Il principio di nazionalità fa sì che la perfezione del genere umano divenga compito di una nazione sin- gola: la nazione tedesca può assumere questo compito proprio in conseguenza delle sue caratteristiche appa- rentemente contradditorie; da una parte è tagliata fuori dalla storia, ed è pura e primordiale per la sua lingua incontaminata, ma dall’altra deve farsi erede e continuatrice della moderna ragione europea. La distinzione tra lingue latine e tedesco si traduce nell’opposizione tra l’esprit francese e il Geist tedesco. Lo Stato nazionale tedesco, del popolo più vicino alla natura e più lontano dalla storia, incarnazione dell’Urvolk47, può così realizzare la sua natura più umana e più alta, cioè la libertà. Ancora una volta lo Stato è strumentale. Fichte sembra anche istituire una gerarchia al cui vertice viene posto l’Eterno, la libertà asso- luta. La nazione è l’involucro dell’eterno, e lo Stato è lo strumento della nazione. Allo Stato nazionale tede- sco spetta il compito di realizzare l’umanità fra gli uomini, divenendo per gli altri popoli la forza trainante. Fichte non pensa a una politica di conquista: la Germania può diventare custode e garante dell’ordine europeo. All’idea moderna dell’equilibrio degli Stati subentra quella ottocentesca dell’ordine delle nazioni. In questa missione tedesca si conclude l’impulso morale che aveva governato la riflessione fichteana, che si era configurata come impeto liberatorio verso la piena libertà. È la moralizzazione della politica che si può riassumere il senso ultimo della sua teoria: questa ha moralizzato lo stato di natura ed ha concepito lo Stato come un momento necessario di avvicinamento alla completa libertà, oltre che come strumento ordinativo di coercizione esteriore. 2. Hegel La riflessione hegeliana sulla storia e la ragione, cioè sulla politica, inizia dalla contraddizione irrisolta della speculazione fichteana, quella fra libertà del singolo e libertà assoluta dell’universale, fra morale e mondo storico. Hegel la assume e la trasforma nella contraddizione fra l’Idea e la realtà, trovandone il supe- ramento-comprensione con lo Spirito. Lo Spirito (Geist) è la Ragione; è l’insieme delle contraddizioni sto- rico-concrete che il soggetto incontra nel lavoro, nel suo rapportarsi all’oggetto, ed è anche al tempo stesso il loro superamento e compimento logico-ideale. Hegel pensa a una Ragione (Spirito) che non è la moderna ragione calcolante, ma è l’Idea, l’origine del pensiero e dell’azione, che si cala e si perde nel reale e che in esso si recupera, passando attraverso le contraddizioni della storia. Il risultato è la lettura della storia e della politica come razionali e comprensibili, perché elaborate stori- camente dall’uomo. Hegel è teorico della modernità e delle sue forme, ma in modo diverso dal razionalismo moderno: egli rifiuta le antitesi classiche e moderne, perché non rendono comprensibile il reale, ingabbian- dolo in schemi razionalisticamente costruiti a priori. Hegel pensa l’identità dell’identità e della non-iden- tità, la mediazione della mediazione, la Sostanza che è anche Soggetto; pensa cioè la concretezza, intesa come necessario attraversamento e superamento della contraddizione. Dal punto di vista politico ciò significa che il soggetto hegeliano è certo l’attore, ma non più l’origine della politica e dell’azione storica, perché l’origine e la fine è lo Spirito. La sua riflessione sulla politica na- sce dalla critica della teoria del diritto naturale e dalla critica del Terrore, che sono accomunati dal fatto di essere prodotti dall’astrattezza: ciò che ne determina il fallimento è la loro incapacità di passare attraverso l’alienazione e di uscirne con un superamento, cioè con un processo di Aufhebung, che toglie e supera la contraddizione, riconoscendola come tale. Il concetto di Aufhebung è in rapporto con quello di Erinnerung, la memoria dello Spirito che nel punto più alto di comprensione di sé si volta indietro a contemplare il cam- mino logico e storico compiuto, riconoscendolo come proprio. La contraddizione è la negazione determinata. 2.1 Dagli scritti giovanili alla “Fenomenologia dello Spirito” Fin dai suoi scritti giovanili sul cristianesimo, emerge l’esigenza di concretezza che percorre tutta la ri- flessione hegeliana: la polemica è contro la positività, la rigidezza, di cui simbolo è la religione ebraica, fon- data sulla positività della legge che annulla il singolo di fronte all’Assoluto. A ciò si contrappone lo spirito 47 Popolo primitivo e originario, rimasto integro e puro. Storia delle dottrine politiche | Michelangelo Ballabene 81 del cristianesimo, l’amore per l’umanità, e il suo destino, il suo entrare nella contraddizione, che rovescia e supera la dicotomia kantiana tra essere e dover essere. La medesima esigenza di concretezza ritorna anche nella Costituzione della Germania. Hegel afferma la necessità di un risveglio del sentimento nazionale tedesco e la necessità per la Germania di rivendicare la propria originalità nazionale. Hegel non rifiuta la Rivoluzione francese, che comprende nella sua inevitabi- lità, ma evidenzia il problema di dare concretezza storica nazionale al messaggio universale di libertà che da essa viene. Ciò significa la necessità per la Germania di trovare la propria via alla rivoluzione e alla costitu- zione statuale. Hegel riconosce lo Stato come universalità fornita di potenza, superando la riflessione razio- nalistica sullo Stato inteso solo come controparte della libertà dell’individuo. Questa riflessione sulla conflittualità moderna tra soggetto e universale, tra individuo e Stato, viene ri- solta da Hegel attraverso il concetto di eticità, l’identità dell’individuo vivente con la totalità politica: l’idea di totalità che emerge è un’idea compatta, che elimina l’empiricità dei soggetti e delle loro articolazioni sto- riche. Il mondo che Hegel descrive è la polis greca, alla quale egli ricorre per polemizzare contro l’astrat- tezza della libertà borghese, fondata sull’uguaglianza esteriore e la soggettività, del pensiero razionalistico moderno. Anche nella Fenomenologia dello Spirito l’eticità greca sarà definita “bella”, armonica e risolta in se stessa, che viene infranta dalla immane potenza del negativo che è la soggettività cristiana e moderna. Hegel non è contrario alla soggettività; anzi, c’è l’esigenza concettuale che il Tutto sia attraversato e mediato dal soggetto, pensato in una maniera diversa. Viene sancito il compimento e il superamento della parabola giusnaturalistica. Hegel nega la validità dello strumento del contratto: il processo razionalistico di costruzione dello Stato è di per sé impossibile, se si permane nell’ambito del razionalismo; il Tutto non può essere costruito dalle parti; i singoli individui si collocano già all’interno dell’Idea del Tutto, e agiscono gra- zie a questa. Hegel afferma il primato logico e storico del Tutto sulle parti, l’unitaria sovranità dello Stato, ossia l’Idea della totalità etica del popolo, radice originaria su cui si costruisce la vita associata in opposi- zione a ogni interpretazione che ponga un elemento privatistico alla base dell’evidenza e dell’autonomia del momento politico universale. Hegel individua la categoria di sostanza-soggetto come soluzione della difficoltà in cui si trovano la cat- tiva infinità kantiana e l’Assoluto indifferenziato di Schelling: qui svela il processo che ha portato il soggetto ad essere l’immane potenza del negativo, che attraverso la fatica del concetto si apre allo Spirito e infine lo riconosce come origine e fine del proprio cammino nella storia. La Fenomenologia dello Spirito presenta il processo che si compie attraverso le tappe della: • Coscienza: sapere un Altro da sé • Autocoscienza: sapere sé stessi • Ragione: operare in sé • Spirito: operare l’opera dello Spirito Questo processo viene descritto con una serie di figure, che appaiono come momenti logici – e in parte sto- rici – che mostrano il processo di riconoscimento compiuto dalla singola coscienza la quale giunge a sapersi come autocoscienza che non vive isolata, ma tra le altre autocoscienze, come un Io che è Noi e che agisce nel mondo e sul mondo. Scoperta la dimensione sociale del vivere umano, le figure diventano le tappe del suo processo di manifesta- zione: le tappe dello Spirito coincidono con il pensiero e la storia dell’Occidente, a partire dalla polis per giungere alla Rivoluzione francese. La sostanza-soggetto della Fenomenologia è il sistema dei soggetti che esistono negandosi ed entrando in relazione con gli altri, cioè, concretamente, lavorando. Attraverso le figure della lotta fra il servo e il signore, si manifesta la dialettica del riconoscimento, la relazione dialettica che ha in Hegel il ruolo centrale che nel razionalismo aveva il contratto. Dalla lotta che si scatena fra le due autocoscienze per il riconoscimento della legittimità del proprio desi- derio a disporre del mondo, escono le due figure del signore, colui che lotta e che non ha paura della morte, e del servo, che ha riconosciuto il signore come vincitore sottomettendosi e lavorando per lui. La contraddi- zione che è nel mondo si evidenzia quando Hegel dimostra che in realtà il vero vincitore della lotta non è il signore, che esonerato dal lavoro esce in realtà dalla storia, ma il servo, che, attraverso il proprio lavoro, forma, entra in relazione con sé stesso e con il mondo, si apre cioè all’universale. Con il lavoro l’uomo si fa mondo e il mondo uomo. La razionalità del reale è garantita non dal contratto, ma dalla durezza della lotta e del lavoro, che crea la storia umana. È attraverso questo soggetto che lo Spirito è giunto a sapersi come Sé, a divenire esso stesso soggetto. Si tratta di un soggetto concreto, che è passato attraverso il lavoro, la lotta, il rischio della vita e quindi Storia delle dottrine politiche | Michelangelo Ballabene 84 limitatezza del lavoro particolare. La dipendenza dal lavoro non consente alla plebe di entrare nelle dinami- che di riconoscimento e di libertà che sottostanno alla dialettica del lavoro. 2.3 Conclusioni Con il sistema hegeliano il pensiero politico moderno giunge al proprio pieno compimento, in quanto Hegel supera il dualismo della teoria della rappresentanza che lega sovrano e singoli, il dualismo della ra- gion pratica kantiana fra essere e dover essere, il dualismo fichtiano fra libertà del singolo e libertà assoluta. Hegel vuole essere capace di assecondare il reale storico e politico in ogni sua piega e frattura, e di interpre- tarlo dal punto di vista dell’Intero. Nell’epoca dello Spirito, quella moderna degli Stati nazionali, nulla più si sottrae alla comprensione umana, resa possibile dal fatto che l’uomo è l’artefice della propria opera; che la politica sia l’ambito dello Spirito oggettivo significa che in essa è rinvenibile un tessuto razionale. La filosofia hegeliana rivela astrattezza perché la conciliazione del reale con il razionale avviene solo da un punto di vista del filosofo, che comprende ma non risolve, non cambia il mondo. Hegel muove una polemica contro la società inglese, aristocratica, che diventa esempio della corruzione politica di un popolo. Nel comprendere la necessità di modificare i meccanismi di accesso al voto, Hegel mostra di sapere interpretare i profondi mutamenti politici e sociali in atto nella società europea; riconosce la necessità per gli Stati di affermare i principi universali emersi dalla Rivoluzione francese. XI. L’ordine dopo la Rivoluzione La cultura europea degli anni della restaurazione è caratterizzata dalla consapevolezza della necessità di rimediare alla rottura rivoluzionaria, e di integrarne alcuni principi all’interno dell’ordine politico. La prima strategia controrivoluzionaria vuole individuare un principio di stabilità del potere politico che ne fornisca le basi immutabili e trascendenti; tale principio viene individuato nella tradizione, in grado di ristabilire e legit- timare un ordine gerarchico basato sulla fedeltà dei sudditi al sovrano, e nella religione, intesa come sintesi dei valori tradizionali. La seconda strategia tende a prendere le distanze dagli esiti radicali e democratici dell’esperienza rivoluzionaria, e a raffreddare l’energia politica sprigionata dalla rivoluzione. Qui troviamo le proposte del liberalismo moderno e le nuove elaborazioni di una filosofia positiva. Si assiste in questi anni a un recupero politico del concetto di natura, intesa come fondamento della tradi- zione gerarchica, dei doveri, del principio di organizzazione. 1. I controrivoluzionari Gli oppositori della rivoluzione ne sottolineano il carattere distruttivo per quei processi di lunga durata in cui, per loro, va ritrovata la garanzia di stabilità dell’ordine politico. 1.1 Burke È un’icona del conservatorismo; è impegnato nell’affermazione della costituzione, delle istituzioni e delle tradizionali libertà britanniche, nella tutela dei diritti dei sudditi indiani della Corona, oltre che nell’at- tacco all’illuminismo e alla Rivoluzione. Va ricordato il Discorso agli elettori di Bristol (1774) dove viene avanzata la prima teorizzazione del mandato libero, affermando che ogni rappresentante non tutela gli interessi particolari dell’elettorato che lo ga votato, ma l’indivisibile interesse generale della nazione, e che per questo deve poter agire in modo indi- pendente. Questo principio – che implica quello dell’unità del corpo politico e della superiorità dei rappre- sentanti sui rappresentati – è la base teorica del moderno parlamentarismo liberale, e della forma politica dello Stato moderno. Burke ipotizza che l’interesse generale abbia origine dalla lenta crescita storica, dalla tradizione, e non dalla violenza rivoluzionaria né dalla razionalità individualistica, artificiale e costruttivi- stica. Nella Riflessioni sulla Rivoluzione francese, che costituiscono il primo testo organico della letteratura controrivoluzionaria, Burke ricava un giudizio sulla Rivoluzione quale evento distruttivo e innaturale: è stata una rivoluzione che ha cercato di fare tabula rasa del passato, e di costruire dal nulla un nuovo ordine, fon- dato sui principi di una ragione astratta e priva di spessore storico. Secondo lui invece, la vita associata degli uomini non è governata dalla ragione astratta, ma dallo scorrere delle generazioni, legate tra di loro da un contratto originario ed eterno; è in nome del peso e dell’incidenza degli elementi extra-razionali50 della 50 Affetti, istinti, abitudini Storia delle dottrine politiche | Michelangelo Ballabene 85 politica che Burke condanna la pretesa dei philosophes di imporre al mondo la propria individuale raziona- lità, derivandone una politica scientifica, che ha la pretesa di stabilire le regole universali della condotta umana e politica. La scienza politica è per lui sperimentale. L’eguaglianza morale dell’umanità riposa sulla vistù dei sin- goli, così come l’equilibrio sociale scaturisce non dall’opera dello Stato, ma dalla naturale ricomposizione del dissidio tra interessi reciprocamente conflittuali. Tra ordine naturale e ordine politico vi è una simmetria provvidenziale. Burke vede che all’aspetto distruttivo della ragione rivoluzionaria si affianca necessariamente quello costruttivo: la Rivoluzione abbatte lo Stato esistente, ma ne crea uno nuovo più potente, perché incaricato di realizzare nuove istituzioni perfettamente razionali: a tal fine Lo stato deve avere in proprio potere tutta la società. Respinge la soppressione di quelle istituzioni intermedie che in Francia si erano storicamente dimostrate capaci di arginare la pretesa del potere politico di governare ogni aspetto della vita sociale. L’adesione alle istituzioni storicamente consolidate e l’appello alla religione come base di ogni forma di vita associata ven- gono così opposti alla barbara filosofia illuministica, il cui costruttivismo, per Burke, è destinato a fare nau- fragio a causa della sua astrattezza. 1.2 I controrivoluzionari cattolici La dottrina dei controrivoluzionari cattolici non contesta soltanto la rivoluzione, ma l0intero sistema di pensiero illuministico e rivoluzionario, a partire da un assunto apodittico51 e autoevidente: la fondazione na- turalmente trascendente della società e del potere politico. Essi hanno l’intento di dimostrare che il meccani- smo di distruzione e di costruzione tipico della ragione rivoluzionaria è di per sé instabile. Ma il loro intento è di risalire a monte della crisi rivoluzionaria, per interpretarla alla luce di un rigido determinismo teologico- politico. Dio è il fondamento della legittimità della politica, sulla base di un’interpretazione letterale della Lettera ai Romani di Paolo. L’ordine politico è centrato su Dio, che lo abbandona alle ferree leggi di una na- tura concepita quale destino inesorabile di ordine gerarchico; la storia si incarica di tramandare le forme dell’ordine come tradizionale. Il potere unico è indivisibile e organizzato gerarchicamente, e trascende ogni possibilità di intervento autonomo da parte degli uomini. La coincidenza tra volontà di Dio, ordine naturale e storia li porta a negare che l’ordine politico sia costruibile attraverso quegli elementi di libertà e razionalità che lo renderebbero un prodotto specificatamente umano. È quindi inutile cercare di sostituire a Dio l’uomo e la sua ragione come principi di legittimità della politica, poiché ogni tentativo di sostituire Dio con l’uomo non produce altro che instabilità e disordine. Il principio della fondazione divina dell’ordine, così, diventa in questi autori una teo- logia politica rigidamente deterministica: i dogmi religiosi sono il fondamento dell’ordine spirituale e di quello politico. La sovranità è inscritta in questa prospettiva: il sovrano è un diretto ministro di Dio e il suo mandato è quello di conservare e amministrare un ordine che è intrinsecamente stabile, che è l’unico possibile e che p regolato dalla volontà di Dio e della natura. La sovranità non può quindi essere assoluta: essi, in quanto ari- stocratici, sono eredi di una lunga lotta contro l’accentramento monarchico. Il potere non viene limitato con gli strumenti classici. Il diritto di resistenza è solo quello tradizionale dei ceti, che richiama il sovrano ai li- miti naturali del suo potere, oppure viene attribuito, dotandolo dei tratti di una semplice restaurazione, al solo pontefice. L’unica corretta forma di libertà è quella della connessione costituzionale delle libertates di Antico regime. Vengono comprese alcune dinamiche della loro epoca: ad esempio, il ruolo necessario del potere e della religione per dare stabilità alla società; oppure, che la ragione moderna critica e distruttrice è anche intrinse- camente portata a costruire un potere politico più forte e invadente di quello tradizionale. 1.3 Maistre Fortemente pessimista sulla natura umana, Maistre sostiene che la ragione individuale è impotente, ca- pace com’è di produrre solo opinioni divergenti. Egli afferma che ci debba essere una religione nazionale, una religione politica, resa obbligatoria dal sovrano per motivi di coesione interna. Quella che in Rousseau era l’esigenza di una libera adesione da parte di ciascuno alla cosa pubblica, qui assume il significato rove- sciato di un’imposizione dall’alto. 51 Di ciò che filosoficamente, essendo evidente di per sé, non ha bisogno di dimostrazione, o se dimostrato è logicamente inconfutabile. Storia delle dottrine politiche | Michelangelo Ballabene 86 Maistre ribadisce che il fondamento della politica non è l’uomo, ma Dio: l’origine della politica non è a disposizione della ragione umana, e l’unica legittimità veramente tale – quella della monarchia – non si giu- stifica se non per la lunga durata. La storia è la politica sperimentale, che cioè è la dimostrazione, ex post, di una legittimità della politica che sfugge alla ragione. La Provvidenza vuole che l’uomo sia incapace di go- vernarsi, che la sovranità sia fondata sul sacrificio e sulla punizione più che sulla razionalità. La Rivoluzione francese pare a Meistre la manifestazione storica dell’impossibilità che l’uomo con la sua ragione possa essere artefice della storia. I rivoluzionari sono solo in apparenza i protagonisti della rivo- luzione: in realtà questa è una macchina che agisce spinta da una volontà diabolica, mossa da una necessità che non obbedisce alla ragione umana, che ne resta travolta. Non è l’uomo ad agire, ma Satana. Nel momen- taneo trionfo del male, egli non vede soltanto un crimine sistematico che culmina in quel tentativo di deici- dio che è stato il regicidio, ma anche la modalità concreta per mezzo della quale la Provvidenza prepara la salvezza della Francia e la reintegrazione del potere dopo l’anarchia degli anni rivoluzionari. Solo Dio è il motore della storia. Se la rivoluzione fosse stata il risultato di un accecamento delle menti umane, non avrebbe potuto avere la forza di rovesciare un ordine voluto da Dio; proprio la durata e gli apparenti successi della rivoluzione te- stimoniano il fatto che essa è stata un miracolo di origine divina, un’espiazione che Dio ha mandato per pu- nire la corruzione dell’Antico regime. Essa è destinata a sprofondare nel nulla, mentre l’ordine necessaria- mente torna a regnare. La politica potrà essere sottratta al destino moderno di essere perennemente squilibrata e oscillante fra assolutismo e ribellione se la sovranità si riconoscerà fondata su Dio e non sulla ragione, e se accetterà di trovare i propri limiti nell’autorità del papa. 1.4 Bonald Bonald si differenzia da Maistre per una vigorosa attitudine speculativa che gli consente di dare una fon- dazione filosofica alle proprie tesi. Il suo impianto teorico è concentrato sulla critica dell’astrattezza mo- derna e, in positivo, sulla teoria del linguaggio – dono immediato di Dio all’uomo, così come la società. La dottrina della Legislazione primitiva (1802) serve da un lato a negare autonomia alla parola e alla ragione umana, dall’altro a dare una spiegazione razionale ai rapporti politici. Per Bonald la ragione è un va- lido strumento per comprendere la logica sistematica del mondo che l’uomo non può modificare. Nel potere politico prende forma concreta e storica una legge metafisica secondo la quale ogni rapporto tra gli enti deve essere il risultato di un’azione casuale. La sua visione della società assume il profilo di una spiegazione che obbedisce a un ritmo ternario: come il rapporto di causa ed effetto tra Dio (causa) e creatura (effetto) è stato mediato da un mezzo che ha trasmesso l’azione casuale (il Verbo), cos’ il rapporto fra il po- tere del re e la società dei sudditi richiede di essere mediato da un Ministro (nobiltà). Le triadi di Causa, Mezzo, Effetto e di Potere, Ministro, Suddito, sono organizzate per cerchi concentrici dal generale al partico- lare. È il potere a conservare coesione sociale e legittimazione alla società. La regola trinitaria è funzionale allo sviluppo di un sistema della società che conferisce al pensiero di Bonald il carattere più organicistico tra i controrivoluzionari. Per lui esiste una società politica, guidata dall’aristocrazia, e una società civile, luogo della produzione. La fondazione religiosa e al tempo stesso naturale della politica si manifesta nel modo più chiaro nei parallelismi tra forme del dogma e forme della politica52; la sua teologia politica gli consente di definire la rivoluzione come una manifestazione infernale, come la negazione di ogni civiltà e di ogni potere conserva- tore, e in quanto tale necessariamente votata al fallimento, perché la ragione umana non può costruire e con- servare da sola l’ordine politico. Pero, con la Rivoluzione, la Francia ha espulso da sé i vizi che la debolezza dell’autorità aveva lasciato crescere. 1.5 Lamennais Lamennais pone al centro della propria argomentazione il senso comune, che vede come principio di autorità, coincidente con la stessa ragione umana: questa si dà sempre una religione per appagare il proprio bisogno di certezze. La religione più perfetta è incarnata nell’apparato più autorevole – la Chiesa cattolica – è per lui anche quella più razionale, che fornisce maggiori certezze alla società. La ragione moderna è una ragione irrazionale, e tutto quanto costruisce è instabile. Solo Dio è l’autore della società, e solo il cristiane- simo cattolico ne è garanzia di conservazione. 52 Cattolicesimo=monarchia; Luteranesimo=aristocrazia; Calvinismo=repubbliche democratiche; Anglicanesimo=go- verno misto. Storia delle dottrine politiche | Michelangelo Ballabene 89 commerci. Nella modernità postrivoluzionaria si istituisce una tensione tra l’obiettivo liberale della limita- zione dello Stato e gli ideali repubblicani di libertà politica intesa come partecipazione. I popoli devono esercitare una sorveglianza attiva e costante sui loro rappresentanti. La libertà politica – intesa come il sistema costituzionale delle libere istituzioni – permette infatti un controllo sistematico sul potere, ostacolando la sua degenerazione nel dispotismo, e favorisce la maturazione della coscienza morale e civica dei cittadini. A differenza del costituzionalismo di Constant, il liberalismo moderato dei dottrinari evita di affrontare il problema della sovranità, e concepisce la società come un organismo che delega alla monarchia il compito di difendere i diritti costituiti. Essi difendono la carta octroyée del 1814, accettando uguaglianza di fonte alla legge, libertà di coscienza, di parola e di stampa, abolizione del feudalesimo, bicameralismo e forte potere di una Corona cui sono affidati tanto l’esecutivo quanto il legislativo. Guizot, teorico del juste milieu tra l’assolutismo e la democrazia, trova nello Stato di diritto, nella difesa del regime rappresentativo e nella pubblicità degli atti politici, una forma di costituzionalismo in grado di assicurare l’ordine pubblico e la sovranità della ragione, e garantendo gli interessi della classe media. 2.2 Saint-Simon Nell Francia della restaurazione, l’esigenza di trovare una risposta alla crisi dell’ordine politico porta a individuare un modello alternativo al liberalismo moderato, sempre meno adeguato a stabilizzare la società: questa alternativa è il positivismo. Secondo Claude-Henri de Saint-Simon, ora si tratta di gettare la basi di una costruzione nuova in grado di riportare la politica, la morale e la filosofia alla loro vera occupazione, quella di costruire la felicità so- ciale, individuandone la garanzia nell’industria, unica fonte di ogni ricchezza e prosperità. La società indu- striale è l’unica dotata di un principio positivo d’azione, ovvero la produzione di beni. Il progresso scienti- fico, revocando ogni sostegno alle dottrine teologiche e metafisiche, ha privato di legittimità l’organizza- zione sociale del Medioevo e della prima età moderna. L’epoca contemporanea è quindi bisognosa di un nuovo ordine, di una nuova organizzazione e di una nuova legittimità: è la filosofia positiva il fondamento di una nuova sintesi sociale, cioè di un nuovo sistema organico di religione, politica, morale ed economia. La filosofia positiva è la scienza che individua le vere leggi fondamentali della natura e della società. La politica si configura come una parte della scienza generale, e va riorganizzata in conformità con lo spirito di questo sistema. SI profila il sogno scientista di una politica perfettamente conoscibile, e quindi certa e sta- bile, che affida alla classe degli intellettuali e degli scienziati il compito di procurare alle altre le regole gene- rali di condotta. Questa prospettiva ha come scopo di accrescere la ricchezza nazionale mediante la produzione e trova il suo principio costituente nella cooperazione sociale, dedotta dalla universale fratellanza degli uomini. Per Saint-Simon il principale problema sociale non consiste nel conflitto tra lavoratori e datori di lavoro, ma tra ceti produttivi e ceti improduttivi: questi ultimi sono costituiti dai ceti tradizionali, che si distinguono per i privilegi o per la gloria, l’onore e la guerra. Il governo diventa superfluo: viene a trasformarsi nella semplice amministrazione delle cose; la vittoria dei ceti produttivi si traduce nell’edificazione di una sorta di società senza Stato, in cui solo il lavoro e il sapere sono titolo di merito e fattori di ascesa sociale. 2.3 Comte La solidarietà necessaria alla società industriale deve dunque essere assicurata da un sistema intellet- tuale equivalente alla religione cristiana; a questo proposito è Auguste Comte che tende a richiamarsi al mo- dello di società organica tracciato dal pensiero della Restaurazione. Egli riprende da Maistre l’immagine della società medievale come espressione storica di una società organica; non è l’unica però. Anche la re- staurazione di quel sistema è divenuta ormai improponibile. Il sistema della società industriale è destinato a poggiare su quella conciliazione tra ordine e progresso che può essere assicurata dal potere degli scienziati positivi e degli industriali. Comte afferma la priorità dello sviluppo intellettuale su quello politico, e ritiene che l’avvento del nuovo sistema sociale non si collochi in un futuro prossimo: avverrà solo quando tutte le scienze avranno raggiunto lo stato positivo, quando dunque vi saranno le condizioni necessarie alla completa edificazione della società industriale. Lo stadio positivo si configura come la conclusione di un processo storico articolato in tre età – teologica, metafisica, scientifica – a cui corrispondono tre stadi, caratterizzati da una diversa mo- dalità di spiegazione dei fatti storici e naturali. Lo stadio teologico caratterizza il passaggio dell’uomo dalla natura alla cultura, e presenta una società fondata sul lavoro degli schiavi e sulla guerra, mentre il governo è di tipo teocratico e militare. Lo stadio metafisico dissolve le fantasie mitiche e religiose, sostituendole con le Storia delle dottrine politiche | Michelangelo Ballabene 90 entità astratte del pensiero filosofico; qui si affermano individualismo, egoismo e utilitarismo. Lo stadio scientifico o positivo sostituisce alla fantasia e al ragionamento astratto l’osservazione e il rispetto dei fatti. Promuoverlo anche nella politica, nella morale e nell’economia è il compito della filosofia positiva, che deve unificare tutti i risultati delle scienze particolari, orientandoli alla realizzazione di una scienza della società, che Comte chiama sociologia. Come ogni società organica, anche quella industriale viene qualificata in termini di consenso, ossia nella prospettiva di quel rapporto necessario tra le diverse componenti del corpo sociale che è indispensabile per assicurare l’armonia sociale, e quindi l’ordine politico. L’autorità intellettuale e morale del sapere legittima l’esercizio dell’autorità politica facendo prevalere lo spirito d’insieme, disciplinando il comportamento delle varie classi. La solidarietà tra le diverse componenti della società industriale non deve però essere tale da ostacolare il progresso. Con il Sistema di politica positiva e il Catechismo positivista la filosofia positiva si trasforma in una religione positiva. L’equilibrio tra ordine e progresso si sposta a favore del primo, in nome della cre- scente prevalenza di una forma di organicismo politico. 3. La Germania 3.1 Herder In Herder troviamo la riscoperta delle tradizioni e delle culture nazionali destinata a venire sviluppata poi dallo Sturm und Drang e dal romanticismo. A lui si deve la creazione del termine nazionalismo, anche se la sua valorizzazione e idealizzazione della individualità nazionale e culturale germanica è funzionale alla rivendicazione del più generale diritto delle genti a manifestare in modo autonomo la propria specificità. Ogni popolo va considerato quale manifestazione unica e originale della divinità: ogni popolo contribuisce alla formazione dell’umanità, una armonica ricomposizione delle successive conquiste storiche dell’uomo. Herder concepisce la storia e la natura nei termini di uno sviluppo sottoposto a leggi immutabili. Natura e storia cooperano all’educazione dell’uomo all’umanità, poiché l’unità profonda di questi due mondi deriva dall’essere entrambi creazione e manifestazione di Dio. Le tappe della successione delle epoche storiche sono scandite da Oriente alla Grecia e dall’antichità germanica. Il processo parallelo della evoluzione della natura e della storia permette di realizzare, per effetto dell’educazione e della provvidenza divina, lo scopo della natura umana, ossia l’umanità dell’uomo. 3.2 Il romanticismo La cultura romantica in Germania si esprime anzitutto nella critica della ragione così come era stata in- tesa dagli illuministi: essa ritiene di individuare nel Terrore giacobino e nell’imperialismo napoleonico l’estrema applicazione di una razionalità che pretende di avere validità universale facendo astrazione da ogni concreta circostanza di tempo e di luogo. I romantici oppongono il principio della soggettività come senti- mento concreto. L’interiorità soggettiva romantica si sottrae alle conseguenze organizzative che scaturi- scono da un rigoroso individualismo: rifiuta cioè il momento esterno della politica: al dispotismo illuminato e paternalistico prerivoluzionario viene contrapposta la bella individualità greca; allo Stato rivoluzionario l’amore, l’organismo, il culto del passato medievale. L’interiorità spirituale si configura come un principio reattivo che non solo non è in grado di fondare un’autonoma e coerente prospettiva politica, ma che sublima ogni problema reale nella sfera poetica. In que- sta riduzione della politica a poesia, è individuabile sia la costante autentica del romanticismo, sia ciò che distingue i romantici da Haller. Nel pensiero di Schlegel il romanticismo si basa sul tema dello Stato interiore, ossia su di una politica sentimentalizzata che si traduce nel rifiuto di ogni differenza politica e istituzionale. Egli aderisce alla con- sueta tematica controrivoluzionaria: rifiuto del meccanismo artificiale dello Stato moderno e valorizzazione dell’organicismo, ruolo centrale della religione come veicolo tradizionale di legittimazione e come fattore di limitazione del potere del monarca, valorizzazione del Medioevo quale epoca organica, in quanto basata su una organizzazione corporativa della società. Novalis traccia il paradigma del cattolicesimo universalistico medievale come modello insuperato di ordine politico e di unità spirituale, che esalta l’antica libertà delle comunità germaniche. Egli conferma l’immagine del romanticismo politico come di una poeticizzazione della politica attraverso la proiezione esterna dell’Io sentimentale. Egli elabora una concezione dello Stato come macroantropo, come un grande uomo di cui le corporazioni rappresentano i singoli organi, la nobiltà la facoltà morale, il clero quella reli- giosa, i dotti l’intelligenza, il re la volontà. L’amore è capace di operare una riunificazione organica di ciò Storia delle dottrine politiche | Michelangelo Ballabene 91 che è separato. Egli vede nel cristianesimo la forza rigeneratrice in grado di ricomporre l’unità spirituale d’Europa. Adam Muller avanza una proposta di riorganizzazione organica dell’intera società che vede nello Stato, concepito come un organismo entro il quale convivono le diverse forze sociali e nel quale convergono le di- verse generazioni, la realizzazione di un principio politico universale, che però non si traduce né in atteggia- menti nazionalistici e neppure nell’esaltazione di una politica di potenza. Egli riprende l’idealizzazione del Medioevo in nome di una comunità organica entro la quale diritti e doveri siano innati in ogni suo compo- nente, e concepita come una forma permanente e immutabile basata sulla tripartizione dei ceti che la costitui- scono. La tradizione diviene un paradigma immutabile della convivenza sociale. Vi è l’esaltazione di fattori produttivi di ripo precapitalistico. Non il lavoro e il capitale, ma la natura, l’uomo e la tradizione. Il libero scambio tende infatti a distruggere la comunità nazionale. Muller oppone la restaurazione di un Tutto inter- namente coerente che ricomprenda l’individuo, la società e lo Stato. Mentre gli individui non si esprimono in quanto singoli, ma in quanto componenti di un corpo, e mentre la società si configura come un’organizza- zione di tipo cetuale che riconosce al clero il diritto di proprietà e gli attribuisce un compito di mediazione politica tra nobiltà e borghesia, lo Stato assume il profilo di una monarchia cui spetta il compito di assicurare la continuità della tradizione e dell’assetto politico, sociale ed economico. VEDI ALTRI AUTORI A PAG 349-350 3.3 Humboldt In Prussia ha luogo un’epoca di riforme istituzionali, civili, militari ed educative nei primi anni dell’Ot- tocento. L’esponente più significativo di questa stagione riformatrice, nella quale si tende a coniugare li- bertà, ordine politico, razionalità e patriottismo in uno sforzo di partecipazione dei cittadini alla vita politica, è Humboldt. Dall’eredità rivoluzionaria egli accetta e condivide la moderna differenziazione tra uomo e cittadino, inserendola in un orizzonte concettuale di derivazione kantiana, che vede il soggetto come espressione della libera personalità individuale, razionale e multilaterale, e lo Stato come il sistema esterno di limitazione della libertà del singolo. Egli si colloca nella prospettiva della libertà moderna per giudicare sia la libertà degli antichi, sia il di- spotismo illuminato prerivoluzionario. Mentre l’energia politica dell’uomo antico imponeva un’adesione completa e integrale alla città, che non lasciava spazio alla separazione tra interno ed esterno, tra pubblico e privato, l’uniformità dell’azione di governo propria dello Stato paternalistico dei moderni costringe gli indi- vidui a un conformismo ideale che depotenzia l’energia spirituale contenuta in ogni libera personalità. Se il vero fine dell’uomo è la formazione più alta e proporzionata delle sue forze, per il quel sono necessarie la libertà politica e la varietà delle situazioni, alla politica moderna spetta il compito di conciliare la massima libertà interiore con una dimensione esterna destinata a imporre dei limiti a questa stessa libertà. La politica diviene l’orizzonte che consente di promuovere l’organizzazione politica del popolo. Lo Stato non può essere educatore. L’obiettivo di Humboldt è un tipo d’uomo che si esprime compiuta- mente assumendo il profilo di soggetto politico, libero perché subordinato a una legge che riguarda unica- mente la dimensione esterna della sua libertà e che ne rispetta l’assoluta dignità morale. Viene delineato un modello costituzionale destinato a supportare l’opera dei riformatori prussiani, che esclude sia il momento democratico – se la democrazia è intesa come partecipazione immediata di tutti al governo della cosa pub- blica – sia la passività cui sarebbero costretti i cittadini se fossero sottoposti a un governo paterno e pura- mente amministrativo. Il liberalismo humboldtiano non è solamente difensivo, ma prefigura una dimensione di intervento attivo nella concretezza dell’attività politica, allo scopo di creare le condizioni per sviluppare razionalità e partecipazione alla cosa pubblica. La prospettiva di uno Stato di popolo e di ragione lo porta a inserire il suo progetto nell’orizzonte della rappresentanza politica. La sua proposta si traduce nella prospettiva di una monarchia costituzionale, a co- stituzione scritta, basata sulla rappresentanza cetuale nazionale, con due Camere, che rappresenta una via intermedia tra rappresentanza popolare e ceti di Antico regime. La rappresentanza è organizzata in un si- stema di ordini a tre livelli: comunali, provinciali, generali. 3.4 Savigny Savigny è il maggiore esponente della Scuola storica del diritto, che fonda una strategia antilluministica intorno alla nozione solo apparentemente romantica del Volksgeist. La categoria di spirito del popolo è asso- ciata all’idea di una missione tedesca destinata a riscattare, attraverso l’autoformazione e l’autoeducazione di un popolo, condotte sia mediante la riflessione sia mediante la pratica politica. Storia delle dottrine politiche | Michelangelo Ballabene 94 4.2 James Mill L’impegno di Mill consiste essenzialmente nel tentativo di applicare al tema del governo i principi af- fermati da Bentham in campo giuridico. Mill propugna la modifica del sistema rappresentativo della Camera dei Comuni per difendere una forma più ampia di rappresentanza. Egli ritiene che l’ampliamento della rappresentanza non possa fare ap- pello né a concezioni astratte, come le dichiarazioni dei diritti, o generali, come la separazione dei poteri, ma che debba essere inserito in una prospettiva suscettibile di equilibrare l’interesse egoistico e individuale con l’interesse collettivo. La forma di governo in grado di realizzare questa esigenza di bilanciamento è la demo- crazia rappresentativa. Il dualismo fra rappresentanti e rappresentati può essere temperato dalla brevità del mandato, poiché, quanto più breve è il periodo in cui il rappresentante conserva la propria funzione, tanto più diviene difficile compensare la rinuncia agli interessi del periodo più lungo con gli eventuali profitti del malgoverno del periodo più breve. Egli ritiene inoltre che l’educazione politica dei cittadini richieda una progressiva estensione del suffra- gio, che tuttavia rimane vincolato a restrizioni57. Ciò non impedisce ai cittadini di giungere a una consapevo- lezza tale dei propri interessi individuali da permettere l’attuazione del principio utilitaristico della massi- mizzazione dell’utilità per il maggior numero. Mill non mostra particolare sensibilità nei confronti delle ga- ranzie costituzionali per la libertà, che viene concepita come sicurezza personale della proprietà privata e politica dinanzi al potere. La riforma auspicata da Bentham e Mill viene attuata nel 1832 con il Reform Bill: considerata all’apoca come una seconda Magna Charta nonostante il diritto di voto venisse esteso al 5% della popolazione, viene a consacrare l’emancipazione dei ceti medi grazie all’ampliamento della rappresentanza parlamentare e a sbloccare la cristallizzazione degli istituti costituzionali inglesi, inaugurando un’ulteriore serie di riforme. XII. Società e nazione 1. La questione sociale Il 12 gennaio 1832 una parola antica dal significato nuovo – proletario – faceva la sua comparsa in Corte d’Assise a Parigi, nell’autodifesa dell’agitatore rivoluzionario Louis Blanqui, per indicare la profes- sione di trenta milioni di francesi, che vivono del loro lavoro e che sono privi di diritti politici. Nel 1848 la coscienza europea sarebbe stata turbata dall’emergere di una questione sociale di tipo nuovo, irriducibile alla tradizionale figura della povertà e dunque non trattabile con il consueto mix di carità privata, repressione e assistenza pubblica. I dibattiti che in quegli anni si sviluppano attorno al tema del pauperismo registrano i caratteri inquie- tanti del nuovo oggetto destinato a dominare gli sviluppi del pensiero politico nel corso dell’Ottocento: masse enormi di lavoratori, da cui dipende in buona misura la creazione della ricchezza nel nuovo mondo industriale; la società moderna pare ospitare nel suo seno una contraddizione lacerante. Nella prima metà del XIX secolo la scoperta e l’analisi della questione sociale comportano sia la riedifi- cazione dei saperi e delle tecniche di governo, sia lo sviluppo delle prime proposte di riforma economico- sociale e dei primi sistemi di pensiero propriamente socialisti e comunisti. Simonde de Sismondi è il polemica con l’assunto dell’autoregolazione del mercato, e nega che il si- stema industriale moderno sia caratterizzato da un’intrinseca tendenza all’equilibrio. Accusa i sostenitori del lasseiz faire di limitarsi a proporre ricette di politica economica che tendono ad arricchire ancora di più il ricco, rendendo il povero sempre più povero. Lo squilibrio si pone come carattere strutturale del sistema creato dalla moderna divisione del lavoro; è dunque compito del potere sociale e del legislatore intervenire per temperare le disuguaglianze e consentire agli uomini di tutte le condizioni di partecipare ai benefici pro- dotti dalla nuova organizzazione sociale. Per quanto riguarda i sistemi di pensiero socialisti, che furono definiti utopistici, quel che unifica le po- sizioni degli autori che li proposero è da una parte la critica delle crescenti disuguaglianze sociali connatu- rate allo sviluppo del sistema capitalistico; dall’altra la fiducia in un’organizzazione razionale e scientifica della società e dell’economia che avrebbe consentito di realizzare superiori ideali di giustizia. In Inghilterra, con lo sviluppo del Cartismo, spicca la figura di Robert Owen: egli introdusse significative riforme e un’or- ganizzazione su base cooperativa nella fabbrica tessile di New Lanark, ma perse successivamente gran parte del suo patrimonio nel tentativo di fondare negli Stati Uniti la comunità di New Harmon, nata per illustrare su piccola scala la possibilità di realizzare una nuova società sulla base di principi socialisti. Nel 1836 57 Genere, età, censo, reddito Storia delle dottrine politiche | Michelangelo Ballabene 95 pubblicò il Libro della nuova morale, in cui erano presentati i lineamenti di fondo del suo pensiero: la con- vinzione che il carattere dell’uomo sia in ultima istanza prodotto dall’ambiente sociale. In Francia il socialismo conosce le sue prime realizzazioni con François Babeuf e Charles Fourier. La radicale critica mossa da Fourier al sistema capitalistico, accusato di ridurre in una condizione di sostanziale schiavitù i lavoratori, si intreccia con un’originale concezione della storia, secondo cui la civiltà a lui con- temporanea rappresentava soltanto una tappa intermedia tra l’Eden e la futura armonia. Egli prevede un ri- torno alla vera legge della natura, con gli individui inquadrati in piccole comunità produttive (falangi) a loro volta raccolte in falansteri. Pierre-Joseph Proudhon sostiene che la proprietà sia un furto. Egli sviluppa una concezione mutuali- stica e cooperativa dell’ordine sociale, che oscilla tra l’anarchismo e un radicale federalismo. Il suo progetto politico ha un’impronta fondamentalmente riformistica, mirando alla trasformazione graduale dei capisaldi dell’ordinamento sociale capitalistico; la sua fiducia nella superiorità di un’organizzazione scientifica e ra- zionale della società non viene meno neanche dopo la sconfitta del moto del ’48. Convinto che i difetti fon- damentali del capitalismo derivassero dal valore attribuito allo scambio monetario, al capitale finanziario e al sistema creditizio, egli propone come istituto fondamentale della nuova società il credito gratuito. Blanc e Blanqui si prestano a illustrare una dicotomia che rimase a lungo viva all’interno del movi- mento socialista francese. Bisognava limitare gli effetti devastanti della concorrenza capitalistica grazie all’istituzione di atelier sociaux e all’azione direttiva dello Stato. Fu tuttavia dall’arretrata Germania che giunsero alcune delle diagnosi più lucide della nuova situazione determinata dal progredire dell’industrializzazione. Troviamo almeno due filoni di pensiero politico liberale: quello tedesco-settentrionale, di impronta storicista (Dahlmann) e quello tedesco-meridionale (Rotteck). Queste due correnti condividevano un’immagine della società come spazio libero da rilevanti scissioni. In Rotteck un accentuato individualismo produce l’immagine di una società coincidente con la somma degli spazi di libertà dei singoli. La proposta di civilizzazione e liberalizzazione dello Stato aveva però limiti ben precisi, identificabili nel rispetto delle forme storiche di organizzazione politica, e soprattutto nella perdu- rante esclusione da ogni diritto della plebe, anche attraverso un diritto di voto censitario Gli autori che si riconobbero nella sinistra hegeliana identificarono cos’ il difetto fondamentale della filosofia politica del Maestro, come scritte Arnold Ruge, nel fatto che egli aveva presentato come necessità logiche il monarca ereditario, i maggioraschi, il sistema bicamerale, laddove ciò di cui solo poteva trattarsi era esibire tutte queste cose come prodotti della storia, e spiegarle e criticarle come esistenze storiche. In Feuerbach tale critica assume la veste di una critica dell’alienzazione religiosa, ossia della modalità attraverso cui l’uomo, proiettando la propria essenza fuori di sé nell’esteriorità di un immaginario essere di- vino, finisce con l’essere dominato da quegli stessi attributi umani resisi autonomi dal soggetto creatore. Bruno Bauer applica dapprima gli strumenti della critica testuale per mostrare il carattere di mera opera letteraria dei vangeli, per giungere poi ad articolare una critica ancor più radicale di quella di Feuerbach all’alienazione religiosa: egli imputa al cristianesimo di avere introdotto nel mondo l’hegeliana coscienza infelice. Giunge però a negare ogni religione, ponendosi l’obiettivo di indicare all’umanità la via attraverso cui pervenire all’autocoscienza della propria libertà La convinzione di Ruge è che il liberalismo possa giungere alla propria verità solo dissolvendosi, attra- verso una riforma della coscienza che lo trasformi in democratismo. Le prime formulazioni teoriche in lingua tedesca di un sistema di pensiero socialista sono quindi matu- rate all’interno della sinistra hegeliana, trovando negli anni Quaranta un’espressione particolarmente incisiva con Hess. In questi ambienti si formò anche Lorenz von Stein, lo studioso che maggiormente contribuì a promuovere in Germania la consapevolezza della minaccia del movimento sociale. Egli esprime la convin- zione che sia passato il tempo dei movimenti puramente politici; se ne prepara un altro, in cui una classe dello Stato medita di rovesciare la società. La plebe hegeliana si staglia nell’analisi di Stein sulle rovine dell’ordine cetuale, si fa classe e si appropria della parola d’ordine dell’uguaglianza infondendo in essa nuovi contenuti. Negli scritti di Stein degli anni Quaranta la società si presenta complessivamente organizzata attorno ai principi formali di libertà e uguaglianza incarnati dallo Stato e dal diritti, che proprio il movimento sociale del proletariato tenta di risolvere facendo coincidere uguaglianza formale e uguaglianza materiale. Da una parte egli è un lucido nemico della rivoluzione sociale, dall’altra egli ritiene che l’avvento del proletariato sulla scena della storia europea abbia una volta per tutte installato la questione sociale nel cuore del pro- blema politico. Sotto il profilo politico, la proposta di Stein pone l’accento sull’esigenza che lo Stato predi- sponga un’attività amministrativa che assuma come proprio oggetto centrale quello di elevare le classi basse, per integrare continuamente la sanzione costituzionale dell’uguaglianza del diritto pubblico. Questa Storia delle dottrine politiche | Michelangelo Ballabene 96 monarchia sociale può essere considerata all’origine di una forma specifica di riformismo statale, che, so- stenuta in Germania da una composita schiera di economisti, sembrò trovare una prima realizzazione dell’ampio sistema di assicurazioni obbligatorie a tutela del proletariato industriale varato da Bismark. 2. Marx Karl Marx scrisse le proprie opere in presa diretta sulla congiuntura storica: l’evoluzione della sua dot- trina è scandita dalle grandi cesure rivoluzionarie di cui fu testimone (1848, la Comune). Il suo pensiero, che venne successivamente canonizzato in un compatto edificio dogmatico, è in realtà un cantiere aperto, disse- minato di frammenti e abbozzi inconclusi. 2.1 La società Il giovane Marx considerava particolarmente urgente il confronto con Hegel, in cui vedeva il punto più alto raggiunto dalla filosofia e dal pensiero politico. Spogliata di ogni parvenza di universalità e di ogni in- terno principio di ordine (i ceti), la società moderna gli si rivela come dominio assoluto delle particolarità e teatro del loro scontro, come un hobbesiano bellum omnium contra omnes, che ha come proprio principio e fondamento l’egoismo privato. L’analisi marxiana viene precisandosi, in primo luogo in virtù dell’introduzione del concetto di classe. A contraddistinguere la società civile non è più solo il principio dell’interesse privato, ma l’antagonismo so- ciale fra classi: la società è tendenzialmente divisa in due campi nemici, borghesi e proletari. Lungi dal po- ter essere riassunta nell’universale statale, che si rivela anch’esso segnato dalla scissione costitutiva della società, la politica percorre nelle forme della guerra l’intero spettro dei rapporti sociali. È questa scoperta a determinare, sotto il profilo politico, il passaggio di Marx dall’iniziale radicalismo democratico al punto di vista comunista. Nella Critica del diritto statuale hegeliano individuava infatti nella democrazia l’unica forma politica in cui si realizzasse la vera unità dell’universale e del particolare; ma in uno scritto del 1843, La questione ebraica, il suo discorso si rivolge contro la distinzione tra borghese e cit- tadino. La critica marxiana della distinzione fra società civile e Stato si precisa dunque come critica di un’alienazione, che passa all’interno stesso di ogni uomo, separando la sua vita nella comunità politica dalla sua prosaica esistenza quotidiana nella società, dove agisce come uomo privato, che considera gli altri uo- mini come mezzo. Da questa analisi egli rediva la convinzione che ogni prospettiva di emancipazione solo politica sia insufficiente e impedisca la liberazione genuinamente umana, possibile soltanto in virtù di un su- peramento della separazione tra società civile e Stato. Cominciano a manifestarsi i motivi che l’avrebbero condotto di lì a poco alla rottura con la sinistra he- geliana, accusata di essersi arrestata alla critica del cielo, e di non avere fatto il decisivo passo in direzione della critica alla terra. Nel 1844 Marx inizia a indagare l’alienazione non più solo politica, ma anche econo- mica. A venire in primo piano è il fatto che il prodotto del lavoro si contrappone ad esso come un essere estraneo, come una potenza indipendente da colui che la produce: il lavoratore perde il controllo del mondo esterno proprio mentre la sua attività diviene centrale per la produzione di quel mondo. Lo spostamento verso la critica dell’economia politica lo conduce a prendere progressivamente congedo dall’analisi delle condizioni dell’assoggettamento dell’uomo in quanto tale, concentrandosi su un soggetto parziale – la classe operaia, il proletariato – che in virtù della propria oggettiva posizione nel sistema capitalistico della produ- zione custodisce il segreto sia dell’assoggettamento sia della liberazione. Pensato non come antitesi del moderno individualismo, ma come compimento delle sue promesse, il co- munismo indica prima di tutto in Marx la modalità di azione storica di questa classe, il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente: non può quindi che puntare all’abolizione della proprietà privata, dal mo- mento che essa è per il proletario l’opposto che lo condiziona. La proprietà deve essere abolita non come fa- coltà dei singoli individui di appropriarsi dei prodotti sociali, ma come base che consente alla borghesia di appropriarsi del lavoro altrui. 2.2 La storia La storia di ogni società esistita fino ad ora è storia di lotte di classi. Così si ricapitola il nucleo centrale di quella concezione materialistica della storia che Marx aveva elaborato. Il comunismo è altresì presentato come il sogno di una cosa, come il risolto enigma della storia. Il suo movimento, infatti, allude a un possi- bile superamento di quella struttura antagonistica della società che ha posto l’intera storia umana sotto il se- gno del dominio dell’uomo sull’uomo.