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Riassunto Manuale di Storia del pensiero politico, Grilli, Sintesi del corso di Storia Del Pensiero Politico

Riassunto capitolo per capitolo (manca solo quello sul fascismo) del libro di Grilli, Manuale di Storia del Pensiero Politico.

Tipologia: Sintesi del corso

2014/2015
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Scarica Riassunto Manuale di Storia del pensiero politico, Grilli e più Sintesi del corso in PDF di Storia Del Pensiero Politico solo su Docsity! STORIA DEL PENSIERO POLITICO Capitolo 1: L’antichità greca e romana Il pensiero politico greco, grazie anche alle riforme che furono portate avanti nel periodo tra Solone e Clistene, lo si può esemplificare con l’immagine del cerchio in cui il potere sta al centro della cosa pubblica. La riforma costituzionale di Clistene ad Atene porta avanti tutto ciò soppiantando clientelismi ed altre forme di aggregazione che creavano differenziazioni sociali quasi insuperabili, e ponendo al centro città e cittadinanza. Il fatto che la scelta politica stia in “mezzo” significa che è disponibile alla volontà dei cittadini e il comando deve essere esercitato nell’interesse di tutti e render conto a tutti. La politica in Grecia nasce proprio qui dalla necessità di legittimazione del potere politico perché espressione della cittadinanza e non di qualcosa di sacro e arcano. E’ un’invenzione che avvenne lentamente che trae origini nel periodo arcaico e trova materializzazione nel V secolo a.C. Qui nasce la politica ma non dobbiamo confonderla con la “nostra” politica sia per il contesto instabile in cui è nata, sia per le differenze sociali che vi erano rispetto a noi. Inoltre una grande differenza è la concezione di democrazia come partecipazione attiva di tutti i cittadini all’attività più alta che un uomo potesse svolgere, grazie anche al primato della politica sulla sfera del privato che era vista come un qualcosa di subordinato alla vita pubblica (da non sottovalutare la presenza degli schiavi). Omero prima del VI secolo era Omero ha fornire i modelli di virtù e la modalità di relazioni etico-politiche tra gli uomini. Questi erano gli ideali dell’aristocrazia basata sull’eccellenza della virtù. Erano virtù intese come valore fisico e morale appannaggio di pochi e che creavano scontro tra gli eroi. La virtù era la forza e l’onore (timé), quest’ultimo è il concetto di una riconosciuta eccellenza, tipicamente aristocratica e nobiliare, che portava all’annichilimento dell’avversario ma non risolveva problematiche di pace e giustizia. Questa morale eroica è inconciliabile con il concetto di diritto e porta solo a conflitti. L’Iliade è esemplificativa di questa problematica dove vi è un forte dualismo tra la virtù (areté) e la collocazione di forza e consiglio in soggetti diversi che vogliono legittimare il loro potere. Questo è il mondo degli eroi e non della giustizia; almeno fino ad Esiodo, Solone e Sofocle. Giustizia la nozione di giustizia conosce varie fasi. Un suo antecedente è la divinità Themis figlia di Zeus che regola ed amministra, attraverso le leggi non scritte degli dei e gli oracoli, i comportamenti del ghenos . Questa è la giustizia eroica dell’aristocrazia, una giustizia di forza e vendetta. Quando si esce dal regime familiare aristocratico si ha la dike che non è legge o principio ma una serie di procedure capace di individuare un compromesso tra le posizioni. La giustizia diventerà dikaiosyne solo con Platone e Aristotele individuando il concetto anche di colpa collocando l’espiazione ad un fatto privato e non più pubblico o di “gens”. Questo processo di laicizzazione della giustizia e di individuazione della colpa si nota nel percorso che va da Esiodo ad Eschilo. Esiodoin Esiodo troviamo un sistema di lavori ormai lontano da quello aristocratico ed è riscontrabile in una delle sue opere che ci rimangono “Le opere e i giorni” dove sovverte i valori aristocratici criticandoli aspramente e sostiene la giustizia contro le pretese della forza e della hybris. La giustizia, dono degli dei, costituisce ciò che è proprio degli uomini, ciò che li differenzia dalle bestie, ciò che rende fiorenti le città e gli individui. Eschilo l’inscindibilità tra giustizia e città e la superiorità della prima sui valori emerge in Eschilo e nella trilogia dell’Orestea che ha al centro il tema della colpa e della giustizia. Atene dilaniata dalle lotte aristocratiche che portano a faide e lotte tra ghenos ritrova pace grazie all’istituzione di un tribunale,voluto da Atena, che riesce a porsi tra anarchia e dispotismo incarnando nei noimoi,cioè nelle leggi, la sua capacità di attenersi alla giusta visura vincendo le caratteristiche tipiche dell’età eroica realizzando così il bene comune. Eschilo sottolinea che esiste un rapporto tra l’ordine divino della giustizia e le istituzioni politiche di Atene. Solone è colui che ha dato le “buone” leggi ad Atene, quell’eunomia che è il nuovo ideale civile delle città. L’eunomia è il buon governo frutto della mediazione tra interessi e posizioni contrastanti. Queste leggi nascono durante l’arcontato di Solone del 594 a.C. e furono create per evitare una guerra civile. Solone riuscì a portare avanti riforme che abolivano la schiavitù personale e le ipoteche sui debiti, risollevando quindi la condizione degli umili, e impedì che i potenti avessero la peggio. Aveva ottenuto una mediazione tra ciò che andava fatto e ciò che andava conservato. I Greci attraverso Solone avevano dato un senso concreto all’obiettivo di riconoscere la supremazia della legge. Questo ruolo della legge venne però continuamente messo in crisi da 3 grandi direttrici: la pluralità e la legittimità delle varie forme di governo, lo scontro tra democratici e aristocratici, la contraddizione stessa della legge. Erodoto padre della storia secondo Cicerone, ma anche della politica a causa della sua presentazione, discussione e comparazione della classica tripartizione delle forme di governo. Erodoto ci racconta il logos tripolitikòs che si svolge in Persia ma con chiari rimandi all’Atene di Pericle, sulla discussione che avviene nel consiglio dei sette attorno alla futura forma di Stato. Otane sottolinea i pericoli insiti nella monarchia che non deve render conto e esalta le possibilità della isonomia, governo del popolo, che riesce a gestire al meglio il potere perché sottoposto sempre ad approvazione. Magabizio invece ritiene che la democrazia non sia la miglior forma di governo bensì il governo dei migliori, dell’aristocrazia, dato che la prima non ha in sé discernimento. Dario, l’ultimo a prendere la parole, condivide le critiche alla democrazia, ma non apprezza l’aristocrazia che per lui è solo oligarchia, cioè governo dei pochi e non dei migliori, per questo secondo lui il top sarebbe la monarchia, un solo uomo al governo, il migliore. Infatti pochi avrebbero rivaleggiato tra di loro creando discordie e stragi, molti avrebbe danneggiato il bene comune, uno avrebbe maggiore efficacia nella propria azione portando enormi vantaggi. Erodoto non prede posizione ma gli va riconosciuto il merito di aver usato il termine demokratia per il governo dei più. Democrazia,oligarchia e tirannide la democrazia si realizzo nell’Atene di Clistene e di Pericle (500-400 a.C.). Si nota però un certo squilibrio tra la realtà e la teoria. Non si conobbe una vera e propria teorizzazione, tant’è che la filosofia, con la sua forte natura aristocratica e selettiva, si guardava dalla massa che non ha capacità e competenze. Per questo si teorizza il governo dei migliori. Dall’altra parte storici e tragici invece esplorarono l’essenza della democrazia, sbandierando la libertà che ne derivava a tal punto da poter giustificare su questa base, il conflitto persiano. Eschilo nei sui Persiani sottolinea tutto ciò dimostrando come la libertà possa condurre a veri e propri miracoli. Il modello pastorale del potere tipico dei barbari, viene visto in contrapposizione a quello dell’Ellade, che non prevede forme di soggezione per gli uomini liberi. Anche Euripide nelle Supplici sottolinea come Atene sia una città libera governata dal demos. Il vero manifesto del pensiero democratico è quello che Tucidide mette sulla bocca di Pericle alla fine del primo anno di guerra del Peloponneso. Si tratta di una difesa della democrazia ateniese, della sua costituzione democratica, dell’uguaglianza di tutti di fronte alla legge, della partecipazione di tutti, del rifiuto delle differenziazioni sociali e dell’ambizione al bene comune. Atene è per Pericle la scuola della Grecia in contrasto con monarchia spartana. La democrazia ateniese risultava dall’associazione del principio di elezione a quello del sorteggio. Impediva agli aristocratici di diventare troppo potenti, grazie all’ostracismo; aveva il suo cuore nell’ekklesia, assemblea di tutti i cittadini che si riuniva sulla base di un ordine del girono preparato dalla boulè, consiglio composto da 500 membri che avevano anche funzioni di governo. La democrazia svolgeva compiti di sorveglianza e controllo sui magistrati sia prima sia durante il loro operato, prevedeva durata breve degli incarichi e rotazione delle cariche. Il popolo così poteva partecipare attivamente alla vita politica anche se bisogna ricorda che alcune cariche “tecniche” erano elettive. Le critiche alla democrazia arrivano a fiotti una delle più famose ci giunge da uno scritto anonimo attribuito a Senofonte. In questo pamphlet,il Vecchio Oligarca, tende a squalificare la democrazia vedendovi una premeditata macchinazione per portare la canaglia alla guida dello stato che porta ad un’incessabile guerra civile della massa, ignorante, sui ricchi. Il popolo governa per sfamare se stesso, per poter vivere di politica, obbligando gli altri popoli a venire in Città per celebrare processi fittizi che danno solo visibilità e soldi alle canaglie. La democrazia secondo il Vecchio Oligarca è riformabile solo abbattendola. La tirannide ha un ruolo ambiguo, da un lato veniva vista ,soprattutto intorno al 600, come un periodo che poneva fine a forti tensioni riportando l’ordine, dall’altro si accentua il carattere totalmente arbitrario e privo di controlli del tiranno, a tal punto che Solone si vantò di non aver usato la dura tirannide. Col passare del tempo apparirà come una modalità orientale di governare uomini inadatti al vivere libero e politico dei Greci. Legge e natura nell’Antigone di Sofocle si ha un riflessione sul tema dell’estensione e della validità del diritto positivo, rispetto ad altre forme di leggi e ius. Si arriva al contrasto, nel dramma, tra diritto e natura che mette sotto la lente di ingrandimento il problema del rapporto tra questi. Convinti sostenitori della convenzionalità del diritto sono i sofisti che porteranno addirittura ad un nichilismo ante litteram. I sofisti sostenevano che la natura dovrebbe dettare le regole del giusto e queste si compendiano nell’utile del più forte. Con loro la politica si svincola dalla sfera del sacro e si presenta come un campo pienamente disponibile al razionale che significa sfruttare la ratio per interessi politici a testimonianza di una profonda crisi di valori. Tucidide incentra la sua narrazione sulla guerra del Peloponneso sottolineando l’importanza del presente sul passato. Concentra la propria narrazione sulla storia politica che è per lui interamente razionalizzabile. Alla base di questa razionalizzazione vi è il fatto che gli accadimenti hanno come centro e origine l’utile delle forme politiche, le quali lo perseguono attraverso la potenza militare e una politica imperialistica. Sta proprio qui, secondo Tucidide, il motivo della guerra, il crescere della potenza imperialistica di Atena. Di conseguenza le cause sono individuate anche nella politica, primo caso nella storiografia. La potenza è alla base, e siccome la logica della potenza non è un opzione ma una ferrea necessità la guerra risulta necessaria. In questo modo Tucidide riesce anche a giustificare l’operato politico che si scinde completamente dalle questioni morali e si basa solo sulle regole della potenza. Senofonte dopo la sconfitta contro Sparta e il governo dei Trenta ad Atene si iniziò ad apprezzare il sistema degli spartani. Il rappresentate di questa tendenza fu proprio Senofonte che critica il vecchio modello democratico puntando ad un nuovo Stato ideale sul modello lacedemone o di Ciro il grande. Secondo lui il modello democratico, basato sulla Questo ciclo, che dimostra l’instabilità delle forme pure di governo, è stato già risolto nella costituzione mista assai più stabile. Cicerone figura fondamentale in grado di essere mediatore culturale con la Grecia. Riesce a romanizzare il pensiero politico greco grazie al forte impegno politico, che indica al saggio una nuova via, e alla conoscenza della legge e del diritto che fanno si che il pensiero politico sia pienamente giuridificato. Secondo Cicerone l’impegno politico è l’azione che guadagna i maggiori meriti e che meglio viene ricompensata nell’aldilà. Parole che acquisteranno ancora più valore nell’umanesimo italiano. Cicerone considerava le città come riunioni di uomini associati nel diritto, per accordo, nella comunanza degli interessi. Di conseguenza Cicerone fa risaltare l’importanza del diritto nella vita di un ordine politco. Esso è centrale sia perché iustum, giustizia naturale, sia in quanto iussum, cioè comando positivo. Qui emerge la differenza tra Cicerone e la filosofia politica greca. Infatti per i greci il collante era la philia (Aristotele) e non il diritto che per Cicerone è anche potere cioè qualcosa di cogente e di effettivo non Giustizia dell’iperuranio. L’ordine politico è quindi costituito dal legge e potere, dove la legge è superiore alla magistratura che è legge parlante superiore al popolo, ma tutto deve stare sotto la Giustizia, la legge di natura. Così facendo Cicerone da fondazione metafisica al diritto romano. Bisogna capire il contenuto di quella Giustizia: per Cicerone è la tutela giuridica agli accordi tra privati, come ribadisce nel De Officis. Afferma che la crisi politico-istituzionale in cui versa Roma deriva dal non rispetto di ciò e partendo da questa crisi politico-giuridica propone il suo modello ideale di ordine politico, che si basa sulla tradizione romana, contraria alla libertà greca, che propone una libertà ordinata, e si incarna nella costituzione mista che interpretò come forma di necessario temperamento tra le varie pretese. Il momento di crisi di questo sistema perfetto fu nella creazione dei tribuni che attentavano all’autorità del Senato. Da lì nacque il dualismo Senato popolo, la crisi di autorità e il conseguente ostacolo alla vita politica. Augustotento sempre di presentarsi come il restauratore della tradizione costituzionale romana. Difende sempre il suo potere vedendolo in perfetta sintonia con le istituzioni e con il costume degli antenati. L’ideologia di Augusto si basa proprio su questo sul fatto di aver riconsegnato la Repubblica al Senato e al popolo e di non aver accettato nulla di illegittimo, è si princeps ma la sua potestas è pari a quella dei suoi colleghi magistrati. I romani erano si avversi al re, ma non al potere regio e bramavano terribilmente, dopo anni di guerre civili, la pace. Senecalui come tanti altri intellettuali avevano compreso appieno la svolta autoritaria impressa da Augusto, ma se alcuni, come Tacito, rimpiangevano i tempi del diritto, altri, come Seneca, cercavano di ricondurre il potere del principe ad un alveo di civiltà attraverso un percorso. Seneca lo proporrà a Nerone, di cui è protettore, cercando di affidare il controllo del potere , non più alla prassi politica, ma all’etica. Punto di partenza è il riconoscimento dell’onnipotenza del princeps che deve essere ricondotta alla funzione benefica e conservatrice poiché ora è arbitro indiscusso di tutto e tutti. Il potere deve essere avulso dall’ira e deve essere condotto verso la ragione e la clemenza. La clemenza è quella virtù regale che conviene naturalmente al principe che gli permette di essere “pater atque pastor”. La clemenza permette al principe di rafforzare il proprio potere con l’amore del popolo. Seneca, da buon stoico, vedeva il princeps come pneuma e come logos che conferisce essenza al popolo. Il potere come logos è affiancato dal potere paterno che deve sempre portare al beneficio, compito ultimo del principe. La potestas diventa così un vero e proprio ministerium, una missione di salvezza. Seneca nel consigliare utilizza la forma dello specchio del principe Plinio il Giovaneinfluenzato positivamente da Seneca nella sua laudatio a Traiano usa l’artificio dello speculum per auspicare che il principes sia padre clemente che usa humanitas e fortitudo. L’elemento di moderazione del potere è collocato nell’adozione del successore che comporta il riconoscimento della virtù e che la virtù vada ricercata in tutti. Plinio invoca, come garanzia un corretto esercizio del potere, il governo della legge che renda l’imperatore concittadino dei suoi sudditi. Secondo Plinio con Traiano tutto ciò accade e il governo del diritto è stato restaurato assicurando ai sudditi la libertà. Capitolo 2:Cristianesimo e politica LE ORIGINI E IL MEDIOEVO Partiamo dal presupposto che il messaggio si colloca al di là della politica, questa accade nell’immanente, il cristianesimo guarda al trascendente. L’idea di un uomo creatura divina ma peccatore, si discostano fortemente dalla cultura classica e dalla sua idea di uomo. Inoltre il cristianesimo toglie quelle differenze di cittadinanza fondamentali nella cultura greco-latina. Il cristianesimo ha segnato una vera e propria rivoluzione rovesciando completamente i fondamenti della vita associata, si pensi a Matteo cap 5, rivoluzione però a livello spirituale destinata a tenere bilanciati fede e potere terreno. La differenza con il passato sta nel fatto che il potere è affiancato da una morale con cui non corrisponde e l’uomo è diviso tra fede e doveri verso lo Stato. Le vie percorse dal cristianesimo delle origini per chiarire il proprio rapporto con la politica sono molteplici ma si possono raggruppare in due categorie: le teorie che danno fondazione teologica all’obbedienza al potere, e quelle che affermano l’assoluta estraneità del cristianesimo alle cose del mondo. Paolo si fece portavoce della prima istanza, lui vedeva nell’obbedienza alle autorità esistenti qualcosa di buono, poiché il potere deriva da Dio, ciò significa che il potere politico esiste per un motivo, non che le autorità sono divine. Il compito del potere è quello di punire i malvagi come se il potente fosse un “ministro” di Dio. Un compito eseguibile solo con il potere della spada, per poter discernere tra bene e male. Per Paolo il dovere di un cristiano è quello di rendere giuste teologicamente le gerarchie e le istituzioni del potere politico. Erna e l’autore della Lettera a Diogneto sposano la seconda teoria, invitando il cristiano a non radicarsi nella città terrena, per non creare legami che possano distogliere dalla scelta di fede. Erna propone di attenersi allo stretto necessario e di essere sempre pronti a raggiungere la Gerusalemme celeste. Lo stesso atteggiamento lo si ritrova nella lettera a Diogneto dove si afferma anche che l’ordine terreno e le sue potestà non rimandano alla volontà di Dio e l’obbedienza è spontanea poiché si è cittadini del cielo. All’avvento di Costantino avviene una svolta, il pensiero politico cristiano viene accolto nell’impero ed inizia un percorso che porta all’eclissi della “scienza politica” e alla sua sostituzione con la teologia. Grazie al ruolo di supplenza che la Chiesa effettuava nell’impero,avviene una sorta di sincretismo che porta alla cristianizzazione di Roma e alla romanizzazione del cristianesimo soprattutto a livello culturale e disciplinare. Da questo momento l’autorità politica sarà tale se legittimata dalla religione facendo nascere così un insolubile dualismo che fu in realtà fonte di libertà perché impedì ogni subordinazione del potere e auto divinazione del potere. La prima teologia politica è quella di Eusebio di Cesarea, vescovo, che stringe in un suo scritto, Laus Costantini,Impero e Chiesa in un legame che mostra come la rivelazione cristiana e l’affermasi contemporaneo del potere imperiale fossero la dimostrazione di un operare di Dio nella storia. Eusebio porta avanti una teologia politica di un solo Dio un solo Impero che giustificava anche l’unità politica e di genti che l’impero aveva portato permettendo al Vangelo di diffondersi: la monarchia così è ritenuta la miglior forma di governo. Costantino, da Eusebio, viene visto come il vescovo universale, mediatore tra Cielo e Terra, egli assume un carattere sacrale e sacerdotale che sarà poi tipico della cultura bizantina. Si instaura così la prima forma di cesaropapismo che sarà una delle grandi differenze tra Oriente e Occidente. Agostinonel 412 inizia la composizione del De Civitate Dei, opera di riflessione sulla caduta di Roma e sui motivi che hanno portato a ciò. Agostino riflette sul ruolo dell’impero, sulla provvidenza e sul disegno divino. Il tema fondante della sua analisi politica si trova nel IV libro dove ritiene che il potere politico possa essere giustificato solo in quanto applicazione della Giustizia, in caso contrario il potere politico è un’opera di brigantaggio. Roma era questo, debole in sé e nei suoi valori, poiché il diritto che doveva uniformare la politica non guardava alla Giustizia divina. Roma non fu quindi ordine politico ma solo sete di dominio, cedimento alle lusinghe e vita effimera lontana dalla Giustizia. Ma per il disegno provvidenziale a Roma è spettato il compito di punire le colpe dei popoli e creare un ordine politico, che non insiste più sulla giustizia, ma sulla concordia interna e sull’amore verso certi beni. Viene creata una nuova legittimazione meno forte che permette di definire il livello che deve essere di ogni ordine politico. Così facendo Agostino differenzia l’amore verso certi beni, come la cupidigia e l’amore per sé, tipici della Città Terrena, e l’amore verso veri beni, come l’amore per Dio e l’indifferenza verso di sé, propri della Città di Dio. La politica è quindi figura della città terrena in cui l’amore di sé si chiude in se stesso, ma è anche la premessa indispensabile per la vita al suo interno. La politica fino a che non si realizza il Regno di Dio ha il compito di mantenere l’ordine e di costruire la pace, valore supremo al mondo. Gelasio papa Gelasio I si interrogò a lungo sul problema dell’intreccio dei poteri e delle funzioni. Gelasio sottolinea la necessaria distinzione tra spirituale e temporale, distinzione operata dallo stesso Cristo che affidò ad entrambi ruoli e ambiti diversi. Ma questa separazione non è sinonimo di autonomia e indipendenza, primo perché entrambi devono collaborare a fini comuni, secondo perché in materia di fede l’imperatore deve imparare poiché figlio della Chiesa. Gelasio riconosceva però alto valore alla potestà imperiale e la considerava uno dei due principi su cui è retto il mondo, sempre comunque nella subordinazione. Alla caduta dell’Impero, il papato accoglie su di sé l’auctoritas politica che divine “sacra”. Gelasio è il primo costruttore di quel agostinismo politico che teorizza l’esistenza e la collaborazione dei dure poteri universali ma anche l’assorbimento all’interno del diritto ecclesiastico del diritto e della politica laici, in quanto il primo superiore ai secondi. In Gelasio troviamo anche la concezione pastorale del potere, dove esso è strumento per correggere i vizi dei sudditi per condurlo alla salvezza. Concezione che trova la sua forma quasi perfetta nella Regula pastorale di papa Gregorio Magno. La donazione di Costantino l’intento di papa Gelasio era la costruzione di una completa autonoma di Roma da Bisanzio. Ruolo fondamentale in questo processo l’ebbe la donazione di Costantino. Il documento, scoperto fittizio da Lorenzo Valla nel ‘400, si presenta come il resoconto di un atto con il quale Costantino, poco prima di morire, donava a papa Silvestro e ai suoi successori, il palazzo del Laterano, il diadema imperiale, Roma e tutte le province italiane. Tale documento legittimava lo Stato della Chiesa e tutto il potere politico papale che portava il papa a concedere la corona all’imperatore. La lotta per le investiture il processo di temporalizzazione della Chiesa era parallelo a quello che cerca di inquadrare i vescovi nel sistema feudale carolingio. Tale prassi era stata inaugurata dagli imperatori per mantenere maggiore controllo sui propri feudi che i feudatari laici avevano loro sottratto. Questa pratica svuotava però dei connotati spirituali la missione dei vescovi che divenivano così emissari dell’impero e non più della Chiesa. L’investitura arrivò inevitabilmente ad uno scontro nell’XI secolo con l’elezione di papa Niccolò II e poi di papa Gregorio VII. Quest’ultimo sosteneva fortemente la superiorità del pontefice su tutti gli altri vescovi e sull’imperatore stesso, che per l’altro dal pontefice era incoronato, a tal punto da poterlo destituire. A sostegno di questa tesi vi è anche l’origine stessa del poter papale, che non deriva da uomo ma da Cristo stesso, mentre all’origine del potere imperiale sta una dignità creata da uomini di mondo. Così la posizione dell’Imperatore e degli imperialisti era quella dei ribelli e di chi voleva sovvertire la naturale gerarchia dei valori e dei fini. La posizione di questi non era supportata da un buon universo teorico come l’agostinismo politico e la difesa di Enrico IV, ad opera di Pietro Crasso, è priva di argomenti validi soprattutto quando cita sparuti passi delle scritture. L’ordine giuridico medievaleun argomento che accompagna sempre il lato ecclesiastico del pensiero politico è il diritto. La società medievale è fortemente pluralistica, sia per la molteplicità degli ordinamenti, sia per la pluralità delle fonti. Esempio lampante la personalità del diritto e l’esistenza del diritto canonico, del diritto dei mercanti e altre legislazioni specifiche. Ruolo importante lo ebbe il diritto canonico, volto a regolare la società ecclesiastica e ad occuparsi dei beni della Chiesa al suo esterno. Fu reso sistematico da Graziano, monaco docente di diritto a Bologna a metà del XII secolo. La prima conseguenza del pluralismo è un particolare rapporto tra re,legge ed ordine. Il re esprime un ordine dell’essere che è già presente nella società, la quale è un tutto sempre articolato in parti. La norma nasce in questa società complessa e viene riconosciuta dal potere politico. Manca ogni concezione volontaristica del diritto che cioè faccia coincidere la giustizia con il comando voluto dal potere. Nel medioevo la funzione del re è rendere giustizia, ripristinare l’ordine infranto. Egli condivide con il suo popolo la legge alla quale egli stesso è sottomesso e dove incontra i limiti al suo potere. Questa è la sfera della iurisdictio. Non trova limiti invece nell’attività di governo. La regalità nel medioevo è giustificata anche da una vera e propria teologia politica che tende alla divinizzazione del re rendendolo assoluto da legami sociali e comunitari. La divinizzazione la troviamo soprattutto in Francia ed in Inghilterra. Giovanni di Salisburypubblica nel 1159 il “Policraticus” trattato di scienza politica intriso di morale ma privo di moralismo. È un trattato di scienza politica cristiana, ma lontano dall’atmosfera dell’agostinismo politico. Si inizia ad affrontare la discussione anche con il patrimonio della cultura classica. Il re non è più l’espressione del superiore sull’inferiore ma è, secondo una logica organicistica, il capo di un corpo rinviando quindi ad una collaborazione tra le parti. Il tema della Giustizia inizia ad avere un autentico significato politico sia per il potere laico sia per quello ecclesiastico. Rispetto al primo afferma che “il principe deve riconoscersi vincolato alle leggi, poiché la sua autorità dipende dalle leggi”. Da tale affermazione si capisce anche la sua riflessione sulla tirannide come forma malvagia e iniqua. Rispetto al potere spirituale, Giovanni condivide la sua superiorità su quello temporale, ma al tempo stesso mette in guardia la cristianità da una tirannide religiosa. Tommaso d’Aquinol’Aristotele della filosofia cristiana, tale nome si deve anche al fatto che proprio in quegli anni si stava riscoprendo il maestro greco. Tommaso si discosta dall’agostinismo politico, innanzitutto ha una visone di gran lunga migliore della natura umana, essa può e deve costituire un ponte verso la fede e la grazia. La politica, pur fondata e destinata a Dio, ha una sua naturale autonomia. Il suo pensiero lo troviamo nel “De Regime principum” ma anche nella sua Summa. Secondo Tommaso esiste una lex naturalis che tiene unito in un sistema normativo tutto il Creato, la quale discende da una lex aeterna e fornisce un quadro per la lex humana. La legge naturale è l’ordine razionale che permette all’uomo di conoscere l’ordine dell’essere. Questa legge naturale è anche razionale e dovrebbe essere identica per tutti gli uomini ma non lo è a causa della depravazione di alcuni uomini. Ma solo alcuni sono così in generale la natura umana è buona ed è proprio questa sua natura di bontà che permette la nascita della società e del potere politico. La tendenza associativa dell’uomo è radicata in due elementi: la sua non autosufficienza e la sua tendenza allo sviluppo. La società viene così naturalizzata e anche il potere trova la sua conseguente naturalità. Il potere è connaturato all’associazione allo scopo di conservarla e perseguire il bene comune. Il bene comune è ciò che interessa tutti, ed è anche il bene proprio dell’associazione politica. Il criterio del bene comune, nozione centrale del pensiero dell’acquinate, funge da legittimazione del potere politico e quindi della stessa legge civile e permette a Tommaso di classificare le forme di governo in base al numero dei governanti e al criterio del bene comune. Secondo Tommaso la miglior forma di governo, che è quella che ha come obiettivo l’unità e la pace, è quella del governo dell’uno. Ma la partecipazione politica viene come un qualcosa di positivo soprattutto nel caso di un re instabile. San Tommaso aveva anche pensato una sorta di germe di pensiero “costituzionale” per temperare il potere del re. L’umanesimo politico come abbiamo visto a partire dalla fine del Duecento nacque, soprattutto a Firenze un movimento di pensiero repubblicano, veicolato dall’umanesimo, che sosteneva l’indipendenza e l’autonomia delle città dalle dominazioni signorili. Questo movimento si basa anche sul rinnovato uso dell’arte della retorica, che in quel periodo veniva riscoperta, come massima tecnica persuasiva utile per ogni circostanza della vita cittadina. Veniva riscoperta l’eccellenza della vita politica che superava quella monastica o contemplativa anche grazie alla riscoperta dei classici latini. Il Somniun Scipioni contribuì alla formazione del concetto di nobiltà della politica e della natura quasi divina dei reggitori e dei riformatori degli stati. Questa cultura nata a Bologna venne raccolta in eredità dagli umanisti fiorentini come Coluccio Salutati che seppe incarnare il modello dell’intellettuale impegnato, che difende il modello di vita attivo della politica perché, basandosi sui filosofi, i sapienti devono occuparsi della politica che è svolta a favore di molti. Nel De nobilitate argomenta che la politica è superiore a tutto perché le leggi, che si preoccupano del benessere delle città, dei regni, di tutto il genere umano, rendono possibile la libertà. Fu strenuo difensore delle libertà fiorentine dalla mire milanesi affermando che la libertà si è fatta carne e sangue nelle istituzioni pubbliche. Il programma di difesa repubblicano fu continuato anche da Leonardo Bruni che succedette a Salutati come capo della prima cancelleria fiorentina. Bruni nelle sue opere dimostrava che la virtù degli antichi era sopravvissuta in Firenze, trasfigurata nell’Atene di Pericle, e come quella modello di magnificenza architettonica e libertà politica esempio per tutte le città della penisola. L’esaltazione della libertà si accompagnava con l’apprezzamento delle virtù repubblicane che erano dedizione alla patria e al bene comune, la cittadinanza e la partecipazione. In questo periodo l’ideologia repubblicana raggiunse uno dei suoi più alti sviluppi promuovendo una filosofia dell’azione individuale nella società. Questa filosofia aveva la base nel concetto di virtus romana, una forza interiore raggiungibile da chiunque. La filosofia della virtù aveva profonde ripercussioni politiche: la nobiltà perdeva la posizione di privilegio e acquistavano importanza gli homines novi. Poggio Bracciolini criticava la vita inattiva e l’ozio, esaltando la virtù costruttiva che portava agi e ricchezze. Egli stesso stese una apologia dell’avarizia sottolineando come possa portare alla ricerca dell’utile e al miglioramento della vita. Gli avari sono di grande utilità sia per i privati sia per lo Stato. L’esaltazione dell’attività e del successo continua in personalità come Matteo Palmieri e Leon Battista Alberti. Le loro opere, scritte in italiano, rappresentano il meglio dell’etica ideale dell’umanesimo e dei suoi valori. Palmieri esalta l’amore per la patria, la vita politica e l’agire politico. L’Alberti vuole unire la ricerca dei beni materiali con l’onore e la virtù in una vita privata che si dispiega nella dimensione sociale. Con l’Alberti si inizia ad intravedere un ripiegamento su di sé dovuto alla mutata situazione politica sia a Firenze sia in Italia dove spopolavano Signorie e regimi. Gli umanisti fiorentini portano avanti anche una riflessione sulla tirannide, ovvero sulla scelta tra Cesare e Bruto. Lo stesso Salutati scrive il De tyranno dove condanna senza mezzi termini la tirannide ma per quanto riguarda la riflessone sulla giustizia del tirannicidio, egli metta sul tavolo la questione del consenso. Infatti dietro ad un principato o ad un tiranno ci può essere il consenso del popolo, esempio di Cesare. La tradizione repubblicana iniziava a finire coi primi trattai sul principe e sulla signoria. Machiavelli la logica delle cose del mondo è tutta interna alle cose stesse, e questa logica è l’ineliminabile presenza della contingenza nelle vicende umane. La fortuna, per Machiavelli, è la dimostrazione che la storia non segue un disegno provvidenziale, ma un ciclo di accadimenti su cui l’uomo non ha e non può avere controllo. L’accadere non ha un progresso, la storia è ciclica, e così i moderni possono imitare gli antichi. L’unico modo per dar senso alla contingenza è l’agire politico virtuoso: la virtù è quell’energia umana che si oppone alla fortuna e che mette gli uomini nella condizione di uscire da se stessi e dal proprio meschino egoismo. L’unica forma di immortalità è quella che può garantire la politica virtuosa incentrata sulla libertà collettiva e sulla ricerca della potenza e della gloria. Come arginare il caso è uno dei problemi affrontati da Machiavelli. Machiavelli cerca di interpretare più a fondo la realtà e riconduce la possibilità di governare “i fati” con la capacità dell’uomo di leggere la realtà effettuale. Nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio Machiavelli discorre della storia di Roma, analizzando ciò che fece in consiglio pubblico, ciò che fece verso gli altri popoli e infine le azioni degli uomini particolari. La sua opera è volta a dare risposta ai quesiti che insidiano la repubblica fiorentina e la spingono alla corruzione. Egli legge la storia di Roma in controluce rispetto ai problemi di Firenze. Il problema centrale è quello della mutevolezza dei sistemi politici percepita come profonda instabilità. Si chiede perche esista una pluralità di forme politiche e riconosce dietro ciascuna sia principi politici sia facilità del cambiamento,poiché il regime buono è fatalmente breve e quello cattivo fondamentalmente instabile e così si innesca il ciclo di cambiamento di regime politico a cui ogni governo è sottoposto. Il realismo politico spinge Machiavelli a considerare la politica come un campo di forze aperto allo scontro e alle egemonie. E così il movimento circolare di ogni stato, da principato a tirannide passando per oligarchia e democrazia, viene proiettato sullo scenario internazionale dove ciascun agente politico è pronto ad approfittare dell’instabilità per affermare la propria potenza. Una forma di stabilità la si ritrova nei regimi misti, che a Roma si è affermato grazie al caso e al conflitto tra patrizi e plebei. La disunione politica e il conflitto acquisiscono un ruolo importante di motore della vita politica che a Roma hanno permesso il mantenimento della libertà. Libertà che si è avuta grazie alla plebe, posta a guardia di essa. Tale scelta è ottima perché i desideri della plebe sono compatibili con il diritto e la libertà di tutti, mentre affidare la guardai della libertà ai nobili crea conflitti che corrodono le istituzioni. Machiavelli crede che il popolo sia più savio e costante di un principe e i suoi desideri meno dannosi alla libertà e al diritto. I Grandi sono mossi dal desiderio di dominare, sono tracotanti, il popolo ha il solo desiderio della libertà. Tale scelta si basa sulla minor possibilità del popolo di usurpare la libertà e l’uguaglianza piuttosto che una naturale bontà popolare. La repubblica è la miglior forma di governo, una repubblica volta ad ampliare militarmente i propri confini, in cui il popolo armato ha un ruolo fondamentale per raggiungere gloria e potenza. Ma il popolo armato può rappresentare anche un rischio quello dei tumulti interni. Questa possibilità può essere allontanata se l’organismo politico è in grado di incanalare entro meccanismi istituzionali il conflitto, in maniera che esso possa consentire di affermare la potenza all’interno delle leggi, senza assumere il carattere privatistico della faida. Lo sviluppo avviene quindi anche senza la concordia ma l’unità è necessaria: a Roma il carattere unitivo era tenuto dalla religione che aveva valore civile e non privato. Machiavelli a partire dalla religione dà vita ad un nuovo circolo virtuoso dove lega la religione ai buoni ordini e questi alle armi e queste ad un successo della Repubblica. Ma la virtù politica è fragile ed è a rischio di corruzione. Essa è la malattia del corpo politico, è la fine del primato della virtù politica ed è la ricerca del bene per pochi. La corruzione è la rottura dell’uguaglianza dei cittadini che porta alla crisi della libertà. E quando la malattia si infiltra è quasi impossibile salvare al repubblica perché anche se un politico se ne accorge sarebbe solo e se anche decidesse di agire, agirebbe da iniquo e nessun reo opera bene. La situazione può essere risolta solo da una monarchia, la quale però avrà successo solo nei tempi lunghi. Questo è il tipico realismo politico di Machiavelli che deriva dalla sua capacità di leggere la realtà e tradurla in opera. Nel confronto che opera tra età antica e moderna si rende conto che la modernità non ha più un ethos pubblico incarnato in una religione pubblica. Questo anche per colpa del cristianesimo, religione che porta alla vita vissuta da privati e non nel pubblico, esso non consente più la spinta alla libertà civile. Ciò che lega la modernità all’antico è l’interesse ma non quello privato, bensì quello che non cancella l’etica pubblica. In definitiva il cuore della politica è rappresentato da buoni soldati, buone leggi e buoni ordini. Nel “Principe” intende rispondere alla domanda sul come individuare la miglior forma politica capace di avere in sé l’energia politica e di agire nel mondo. Il “Principe” si spiega col fine di liberare l’Italia dai barbari. Nei primi undici capitoli analizza i diversi tipi di principato che insieme alla repubblica è una delle due forme di stato. Iniziamo qui ad avere la definizione di stato in senso moderno. Il solo principato che interessa Machiavelli è il principato nuovo, solo il principe nuovo può portare a termine in tempi brevi i processi che portano alla formazione della virtù politica nelle repubbliche. Queste restano l’ideale politico di Machiavelli ma il Principato ne è una specie di surrogato. Questo principe non è un tiranno poiché il suo governo è rivolto alla gloria e alla potenza della città. E’ un principe che arma i suoi sudditi perché attraverso le armi e la guerra la virtù si forma e si mantiene nel principe, nel suo Stato e nei suoi sudditi. Per questo Machiavelli si scaglia pesantemente contro chi usa soldati mercenari ed equipara le leggi alle armi. Il principe è colui che salva il vivere civile perché egli è servitore della politica. Con Machiavelli nasce una nuova concezione del rapporto tra etica e politica, l’etica cristiana è sempre valida ma la politica se ne sottrae perché si fonda su un’altra etica il cui bene è il successo del principe ossia la potenza dello Stato. Questo obiettivo deve essere perseguito a tutti i costi. Machiavelli compone un controcanto ai trattati umanistici sul principe raccomandando non la magnificenza o la magnanimità ma la simulazione e la dissimulazione: essere golpe e lione a seconda dei tempi e delle persone. Nell’ultima parte del Principe si ha una polemica antinobiliare quando si parla dei metodi di ascesa al principato. Ne “Dell’arte della guerra” Machiavelli torna a parlare della connessione tra buone leggi e buone armi, dell’importanza di avere milizie proprie armando il popolo, rivaluta la fanteria a supporta della guerra di virtù e non di tecnica, anche perché puntando sulla fanteria sarebbero stati eliminati i nobili. Nelle “Istorie fiorentine” Machiavelli sembrò perdere tutta quella speranza in una renovatio. In quest’opera si interroga sulla decadenza italiana, voluta dal papato, e sulla decadenza della sua città, che sembrava esser nata per dividere. Affrontando queste divisioni Machiavelli mostra sempre la loro genesi privata. Anche qui il confronto con la Roma antica è perso . Guicciardinimembro dell’aristocrazia fiorentina condivide con Machiavelli la passione per la politica e l’adesione ai valori repubblicani. Ma la sua posizione non è filo popolare ma accentua il ruolo dei nobili nel governo statale. Questa scelta filo nobiliare, che si evince anche nella critica ad alcuni passaggi di Machiavelli, si evince già nelle prime opere quando riflette sulla storia di Firenze notando come il mutamento costituzionale avvenne quando il Magnifico iniziò a seguire solo i propri consigli con la volontà degli altri cittadini. Guicciardini lotta contro la tirannide e la licenza che si contrapponeva alla prudenza. La prudenza era tipica della classe nobiliare unica in grado di gestire al meglio il potere e rendere davvero libera Firenze. Nel “Dialogo del reggimento di Firenze” si ragiona sui modi per tornare dallo “stato di uno”mediceo alla prima libertà, riflettendo sui modi per organizzare la libertà e i cittadini. Guicciardini indirizza la sua attenzione ai problemi del Consiglio, esso deve avere ampia rappresentanza e molto potere in maniera tale da garantire la libertà, ma non deve essere il motore della vita politica esso risiede in altri organi ristretti dotati di prudenza, sul modello veneziano. Da ciò deriverebbero molti benefici. Il pensiero di Guicciardini è quello del contemperamento tra l’esigenza dell’uguaglianza e quella della differenza dei gradi. Motivo per cui tutti possono ambire al cursus honorum ma il Consiglio, che tutti rappresenta, non prende tutte le decisioni. Guicciardini insegue la necessità del bilanciamento per tutelare le esigenze di tutti. Nei “Ricordi” si torna a riflettere sulla prudenza e sulla fortuna ma in maniera diversa rispetto a prima. Riconoscendo l’imperscrutabilità delle cose egli riconosce l’inutilità pratica della prudenza e dei prudenti di fronte al peso della fortuna e del caso. La prudenza da sola non basta più e si trova impigliata tra la possibilità della previsione razionale e la logica del caso per caso. Le azioni dei singoli e degli Stati sono mosse soltanto dal principio dell’interesse particolare. Capitolo 4:la Riforma Erasmo diametralmente opposto rispetto a Machiavelli e alla sua cultura neopagana, convinto di una possibile mediazione tra i tesori della saggezza pagana e quelli della fede cristiana, lottò contro un cristianesimo asservito al mondo e ai suoi valori e contro un mondo insensibile al messaggio cristiano. La sua era una proposta di totale renovatio partendo dalla critica dei valori del suo tempo. Erasmo invita gli uomini ad andare oltre le apparenze per giungere a giudizi più saldi. Nel suo elogio della povertà e dell’umiltà attacca i valori decaduti della nobiltà e della regalità ormai messi a servizio di un potere tirannico. La sua fede e la volontà di fondare una politica evangelica lo portano a condannare la guerra ed esaltare la figura della pace. Critica fortemente l’idea di “guerra giusta” che anche molti cristiani portavano avanti poiché mai conciliabile col cristianesimo. La guerra non può mai essere una soluzione giudiziaria ed è spesso solo il capriccio dei potenti utilizzato per imporre la loro tirannide sugli innocenti. Nella sua Instituio del 1516 mostra tutto il suo pacifismo nella forte esorcizzazione della guerra e delle sue conseguenze. Erasmo riconosce che, dato che i Principi sono tali per nascita e non per elezione, si possa influire sulla politica solo se si riesce ad educare il principe. Il mezzo per fare politica diventa la scelta dei principi a cui ispirare la condotta dei sovrani. La legittimazione deriva direttamente da questi principi e non dai titoli. Il principe cristiano deve avere questa missione e deve stringere un patto con il suo popolo che è composto da uomini liberi e non da servi. Il principe deve sottostare alle leggi ed essere giusto nelle tasse per servire lo Stato senza impoverire il popolo. L’obiettivo deve essere sempre il bene comune. Fu strenuo difensore, a testimonianza anche della coerenza con le sue dottrine politiche, del libero arbitrio che permetteva al principe, e a ciascuno, di decidere della propria eternità. Lutero campione ed ideatore della riforma, nella sua visione dottrinale è centrale la grazie e la giustificazione per fede e non mediante le opere. Lutero, partendo da questo presupposto, smantella la centralità del sacerdozio nella Chiesa e della sua funzione di mediatore. Attacca la dottrina delle opere, dei sacramenti, perora la causa del sacerdozio universale e dell’assenza di gerarchia. La soggettività portata avanti da Lutero però non collide con il dovere dell’obbedienza proprio di ogni cristiano alle autorità politiche esteriori anzi, esso è l’emblema di tutte le opere buone che un cristiano deve compiere. Lutero sapeva che la riforma si sarebbe compiuta solo grazie all’intervento dei principi, della nobiltà e delle città, per questo subito si rivolge a loro sostenendo la centralità dell’autorità politica. Lutero ripropone la funzione pastorale del potere propria del medioevo ma aggiungendo anche un assolutismo che prima non esisteva poiché il potere politico era “controllato” dalla Chiesa. Questa visione si inserisce nella sua visione della duplice natura del cristiano, libero da tutto e servo di tutto. Il potere politico è per Lutero coazione soltanto esteriore che non tocca la libertà interiore del cristiano giusto, questi non ha bisogno del potere che serve per punire i malvagi ma essendo buono gli obbedisce. Il cristiano, stando nel regno di Cristo, non ha bisogno del diritto né della spada secolare che serve per i malvagi che stanno nel regno della terra. L’importanza di Lutero sta nel legittimare e organizzare un nuovo rapporto tra l’infinità libertà del soggetto e l’esigenza funzionale del potere politico. La Riforma in Europala riforma aveva portato alla nascita di varie sette protestanti, come quella di Zwingli, contrario alle istituzioni politiche, come quella di Bucero, dove troviamo la teoria della resistenza. Questa varietà portò a duri scontri che fecero nascere nei sociniani la teoria della tolleranza. Il luteranesimo però non aveva nulla a che fare con una rivoluzione dei rapporti economico-politici mentre altre correnti dei “santi” nate in Germania ed Inghilterra sì. Queste portarono il rinnovamento interiore in un piano politico orientato ad affidare ad una comunità di eletti il compito di rigenerare la società nella sua interezza. La Riforma aveva portato un forte protagonismo spirituale che si coniugava con il malcontento degli strati più poveri della popolazione. Si facevano strada idee egualitarie e pauperistiche che già nel ‘300 avevano ottenuto qualche riscontro. Questi erano gli anabattisti, nemici della guerra e dei giuramenti, lontani dal mondo del diritto. La Riforma dava voce alle aspirazioni di riforma sociale che avrebbe portato all’abolizione della servitù della gleba. Questo rinnovamento e l’abolizione di questa servitù chiedeva espressamente uno dei 12 articoli del programma di Lotzer che portò nel 1524 alla rivolta in Germania. La volontà di quei 12 articoli era di restituire diritti ad una comunità. Posizione ancora più netta la ebbe Muntzer che predicava dalla Chiesa allo Stato. Ritiene che re e magistrati non siano signori dei popoli, ma deputati e commissari vincolati alla legge per mezzo del popolo. Milton difendeva così l’idea di un’originaria appartenenza del potere al popolo che lo affidava. Egli aveva una concezione molto negativa del re che vedeva come tiranno in quanto si era impadronito senza titolo dello Stato. Il venir meno di questa distinzione è logica conseguenza della teoria della libertà come autogoverno che prevede la deposizione del monarca per arrivare alla sovranità popolare. Milton per dimostrare la superiorità della repubblica non adduce motivi economici o di potenza, ma insiste sulla questione morale. I suoi principi di trasformano in un repubblicanesimo lontano dal radicalismo dei livellatori ma anche dal libertarismo tipico dei repubblicani. L’istituto in grado di incarnare i principi di libertà è il Consiglio generale, eletto, che si occupa dei problemi pubblici. La novità sta nella sua durata che per Milton deve essere perpetua perché perpetue sono le funzioni di governo. Egli nutriva non pochi dubbi sulla bontà del popolo per questo evitava l’alternanza delle cariche. Harringtontotalmente aderente al governo misto nel 1657 scrive “The Common-wealth of Oceana”. In quest’opera il nucleo centrale sta nella convinzione che la struttura politica rispecchi la struttura sociale, la forma della divisione e l’organizzazione della terra. Questa convinzione permette una nuova acquisizione teorica e una nuova proposta politica. La repubblica è una necessità che si fonda sull’eguaglianza che sostiene la libertà. Harrington lega in positivo libertà e proprietà, infatti sostiene che la prima possa esistere solo se vi è autosufficienza economica. La forma che la libertà deve assumere è quella mista che egli apprezza per molteplicità e pluralismo. Ma la mistione assume un significato diverso rispetto all’antichità. Al centro del suo progetto sta una legge agraria graduale che sia in grado di conferire la cittadinanza, e quindi i diritti politici, a tutti i cittadini. Così facendo non si creavano le rotture che leggi egualitari avrebbero portato ma si sarebbe arrivati ad una macchina dello Stato funzionante. Dopo di che si sarebbe giunti ad un elezione a scrutinio segrete di tutti i membri del Parlamento. Il Senato, che proponeva le leggi, sarebbe stato affiancato da una Camera che poteva solo accettare o respingere le proposte della camera alta. Il modello di libertà era quello romano. Harrington conferisce importanza all’aristocrazia, l’unica secondo lui in grado di dedicarsi, grazie alla potenza economica, agli affari pubblici. Ruolo fondamentale lo ha il popolo armato che è guardia della libertà. Novità introdotta fu il decentramento amministrativo capace di promuovere l’autogoverno locale e di introdurre il gusto per la partecipazione. Moro autore dell’opera Utopia incentrato su una società che non esiste dopo si ha benessere, felicità e giustizia. Il libero descrive inizialmente la situazione inglese dove non vi è libertà per colpa dei nobili e dei politici. Critica fortemente la proprietà privata. Il nuovo mondo ha nella mancanza della proprietà privata e del denaro il segreto della felicità. Una volta abolita la proprietà privata gli abitanti dell’isola condividono quello che hanno. Non hanno tante leggi, praticano molte religioni ma tutte rispettose delle altre e che credono nell’immortalità dell’anima. Gli utopiani sono spinti al benessere da due importanti fattori: una teoria e pratica della felicità, e una restaurazione dei legami comunitari. Il racconto riflette anche sull’etica e sull’importanza di quei saperi che conducono alla saggezza. Da un punto di vista politico si è indotti a pensare ad una presenza forte e manifesta del potere dove però il popolo dialoga con le istituzioni. Per Moto la politica è mescolata alla morale. L’utopia in Europa il legame tra utopia e modernità è forte e doppio: esprime disagio per la modernità e le caratteristiche migliori della modernità. Essa è esigenza non progetto politico. È una grande contraddizione tra sogno e realtà. In Europa molti autori seguirono questa corrente: ci fu un’utopia protestante con Eberlin, in Spagna e Francia le idee di Moro venivano riprese da de Guevara e Rabelais, in Italia il genere si diffuse prima grazie a Doni e Agostini ma il più importante fu senza dubbio Campanella con la sua Città del sole. Egli sostiene l’idea dell’unità, tipica dell’utopia, del primato del tutto sulle parti, della comunità sul singolo e i suoi possessi. Una repubblica dove il bene privato è cancellato. Ma la repubblica nel sistema di potere non esiste, sostituita dal governo dell’Uno, solo egli da voce alla verità in una sorta di comunismo. In Inghilterra Bacone persegue i medesimi obiettivi attraverso l’incremento dei sapere scientifici e la pianificazione sociale della scienza, che porta al miglioramento dell’uomo. Capitolo 6:la prima modernità Machiavellismo e antimachiavellismo il XVI secolo è segnato dalle grandi monarchie, sembrava quindi che l’ispirazione repubblicana dei Discorsi di Machiavelli fosse fatalmente inattuale. Anche il principe veniva rivisto come una sorte di appendice dell’arte di governo, come elenco di massime. Vi erano autori che costituirono una sorte di corrente machiavelliana ma questi furono sempre in minoranza rispetto a chi voleva rifondare il potere sulla legge naturale e sulla morale. Questi erano soprattutto i cattolici che svilupparono il loro antimachiavellismo a partire dal 1539 con l’Apologia di Carlo di Reginald Pole che giustificava la propria posizione in difesa della unicità cattolica. Si scontrò speso con il consigliere di Enrico VIII, Thomas Cromwell. La disputa verteva sul ruolo del consigliere del re che veniva visto dal primo come coscienza morale del sovrano, mentre dal secondo come colui che asseconda gli scopi del re. Ma presto in questa “Apologia” lo scontro sarà con il Principe anche se Pole vedeva nel trattato un precisa vocazione antitirannica costruita per rovinare il principe con le sue stesse mani. Ma questa visione, quando gli autori machiavellici aumentarono, cadde e prevalse la visione di equivalenza tra machiavellismo e ateismo e tra questo e la tirannide. Tale visione si intensificò durante le guerre di religione di metà ‘500, ad esempio in Francia. Si sviluppò poi un antimachiavellismo protestante con a capo Gentillet il quale voleva smontare la scienza politica del fiorentino attraverso la dimostrazione dell’ignoranza dei suoi principi tirannici. Fa questo criticando l’assenza di limiti al potere del principe.. I monarcomachi è la risposta culturale alla politica accentratrice della monarchia francese, questa reazione produce l’abbozzo di una teoria contrattuale dello Stato e del potere politico. I monarcomachi sono un gruppo di intellettuali calvinisti che propongono la resistenza armata al re recuperando i rapporti originari tra natura e politica, fra popolo e sovrano. Essi per portare avanti le loro tesi si rifecero alla Francogallia, un’indagine sulla storia di Francia, e alla mediazione tra argomenti biblici e argomenti giuridici. Le due vie si sommano e hanno la volontà di legittimare la resistenza degli ugonotti e del intero paese alla politica assolutista del monarca. I primi volevano mostrare come la politica del re era superabile tramite la reintroduzione dell’antica e saggia police che dissociava monarchia e sovranità e collocava questa nel popolo e nell’assemblea degli “Stati”. Sotto il profilo teorico Hotman approda alla distinzione tra re e reame per affermare che a quest’ultimo spettano i poteri di tutte le parti che lo compongono e il re è solo il momentaneo titolare della funzione di governo. Un’ordinata libertà era compatibile con la forma di governo monarchico affiancata dalla costituzione, la forma di governo migliore. La via della mediazione giuridico-religiosa è tutta incentrata a preservare la fede, al dovere e ai limiti dell’obbedienza al comando ingiusto o tirannico. Secondo Beza si deve obbedienza solo alla volontà di Dio, la disobbedienza è lecita prima in forma di resistenza attiva e poi di tirannicidio. Anche in altri scritti la resistenza al re si vuole presentare come un atto costituzionale e si fonda sulla teoria del doppio patto, che afferma che la politica ben ordinata si basa su un primo patto tra Dio e il popolo e il secondo patto tra il re e il popolo. In virtù di questo patto, i magistrati, rappresentati del popolo, sono superiori al re e gli possono negare obbedienza se questi ha infranto i patti di giustizia. I giuristiil costituzionalismo ebbe riscontri anche in Francia dove si era radicata un idea di condivisione del potere tra re e nobiltà. A costruire l’ideologia della monarchia contribuirono in maniera essenziale i giuristi. Seyssel nel descrivere lo Stato francese parla dei tre freni che limitano l’autorità assoluta del re. Questi freni sono la religione, la giustizia e le buone leggi, i mores. Il richiamo alla religione appare subito chiaro, nel delineare il secondo freno si rifà al bilanciamento di poteri e di forze. Per illustrare la police, le buone leggi, si sofferma sulla necessità di mantenere intatte le regole della giustizia. L’idea di condivisone dei poteri di Seyssel aveva prodotto però anche una certa confusione di ruoli, per questo alcuni giuristi ritennero necessario estendere i poteri, i diritti e i privilegi del re. Costoro fondavano la sovranità solo sui diritto del re. La sua superiorità derivava per accumulazioni di diritti e raggiungeva una sorta di plenitudo potestas. Solo con Bodin la questione della sovranità farà un salto di qualità. Bodinla sua opera, Six livres de la Republique, trae la propria ragion d’essere dal desiderio di rifondare sia il comando sia l’obbedienza. Secondo Bodin le guerre di religione e il machiavellismo sono due facce dello stesso problema: la crisi dello Stato. Per ricostruirlo serve una sola cosa, un concetto nuovo, la sovranità assoluta. Per Bodin lo Stato è il governo giusto che si esercita su diverse famiglie. Questo governo è l’anima dello Stato e la sua sovranità è il cardine su cui poggia tutta la struttura. Lo Stato è simboli di unità e perfezione politica e da qui si deriva il concetto di sovranità. La sovranità è quel potere assoluto e perpetuo proprio dello Stato: perpetuo perché non sottoposto a vincoli temporali, assoluto perché non riconosce istanza superiore. Il re non è più sub lege come volevano i costituzionalisti. La sovranità è inoltre indivisibile e inalienabile. Bodin si scagli contro chi vuole i sudditi compagni e colleghi del principe sovrano che da solo fa e decide le leggi. Bodin si occupa anche di difesa del diritto privato, della proprietà e di giustizia. Questi sono gli unici limiti alla sovranità. Di conseguenza il pensiero di Bodin oscilla tra i diritti irrevocabili della famiglia, proprietà privata, e potere assoluto del re. La forma di governo è chiaramente quella monarchica, dove i sudditi obbediscono al re e il re alle leggi di natura. Questa la monarchia royale che si differenzia da altre forme di governo dell’Uno che sono la seigneuriale e al tyrannique. In queste due forme non c’è rispetto del diritto di proprietà che è fulcro delle garanzie di libertà. La mistione del potere è quanto mai grave, e Bodin lo sottolinea anche nella classica analisi delle 3 forme di Stato. La mistione produce debolezza e corruzione. Nell’ultima sua opera, relativa alle forme di giustizia, individua tre forme possibili di essa: quella commutativa, cara agli Stati popolari, quella distributiva,tipica degli Stati aristocratici, e quella regia, la migliore perché raggiunge tutti. Althusius propone una visione federale dello Stato. Egli opera una riflessione sulla sovranità riconoscendola essenziale ai fini della conservazione del corpo politico ma sposta il senso della sua concettualizzazione. Egli dichiara che i diritti di sovranità non devono andare al sommo magistrato, ma allo Stato, cioè all’associazione generale. Questa affermazione rivendica l’appartenenza della sovranità al popolo che non potrà mai rinunciarvi e trasferirlo ad altri. La realtà politica è contrassegnata da un primato dell’associazione mediante cui gli uomini si obbligano alla mutua comunicazione di ciò che è utile e necessario. La consociatio è simbiotica per la sua capacità di mettere in comune le vite degli uomini al fine di conseguire la vita buona. Le associazioni vengono prima del singolo. Non vi è nessuno quindi sopra alla legge e all’equità nemmeno il monarca. Nella sovranità statale le associazioni sono unificate rendendo federale, da foedus, la sovranità. La sovranità però non può essere esercitata dal popolo ma dai magistrati eletti che amministrano in nome e per esso. Althusius pone in cima alla piramide amministrativa due poteri quello del sommo magistrato e quello degli efori, questi eleggono il primo e ne limitano gli abusi e l’arbitrio fino ad avere anche il potere di deporlo in nome del popolo. I libertini e Pascal portavano avanti ideali antichi e pagani, materialisti ed eredi della tradizione rinascimentale, vedevano nelle leggi qualcosa di artificiale. Il loro maestro fu Michel de Montaigne. Egli immette nella modernità una soggettività strutturata intorno alle categorie del movimento e della transizione e che ha la propria certezza nell’unicità della vita. Il centro della filosofia morale è il trovare una saggezza pratica in grado di garantire la salvezza al singlo questo obiettivo si raggiunge con la politica che non è più la destinazione più alta dell’agire umano ma una necessità esterna e strumentale. Ciò accade a causa delle guerre civili che svuotano di valore la politica. Il potere deve conservare la pace per salvare gli uomini e per far conservare l’ordine sociale occorre legittimare l’obbedienza, in mancanza della quale non c’è società. Ma l’obbedienza deve essere rifondata cambiando le sue motivazioni che non possono più essere la maestà e la razionalità del principe. La maestà è solo una parola che è semplice apparenza. Montaigne desacralizza la presunta razionalità delle leggi negandone ogni tipo di fondazione razionale riconducendo le loro fonti agli usi e ai costumi. Le leggi sono però irrinunciabili perché senza di esse gli “uomini si divorerebbero tra loro”. Montaigne contrappone l’interno e l’esterno, coscienza libera ma esterno che obbedisce a leggi, anche ingiuste, per la salvaguardia dell’interesse più importante: la vita. Le tematiche di Montaigne furono riprese dai libertini francesi come de La Boetie che mette al centro della sua analisi il rapporto tra soggetti e Stato, condizione necessaria per gli Stati moderni che ci siano soggetti desiderosi di obbedire. Anche Charron parla di soggetti consigliando loro la prudenza e l’obbedienza esterna cioè dovuta e non intimamente motivata in maniera da poter neutralizzare i conflitti e riportare ordine nel pubblico. Pascal fu invece innovativo perché creo un’apologetica cattolica in grado di confrontarsi con la modernità, lontana dal tomismo, dal naturalismo e dall’ingenua fiducia nella piena razionalità. Segue l’obbedienza,accetta il diritto e lo Stato riconoscendoli necessari alle logiche del mondo nonostante conservino la propria follia come obbedire ad un bambino o subire le sentenze di gente che indossa toghe rosse e ermellino. La corte assume un ruolo di assoluta centralità all’interno dello Stato, con il suo gravitare attorno al sovrano e al suo consiglio privato. Nella corte si giocavano i destini degli uomini e si costruivano le fortune dei potenti. Per interpretare natura e compiti dell’uomo di corte l’Europa aveva a disposizione un testo: il Cortegiano. Scritto da Castiglione vuole dettare le regole per la formazione dell’uomo di corte che ha come professione “quella dell’arme”. Ma non conta solo la vigoria fisica è importante anche la grazia e la naturalezza nell’esibire virtù e arte e nel far sembrare il sapere di chi compie una qualsiasi azione molto maggiore di quello che è. La logica del sembrare del costruire artificialmente, mostra la politicità dell’opera. Da quest’opera nacquero una serie di studi che si incentravano sulle relazioni politiche del microcosmo di una corte. La corte diveniva scuola di politica con una ragion di Stato affiancata da una ragione dell’individuo. Le tematiche esposte dal Castiglione furono riprese dallo spagnolo Gracian nell’Oracolo manuale quasi un secolo dopo. Qui il “sembrare” viene ad essere il tratto caratteristico dell’uomo di corte. Assume un ruolo importante anche la prudenza fondamentale per non permettere agli altri di penetrare nell’intimo della volontà e dei pensieri. L’uomo di corte deve essere riservato e fare un uso accorto del silenzio e del tacere. Il significato della prudenza di Garcian è un invito all’innovazione piuttosto che alla menzogna. Questa prudenza è in contrasto con la virtù energica machiavelliana e porterà alla Ragion di Stato. La Ragion di Statoè una delle ultime grandi dottrine politiche elaborate in Italia. È la mediazione tra due istanze dell’età barocca: che la politica non abbandoni il riferimento etico-religioso ma anche che da ciò non tragga debolezza. Ormai si assisteva al divorzio tra utile ed onesto e ciò poneva alla cultura cattolica parecchi problemi costringendola a tentare di riconquistare il terreno perduto. Il primo nemico era senza dubbio Machiavelli che aveva scisso la politica dalla morale cristiana, ma anche i cosiddetti tacitisti che riflettevano sul realismo politico rifacendosi all’autore romano. Il tacitismo veniva visto come una cattiva ragion di Stato. Contro di essa si scagliò Giovanni Botero, codificatore di una buona e lodevole Ragion di Sato, forte critico di Machiavelli e di Tacito. Per Botero lo Stato è un dominio fermo sopra i popoli e la Ragion di Stato è la notizia di mezzi atti a fondare e ampliare il dominio. Per Botero la conservazione dello Stato è qualcosa di difficile perché, se lo Stato si acquista con forza, si mantiene con la sapienza. La sua opera vuole trovare le tecniche di questo mantenimento. L’importante novità sta nella liberalità che è ora guidata dalla prudenza politica, che è scienza e pratica. Questa prudenza non è un sapere privato fondato sul silenzio, bensì un tecnica pubblica di governo che ha le sue fonti nella storia, nella filosofia morale e che si adatta ai luoghi e ai tempi. La prudenza deve essere agile e flessibile. Scopo di ogni azione politica prudente è il bene e il Stato consistono nell’incomprensione della necessità del potere del sovrano o dell’obbedienza che gli è dovuta e nella pretesa del soggetto di avere diritti che precedono lo Stato. Hobbes affronta anche la questione del rapporto tra religione e politica. Inizialmente condanna tutte quelle forme di “religio” figlie della superstizione e esalta la forma cristiana in cui Dio ha insegnato le leggi. Lo Stato può nascere solo da una retta comprensione del comando divino, la politica deve essere dedotta dalla teologia e diventare teologia politica. La teologia politica si fonda sulla non presenza di Dio e sul fatto che il rapporto con Lui è tenuto solo da sovrano, il vicereggente di Dio sulla terra. L’argomentazione a questa tesi deriva da un’interpretazione delle Scritture secondo cui, non esistendo più un regno di Dio sulla terra, l’unico modo per obbedirgli è seguire le sue leggi di natura che sono la pace. Di conseguenza l’obbedienza al Leviatano è obbedienza a Dio, e così non si salva solo il corpo ma anche l’anima. Il sovrano è il nuovo ed unico mediatore, da qui deriva la polemica anticattolica di Hobbes. La Chiesa si contrappone allo Stato, ciò non è tollerabile perché la sua gerarchia non può avere potere politico sui sudditi del sovrano. Hobbes pensa quindi ad una politicizzazione della religione nel senso che il controllo dello Stato sulla religione serve solo ad impedire che la religione abbia effetti politici. La religione è così politica divina, cioè ricerca del miglior modo per obbedire a Dio e realizzare la pace. Hobbes nel ‘900 è stato rivalutato come pensatore del rapporto tra Stato e individuo, come teorico del nesso tra sovranità, legge e cittadinanza. Lockesi inserisce anche lui nel filone individualistico e contrattualistico ma con differenze rispetto ad Hobbes. Prima cosa cambia l’obiettivo politico, Locke porta avanti una rivoluzione antiassolutistica e costruisce un modello politico che consenta di limitare il potere a beneficio del cittadino. Locke si inserisce nel contesto della Gloriosa rivoluzione inglese, dalla parte dei whig e dei parlamentarsti in opposizione al partito regio. Nel Primo trattato Locke fa teologia politica. Egli sostiene, contro Filmer, partendo da una riflessione su Adamo, che l’uomo nasce libero in un mondo dove tra Cielo e Terra non c’è alcuna comunicazione diretta. Dopo aver sgombrato il campo dal nesso tra religione e politica nel Secondo tratto sul governo Locke passa alla costruzione dell’ordine politico razionale. Lo stato di natura è luogo di perfetta libertà e uguaglianza governato dalla legge di natura. È uno stato di natura complesso caratterizzato da una giustizia che potrebbe trovare da sola applicazione pratica e che non la trova per motivi contingenti. Infatti lo stato di natura può facilmente trasformarsi in stato di guerra perché è il risultato dell’autodifesa a cui ciascuno può ricorre contro un’ingiustizia. Una volta cominciata la guerra difficilmente trova fine. Sempre legato ai diritti di natura troviamo, a differenza di Hobbes, la proprietà che è legata al lavoro. In natura l’unica autorità esistente è quella dei genitori sui figli ma che non deve ledere la loro libertà e la loro razionalità. Locke ha un’antropologia più moderata e meno negativa in grado di controllare ragione e passione. Essendo che in natura vige già una legge morale, il patto non è contro lo stato di natura, ma server a garantire meglio i diritti naturali. Questo patto, che migliora la natura, è necessario per creare l’ordine politico razionale. Lo stato di natura presenta 3 difetti: non vi è legge certa, non vi è giudice e non vi è potere esecutivo. Quindi per proteggere la propria vita ciascuno può liberamente rinunciare al proprio potere naturale e cederlo nelle mani della comunità. È un patto moderno fondato sulla logica dell’autorizzazione, anche questo è un patto tra eguali che costituisce un’entità politica non esistente prima ma non richiede necessariamente l’istituzione di un sovrano. Il corpo politico creato dal patto detiene i diritti di ciascuno che si alienano quanto questi entra in società. Questa cessione avviene solo perche i singoli si vedano restituiti i diritti naturali sotto forma di legge trasformati in diritti civili e politici. Quindi le leggi devono rispettare i diritti naturali degli individui: il potere legislativo non sarà assoluto. Il corpo politico è potere legislativo sovrano delegato dal popolo ai propri rappresentanti. Locke tripartisce il potere dividendolo in legislativo, supremo ma non assoluto, esecutivo, applicazione delle leggi, e federativo, relativo alla politica estera con tutti quelli che vivono in uno stato di natura dove vige la legge razionale della giustizia. Il potere esecutivo e quello federativo, seppur distinti, sono in mano al re. Il re non è il sovrano hobbsiano ma una personalità a cui ci si affida e a cui si può ritirare questa fiducia se viene meno ai patti. Locke ritiene possibile il diritto di resistenza contro un tiranno. Locke riflette anche sull’evenienza che il popolo sovrano non deleghi ad un’istituzione il proprio potere ma lo tenga per sé. Tale riflessione è dovuta anche agli eventi della Gloriosa rivoluzione dove fu il popolo, essendo sciolto il Parlamento, a dichiarare vacante il trono. Il principio della sovranità popolare è così sempre valido. Così nella società esistono delle energie sempre vive, esiste una dimensione pubblico sociale che può fronteggiare lo Stato. Ciò è evidente in molti altri scritti in particolar modo quelli sulla tolleranza religiosa. L’obiettivo di Locke è giungere alla pubblicità dei culti senza che si comprometta la pace civile e diritti pubblici dei cittadini. A tal fine argomenta che la tolleranza è conferme al dettato evangelico secondo due strategie: la separazione tra Stato e Chiesa e la libertà religiosa. La prima questione Locke l’affronta sempre rifacendosi al fatto che la sfera privata e pubblico-sociale siano in grado di contrapporsi al potere dello Stato che ha come fine la vita e la liberta, la materia religiosa, che c’entra con la salvezza dell’anima, non rientra nei fini politici. È una separazione molto liberale questa fatta da Locke, che è uno dei più importanti pensatori deisti di sempre. Di conseguenza, la Chiesa non può avere poteri politici perche fallace in partenza. Per questo tutte devono essere tollerate dallo Stato e tutte devono tollerarsi tra di loro. Ma questa tolleranza conosce dei limiti: se le Chiese si fondano su dogmi contrari alla società umana esse non possono essere tollerate. La risposta liberale di Locke verrà ripresa nei secoli successivi e sarà il cuore della cultura politica liberale. Spinozaoccupa una posizione anomala nella filosofia politica occidentale. Sotto il profilo politico coglie e valorizza le implicazioni eversive della dottrina di Hobbes, ma rifiuta di chiudere la forma politica aprendola anzi al continuo intervento della prassi e della potenza del popolo. Quella di Spinoza è una filosofia della vita e della gioia, per lui l’uomo desidera il bene e si ricollega al Machiavelli dei Discorsi apportando un pensiero repubblicano che sia conciliazione tra ordine e disordine. Assume a oggetto di indagine del pensiero politico le forme di liberazione. Spinoza afferma il primato della potentia come elemento costituente, sulla potestas come autorità. Il diritto naturale si definisce al meglio dove è assoluta la sovranità ossia nella democrazia. La natura, e il suo stato, è qualcosa di fondamentale in Spinoza che identifica Dio con la natura stessa. E questa natura toglie qualsiasi finalismo o ordinamento gerarchico all’essere creando un’ontologia radicalmente egualitaria. Su queste basi vi è una forte rivalutazione del corporeo e di conseguenza delle passioni. L’uomo è una complessa trama di relazioni tra affetti e ragione che costituisce il rapporto tra natura e politica. Il diritto naturale viene equiparato alla potentia di ciascun individuo. Nel diritto naturale troviamo la radice dell’uguaglianza ma anche il motore della guerra. Ma in questo scenario gli uomini tendono ad associarsi per procurarsi quello di cui hanno bisogno. Qui nasce un potere che trae forza dalla composizione delle forze individuali. Questa dinamica viene descritta attraverso il lessico e i concetti del contrattualismo ma questa non ha caratteri costruttivistici, bensì radica il proprio diritto in un aggregato di potenze individuali. Questo processo del bene comune, è sempre aperto ed entrano in gioco passioni ed immaginazione. Spinoza critica fortemente la monarchia, che attraverso la superstizione fa vivere nel terrore le persone. L’ordine politico non può quindi prescindere dalla condivisione di un comune orizzonte di senso. E nella costruzione di questo orizzonte un ruolo decisivo lo ha l’immaginazione. Essa l’elemento costitutivo della democrazia stessa, ma deve essere un’immaginazione liberata e non mistificata dalla superstizione religiosa. Il cristianesimo da questo punto rappresenta una cesura con il mondo precedente perché ha portato universalizzazione e interiorizzazione della fede rendendo così impossibile la teocrazia. La democrazia è il regime che si accosta di più all’ordinamento naturale e meglio corrisponde alla libertà naturale dove l’alienazione non viene a favore di uno ma a favore della totalità di cui si fa parte. Il patto spinoziano è istituito dall’utilità. Il potere democratico si fonda su uno spostamento delle potenze individuali in un’unica potenza collettiva. Il potere sovrano non fa alcuna cesura rispetto all’identità natura ne sposta solo la validità. Tale potere sarà più potente, assoluto e autonomo quanto più ampio sarà l’aggregato di potenze individuali. Quest’origine del potere si traduce in un metodologia realistica che si declina nel materialismo politico. In Spinoza il popolo non si riunisce mai in una forma rappresentativa ma è sempre una moltitudo che dà espressione al radicamento dell’imperium nel processo di formazione della sua legittimità. La moltitudo impone a tutti il processo di democratizzazione. Stato e mondo colonialela teoria della sovranità è risposta anche alle scoperte geografiche e ai processi di colonizzazione del XVII secolo. L’oceano Atlantico è un grande sistema regionale che ha unito in un unico spazio politico 3 continenti. Cuore di questo spazio è la nave coloniale che assume la funzione di una vera e propria istituzione politica. Essa è propagazione dello Stato. Ma nella nave vi era una nuova ribelle soggettività plurale che veniva esternalizzata al di fuori dei confini statali. Il risultato di questo processo fu la divisione di due spazi politici dell’Atlantico: quello ordinato degli Stati europei ad est e quello disordinato e selvaggio del mondo coloniale. Nel mondo coloniale, per Locke, il potere è equiparabile al diritto di autorità di briganti e pirati e quindi senza alcun diritto di soggezione e di obbedienza. Per questo nel mondo coloniale vi è un immanenza del conflitto e della disobbedienza, perché la sua origine è violenta. Locke afferma che lo Stato moderno è la vera eccezione alla colonialità del resto del mondo. Capitolo 8:l’Antico regime e l’illuminismo L’ANTICO REGIME: in Francia l’inizio dell’Antico regime si può far risalire alla metà del XV secolo quando si creò un sistema di potere dotato di precise strutture istituzionali. Esemplare fu lo Stato Assoluto in cui l’obiettivo politico fu di superare la frammentazione tipica del sistema feudale. Il sistema raggiunge il propria apogeo nel XVII secolo e prima della metà del ‘700 entra in crisi. Una crisi che nasce quando si porta a compimento la politica di potenza. Nel ‘700 con la nascita dell’illuminismo la società strutturata secondo i ceti verrà messa in crisi e capitolerà nella rivoluzione. Il termine Ancien régime viene utilizzato per la prima volta durante la rivoluzione. Ciò che contraddistingue l’Antico regime è la concezione organica della società nella quale il potere esiste per natura e non per contratto con l’assenza dell’idea di una sovranità rappresentativa. L’assolutismo in FranciaIn Francia data centrale nell’esperienza dell’Antico regime è il 1624 quando il cardinal Richelieu entra dentro il Consiglio superiore avviando il processo di centralizzazione e assolutizzazione del potere che sarà portata a termine dal cardinal Mazzarino durante il regno di Luigi XIV. All’interno delle leggi fondamentali del regno il re rafforzò il proprio potere attraverso la creazione di un esercito permanente, di corti di giustizia regie e un forte controllo sulla Chiesa secondo i principi gallicani. A ciò si deve aggiungere una buona teoria doganale teorizzata da Colbert e dal suo mercantilismo. Con la morte del re Sole l’assolutismo francese inizia a mostrare le proprie debolezze a causa della moltiplicazione dei funzionari e della mancata convocazione degli Stati. L’assolutismo con la sua stessa opera creò le condizioni per l’affermarsi dell’individualismo base concettuale per la rivendicazione dei diritti di eguaglianza tra i cittadini. Molto importante è la vicenda dei Parlamenti francesi costantemente in conflitto con il potere centrale. I Parlamenti erano la via attraverso il quale il re emanava giustizia nella forma della justice déleguée. Essi non avevano un potere autonomo ma delegato, avevano diritto di rimostranza (veto sulle decisioni del re in materia giudiziaria) e di registrazione. Partecipavano anche all’amministrazione del regno divenendo, grazie alle funzioni di governo e di giustizia, una sorta di contropotere della monarchia. Per questo furono creati gli intendenti che avevano compiti amministrativi e di controllo a diretta dipendenza del monarca. Contro queste scelte e contro l’editto di Saitn-German che toglieva ai Parlamenti l’autorità amministrativa nel 1648 si ebbe la Fronda parlamentare che affermò il ruolo dei Parlamenti quali custodi delle leggi fondamentali. Questa fronda termino con l’inizio del regno di Luigi XIV. Con la morte di Luigi XIV i Parlamenti ebbero nuovamente un ruolo centrale aiutando Filippo d’Orleans nell’impadronirsi della Reggenza. Grazie a questo ottennero di nuovo il diritto di rimostranza e il contrasto divenne più forte, anche a causa dell’aumento demografico, di una forte mobilità sociale che riempì le città e a causa dell’aumento dei prezzi. Dal punto di vista politico si tratta di una crisi di rappresentanza perché sia i monarchici si i parlamentaristi rivendicano il diritto di rappresentare la nazione, la quale si trovava in un “impasse” tra il dispotismo amministrativo sostenuto dalla Corona e le pretese di rappresentanza corporativa dei Parlamenti. Lo scontro è quindi tra un’idea di monarchia rappresentativa e una proposta di società corporativa. In entrambi casi è un’idea di rappresentanza di Antico regime legata al territorio e forma visibile di ciò che esiste. L’Antico regime non riesce a superare l’intreccio tra funzioni giudiziarie e amministrative che inficiava le istituzioni francesi. Solo con la proposta si Sieyes di elegge un’assemblea nazionale si avrà la prima moderna assemblea parlamentare con funzioni di rappresentanza e depositaria del potere legislativo. Il principale teorico dell’assolutismo monarchico fu Bossuet. Per lui la storia è provvidenziale e tutto è orientato a realizzare la volontà di Dio. Questa è la missione della monarchia francese che ha raccolto l’eredità romano-carolingia. In quest’ottica l’autorità ha una legittimazione provvidenziale ad essa non ci si può opporre ed essa è ereditaria, regia e assoluta. La monarchia è la forma di governo migliore e più naturale in quanto esprime il governo di Dio sui suoi figli. Nel monarca vi è l’immagine della grandezza di Dio e della potenza statale. Bayle invece si concentra sul concetto di ragione che viene contrapposto a quello di autorità politico o religiosa. Bayle sottopone la natura umana e i modelli teorico-politici all’indagine della ragione scettica. Egli arriva a rifiutare la confessionalizzazione dello Stato sottolineando la necessità di scissione tra spirituale e temporale per la salvezza dell’autorità politica e della sovranità. Pertanto lo Stato monarchico deve essere secolare e mediare tra i vari culti. Tali posizioni derivano dalla sua cultura di scettico libertino che fanno della religione una questione del singolo e non una questione politica. Accanto all’assolutismo teorico di Bossuet troviamo il pensiero che sosteneva le libertà dei Parlamenti. In particolare registriamo Francois de Salignac che mette in guardai la monarchia dai rischi dell’assolutismo. Fu uno strenuo difensore del libero commercio per questo criticò fortemente Colbert e le sue teorie. Le sue idee furono riprese da Louis de Rouvroy di Saint-Simon che criticò il peso che aveva assunto la burocrazia regia a causa dell’assolutismo opponendo un potere decentrato in mano a dei consigli. Anche Boulainvilliers sostenne il peso della nobiltà nella gestione del potere. Ciò che accomuna questi personaggi è la critica contro l’esercizio arbitrario e non più assoluto del potere. Questi autori si scagliano contro la tirannide di cui sono espressione i ministri del re. Loro vedono si assoluto il potere del re ma non per questo illimitato, esso deve essere regolato e moderato attraverso la tradizione francese. Questa discussione fra teorici dell’assolutismo e quelli del liberalismo si svolse sul piano della legittimazione storica delle due tesi. I fautori della tesi nobiliare difendevano le prerogative dei Parlamenti e dei corpi nobiliari facendole risalire ai Franchi. Essi erano i rappresentati del popolo contro i rischi di u dispotismo. La tesi regale sosteneva la legittimità della monarchia francese sulla base della diretta discendenza dai re franchi e quindi per traslazione dall’imperium romano. Nasce cosi il nesso tra narrazione storica e teoria politica. Montesquieu riprende la discussione sui limiti del potere monarchico. Secondo lui molte cose governano gli uomini, queste insieme formano uno spirito generale. La definizione di questo spirito è indicativa dell’operazione di allargamento della prospettiva del pensiero politico compiuta da Montesquieu. La sua analisi fa entrare nel campo del pensiero politico un metodo capace di determinare un nuovo concetto di legge. Questo metodo serve per spiegare la stretta relazione che c’è tra leggi naturali e leggi umane. L’opera è una ricostruzione storico sociale delle istituzioni umane che vede gli uomini come animali sociali e dove gli ordini politici evolvono lungo il corso della storia. Ma per contro la volontà generale. La sua visione politica si avvicina sempre di più alla tradizione del repubblicanesimo e sull’idea di libertà repubblicana. Voltaire si concentrò invece maggiormente sulla tolleranza e sullo Stato di leggi. Lo Stato di cui parla è l’ordine politico fondato sulla libertà della legge,prodotto razionale dell’unica volontà sovrana. Voltaire critica fortemente Machiavelli e la sua idea di politica fondata sulla potenza. In Voltaire troviamo i concetti del contrattualismo ma pensando il paradigma della modernità politica alla luce della tolleranza. Attraverso di essa affronta temi quali la nazione, la storia o l’economia. La storia è letta da Voltaire secondo un ordine secolarizzato che si determina progressivamente lungo il corso degli eventi. Molta importanza è data ai rapporti economici e come fenomeni legati alla produzione e quindi al lavoro. Ne emerge così una sorta di tolleranza economica in cui il perseguimento dell’interesse individuale fa coesistere le differenze umane. Questa teoria della tolleranza economica lo porta ad avere una visione non più negativa delle differenza ma indifferente perciò ne da distruggere ne da assimilare. In queste posizioni è forte l’eco della fisiocrazia il cui nome sta ad indicare la concezione che l’economia debba essere governata dalla natura. Principale esponente fu Quesnay. I fisiocratici affermano l’esistenza di un ordine naturale razionale che si regge su principi giusnaturalismi e propongono una serie di riforme economiche orientate nella direzione della libertà di iniziativa economica e di scambio contro il colbertismo. La terra è la base della ricchezza e l’agricoltura è fondamentale per avere quel guadagno necessario per vivere. Le loro posizioni portano una forte critica al sistema sociale e politico che non consentiva una libera attività di investimento che deve essere garantita, secondo essi, da un’unica autorità sovrana che emana leggi positive: il dispotismo legale. Nell’illuminismo francese le posizioni più radicali furono assunte da Helvetius e d’Holbach. Il primo sostiene una visione sensista orientata all’utilitarismo, ogni azione umana è diretta dalla legge di interesse. Il compito del legislatore è quello di operare una riforma al fine di accordare interesse privato e pubblico. Critica fortemente fanatismo religioso e dispotismo a cui egli oppone la necessità di un nuovo sistema educativo. D’Holbach porta avanti queste teorie materialiste basate sulla felicità e sulla ricerca di essa. Si scaglia contro la teoria divina del potere e afferma che la politica si fonda sulla conoscenza della natura e sulla legge di natura che spinge alla felicità. Il sovrano è depositario della delega del potere da parte del corpo sociale di cui è il rappresentante. Un’altra corrente di pensiero era quella che poneva al centro la questione dell’uguaglianza. Tale teoria fu portata avanti da Meslier. Egli afferma una filosofia atea in nome della fratellanza e dell’egualitarismo. Troviamo invece elementi di socialismo e di protocomunismo in Morelly che voleva abolire la proprietà privata per ripristinare l’uguaglianza propria dello stato di natura. La proprietà privata viene critica anche da de Mably che affida nella sua monarchia repubblicana di ispirazione platonica e spartana un ruolo centrale al legislatore. Infine ci fu un forte radicalismo che porto a violenza nichilismo e ad una visione anarchica della società con il marchese di Sade. La Germania caratteristica degli illuministi tedeschi è la collaborazione coi sovrani nei quali essi vedevano un interprete del diritto naturale in grado di emancipare dalle superstizioni la società. L’illuminismo in Germania fu influenzato dai francesi e dai principi cameralistici di razionalizzazione e centralizzazione del comando. Oltre a Kant importanti furono Lessing e Wolff. Entrambi ribadiscono i principi della tolleranza religiosa. Lessing nella sua opera dimostra l’assurdità della lotta di religione e chiede un reciproco riconoscimento tra esse. Oltre alla tolleranza sono comuni il riconoscimento di un’equa amministrazione della giustizia e il rispetto dei diritti naturali e il riconoscimento del dovere di essere felici da parte del sovrano. Tale concetto è dominante nella riflessione politica di Thomasius. Egli ritiene che lo scopo della società sia quello di permettere all’individuo di realizzare le proprie inclinazioni e per far ciò è fondamentale il diritto. Wolff invece vuole dedurre dal volere il diritto, anche quello naturale. La teoria dello Stato di Wolff è la teoria dello Stato di polizia, espressione di ordine e tutela del benessere dell’individuo vero motore dell’ordine politico. L’Italiacentri dell’illuminismo furono i caffè letterari di Milano e Napoli. Tutti gli illuministi italiani affermano la necessità di una laicizzazione della politica italiana, di una riforma e di una modernizzazione di ogni ambito della vita politica. Uno dei più importanti teorici fu senza dubbio Muratori che declina il tema della felicità alla luce della carità e dell’amore del prossimo. Tutti così devono partecipare al miglioramento del mondo. Antonio Genovesi sottolinea la necessità di una riforma del commercio per arricchire il ceto medio contro gli ingiusti privilegi dei nobili. Tale visone fu ripresa da Pagano e da Filangeri, il quale proponeva una riforma della legislazione. Questi erano esponenti dell’illuminismo partenopeo. Sotto il Duomo troviamo la figura fondamentale di Pietro Verri che voleva collaborare con gli Asburgo in un opera di riforma seria e durevole. Sosteneva uno stretto legame tra libertà politica e libertà economica e prevedeva anche una riforma della giustizia condannando la tortura e il sistema austriaco. Beccaria si inserì nella riflessione sulle pene con la sua opera che portò alla riforma del diritto penale in Toscana. Affermava una concezione della pena più rispettosa della dignità umana e proporzionata al reato commesso e soprattutto contro la pena di morte. Alla base di questa riforma sta l’egualitarismo e il fatto che lo stato dovesse garantire la felicità per la maggior parte della popolazione. Un discorso a pare lo merita Vico che si scaglia contro la ragione cartesiana e il metodo delle idee chiare e distinte. Egli sostiene una ragione che comprende sia l’azione dell’uomo sia la guida della Provvidenza divina, rifiuta i motivi illuministici dell’affermazione astratta di principi e valori che per lui sono concreti e vivono nella storia dell’uomo. Per Vico la politica è il risultato di una istintività del carattere che non ha alcuna fondazione sapienziale ed anzi è machiavellicamente uso della forza. Tale principio viene inserito nel diritto universale in una visione della storia in cui il più forte è tale anche grazie alle sue migliori virtù morali. Anche lui ripropone il ciclo delle 3 forme di governo che rappresentano le tre età della storia: la prima quella degli dei con un governo teocratico, la seconda quella degli eroi con un governo aristocratico, la terza degli uomini con monarchie e democrazie ugualitarie e governate dalla stessa legge. Questo ciclo si compie a causa della responsabilità umana e tramite corsi e ricorsi storici. Vico crede ad una verità del mondo che si attua nel concreto fare umano che costruisce legami sociali e istituzionali. Questi garantiscono a tutti la libertà e la vita frenando lo ius violentiate. Sulla base di questi legami Vico riconosce la comune natura delle nazioni che nel corso della storia costruisce le strutture gerarchiche e politiche della società. L’illuminismo scozzesegrazie all’Act of Union del 1707 la Scozia conosce una rinascita sociale ed economica che le permette di avanzare anche da un punto di vista culturale ed intellettuale. Centrale nella riflessione scozzese è l’alternativa tra amor proprio e benevolenza, e la rideterminazione dei rapporti che legano la natura umana, la ragione e il sentimento. Shaftesbury si sofferma su ciò che lega l’uomo alla società. Tale legame si basa sull’innato affetto morale che permette all’uomo di cogliere il bene e il giusto e non su un contratto. Questa tesi venne ripresa da Hutcheson che sostiene che l’uomo riesce a vivere in comunità grazie al suo senso morale. Sono senso morale, benevolenza e simpatia che per Hutcheson danno vita, grazia a una qualche forma di patto, al governo civile. L’elemento morale è così da subito presente. Il patto viene stipulato per difendere la libertà e la proprietà la quale diventa il fondamento dell’ordine politico. L’idea di governo etico delle passioni, in contrapposizioni ad un idea coercitiva ed autoritaria del potere, la troviamo anche i Kames. Gli scozzesi attaccano Mandeville e la sua idea di vizi e virtù utili per la costruzione della società civile slegando però morale e natura umana. Grazie ad Hume e Smith si assiste ad un ulteriore sviluppo del rapporta tra sentimento e ragione dove si inserisce anche la dimensione economica. I due si scagliano contro tutte quelle teorie che prevedevano un intervento autoritario dello Stato nella regolamentazione della società. Per Hume alla base dell’ordine sociale e politico c’è l’evoluzione ossia quel processo naturale che determina le regole del giusto comportamento attraverso il succedersi degli eventi. L’uomo di natura è caratterizzato da socievolezza e simpatia ed è l’uomo sociale. Questa naturale socievolezza non è quella dei moralisti come Shaftesbury o Hutcheson, essa è necessità per rafforzare le proprie identità di passioni. La società civile è un utile strumento per soddisfare le proprie passioni attraverso l’esperienza. Ma socievolezza e simpatia hanno bisogno di governo e teoria della giustizia per tutelare l’uomo. Il governo è quindi solo un aiuto non è origine o causa efficiente della società. L’ordine politico è il prodotto della capacità di bilanciare le passioni. L’uomo di Hume entra simpateticamente nella società civile che diventa così politica: il consorzio politico è un miglioramento di ciò che in natura già c’è. Hume vede coesistere nel consorzio civile virtù naturali e virtù civili che permettono all’uomo di vivere all’interno della comunità politica. Questa mistione costituisce il principio della sua teoria della giustizia che è razionale in quanto fondata sul motivo dell’utile e che si produce quando emerge la necessità di tutelare la proprietà. Infine Hume affronta il problema della stabilità della società politica e il rapporto tra autorità e libertà affermando che è necessaria una forma di coazione per garantire la convivenza civile ma anche la libertà del singolo deve essere tutelata. Smith rielaborerà le intuizioni di Hume sul rapporto tra natura umana-ragione-sentimento operando una originale riflessione sulla morale storico-giuridica ed economica. Al concetto di simpatia humeano Smith affianca quello di proprietà che definisce il rapporto di adeguatezza tra l’affezione provata da un soggetto e l’oggetto che la causa. Questo rapporto è prodotto dal costume sociale. Alla connotazione di proprietà si affianca la qualità della prudenza che sta a fondamento dell’organizzazione sociale. La compenetrazione tra virtù,prudenza, e interesse, proprietà, è il tema centrale di Smith. Egli analizzando la giustizia evidenza lo stretto rapporto che corre tra passioni egoistiche e passioni sociali. Questo rapporto è tra sfera economica e sfera politica ed è fondamentale nell’indagare la natura e le cause della ricchezza delle nazioni. L’analisi del rapporto tra ricchezza e potere porta a comprendere che la sfera politica non può più essere autonoma da quella economica. In questo contesto il sovrano deve proteggere la società dalla violenza, dall’ingiustizia e dall’oppressione mediando tra i diversi interessi. Al sovrano non spetta sovraintendere all’attività produttiva dei privati che è libera e virtuosa. Il sovrano sancisce il riconoscimento del primato che la questione economica viene ad assumere per la scienza politica. In Ferguson si ritrovano molti dei temi presenti in Smith in particolare l’attenzione per lo sviluppo della società e i diversi stadi della civilizzazione. Ferguson individua 4 stadi attraverso i quali tutte le società evolvono e che vengono definiti in base alla struttura economica che in essi prevale: caccia, pastorizia, agricoltura e commercio. Lo stadio commerciale è quello che interessa di più Ferguson, esso è caratterizzato da un’ampia divisione sociale del lavoro che si riproduce a livello dello Stato e della società. Questa analisi è la base su cui fondare la propria teoria politica che risente fortemente del repubblicanesimo anglossassone. Riprendendo lo schema machiavellico ritiene che il destino delle società commerciali sia o di libertà o di tirannide a seconda che si scelga per un cittadino soldato o meno. Il conflitto virtuoso è l’unica possibilità di libertà che può portare ad una seria aspirazione repubblicana come quella che ha portato alla gloriosa rivoluzione in Inghilterra. La sua aspirazione repubblicana rimane un qualcosa di morale fondata su disposizioni d’animo. La rivoluzione americanala dichiarazione di indipendenza è uno dei testi fondamentali di matrice illuminista. Essa si inserisce nel solco della tradizione inglese dei documenti che i cittadini inviavano alla Corona in segno di protesta. Essa è però un documento politico totalmente nuovo che scardina il legame fra monarca e sudditi affermando per ciascun cittadino diritti naturali alla vita, alla libertà, e al perseguimento della felicità. Nasceva così il popolo americano che aveva sovranità e affermava il proprio diritto alla rivoluzione. Nella prima parte del testo si afferma l’uguaglianza degli uomini in base allo ius naturalis e la necessità di legittimazione dei governi, nella seconda parte si trovano le imputazioni rivolte a Giorgio III che determinano la secessione. Uno dei temi centrali della dichiarazione è l’accusa di tirannia al sovrano su cui influisce la teoria repubblicana della libertà attiva e virtuosa del cittadino. È grande l’influenza delle Cato’s Letters scritte da Trenchard e Gordon e costituiscono uno dei più importanti testi del repubblicanesimo del ‘700. In esse è centrale il tema della virtù politica e della difesa della libertà, si attacca l’idea assolutistica del potere e si difende, in nome della libertà, il tirannicidio. In queste lettere si trovano anche tematiche lockeane come il contratto e il rapporto fiduciario. A questa tradizione razionalistica si affianca l’elemento teologico attraverso il mito della Nuova Gerusalemme costruita da uomini liberi. Si viene a creare un popolo nuovo, universale, che afferma nuovi diritti uguali per tutti. Ciò che è importante è l’idea di una politica democratica che si sottrae alla ossessione dell’unità politica tipicamente europea. Sostegno alle colonie fu dato da Burke che in due scritti politici affermò la necessità del nesso tra tassazione e rappresentazione. La costituzione federale si fonda sul principio di sovranità popolare. Per giungere alla forma della repubblica federale ci fu un forte scontro che è una forma politica nuova. Con la federazione saltava la logica della sovranità e venivano a coesistere assemblee legislative indipendenti, quella federale e quelle statali non sovrane ma fornite di competenza. A sostegno di questa forma di governo ci fu Hamilton, Jay e Madison. Essi ragionano sul buon senso che basa la federazione, la quale deve garantire la pace e la democrazia. La repubblica federale è capace di istituire una forma politica unitaria e molto estesa in grado di resistere alla spinta disgregatrice delle fazioni che nella storia avevano portato a repubbliche brevi e piccole. In America si rivaluta il particolare e il pluralismo che in Europa era visto come qualcosa di negativo. La costituzione è così repubblicana, democratica ma non unitaria ma anzi bilanciata nell’articolazione dei poteri della costituzione. Questo bilanciamento federale e costituzionale è ciò che contraddistingue la Costituzione degli USA da quelle europee. La costituzione si apre con la dichiarazione dei diritti dell’individuo a sottolineare il ruolo che di principio che essi ricoprono. Da sottolineare la riflessione di Paine su società e governo, la prima è frutto dei bisogni dell’individuo, il governo è invece un male necessario anche quando perfetto. Capitolo 9: ragione e rivoluzione Rousseau il motivo fondamentale del pensiero di Rousseau è costituito dalla discontinuità tra storia e società giusta. L’uomo è per natura buono ma non sociale ed un immenso intervallo divide lo stato di natura dallo Stato civile. L’ingresso in società è inevitabile ed è dovuto alla perfettibilità dell’uomo in cui Rousseau pone la differenza tra uomo e animale. Questa capacità naturale fa uscire l’uomo dallo stato di natura e questa uscita può essere buona,correzione della storia da realizzare col contratto, o cattiva, che è la storia dell’umanità così come si è svolta. Secondo Rousseau il progresso è negativo per il miglioramento della vita morale e per la libertà degli uomini. I mali sociali sono dovuti infatti alle arti che causano la decadenza delle virtù guerriere e patriottiche e portano parassitismo e mediocrità. Il cammino del genere umano è corrotto anche a causa della ricchezza che genera disuguaglianza e tale disuguaglianza risale allo stato di natura che per Rousseau non è il fondamento della società civile ma anzi è una condizione di dispersione e isolamento. L’uomo dello stato di natura è amorale e premorale ed è spinto dall’istinto di autoconservazione e dalla capacità di condividere le sofferenze dei propri simili agendo liberamente. Il diritto naturale non è altro che la faccia della bontà umana che nello stato civile diventa giustizia e ragione. L’evoluzione dell’uomo non è dovuta al caso o alla Provvidenza ma dalla perfettibilità che rende gli uomini capaci di evolversi o di corrompersi. La capacità di scegliere a portato dall’uguaglianza alla disuguaglianza attuale. La disuguaglianza che nasce nella prima rivoluzione, quella della famiglia, aumenta nella seconda, quella della proprietà, e culmina nel processo di accumulazione della ricchezza sociale che legittima la proprietà privata e consolida la disuguaglianza. Questa è stata permessa dallo stato di guerra, la condizione dell’umanità civilizzata. Il contratto è la soluzione alle diseguaglianze della società attuale e permette di ristabilire la pace. Ma questo ingiusto praticato dai ricchi ai danni dei meno provveduti. Questo patto sancisce l’istituzione del sopruso che è lo Stato il quale incrementa il decadimento in 3 tappe: la fondazione della legge e del diritto di proprietà, l’istituzione della magistratura, la trasformazione del e l’altra ideale,dal contratto. La prima è l’essere la seconda il dover essere, lo Stato quindi deve comportarsi come se fosse nato dal contratto. Lo stato di natura viene concepito come l’orizzonte del diritto privato e quindi naturale che è anteriore a quello pubblico. Ma nello stato di natura manca un’autorità legittima che dirima le controversie per tutti. Di conseguenza il superamento dello stato di natura è necessario e avviene con l’affermazione della volontà generale, un esercizio di potere legittimato dalla legge. Lo Stato di diritto è la comunità razionale che affida il diritto al potere pubblico e non a persone private per garantire la libertà. L’ordinamento politico è giustificato sulla base del contratto originario che determina l’unione delle volontà particolari e private in una volontà comune. La volontà comune si esprime attraverso il principio di rappresentanza secondo la regola della maggioranza. La rappresentanza moderna ha in Kant la conseguenza che la legge è frutto della volontà universale e razionale del sovrano, riconosciuta come propria dai cittadini. Il sovrano quindi deve fare le leggi come se le facessero i cittadini. Il popolo è titolare di alcuni diritti inalienabili ma non di quello della resistenza che non è giustificata perché non può esistere una legge pubblica che lo permetta. Il cittadino può criticare attraverso la penna ma l’obbedienza è sempre dovuta. Il sovrano in definitiva per Kant, anche se non nasce da un patto, deve comportarsi come se da un patto fosse legittimato superando così il dispotismo assolutistico. Kant ha come obiettivo di orientare il potere al diritto e alla liberta e di conformarlo alla ragione. Lo Stato a cui pensa Kant è lo Stato di diritto perché fondato su di esso e perché così promuove l’unico bene comune che è il diritto stesso. Attraverso il diritto la politica si riconcilia con la sua dimensione morale perché lo Stato kantiano è quell’ordine politico che è costruito per salvaguardare l’accordo tra libertà esterna e riserva morale. Lo Stato deve quindi garantire libertà, uguaglianza e indipendenza e con ciò critica fortemente l’imperium paternale che vede i cittadini come sudditi non in grado di decidere. In Kant la proprietà ricopre un ruolo fondamentale, è naturale e preesiste lo Stato. Lo Stato nasce e si costituisce per difendere la proprietà privata a tal punto che solo il proprietario può diventare cittadino e partecipare alla sovranità e così la cittadinanza si basa su criteri di possesso e di status economico. Kant accoglie il principio della separazione dei poteri e distingue tra forma di Stato e forma di governo. Della prima sono possibili tre specificazioni a seconda di quanti detengano il potere. Per quanto riguarda le forme di governo sono due una repubblicana in cui il vero potere sovrano appartiene al legislativo che può deporre l’esecutivo ma non il giudiziario, e uno dispotico con leggi arbitrarie e sovrano assoluto. Il regime ideale è il primo. Con Kant la democrazia si avvicina al sistema rappresentativo in cui i rappresentanti sono investiti del potere tramite il suffragio del popolo sovrano. Kant interpreta la rivoluzione francese da due punti di vista. Da una parte come un fatto violento non giustificabile, dall’altro come atto in cui il popolo si dà una costituzione con entusiasmo e passione. Si vedono quindi i concetti di libertà e ragione già esplicati precedentemente. Nell’ideale di Stato kantiano l’illuminismo, con il suo uso pubblico della ragione ha un ruolo fondamentale. Kant distingue tra uso pubblico e privato della ragione. L’uso pubblico della ragione è quello dello studioso davanti ai lettori, quello privato è quello della funzione civile; il primo è pienamente libero il secondo si deve ispirare alla volontà del governo. L’ideale della pace è fondamentale per la piena realizzazione della ragione umana. La pace perpetua si può raggiungere solo con il progresso e lo sviluppo. Secondo Kant per poter mantenere la pace si deve anche costruire un nuovo diritto internazionale che faccia si che gli Stati si sottomettano alla legge internazionale che è legge positiva universalmente riconosciuta. Kant parla anche della necessità di creare un diritto internazionale che porti alla nascita di una federazione di Stati in grado di mantenere la pace. La Arendt ha analizzato il pensiero politico di Kant vedendoci qualcosa di veramente diverso da quello moderno che si basa sul fatto che la politica è agire libero, comune e pubblico dell’uomo in modo che essa si costruisca grazie alla pluralità di opinioni che si fronteggiano e non su basi teorico-scientifiche. Capitolo 10:La dialettica Il pensiero dialettico è una delle forme di pensiero più importanti e caratteristiche del XIX secolo e ha tra i suoi esponenti Fichte, Hegel e Marx. Essa è l’arte della contraddizione, a differenza della dialettica antica che era retta confutazione, ed in particolare trae il proprio inizio dalle contraddizioni del pensiero razionalistico tra libertà dell’individuo e ordine politico. La dialettica riflette partendo da Kant e dalla rivoluzione francese, il pensiero di Kant rende evidente che non è possibile nel razionalismo una piena conciliazione tra soggetto e ordine politico,una piena libertà interiore del soggetto, con lo stato esteriore dell’ambito fenomenico. Nella rivoluzione francese si manifestano la potenza e le contraddizioni del pensiero politico moderno. Del razionalismo e dell’illuminismo la dialettica critica l’astrattezza che è causa dei fallimenti. C’è bisogno quindi di un nuovo punto di vista concreto per superare questi errori. Superare in ambito dialettico vuol dire rendere comprensibili e concretezza significa aprire la filosofia politica alla storia e alla realtà. È quindi un pensiero più esigente ma anche più ottimistico che vuole portare l’uomo ad una vera libertà sia assoluta sia concreta e storica. Fichteil tema kantiano della libertà diviene principio e fine dell’azione filosofica. La libertà viene vista come il modo con cui superare la distinzione tra il mondo morale dello spirito e il mondo empirico della storia. Il dovere morale kantiano diviene così principio di azione politica e principio propulsivo di una storia che è affermazione di libertà. Fichte sostiene una concezione contrattualistica e antidispotica dello stato, sensibile soprattutto alla libertà di pensiero, criticando lo stato paternalistico ed eudaimonistico. Nel testo “il contributo” vuole mostrare la legittimità della rivoluzione sotto il profilo teorico, poiché il futuro obbliga gli uomini in nome del progresso a non ritenere immutabili le costituzioni. La legge positiva è obbligatoria perché gli uomini se la impongono. Lo Stato è quindi il prodotto delle volontà libere degli uomini ed è un sistema coercitivo meramente esteriore. E’ forte in lui la tensione tra ordine e libertà, esigenze presenti nello stato e nell’uomo, in difficile rapporto. Secondo lui il diritto naturale non esiste in quanto diritto, ma come scaturisca dalla morale. La libertà morale e razionale viene posta come tesi, mentre la dimensione giurdica della coesistenza e della coercizione come antitesi. L’ingresso nello stato è un atto necessario per salvaguardare i diritti originari, che diventa sintesi, solo se, esso si giustifica come uno strumento necessario alla libertà. Questo obbiettivo è raggiungibile solo se lo stato è rappresentativo, che il potere venga delegato è il primo principio di ogni costituzione. Il governo rappresentativo serve a garantire la libertà e la proprietà esterne. A differenza di Kant i poteri non sono separati, ma uniti in una logica che impone l’unità del potere. Egli teorizza degl’efori non elettivi che controllino in nome del popolo l’esecutivo, i quali però non dispongono di un reale potere di intervento legislativo. Fichte conserva un’impostazione individualistica, allo stato spetta solo il compito di garantire i contratti che i singoli stipulano tra loro. Una società complessa comincia a delinearsi in Fichte quando inizia a riprendere i ceti , attribuendo loro valore morale, infatti grazie ad essi il singolo opera un’attività moralmente riconosciuta. A partire dall’800 Fichte teorizza uno stato attivo stimolante i cittadini a realizzare uno stato del diritto. Lo stato devo organizzare la società ed essere economicamente autosufficiente, dunque chiuso verso l’esterno, sostituendo l’economia liberale con una pianificata. Lo stato deve garantire proprietà e lavoro, nonché fare un’azione pedagogica e moralizzatrice degli individui. Analizzando alcune caratteristiche dell’illuminismo come la mancanza di concetti fondanti, come negative, Fichte propone il superamento mediante l’affermazione di una nuova positività morale. Traduce inoltre l’ideale di nazionalità a livello nazionale, non più cosmopolita. Per lui il popolo tedesco è quello più puro, dunque mediante la realizzazione della sua purezza, esso deve giungere al valore più alto, la libertà, divenendone il custode. Dunque non pensa ad una politica di conquista per espanderlo. HegelLa riflessione hegeliana parte dalla contraddizione irrisolta in Fichte, tra libertà del singolo e libertà universale, tra morale e storicità. Tutto si fonda sullo spirito, che attraverso le contraddizioni, dunque la dialettica, muove il mondo. Hegel pensa ad una ragione che non è la moderna ragione calcolante, bensì l’idea, l’origine del pensiero e dell’azione, che calandosi e perdendosi nel reale, conoscendo le contraddizioni, arriva ad una sintesi. Egli rifiuta le teorie moderne umane, perché non dialettiche, ma elaborate a priori. Il soggetto Hegeliano è l’attore della politica, ma non più l’origine, quella è lo Spirito. Quello che a suo avviso determina il fallimento del diritto naturale moderno e della rivoluzione sta nel fatto che essi sono incapaci di passare attraverso l’alienazione, e di uscirne con un superamento. La contraddizione è la via per la sintesi, cioè la verità. Dagli scritti giovanili alla “Fenomenologia dello spirito” La riflessione hegeliana è contro la positività e la rigidezza, il cui simbolo è la religione ebraica (e Kant), a essa si oppone il cristianesimo l’amore per il prossimo ed il suo destino, che supera la dcotomia Kantiana tra essere (la morale) e dover essere (la storicità), innalzando il soggetto all’assoluto. Hegel non disapprova la rivluzione ma crede che bisogni dare concretezza al suo messaggio universale. La conflittualità moderna tra soggetto e stato si risolve nella sintesi, cioè l’eticità, superando il contratto e la dottrina giusnaturalista, poiché il Tutto deve essere mediato dal soggetto, non come pensava il razionalismo che fosse oggettivo. La razionalità del reale non garantita dal contratto, ma dalla durezza della lotta tra signore e suddito, che crea la storia umana. Tramite lo svolgersi della lotta e delle contraddizioni, lo spirito ha assunto a sapersi come Sé, a divenire esso stesso soggetto. E’ lo spirito che ha prodotto la rivoluzione, che acquisterà concretezza in Germania, nazione spiritualmente eletta. La “Filosofia del diritto” La conciliazione del particolare con l’universale (definita da Hegel Spirito Soggettivo, viene attuata da hegel nello stato postrivoluzionario. La linea guida di questo testo è la libertà, che si realizza attraverso le contraddizioni del reale. Tra diritto (universale, tesi) e moralità (individuale, antitesi) si realizza l’eticità (superamento, sintesi), dove il soggetto raggiunge l’autocoscienza, riconoscendosi nello stato, e realizzando la propria volontà individuale. La società civile è dunque il mondo dei rapporti economici tenuti avvinti dal diritto. La società civile corrisponde perciò allo stato liberale di diritto e alla libertà soggettiva. Lo stato è universale, non perché somma della particolarità (come invece è la società civile), ma perché universale certo di sé, reale e razionale in quanto sa quello che vuole. Hegel immagina la rappresentanza cetuale perché quella atomistica contrattualistica non rappresenta lo stato come realmente è, a differenza della prima. Lo stato Hegeliano è monarchia costituzionale, costituzione concreta di società, libertà modernba e distinzione dei poteri. Si differenzia da quello del razionalismo poiché non è la somma di volontà particolari, ma è l’idea etica. Lo stato è la mediazione delle mediazioni che da origine alla società. Tuttavia esso non è momento dello spirito assoluto, bensì di quello oggettivo, poiché non è il fine ultimo, ma un passaggio intermedio, non ha perfezione in sé, ma resta aperto e lacerato. Oltre esso sta il tribunale del mondo, il giudizio storico, che ne sancisce la nascita e la morte. Dunque nello stato non si arriva mai alla sintesi, perché esso non conciliato. Hegel vorrebbe interpretare l’intero mediante lo scontro dei particolari. Supera l’astrattezza del razionalismo, tuttavia poi si va a rifugiare in procedimenti i pensieri astratti. Capitolo 11: L’ordine dopo la rivoluzione La prima strategia controrivoluzionaria vuole individuare un principio di stabilità del potere politico che ne fornisca basi immutabili e trascendenti, tale principio viene individuato nella tradizione, concepita come una continuità storica legittimanti, e nella religione. Un'altra è prendere alcuni principi prodotti dalla rivoluzione, quelli liberali, rifiutando quelli più radicali e democratici, cioè promuovere un liberalismo moderato. BurkeLe “Riflessioni sulla rivoluzione francese” di Edmund Burke sono il primo organico della letteratura controrivoluzionaria. Burke ricava un giudizio sulla rivoluzione francese quale evento innaturale e distruttivo, cercando di fare tabula rasa del passato cercano di costruire un nuovo ordine basato su principi logici astratti e privi di spessore storico. Per Burke non è la ragione astratta, bensì lo scorrere delle generazioni, e le relazioni extrarazionali a legare tra loro gli uomini nel contratto originario ed eterno. Oltre all’aspetto distruttivo riscontra un aspetto costruttivo, il quale consistere nel costruire uno stato più potente di quello precedente. Burke respinge i contrappesi delle istituzioni intermedie, i parlamenti, le corporazioni, poiché la rimozione degl’argini trasforma il potere politico in despotismo. Aderendo a istituzioni storicamente consolidate Burke ritiene che la barbara filosofia costruttivista illuminista sia destinata a cadere proprio per la sua astrattezza. I controrivoluzionari cattoliciI controrivoluzionari cattolici non contestano soltanto la rivoluzione, ma l’intero sistema di pensiero illuminista e rivoluzionario. Per loro Dio è il fondamento ultimo, o primo della politica, sulla base di una interpretazione letterale della lettera ai romani di Paolo. L’ordine politico è centrato su Dio, che tuttavia lo abbandona alle ferree leggi della natura. Questo nega la possibilità di costruire la politica e la libertà su elementi razionali. La modernità è dunque l’epoca votata alla catastrofe. Anche la sovranità si iscrive in questa prospettiva, il sovrano agisce per mandato di Dio, come ministro per il mantenimento di un ordine stabile. Per questo la sovranità non può essere assoluta, tanto più che i controrivoluzionari, un quanto aristocratici, sono eredi di una lunga lotta contro l’accentramento monarchico. L’unica corretta forma di libertà è quella della concessione costituzionale delle libertates di antico regime. Tuttavia i controrivoluzionari hanno appreso anche alcune dinamiche: il ruolo della religione nel dare stabilità,. MaistreMaistre sostiene che la ragione individuale è completamente impotente, capace cioè di produrre solo opinioni divergenti. Maistre afferma che ci deve esser una religione nazionale, cioè politica. La rivoluzione francese è la manifestazione dell’impossibilità dell’uomo di essere artefice della storia mediante la ragione. I rivoluzionari sono solo in apparenza protagonisti della rivoluzione, in realtà essi non potrebbero sovvertire con le loro forze l’ordine prodotto da Dio, dunque in realtà la rivoluzione è opera di Satana. BonaldL’impianto teorico di Bonald è fondato su una critica dell’astrattezza moderna. La ragione per Bonald è un valido strumento per capire la logica sistemica di un mondo che l’uomo non può modificare. Per lui la storia è il risultato di un rapporto ternario, è stato mediato da un mezzo che ha trasmesso l’azione causale (Il Verbo, Il Figlio), da Dio (causa) all’uomo (effetto). Il potere che conserva, attraverso la mediazione dei ministri, la coesione sociale. La fondazione religiosa dell’ordine politico è l’unica possibile perché la mente umana sarebbe insuffciente. LamennaisLamennais pone al centro della sua distinzione il principio di autorità, coincidente con la ragione umana. Questa nel corso della storia si da sempre una religione per appagare il suo bisogno di certezze. La religione perfetta è quella rivelata da Cristo, incarnata nella chiesa, che da certezze alla società. La ragione moderna è invece una religione irrazionale che nella sua astrattezza non da certezze. Lamennais è una sorta di anti Cartesio, Solo Dio è l’autore della società, e solo il cristianesimo può conservarla. Ostile alla gestione politica da parte della borghesia, Lamennais si convince che la chiesa debba cogliere questa opportunità offerta dai tempi per correggere le tendenze negative che si sono generate, dando vita ad un vero e proprio partito cattolico. Lamennais, al contrario di Maistre non vuole fare il contrario della rivoluzione, ma cattolicizzarla. Donoso CortesNelle sue opere principali, “Discorso sopra la dittatura”, Donoso ritiene che gli ordini politici non possano che fondarsi sulla legge naturale, dunque su Dio, ciò spiega le strutture gerarchiche di dominio. Prospetta per l’Europa una dissoluzione nichilistica, messa in moto dalle dinamiche protestanti razionalistiche. La rivoluzione del 1848, segna in particolare, con l’avanzata del socialismo di Proudhon, la fine di ogni sogno di restaurazione sul principio di trono e altare, e sostiene che con l’illuminismo la via sia spianata verso le negazioni radicali del socialismo. Donoso non fu sostenitore dell’assolutismo, e ritiene che l’unica soluzione percorribile sia la dittatura Nell’800 comincia ad affermarsi il problema della questione sociale, con le prime avvisaglie delle problematiche del proletariato, con le prime proposte organiche di riforma economico sociale. L’opera di Simonde de Sismondi, “Nuovi principi di economia politica”, cominciava a renderli pubblici e dibattuti. Egli sostiene che il mercato non è capace di un’automatica capacità di autoregolazione e che esso, contro gli assiomi liberisti, non tende all’equilibrio, e che quindi tende ad arricchire i ricchi, impoverendo i poveri. Diventa compito del potere sociale, e del legislatore intervenire per eliminare le disuguaglianze. Si apre dunque il dibattito intellettuale che porterà all’organicità del futuro movimento socialista. In Francia ricordiamo Babeuf e Fourier, il quale criticava ferocemente il sistema capitalistico, asserendo che riduceva in schiavitù i lavoratori, promuovendo attività parassite come la speculazione e le attività finanziarie, vedendo la società contemporanea come una tappa intermedia tra l’Eden e la futura “armonia”. Un diverso indirizzo di elaborazione di idee socialiste fu quello di Proudhon, secondo cui la proprietà è un furto, preconizzando una forma politica che è ibrida tra l’anarchismo e il federalismo radicale. Basandosi sul presupposto di scientificietà egli pensa di poter smontare la società capitalista, convinto che i difetti fondamentali di questa, derivanti dal sistema monetario, possano essere eliminati mediante l’istituzione di un credito gratuito, la banca popolare. Altri esponenti francesi furono Blanc (insurrezionale) e Blaqui, a favore degli opifici sociali. In Germania si produsse una delle analisi più lucide della situazione e di ciò che sarebbe accaduto. Dalla Germania prenderà anche il via il movimento della sinistra Hegeliana, la quale criticherà alcune posizioni del maestro in senso critico e progressivo, dicendo che il detto “il reale è razionale” (il quale sanciva i regimi politici esistenti in quanto reali) doveva essere interpretato come “il reale deve diventare razionale”, evidenziando un difetto nella filosofia di Hegel. Nei giovani Hegeliani si nota un principio di critica a tutte le realtà storiche. Bruno Bauer imputa di aver introdotto nel mondo l’hegeliana coscienza infelice, presentando un destino di dolore per l’uomo, postulando il primato di leggi eteronome sulla libertà. Arriverà a negare qualunque religione, indicando come obbiettivo per l’umanità quello di giungere all’autocoscienza. Le prime formulazioni teoriche socialiste in lingua tedesca furono di Weitling, quindi maturate all’interno della sinistra hegeliana. Stein invece fece prendere coscienza alla Germania della pericolosità del movimento sociale, il quale nella società organizzata tra capitale e lavoro vedeva in perenne tensione lo stato di diritto e il proletariato, il quale ha installato la questione sociale nella storia, proponendo una monarchia sociale, tappa intermedia per una politica sociale di stampo nuovo. Gli economisti tedeschi critici del liberalismo di stampo anglosassone diedero vita al Verein Fur Sozialpolitik (associazione per la politica sociale). MarxIl pensiero di Marx non è organico, ma è piuttosto un cantiere aperto, disseminato di frammenti e abbozzi teorici. La società Per lui era fondamentale confrontarsi con Hegel, che riteneva il pensiero più alto del pensiero contemporaneo. Egli introduce il concetto di classe, contraddistinguendo la società civile non più unita nel singolo interesse privato, ma percorsa dall’antagonismo sociale tra le classi, cioè divisa in due gruppi, borghesi e proletari. La società così scissa conosce una guerra sociale. E’ questo che porta Marx dal radicalismo democratico iniziale al comunismo. Questo perché, secondo lui la “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino”, fondamento democratico, l’uomo di cui si parla è il borghese, membro della società civile, e cioè i diritti dell’uomo egoista, separato dal mondo e dalla comunità. Da qui deriva che ogni emancipazione solo politica sia insufficiente, dunque che si renda necessario il superamento della società civile e dello stato. Nelle “Tesi su Feuerbach”, Marx comincia ad indagare non solo sull’alienazione politica, ma anche su quella economica. Il lavoratore perde il controllo sul mondo proprio quando svolge la funzione fondamentale di produrre, dunque il sistema capitalista lo sfrutta, lo assoggetta. Ritenne tutta la vita che si sarebbe dovuta formare una classe operaia che avrebbe abolito lo stato borghese, dissolvendo la distinzione in classi. Lo stato comunista infatti, è l’unico stato dove gli individui si sviluppano davvero, dove non è un mero concetto, e questo concetto non può avvenire se non nell’abolizione della proprietà privata, sia in termini fisici, sia in temrini metaforici, inteso come il furto sul lavoro del borghese. La storia Marx concepisce la storia come una perenne lotta tra classi. Questo fa capire la natura materialistica che Marx ha elaborato. Il suo movimento dovrebbe sostituirsi a questo perenne antagonismo, superandolo in modo dialettico. L’idea fondamentale è che la produzione economica e la struttura sociale che ne deriva necessariamente, in ogni epoca costituiscono la storia politica ed intellettuale dell’epoca stessa. Questo mediante l’ideologia, cioè la funzione che un’idea svolge di legittimare lo stato delle cose presente, come l’ideologia dominante della classe dirigente. Il materialismo sta nel fatto che la struttura determina necessariamente la sovrastruttura. L’insieme dei rapporti di produzione definisce la struttura economica della società. E’ il processo oggettivo di sviluppo delle forze produttive che ad un dato punto della storia, entra in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti, i quali si trasformano in loro catene (delle forze produttive). Allora secondo lo schema dialettico hegeliano di negazione della negazione e di superamento nella sintesi, subentra un’epoca di rivoluzione sociale. Queste frasi sembrano porre la rivoluzione comunista come un avvenimento automatico e necessario dello sviluppo delle forze di produzione. Le cose, come preciserà nel futuro Engels, saranno più complicate. Il Manifesto I singoli individui secondo Marx formano una classe solo in virtù del fatto che devono combattere un potere opprimente. Distinguendo da classe in sé (cioè determinata dallo status economico effettivo) e classe per sé (determinata dalla presa di coscienza di alcuni contro il potere opprimente), che rimanda ai comunisti, i quali sono la parte avanzata della classe operaia. La borghesia è stata rivoluzionaria perché ha portato all’estremo i rapporti produttivi, dunque è riuscita a mettere in piena potenza la produzione, la rivoluzione proletaria abbatterebbe lo stato da questa creato. Marx critica il socialismo utopistico, perché seppure ha difeso gli interessi operai, ha utilizzato principi atratti, a differenza di Marx che invece ha analizzato la storia nel concreto. Il manifesto, grazie all’imminente crisi del capitalismo, si propone di abbatterlo con una teoria materialmente solida. La Critica dell’economia politica Marx critica la società moderna borghese per il feticismo della merce, ossia per il fatto che attribuisca alla merce un valore stimato in prezzo, facendo prevalere lo spettrale e oggettivo valore di scambio, rispetto allo specifico valore d’uso, ovvero la sua utilità per il compratore. In questo modo i rapporti tra uomini, mediante il prezzo ed il denaro, sono presentati come rapporti tra cose. Il vero arcano del metodo produttivo del capitalismo non sta però nello scambio delle merci, ma nello sfruttamento su cui esso si regge, poiché è nel processo produttivo che viene consumata quella merce particolare che è la forza lavoro. Lo sfruttamento sta: l’operaio ha una sorta di lavoro necessario, cioè quel lavoro che serve alla sussistenza, però la giornata lavorativa non si esaurisce nel lavoro necessario, ma c’è anche il pluslavoro, cioè quella parte del lavoro dove l’operaio sgobba oltre i limiti del necessario, senza produrre alcun valore per sé, ma producendo il plusvalore con cui il capitalista si arricchisce. Non è dunque una questione meramente morale il problema dello sfruttamento, bensì una logica scientifica, insita nel sistema capitalistico. Nel tentativo di rendere la giornata lavorativa più lunga possibile, il capitalista provocherà la guerra con l’operaio, il quale opporrà il proprio diritto dovuto alla volontà. Qui ha luogo un’antinomia, diritto contro diritto, entrambi consacrati dalla legge della merce. Su questa lotta si fonda la lotta di classe. Lo sfruttamento Marxiano è dinamico. La politica Marx ritiene che la progressiva socializzazione del lavoro porterà al comunismo, cioè apporterà le condizioni necessarie, dovute alla contraddizione sempre più forte tra il carattere sociale della produzione e il carattere privato dell’appropriazione. Quanto più essa è forte, quanto più facilmente favorirà il passaggio al comunismo. Un esempio per come potrebbe svolgersi la rivoluzione comunista è la Comune di Parigi. Tuttavia, dopo il suo fallimento, produce la tesi della dittatura del proletariato, cioè la transizione dove il proletariato assume il totale controllo, tra il capitalismo ed il comunismo. I Sovietici abuseranno di questo concetto costruendo una dittatura di partito. La dittatura del proletariato servirà come scopo al deperimento dello stato, culminante nel socialismo. TocquevilleTocqueville coglie gli aspetti del sanguinoso esperimento della rivolta del ’48, difatti emergevano alcuni nuovi pericoli, e gli elementi di moderazione del liberalismo contro il terrore, erano ora utilizzati contro il socialismo, mentre il ruolo decisivo del ceto medio acquistava tonalità difensive contro l’avanzare delle classi povere. Proprio per questo, i più grandi liberali si opposero all’allargamento del suffragio, temendo per l’avanzata degl’interessi incontrollabili socialisti. L’uguaglianza Tocqueville ebbe il merito di sfatare il mito settecentesco che la democrazia fosse un regime applicabile solo nelle repubbliche di piccole dimensioni , e su una analisi della democrazia non più intesa come forma di governo, ma come stato sociale (stato inteso come condizione), dove si verificasse l’uguaglianza delle condizioni. Per uguaglianza delle condizioni non si intende un livellamento della ricchezza, ma la parificazione di tutte “le altre condizioni” come lo status della nobiltà, che andava perso, favorendo la mobilità sociale. Gli stati uniti sono lo specchio di ciò che l’europa deve temere o sperare che si realizzi. Emergeva così per Tocqueville un nuovo tipo umano, un tipo insofferente alla immobilità, indipendente, propositivo. Tocquville coglie l’esigenza di produrre una scienza politica nuova. Le minacce per la libertà Le minacce per la libertà di questo regime esistono, e si manifestano con il progredire dell’uguaglianza. La prima, e più evidente è un livellamento culturale, che rischia poi di scadere in mediocrità e conformismo. La seconda è che si viene a creare un regime del tutto nuovo, cioè un nuovo despotismo, quello dei pregiudizi, silenzioso, che porta ad un’oppressione non più dall’alto ma dal basso. Assume i tratti di una sorta di tirannide della maggioranza. Questo avrebbe anche potuto provocare secondo Tocqueville una costante spoliticizzazione della vita politica dell’individuo, il quale ormai così pieno di aspirazioni nel privato che avrebbe tralasciato il pubblico, essendo quasi grato al potere sovrano che lo sollevava da questa responsabilità. In queste teoria si avvicina al libertà dei moderni teorizzata da Constant. Ai danni potenziali dell’uguaglianza, la quale era inevitabile, c’era un solo rimedio, la libertà politica. Tocqueville prepara potenziali mezzi per evitare questo declino dovuto all’uguaglianza, come la divisione federale della sovranità, il decentramento amministrativo, l’autonomia del potere giudiziario, nonché riprendere quel valore promosso dalla rivoluzione francese, la fraternità, cercando di avvicinare il cittadino alla vita politica ed alla cultura, favorendo un attivismo partecipativo. La Francia Secondo Tocqueville, la prima rivoluzione francese dovette proseguire quello che lo stato assolutistico aveva iniziato, l’accentramento. E’ infatti l’assolutismo ad anticipare alcune caratteristiche della rivoluzione, difatti, eliminando il contropotere aristocratico, iniziò quel processo di accentramento amministrativo che poi si compirà nella rivoluzione. La fine della nobiltà non tanto per Tocqueville la fine di una casta, quanto più il tramonto di una serie di valori che la rivoluzione non ha saputo sostituire come guida dei cittadini, lasciando così perire la virtù politica. La tendenza dell’affermazione dell’uguaglianza reca indelebile il segno della monarchia che attuava il disciplinamento dall’alto, viaggiando su due binari paralleli. John MillMill riprese le tesi di Tocqueville, come i temi di una tirannide della maggioranza e di una mediocrità collettiva. Sotto l’influenza del movimento romantico, si allontanò parzialmente dall’utilitarsmo Bethamiano, che gli appariva troppo arido. Seppure fosse rimasto nel solco dell’utilitarismo, accettando il principio maggior felicità possibile per il maggior numero, giudicava la scala di valutazione non realistica, in quanto essa fondava la felicità più valori morali e sociale, invece che sulle naturali inclinazioni umane. Sottolineava che il benessere è il risultato di una multifattorialità, che non si può ricondurre solo alla ricerca dell’utile. Dall’incontro con Saint Simon e Comte si interessò sempre più alla scienza sociale. Nel testo “I principi dell’economia politica” operava una distinzione gravida di conseguenze: cioè distingueva il momento produttivo (regolato da leggi fisiche), da quello distributivo (regolato da leggi fisiche e sociali), dunque se sul primo non si poteva agire, sul secondo invece si rendeva possibile l’intervento statale, tale per cui alcune disuguaglianze potevano essere così limate, favorendo una politica attiva statale, ed un maggiore benessere per le classi povere. Libertà, personalità e rappresentanza In molti casi i governi assumono poteri ingiustificabili se non in nome dell’interesse generale. Secondo lui quasi tutti i mutamenti avvengono per limitare la libertà dell’individuo a favore di quella della società. Tuttavia nella democrazia, essendo possibile la tirannide della maggioranza si tratta di tutelare l’autonomia dell’individuo in modo nuovo, riprendendo le tesi di Tocqueville. A suo avviso il governo deve essere costituzionale, rappresentativo, curando anche l’importanza delle opinioni degli intellettuali. Valuta inopportuno limitare il suffragio, così come necessario far pagare le tasse alla classe dei lavoratori. I rischi del governo rappresentativo possono essere evitati solo favorendo la cultura e l’attivismo politico. Il mandato deve essere libero. La soggezione delle donneWalter Bagehot era il più grande oppositore di Mill e si oppose fermamente all’allargamento del suffragio poiché secondo lui, giù la camera bassa aveva guadagnato potere, fargliene guadagnare ulteriormente mediante il suffragio universale avrebbe rotto quello che per lui era un equilibrio solido basato sulla quasi fusione della capacità esecutiva (il re) e legislativa (il parlamento), il quale era a sua volta fondato su solide maggioranze parlamentari che si sarebbero così potute incrinare. Il liberalismo ingleseDal pensiero di Mill sull’interventismo statale e la sua preoccupazione per la libertà individuale, oltre che per il pensiero di Benjamin Disraeli, difensore delle tradizioni, ma anche di un riformismo sociale attivo, dell’estensione del suffragio e dell’imperialismo, nacque in Inghilterra il cosiddeto neoliberalismo. SpencerAffermazione di questo neoliberalismo fu Spencer, il quale esprime alcune caratteristiche dell’ideologia di quegl’anni, cioè l’idea di progresso. L’opera di Spencer, in affinità con quella di Darwin, parve confermare il principio secondo cui è presente nella storia un costante processo di evoluzione che fa si che solo i migliori sopravvivano. La cosiddetta sopravvivenza del più adatto, a cui Darwin stesso si ispirerà. Così come in biologia l’omogeneo tende a differenziarsi, così nel lavoro, esso diventa diviso e differenziato. Questo segna il passaggio dalle società militari (come la Germania) a quelle industriali, tendenzialmente pacifiche. Il pensiero di Spencer non contro l’individualità, anzi ritiene che solo con azioni individuali si possa modificare la società. Spencer è contrario contro qualunque azione statale che non sia il mantenimento dell’ordine e della proprietà Il Darwinismo socialeEngels fu entusiasta della teoria darwiniana, che ha indubbiamente influenzato quella comunista. Tuttavia successivamente mostrò perplessità su alcuni concetti come la selezione naturale. Infatti la teoria darwiniana sociale univa in se il razzismo scientifico, con il liberalismo estremo, portando alle estreme conseguenze l’individualismo. operaie come soggetti politici. Secondo Tonnies esiste una dicotomia tra comunità (organica e reale) e società (dominata dalla volontà arbitraria, sarebbe una formazione meccanica ed ideale), dando spesso l’idea che egli fosse nostalgico verso un modo di vivere insieme ormai scomparso. Tonnies fu fondamentale per lo sviluppo di quelle retoriche dette antimoderne. La modernità per Tonnies ha nel progresso e nella rivoluzione i suoi concetti cardine, tuttavia, oltre a questi recupera la razionalità e il concetto di rappresentanza, da Hobbes. Attraverso questa, lo stato che teorizza, cioè democratico, può efficacemente gestire le spinte al suo interno in modo produttivo. WeberWeber amava definirsi come borghese con coscienza di classe, maturò la propria personalità scientifica e politica proprio a contatto con i temi vicini del liberalismo nazionale tedesco. Capitalismo e scienza sociale Weber compì il primo passo verso un analisi innovativa, fatta per Verein Fur Sozialpolitik, quando scoprì il capitalismo, studiando le dinamiche agricole dei prussiani a est dell’Elba, egli notò come gli Junkers si erano ormai trasformati da latifondisti in classe imprenditoriale, che aveva come scopo principale il profitto. Esso gli si presentò, nel solco di Marx e Nietzche, come una potenza sovversiva e nichilista, che avrebbe travolto qualunque comunità di interessi, in nome della propria affermazione, dissolvendo i legami personali concreti, e sostituendoli con una mediazione astratta e soggettiva del salario monetario. Un interno universo di valori tramontava sotto la proletarizzazione delle masse. Sovversivo e nichilistico, il capitalismo è una potenza oggettiva, a cui non ci si può sottrarre. Interessante ed azzeccatissima è l’analisi che ne delinea la genesi: infatti egli ritiene che la dottrina della predestinazione divulgata dalle chiese protestanti, abbia originato nel credente il bisogno psicologico di trovare conferme. Così, il denaro e la riuscita del disciplinamento dei propri impulsi mediante lavoro divenne un metro per valutare la benevolenza di Dio nei confronti del soggetto. Il capitalismo è il prodotto di una specifica soggettività, capace di dare un senso alla propria vita terrena attraverso l’oggettivo successo nella vita mondana. Il capitalismo viene inquadrato in grandioso processo di razionalizzazione e di disincanto dal mondo. La sua paura è che i valori classici del liberalismo, in particolare della libertà si dimostrino inconsistenti sotto la schiacciante pressione della tecnica, che avrebbe provocato una burocratizzazione universale. Il pensiero politico Il documento più importante del pensiero politico Weberiano è “lo Stato nazionale e la politica economica tedesca. In questo testo si mostra subito quello che per Weber è un valore fondamentale, lo Stato nazionale, soprattutto negli scritti giovanili. Decisiva è l’analisi della trasformazione degli junkers in classe capitalistica dirigente, questo presupponeva un rinnovamento della classe politica esistente, che doveva guidare la Germania attraverso quello sviluppo capitalistico a tappe forzate, e che avrebbe richiesto un enorme lavoro di educazione politica, atta a riunificare gli junkers con la classe socialista tedesca. Negli scritti di Weber, la democratizzazione, intesa come il livellamento delle condizioni dei cittadini, sarebbe stato tanto inevitabile quanto la burocratizzazione universale. Dato che l’emancipazione della Germania, il suo assumere un ruolo chiave nello scacchiere mondiale sarebbe stato possibile solo quando si sarebbe superato il modello autoritario, sarebbero state necessarie alcune riforme chiave: assumere il suffragio universale, darsi una costituzione sul modello inglese che subordinasse l’esecutivo al legislativo, dove il cancelliere potesse partecipare come membro alle sedute parlamentari. Weber critica uno dei difetti principali della Germania, ossia la sua incapacità di fare politica, intesa come azione rischiosa, sostituendola con la capacità tecno amministrativa, che però ha solo funzione organizzativa, dunque produceva staganzione. Weber ritiene, nei suoi saggi “economia e società”, che esistano tre tipi puri di legittimazione: quella tradizionale, quella razionale, e quella carismatica. E’ la seconda, quella razionale legale, che si afferma come prevalente nella concreta logica dello stato moderno. Ma proprio i suoi caratteri impersonali favoriscono la burocraticizzazione. Diviene così necessario per Weber che si possa dispiegare il politeismo dei valori presente nella società, ricavando dal conflitto, inestimabili spinte vitalistiche. Il nichilismo contemporaneo gli pare non superabile, ma governabile solo la commistione di pathos rivoluzionario, competenza razionale, potere carismatico e disincantata responsabilità verso lo stato. Le IdeologieEsse sono state nel corso degli ultimi anni dell’800 il fondamento della lotta politica e dell’azione. Sono apparati di pensiero, più o meno sistemici, con valenza agratoria mobilizzante, oppure dogmaticament e stabilizzante. Gli elitistiI primi a cogliere il valore fondante dell’ideologia sono i teorici dell’élite, i cosiddetti elitisti, secondo cui, in qualunque sintesi politica, a prescindere dal regime ci sia sempre solo una piccola frazione che detenga effettivamente il potere. Verso la fine dell’800 questo pensiero ha preteso di essere scientifico. MoscaSecondo Mosca ogni aggregato politico è retto dalla sua classe politica. Cadono così le classificazioni aristoteliche di democrazia, monarchia e aristocrazia. Queste altro non sono che la facciata legale dei regimi, quando tutti in realtà sono retti allo stesso modo. Tutti i governi – dice – altro non sono che una minoranza omogenea e solidale che si impone su una maggioranza divisa e frammentata. Mosca evidenzia una regolarità storica: la storia dell’umanità è uno scontro tra due opposte tendenze, quella democratica e quella aristocratica. In quella democratica la classe politica esistente viene innovata sulla base di una cooptazione di individui collocati originariamente ai gradi inferiori, in quella aristocratica diventa uno scontro vero e proprio tra chi detiene il potere e chi ne viene escluso. E’ sempre necessario che i governanti giustifichino il proprio potere attraverso una dimensione del consenso, in modo tale che, con una formula del consenso, le convinzioni presenti nella società, preservino il potere ai vertici. Pareto Anch’egli elitista, Pareto dopo aver notato le disuguaglianze vuole studiarle in modo scientifico. Per Pareto esiste una classe eletta che si distingue in classe di governo e classe non di governo. Ai livelli sociali più bassi stanno i governati che solitamente sono la parte più bassa della piramide. La stabilità o la decadenza di una sintesi dipende da come circolano le elite al suo interno. Per comprendere come sono composte le élite, Pareto utilizza una propria teoria, cioè quella dei residui, intesi come parti costanti dell’azione politica. Suddividendoli in classi: di classe I (quelli indicativi della propensione al cambiamento) e di classe II (indicativi della propensione alla conservazione). Le classi più votate ai residui di prima classe saranno aperte, le altre, autoritarie e tradizionalistiche. Tuttavia, come per Mosca, il reggimento politico nella forma è meno importante che nella sostanza che è sempre la stessa. Ciò nonostante, il governante per legittimare il proprio potere deve servirsi di derivazioni, cioè quelle varianti delle azioni che servono a spiegare. Le derivazioni hanno dunque funzione ideologica. La stabilità è data quando una società riesce a garantire continuo rinnovamento della sua classe eletta, se c’è cristallizzazione, il sistema crolla. MichelsMichels aggiunge un ulteriore elemento alla teoria, ossia la dimostrazione che anche nei partiti di massa, ossia su organizzazioni umane a base volontaria fondate sull’uguaglianza formale degli associati, come i partiti socialisti, esista un élite di potere. Difatti, le esigenze tecnico organizzative, le competenze di un piccolo gruppo di individui finiscono con il sottomettere i membri un partito, anche quelli di ispirazione democratica, poiché la leadership organizzata assume il comando. La legge dell’oligarchia finisce a sottomettere non solo i partiti, ma vale anche per lo stato, e tutta la sua organizzazione. Sviluppi dell’elitismoL’elitismo italiano, da capostipite, forni sbocchi teorici per tanti altri esponenti. Uno è Josè Ortega y Gasset, il quale riprendendo la dicotomia governati/governanti, afferma che ogni società consiste in un sistema gerarchico di funzioni, da cui deriva la gerarchia di potere che divide la società in dominati e dominanti. Anche Lasswell si ispira a Pareto, affermando che i pochi che ottengono la maggiorparte dei valori è un élite, gli altri sono la massa. Tuttavia, a differenza di Pareto, non tutti i membri dell’élite godono del medesimo peso politico. Ciò gli permette di istituire criteri per classificare le élite. Burnham rispetto all’elitismo classico aggiungeva la tesi che la società andava verso un’organizzazione tecno-burocratica e che le élite sarebbero state formate da manager. Joseph Schumpeter riprende le tesi degli elitisti per difendere una concezione puramente procedurale della democrazia. Anticipato da Mosca, il concetto a cui si rifà Schumpeter è che la democrazia è solo un metodo di scelta della classe politica. Egli definisce più precisamente la democrazia come “quell’accorgimento istituzionale per arrivare a decisioni politiche nel quale alcune persone acquistano il potere mediante una lotta competitiva per il voto popolare”. Non esiste dunque a suo avviso nessuna volontà generale, quindi nemmeno la possibilità di pensare il popolo come supremo depositario della volontà politica. Il Marxismo: 1900 – 1920Crolla in questo periodo il concetto secondo cui la rivoluzione si realizzi automaticamente dopo un processo di saturazione del sistema capitalistico, essa assume piuttosto il significato di un’azione politica volontaria intrapresa coscientemente dalla classe operaia. LuxemburgRosa Luxemburg ribadisce che le contraddizioni del capitalismo sono inevitabili e non riformabili. Dall’analisi dell’imperialismo ricava sostanziali punti di contatto con Lenin, difatti entrambi ritengono che la nuova fase dello sviluppo capitalistico, l’imperialismo, tenda ad incrementare, piuttosto che diminuire il carattere intimamente contraddittorio del capitalismo e quindi a richiedere l’intervento attivo della soggettività politica proletaria. SorelPure Sorel prende atto che la rivoluzione debba essere condotta volontariamente, tuttavia la sua riflessione si rivolge al sindacato, non al partito. Per Sorel le contraddizioni presenti nella società rilevate da Marx non sono superabili dialetticamente, ma possono soltanto essere spezzate. All’ideologia giuridica dello Stato borghese e al socialismo inteso nel suo senso pedagogico, Sorel oppone la moralità dellia violenza, che si esprime nel “mito” dello sciopero generale. Il mito è per Sorel, l’insieme delle immagini capaci di evocare in blocco e attraverso la sola intuizione, prima di ogni analisi riflessa, i sentimenti necessari all’azione. Secondo lui i sentimenti di solidarietà sociale possono convertirsi nell’immediatezza nello scipero generale, atto rivoluzionario dedito a produrre una società libera. L’agire rivoluzionario dei sindacalisti costringe ad aprirsi allo scontro decisivo con il proletariato, aprendo la via verso una società dove i produttori si amministrano da sé. LeninLa corrente Marxista russa era divisa in due blocchi: i menscevichi, che credendo che la Russia non fosse ancora al livello di paese capitalisticamente avanzato, supponevano che bisognasse attendere il suo sviluppo prima della rivoluzione, e i bolscevichi, i quali credevano che invece il potere andasse preso nell’immediatezza, attraverso un potere dittatoriale. Lenin è di quest’ultima corrente, e ritiene che la politica proletaria debba far scomparire le istituzioni, sostituendola con la partecipazione delle masse mediante i consigli (i soviet). Per valorizzare questa immediatezza è tuttavia necessario passare per un momento di mediazione politica, cioè attraverso il partito. A differenza della teoria ortodossa Di Marx ed Engels, la quale sosteneva che il proletariato fosse il motore della rivoluzione mentre i comunisti avrebbero svolto funzione di complemento avanzato, Lenin riteneva invece centrale il partito comunista, il quale era a suo avviso l’unico motore rivoluzionario possibile, poiché le masse vanno pedagogicamente educate al comunismo, dunque nella fase iniziale (ma poi diventerà sempre), varrà la concezione del primato della decisione su quello della mediazione. Proponendo una dittatura formale del proletariato, costruiranno un regime di dittatura del partito. Questo passaggio al Marxismo sovietico, pensato in teoria da Lenin, e realizzato nella prassi, non dipende solo dalla specialità della Russia, ma è anche frutto di quella concezione strumentale dello stato occidentale occidentale che aveva portato Marx a considerare la repubblica democratica come l’ultima forma politica della società borghese. Lenin utilizzerà l’apologia della Comune (parigina) per giustificare i soviet quale espressione di una democrazia rivoluzionaria e proletaria. I soviet (tutto molto nella teoria, poco nella pratica) trasferiscono la democrazia direttamente nei luoghi di produzione. Alla fine del 1920, a seguito della rivoluzione, solo quando la dittatura del partito avrà preso consistenza, Lenin riconoscerà l’impossibilità di una dittatura “democratica” e dell’istituto della democrazia diretta. L’USSR diventa così una dittatura politica del partito, divenendo normale pratica despotica. Il NazionalismoTra la fine dell’800 e i primi del ‘900, la dissoluzione della razionalità politica liberaldemocratica e parlamentare, non solo comporta la diffusione di proposte rivoluzionarie, ma anche lo scatenamento di impulsi irrazionalistici, antiborghesi ed antiliberali. In Italia e Germania, dove la società civile è debole e le istituzioni politiche sono fragili, prenderanno piede queste componenti, dovute alla potenti contraddizioni che percorrono il corpo sociale. Il nazionalismo porta con se, più o meno latentemente, una progressiva ideologia reazionaria che divide le nazioni in “razze”. Per questa corrente la verità non è oggettiva, ma risultato dell’azione politica, dunque anch’essi credono nel ruolo fondamentale che riveste il mito. Lo stato nazionalistico tende a produrre una concezione lealista per i cittadini, distruggendo i conflitti della dialettica democratica, diventando quasi una sorta di religione secolarizzata. La GermaniaIl tardo e difficile rapporto con lo stato moderno, è senza dubbio la causa che ha reso il concetto di popolo, oltre che dal romanticismo, così importante. Si cercava attraverso questo concetto di offrire una ricerca di identità più stabile e solida di quella offerta dalle forme politiche, un’identità naturale e storica, svincolata da costrutti teorici. Il popolo – nazione si esprime in sintesi di un radicamento, oltre che di un cammino verso il destino, di un diritto di sangue e cultura, di un destino, ed infine di un dovere: realizzare l’unità politica del popolo tedesco, decontaminandolo dalla cultura occidentale, cercando così di esprimere la propria specificità nazionale rispetto a Francia e Inghilterra, nonché vitalità naturale. Nella sua evoluzione, il nazionalismo tedesco assume carattere sempre più antisocialista ed antiborghese, per finire nel suo apice ad essere antimoderno. SpenglerSpengler utilizza il nazionalismo come strumento di critica rispetto alla modernità. La politica viene ricondotta ad un paradigma di tipo vitalistico, dove le civiltà sono organismi viventi, e quindi, più che di storia, si deve parlare di morfologia. La forma fondamentale della storia universale viene dunque individuata nella cultura (Kultur), civiltà in senso metafisico e ontologico. Ogni cultura nasce a partire dalla umanità primitiva e attraversa varie fasi. La fase finale di una cultura, quando essa si esaurisce, si chiama Zivilisation, cioè la civiltà in senso esteriore e razionalistico. Il mondo della Zivilization è un mondo in decadenza, dominato dalla ragione utlitaristica, dall’irrigidimento inteelettualistico dovuto al perseguimento dello spirito di esattezza. Dunque tra Kultur e Zivilization si sviluppa una fortissima contrapposizione. Spengler poi fa la diagnosi della cultura occidentale, secondo cui essa vive un’epoca di rovesciamento dei valori, sancito da Nietzche, dove in ogni campo, si nota il sovvertimento della tradizione. Proprio il socialismo è per Spengler l’emblema di questo rovesciamento, infatti pone la politica subordinata all’economia, quando dovrebbe essere l’opposto. Il pensiero di Spengler fu un punto di riferimento per la rivoluzione conservatrice. La FranciaIl nazionalismo francese si apriva ad i valori nazionalistici della rivoluzione, opponendosi fieramente alle sue derive universalistiche. Maurice Barres si faceva portavoce della critica al razionalismo, e alfiere del culto della vitalità. Barres suppone sia possibile una convergenza tra capitalismo e socialismo, sostituendo la lotta di classe con il valore della solidarietà sociale nazionale. Sul piano politico avversa il centralismo statuale opponendo una forma federale repubblicana democratica, basata sulla proprietà collettiva, trasformano i lavoratori in soci dell’azienda produttrice. Mentre Barres non è pregiudizialmente ostile alla rivoluzione, Maurras invece la riteneva un evento catastrofico. Teorizza una forma di nazionalismo positivista basato sulla scienza e sulla storia, attribuendo alla contro i nuovi Leviatani tecnici. L’essere da una parte ha il volto del nichilismo tecnico, dell’organizzazione, dall’altra è la sostanza originaria, ossia l’organismo. HeideggerPer lui il nichilismo della tecnica è incurabile, perché è la manifestazione della volontà di potenza che contraddistingue l’occidente. Questa consiste nel rapporto impositivo del soggetto sull’oggetto: la civiltà occidentale ha verso l’Essere un atteggiamento strumentale. La tecnica disvela la precisione del moderno e l’utilizzabilità degli oggetti da parte dell’uomo, ed è dunque imposizione. La salvezza può venire solo da un evento non umano, da un Dio che si manifesta nel mondo consumato della tecnica. Critica la ragione umana, superata non nell’abbandono all’Essere, ma alla decisione e al rischio. Il nesso fra essere e conflitto è dunque un destino per cui ci si deve decidere. SchmittCritica sia il liberalismo che il pensiero giuridico. Esalta invece il cattolicesimo dato che è razionale, poiché grazie al suo rapporto con la trascendenza riesce a realizzare la propria autorità. L’origine dell’ordine politico è nell’assenza di ordine razionale, ossia nell’eccezione. Parla di dittatura sovrana, come decisione di un’autorità concreta e personale di creare un ordinamento razionale dal disordine. La politica è dunque un atto creativo che fa nascere ordine dal nulla. L’atto creativo è appunto la decisione, che si deve confrontare con l’eccezione, l’assenza di sostanza, il nichilismo. Il concetto di stato presuppone quello di politico, che consiste nel riconoscere e nel distinguere l’amico/nemico, ed è all’origine della politica, e non suo sinonimo: la politica è sempre polemica. La guerra è fondamentale nei rapporti internazionali, ed è una funzione della politica. In politica interna il politico è la guerra civile, per cui bisogna esercitare una vigilanza rivolta ad escludere il potenziale nemico interno, pur non riuscendo a neutralizzare mai completamente il politico. Più che di stato Schmitt parla di “costituzione”, come entità politica concreta di un popolo, perciò prima delle norme viene ed esiste un soggetto politico dotato di volontà. A questo proposito la costituzione di Weimar è un compromesso tra il principio di rappresentanza liberale e di presenza democratico. Lo stato sociale che ne consegue però è uno stato totale per debolezza, a cui lui contrappone uno stato totale per energia. Il nazismo invece, è un ordine concreto che sostituisce sia il normativismo che il decisionismo, con l’unità politica di popolo, partito e stato. Elabora negli ultimi anni una teoria dell’Impero come grande spazio, inteso come superamento del diritto internazionale. La storia politica è fatta da contrapposizione tra potenze terrestri e potenze marittime. Il nomos, il diritto è l’unità di ordinamento e di localizzazione: l’origine del diritto è dunque il modo con cui l’ordinamento si rapporta con il territorio. Lo Jus publicum europaeum nasce in seguito alla pace di Westfalia. L’ordine dello spazio mondiale si sviluppa tra terra e mare. La guerra marittima è illimitata, privo di determinazione spaziale, quindi aggressivo, e per cui la guerra diventa un atto di sovranità e non un crimine, facendo passare atti di ostilità assoluta per atti di polizia, che disunisce e disorienta il mondo. Nella “teoria del partigiano” evidenzia un combattente irregolare e tellurico. KelsenSostiene il primato del diritto e dice che lo stato è un ordinamento giuridico che ha raggiunto un alto grado di centralizzazione, che non si divide con il dualismo stato-diritto, ma è visto in un sistema monistico. Il primato del diritto internazionale prevale sulle norme inferiori, così come avviene per la costituzione, prioritaria. Il terzo primato è quello della democrazia parlamentare. Mira alla pace internazionale.ù Le critiche filosofiche alla modernità StraussSi pone due questioni: qual è il rapporto tra filosofia e rivelazione religiosa della legge? E tra queste e la politica? Secondo lui il paradigma della filosofia occidentale sta in Socrate, che incarna la tensione tra filosofia e politica, che secondo Strauss possono essere in un equilibrio che chiama “diritto naturale antico”. La filosofia politica moderna pretende di essere una scienza. Per lui Machiavelli dimostra che la morale è interna alla città ed è una funzione della politica. Su Hobbes dice che sostituisce il diritto naturale oggettivo classico a quello soggettivo moderno, che individua la natura nella stessa vita dell’uomo. La filosofia politica moderna conosce una rapida decadenza, il cui ultimo tratto è il nichilismo. Critica il liberalismo moderno proponendo un ritorno a quello antico. VoegelinParla di “religioni politiche” come il nazismo, che non distinguono tra politica e religione. Gli ordini politici si manifestano attraverso i simboli. La rappresentanza di sé che un ordine elabora può essere: -elementare – esistenziale –della Verità- trascendentale. Al contrario le civiltà orientali si presentano come espressione politica di un ordine cosmico divino. Il nesso tra politica e trascendenza è il soggetto, dotato di un’anima che elabora la noesi, ossia il sapere filosofico della trascendenza. Parla di sacralizzazione della politica, facendo riferimento anche al principio soteriologico (ossia di salvezza) del cristianesimo. La storia è veicolo della verità, e in questa semplificazione stanno tutte le ideologie moderne, che pretendono di realizzare il paradiso in terra. Il nome di questi movimenti nella storia che pretendono i conoscere la verità è, per Voegelin, “gnosi”. ArendtCritica la filosofia politica, contrapponendole la politica intesa come azione collettiva. Nelle “origini del totalitarismo” questo per lei è opposto allo stato, ma in qualche modo ne deriva, al cui interno si producono dinamiche di esclusione, come l’antisemitismo. Parla poi dell’imperialismo come frutto dei pan movimenti (pangermanismo, slavismo etc) e sostiene che i ceti mediobassi cercano appartenenze nei legami di sangue col territorio. Il totalitarismo è poi provocato dalla massificazione della società: le masse si organizzano tramite la propaganda. Deve mobilitare e distruggere le stesse istituzioni e il nemico interno attraverso il terrore e la violenza. E’ dunque un regime nichilistico, costretto all’instabilità permanente. L’ideologia è l’energia che applicata alla realtà politica ne distrugge la concretezza. Nella “Vita activa” distingue tre funzioni: lavorare, operare e agire. Accanto a questa c’è la vita contemplativa. L’età moderna è caratterizzata dall’alienazione del soggetto dal mondo, e parallelamente dal formarsi di una sfera sociale, dato che il lavoro ha a che fare con la necessità. La massificazione è data dall’ossessione di unità che si manifesta nello stato e nella rappresentanza politica, dunque nella necessità. La politica americana è una libertà plurale e accoglie al suo interno anche la disobbedienza civile. Riscopre la categoria kantiana di giudizio: il criterio guida della politica dev’essere la deliberazione responsabile. La FranciaSimone Weil critica il potere, dicendo che bisogna riconoscere un obbligo morale verso i bisogni dell’essere umano, tra cui c’è il radicamento, ovvero un rapporto pieno con la storia e l’ambiente. Bene e politica sono antitetici e gli uomini devono ritirarsi riconoscendo i propri limiti in un patire comune. Per Georges Bataille l’età moderna è imperniata sul concetto di utilità. Il negativo è un fenomeno di trasgressione ed eccesso individuale, uno spossessamento del soggetto. La sovranità è invece un azione inutile di un soggetto libero perché si rifiuta di costruire qualsiasi tipo di ordine. Capitolo 14: Il secondo dopoguerra Il problema politico del secondo dopoguerra è lo stato sociale, cioè il rapporto tra i cittadini e solo stato, teorizzato da Marshall. Proprio nella qualificazione sociale dello stato, e nell’universalità delle prestazioni che eroga ai cittadini, supportandoli, molti autori hanno ravvisato la figura riassuntiva di una cittadinanza fattasi pienamente democratica. Lo stato socialeIl concetto di stato sociale fu accolto dalle costituzioni programmatiche postbelliche, in quanto lunghe, si prefiggevano di realizzare quei presupposti di socialità già all’interno della legge fondamentale dello stato, così che resero la qualificazione di “sociale” come vero baricentro della legittimazione del potere politico, era l’agire pubblico in favore dei cittadini che lo legittimava ad esistere. Cittadinanza e stato socialeThomas Marshall, sociologo, analizzò la condizione dello stato sociale in occidente. Essendo le potenze occidentali vittoriose sul nazismo, e prossime a conoscere una grandiosa espansione economica, si ponevano le basi per un futuro radioso, tale per cui la politica tendeva ad accrescere sempre di più i diritti sociali dei cittadini, favorendone il loro sviluppo. Il concetto di cittadinanza non è più solo giuridico, ma anche filosofico, identificante una vera uguaglianza umana che va oltre i soliti diritti naturali. La cittadinanza aveva per Marshall tre dimensioni, una sociale, una civile e una politica, e i primi si presentano come risultato qualitativo della nuova modernità, risultato della questione sociale sviluppatasi nell’800. La società immaginata da Marshall non è una società senza classi, ma una società dominata dalla giustizia sociale, dove le classi non si fanno la guerra, ma cooperano per il bene di tutti. La fabbrica è il luogo dove nasce la cooperazione sociale. Secondo Dahrendord nella società, a prescindere dalla maggiore integrazione, continuavano ad esistere logiche di coercizione presenti nelle vecchie dicotomie, poiché le associazioni erano rette da leggi imperative. Dopo un serrato confronto con Marx, sosteneva che la sua teoria era insufficiente per delimitare la società a lui contemporanea, che a suo avviso era postcapitalistica: in primo luogo perché era avvenuta l’istituzionalizzazione del conflitto di classe teorizzato da i teorici dell’integrazione tra le classi, i quali lo avevano riconosciuto, elaborando forme di mediazione tra capitale e lavoro (come la contrattazione collettiva), che ne avevano ridotto la violenza, spoliticizzandolo. Così prodotto, il conflitto di classe poteva diventare motore dialettico dello sviluppo, nonché contrassegno delle società libere e non totalitarie. Va ricordato che parte delle basi di questa rivoluzione teorica fu piantata da Keynes, il quale con le sue politiche di azione statale, diede una visione meno netta della pianificazione contrapposta alla pur sempre presente economia di mercato. Le critiche liberali e conservatriciEntrambi gli schieramenti, liberali e socialisti, in occidente nel secondo dopoguerra, accettarono reciprocamente alcune componenti intrinseche e fondamentali del loro manifesto politico. Ci furono dei critici del pensiero “neoliberale”, cioè il pensiero socializzato, che videro in Von Hayek uno dei massimi esponenti, nel suo libro “La via della schiavitù”, ritenendo il Welfare state come una continuità del socialismo da evitare, cioè evitare l’errore delle potenze vincitrici che hanno ceduto al nemico, L’URSS. Hayek tentò più volte di dare sostanza alla critica del miraggio della giustizia sociale, cercando di ripristinare la vecchia idea di liberalismo, dove era presente la sovranità del diritto. Per lui il benessere generalizzato richiamava troppo la pianificazione e non considerava il fatto che il benessere non può sempre essere universale, ma a volte può nascondersi il privilegio. Lo stato avrebbe finito per burocraticizzarsi. La sua corrente fu inquadrata come “Neoconservatorismo”. Un altro conservatore moderno fu Augusto Del Noce. La loro paura si basava sul vedere la società industriale avvicinarsi a quei miti descritti da Tocqueville sulla democrazia moderna, tra cui la spersonalizzazione e il tipo del dispotismo silenzioso dell’opinione pubblica. Riesman si oppose al livellamento eterodiretto dell’uomo da parte dei mass media che produceva conformismo. Un’altra categoria di oppositori fu quella degl’avversari della tecnocrazia, come Freyer, che sul solco di Heidegger, si poneva contro le derive di questa. Secondo Gehlen lo stato si stava decomponendo diventando mucca da mungere per le classi deboli, ed erodendosi per la mancanza di volontà definita, sostituita dalla tecnocrazia. Le critiche di sinistraSeppure il boom economico aveva preso piede in governi moderati, le disuguaglianze rimanevano, portando alla negazione di quell’immagine idilliaca dello stato del ceto medio. Alcune ali intellettuali della sinistra criticarono la perdita della coscienza di classe da parte dei lavoratori, dovuta alle nuove forme di cittadinanza sociale, tutto a vantaggio delle burocrazie statali e di partito. Fu avvertito anche il movimento tellurico provocato dalla repressione della rivolta ungherese da parte dell’URSS, critiche dunque, anche da sinistra verso lo stalinismo. Sartre, favorevole al partito comunista, fu un fautore della critica della reificazione del’inautenticità, a cui l’uomo veniva strappato dallo sguardo dell’altro, tale per cui si manifestava l’esigenza di una morale e di una vita libera per Sé, non in Sé. Sartre tuttavia si manifestava lontano dall’ortodossia comunista, proponendo un’integrazione dell’esistenzialismo all’interno del marxismo. Questo provocò la rottura di Sartre con il PCF a favore di altri gruppi di sinistra rivoluzionaria. Secondo i movimenti operisti italiani esiste un nocciolo di verità nelle ideologie dell’integrazione, poiché l’estensione del rapporto capitalistico di produzione dettava l’esigenza di una programmazione che non può essere formulata senza il coinvolgimento delle organizzazioni del movimento operaio, partiti e sindacati. “Il piano del capitale” è dunque mediazione politica tra liberalismo e socialismo, facendo funzionare produttivamente la forza dinamica della classe operaia. A differenza di Kirchheimer, che vedeva nella politica moderna l’estraniazione totale del lavoro rispetto all’operaio. Alcuni intellettuali, come Bloch, suppongono che già nella società degli anni ’60 esistano i germi di una trasformazione radicale. Questo principio è detto della “principio speranza”, diventando punto di riferimento per il marxismo radicale. C’è da dire che per alcuni intellettuali il Marxismo si identificava con lo stalinismo, vista l’impossibilità di essere realizzato nel tessuto presente. Althusser volle rifondare il materialismo storico marxista, rendendolo ancor più scientifico, come in realtà è il testo marxista, allontanando quella componente epistemiologica che molti avevano ravvisato in lui, ponendo al centro i concetti relazionali, i quali erano la vera rivoluzione teorica del filosofo tedesco, andando a toccare i diversi livelli della pratica umana, la quale veniva vista come una totalità decentrata, priva di univoche leggi di determinazione. La lotta di classe usciva dalla sfera meramente economica per entrare in quella politica e sociale. La geopolitica del dopoguerraLa fine della guerra terminò anche il primato europeo della centralità degli stati, fu la fine di un ciclo, dove altri baricentri, oltre che le nazioni unite (Kelsen), operavano influenza. Nacque un ordine bipolare. Non sono tuttavia mancati autori che hanno sviluppato positivamente il tema europeistico, come Altiero Spinelli, che scrisse il “Manifesto per un’Europa libera e Unita” diventando riferimento per il federalismo europeo. La tesi fu ben esemplificata già nel ’29, quando il ministro degl’esteri francese Briand citò “unirsi o perire”, dando già prova del primo germe di europeismo. Spinelli, Einaudi e Robbins furono fautori dell’Europa federale, che nasceva dalla crisi dello stato Nazionale. Si proiettava in ottica mondiale la sfida tra Capitalismo e Socialismo, e gli stati europei singolarmente, dalla fine della guerra, ma già da prima per alcune avvisaglie, percepivano di aver perso quell’importanza che era nata dalla pace di Vestfalia. Il pensiero politico ed il suo sviluppo cominciarono ad avere negli stati Uniti i loro fondamenti e baricentro, sostenendo una continuità totalitaria tra il nazismo e il comunismo, sostenendo con asprezza la posizione salvifica degli stati uniti. Raymond Aron, grande oppositore di Sartre, filoatlantico, criticò profondamente che si avvicinò al comunismo, sostenendo che il marxismo era una secolarizzazione dell’escatologia Giudaico Cristiana che altro non poteva fare che sostenere i totalitarismi. La soluzione era il modello pluralistico costituzionale degli stai uniti, sostenendo un’etica della saggezza, della moderazione e della prudenza, criticando sia l’idealismo di chi astraeva i motivi di ostilità tra i due blocchi, sia chi riteneva possibile la soluzione solo con la prevalenza di uno dei due. La tesi che lui sosteneva era una stabilità dettata dalla deterrenza nucleare. Dall’altra parte il proliferare delle armi terrorizzava altri intellettuali, come Anders, il quale enfatizza la contrapposizione tra le vecchie credenze e potenze assolute, come Dio e la creazione dal nulla, e il pericolo della nuova potenza nucleare, e la riduzione a nulla che essa è portatrice potenziale. Nacquero così negl’anni settanta e ottanta partiti pacifisti e antinucleari. Molti analisti ravvisarono nella pace creatasi dalla deterrenza che alcuni elementi si stessero mischiando, come la programmaticità capitalistica, e l’iniziativa libera socialista, tale per cui, unendosi alla chiesa del concilio Vaticano II, auspicavano una nuova era pacifica. Crisi e critica dello Stato socialeGli anni ’60 tuttavia furono non proprio pacifici. Innanzi tutto il terzo mondo, a differenza del Primo e del Secondo, non si stava allineando alla via politica e sociale, ma anche valoriale, dunque stava diventando sorgente di infinite tensioni. A questo si aggiunse il processo di decolonizzazione, inasprendo le problematiche. La situazione era grave anche per la differenza valoriale che le terre dominate cominciavano a mostrare verso quelle dominatrici. La controversia si acuì quando nelle terre dominate secondo la missione civilizzatrice cominciarono a diffondersi ideali come quelli di Rousseau e Montesquieu, provocando focolai rivoluzionari. Uno di questi fu Fanon, che leggendo i testi principali della filosofia occidentale, divenne esponente di