Scarica Riassunto manuale Geraci Marcone di storia romana e più Sintesi del corso in PDF di Storia Romana solo su Docsity! L’Italia preromana Età del Bronzo: Tra l’età del bronzo medio e la prima del ferro si passa da situazioni caratterizzate da miriadi di gruppi umani di piccole dimensioni al sorgere di forme complesse di organizzazione protostatale. Questo sviluppo ha conosciuto una cesura importante tra l’ultima età del bronzo (1200-900 a.C.) e la prima età del ferro (secoli IX-VIII a.C.). L’Italia del Bronzo si contraddistingue per la sua uniformità, i siti sono ovunque specie lungo la dorsale montuosa. Questa cultura è stata definita appenninica. Un altro fenomeno importante è lo sviluppo demografico, gli insediamenti si riducono mentre quelli che sopravvivono si estendono, quindi sfruttando più intensamente le risorse disponibili. Terramare: cultura che diede vita ad insediamenti di capanne che poggiavano su impalcature di legno con lo scopo di creare una difesa naturale dagli attacchi da animali selvatici. Per terramare si intendono i grossi tumuli di terra grassa e scura formati dai depositi dei primitivi insediamenti. Tali villaggi avevano forma trapezoidale, erano circondati da un argine e attraversati da due vie perpendicolari tra loro. Questa cultura si sviluppò nella pianura emiliana a sud del Po tra il XVIII secolo e il XII. Durante l’età del bronzo recente è documentata un’intensa circolazione di prodotti e persone. I rinvenimenti di merci dall’area micenea sono attestati ovunque nelle coste dell’Italia Meridionale e nelle isole. Tuttavia non si può parlare di commercio o colonizzazione ma questi contatti favorirono il formarsi tra gli indigeni di aggregazioni più consistenti. Età del ferro: l’Italia presenta un quadro diversificato di culture locali. Un primo criterio di diversificazione è individuato nelle sepolture. Ci sono 2 gruppi che popoli che praticano la sepoltura: uno la cremazione (area settentrionale e costa tirrenica fino alla Campania) e l’altro l’inumazione. La cultura di Golasecca (compresa tra i laghi del Piemonte e della Lombardia) La cultura di Este (a Padova). In Etruria ed Emilia si diffonde la cultura Villanoviana. Numerosi siti villanoviani si trasformeranno nelle città-stato etrusche. Questa cultura prende il nome da una necropoli rinvenuta a Villanova nei pressi di Bologna, presenta elementi comuni con la cultura di Hallstatt (Salisburgo). Gli uomini villanoviani fabbricavano utensili in ferro e anche armi e abitavano in villaggi. Le loro sepolture erano urne destinate al raccoglimento delle ceneri e in tombe a pozzo. L’area di irradiazione della cultura va dall’Appennino settentrionale alla Campania settentrionale. La diversità delle culture presenti in Italia all’inizio del primo millennio a.C. ha riscontro in un quadro linguistico variegato. Queste lingue si riconducono a due famiglie: indoeuropee (ceppo comune di origine) e non indoeuropee. Indoeuropee sono il latino e il falisco (Lazio Settentrionale). Dentro ad un gruppo designato come parlante una lingua italica si distinguono 3 sottogruppi: Uno umbro-sabino nel Centro-Nord, comprendente la Sabina (area reatina), l’Umbria e il Piceno Uno osco nel centro-sud comprendente Sanniti, Lucani e Brettii Un terzo riferibile agli Enotri e ai Siculi. Indoeuropei sono anche il celtico (pianura padana) e il messapico (Puglia meridionale). Non indoeuropee sono l’etrusco, il ligure, il retico (alta valle dell’Adige) e il sardo. Un posto di rilievo tra le culture protostoriche è rivestito dalle colonie della Magna Grecia a partire dall’VIII secolo a.C. sorsero una serie di città importanti che esercitarono un’influenza importante sui centri vicini. In Sicilia svolsero un ruolo importante anche città Fenicie come Mozia, Palermo e Solunto. Un posto a parte è il caso dei Sardi, che si sviluppò tra l’età del Bronzo e quella del ferro. Tale civiltà è nota come nuragica, dal nuraghe ossia una torre a forma di tronco di cono. Probabilmente tali costruzioni avevano funzione difensiva anche se svolsero col tempo anche un ruolo più complesso di organizzazione e di controllo sulle attività economiche del territorio circostante. La civiltà nuragica fu influenzata dagli insediamenti fenici lungo la costa (Tharros, Sulcis, Nora ecc.) Prime forme di differenziazione: ad essere attratta nell’orbita del Mediterraneo occidentale fu la Sicilia. Si sono trovate tracce di centri commerciali a Nord di Siracusa e alla fine dell’età del Bronzo sorsero piccoli regni simili agli stati della Grecia Micenea. A propiziare l’interesse per insediamenti in Italia fu lo sfruttamento delle risorse come le miniere di rame in Sardegna sfruttate dai fenici. È con la tarda età del bronzo medio, quando si sviluppano comunità demograficamente più consistenti, che si delinea un’integrazione delle attività economiche pur senza centralizzazioni di potere politico. È l’epoca in cui si delinea una differenziazione tra Italia settentrionale e medio- adriatica da una parte e Italia medio-tirrenica e meridionale dall’altra. Nell’età del bronzo mentre la cultura terramare si sta sviluppando più a meridione abbiamo scarsa documentazione di forme insediative e le modalità di sepoltura appaiono anonime. La ceramica micenea sembra aver raggiunto l’Italia centrale tra il XIII e il XII secolo. È poco prima del 1000 che si segnalano le urne per la cremazione dei cadaveri. Queste sepolture, caratterizzate da nuovi stili di ceramica e di decorazione e nuovi tipi di bronzi sono collegate alla cultura previllanoviana. Il Lazio: non è più possibile far iniziare l’archeologia di Roma con l’età del Bronzo. Il Lazio risulta abitato già in età paleolitica e a Roma vi era un insediamento già nel II millennio. Il Campidoglio era già abitato come testimoniato da cocci dell’età del bronzo ritrovati nell’area sacra di Sant’Omobono. Altro materiale del 1000 a.C. è stato ritrovato nel Foro. Giacomo Boni ha ritrovato il cimitero dell’età del Ferro nel Foro. Le prime tracce della Roma dell’età del Ferro, le tombe di cremazione del Foro, appartengono alla cultura rintracciabile sui colli Albani e nel Lazio centro-meridionale. Oggetti miniaturizzati vengono inseriti nella tomba L’aruspicina era l’esame delle viscere degli animali sacrificati per scopi religiosi. Il fegato di Piacenza è uno strumento o modello didattico in bronzo Romani ed etruschi: i romani erano consapevoli di quanto la loro vita sociale e le loro istituzioni dipendessero dagli etruschi. Gli insignia imperii erano considerati di derivazione etrusca, così come il trionfo celebrato a cavallo e lo scranno su cui si sedevano i consoli appaiono etruschi. I 12 littori potrebbero essere le città della lega etrusca. Erano debitori anche per la religione, considerata dagli etruschi una scienza, che si insegnava e si trasmetteva. Per Cicerone questi libri si distinguevano in 3 categorie: 1. L’interpretazione delle manifestazioni delle folgori 2. L’interpretazione delle interiora 3. Quelli che prendevano in considerazione il destino, l’aldilà e i prodigi I romani fecero ricorso agli aruspici etruschi, l’intera vita politica e religiosa romana era segnata dagli aruspicia, cioè l’osservazione degli uccelli Il problema della lingua: i testi etruschi possono essere letti con facilità perché l’alfabeto è un riadattamento di quello greco. La difficoltà di comprensione deriva dal fatto che l’etrusco non è indoeuropeo e i testi giuntici sono molto brevi. Mancano testi bilingui ampi. L’etrusco è un esempio di isolamento linguistico. La questione delle origini: il dibattito è stato recentemente riaperto. L’isola greca di Lemno ci ha fornito un’iscrizione su una stele oltre che diverse epigrafi frammentarie del VI secolo imparentate con l’etrusco. Una possibilità è che questi parlanti etrusco fossero indigeni dell’Italia emigrati in Oriente. Vi è una rottura che si produce nelle primitive culture italiche attorno al XII secolo che si colloca tra la civiltà appenninica. La componente orientale degli etruschi non la spieghi senza apporti esterni. Nel fare gli Etruschi autoctoni Dionigi li privava di una nobile ascendenza una migrazione orientale, databile a prima del X secolo non si può escludere. L’età villanoviana mostra una permeabilità aperta a influenze culturali multiple. È da respingere l’idea che gli etruschi siano emigrati in Italia in un’epoca risalente ma è difficile negare anche apporti di civiltà esterne. Una conclusione potrebbe essere che la civiltà etrusca si sia formata alla fine dell’età del ferro sotto l’effetto di influenze esterne orientali. Gli etruschi sembrano essere gli eredi dei villanoviani. Verso il 900 le società villanoviane conoscono un’accelerazione nel processo di differenziazione sociale e di formazione di grossi centri che daranno vita alle città etrusche. L’arredo funebre si fa abbondante e lussuoso. I coloni greci dell’Eubea frequentano le coste etrusche. La base della fortuna etrusca risiede nell’agricoltura e nella ricchezza mineraria della Toscana. In Etruria tra Arno e Tevere si ha produzione di grano, vino e olio. Lo sfruttamento delle risorse minerarie fa degli etruschi la principale potenza italica. Predominio etrusco sull’Italia: gli antichi volevano che il fondatore della lega delle 12 città fosse Tirreno. Tutte le città etrusche avevano il loro eroe fondatore. Nei primi secoli di potenza etrusca sono le città più vicine a Roma come Veio, Cerveteri e Tarquinia ad avere un ruolo di rilievo nella lega. Le città etrusche erano rette dai Lucumoni, figure simili a re. L’organizzazione monarchica sembra essersi evoluta verso sistemi organizzativi con dei magistrati detti zilath. Secondo gli antichi esisteva una dodecapoli padana con alla testa Felsina (Bologna), una campana con alla guida Capua. Quella campana fu travolta dai Sanniti, quella padana dai Galli. Tarquinia trasse profitto dalla sua posizione di raccordo tra i centri metallurgici a nord e i monti della Tolfa. Era in concorrenza con Cere. Verso il VII sec. un emporio è creato a Gravisca, sulla costa, e rappresentò un porto di primaria importanza per le città etrusche meridionali. Le città di Vulci e Cere esportavano le loro anfore di vino mentre i tarquinesi sembravano specializzati nei vasi ad imitazione corinzia. L’emporio a Gravisca era in competizione con quello di Pyrgi, creato da Cere anch’esso sulla costa e frequentato dai Cartaginesi. Nel VII secolo Tarquinia diventa uno dei centri artigianali del Mediterraneo Tecnica e arte: i siti delle città hanno lasciato tracce modeste. Le necropoli sono tra le più estese del mondo antico, organizzate come abitazioni sotterranee. Nell’VIII secolo alle tombe a pozzo si sostituirono quelle a fossa destinate all’inumazione dei cadaveri. Le più antiche sepolture a camera avevano una struttura architettonica complessa. È notevole il grado di complessità nella copertura a volta e dell’arco. Nel periodo più tardo (ellenistico) le concezioni di tomba sono due: quella che riproduce la casa signorile e quella che privilegia l’aspetto esterno del sepolcro. Anche le manifestazioni più significative dell’arte etrusca sono collegate all’edilizia sepolcrale. Gli affreschi che decorano le tombe riproducono scene di vita quotidiana, legate a soggetti cerimoniali, conviviali e sportivi. Nella fase tarda dominano le scene dell’aldilà, con raffigurazioni di divinità ed eroi. Tra le tecniche più diffuse di produzione ceramica, tipica è quella del vasellame di bucchero, ottenuto tramite una particolare cottura dell’argilla Per le attività economiche gli etruschi praticarono con successo l’agricoltura, la metallurgia e l’artigianato artistico. Gli oggetti in bronzo e dell’oreficeria, insieme ai cereali e alle anfore vinarie, raggiunsero ampie aree del Mediterraneo attraverso il commercio. Furono abili e organizzati anche nell’estrazione dei minerali (ferro e rame) dalle colline metallifere costiere o dal sottosuolo dell’Elba. La lavorazione dell’oro e dei metalli nobili, mirata a produrre oggetti per l’ornamentazione personale è testimoniata dalla ricchezza dei corredi funebri con reperti d’oro e argento Roma la ricostruzione della storia di Roma arcaica richiede fonti di natura diversa a cominciare da quella archeologica. Le testimonianze letterarie sono il primo blocco di informazioni che ci servono ed offrono un quadro narrativo, una cronologia articolata e informazioni di sostanza anche se si tratta di opere posteriori in cui vi è intriso l’elemento leggendario. Solo dal IV secolo Roma ha suscitato interesse nella storiografia greca. In greco scrissero i primi scrittori romani, da Fabio Pittore a Cincio Alimento. La prima opera di contenuto storico in latino è il bellum poenicum di Gneo Nevio alla fine del III secolo, seguita dagli annales di Quinto Ennio. La versione canonica delle origini di Roma, di cui Livio, Virgilio e Dionigi di Alicarnasso sono gli interpreti, risale all’età augustea. Gli storici di cui possiamo leggere le narrazioni su Roma arcaica vissero tra la fine del I secolo e l’inizio del I secolo. Tito Livio di Padova scrisse una storia di Roma dalla sua fondazione, in 142 libri. Lo stesso Livio si rendeva conto della fragilità della sua documentazione almeno fino all’incendio del 390 ad opera dei Galli. Anche Dionigi di Alicarnasso è attivo in età augustea. La sua storia di Roma Arcaica, in 20 libri, va dalla fondazione di Roma alla prima guerra punica. Il suo scopo era dimostrare che i romani avevano origine ellenica. Il primo storico a collegare Enea alle origini di Roma risulta essere Ellanico di Lesbo (V secolo) che dette basi elleniche alla mitografia troiana. Già nel secolo successivo si dette maggiore rilievo a Romolo. La fondazione romulea risulta separata da Enea da tredici generazioni che corrispondono alla dinastia dei re albani. Fabio Pittore e Diocle di Pepareto sono stati i primi storici a dare una versione compiuta a questa tradizione. La comparsa della scrittura a Roma alla fine del VII secolo non determinò cambiamenti fondamentali sotto il profilo dell’elaborazione di forme di memoria condivisa. La situazione non muta nemmeno per la fase iniziale dell’età repubblicana. L’esistenza di documenti scritti è certa ma bisogna domandarci sulle modalità della loro utilizzazione da parte di chi elaborò la più antica storiografia. La leggenda: la versione più nota delle origini di Roma inserisce i re di Alba Longa tra l’arrivo di Enea nel Lazio e Romolo. Secondo la leggenda Romolo è addirittura figlio di Marte e di Rea Silvia, figlia di Numitore, ultimo re di Alba, illegittimamente privato del trono dal fratello Amulio. Nella tradizione c’era posto anche per il conflitto tra Roma e Cartagine. Il territorio di Alba Longa era dominato dalla vetta del monte Cavo (mons albanus) su cui sorgeva il santuario di Iuppiter Latiaris sede di una delle più famose leghe politico-religiose del Latium Venus, quella dei Populi Albenses. Il sito di Alba non è ancora stato individuato, forse è vicino la cittadina odierna di Castel Gandolfo I sette re di Roma: la tradizione fissa il periodo monarchico della storia di Roma dal 753 al 509 a.C. in questo periodo vi avrebbero regnato 7 re: Romolo, Numa Pompilio, Tullo Ostilio, Anco Marzio, Tarquinio Prisco, Servio Tullio e Tarquinio il Superbo. A Romolo viene attribuita la creazione delle prime istituzioni politiche, tra cui un senato di 100 membri; a Numa gli istituti religiosi; a Tullo Ostilio campagne di conquista (tra cui la distruzione di Alba); ad Anco Marzio la fondazione di Ostia; il regno di Tarquinio segna l’inizio della seconda fase monarchica, gli sono attribuite opere pubbliche; a Servio le prime mura cittadine e l’istituzione dei comizi centuriati (più importante assemblea elettorale romana); Tarquinio il Superbo invece assume i tratti del tiranno. versioni: una greca, che ricollegava la fondazione della città alla leggenda di Enea, e una indigena che vedeva in Romolo il fondatore. Il racconto recepisce anche alcuni elementi sicuramente storici come la compresenza di popoli diversi (Latini e Sabini) e il predominio etrusco nel periodo finale della monarchia. Roma prima di Roma: è difficile immaginare che Roma sia sorta dall’oggi al domani. Alcuni villaggi situati sullo stesso Palatino possono essere considerati il nucleo originario della futura Roma. Per gli antichi la città doveva essere necessariamente fondata perché così avveniva per le colonie. Le città nel mondo antico si fondavano e rifondavano e gli insediamenti cambiavano natura e struttura. Il Palatino in origine era articolato in 3 alture separate tra loro da avvallamenti, già appianati in età imperiale: la vetta principale, il palatium, prospiciente il Circo Massimo; il Germalo, che guarda il Foro e il Campidoglio; la Velia che guarda verso il Colosseo. Roma sorgeva a ridosso del basso corso del Tevere, al confine tra due aree etnicamente differenti: la zona etrusca e il Lazio antico. Nel periodo in cui si colloca la fondazione di Roma queste due culture erano già differenziate. Sembra poco credibile che Roma abbia preso nome da un fondatore, semmai è il contrario e cioè che l’esistenza di una città chiamata Roma fece immaginare che fosse fondata da Romolo. Non sappiamo con sicurezza l’origine del nome Roma, tra le possibilità c’è che derivi dalla parola ruma (mammella) oppure da rumon (termine arcaico per il Tevere). La leggenda che faceva risalire le origini a Romolo e Remo è molto antica. La ricerca archeologica ha posto il problema su basi diverse. Sono state rintracciate tracce di occupazione umana, rappresentate da frammenti di ceramica sul Campidoglio e sul Foro Boario, così come sul Palatino e nella valle del Foro. Ciò fa ritenere probabile che il sito di Roma fosse abitato già nel II millennio. Intorno al 1000 sul Palatino esistevano piccoli insediamenti a carattere di villaggio. Nella valle tra i colli che diventerà il Foro è stato rinvenuto un piccolo numero di tombe a cremazione simili ad altre località del Lazio, evidenza che segna l’inizio della “cultura laziale”. La seconda fase di questa cultura (età del ferro) vede un accrescimento di questo materiale e nuovi insediamenti latini costituiti da capanne primitive, fatte di canniccio ricoperto di argilla e tetto a paglia sostenuto da pali di legno. I villaggi avevano una struttura interna semplice, basata su gruppi di parentela in cui a determinare la posizione personale erano l’età, il sesso e i ruoli all’interno della famiglia e del gruppo. L’attività economica era in un’agricoltura di sussistenza integrata dall’allevamento dei capi di bestiame. Un primo passo verso prime forme di specializzazione riguardava la lavorazione dei metalli. Verso la fine del IX secolo gruppi di villaggi cominciarono a fondersi e a creare centri più ampi. Si tratta di un fenomeno iniziato nell’Etruria meridionale, a Cerveteri, Tarquinia e Veio e che nel Lazio interessò Gabi, Ardea e Roma stessa. Il momento di svolta si ebbe nel corso dell’VIII secolo quando la comunità del Latium vetus conobbero un incremento di popolazione, crebbe il livello di ricchezza e di prosperità legato ad un miglioramento delle tecniche agricole. Fece la sua comparsa anche la ceramica al tornio. Tombe decorate indicano l’emergere di ceti aristocratici in contatto con l’esterno. Anche il Lazio risente quindi del processo di orientalizzazione che interessò tra l’VIII e VII secolo il Mediterraneo orientale. L’inizio della colonizzazione greca ebbe esiti importanti sulle aristocrazie emergenti. Va tenuto presente come i resoconti letterari forniscono un ventaglio di date di fondazione variegate. Eratostene addirittura la inseriva nel XII secolo, così come Ennio collocava Romolo verso il 1090 a.C. Il dibattito recente: Andrea Carandini ha riproposto l’attendibilità della versione letteraria della fondazione. Il primo fondamento di Carandini è dato dall’interpretazione dello scavo del 1985 alle pendici del Palatino. È stato individuato un tratto di mura lungo 12 metri in cui sono state individuate quattro fasi delle mura, seguite dalla obliterazione verso il 530 a.C. connessa alla costruzione delle domus arcaiche. La costruzione è datata tra 750 e 732-720 quando viene edificata una porta con intelaiatura lignea e bastioni con posto di guardia all’interno. È probabile che queste mura non siano mura di una città stato compiuta. Siamo in una zona in cui convivono capanne di un abitato, campi, sepolture e sulle pendici muri e tombe di bambini e adulti. Risulta chiaro che non si era sviluppata una differenziazione tra città dei vivi e città dei morti. Secondo Paolo Carafa le prime tracce di attività nell’area del comizio risalirebbero agli anni 750- 700. Grazie a pochi altri materiali rinvenuti negli scavi avremmo un riscontro alla fondazione romulea a cui farebbero seguito la bonifica della valle del Foro. Il sito sarebbe già usato come luogo di riunione delle Curie nell’VIII secolo come proverebbe uno strato di pavimentazione simile ai primi pavimenti ceramici. Il tentativo di Carandini di riproporre la storicità della leggenda è condizionato dalla fragilità della prova archeologica contestabile sotto molti aspetti. Una critica al concordismo si deve a Carmine Ampolo. La cosiddetta tradizione è limitata e parziale come è provato dalla circostanza che dei re non sappiamo quasi nulla. La complessità e l’estensione della città arcaica implicano un apparato complesso, un’organizzazione che non poteva non coinvolgere altri protagonisti. Solo con l’avvento della Repubblica abbiamo personalità individuabili Per raccordare l’archeologia alle fonti storiografiche si è privilegiata la leggenda canonica. È sicuro che esistevano molte versione sull’origine di Roma. Era stata trattata da Ellanico e Damaste chiedendosi chi era stato il fondatore o i fondatori Si deve accettare l’idea che non si era conservato nessun ricordo preciso della data di fondazione di Roma e che questa è frutto di calcoli posteriori. La data canonica fu fissata al 753 da Varrone nel I secolo. Ci si può chiedere se esistesse una leggenda romana pura. La raffigurazione della lupa con due gemelli su uno specchio della fine del IV secolo a.C. sembra rafforzare l’antichità del racconto tradizionale Il pomerio e i riti di fondazione: al momento della fondazione della città un ruolo importante dal punto di vista religioso era rivestito dal pomerio (ciò che si trova al di là del muro), era in origine una linea sacra che ne delimitava il perimetro con le mura. In un secondo tempo il nome servì a designare una zona di rispetto che separava le case dalle mura stesse. Non sempre il pomerio coincideva con le mura, in quanto tracciato con la procedura religiosa, mentre le mura corrispondevano alla difesa del territorio. La coincidenza tra mira e pomerio sembra non ci fosse nemmeno nella Roma arcaica sul Palatino. L’area del Pomerio era limitata da cippi infissi nel terreno a seguito di una cerimonia religiosa presieduta dal pontefice massimo. I vecchi cippi venivano conservati. In realtà il pomerio non fu accresciuto sino a Silla, in età imperiale conobbe altri accrescimenti. L’ultimo che lo ampliò fu Aureliano. Lo stato romano arcaico: alla base dell’organizzazione sociale dei latino c’era un’articolazione per famiglie alla cui testa stava il pater. Tutte le famiglie che avevano un antenato comune costituivano una gens, un gruppo organizzato politicamente e religiosamente. Fu una componente di rilievo in età arcaica. La popolazione dello stato arcaico era divisa in gruppi religiosi e militari detti curie e comprendevano tutti gli abitanti del territorio tranne gli schiavi. Si sa che praticavano propri riti religiosi e che rappresentarono il fondamento della più antica assemblea politica cittadina, i comizi curiati. Non sappiamo nemmeno se fossero organizzate su base territoriale (quindi una sorta di distretti) o su basi gentilizie. In epoca più tarda ai comizi curiati rimasero attribuite funzioni inerenti il diritto civile e spettava il compito di votare la lex de imperio che conferiva il potere al magistrato eletto Incertezza anche verso le tribù la cui creazione fu attribuita a Romolo. Originariamente erano 3: Tities, Ramnes e Luceres, forse la loro origine era etrusca. In epoca tarda, con il predominio etrusco, lo stato romano si organizzò in criteri precisi: ogni tribù fu divisa in 10 curie e da ogni tribù furono scelti 100 senatori. Tale struttura di base costituì la base dell’organizzazione militare: ogni tribù doveva fornire un contingente di cavalleria e uno di fanteria di 100 e 1000 uomini. La legione era quindi formata da 300 cavalieri (celeres) e 3000 fanti La monarchia romana: caratteristica principale era di essere elettiva: l’elezione era demandata all’assemblea dei rappresentanti delle famiglie più in vista. Il re doveva essere affiancato da un consiglio di anziani composto dai capi delle famiglie più nobili e ricche (nucleo del senato). Rimangono due testimonianze: l’esistenza di un sacerdote che portava il nome di rex sacrorum col compito di dare realizzazione ai riti prima eseguiti dal re; nel termine interrex veniva definito il magistrato che subentrava nel caso di indisponibilità dei consoli il potere del re era limitato dai capi delle gentes principali. Il re era anche il supremo capo religioso e veniva affiancato da collegi di sacerdoti, tra cui quello dei pontefici: erano i depositari delle norme giuridiche. Il collegio degli auguri interpretava la volontà divina; quello delle vestali era composto da donne votate ad una castità trentennale Patrizi e plebei: i patrizi erano i discendenti dei primi senatori (patres) la cui nomina si faceva risalire a Romolo. Tra le ipotesi c’è quella che fa essere i plebei clienti dei patrizi. Un’altra interpretazione riconosce nei patrizi i Latini abitanti del Palatino e nei plebei i Sabini insediati sul Quirinale. Un’ulteriore ipotesi mette il fattore economico: i patrizi erano i grandi proprietari terrieri mentre i plebei artigiani e i ceti emergenti economicamente, tenuti in inferiorità rispetto alla rappresentanza politica. Nessuna di queste teorie è soddisfacente. La società di Roma arcaica andò incontro a mutazioni sociali per un accrescimento della popolazione dovuto alle immigrazioni. È probabile che la territorio latino. Ciò indica l’accrescimento della potenza romana sotto i Tarquini. Roma è la città più grande del Lazio, tuttavia nonostante l’influenza di Roma ogni centro mantiene una sua identità specifica Le origini di Roma secondo un imperatore romano: la tradizione poneva in difficoltà gli antichi. Nel 48 d.C. Claudio pronunciò un discorso in Senato in favore dell’ammissione nell’assemblea di alcuni rappresentanti della Gallia Comata, egli prende spunto dalle origini della città. Il testo fu inciso su una tavola di bronzo la famiglia: la prima forma di aggregazione è l’organizzazione familiare. La nozione di famiglia romana comprendeva un raggruppamento sociale ampio. Mancava un termine per definire la famiglia nucleare. Facevano parte di una familia tutti coloro che ricadevano sotto l’autorità del pater familias, a cui spettava anche il controllo sui beni. Il vincolo di fondo era rappresentato dal potere esercitato dal pater familias sulle persone che riconoscevano la sua autorità. Di una stessa famiglia facevano parte i figli generati dal matrimonio del capofamiglia e quelli che decidevano di sottomettersi alla sua potestas. Nella sua forma più antica la famiglia romana presentava i caratteri più tipici di una società prestatale: era un’unità economica, religiosa e politica. Il fine principale era la perpetuazione. Certe caratteristiche del diritto romano si possono spiegare solo per la necessità di adottare gli elementi del primitivo diritto alla famiglia. In età arcaica il primo diritto di un padre rispetto ai figli era rifiutarli al momento della nascita. Il loro accoglimento o rifiuto veniva palesato con gesti pubblici Tra i vincoli fondamentali della famiglia romana primitiva c’era quello religioso. I riti familiari (sacra privata) si trasmettevano di padre in figlio e la loro osservanza era rigorosa. Gli antenati del ramo paterno erano i manes. Ad un livello più evoluto il diritto romano prevedeva che un figlio rimanesse sotto l’autorità paterna fino a quando era in vita. Tra i diritti del pater c’era diseredare i figli. In alcuni casi per tutelare i figli legittimi si rese possibile annullare il testamento. La vita quotidiana esigeva che un genitore provvedesse al mantenimento economico del figlio (peculium) in proporzione al suo patrimonio e alle sue aspettative La donna: il ruolo della donna aristocratica non si esauriva alla sola vita domestica. La moglie accompagnava il marito nella vita pubblica e condivideva con lui l’educazione dei figli. L’autorità nella casa rimase però sempre solo al marito. In epoca arcaica il carattere patriarcale della famiglia si riflette nella supremazia dell’uomo sulla donna. Il potere del marito sulla moglie, chiamato manus, non conosce limiti: la può punire se ha commesso qualche mancanza come se ha bevuto vino durante un convito e ucciderla impunemente in caso di adulterio. Lo scopo di norme austere è legato ad un concetto di matrimonio finalizzato ad avere solo figli legittimi. I romani si sposavano presto ma la legge proibiva che le donne si sposassero prima dei 12 anni, toccava al padre cercare uno sposo per le figlie. La cerimonia di fidanzamento, detta sponsalia, era accompagnata da una serie di riti. Per le donne sterili il destino era il ripudio con il ritorno alla casa paterna. Molte morivano di parto. Un istituto alternativo fu rappresentato dall’adozione, che serviva anche per concretizzare strategie politiche. Il matrimonio in età arcaica era un’istituzione privata anche se aveva conseguenze giuridiche. Esistevano forme diverse per contrarre un matrimonio: in origine era diffusa la confarreatio (divisione di una focaccia di farro tra i due sposi) oppure la mancipatio (atto di compravendita). Il sistema più comune per sposarsi a Roma era l’usus cioè la convivenza dei coniugi per un anno. Il divorzio era un atto altrettanto informale. Il ripudio era un atto semplicissimo e consisteva nella separazione di fatto; di norma era frutto di una decisione unilaterale dell’uomo. Al divorzio consensuale si arrivò dopo tempo. Agricoltura e alimentazione: il Tevere era area di differenziazione tra l’area etrusca a nord e quella laziale a sud. Tale differenziazione sembra manifestarsi in modo percepibile dal IX-VIII secolo a.C. mentre l’importanza del sito della futura Roma resta in tutta la sua evidenza. Un prodotto come il sale seguiva il corso del fiume per essere trasportato verso l’interno nel territorio sabino lungo la Salaria la riorganizzazione dell’economia pastorale è uno dei caratteri fondamentali delle trasformazioni dell’Italia nella prima età del Ferro. Questo processo si può dire compiuto attorno all’VIII secolo e implica il passaggio da un regime di seminomadismo, con una transumanza disorganizzata, a uno di regolare trasferimento del bestiame. La cosa vale per i popoli dell’Italia centrale l’agricoltura di Roma arcaica era limitata dalle condizioni poco favorevoli del terreno. Nel Lazio arcaico è attestata la situazione tipica di economie povere o di sussistenza. Varie specie di cereali, come farro e orzo erano associate a legumi come la veccia (farrago). Lo scopo della farrago era assicurare un minimo di sopravvivenza rispetto a calamità atmosferiche. In età avanzata la farrago divenne alimento per gli animali. Il cereale maggiormente coltivato in età arcaica è il farro. Per Roma arcaica si può parlare di un contesto economico in cui l’allevamento e l’agricoltura sono compresenti secondo caratteristiche specifiche dovute alle particolari condizioni del territorio. L’associazione di agricoltura di sussistenza e di allevamento del bestiame va intesa in un rapporto di interdipendenza. Il bestiame serviva a produrre il concime indispensabile per i terreni nel periodo in cui non erano lavorati. Una circostanza negativa per Roma nella prima età repubblicana è data dall’arrivo dei Volsci nel Lazio meridionale, all’inizio del V secolo. L’agro pontino tornerà romano dopo un secolo La proprietà della terra in Roma arcaica: controversa è la questione della originaria forma della proprietà agraria a Roma. Rispetto a un’originaria proprietà collettiva, la prima forma di proprietà era limitata solo alla casa e all’orto circostante, mentre era esclusa la terra arabile e quella al pascolo. Oltre al termine Heredium nelle fonti compare sors. Si applica alla nozione di proprietà trasmissibile per via ereditaria. La complementarietà tra piccola proprietà individuale e forme di appropriazione collettiva della terra risale alle condizioni ambientali delle aree appenniniche e subappenniniche. I primi due secoli della Repubblica (V-IV a.C.) conobbero un assestamento interno modificato quando dal IV secolo iniziarono le assegnazioni del territorio conquistato l’ideologia indoeuropea nei racconti sulle origini di Roma: indoeuropei è una denominazione convenzionale di una popolazione vissuta in epoca remota (III, IV o VI millennio) in una regione nella pianura russa. Tra III e II millennio questa popolazione migra e impone la lingua ai popoli conquistati adottandone però la scrittura. Nel II millennio si trovano indoeuropei in Turchia (Ittiti), in Grecia (Micenei) e in Italia george Dumezil ha cercato di ricostruire l’universo mentale degli indoeuropei. Il presupposto è che dagli Indoeuropei le cose, il mondo, la società venissero colti, compresi e analizzati con riferimento a 3 ambiti o funzioni distinte ma tra loro complementari. Sono: la potenza del sovrano che si manifesta nell’aspetto magico e giuridico; la forza fisica; la fecondità degli uomini, degli animali e della natura nel caso di Roma arcaica Dumezil ha creduto di rintracciarvi un’entità indoeuropea in certi episodi. La vicenda del Ratto delle Sabine è costruita secondo uno schema di origine indoeuropea. Anche nella teologia romana si sarebbe mantenuta traccia dell’originario sistema. La repubblica di Roma dalle origini ai Gracchi La nascita della Repubblica Le fonti: le fonti narrative che descrivono la nascita della Repubblica sono Dionigi di Alicarnasso, Tito Livio, la Biblioteca storica di Diodoro Siculo, le vite parallele di Plutarco (vita di Publicola in primis), Cassio Dione (attivo tra II e III secolo d.C.). Queste opere storiografiche hanno in comune il fatto di essere state descritte ad anni di distanza dai fatti narrati. Si fondavano su opere a noi oggi perdute come la prima annalistica. Gli autori della seconda annalistica (tra la metà e la fine del II secolo a.C.) che ebbero maggiore influsso sulla storiografia posteriore sono Cassio Emina e L. Calpurnio Pisone Frugi. Il primo scrisse una storia di Roma che arrivava almeno al 146 a.C., il secondo scrisse annales che narravano eventi fino al 120. Tra gli esponenti dell’annalistica recente rammentiamo Q.Claudio Quadrigario, autore di una storia che dal sacco gallico del 390 arrivava a Silla. Anche Polibio scrisse un’opera che riguardava la storia di Roma. Importante è l’excursus sulle istituzioni di Roma repubblicana anche se questa ricostruzione è il frutto di una idealizzazione e nelle intenzioni del suo autore si riferiva al quadro costituzionale consolidato alla vigilia della seconda guerra punica Va citato anche Varrone, il cui trattato sulla lingua latina da interessanti ragguagli storici. Altre opere varroniane rilevanti sono gli annali e le antichità umane e divine. Le notti attiche di Aulo Gellio (II sec. d.C.) in cui sono conservati scritti per noi perduti. Di poco posteriore a Gellio fu il grammatico Pompeo Festo autore del “Significato delle parole” che derivava da un’opera omonima di Verrio Flacco, un liberto che scrisse in età augustea. duplicazione di un’altra legge Valeria sulla Provocatio posteriore (300 a.C.). è possibile che la provocatio contemplasse inizialmente solo una richiesta di aiuto ai concittadini da parte di colui cui era stata inflitta la pena capitale da parte del console. Questo diritto d’appello non ebbe valore fino all’età tardo repubblicana contro i poteri dei consoli al di fuori del limite della città costituito dal pomerio né contro l’autorità della dittatura alcuni studiosi ritengono che inizialmente i poteri regi fossero trasferiti solo ad un console affiancato da alcuni assistenti: solo dopo il decemvirato del 450 a.C. o delle leggi Licinie Sestie del 367 a.C. sarebbe stata creata la magistratura collegiale del consolato. Il più serio argomento a favore è il chiodo del tempio di Giove ad opera del praetor maximus. Dal punto di vista grammaticale questa espressione implica 3 pretori, di cui uno dotato di poteri supremi. Tuttavia se la situazione fosse stata questa non ci sarebbe stato bisogno di creare la dittatura. Le altre magistrature: le crescenti esigenze dello stato indussero alla creazione di nuove magistrature. Al periodo regio o al primo anno della repubblica risalirebbero i questori, in numero di due in origine e assistevano i consoli nella sfera delle attività finanziarie. È probabile che i questori fossero designati a discrezione dei consoli, poi la carica divenne elettiva. I quaestores parricidii sono incaricati di istruire i processi per i delitti di sangue contro i parenti. Il reato di alto tradimento era competenza del collegio dei duoviri perduellionis. Nel 443 il compito di tenere il censimento sarebbe stato affidato ai censori. Le ricadute di questo compito erano militari, questo ruolo assunse rilievo politico man mano che i comizi centuriati divenivano il principale organismo assembleare della Repubblica. Un plebiscito Ovinio (fine del IV- III sec.) affidò ai censori la redazione delle liste dei membri del senato. Da qui si sviluppò la cura morum che conferiva ai censori ampi poteri di intervento sulla vita pubblica e privata. Questi magistrati erano eletti ogni 5 anni e stavano in carica 18 mesi. La dittatura: in caso di necessità i poteri repubblicani erano affidati ad un dittatore: non veniva eletto da un’assemblea popolare ma era nominato da un console, da un pretore o da un’interrex su istruzione del senato. Non era affiancato da colleghi ma era assistito da un magister equitum (comandante della cavalleria), mentre il dittatore era noto come magister populi (polo in armi, esercito). Dati i poteri straordinari la sua durata era di 6 mesi. L’originario titolo di magister populi e il fatto che nei primi anni repubblicani venisse frequentemente nominato fanno pensare che la sua nomina avveniva in casi di crisi militari. Grazie all’inappellabilità della carica essa era uno strumento dei patrizi per tenere sotto controllo i plebei. Guardare pag. 71 I sacerdozi e la sfera religiosa: a Roma non si può tracciare una distinzione netta tra cariche politiche e massime cariche religiose: la stessa persona poteva ricoprire contemporaneamente una magistratura e un sacerdozio. Costituiscono un’eccezione il rex sacrorum, i flamini che più che essere sacerdoti di un dio ne erano la personificazione terrena. Le 3 divinità supreme (Giove, Marte e Quirino) erano rappresentate dai flamines Dialis, Martialis e Quirinalis. 12 flamini minori erano addetti al culto di altrettante divinità. Al flaminato erano connessi tabù religiosi che ne limitarono l’accessibilità alle cariche politiche. I 3 più importanti collegi religiosi, i pontefici, gli auguri e i duoviri sacris faciundis, avevano poteri che sconfinavano nella politica. Il collegio dei pontefici costituiva la massima autorità religosa dello stato. Ai pontefici spettava la nomina dei 3 flamini maggiori. Il collegio aveva il controllo sulla tradizione e l’interpretazione delle norme giuridiche e sul calendario. Fino all’età medio-repubblicana si diventava pontefice per cooptazione (scelto da altri membri del collegio) e a vita. Il collegio degli auguri assisteva i magistrati nel compito di trarre gli auspici e di interpretare la volontà degli dei. Ciò avveniva nell’osservazione del volo degli uccelli ma anche tuoni e fulmini. Il loro parere consentiva al senato di bloccare ogni procedimento I duoviri sacris faciundis erano incaricati di custodire i libri sibillini, una raccolta di oracoli in greco che erano connessi con la Sibilla di Cuma. Nel caso di prodigi nefasti il Senato poteva chiedere al collegio di consultare i libri. Non di rado la soluzione era introdurre un culto straniero su cui il collegio poi faceva una supervisione. Il collegio era composto da 10 persone nel 367 e da 15 alla fine della repubblica Accanto ai 3 collegi si ricordano gli aruspici, incaricati di esaminare le viscere degli animali sacrificati. Una rilevante funzione l’avevano i feziali, riuniti in collegio. La loro funzione era dichiarare guerra, attenendosi al complesso cerimoniale e assicurando a Roma il favore degli dei. L’espressione bellum iustum ha il senso di guerra dichiarata con le corrette formalità. I feziali trasmettevano anche una richiesta di riparazioni o ultimatum nella conclusione di un trattato Il senato: il vecchio consiglio regio, formato dai capi delle famiglie nobili sopravvisse alla caduta della monarchia e divenne il perno della repubblica a guida patrizia. La composizione del consiglio era decisa dai consoli prima, dai censori poi che ne completarono i ranghi attingendo agli ex magistrati. Il principale strumento del senato era l’auctoritas patrum, il diritto di sanzione che i senatori avrebbero posseduto già in età regia (per Livio) ma che viene applicato dal V secolo. La carica dei senatori era vitalizia, avevano possibilità di continuare la loro linea politica. Dal momento che il collegio era formato da ex magistrati essi non avevano interessi ad agire contro l’assemblea di cui stavano per entrare a far parte. Il peso politico del senato crebbe in ragione del fatto che i massimi magistrati erano chiamati lontano da Roma per una parte della loro carica dal comando delle campagne militari. Nel senato si concentrò l’esperienza politica della Repubblica e trovò espressione l’élite sociale ed economica di Roma, costituita dal patriziato e poi dalla nobiltà patrizio-plebea. La cittadinanza e le assemblee popolari: il terzo pilastro è dato dalle assemblee popolari. Non tutti facevano parte di questi organismi, riservati ai maschi adulti di libera condizione e con la cittadinanza si diveniva cittadini per diritto di nascita in quanto figli legittimi di padre cittadino. Sulla questione dei diritti civici Roma manifestò una notevole apertura. L’accoglienza nel corpo civico di elementi di città latine o altre comunità non era eccezionale. Il caso più clamoroso è rappresentato dalla migrazione dalla Sabina del clan dei Claudi: tra il regno di Romolo e il 505 un notabile sabino, Appio Claudio, si sarebbe trasferito a Roma insieme a 5.000 familiari e clienti venendo accolto nella cittadinanza romana. Significativo è che gli schiavi liberati avevano ricevuto i pieni diritti. Un tratto caratteristico è dato dall’esistenza di 4 organi di questo tipo: i comizi curiati, centuriati, i comizi tributi e i concili della plebe. Durante l’età repubblicana i comizi curiati persero importanza. La loro funzione più importante, trasferire i poteri al magistrato, si ridusse a una formalità: la lex curiata de imperio non venne più votata dalle 30 curie ma dai 30 littori che le rappresentavano. Nella prima età repubblicana l’assemblea più importante sono i comizi centuriati, fondati su una ripartizione della cittadinanza in classi di censo e dentro queste di centurie che la tradizione fece risalire a Servio Tullio ma che appartengono ad un’epoca posteriore; è probabile che in origine la divisione censitaria distinguesse un’unica classis di cui facevano parte coloro che si procuravano l’armamento della fanteria pesante, coloro che stavano “al di sopra della classe” e che avrebbero fornito la cavalleria e da coloro che stavano sotto della classe che avrebbero servito come fanti leggeri. Il meccanismo dei comizi centuriati prevede che le risoluzioni siano prese a maggioranza di unità di voto costituite dalle centurie, assicurando un vantaggio all’elemento più facoltoso e più anziano della cittadinanza. Le centurie non avevano un eguale numero di componenti dal momento che le persone dotate di censo più alto e iscritte nelle classi di età dai 46 ai 60 anni (seniores) erano meno rispetto ai meno ricchi e iscritti alle classi di età tra i 17 e 45 anni (iuniores). Se le 18 centurie dei cavalieri e le 80 della I classe avessero votato compatte avrebbero avuto la maggioranza totale dei comizi. La funzione più importante dell’assemblea centuriata era elettorale: spettava a loro l’elezione dei consoli e degli altri magistrati superiori; questa assemblea confermava i poteri dei censori; questo dato fa ipotizzare che al momento della creazione della censura, cioè nel 443 la principale assemblea non era più quella curiata ma quella centuriata Ultimi per creazione tra le assemblee sono i comizi tributi, ricordati nel 447 quando venne affidata loro l’elezione dei questori. In questa assemblea il popolo votava per tribù, cioè a seconda dell’iscrizione in una delle tribù territoriali già instituite da Servio Tullio. Ad un primo sguardo il meccanismo di voto dell’assemblea tributa potrebbe apparire più democratico rispetto a quello vigente nei comizi centuriati, dove i ricchi e gli anziani avevano vantaggio. Di fatto anche nei comizi tributi venne a determinarsi una certa disuguaglianza: il numero delle tribù urbane rimase fissato a 4 nonostante l’aumento della popolazione mentre il numero delle tribù rustiche arrivò a 31 nel 241. La popolazione delle campagne ebbe un peso maggiore rispetto a quello delle città. Anche l’assemblea tributa aveva funzioni elettorali, scegliendo i magistrati minori e soprattutto legislative, tranne quelle poche materie che erano competenze dei comizi centuriati. I poteri delle assemblee popolari soggiacevano a limitazioni. Non potevano autoconvocarsi né assumere iniziative autonome: spettava ai magistrati stabilire l’ordine del giorno e sottoporre a voto le proposte di legge, che l’assemblea poteva accettare o respingere senza poter modificare. L’esposizione delle proposte di legge e il dibattito spettavano a riunioni informali chiamati contiones che potevano essere convocate nel periodo tra l’annuncio dei comizi formali e il loro È possibile che l’esercito repubblicano si basasse sulla fanteria pesante fornita dalle centurie di iuniores delle prime 3 classi di censo: queste 60 centurie (40 iuniores della prima classe, 10 della II e 10 della III) potevano fornire 6.000 uomini, gli effettivi di due legioni, ciascuna composta da 3.000 opliti. Le forze armate della prima Roma repubblicana erano completate dalla cavalleria, reclutata nelle 18 centurie di equites e da soldati armati alla leggera, provenienti dalla IV o V classe Al di là di queste ipotesi è importante che la legione era reclutata su base censitaria, indifferentemente tra aristocratici e gente del popolo tra patrizi e plebei La prima secessione e il tribunato della plebe: il conflitto tra i due ordini si apre nel 494. La plebe, esasperata dalla crisi economica ricorse ad uno sciopero generale che lasciò la città priva della sua forza lavoro e indifesa contro le aggressioni esterne. Questa protesta venne attuata dalla plebe ritirandosi sull’Aventino, il colle romano più legato alle tradizioni plebee. Qui i plebei presero alcune risoluzioni (leges sacratae). L’espressione nasceva forse dal fatto che le prime due disposizioni prevedevano che chi avesse contravvenuto alle disposizioni sarebbe stato sacer, consacrato agli dei, quindi ucciso impunemente. In occasione della prima secessione la plebe si diede propri organismi politici: un’assemblea generale che votava per curie e poi da 471 per tribù, ed è nota quindi col nome di concilia plebis tributa. Il voto per tribù assicurava nei concilia plebis la prevalenza dei proprietari terrieri iscritti nelle circoscrizioni rustiche. L’assemblea poteva emanare provvedimenti che prendevano il nome di plebiscita (decisioni della plebe) che non avevano valore vincolante per lo stato ma solo per la plebe che li aveva votati. L’atto finale fu dato dalla legge Ortensia del 287 Al tempo della prima secessione furono scelti come rappresentanti ed esecutori i tribuni della plebe, forse due anche se in seguito divennero 10. Ai propri tribuni la plebe decise di riconoscere diversi poteri tra cui il diritto di venire in soccorso di un cittadino contro l’azione di un magistrato (ius auxilii). L’insistenza su questo potere del tribunato è uno degli argomenti che getta sospetto sull’esistenza di un diritto all’appello di ogni cittadino contro gli arbitri del potere esecutivo. Da questo potere si originò il potere di porre il veto ad un provvedimento di un magistrato che sembrava contro la plebe, intesa come collettività (ius intercessionis) Per dare forza concreta ai diritti dei tribuni della plebe, la plebe accordò loro l’inviolabilità personale (sacrosanctitas); chi avesse osato commettere violenza dopo un regolare voto del concilium plebis sarebbe divenuto sacer. Questa forma di giustizia sommaria non venne mai messa in pratica. Abbiamo notizia di procedimenti contro reati che possono rientrare nella categoria delle offese alla plebe. Dai decreti dei concilia plebis che dichiaravano sacer un nemico della plebe o gli infliggevano una multa in denaro potrebbe essere nato il diritto dei tribuni a trascinare in giudizio davanti al popolo i magistrati accusati di aver commesso abusi durante il loro incarico. Questo diritto deve essersi sviluppato in modo graduale. I tribuni ebbero il potere di convocare e presiedere l’assemblea della plebe e di sottoporre a essa le proprie proposte (ius agendi cum plebe); il potere di convocare il senato apparve in un periodo posteriore alla prima secessione, quando i plebiscita assunsero validità per tutta la cittadinanza e si rese opportuno per i tribuni sottoporre al parere del senato le proposte normative che intendevano presentare al voto dei concilia plebis. In piena età storica il singolo tribuno aveva potere di veto contro un suo collega ma anche in questo caso è un’evoluzione tarda, successiva alla lex Hortensia Il tribuno aveva obblighi nei confronti della plebe che rappresentava: non poteva trascorrere la notte fuori dalla città e la porta della casa doveva essere lasciata aperta per assicurare assistenza continua. Secondo la tradizione storiografica nel corso della prima secessione vennero creati altri due rappresentanti della plebe, gli edili plebei: è possibile che le nostre fonti anticipino la magistratura che in realtà è posteriore: l’edilità plebea doveva essere un’istituzione già consolidata nel 366 a.C. quando sul suo modello venne creata l’edilità curule. Gli edili della plebe nella tarda età repubblicana si occupavano dell’organizzazione dei giochi, della sorveglianza sui mercati, del controllo sulle strade, i templi e gli edifici pubblici. Le loro funzioni originarie rimangono oscure. Un’indicazione ci viene dal loro nome di aediles, da aedes (tempio, casa). È probabile che gli edili plebei fossero i custodi del tempio di Cerere, Libero e Libera in cui venivano conservate le somme delle multe inflitte a coloro che avevano recato offese alla plebe, nonché copia dei plebisciti votati dai concilia plebis e attorno a cui si svolgeva un mercato. È possibile che gli edili abbiano agito come assistenti dei tribuni della plebe a cui erano sottoposti La prima secessione approdò ad un risultato politico, il riconoscimento da parte dello stato a guida patrizia dell’organizzazione interna della plebe con la sua assemblea e i suoi rappresentanti. Il problema dei debiti rimase per il momento insoluto anche se si può presumere che i tribuni della plebe, grazie allo ius auxilii, potessero intervenire in favore dei debitori insolventi Della crisi economica cercò di approfittare il console del 486 Spurio Cassio, che propose una legge per la ridistribuzione delle terre che sembra anticipare situazioni posteriori. Del resto anche le figure di altri due demagoghi della prima età repubblicana, Spurio Melio e Marco Manlio Capitolino hanno tratti graccani. Cassio viene accusato di aspirare alla tirannide ed eliminato con la collaborazione della plebe stessa. Le vicende della prima secessione plebea e il tentativo di Spurio Cassio mettono in luce due tratti caratteristici del confronto tra patrizi e plebei. In primo luogo la protesta raggiunge risultato politico. È legittimo supporre che il disagio economico della plebe povera sia stato strumentalizzato dalle famiglie plebee più facoltose ed influenti per raggiungere le conquiste politiche a cui erano interessate. Il fallimento di Cassio ci mostra come la plebe non intendesse rivoluzionare l’assetto economico e istituzionale dello stato con una redistribuzione della proprietà privata e col ritorno ad un regime autocratico, ma aspirava ad una riforma dall’interno dell’ordinamento vigente Il decemvirato e le leggi delle XII tavole: nel 451 fu nominata una commissione composta da 10 uomini scelti tra il patriziato e incaricati di stendere un codice giuridico. Il nuovo collegio avrebbe assunto il controllo dello stato: le magistrature repubblicane, particolarmente il consolato e il tribunato della plebe, vennero sospese per impedire che con i loro veti incrociati paralizzassero l’azione dei decemviri. La commissione non era soggetta al diritto d’appello nel primo anno di attività i decemviri compilarono un complesso di norme pubblicate su 10 tavole di legno esposte nel Foro. Rimanevano da trattare ancora dei punti: venne eletta per il 450 a.C. una seconda commissione decemvirale in cui sarebbe stata rappresentata anche la plebe. In questo secondo anno i decemviri avrebbero completato la loro opera con altre 2 tavole portando il totale a 12. Tra le disposizioni vi era quella che impediva i matrimoni misti tra patrizi e plebei. La commissione cercò di prorogare i propri poteri assoluti rivoluzionando l’assetto costituzionale dello stato. Il tentativo si scontrò con l’opposizione della plebe e degli elementi più moderati del patriziato, guidati da Marco Orazio e Lucio Valerio. Come ai tempi della caduta della monarchia è la violenza nei confronti di una giovane a far precipitare la situazione: le insidie portate da Appio Claudio a Virginia provocano una seconda secessione con cui i decemvriri sono costretti a deporre i loro poteri. Il consolato è ripristinato e i massimi magistrati del 449, Orazio e Valerio, fanno approvare un pacchetto di leggi in cui si riconosce l’apporto della plebe nella lotta contro il tentativo dei decemviri: si ribadisce l’inviolabilità dei rappresentanti della plebe, si proibisce la creazione di magistrature contro le quali non valesse il diritto d’appello e si rendono i plebisciti votati dall’assemblea della plebe vincolanti per la cittadinanza. La norma che proibiva i matrimoni tra patrizi e plebei fu abrogata nel 445 con un plebiscito Canuleio che assume forza di legge per l’intera cittadinanza: ciò potrebbe essere avvenuto a seguito della riproposizione del provvedimento votato dalla plebe nell’assemblea centuriata o tramite ratifica del plebiscito da parte del senato o per accordo politico con cui i patrizi si impegnarono a rispettare la norma. Il plebiscito creò i presupposti per la nascita di un blocco di famiglie miste patrizio-plebee.ù Questa versione delle drammatiche vicende del secondo anno del decemvrirato non ha credibilità e le leggi Valerie-Orazie del 449 sembrano l’anticipazione di provvedimenti posteriori. Per comprendere i caratteri dell’azione dei decemviri ci rimane il contenuto delle XII tavole, il cui originale epigrafico è andato perduto. I frammenti rimandano alla sfera dei rapporti tra gli individui. Nelle XII tavole è ravvisabile un’influenza del diritto greco, anche solo nel principio della necessità di un codice di leggi scritte redatto da una commissione scelta per il compito. Questo influsso viene giustificato dalle fonti antiche ricordando un’ambasciata romana a Atene nel 454 per studiare la legislazione di Solone. È probabile che questi elementi siano venuti dai codici giuridici delle città greche dell’Italia meridionale e della Sicilia come Zaleuco di Locri e Caronda di Catania. Il codice delle XII tavole non cancellò il ruolo preponderante dei magistrati e dei pontefici in maniera giuridica: la conoscenza del diritto era riservata ad un’élite culturale che coincideva con quella politica; il fatto che nel codice non fossero pubblicate le formule giuridiche che era necessario per intentare un’azione né fossero spiegati i tecnicismi del lessico legale né che fosse reso noto il calendario dei giorni in cui si potevano condurre affari giudiziari Tribuni militari con poteri consolari: il plebiscito fatto votare da Caio Canuleio ebbe la conseguenza di rimuovere la principale obiezione che il patriziato aveva opposto all’accesso dei plebei al consolato: solo i patrizi si ritenevano titolari del diritto di prendere gli auspici per accettare la volontà degli dei. A seguito del plebiscito il sangue delle famiglie plebee poteva mescolarsi con quello delle famiglie patrizie. Il patriziato, sentendosi minacciato, ricorre ad un espediente: da 444 di anno in anno il senato decide se alla testa dello stato vi debbano essere due consoli, col diritto di prendere gli auspici e provenienti esclusivamente dal patriziato oppure un certo numero di tribuni militari con poteri consolari Nel 326 secondo Livio o nel 313 secondo Varrone, una legge Petelia Papiria aboliva la schiavitù per debiti. Ciò non segnò la soluzione del problema dei debiti ma segnò un momento importante di trasformazione delle condizioni economiche, imponendo di sostituire i nexi come forza lavoro. La più efficace risposta ai problemi economici della plebe venne dalle conquiste, che misero a disposizione vaste estensioni di terre, divise e assegnate oppure sfruttate per la creazione di colonie La censura di Appio Claudio Cieco: le conquiste della plebe della seconda metà del IV secolo non devono indurre che il processo sia stato uniforme: nel 314 Publilio Filone venne accusato di aver preso parte ad una congiura e scomparve dalla scena politica. È in questo clima che va considerata la figura di Appio Claudio Cieco. In occasione della sua censura del 312-311 nel compilare la lista dei senatori vi avrebbe incluso persone abbienti ma che non avevano rivestito alcuna magistratura. Una seconda misura riguardò la composizione delle tribù: il suo scopo era favorire la plebe urbana che costituiva la maggioranza dei votanti e tra i quali non pochi erano ex schiavi, consentendo loro di iscriversi in una delle qualsiasi delle unità esistenti mentre in precedenza erano obbligati a registrarsi nelle sole 4 tribù urbane con la conseguenza che il loro peso nei comizi era minore. Entrambe le riforme furono avversate: i consoli del 311 rifiutarono di riconoscere la nuova lista di senatori stilata da Appio Claudio e continuarono a convocare il senato sulla base dei vecchi elementi. Nel 304 i nuovi censori confinarono la plebe di Roma nelle sole quattro tribù urbane Il censo dei singoli cittadini, calcolato in base a bestiame e terreni posseduti, da ora fu valutato anche in base al capitale mobile, consentendo anche a coloro che non erano impegnati nelle attività agricole e dell’allevamento di vedere il proprio peso economico e politico riconosciuto nell’ordinamento centuriato. In questi anni Roma conia una vera e propria moneta: la moneta romano-campana. Nell’entourage di Appio Claudio tra i suoi clienti c’era anche Cneo Flavio che si fece eleggere edile curiale per l’anno 304 grazie alla riforma della composizione dei comizi tributi in senso democratico promossa dal suo patrono. Flavio prese l’iniziativa di pubblicare le formule giuridiche che andavano impiegate nei processi in un’opera chiamata ius civile Flavianum. Flavio avrebbe divulgato il calendario con i giorni fasti e quelli nefasti Direttamente alla censura di Appio Claudio è da attribuire la costruzione di due opere pubbliche: il primo acquedotto e la via che portava Roma a Capua (via Appia) che si rivelò importante durante la seconda guerra sannitica. Secondo lo storico Humm i cambiamenti profondi non devono essere attribuiti a Servio Tullio ma ad Appio Claudio che può essere considerato il vero creatore degli assetti istituzionali della Repubblica nella sua fase più compiuta e coerente: quella denominata dell’uguaglianza geometrica secondo cui per ogni cittadino a maggiori diritti politici corrispondono maggiori doveri in ambito fiscale e militare. La legge Ortensia: in genere è collocata nel 287, viene considerata il punto di arrivo della lotta tra patrizi e plebei. Il plebeo Quinto Ortensio, nominato dittatore, fece passare un porvvedimento secondo cui i plebisciti votati dall’assemblea della plebe dovevano avere valore per tutta la cittadinanza di Roma. Provvedimenti simili sono noti per il 449 con una lex Horatia e per il 339 con una lex Publilia. Solo la lex hortensia equiparò i plebiscita alle leggi votate dai comizi centuriati e dai comizi tribuni, respingendo i due provvedimenti anteriori come una totale invenzione. Comunque dal 287 i comizi tributi e l’assemblea della plebe, i concilia plebis tributa erano accomunati da un uguale sistema di voto per tribù e da eguali poteri. Identica era anche la loro composizione, sebbene ai comizi tributi prendessero parte anche i patrizi, esclusi dai concilia plebis. Tutto ciò spiega per quale motivo comitia tributa e concilia plebis siano confusi nelle fonti relative a media e tarda repubblica la nobilitas patrizio-plebea: le leggi Licinie Sestie e le conquiste della plebe tra fine IV e III secolo chiusero l’età di dominio dei patrizi. Molte delle vecchie stirpi patrizie videro il loro potere eclissarsi e al loro posto si formò l’aristocrazia formata dalle famiglie plebee più ricche e influenti e dalle stirpi patrizie che si erano adattate alla situazione. A questa nuova élite si dà il nome di nobilitas che venne a designare coloro che erano stati al consolato o che discendevano da un console si è conservato un manifesto degli ideali della nobilitas nell’elogio funebre di Lucio Cecilio Metello. La nobiltà patrizio-plebea si rivelò non meno gelosa. In pratica l’accesso alle magistrature superiori era riservato ai membri di poche famiglie. Tanto esclusiva divenne la nobilitas che per i pochi personaggi che raggiunsero i vertici della carriera politica pur non avendo antenati nobili venne coniata la definizione di Homines novi. Prima di intraprendere la carriera politica un giovane doveva servire 10 anni nella cavalleria, reclutata nelle 18 centurie. Il censo minimo inizialmente era di 100.000 assi, poi divenne di 1.000.000 di assi. Le assemblee poi erano controllate dai nobili tramite i propri clienti. Lo strumento con cui i nobili controllavano la vita politica era il seggio in senato. La conquista dell’Italia Le fonti: sono le solite fonti: Dionigi di Alicarnasso, Diodoro Siculo, Tito Livio, Cassio Dione, Appiano di Alessandria, le biografie di Plutarco, le storie di Polibio. Rari ma preziosi sono i documenti epigrafici: di portata generale i fasti trionfali in cui vennero registrate le cerimonie trionfali, tenutesi in occasione delle vittorie militari. Informazioni più specifiche ci vengono dalle laminette auree di Pyrgi presso il porto di Cere che getta una qualche luce sui buoni rapporti tra alcune città dell’Etruria e Cartagine. Meritano un cenno anche le iscrizioni contenenti gli elogi sepolcrali degli Scipioni. Le numerose fonti archeologiche sono più eloquenti sulla fase di consolidamento dell’egemonia romana che su quella della conquista e comunque sono di difficile interpretazione: basti pensare al dibattito su un affresco rinvenuto su una tomba dell’Esquilino che secondo alcuni rappresenterebbe episodi della seconda guerra sannitica che videro protagonista Quinto Fabio Massimo Rulliano. La situazione del Lazio alla caduta della monarchia di Roma: alla caduta della monarchia etrusca Roma controllava il territorio tra il Tevere e la regione Pontina a seguito di conquiste e politiche matrimoniali. Il dato è confermato dal trattato romano cartaginese. Tra la fine del VI e l’inizio del V a.C. questa lunga e faticosa realizzazione rischiò di crollare: buona parte delle città latine approfittarono delle difficoltà di Roma per affrancarsi. Queste città appaiono strette in una lega la cui natura è incerta, così come non si sa se quella lega in epoca monarchica fosse alle dipendenze di Roma: pare che i cittadini degli Stati membri condividessero alcuni diritti: lo ius connubii (il diritto di contrarre matrimoni legittimi con cittadini di altre comunità latine), lo ius commercii (il diritto di siglare contratti avendo valore legale tra cittadini appartenenti a comunità diverse) e lo ius migrationis, con cui un latino poteva assumere pieni diritti civici in una comunità diversa da quella in cui era prendendovi la residenza. La natura consente di avanzare che il loro mutuo riconoscimento possa essere una conseguenza della forte mobilità sociale orizzontale. Un altro elemento della lega latina noto è che il dittatore era il capo dell’esercito. La battaglia del lago Regillo e il foedus Cassianum: la lega latina sconfisse insieme ad Aristodemo di Cuma il figlio di Porsenna, Arrunte, nella battaglia di Aricia. Poi la Lega tentò di affermarsi attaccando Roma: la guerra sarebbe stata invocata da Ottavio Mamilio Tuscolo per riportare il Superbo al governo della città. In una leggendaria battaglia nel 496 sul lago Regillo i romani sconfissero le forze della lega: decisivo l’intervento a sostegno della cavalleria di Castore e Polluce, che meritarono l’erezione di un tempio nel Foro. Si ebbe la definitiva uscita di scena di Tarquinio e un trattato che sancì i rapporti tra romani e latini per 150 anni. Il trattato, siglato nel 493 da parte del console Spurio Cassio e noto come trattato Cassiano (foedus Cassianum) prevedeva un accordo bilaterale tra Roma e la Lega Latina; le due parti dovevano mantenere la pace e prestarsi aiuto in caso di attacco. Si trattava di un’alleanza difensiva; generalmente il comando supremo dell’esercito era in mano ad un generale romano. Il bottino sarebbe stato diviso equamente, sia per gli oggetti che per i territori. Tra gli strumenti più efficaci con cui si consolidarono le vittorie c’è la fondazione delle colonie sul territorio strappato ai nemici. I cittadini dei nuovi centri venivano sia da Roma che da altre comunità latine, spesso vi si includevano anche i vecchi indigeni. Un esempio e la colonia di Anzio nel 467 i cui i Volsci nativi si affiancarono ai coloni romani e latini; ciò spiega perché nel 459 la colonia si ribellò a Roma. Si deve però parlare di colonie latine dal momento che le nuove città entravano a far parte della Lega e godevano dei suoi diritti Nel 486 Roma completò il suo sistema di alleanze stringendo un accordo con gli Ernici, una popolazione a sud-est di Roma, in un territorio tra Equi e Volsci. I termini dell’alleanza erano gli stessi del trattato Cassiano ma non si sa se si sia formata una triplice alleanza oppure se era solo un trattato bilaterale. Roma divenne comunque il fulcro militare. I conflitti con Sabini, Equi e Volsci: l’alleanza stretta si rivelò preziosa per fronteggiare le minacce degli Equi, Volsci e dei Sabini. Il movimento di queste popolazioni faceva pensare ad un moto generale. Le loro sedi originarie, nell’Appennino centrale e meridionale, erano poco adatte all’agricoltura, quindi non garantivano la sopravvivenza. L’unica soluzione era migrare verso terre più fertili (la cosiddetta primavera dall’assedio fu messo in rotta da Camillo. Le fonti greche però non accennano alla rivincita di Camillo. Polibio dice che i Galli furono costretti a tornare al nord poiché i loro territori furono attaccati dai Veneti anche se non risulta convincente La ripresa: la prova migliore che il disastro gallico ebbe meno conseguenze di quanto ritenuto è data dalla rapidità con cui Roma si riprese e rianimò la politica estera dal 390. A lungo termine gli effetti della conquista di Veio e la ripartizione in 4 nuove tribù si rivelarono più decisivi dell’umiliazione gallica. Negli stessi anni forse iniziò la costruzione delle mura serviane (la tradizione le attribuisce a Servio Tullio), sfruttando il tufo di Veio. Proprio questo ha indotto gli storici a portare la cronologia al IV secolo. Anche Livio dice che la costruzione del circuito difensivo avvenne nel 378. La cinta muraria abbracciava un’estensione vastissima. Rispetto al significato strategico meno chiaro resta l’impatto economico che fu rilevante. Dopo il sacco gallico l’atteggiamento di Roma è improntato ad un’azione offensiva, che trova il suo esecutore in Camillo. Poco dopo il sacco dei galli vengono consolidati i confini settentrionali a contatto con Tarquinia: l’area fu presieduta dalle nuove colonie di Sutri e Nepi, fondate nel 383. Il fronte settentrionale fu reso più sicuro da accordi con Cere con cui le città riconobbero il mutuo riconoscimento di alcuni diritti individuali dei cittadini (a posteriori venne interpretato nel senso di una concessione della civitas sine suffragio). L’intesa tra Roma e Cere era simile ai trattati di isopoliteia (uguaglianza dei diritti civici) noti nel mondo greco. Sul fronte sud-orientale gli Equi sono annientati. Più lunga è la lotta contro i Volsci, che trovarono appoggio nei vecchi alleati di Roma, Gli Ernici che concepirono la speranza di riacquisire piena autonomia. Nel 381 la città latina di Tuscolo, alleata dei Volsci, venne annessa al territorio romano. La città conservò le sue strutture di governo e la sua autonomia interna, ma ai suoi abitanti vennero assegnati gli stessi diritti e doveri dei cittadini romani; Tuscolo divenne il primo Municipium, termine con cui saranno designate le comunità preesistenti incorporate nello stato romano. Nel 358 i Volsci furono costretti a cedere la Piana Pontina, gli Ernici parte dei loro territori nella valle del fiume Sacco. In questo anno c’è anche il rinnovo del foedus Cassianum. È probabile che il ripristino del trattato abbia rafforzato la posizione di Roma. Nel 354 terminò la resistenza di Tivoli e Preneste, centri latini. Anche gli etruschi di Tarquinia e Cere siglarono una lunga tregua, insieme al centro falisco di Falerii. Imperialismo difensivo: l’espansione di Roma sia avvenuta senza piani preordinati ma dettata da casuali emergenze difensive necessarie per mantenere il controllo dell’Urbe. Questa visione è stata condizionata dalle fonti romane preoccupate di presentare ogni conflitto come bellum iustum. Il bellum non poteva essere iustum se il nemico: non avesse compiuto prima atti oltraggiosi; non avesse avuto il tempo per le operazioni preparatorie; in mancanza di esse avesse ricevuta una formale dichiarazione di guerra con gli appropriati gesti e preghiere. Roma aggressore? Nati per essere lupi? : alla precedente visione se ne è opposta un’altra secondo cui l’origine delle guerre che portarono all’espansione sarebbero state frutto di una meditata volontà espansionistica basata su due aspetti tipici nati dal conflitto patrizio-plebeo: il militarismo della società romana e il perseguimento di benefici economici. Si avrebbero in atto elementi così schematizzabili: Fattori intrinseci alla città antica (endemicità dello stato di guerra; campagne ogni anno); aspettative e ethos sociale dei romani; un’aristocrazia romana che avrebbe maturato un’attitudine guerriera che trovava corrispettivo nella fama e nel rango sociale Fattori politici Fattori economici: (bottino, premi, arricchimento, terre; schiavi) e demografica Ne deriverebbe una visione unilineare dell’espansione di Roma definita in un piano preordinato. Resta sullo sfondo la questione a chi vada ascritta la regia delle varie operazioni, se ai singoli magistrati forniti di imperium o al senato. Se al senato avremmo la possibilità di pensare a un organismo permanente di lungo respiro. È solo dopo il plebiscito Ovinio (ultimo quarto del IV secolo) con il trasferimento ai censori delle competenze in materia, il senato divenne una struttura stabile e non ricambiabile ad opera dei consoli Anarchia interstatale multipolare: la premessa è che tutti gli stati antichi siano naturalmente bellicosi. Andrebbero riviste le asserzioni che solo Roma fosse uno stato amante della guerra. In tale chiave il militarismo e l’estendersi dello stato sono analizzati nel panorama di un’endemica anarchia interstatale multipolare mediterranea. Sullo sfondo di relazioni internazionali di tipo primitivo Roma costruì un sistema di relazioni a formula multipla. Roma ebbe successo non per la sua brutalità ma per la sua superiorità nel creare reti di alleanze e coinvolgere stranieri nella sua politica. Queste caratteristiche procurarono a Roma ingenti risorse da mettere in campo. Ne scaturì la cosiddetta “confederazione romano-italica”. Il termine federazione rimane improprio poiché erano rapporti bilaterali tra Roma e le singole comunità. Inoltre per stornare un pericolo vicino possono essere intrapresi atti diplomatici, cioè per difendersi si può venire a patti con gli attaccanti o chi sembra incombere contravvenendo ad un’alleanza con un alleato distante. Il primo confronto con i Sanniti: la posizione di potere raggiunta da Roma nel Lazio meridionale trova espressione nel trattato concluso con i Sanniti nel 354 in cui il confine tra le zone di egemonia delle due potenze veniva fissato al fiume Liri. I Sanniti occupavano un’area più vasta di quella controllata da Roma, si estendevano tra i fiumi Sangro e Ofanto: un’area montuosa che consentiva lo sfruttamento agricolo e favorevole alla pastorizia. Tuttavia il Sannio era povero e incapace di sostenere una crescita demografica: l’unico rimedio alle carestie era la migrazione verso terre più fertili. Dal punto di vista politico il Sannio, privo di strutture urbane, era organizzato in cantoni (pagi) entro cui si trovavano più villaggi (vici), governati da un magistrato elettivo chiamato meddiss. Più pagi costituivano una tribù alla cui testa vi era un meddiss toutiks. Le 4 tribù dei Carricini, dei Pentri, dei Caudini e degli Irpini formavano la lega Sannitica che possedeva un’assemblea federale e poteva nominare un capo supremo in caso di guerra. Centro della lega era vicino all’attuale Isernia. Nel V secolo alcune popolazioni staccatesi dai Sanniti occuparono la Campania: qui sotto l’influenza di Etruschi e Greci si allontanarono culturalmente dai loro connazionali rimasti nel Sannio adottando l’organizzazione delle città stato. Alcune di esse si erano riunite in una lega campana, con al centro Capua. Nonostante le affinità etniche, i contrasti politici tra Sanniti e Campani si vennero acuendo. La spinta migratoria delle popolazioni appenniniche non si era esaurita e alla metà del IV secolo i Sanniti continuavano a guardare con interesse le vicine pianure campane. La tensione sfociò in guerra nel 343 quando i Sanniti attaccarono Teano occupata dai Sidicini. Costoro si rivolsero a Capua che a sua volta chiese aiuto a Roma. La decisione di intervenire contro i Sanniti sarebbe venuta solo quando i Capuani decisero di consegnarsi totalmente a Roma con la procedura della deditio in fidem. La prima guerra sannitica (343-341) si risolse con un parziale successo dei romani che sconfissero il nemico a Capua. Tuttavia non fu in grado di proseguire l’offensiva a causa di una rivolta dell’esercito impegnato in Campania quindi acconsentì alle richieste di pace dei Sanniti nel 341. Il trattato rinnovava l’alleanza del 354 riconoscendo a Roma la Campania e ai Sanniti Teano La grande guerra latina e gli strumenti dell’egemonia romana sull’Italia: l’accordo del 341 portò ad un ribaltamento delle alleanze, costringendo Roma, sostenuta dai Sanniti, a fronteggiare Latini, Campani e Sidicini cui si aggiunsero i Volsci e gli Aurunci. L’insoddisfazione di Campani e Sidicini per gli esiti della guerra sannitica si saldò alla volontà dei Latini di distaccarsi dall’alleanza mentre gli Aurunci avevano timore di finire nella stretta romana. Il conflitto (341-338) noto come grande guerra latina fu durissimo. Alla fine il successo arrise ai Romani. La lega Latina venne disciolta: alcune delle città come Lanavium, Aricia e Nomentum vennero incorporate nell’ager romanus, lo stato romano in senso stretto, in qualità di municipi. Il sistema dei munucipia fu prezioso: la concessione della cittadinanza rafforzava il potenziale demografico di Roma e il fatto che venissero mantenute le istituzioni degli sconfitti consentiva un passaggio dolce e graduale. Altre come Ardea conservarono la propria indipendenza formale e i diritti di connubium, commercium e migratio con Roma ma non poterono avere relazioni tra loro. Alle vecchie città latine si aggiunsero le nuove colonie latine composte sia da romani che da alleati. Per gli assetti istituzionali che dovevano essere creati ex novo a differenza dei municipi, questi seguivano gli schemi di Roma. Il dato fondamentale resta che lo status di Latino perse la sua connotazione etnica e venne a configurare una condizione giuridica in rapporto con i cittadini romani. Le comunità vecchie e nuove furono invitate ad inviare soldati a Roma. I Latini ottennero il diritto di voto nelle assemblee popolari di Roma nel caso si fossero trovati in città quando venivano convocati i comizi, pratica attestata la prima volta nel 212 a.C. La nuova concezione dello status latino è dimostrata nel caso di due tra le città ribellatesi a Roma, Tivoli e Preneste: vennero privati dei privilegi di connubium, commercium e migratio e divennero alleati di Roma (socii). Il rapporto veniva creato da trattati (foedera) che pur lasciando autonomia per le magistrature, le norme giuridiche, la lingua e i culti, le legavano alla potenza egemone per la politica estera e le obbligavano a fornire truppe. Questi foedera consentirono a Roma di ampliare la propria egemonia e il proprio potenziale militare. Dal momento che i socii dovevano impegnarsi a mantenere a proprie spese i contingenti di truppe che fornivano, Roma poté mantenere il suo impegno finanziario senza essere costretta a chiedere un tributo diretto Al di fuori dell’antico Lazio Roma attuò una forma parziale di cittadinanza, la civitas sine suffragio. I titolari erano tenuti agli stessi obblighi dei cittadini romani ma non avevano diritto di voto nelle assemblee popolari né potevano essere eletti alle magistrature dello stato; per il resto avevano ampia autonomia interna. I cittadini delle comunità sine suffragio avevano il potere di regolare, da a prevalere su Sanniti e Galli contando su contingenti alleati superiori in numero agli stessi romani, segno che il sistema di egemonia stava cominciando a fruttare. I Sanniti tentarono un’estrema resistenza con una leva di massa e la creazione di un’armata scelta, la legio linteata. L’ultimo esercito sannita venne massacrato dai Romani in una battaglia campale ad Aquilonia (293) e furono costretti a vedere la devastazione del Sannio. Vedendosi obbligati a chiedere la pace nel 290 A nord si ebbe ancora più rilevanza. Gli Umbri ed etruschi conclusero trattati che li legarono a Roma già dopo sentino, nel 294. Un decennio più tardi ci fu un tentativo di Galli di penetrare in Italia centrale ma l’attacco fu bloccato nel 283 nella battaglia del lago Vadimone. La controffensiva romana colpì le città dell’Etruria meridionale, poi quella settentrionale e la vicina Umbria. Queste operazioni e le iniziative diplomatiche sono poco note a causa della perdita dei libri di Livio e Diodoro Siculo. Alla loro conclusione, nel 264 tutte le comunità dell’Etruria e dell’Umbria erano nelle condizioni di socii ad eccezione di Cere, cui fu concessa la civitas sine suffragio; l’area costiera del Tirreno fu presidiata dalla nuova colonia latina di Cosa, fondata presso Ansedonia, vicino Grosseto. È degno di nota l’intervento di Roma a Volsinii nel 265 su richiesta degli aristocratici locali. Dopo un lungo assedio la città fu presa e distrutta e una nuova Volsinii fu rifondata (attuale Bolsena) Nella marcia verso l’Adriatico nel 290 vennero sconfitti i Sabini e Petruzzi. Parte del loro territorio fu confiscato per dedurvi la colonia latina di hadria (Atri); agli altri abitanti dell’ager Praetuttiorum venne concessa la cittadinanza senza diritto di voto, come del resto ai Sabini Nell’Adriatico settentrionale venne annesso il territorio appartenuto un tempo ai Senoni. In questa regione, nota col nome di ager Gallicus venne fondata dopo la conquista la colonia romana di Sena Gallica (Senigallia) e nel 268 la colonia di Ariminum (Rimini). Visitisi circondati i Piceni, che abitavano nelle Marche centro-meridionali tentarono una guerra contro Roma nel 269. Pochi anni dopo furono costretti alla resa: in parte vennero deportati nella regione di Salerno e altri ricevettero la civitas sine suffragio. Conservarono la propria autonomia Ascoli e Ancona (città greca); la conquista del Piceno venne consolidata con la creazione della colonia a Fermo nel 264. Il risultato di queste operazioni fu che in 30 anni dalla battaglia di Sentino Roma portò i confini settentrionali del territorio sotto il suo controllo lungo la linea dall’Arno a Rimini Il conflitto con Taranto: nel Mezzogiorno la situazione era più fluida, i Sanniti erano prostrati ma non domati, alcune popolazioni a loro affini come i Lucani e Bruzi, conservavano la loro indipendenza così come la città più ricca e potente d’Italia, Taranto. Un motivo di tensione in quest’area era costituito dalla spinta espansionistica delle popolazioni italiche dell’interno verso le città greche della costa: per fronteggiare questa minaccia alcune delle vecchie colonie della Magna Grecia si erano strette in un’alleanza, la Lega Italiota di cui Taranto aveva la leadership. Ma la Lega non era riuscita ad impedire l’avanzata né dei Lucani né quella dei Bruzi. Dopo la morte di Archita, filosofo che aveva guidato Taranto e animato l’alleanza delle poleis greche del Mezzogiorno nella sua seconda fase, nel 360 a.C. la lega italiota andò incontro ad un processo di disgregazione che la costrinse all’impotenza. I Tarantini confidarono nell’aiuto della madrepatria Sparta per avere aiuto contro i Lucani; gli Spartani inviarono il loro re Archidamo III che perse la vita nel 338 sotto le mura di Manduria, una città della Puglia. Pochi anni dopo nel 334 i Tarantini fecero appello ad Alessandro il Molosso (zio) affinché li liberasse dalla minaccia delle popolazioni italiche. Le prime operazioni contro le popolazioni della Puglia, i Lucani e i Bruzi furono fortunate ma i rapporti con Taranto si guastarono e il Molosso trovò la morte a Pandosia. Negli anni seguenti si era aggiunta la minaccia di Roma: Taranto aveva richiesto di nuovo l’aiuto di Sparta nel 303. Questa volta fu inviato il principe Cleonimo la cui fama indusse i Lucani a concludere un trattato di pace con Taranto. Anche i romani strinsero patti con la città greca e fu in quest’occasione che si impegnarono a non oltrepassare con le loro navi il Capo Licinio e a non penetrare nel golfo di Taranto. Cleonimo fu costretto a lasciare Taranto. Sbarcato nell’Adriatico settentrionale fu ucciso dai Veneti. Da ultimo i tarantini si erano rivolti ad Agatocle, tiranno e re di Siracusa, intervenuto più volte tra il 298 e il 295 in Italia meridionale contro i Bruzi e Iapigi La morte di Agatocle nel 289 aveva privato i Greci del loro protettore. Nel 285 e nel 282 la città greca di Turi chiese l’aiuto di Roma contro i Lucani. Nelle operazioni di difesa nel 282 i Romani insediarono una guarnigione in città e inviarono una piccola flotta verso Taranto; al contempo Roma corrispose alla richiesta da parte di altre poleis greche come Crotone, Locri e Reggio di invio di un presidio. Con questo atto Roma prefigurava per sé un ruolo di patrona degli Italioti e di egemone nell’Italia meridionale. A Taranto prevalse la fazione democratica ostile a Roma, i tarantini attaccarono le navi romane e poi marciarono su Turi. La guerra divenne inevitabile L’intervento di Pirro: Taranto si vide ridotta a mal partito e richiese il soccorso di un condottiero greco. La scelta di Pirro, comandante della Lega Epirotica era logica in quanto l’Epiro era dirimpettaio della Puglia e Pirro era grande condottiero. Il re diede carattere di crociata in difesa dei Greci d’occidente. Altre parentele richiamavano Pirro in Italia e in Sicilia: era imparentato con Alessandro e poteva rivendicare la ripresa dei progetti di conquista dell’Occidente del Macedone. Pirro aveva sposato Lanassa nel 295, figlia del re di Siracusa Agatocle. Con la sua scomparsa era crollato il suo sistema di egemonia. Nel 280 Pirro sbarcò in Italia con 22.000 fanti, 3.000 cavalieri e 20 elefanti. Per affrontare questo schieramento Roma arruolò i capite censi, i nullatenenti fino ad allora esentati dal servizio militare anche a causa delle guerre in cui Roma era coinvolta in questi anni. Nonostante la superiorità Roma fu sconfitta ad Eraclea anche se costò numerose perdite anche a Pirro. La battaglia di Eraclea mise in pericolo le posizioni romane in Italia meridionale: Lucani e Bruzi raggiunsero Pirro, le città greche meridionali si liberarono dei presidi romani e si schierarono dalla parte del greco; solo Reggio rimase romana. L’alleanza fu completata dai Sanniti che si schierarono contro Roma. Tuttavia Pirro non colse i frutti del suo successo: fallì nel collegarsi con gli etruschi. L’esercito epirota poi era esiguo per assediare Roma per cui Pirro cercò di intavolare trattative di pace, chiedendo libertà e autonomia per le città greche e la restituzione dei territori strappati a Lucani, Bruzi e Sanniti; richieste dure che vennero prese in considerazione dal Senato e furono respinte solo con l’intervento di Appio Cieco. In risposta al fallimento delle trattative Pirro dopo aver rafforzato l’esercito mosse verso l’Apulia settentrionale minacciando Venosa e Luceria. Lo scontro con il nuovo esercito romano inviato per bloccare la sua avanzata avvenne ad Ausculum (Ascoli Satriano) nel 279 vide la vittoria di Pirro ma le sue perdite furono di nuovo ingenti. Pirro aveva vinto due battaglie ma non riusciva a concludere la guerra, Roma sembrava in grado di poter reggere all’infinito mentre i rapporti tra Pirro e i suoi alleati si stavano deteriorando. Pirro accolse le domande di aiuto provenienti da Siracusa che non riusciva più a sostenere la lotta contro i Cartaginesi per il dominio della Sicilia. Pirro pensava che il possesso di quell’isola gli avrebbe consentito di imprimere una svolta decisiva contro Roma. Decise di recarsi in Sicilia con parte del suo esercito mentre un’altra parte rimase di guarnigione a Taranto. Nel 279 però Roma e Cartagine avevano stretto un accordo difensivo che prevedeva la mutua collaborazione militare contro il comune nemico. Polibio attesta che se una delle due avesse concluso la pace con Pirro avrebbe dovuto includere nel trattato la possibilità di soccorrere l’alleato nel caso di un attacco dell’Epirota; inoltre i cartaginesi si impegnavano ad assistere i Romani nelle operazioni che avessero richiesto l’intervento di forze navali Anche in Sicilia Pirro passò di vittoria in vittoria costringendo i Cartaginesi a rinchiudersi a Lilibeo anche se l’assedio di questa fortezza si rivelò inutile dal momento che era rifornita via mare. Pirro cercò di inviare la sua armata navale in Africa ma il progetto fallì per mancanza di uomini e denaro. Anche in Italia la situazione stava precipitando: approfittando dell’assenza del re epirota i romani avevano riconquistato le posizioni. Rispondendo alle domande di aiuto di Sanniti, Lucani e Bruzi Pirro decise di tornare in Italia subendo gravi perdite nello stretto di Messina: parte della flotta fu affondata o catturata. Pirro si vide costretto ad imporre un tributo a Taranto e alle città della Magna Grecia e a saccheggiare i beni sacri dei templi che gli alienarono le simpatie delle colonie greche. Lo scontro decisivo avvenne con le forze romane, al comando di Manio Curio Dentato avvenne nel 275 dove fu poi fondata la colonia di Benevento. Le truppe di Pirro furono messe in fuga. Pirro, tornato in Epiro, morì nel 272, nello stesso anno Taranto si arrese La vittoria romana fu completata con operazioni nel Salento e intorno a Reggio. Taranto fu costretta ad entrare nell’alleanza con Roma e a fornire navi ed equipaggi alla flotta romana. Le città della Magna Grecia non subirono perdite territoriali e conservarono le loro istituzioni. I Lucani dovettero cedere l’area di Posidonia in cui nel 273 fu fondata la colonia di Paestum; ai Bruzi venne confiscata parte della regione del Sila e infine venne sciolta la lega dei Sanniti. Nel 267-266 i Romani passarono all’offensiva anche nella Puglia meridionale costringendo le comunità locali alla conclusione di trattati di alleanza. Ci fu la confisca di alcuni territori nell’area di Brindisi dove nel 244 fu fondata Brundisium. Nel 273 un’ambasceria di Tolomeo II Filadelfo arrivò a Roma per chiederne l’amicizia Il dibattito sul concetto di romanizzazione: col termine romanizzazione si è inteso il processo di uniformazione ai modelli romani della penisola e del Mediterraneo sotto il profilo giuridico, istituzionale, socio-economico e culturale: un processo solo in parte imposto da Roma perché sarebbe stata adesione spontanea delle comunità soggette agli schemi di città egemone. Da qualche decennio il concetto è stato sottoposto a critica, critica che ha le sue ragioni: l’idea di un processo unilaterale e unidirezionale disconosce l’apporto di fatto l’attraversamento dello Stretto da parte dell’esercito guidato da Appio Claudio Caudice aprì la prima guerra punica (264-241). I primi anni di guerra furono decisivi: il presidio cartaginese di Messina sgombrò la città e i romani respinsero la controffensiva dei cartaginesi e siracusani. Nel 263 il re Ierone comprese che l’alleanza con Cartagine era pericolosa: decise di concludere una pace dai termini moderati, che gli impose sono il pagamento di un modesto indennizzo e che lo lasciò in possesso di un ampio territorio in Sicilia e di schierarsi con Roma. Il suo sostegno si rivelò importante per Roma negli inverni 262-261 per il rifornimento. In questi anni cadde in mano romana la base cartaginese di Agrigento, fu questo successo a decidere la totale espulsione dei cartaginesi dalla Sicilia grazie alla sua superiorità navale Cartagine conservava il controllo delle località costiere della Sicilia: a Roma si decise la creazione di una flotta di quinquiremi contando anche sull’aiuto dei socii navales che fornirono navi e marinai. Nel 260 ci fu una grande vittoria del console Caio Duilio sulla flotta cartaginese a Milazzo, attribuita ai corvi. La vittoria di Milazzo fu accompagnata da più modesti successi sulla terra, dove i romani presero il controllo su Camarina ed Enna. A questo punto i Romani decisero di attaccare direttamente Cartagine sui suoi possedimenti africani: l’invasione iniziò nel 256 sotto i migliori auspici: la flotta romana sconfisse quella cartaginese a capo Ecnomo, promontorio ad est di Agrigento e fece sbarcare l’esercito a capo Bon in Africa. Le prime operazioni furono favorevoli a Marco Attilio Regolo che devastò il territorio agricolo della rivale, conquistò Tunisi dove si accampò. Tuttavia Regolo non sfruttò questi successi: fece fallire le trattative di pace rafforzando la determinazione dei Cartaginesi e non portò i nemici africani di cartagine dalla sua parte. Nel 255 Regolo venne battuto da un esercito cartaginese comandato dal mercenario spartano Santippo. La flotta romana incappò in una tempesta e perse parte di navi ed equipaggi il duplice smaccò allontanò la fine rapida della guerra: le posizioni che i cartaginesi tenevano sulla costa della Sicilia occidentale, tra cui Trapani e Lilibeo, potevano essere prese solo se bloccate via mare e via terra. Nel 249 la flotta romana comandata da Publio Claudio Pulcro su sconfitta nella battaglia navale di Trapani; una seconda flotta guidata da Lucio Giulio Pullo, dopo aver sbarcato i soldati impegnati nell’assedio a Lilibeo, si espose ad una tempesta e andò distrutta. Roma era priva dei mezzi per approntare una nuova flotta ma anche i Cartaginesi non seppero sfruttare la loro superiorità sui mari mentre via terra facevano operazioni di disturbo e scaramucce guidate da Amilcare Barca. A partire dal 247 un esercito punico fu impegnato in una campagna in Africa per sedare i Numidi, accesisi con l’arrivo di Attilio Regolo. Amilcare riuscì comunque ad occupare Erice e a fortificare una piazzaforte che minacciava i Romani a Palermo. Solo tempo dopo Roma costruì una seconda flotta ricorrendo a prestiti di guerra dei cittadini più facoltosi; venne allestita una flotta di 200 quinqueremi, non più dotate di corvi. La nuova armata fu inviata nel 242 al comando di Caio Lutazio Catulo a bloccare Trapani e Lilibeo. La flotta cartaginese fu intercettata alle Egadi nel marzo 241. La vittoria di Lutazio Catulo fu schiacciante, buona parte della flotta punica fu distrutta o catturata; Amilcare Barca venne incaricato di chiedere la pace. Le clausole furono dettate dallo stesso Lutazio Catulo, affiancato da una commissione senatoriale e prevedevano lo sgombero della Sicilia e delle isole tra la Sicilia e l’Italia (le Lipari e le Egadi), la restituzione dei prigionieri di guerra e il pagamento di un indennizzo. La prima provincia romana: dopo la prima guerra punica Roma era in possesso di un ampio territorio al di fuori della penisola, costituito dalle regioni della Sicilia centro-occidentale, territorio considerato fuori dall’Italia. il sistema con cui Roma integrò questi nuovi possedimenti segnò una svolta nella sua storia istituzionale. Nella penisola, città e popolazioni erano state incorporate nello stato romano o legate da trattati che prevedevano l’invio di truppe in aiuto della potenza egemone ma non un’imposizione in denaro e veniva lasciata una larga autonomia interna. In Sicilia il metodo fu diverso: alle comunità soggette un tempo a Cartagine venne imposto un tributo annuale, consistente in una parte dei cereali raccolti di cui la Sicilia era produttrice. Il tributo era un decimo della produzione; questo grano fu uno dei presupposti per il decollo demografico della città e per l’approvvigionamento dei soldati romani nel Mediterraneo. Insieme all’esazione di un tributo, l’amministrazione della giustizia, il mantenimento dell’ordine interno e la difesa dalle aggressioni esterne vennero affidati ad un magistrato romano uno dei 4 questori della flotta (quaestores classici) creati per la prima volta nel 267. Dal 227 vennero eletti due nuovi pretori: uno dei due nuovi magistrati venne inviato in Sicilia, l’altro in Sardegna, da poco caduta sotto Roma. Da ora il termine provincia, che prima indicava solo la sfera d’influenza di un magistrato, assume il significato di territorio soggetto all’autorità di un magistrato romano Nei suoi compiti, il governatore provinciale era assistito da un personale limitato: ricordiamo un questore, che lo assisteva in materia di finanze, e alcuni legati, giovani aristocratici all’inizio della loro carriera politica, che collaboravano col governatore nell’amministrazione della giustizia; lo staff era completato da un gruppo di funzionari e impiegati al livello inferiore. La debolezza dell’apparato burocratico provinciale costrinse la Roma repubblicana ad affidarsi a compagnie di privati cittadini che prendevano in appalto il servizio di riscossione delle tasse; ciò fu fonte di abusi ai danni dei provinciali perché le compagnie di publicani (era il loro nome) tendevano a spremere per ricavare il massimo guadagno. Per l’amministrazione della giustizia solo i reati di maggior rilievo erano giudicati dal governatore provinciale, assistito dai suoi legati in assise che si tenevano nelle maggiori città della provincia, dette conventus (termine che assume una connotazione territoriale). I delitti meno gravi erano a cura dei tribunali delle comunità locali La prima provincia di Sicilia non si estendeva su tutta l’isola: esistevano stati formalmente indipendenti, tra cui la Siracusa di Ierone e Messina il cui foedus con Roma venne rinnovato, quindi era qualificata come civitas foederata. All’interno del territorio provinciale esistevano le civitates liberae et immunes: il loro privilegio consisteva nell’essere libere dal controllo amministrativo e giudiziario del governatore romano e immuni dal pagamento del tributo in base a decisione unilaterale romana, che poteva anche revocare i privilegi, a differenza delle civitates foederatae. Le restanti città della provincia di Sicilia erano note con nome di civitas stipendiariae, poiché soggette al pagamento del tributo. L’elenco era contenuto in un documento chiamato formula provinciae che definiva l’estensione della provincia stessa. Di regola i principi dell’amministrazione di ciascun distretto soggetto a Roma dovevano essere enunciati nella lex provinciae che contenevano prescrizione sulle imposte e le loro forme di riscossione. La lex provinciae poteva essere dettata dallo stesso conquistatore della regione e dalla commissione senatoriale. Forse per qualche provincia la lex non fu mai emanata. La distanza da Roma e le difficoltà di mantenere con le province una rapida comunicazione concedeva ai governatori provinciali una ampia libertà d’azione. Di contro, l’annualità della carica e l’obbligo dei governatori provinciali di sottoporre al senato un rendiconto impedirono che le province potessero trasformarsi in un feudo personale La rivolta dei mercenari e la conquista romana della Sardegna e della Corsica: il periodo dalla fine della prima guerra (241) all’inizio della seconda (218) vide il consolidarsi delle posizioni di entrambe le contendenti. Per Cartagine i primi anni dopo la sconfitta furono drammatici: spossata finanziariamente, non era in grado di pagare i mercenari che avevano combattuto contro i romani. I mercenari si ribellarono coinvolgendo popolazioni africane soggette a Cartagine. Il compito di sedare la rivolta fu affidato ad Amilcare Barca. La ribellione dei mercenari in Africa si era estesa alle guarnigioni della Sardegna, che avevano fatto appello ai romani. Quando i Cartaginesi allestirono una spedizione per riprendersi l’isola i mercenari rinnovarono le loro richieste ai Romani che decise di intervenire. Cartagine fu accusata di preparare la nuova guerra in cui Roma si disse pronta ad intervenire. I cartaginesi si piegarono accettando di pagare un indennizzo supplementare e cedettero la Sardegna e la Corsica che andarono a formare la seconda provincia romana (237) L’umiliazione subita suscitò un sentimento di rivalsa e di revanscismo nei cartaginesi e fu uno dei motivi dello scoppio della seconda guerra. La Sardegna fu il secondo granaio per Roma dopo la Sicilia anche se dovette mandare contingenti per sedare le frequenti rivolte. Forse fu l’esigenza di un controllo militare costante, coordinato da un magistrato dotato di imperium che indusse nel 227 alla creazione di due nuovi pretori come governatori provinciali, uno per la Sardinia et Corsica, l’altro per la Sicilia. In seguito la pretura si specializzò nell’ambito della giustizia mentre fu evidente che il sistema della proroga dell’imperium era più appropriato per affrontare le crescenti esigenze militari che Roma doveva affrontare, quindi fu comune l’invio di proconsoli e propretori come governatori Le campagne di Roma in Adriatico e in Italia settentrionale: pochi anni dopo Roma intervenne nell’Adriatico. Qui il regno dell’Illiria, approfittando della debolezza dell’Epiro, aveva esteso la sua influenza sulla Dalmazia. Le scorrerie dei pirati illiri arrecavano danni alle città greche sull’adriatico. Il senato inviò proteste alla regina degli Illiri, Teuta, e dopo l’assassinio di uno dei suoi ambasciatori decise di dichiarare guerra (229). La prima guerra illirica si risolse velocemente a favore di Roma. Teuta cedette la reggenza, agli Illiri fu proibito di navigare con più di due navi a sud di Lissus e dovettero rinunciare alle pretese sulle città greche sull’Adriatico. Roma fece annunciare il suo successo sui pirati anche in alcuni stati della Grecia: Corinto, Atene e alla lega degli Achei e Etoli. Per questo i romani vennero invitati a partecipare ai giochi itsmici a Corinto; ciò equivaleva a dargli una patente di grecità alla potenza egemone dell’Adriatico. Qualche anno dopo intervenne di nuovo in Illiria a seguito degli atti ostili di Demetrio di Faro di cui si temeva l’alleanza con Filippo V macedone. La seconda guerra fu risolta ancora più velocemente: Demetrio fuggì presso Filippo, creando le premesse per un’ostilità tra i romani e la Macedonia. Nel 241 Roma distrugge il centro di Falerii e lo rifonda nel piano rafforzando il suo dominio sull’Etruria meridionale. Sempre nel 241 furono create le ultime due tribù rustiche: la Quirina, vicino Rieti, e la Velina, sulla costa adriatica del Piceno. provvedimento senza precedenti che vuotava la dittatura del suo carattere peculiare ed essenziale. Scaduti i sei mesi della dittatura a Roma si decise di passare nuovamente all’offensiva ma nel 216 Annibale sconfisse gli eserciti dei consoli Caio Terenzio Varrone e Lucio Emilio Paolo a Canne in Puglia. La battaglia è considerata il capolavoro di Annibale. L’enorme impressione destata gli consentì di mettere in atto il processo di disgregazione del sistema di egemonia romana sull’Italia. per Livio Annibale avrebbe cercato di appoggiarsi all’elemento popolare e democratico delle comunità italiche mentre gli elementi aristocratici erano filoromani. Questa interpretazione non resiste a un’analisi più stringente delle defezioni dei socii di Roma a favore di Annibale, nemmeno del caso di Crotone da cui Livio prendeva spunto. Nella maggior parte dei casi la ribellione venne causata dagli elementi aristocratici rimasti esclusi dal potere. Una seconda interpretazione ha rintracciato una strategia ellenistica di Annibale che puntava ad accattivarsi le città magnogreche con la promessa di libertà e autonomia. Secondo invece l’approccio realistico le singole comunità conducono le proprie relazioni internazionali come soggetti pienamente autonomi, agiscono guidate da considerazioni concrete e razionali e hanno come obiettivo principale la propria sicurezza. Questa interpretazione suscita perplessità: nel contesto dell’Italia antica non sembra possibile liquidare come astratti concetti come la lealtà agli impegni assunti o la difesa della propria identità culturale Dopo Canne numerose comunità alleate dell’Italia meridionale defezionarono: la maggior parte dei Sanniti, dei Lucani e dei Bruzi; nella Puglia settentrionale abbandonò l’alleanza con Roma la città di Arpi. Tra le poleis della Magna Grecia che si schierarono con Cartagine ci sono Metaponto, Turii, Crotone e Locri. La stessa Capua fu indotta a passare dalla parte dei Cartaginesi dalla promesse di Annibale di diventare la città egemone dell’Italia. Roma subì due gravi colpi nei teatri extra-italici: nel 215 Ierone di Siracusa morì e gli successe il nipote Ieronimo che decise di schierarsi dalla parte di Cartagine. Nello stesso anno i romani vennero a sapere del patto tra Filippo V e Annibale La seconda guerra punica: la ripresa di Roma e la vittoria: la guerra pareva perduta per Roma. Fu decisivo il fatto che gli alleati dell’Italia centrale rimasero fedeli a Roma dimostrando che Annibale non aveva ben compreso i rapporti tra le città. Anche in Italia meridionale la propaganda cartaginese aveva avuto risultati solo parziali. La confermata fedeltà di Reggio alla causa romana è motivata dal fatto che Locri e i Bruzi erano passati dalla parte di Annibale (ostilità tra Reggio e quei popoli). Ad Arpi quella stessa aristocrazia che era passata dalla parte dei Romani nel 214-213 riconsegnò la città ai romani il ritorno alla strategia attendista di Fabio Massimo consentì a Roma di riguadagnare le posizioni perdute nel Mezzogiorno ricorrendo ad arruolamenti straordinari di schiavi con la promessa di libertà. Nel 212 anche Taranto si schierò dalla parte dei Cartaginesi ma un piccolo presidio romano continuò ad occupare la cittadella e a sorvegliare il porto, impedendo via mare l’arrivo di soldati ad Annibale. Nel 211 Capua venne riconquistata anche negli altri teatri di guerra le cose volgevano al meglio per Roma. In Sicilia le forze romane, al comando di Marco Claudio Marcello, riuscirono nel 212 a conquistare Siracusa dopo un lungo assedio. Un esercito cartaginese, sbarcato ad Agrigento fu decimato da un’epidemia e non oppose resistenza all’offensiva romana che ristabilì il controllo sull’isola. Nell’Adriatico una flotta di 50 quinqueremi si rivelò insufficiente per impedire ciò che i Romani temevano: un’invasione da parte di Filippo V. le operazioni contro il re in questa prima guerra macedonica coinvolsero solo una parte limitata delle truppe romane. Roma creò una lega di Stati greci ostili al re tra cui primeggiava la lega etolica. Roma nel 205 si affrettò a chiedere la pace vedendo che gli Etoli non avevano intenzione di proseguire. La pace è nota col nome di pace di Fenice e lasciò le cose immutate. La svolta decisiva si ebbe in Spagna. Dopo la sconfitta sul Trebbia Publio Cornelio Scipione aveva raggiunto in Spagna il fratello Cneo. I due Scipioni impedirono che dalla Spagna arrivassero rinforzi ad Annibale. Nel 211 però furono costretti ad affrontare le superiori forze cartaginesi e vennero sconfitti e uccisi. I romani decisero di difendere la Spagna settentrionale fino a quando venne nominato comandante delle truppe in Spagna Publio Cornelio Scipione l’Africano. Nel 209 si impadronì di Nuova Cartagine e sconfiggendo Asdrubale (fratello) a Baecula. Tuttavia Asdrubale riuscì a valicare le Alpi andando verso Annibale ma venendo intercettato dai consoli Marco Livio Salitore e Caio Claudio Nerone, morendo sul campo. Annibale si vide costretto a ritirarsi nel Bruzio. Scipione sconfisse gli eserciti cartaginesi di spagna nella battaglia di Ilipa nel 206. Tornato in Italia Scipione fu eletto console per il 205 ed iniziò i preparativi per l’invasione dell’Africa. La sua posizione prevalse però vennero inviati solo i sopravvissuti di Canne. Scipione arruolò comunque dei volontari. Molto importante per Roma fu l’alleanza con Massinissa, re dei Numidi Massili in rivolta contro Cartagine. Lo sbarco in Africa avvenne nel 204 e l’anno dopo Scipione e Massinissa colsero una vittoria nella battaglia dei Campi Magni. Le trattative di pace fallirono. La battaglia che pose fine alla guerra fu combattuta nel 202 a Zama, vinta dai romani. Il trattato di pace, siglato nel 201 prevedeva la consegna di tutta la flotta cartaginese tranne 10 navi e il pagamento di una fortissima indennità e la consegna dei prigionieri di guerra. I Punici cedettero tutti i territori al di fuori dell’Africa. In Spagna Roma creò due nuove province: Spagna Citeriore a nord e Spagna Ulteriore a sud. Cartagine dovette riconoscere il potente regno di Numidia, legato a Roma da un rapporto simile a quello tra patrono e clienti; per questo motivo si ricorda i cosiddetti re clienti, noti nella documentazione antica come reges rocii et amici populi romani. Ai cartaginesi non era concesso dichiarare guerra senza consenso di Roma, cosa che mise in difficoltà Cartagine contro Massinissa. L’eredità di Annibale: è indubitabile che la strategia di Annibale di disgregare il sistema di controllo di Roma sull’Italia ebbe come effetto di indurre la città egemone ad affermare in forme più rigide il controllo. Questo nuovo indirizzo divenne più evidente già nelle fasi finali del conflitto con Annibale, nei provvedimenti presi contro gli italici. Un gruppo di 12 colonie latine che nel 209 avevano dichiarato di non poter fornire gli uomini richiesti furono punite nel 204 da Roma imponendo di mettere a disposizione un numero ancora più alto di uomini e il versamento di un tributo speciale dell’uno per mille; si ordinò anche che i censimenti locali fossero condotti secondo le regole romane. Dura fu la punizione inflitta a Capua: la città fu privata dei suoi organi di autogoverno e la giustizia venne amministrata dai prefetti inviati da Roma; tratti del fertile ager campanus vennero sequestrati ed entrarono a far parte del demanio pubblico. Due confische colpirono anche le comunità dell’Apulia, del Sannio, della Lucania e del Bruzio che avevano defezionato a favore di Annibale: l’estensione dell’ager publicus di Roma nel Mezzogiorno d’Italia ne risultò ampliato Parte di questi territori demaniali rimase indivisa. In altre oggetti di confisca vennero installati cittadini romani, in particolare veterani dell’esercito. Altre videro un programma di fondazione di colonie, impostato dal 197 e concluso nel 192: prevedeva la fondazione di 8 colonie di diritto romano col consueto contingente di 300 capifamiglia: in Campania vulturnum, Liternum e Puteoli; in Puglia Sipontum; nel territorio confiscato ai Picentini Salernum; sulle coste della Lucania Buxentum; nel Bruzio Crotone e Tempsa. Il programma fu completato con la deduzione di due più forti e popolose colonie latine, entrambe in Calabria: Copia (vecchia città di Turii) e Valentia. Scopo primario era creare capisaldi per il controllo delle popolazioni italiche locali. Questo programma ebbe esiti diversi: se buxentum e Sipontum apparivano disabitate e necessitarono, un grande successo ottenne Puteoli, che divenne il più importante scalo marittimo dell’Italia marittima e un buon successo lo ottennero anche Copia e Valentia. Solo qualche decennio dopo, dopo la metà del II secolo, pare risalire la grande arteria di comunicazione del Mezzogiorno. Sul piano economico e sociale il dato più importante è la crisi dei piccoli e medi proprietari terrieri che costituivano la classe sociale più importante dell’Italia, dal punto di vista quantitativo e qualitativo. Questa crisi ebbe diverse motivazioni: vanno ricordate le perdite di vite nell’esercito nell’ordine di migliaia di caduti: a causa di ciò la crisi demografica innescata nella seconda guerra punica si prolungò nei suoi effetti anche nelle generazioni successive. In seconda analisi non si può sottovalutare il peso delle distruzioni materiali causate dagli eserciti contrapposti. Da rammentare anche le confische e riduzioni di ager publicus di quelli che erano passati dalla parte di Annibale. Gli sviluppi che si ebbero nel II secolo non fecero che acuire i germi della crisi della piccola e media proprietà contadina. Anche qui le ragioni possono essere molteplici: decisivo fu il fatto che le grandi guerre di conquista continuarono ad assorbire masse sempre più grandi e per periodi più lunghi i contadini-soldati. La cura dei campi divenne un intermezzo tra una campagna e l’altra. Ciò portò all’inurbamento dei contadini spossessati dei loro terreni o comunque impoveriti. Gli inizi della grande crescita demografica di Roma si datano proprio al II secolo. Nel frattempo in alcune aree della penisola si andava affermando un modello di sfruttamento del territorio alternativo a quello della piccola famiglia di agricoltori che coltivavano per l’autoconsumo. L’aristocrazia romana estese le sue proprietà investendo nelle terre conquistate e usurpando terreni di proprietà dello stato o di qualche piccolo proprietario. Un plebiscito proposto dal tribuno della plebe Quinto Claudio, risalente al 219 o al 218 vietava ai senatori di possedere navi di capacità superiore alle 300 anfore. Le clausole del plebiscito furono aggirate con i prestanome. Nelle tenute di proprietà dell’élite lavorava una massa crescente di schiavi i quali non erano soggetti al servizio militare quindi potevano essere disponibili in modo permanente e quando uno di essi moriva poteva essere rimpiazzato. I mercati del II secolo pullulavano di persone che avevano perso la libertà, in particolare di prigionieri di guerra ma anche persone rapite dai pirati o bambini venduti dai genitori. Nelle proprietà terriere coltivate da schiavi si affermano coltivazioni intensive, in particolare quella dell’ulivo e della vite. Si afferma il modello economico della Villa, reso paradigmatico dal de agri cultura di Catone. In alcune zone dell’Italia, in particolare nelle regioni pianeggianti del Tirreno centrale si passò da un’agricoltura di sostentamento a una 187 alcuni tribuni della plebe accusarono Lucio Scipione, vincitore di Antioco III, di essersi impadronito di una parte dell’indennità di guerra di Antioco III. Solo il veto di uno dei tribuni impedì che Lucio Scipione nel 184 fosse condannato a pagare una pesantissima multa. Nello stesso anno l’attacco venne rinnovato contro l’Africano che decise di ritirarsi nella sua proprietà in Campania dove morì l’anno successivo. Il processo agli Scipioni, ispirato da Catone il Censore, era un attacco al prestigio personale dell’Africano. In questa temperie trovava spiegazione la legge Villia promulgata nel 180 che introdusse l’età minima per rivestire le diverse magistrature e un intervallo di biennio tra una carica e l’altra. La legge Villia riprendeva e affiancava numerose disposizioni e consuetudini precedenti come quella che proibiva di rivestire un secondo consolato entro un decennio dalla prima elezione. Allo stesso tempo il diffondersi del culto di Bacco è segno di tensione religiosa e culturale ma che poteva avere anche risvolti politici. Si identificavano i devoti a Bacco gli esponenti delle classi inferiori anche se oggi questa lettura appare meno convincente. La reazione del governo fu durissima: nel 186 il Senato diede mandato ai consoli di condurre un’inchiesta. I Baccanali andavano stroncati in ogni modo. Preoccupava che i devoti di Bacco si fossero dati un’organizzazione interna che poteva configurarsi come uno stato dentro lo stato o meglio contro lo stato romano. La terza guerra macedonica: la pace di Apamea aveva espulso il regno di Siria dallo scacchiere dell’Egeo. Nell’area c’era la Macedonia che aveva ambizioni di riscossa contro Roma. Un’ombra dei rapporti tra Filippo V e Roma si ebbe all’indomani di Apamea quando le ambizioni di Filippo sulle coste della Tracia vennero frustrate dai romani anche su impulso di Eumene II. Negli stessi anni la posizione di Roma in Grecia si fece più delicata. Nel 179 la morte aveva messo fine al lungo regno di Filippo V: gli era succeduto il figlio Perseo. L’elemento democratico e nazionalista all’interno di molte città greche cominciò a volgersi verso Perseo. Questo fatto fu sufficiente per Roma per fare del re una minaccia per il sistema egemonico sul mondo greco. Nel 172 Eumene si presentò a Roma con una lunga lista di accuse contro Perseo. I preparativi di guerra iniziarono nel 172 ma le prime operazioni ci furono nel 171 dopo che le trattative per raggiungere un accordo fallirono Nei primi anni di guerra i comandanti romani si distinsero per le rapine commesse ai danni di molte città greche. Il re macedone ottenne un aiuto concreto solo dai Molossi e dal re d’Illiria Genzio. La svolta si ebbe nel 168: Genzio venne sconfitto in una fulminea campagna mentre Perseo fu costretto dal console Lucio Emilio Paolo ad accettare battaglia campale a Pidna, dove fu sconfitto Perseo fu portato prigioniero in Italia e la monarchia abolita in Macedonia. Qui si vide come Roma non desiderasse ancora assumere il controllo diretto di una regione caduta in suo potere e come il sistema della provincia non fosse l’unico con cui potesse esercitare la propria egemonia. La regione fu divisa in 4 repubbliche che non potevano avere rapporti. 3 delle repubbliche poterono conservare modeste forze armate ma fu loro impedito di sfruttare il legname per la costruzione di navi e di estrarre oro e argento dalle miniere. I 4 stati dovevano pagare tributo a Roma Negli altri stati greci la moderazione di cui Roma aveva dato prova fu messa da parte: le fazioni aristocratiche romane vennero messe al potere. La lega achea fu costretta a consegnare 1.000 persone di lealtà sospetta che furono deportate e processate a Roma (c’era anche Polibio). I Molossi furono puniti con la totale devastazione del loro territorio e la riduzione in schiavitù di migliaia di uomini. Rodi fu privata della Caria e della Licia e vide la creazione di un porto franco a Delo. Qualche anno dopo la sconfitta di Perseo si ebbe conferma che la politica estera di Roma era indirizzata verso minacce più teoriche che reali. Una delegazione romana giunse ad Alessandria da Antioco IV inducendolo a ritirarsi dall’Egitto. Lo stesso Eumene cadde in disgrazia agli occhi dei romani. La terza guerra macedonica portò all’abolizione nel 167 del tributum ossia l’imposta sulle proprietà dei cittadini romani creata nel 396 alla presa di veio per finanziare la paga dei soldati. In età tardo-repubblicana il tributum fu reintrodotto solo in casi eccezionali. La quarta guerra macedonica e la guerra acaica: in venti anni divenne evidente che la sistemazione data da Roma all’area greca era inadeguata. Tesi erano i rapporti con la Lega achea (deportazione dei 1000 achei). La morte di Callicrate, fedele di Roma, e la secessione di Sparta dalla lega crearono una rivolta in Macedonia. Qui Andrisco, facendosi passare per figlio di Perseo raccolse forze in Tracia ma venne eliminato nel 148 da Quinto Cecilio Metello il senato si occupò poi degli Achei ordinando che dalla lega si staccassero anche Argo e Corinto. Ciò avrebbe segnato la fine della Lega come organismo con qualche rilevanza politica. L’assemblea della lega decise la guerra contro Roma che fu brevissima. Metello invase il Peloponneso e il comando venne rilevato dal nuovo console, Lucio Mummio che sconfisse l’esercito acheo. Corinto fu saccheggiata e distrutta nel 146. La Macedonia fu ridotta a provincia, tutte le leghe vennero sciolte o ridotte all’impotenza la terza guerra punica: nello stesso anno in cui Corinto fu data alle fiamme veniva distrutta anche Cartagine. Dopo la rovinosa sconfitta di Annibale Cartagine si era ripresa con rapidità tanto che saldò con anticipo le rate di guerra e fu in grado di fornire quantità di grano per gli eserciti romani e Roma. Nel 196 Annibale fu eletto a uno dei due posti di massimo magistrato. I suoi oppositori lo denunciarono a Roma accusandolo di macchinare con Antioco III; il cartaginese decise di prendere la via dell’esilio. Un elemento che poteva turbare la situazione nell’Africa settentrionale era il conflitto con Massinissa che nel II secolo avanzò pretese ambiziose sui territori appartenenti a Cartagine, la quale si rivolse a Roma senza essere ascoltata. Nel 151 dopo che Massinissa aveva inglobato gli empori a Cartagine prevalse il partito della guerra e Asdrubale fu inviato contro Massinissa. L’esercito cartaginese fu fatto a pezzi. La violazione dei patti del 201 diede voce a Roma a chi premeva per la distruzione di Cartagine. Nel 149 un imponente esercito sbarcò in Africa, potendo contare anche su Utica che si era spontaneamente consegnata ai romani. I cartaginesi cercarono di evitare la guerra mettendo a morte Asdrubale ma niente. Alla fine decisero di resistere ad oltranza. Iniziò un lungo e difficile assedio. La situazione si sbloccò solo nel 146 quando sotto il comando di Publio Cornelio Scipione Emiliano riuscì a prendere Cartagine che fu saccheggiata e rasa al suolo e il suo territorio trasformato nella nuova provincia d’Africa con capitale Utica. Il nuovo territorio era votato alla produzione di cereali. La necessità di fronteggiare la temibile Cartagine aveva portato tutte le componenti sociali a fare quadrato per la difesa dello stato. Scomparso il pericolo esterno la Repubblica ripiombò nelle contese interne che divennero vere e proprie guerre civili La Spagna: Polibio non poteva scegliere anno migliore del 146 con le rovine di Cartagine e Corinto come punto finale della sua storia in cui raccontò di come Roma aveva conquistato l’egemonia incontrastata sul Mediterraneo. Eppure non era riuscita a venire a capo della situazione in Spagna. All’indomani della seconda guerra punica i Romani si erano stabiliti in due zone: nel meridione attorno a Cadice e alla vallata del Guadalquivir, a settentrione nella zona della costa mediterranea. Nel 197 le due aree vennero organizzate nelle province della Spagna Citeriore a nord e Ulteriore a sud governate da due propretori eletti. Il confine tra le due città corrispondeva più o meno a Nova Carthago. Le comunità spagnole soggette a Roma dovevano pagare un tributo, detto stipendium e fornire truppe ausiliarie. Vi era la riscossione delle tasse sulla produzione agricola e lo sfruttamento, seppur indiretto, delle risorse minerarie: il diritto di estrazione era riservato ai privati dietro pagamento di un canone Inizialmente le due province comprendevano solo le regioni costiere della Spagna meridionale e del Levante. La penetrazione verso l’interno si rivelò lenta e difficile tanto che la sottomissione completa della penisola iberica si ebbe solo con Augusto. Le costanti guerriglie perpetrate delle tribù iberiche costrinsero Roma a lasciare sempre grossi eserciti. Gli eserciti romani quasi mai riuscirono a impegnare il nemico in scontri campali. La durezza dei magistrati per districarsi dalla situazione costrinse nel 149 a creare un tribunale speciale e permanente, incaricato di giudicare il reato di concussione, la quaestio perpetua de reputendis (tribunale permanente su ciò che deve essere restituito) che estese le sue competenze su tutti i casi di abuso di potere. L’atteggiamento assunto da due figure di governatori delle province spagnole, Marco Porcio Catone e Tito Sempronio Gracco è esemplificativo degli approcci tentati da Roma nella regione. Catone venne inviato in Spagna nel 195 in qualità di console e procedette con energia alla sistematica sottomissione delle tribù della valle dell’Ebro. Tuttavia i suoi successi furono effimeri tanto che Roma inviò truppe nella Penisola Differente la politica di Sempronio Gracco, padre dell’omonimo tribuno della plebe. Governatore della Spagna Citeriore tra il 180 e il 178 dopo successi militari tentò di rimuovere l’atteggiamento ostile verso Roma. Furono conclusi trattati di pace che assicurarono qualche anno di respiro. I conflitti si riaccesero alla metà del II secolo. Dopo la conclusione della difficile guerra contro i Lusitani, guidati da Viriato, la lotta si concentrò intorno alla città celtibera di Numanzia, nella Spagna settentrionale. Nel 137 sotto le mura della città il console Caio Ostilio Mancino, sconfitto, fu costretto a firmare una pace umiliante per Roma, che fu disconosciuto dal Senato e la guerra numantina fu affidata a Scipione l’Emiliano, eletto per la seconda volta al consolato nel 134. sulle difficoltà di approvvigionamento granario di Roma pochi anni prima dell’intervento di Caio Gracco. Di grandissima rilevanza è il monumentum Ephesenum che conserva il regolamento doganale della provincia d’Asia e le sue integrazioni Dai gracchi alla guerra sociale (121-88): dei libri di Livio sopravvivono solo le Periochae e le epitomi. La guerra Giugurtina di Sallustio ci ha lasciato uno dei primi esempi di monografia storica della letteratura romana. Utili sono anche i capitoli 27-54 del I libro delle guerre civili di Appiano e le vite di Mario e Silla di Plutarco tra le fonti non storiografiche meritano un posto di rilievo le opere di Cicerone: l’orazione in difesa di Caio Rabirio accusato di alto tradimento. Importanti sono le sue opere filosofiche e i trattati teorici a proposito dei materiali documentari diretti alcuni cippi confinari iscritti, miliari, iscrizioni frammentarie e scavi di fondazioni coloniarie aiutano a comprendere il processo di distribuzione delle terre dopo i Gracchi. Tra i singoli documenti epigrafici in lingua latina c’è la Sententia Minuciorum detta anche Tavola di Polcevera e la Tabula Contrebiensis in cui i giudici della città spagnola di Contrebia Belaisca vennero chiamati a sciogliere un contrasto tra diverse tribù celtibere. Dalla Lusitania viene la Deditio di Alcantara, testo importante per chiarire la procedura effettiva della deditio, mentre la Legge Latina della Tabula Bantina è di carattere giudiziario promulgata nel II secolo. Importante per la guerra sociale e i problemi della concessione della cittadinanza romana il decreto di Cn. Pompeo Strabone da Asculum. Al 105 si fa risalire la lex parieti faciundo da Pozzuoli. Abbondante la tradizione epigrafica in lingua greca ricade in questo periodo la lex Piratica o lex de Provinciis Praetoris. Va segnalato anche un documento epigrafico bilingue, latino-greco, il senatoconsulto su Asclepiade di Clazomene l’età dei Gracchi (133-121): una svolta epocale? La tradizione storiografica aristocratica ha identificato nell’età dei Gracchi l’origine della degenerazione dello stato romano non più fondato sulla solidarietà civica e sul rispetto della tradizione, e l’inizio del tempo delle guerre civili Mutamento degli equilibri sociali: la guerra annibalica aveva inferto ferite ai terreni agricoli italici e ai suoi assetti economici. Le continue campagne belliche oltremare avevano tenuto i Romani lontano dai campi. Le conquiste esterne avevano però comportato un consistente afflusso di ricchezze nelle mani di pochi, un ampliamento degli orizzonti e delle occasioni di sfruttamento e di mercato, un’enorme massa di schiavi e una penetrazione di idee greche in Italia. in possesso di Roma erano caduti bottini bellici consistenti. Gli indennizzi imposti ai vinti, le tasse e i gravami avevano fatto affluire a Roma grandi ricchezze che avevano modificato una struttura sociale ed economica fino ad allora essenzialmente agricola. Le indennità, i bottini ecc. diedero impulso ad un’attività di sfruttamento e di opere pubbliche, lavori che furono appaltati a privati. I romani e gli italici si erano introdotti anche nel grande commercio: i negatiores avevano iniziato ad installarsi nelle province recentemente acquisite. Questi Romaioi (chiamati così dai greci) esercitavano professioni bancarie che avevano fatto la fortuna di molti senatori e avevano favorito l’ascesa degli equites, la cui ricchezza era un tempo fondiaria, finanziaria e mobiliare. Erano gli equites gli appartenenti alle 18 centurie equestri dell’ordinamento centuriato, il cui livello di censo era un prerequisito anche per l’accesso e il mantenimento del senato. All’origine il cavallo era dato loro a spese dello stato e il loro status era sorvegliato dai censori. Col tempo furono equiparati dal punto di vista sociale quanti fossero in grado di dotarsi a proprie spese del cavallo. Organizzati sulla base di un censo di 400.000 sesterzi, comprendevano figli e fratelli di senatori, ricchi proprietari terrieri, pubblicani (appaltatori delle imposte dello stato, dei lavori pubblici, della gestione dei beni del demanio, delle dogane, delle miniere) uomini d’affari. Esclusi dalle cariche pubbliche, erano interessati a difendere i propri interessi e ad entrare nel tribunale permanente (quaestio perpetua) che, creato nel 149, perseguiva le estorsioni (de reputendis) che i magistrati delle province avrebbero perpetuato ai danni delle comunità e dei singoli Tutti questi ambienti avrebbero contribuito alla diffusione in Italia dell’Ellenismo. I rampolli dei Romani più ricchi erano cresciuti con precettori greci e schiavi greci colti amministravano case, proprietà e patrimoni dei loro padroni. Crisi della piccola proprietà fondiaria e inurbamento: lo sviluppo degli scambi commerciali aveva modificato progressivamente la fisionomia dell’agricoltura italica: il ricorso alla mano d’opera servile, l’importazione di grandi quantità di grano e di materie prime, la spinta verso colture più speculative costituirono una concorrenza rovinosa per l’agricoltura d’autosussistenza. I piccoli proprietari si erano trovati nella necessità di vendere la loro casa. La concentrazione fondiaria che ne era derivata aveva accelerato la tendenza verso un’agricoltura incentrata su prodotti destinati alla commercializzazione più che sull’autoconsumo, bisognosa di vaste superfici coltivabili e fondata su grandi capitali e su abbondante mano d’opera: il modello di proprietà tendeva a diventare la grande azienda agricola basata sullo sfruttamento intensivo di personale schiavile e diretta da schiavi-manager (vilici) che facevano lavorare schiavi-operai e artigiani e schiavi agricoltori. Per le piccole proprietà tradizionali l’unica possibilità era la riconversione delle culture ma esigeva forti spese di impianto e la creazione o il supporto di strutture per la trasformazione e la commercializzazione dei prodotti agricoli. Sprovvisto dei capitali necessari un numero crescente di piccoli proprietari era costretto a vendere. Molti affluivano a Roma creando una massa urbana più consistente Rivolte servili: il moltiplicarsi delle grandi tenute a personale schiavile e il dilatarsi delle zone destinate a pascolo crearono i presupposti per l’esplodere di rivolte servili. Teatro dei moti schiavili più gravi è stata la Sicilia (dove più diffusi ed estesi erano i latifondi e i pascoli) in cui masse servili si sollevarono nel 140-132 e nel 104-100 tenendo in scacco sia le forze locali sia quelle inviate da Roma. La prima rivolta, scoppiata ad Enna nelle tenute di Damofilo si estese in tutta l’isola, molte zone furono oggetto di devastazioni. A capo di essa fu posto uno schiavo siriaco, Euno (assunse il nome di Antioco). Un secondo focolaio principale si ebbe intorno ad Agrigento, sotto la guida di Cleone, che si mise a saccheggiare sia la città che il contado. Roma fu costretta ad inviare 3 consoli, solo l’ultimo, Publio Rupilio, riuscì nel 132 a domare l’insurrezione con durezza. Alla conclusione del conflitto a Rupilio venne affidata la riorganizzazione amministrativa della provincia così duramente provata. Coadiuvato da una commissione senatoriale di 10 membri, formulò una serie di ordinamenti noti come lex Rupilia Due fazioni dell’aristocrazia: optimates e populares: l’accelerarsi dei mutamenti nella compagine sociale non mancò di ripetersi negli equilibri che avevano regolato la stabilità della classe dirigente romana. Si delinearono due fazioni, chiamate optimates e populares, dall’atteggiamento assunto da ciascuna nei confronti delle nuove istanze che si venivano consolidando. Gli optimates si richiamavano alla tradizione degli avi, si autoidentificavano boni (gente dabbene) che cercava di ottenere per la propria politica l’approvazione dei benpensanti, sollecita al bene dello stato, sostenitrice dell’autorità e delle prerogative del senato I populares si consideravano difensori dei diritti del popolo che gli optimates descrivevano come padrone del mondo ma che conduceva una esistenza miserevole e propugnavano la necessità di riforme in campo politico e sociale Un’esempio di questa ultima tendenza può riscontrarsi nell’approvazione di 3 leggi tabellarie cioè concernenti l’espressione scritta del voto: la lex gabinia tabellaria (139) la introduceva nei comizi elettorali, la lex Cassia tabellaria (137) nei giudizi popolari, esclusi quelli per perduellio (reato di alto tradimento e attentato all’ordine costituito, al quale il voto segreto fu esteso nel 107), la lex papiria tabellaria (131) nei comizi legislativi La questione dell’ager publicus e il tentativo di riforma agraria di Caio Lelio: le guerre di conquista avevano fatto crescere l’ager publicus. Parti di esso erano concesse in uso a privati a titolo di occupatio: la proprietà restava sempre allo stato che si riservava il diritto di revocare il possesso a sua discrezione. L’uso era garantito ai detentori dietro pagamento di un canone (vectigal) del tutto irrisorio che non sempre lo stato si preoccupava di esigere la crisi progressiva della piccola proprietà fondiaria favoriva la concentrazione dell’agro pubblico nelle mani di proprietari terrieri più ricchi e potenti. Di qui la necessità di una serie di norme che mirassero a restringere l’estensione di agro pubblico. L’ultima di tali leggi era stata proposta o nel 140 o 145 da Caio Lelio, amico di Scipione Emiliano. Il suo progetto aveva determinato l’opposizione dei senatori tanto che la ritirò Tiberio Gracco: membro della nobilitas, figlio maggiore dell’omonimo Tiberio Sempronio Gracco e di Cornelia, figlia dell’Africano, volle riprendere nel 133 il tentativo di operare una riforma agraria tramite norme che limitassero la quantità di agro pubblico posseduto. L’idea gli sarebbe venuta attraversando l’Etruria nel constatare che quella terra si era trasformata in un insieme di grandi latifondi coltivati da schiavi e in distese di terreni a pascolo, mentre i piccoli contadini erano ridotti in miseria. Nella sua sensibilità per le istanze sociali non si può escludere un influsso dei suoi precettori greci, Diofane di Mitilene e Blossio di Cuma, propugnatore di uno stoicismo egualitaristico che lo portò a fuggire a Pergamo dove era in atto la rivolta antiromana di Aristonico era cambiata e la sua popolarità in grave declino. Candidatosi per il tribunato nel 121 non venne rieletto Alla fondazione della colonia cartaginese furono collegati presagi funesti e si propose che la deduzione dovesse essere revocata (121). Caio Gracco e Fulvio Flacco tentarono di opporsi al provvedimento ma scoppiarono rivolte a cui il senato rispose facendo ricorso per la prima volta al senatus consultum ultimum, con cui veniva sospesa ogni garanzia istituzionale e affidato ai consoli il compito di tutelare la sicurezza dello stato. Il console Lucio Opimio ordinò il massacro dei sostenitori di Gracco: Fulvio Flacco morì negli scontri mentre Caio si fece uccidere Progressivo smantellamento della riforma agraria: i sostenitori dei Gracchi vennero perseguiti. Nel 120 riuscirono a porre in stato d’accusa Lucio Opimio e quindi la legittimità del senatus consultum ultimum con le sue conseguenze. Opimio fu assolto ma le riforme dei Gracchi non furono abolite anche se nel tempo vennero mitigate e gli effetti ridimensionati. Intorno al 121 fu sancito che i lotti attribuiti fossero alienabili, sicchè riprese la migrazione verso le mani più abbienti. Nel 119 venne posta fine alle operazioni di recupero e riassegnazione delle terre, lasciando in concessione i possessi legittimamente occupati dagli attuali detentori, con il pagamento di un canone, e fu abolita la commissione agraria. Nel 111 con un’ulteriore legge fu soppresso il tributo e le terre assegnate e occupate furono trasformate in proprietà privata. Province, espansionismo e nuovi mercati: Asia, Gallia, Baleari, Dalmazia danubiana: prima del 133 Roma aveva costituito 6 province: Sicilia (241), Sardegna e Corsica (237), Spagna Citeriore e Spagna Ulteriore (entrambe nel 197), Macedonia (148 e 146 con le aggiunte della guerra acaica) e Africa (146). La creazione di una provincia è da considerare un atto non di annessione ma di guerra. Per Roma si trattava di assumere la gestione diretta di un territorio solo in piccola parte assoggettato e larghe zone del quale erano fuori dal suo controllo. A ciò va aggiunta la natura istituzionalmente composita delle nuove acquisizioni, che comportava una molteplicità di condizioni e implicazioni con cui era necessario confrontarsi. In un lasso di tempo ragionevole il magistrato, spesso coadiuvato da una commissione senatoria decemvrirale, fissava le regole generali di riferimento: questioni territoriali, statuto delle singole città e comunità, determinazione dell’ager publicus ecc. l’insieme di tali deliberazioni prende il nome di lex provinciae. Oggi si tende a ritenere che la creazione di una provincia non necessitasse di una lex costituente. L’espressione che indicava l0atto di deduzione, redactio in formam provinciae, faceva riferimento alla formula provinciae, un prospetto ufficiale che descriveva gli ambiti geografici, statuti e obblighi delle singole comunità che si trovavano all’interno della circoscrizione provinciale. Una delle leges più note, la lex Rupilia, relativa alla Sicilia, è del 132, dopo la fine della prima rivolta servile e non coeva alla deduzione della provincia. In questo caso si ha a che fare con interventi del magistrato romano fornito di imperium sulla provincia o del generale vittorioso tendenti a dare un’organizzazione generale. Tali disposizioni potevano essere assunte dai governatori successivi e mantenute identiche o introducendovi modifiche. Da qui l’impronta di chiamarle leges. Nel 133 il re di Pergamo Attalo III, morto senza eredi aveva lasciato il suo regno ai Romani. Aristonico, forse figlio naturale di Eumene II, assunto il nome di Eumene III, si pose a capo di una rivolta che tenne testa per 3 anni a Roma. Prima fece appello allo spirito di indipendenza delle città greche ma con scarso successo, tranne la Focea. Si rivolse alle popolazioni e alle comunità dell’interno dove tutti sarebbero stati liberi e uguali. Essendo le forze romane impegnate sul fronte iberico nella guerra di Numanzia e a sedare la rivolta in Sicilia il compito di abbattere Eumene III fu dato agli alleati di Roma, dalle comunità locali e dalle poleis. Solo nel 130 la rivolta fu arginata e il console Marco Perperna riuscì a vincere e a catturare Aristonico. Il compito di stroncare definitivamente la rivolta fu svolto dal console Manio Aquilio che con l’assistenza di una commissione senatoria poté organizzare quanto restava del nuovo territorio nella provincia d’Asia (126). A nord comprendeva la Misia e la Troade (Ellesponto nelle mani di Roma, il Chersoneso Tracico riunito alla provincia di Macedonia), al centro la Lidia, la parte sud occidentale della Frigia con anche la Caria. In questo modo Roma poneva piede stabilmente in Anatolia; contemporaneamente il regno seleucide di Siria si apprestava a soccombere a causa dei Parti. Gli appalti per l’esazione delle imposte furono affidati nel 123 al monopolio dei cavalieri tramite la lex sempronia de Asia di Caio Gracco. Il centro amministrativo fu spostato ad Efeso. La Gallia meridionale attirò l’attenzione e l’impegno romano. Rispondendo alle richieste d’aiuto di Marsiglia contro tribù celtoliguri e galliche (Liguri, Salluvii e Vocontii) fu inviato prima Marco Fulvio Flacco (125) poi Caio Sestio Calvino che nel 123 fondò il centro di Aquae Sextiae ai piedi della piazzaforte indigena di Entremont, controllando da nord l’entroterra di Marsiglia. Nel 122-121 Cneo Domizio Enobarbo e Quinto Fabio Massimo, con le vittorie sugli Allobrogi e Arverni, posero le basi per la provincia narbonese, organizzata attorno alla colonia di Narbona, dedotta nel 118. Consolidato il possesso delle isole verso la Spagna (Sardegna e Corsica), nel 123 ad opera di Cecilio Metello furono conquistate le Baleari, basi di attività piratiche. Le isole vennero aggregate alla Spagna Citeriore e sottoposte ad un prefetto nominato da un governatore. A Maiorca furono fondate le due colonie di Palma e Pollenzia Nel contempo ripetute campagne militari contro le tribù illiriche dalmate avevano portato le armi e i mercanti romani a contatto con i Paesi danubiani. Nel 119 il console Metello combattè vittoriosamente contro gli Scordisci contro cui era caduto il governatore della Macedonia Sesto Pompeo. Metello riuscì a spingersi a Meridione fino a Solona e nel 117 celebrò il trionfo. Nel 115 Marco Emilio Scauro guidò le truppe romane contro i Taurisci. Nel 114 il console Gaio Catone fu sconfitto dagli Scordisci che dilagarono in Grecia fino a Delfi. Furono gradualmente sottomessi fino a che il console Marco Minucio Rufo celebrò il trionfo su di loro nel 106. Con i proventi della vittoria fece erigere a Roma la Porticus Minucia I commercianti italici e l’Africa; Giugurta; Caio Mario: Scipione Emiliano aveva regolato le questioni africane dopo la terza guerra punica tramite la costituzione della provincia d’Africa e rapporti di buon vicinato con le città libere e con i figli di Massinissa, il re di Numidia alleato dei romani. Tra essi si era imposto Micipsa, unico re di Numidia. La politica filoromana aveva attirato in Africa commercianti e uomini d’affari romani ed italici Morto nel 118 Micipsa il regno numidico fu conteso tra i suoi 3 eredi principali. Giugurta si sbarazzò di Iempsale assassinandolo. Il terzo, Aderbale, fu costretto a rifugiarsi a Roma e a chiedere l’arbitrato del Senato che nel 116 optò per la divisione della Numidia tra i due superstiti. Nel 112 Giugurta volle impadronirsi della porzione di regno di Aderbale e ne assediò la capitale, Cirta. Presa la città Giugurta fece uccidere sia il rivale che i romani. I cavalieri convinsero Roma a entrare in guerra nel 111. Le operazioni militari furono condotte fiaccamente dal console del 111 Lucio Calpurnio Bestia che si limitò, dopo una serie di successi a pretendere che Giugurta chiedesse la pace. A Roma si gridò lo scandalo, Calpurnio fu accusato di corruzione e Giugurta convocato nell’Urbe. Sfuggito all’interrogatorio per il veto di un tribuno fu sospsettato di aver approfittato della presenza a Roma del cugino Massiva per farlo eliminare e tornare in patria. Si decise di riprendere la guerra nel 110 sotto il comando del console Spurio Postumio Albino che lasciò condurre le operazioni al fratello Aulo che incorse in una grave sconfitta: l’armata romana venne umiliata e costretta a sfilare sotto un giogo di lance. A Roma i responsabili furono processati e condannati e nel 109 la guerra fu affidata a Quinto Cecilio Metello, del cui seguito faceva parte come legato Caio Mario. Metello sconfisse Giugurta ma non riuscì a chiudere la campagna. I mercanti del Nordafrica tempestarono i loro agenti romani con lettere di protesta. In questo clima Caio Mario fu eletto console nel 107 e gli venne affidato il comando della guerra contro Giugurta. Caio Mario era un Homo novus. Nato nel 157 nei dintorni di Alpino non poteva vantare antenati illustri. Egli incarnava il nuovo tipo di politico, uscito dall’ambiente dei ricchi possidenti equestri e della carriera militare ma con buone connessioni romane come Publio Cornelio Scipione Emiliano. Ai suoi ordini aveva combattuto a Numanzia nel 133 fino a pervenire alla questura nel 123. Con l’appoggio dei Metelli era arrivato al tribunato della plebe nel 119 fino a giungere nel 115 alla pretura. Inviato come promagistrato nella Spagna Ulteriore si era distinto militarmente nelle operazioni di guerra e al ritorno si era imparentato con la famiglia patrizia che avrebbe dato i natali a Giulio Cesare. L’arruolamento dei nullatenenti e la fine della guerra giugurtina: Mario, bisognoso di truppe a lui fedeli e per far fronte ai vuoti provocati dalla guerra giugurtina e ai massacri dei Cimbri e Teutoni. Aprì l’arruolamento volontario ai capite censi, cioè coloro che erano iscritti sui registri di censo per la loro sola persona, senza il minimo bene patrimoniale, quindi nullatenenti. Col nuovo esercito tornò in Africa ma gli occorsero 3 anni per porre fine alla guerra. Valsero le attività diplomatiche, impostate da Metello, per rompere l’alleanza con Giugurta e il suocero Bocco, re di Mauretania. Grazie all’opera di Lucio Cornelio Silla, legato di Mario, Bocco tradì Giugurta e lo consegnò ai Romani (105). La Numidia orientale fu assegnata a Gauda, nipote di Massinissa. Giugurta fu trascinato prigioniero a Roma. Mario, rieletto console nel 104 celebrò il trionfo su di lui che poi fu giustiziato. Cimbri e Teutoni; ulteriori trasformazioni nell’esercito: i Cimbri, che venivano dallo Jutland, e i Teutoni che venivano dall’Holstein, avevano cominciato un movimento migratorio verso sud, spinti da problemi di sovrappopolamento. Oltrepassato il medio corso del Danubio furono fermati dagli Scordisci vicino Belgrado e piegarono ad ovest, verso i taurisci del Norico (Austria). Furono affrontati dal console Cneo Papirio Carbone, inviato a proteggere i confini d’Italia e a tutelare una zona commerciale ricca di miniere d’oro e di ferro: presso Noreia i romani subirono una disastrosa sconfitta (113). Nel 110 i Cimbri e Teutoni comparvero in Gallia, trovando supporto nelle tribù degli Ambroni e dei Tigurini, germaniche le prime e celtiche le seconde. I tentativi di respingerli si rivelarono sconfitte come ad Arausio, dove il disaccordo tra il proconsole Quinto Servilio Cepione e il console Cneo Mallio Massimo costò all’esercito romano una catastrofe (105). L’opposizione fu vastissima e furono dichiarate nulle le sue leggi. Dopo l’assassinio di Druso il sentimento di ribellione degli italici era al culmine. La guerra sociale: la differenza di stato giuridico e sociale tra cittadini di Roma e alleati latini e italici non aveva suscitato grandi contestazioni agli inizi del II secolo quando trovava riscontro in differenze etniche e culturali e quando l’orizzonte della maggioranza di tali comunità era limitato ad un quadro politico o regionale. Successivamente l’ellenismo era penetrato nella penisola cambiando il modo di vivere della gente. La condizione di cittadino romano era considerata sempre più vantaggiosa e ciò aumentava l’irritazione e le rivendicazioni degli italici, consci di aver contribuito ai successi militari di Roma. Delle distribuzioni agrarie beneficiavano i soli cittadini romani: gli italici erano esclusi e vedevano riassegnati ai cittadini terreni da loro usati e messi a coltura. Essi partecipavano allo sfruttamento economico delle province ma in funzione subalterna. Non avevano parte nelle decisioni politiche, economiche e militari. Anche nell’esercito tutta la struttura era concepita a favore dei cittadini romani: ricevevano parti in meno di bottino e le punizioni erano più gravi. Le recriminazioni degli italici sono ben rappresentate da Velleio Patercolo (scrive sotto Tiberio) L’assassinio di Druso fu per gli alleati italici il segnale che non vi era altra possibilità di difendere le proprie rivendicazioni che la rivolta armata contro Roma. A Roma non si comprese la gravità della situazione, tanto che si approvò un provvedimento che perseguiva per alto tradimento i capi della “cospirazione italica” e i cittadini romani loro complici. Il segnale delle ostilità partì da Ascoli dove un pretore e tutti i Romani vennero massacrati (90). L’insurrezione si estese presso Piceni, vestini, marrucini, Frentani, marsi e Peligni, nell’appennino Centrale e Sanniti, Irpini e Lucani, nell’appennino meridionale, regioni che erano maggiormente interessate alle riforme agrarie. Apuli e Campani si aggiunsero in un secondo momento. Non aderirono Etruschi e Umbri, al pari delle città latine e della Magna Grecia La guerra fu lunga e sanguinosa. I romani combatterono contro gente armata e addestrata allo stesso modo. Gli insorti si erano dati istituzioni federali comuni, una capitale, Corfinium (nel Sannio), subito ribattezzata italica. I loro scopi però non erano unitari. Furono messe in campo le forze migliori e si spartirono tra i due consoli i due principali settori d’operazione. A settentrione il console Publio Rutilio Lupo aveva come legati Cneo Pompeo Strabone e Caio Mario; lo fronteggiava il marso Quinto Poppedio Silone, capo della federazione italica. A Meridione l’altro console Lucio Giulio Cesare aveva tra i suoi luogotenenti Lucio Cornelio Silla. Il console Rutilio Lupo cadde in combattimento e le ostilità a settentrione dovettero essere continuate da Mario. L’incerto andamento delle operazioni fece maturare a Roma, nel 90, una soluzione pacifica del conflitto. Si erano autorizzati i comandanti militari ad accordare la cittadinanza agli alleati che avevano combattuto ai loro ordini. Venne approvata su proposta di Lucio Giulio Cesare una legge (lex Iulia de civitate) che concedeva la cittadinanza romana agli alleati rimasti fedeli e alle comunità che avessero deposto le armi. A questa si aggiunse nell’89 la lex Plautia Papiria che estendeva la cittadinanza a quanti degli italici si fossero registrati presso il pretore entro 60 giorni. Cneo Pompeo Strabone, console, faceva attribuire il diritto latino agli abitanti dei centri urbani a nord del Po. Ai magistrati di queste comunità veniva aperto l’accesso alla cittadinanza romana Tali misure circoscrissero la rivolta anche se nell’89 trovò la morte l’altro console Lucio Porcio Catone. I successi più ragguardevoli furono raggiunti da Cneo Pompeo Strabone che riuscì ad espugnare Ascoli, e da Silla che riconquistò il Sannio e la Campania. Nell’88, eletto console ne assaliva l’ultima roccaforte, Nola. Con la concessione della cittadinanza a tutta l’Italia fino alla transpadana si inaugurava un processo di unificazione politica dell’Italia e una nuova fase delle istituzioni di Roma. Le aristocrazie italiche erano riuscite a creare i presupposti per un loro accesso alle magistrature e un successivo ingresso in senato. Per esercitare i loro diritti i neocittadini dovevano recarsi a Roma per partecipare alle assemblee I primi grandi scontri tra fazioni in armi Le fonti: dalla prima guerra mitridatica alla morte di Silla (88-78): le due fonti principali sono appiano con il libro “le guerre mitridatiche” e il I libro delle “guerre civili”. Particolarmente importanti sono le vite di Silla e Mario di Plutarco; numerose informazioni si traggono dalle vite di Sertorio, Lucullo, Pompeo, Crasso, Cesare e Cicerone. Velleio Patercolo tratta il periodo nel libro II. Dei libri di Livio si hanno le periochae. Importante anche la narrazione di Floro e Orosio. Sopravvivono dei frammenti di Cassio Dione e Diodoro Siculo. Per le questioni interne numerosi riferimenti sono sparsi nelle opere di Cicerone in particolare nella Pro Sexto Roscio Amerino che trattava il tema delle proscrizioni sillane. Uno dei più interessanti estratti delle Storie di Sallustio consiste nella pretesa lettera inviata da Mitridate al dei Parti Arsace. Notizie si trovano anche nella Geografia di Strabone e in Valerio Massimo, Gellio e Macrobio. Per la documentazione epigrafica si ricorda la legge Osca della Tabula Bantina. Alcuni elementi depongono a favore di una collocazione dopo la guerra sociale, altri prima della guerra. Al periodo della municipalizzazione delle comunità alleate appartiene la lex municipii tarentini Tra le iscrizioni in lingua greca c’è il senatoconsulto su Stratonicea, databile all’81 in cui si confermano i privilegi concessi da Silla a questa città della Caria per la sua fedeltà a Roma Dalla morte di Silla al consolato di Pompeo e Crasso (78-70): la migliore narrazione del periodo si trova nel I libro delle Guerre civili di Appiano e nei libri sulle Guerre mitridatiche e le Guerre iberiche sempre di Appiano. Si vedano nelle raccolte delle vite parallele di Plutarco e le periochae di Livio. Importanti erano le storie di Sallustio. Degne di nota sono le trattazioni Velleio Patercolo. Le verrine di Cicerone sono molto importanti. Il tema dei rapporti tra Roma e le comunità cittadine dell’Oriente ellenistico continua ad essere ben documentato per via epigrafica: lex antonia de Termessibus (in latino). Tra i testi greci va ricordato il dossier relativo a controversia tra i pubblicani e la città di Oropo Dalla guerra piratica di Pompeo al suo ritorno dall’Oriente (70-62): appiano e Cassio Dione. Si aggiungono le Periochae di Livio e le opere di Orosio, Valerio Massimo, Velleio Patercolo e Floro. Tra le fonti più vicine la Congiura di Catilina di Sallustio e Cicerone sia nelle orazioni che nelle lettere. Anche le opere filosofiche dell’arpinate sono importanti. Alle campagne orientali di Pompeo era fatto cenno nell’opera di Teofane di Mitilene. Tra le vite di Plutarco si possono menzionare quelle di Pompeo, Cesare, Crasso, Cicerone e Catone Uticense. Inoltre la vita di Attico di Cornelio Nepote Mitridate VI Eupatore: mentre Romani e italici si affrontavano nella guerra sociale, una situazione allarmante si era creata in Oriente. Ancora più ad est i Parti della dinastia degli Arsacidi avevano sottratto possedimenti orientali al regno seleucide fino ad occupare la Mesopotamia e la Babilonia e facendo dell’Eufrate la frontiera con la Siria. Nel 95 avevano imposto come loro vassallo quale re d’Armenia Tigrane nella penisola anatolica era in atto un forte frazionamento politico e Roma vi aveva favorito la coesistenza di molti piccoli stati dinastici limitandosi a vegliare che nessuno di loro conseguisse l’unità. Ma nel 112 divenuto re del Ponto, Mitridate VI aveva stabilito accordi con la Bitinia per dividersi Paflagonia e Galazia. Impadronitosi del Bosforo Cimmerio, della Crimea e della Colchide aveva esteso il suo regno a sud, a est e a nord del Ponto Eusino. Mitridate riteneva di essere immotivamente predato da Roma perché gli aveva tolto le donazioni fatte a suo padre. Dal 104 il senato era attento alle sue mosse e Mario si era recato in missione diplomatica per osservarlo. Nel 92 era toccato a Silla, come propretore della Cilicia, intervenire per ripristinare sul re di Cappadocia un sovrano maggiormente gradito approfittando della guerra sociale Mitridate aveva ripreso la sua politica espansionistica, invadendo nuovamente la Cappadocia con Tigrane. Nel 90 Roma inviò una legazione capeggiata da Manio Aquilio con l’incarico di reinsediare i sovrani legittimi. La commissione non si limitò a questo: Nicomede IV si ritenne autorizzato a condurre scorrerie nel territorio del Ponto. Mitridate si decise alla guerra coi Romani. La sua azione si basò sulla propaganda rivolta al mondo greco presso cui fu abile a presentarsi come sovrano filelleno e evergete (benefattore), sfruttando il malcontento verso i romani dilagato in Cappadocia fu presto padrone dell’Asia. Più di 80.000 romani e italici vennero massacrati. Manio Aquilio si rifugiò prima a Pergamo e poi a Mitilene, dove fu consegnato a Mitridate che lo uccise. Anche Delo e Atene fecero causa comune con Mitridate. La guerra acquistava carattere di sollevazione del mondo greco contro i romani. Solo alcune città rimasero fedeli a Roma: Afrodisia, Rodi, la Licia, l’Etolia e la Tessaglia. Verso la fine dell’88 un esercito pontico, attraversata la Tracia, la Macedonia e la Tessaglia, invadeva la Grecia centrale, ottenendo l’adesione della Beozia, di Sparta e del Peloponneso mentre una flotta faceva vela verso l’Attica. Roma affidò il comando di guerra a Silla. Il tribunato di Publio Sulpicio Rufo e il ritorno di Mario; Silla marcia su Roma: a Roma il tribuno della plebe Publio Sulpicio Rufo, amico di Druso, si adoperava per privare Silla del comando di guerra. Costretto a trasformare larghe masse di alleati in cittadini romani, il governo nobiliare aveva cercato di evitare che potessero sconvolgere i preesistenti equilibri politici. Nessun problema poteva suscitare la loro immissione nei comizi centuriati, perché la gerarchia sociale italica riproduceva le classi censitarie romane. Il fatto che essi dovessero venir iscritti nelle tribù poteva produrre mutamenti. Il loro numero era tale che se fossero stati ripartiti tra tutte le 35 le tribù e si fossero recati in massa a Roma per votare sarebbero stati in maggioranza in ogni tribù. Si era ricorsi all’espediente di immetterli in un numero limitato di tribù. consenso del senato prima di essere sottoposta al voto popolare; i comizi centuriati dovevano divenire la sola assemblea legislativa legittima. Il senato fu portato da Silla a 600 membri con l’immissione di suoi partigiani, nonché 300 cavalieri. La sua integrazione annuale viene sottratta ai censori. I questori furono aumentati a 20 Fu innalzato ad 8 il numero dei pretori per far fronte alle necessità derivanti della moltiplicazione dei tribunali permanenti che erano richiamati a presiedere. Questi vennero riservati in esclusiva al senato. Le loro competenze furono suddivise in modo che a ciascuno spettasse in esclusiva solo uno dei principali reati: estorsione e concussione, alto tradimento, appropriazione di beni pubblici, broglio e corruzione elettorale, assassinio e avvelenamento, frode testamentaria e monetaria, lesioni alle persone Per limitare eccessive ostentazioni di ricchezza da parte dell’aristocrazia. Vennero regolamentati l’ordine di successione alle magistrature e le età minime per accedervi: questura (30 anni), edilità (36), pretura (39), consolato (42); nessuna carica poteva essere iterata prima di 10 anni. Dall’anno dopo alla magistratura pretori e consoli accedevano alla promagistratura col titolo di propretori o proconsoli, e potevano essere usati per amministrare le province costituite Furono ridimensionati i poteri dei tribuni della plebe, limitato il loro diritto di veto e annullato quello di proporre leggi. Fu fatto divieto a chi aveva ricoperto tale carica di accedere ad altre magistrature. Vennero soppresse le distribuzioni frumentarie Il pomerium fu esteso lungo una linea virtuale tra Arno e Rubicone a comprendere quasi tutte le zone d’italia che condividevano la cittadinanza romana. Nello stesso tempo veniva costituita la provincia delle Gallia Cisalpina. Compiuta la riorganizzazione dello Stato Silla abdicò. Nel 79 si ritirò a vita privata dove morì l’anno dopo. Il tentativo di reazione antisilliana di Marco Emilio Lepido: nel 78 il console Marco Emilio Lepido, padre del triumviro, tentò di ridimensionare l’ordinamento sillano, proponendo il richiamo dei proscritti dall’esilio, il ripristino delle distribuzioni frumentarie a prezzo politico e la restituzione agli antichi proprietari delle terre confiscate a favore dei coloni insediati da Silla. L’opposizione scatenò una rivolta in Etruria. Lepido partito per assumere come proconsole il governo della provincia Narbonese (77), si fermò in Etruria dove fece causa comune con i ribelli e marciò su Roma, reclamando un secondo consolato e la restaurazione dei poteri dei tribuni della plebe. Il senato rispolverò l’arma del senatus consultum militum. In appoggio all’altro console in carica, Lutazio Catulo, venne conferito a Pompeo l’imperium senza che avesse rivestito alcuna magistratura superiore. La rivolta fu stroncata, Lepido fuggì in Sardegna; il suo luogotenente Marco Perperna Veientone si trasferì coi resti del suo esercito in Spagna ad ingrossare le fila degli ex mariani capeggiati da Sertorio l’ultima resistenza mariana; Sertorio: Quinto Sertorio si era distinto nelle file mariane contro i Cimbri e i Teutoni e nella guerra sociale. Nell’82 dopo le prime vittorie di Silla aveva raggiunto il suo posto di governatore della Spagna Citeriore. Là aveva creato una sorta di Stato mariano in esilio, coagulando altri esuli della sua fazione, Romani e Italici residenti in Spagna. Tutti i tentativi di abbatterlo erano vani anche grazie alla guerriglia messa in atto dal governatore sillano della Spagna Ulteriore Quinto Cecilio Metello Pio e dal nuovo governatore della Spagna Citeriore Marco Domizio Calvino. Verso la fine del 77 si erano congiunte a Sertorio che controllava la penisola iberica, le truppe superstiti di Lepido al comando di Marco Perperna Veientone. Questa consistenza di profughi gli consentì di istituire a Osca un senato di 300 membri e una scuola dove i capi delle tribù spagnole potevano inviare i loro figli. Corsero a Roma voci di sue alleanze con i pirati e con Mitridate. Il senato decise di ricorrere di nuovo a Pompeo affidandogli in deroga alle norme sillane la spagna Citeriore con attribuzione di un imperium straordinario. Arrivato in Spagna (76) Pompeo si trovò in una posizione difficile, subendo da Sertorio alcune sconfitte bilanciate dai progressi di Metello tanto che chiese al senato l’invio di rinforzi. Ottenutili la situazione andò migliorando mentre cominciarono a manifestarsi dissapori con Sertorio. Furono orditi complotti contro di lui fino a che Paperna lo uccise a tradimento (72) che poi fu ucciso da Pompeo il quale ebbe ragione nel 71 anche delle ultime sacche di resistenza. La rivolta servile di Spartaco: nel 73 era scoppiata la terza rivolta di schiavi. Questa volta la scintilla era scoccata a Capua in una scuola per gladiatori, asserragliatisi sul Vesuvio. Là furono raggiunti da altri gladiatori. Se ne posero a capo Spartaco, un trace, Crisso ed Enomao, entrambi celtici. La rivolta si estese a tutto il sud Italia dove tennero in scacco i due consoli e pretori inviatigli contro. Spartaco intendeva condurli al di là delle Alpi, altri preferivano abbandonarsi alle razzie e al saccheggio. Vagarono per l’Italia spingendosi in Cisalpina e piegando verso sud. Il senato decise di affidare un comando eccezionale a Marco Licinio Crasso, allora pretore, riuscendo a isolare Spartaco e i suoi in Calabria. Tentarono di passare in Sicilia ma traditi dai pirati, furono costretti a rompere il blocco di Crasso che li sconfisse in Lucania. Spartaco cadde in battaglia (71). Una schiera di superstiti cercò di andare a nord ma fu intercettata in Etruria da Pompeo che la distrusse. Il consolato di Pompeo e Crasso e lo smantellamento dell’ordinamento sillano (70 a.C.): Pompeo se ne fece titolo di merito per ottenere il trionfo e per presentare la candidatura al consolato nel 70 pur essendo sotto all’età minima richiesta e non possedendo nemmeno i requisiti di carriera poiché non era passato dalla trafila delle cariche. Anche Crasso di presentò: entrambi furono eletti Fu portato a compimento lo smantellamento dell’ordinamento sillano. Nel 75 su proposta del console Caio Aurelio Cotta era stato abolito a chi era tribuno della plebe di ricoprire altre cariche. Nel 73 i consoli avevano fatto approvare una legge frumentaria (lex terentia cassia) che ripristinava le distribuzioni a prezzo politico del grano. Pompeo e Crasso restaurarono la pienezza dei poteri dei tribuni della plebe: poterono di nuovo proporre leggi all’assemblea popolare e opporre il veto alle iniziative degli altri magistrati. Furono eletti dopo intervallo di 15 anni i censori che epurarono il senato di 64 membri considerati indegni. Il pretore Lucio Aurelio Cotta, fratello del console del 75 fece modificare la composizione delle giurie dei tribunali permanenti, togliendone l’esclusiva ai senatori e ripartendole in proporzioni uguali tra i senatori, cavalieri e tribuni aerarii, il cui censo era vicino ai cavalieri. Al successo della riforma di Cotta non sembra essere estraneo il processo contro Verre, propretore in Sicilia dal 73 al 71 Pompeo in Oriente; operazioni contro i Pirati; nuova guerra mitridatica: negli anni tra l’80 e il 70 in Oriente erano riemerse due gravi minacce: i pirati e Mitridate. La pirateria aveva ripreso forza per la situazione di conflitto, per l’instabilità e l’indebolimento delle strutture politiche locali e l’importanza assunta dal commercio di schiavi. I Romani avevano tollerato che essa continuasse ad Oriente perché avevano un tornaconto nel mantenimento di un’attività che alimentava i traffici di mano d’opera schiavile verso la penisola. Le sue basi principali erano disseminate lungo le coste dell’Asia minore, di Creta e del litorale africano. Attaccavano le navi commerciali depredandole dei loro carichi, quindi il trasporto delle merci era diventato sempre più pericoloso. Nel 78-75 si tentò di rafforzare la presenza romana in Cilicia anche tramite le campagne romane di Publio Servilio Vatia, che si spinse all’interno dell’Isauria. Nel 74 fu inviato contro i pirati con un comando speciale Marco Antonio (padre del futuro triumviro) che preferì concentrare i suoi sforzi su Creta, riportandovi un’umiliante sconfitta. Nel 74 fu deciso di dare corso al legato concernente la Cirenaica che fu fatta provincia. Le operazioni contro Creta furono poi affidate nel 69 a Quinto Cecilio Metello che le condusse con energia ed efficacia fino alla riconquista dell’isola (68-67). Nel frattempo era divenuta inevitabile una nuova guerra con Mitridate. Dopo la pace di Dardano aveva covato sentimenti di rivalsa, nel 74 quando morì Nicomede IV di Bitinia lasciò il regno in testamento ai romani. La deduzione della Bitinia in provincia dava ai romani il controllo dell’accesso al mar Nero e alterava i rapporti di forze dell’Asia: Mitridate decise quindi di invaderla. Contro di lui furono mandati i due consoli del 74 Marco Aurelio Cotta con poteri sulla Bitinia e Lucio Licinio Lucullo con poteri sulla Cilicia e la provincia romana d’Asia. L’essenziale delle operazioni fu condotto di successo un successo fino al 67 da Lucullo che occupò il Ponto, costringendo Mitridate a rifugiarsi in Bitini presso il genero Tigrane (71). Divenuto padrone del Ponto (70) Lucullo sospese momentaneamente le operazioni e si dedicò ad un’opera di ristabilimento della situazione in Asia. Volendo impadronirsi di Mitridate, proseguì più a fondo la campagna e invase l’Armenia assediandone la capitale Tigranocerta (69). Da qui si spinse più a nord est all’inseguimento di Mitridate e Tigrane, verso l’antica capitale armena di Artazata (68) tra il Caucaso e il Mar Caspio. I suoi soldati però stanchi si rifiutarono di proseguire. I finanzieri romani, sdegnati, sdegnati dei provvedimenti per ristabilire l’economia d’Asia (limitazione del tasso d’interesse al 12%, interdizione di esigere dai debitori più di un quarto delle loro entrate, cancellazione degli interessi arretrati in eccesso), fecero pressioni perché lui venisse destituito. Ne approfittarono Mitridate e Tigrane per riprendere le ostilità (67) Nel 67 il tribuno Aulo Gabinio propose misure drastiche contro i pirati e che fosse attribuito a Pompeo l’arbitrium per 3 anni sul Mediterraneo e sull’entroterra fino a 75 km dalle coste. Nonostante l’opposizione senatoria il decreto fu approvato. Ripartito il Mediterraneo in 13 settori cacciò i pirati dal Mediterraneo occidentale, sconfiggendoli in Cilicia Nel 66 mentre era impegnato nella guerra piratica, il tribuno Caio Manilio propose che fosse esteso il comando della guerra contro Mitridate a Pompeo. Subentrato nel comando a Lucullo Pompeo convinse il re dei Parti, Fraate, a tenere impegnato Tigrane mentre marciava indisturbato verso il Ponto. Mitridate fu costretto a rifugiarsi a nord nel Bosforo Cimmerio (Crimea). Là si fece trafiggere per non cadere in mano romana. Nel frattempo Pompeo aveva compiuto una spedizione nel Caucaso giungendo fino al Mar Caspio, tra gli Iberi e Albani. Confermato a Tigrane il trono armeno (ciò raffreddò i rapporti coi Parti) lo privò della Siria di cui fece una provincia romana. Attirato in Palestina fu costretto ad affrontare la fazione che si opponeva in armi alle sue decisioni e dopo 3 mesi d’assedio si impadronì di Gerusalemme. Dichiarate libere le città ellenistiche della Nello stesso 62 Cesare aveva ricoperto la pretura e nel 61 era stato governatore della Spagna Ulteriore, dove si era recato anche grazie alle garanzie di Crasso. In spagna Ulteriore Cesare aveva dato prova di capacità amministrative e aveva condotto campagne verso occidente che gli erano valse l’acclamazione a imperator e la possibilità di aspirare al trionfo. Rientrato in Spagna nel 60 per partecipare alle elezioni consiliari del 59 fu costretto a rinunciare alla richiesta di trionfo dall’obiezione formale secondo cui per porre la sua candidatura avrebbe dovuto entrare in città e con ciò decadere da un diritto che avrebbe comportato la sua permanenza in armi al di fuori dell’Urbe. La sua richiesta di candidarsi in absentia per procura fu respinta (per opposizione di Catone). Il risultato delle opposizioni consiliari gli fu favorevole ma ebbe come collega Marco Calpurnio Bibulo, genero di Catone. Il senato ottenne che a fine mandato i due consoli avrebbero dovuto amministrare i pascoli e le foreste statali in Italia Allora Pompeo, deluso e amareggiato, Crasso, che non riusciva a tutelare i suoi interessi e Cesare si riavvicinarono stringendo un accordo (60) chiamato primo triumvirato. Questa definizione è modellata sull’unico vero triumvirato della storia romana (Ottaviano, Marco Antonio e Lepido). Il primo triumvirato fu un accordo segreto in base a cui Cesare avrebbe esercitato il consolato appoggiato dagli altri due e avrebbe provveduto alla redistribuzione dei terreni ai veterani di Pompeo mentre Crasso avrebbe avuto vantaggi per i cavalieri e le compagnie di appaltatori. L’accordo fu cimentato dal matrimonio tra Pompeo e Giulia, figlia di cesare Caio Giulio Cesare console: Bibulo venne messo a tacere. Cesare fece votare due leggi agrarie che prevedevano una distribuzione ai veterani di Pompeo dell’agro pubblico rimanente in Italia ad eccezione della Campania e di altre terre acquistate dai privati; i fondi necessari sarebbero stati attinti dai bottini di guerra di Pompeo. In un secondo tempo fu aggiunto l’agro campano. Furono fatte ratificare le decisioni di Pompeo in Oriente e fu ridotto d’un terzo il canone d’appalto delle imposte della provincia d’Asia Fu approvata la lex Iulia de reputendis per i procedimenti di concussione che migliorava la legislazione sillana in materia Sul finire del consolato il tribuno Publio Vatinio fece votare un provvedimento che attribuiva a Cesare per 5 anni il proconsolato sulla Gallia Cisalpina e dell’Illirico con 3 legioni e il diritto di nominare i propri legati e fondare colonie. Essendosi reso vacante il governo della Gallia Narbonese su proposta di Pompeo il Senato aggiunse questa regione alle competenze di Cesare con una quarta legione Il tribunato di Publio Clodio Pulcro: partendo per le province attribuitegli (58) Cesare volle con Pompeo e Crasso lasciare una spina nel fianco a quanti in senato gli erano stati ostili. Appoggiarono la candidatura al tribunato della Plebe di Publio Clodio Pulcro, ex patrizio che in Armenia, per favorire Pompeo, aveva spinto alla rivolta le legioni di Lucullo. Coinvolto in uno scandalo nel 62 e perciò senza speranze di poter proseguire la carriera politica l’anno prima si era fatto adottare da una famiglia plebea per presentarsi al tribunato della plebe. Eletto tribuno Clodio fece approvare una nutrita serie di leggi. Il potere dei censori di espellere membri dal senato venne limitato dal divieto di procedere nei confronti di chiunque senza un giudizio formale che consentisse agli interessati di difendersi e senza che si fosse raggiunta una sentenza di condanna da parte di entrambi i censori. Nessun magistrato (tranne gli auguri e i tribuni) avrebbe più potuto interrompere le assemblee pubbliche adducendo auspici sfavorevoli. Vennero legalizzati i collegia, associazioni private con fini religiosi e di mutuo soccorso che il senato aveva soppresso nel 64. Fu abilità di Clodio sfruttare le funzioni iniziali di queste associazioni, disseminate per tutta la città per farne un gruppo di pressione e poi bande armate al suo servizio; pronte alla sommossa o alla riunione politica divennero armi importanti. Le distribuzioni frumentarie ai cittadini romani residenti a Roma fino ad allora a prezzo politico; ciò comportò un aumento dei beneficiari e all’incremento delle liberazioni degli schiavi. Con un provvedimento si comminava l’esilio a chiunque avesse condannato a morte un cittadino senza concedergli l’appello al popolo. cicerone ne era il bersaglio evidente. Pompeo non lo aveva aiutato Anche Catone fu allontanato da Roma con l’incarico di rivendicare il possesso di Cipro dal Tolomeo che vi regnava. Tolomeo di Cipro scelse il suicidio e l’isola fu aggregata alla provincia di Cilicia. Cesare in Gallia: quando Cesare arrivò nelle sue province era in atto a nord della Narbonese, una migrazione degli Elvezi verso Occidente che minacciava le terre degli Edui e la provincia romana. Dopo aver concentrato le legioni ai suoi ordini in Narbonese attaccò e sconfisse gli Elvezi a Bibracte, la capitale degli Edui. Cominciò la conquista cesariana della Gallia un gruppo di Svevi era passato alla sinistra del fiume Reno. Battuti gli Edui, Ariovisto (capo degli Svevi) aveva lasciato che parte dei suoi uomini si stanziassero in una porzione (Alsazia) del territorio dei Sequani. Su richiesta degli Edui Roma era intervenuta e aveva indotto il capo germanico a ritirare le sue genti al di là del Reno. Come compenso era stato riconosciuto ad Ariovisto il titolo di re amico e alleato del popolo romano. Poiché le migrazioni verso l’Alsazia erano riprese Cesare, intimato ad Ariovisto di allontanarsi, procedette a marce forzate verso la capitale dei Sequani, Vesonzio e lo affrontò in battaglia e lo sconfisse presso l’odierna Mulhose costringendolo a ripassare il Reno (58) conclusa questa campagna Cesare tornò in Cisalpina lasciando le sue truppe a Vesonzio. La presenza romana nella Gallia centrale suscitò a nord le reazioni delle tribù dei Belgi allarmate dalla vicinanza delle legioni. Cesare riuscì a impadronirsi delle loro piazzeforti riducendo alla resa prima i cantoni più meridionale e poi le tribù più settentrionali, capeggiate dai Nervii (57). Un legato di Cesare, Publio Licinio Crasso si spingeva in Normandia sottomettendone tribù. I successi di Cesare erano dovuti alla disunione delle tribù galliche ma anche alla capacità di Cesare di adattare la sua tattica al tipo di combattimento che la situazione esigeva. Alla fine del 57 comunicò al senato che la Gallia poteva ritenersi pacificata anche se la metà del paese non era mai stata attraversata dai romani. La notizia fu accolta con entusiasmo Gli accordi di Lucca e la prosecuzione della conquista della Gallia: terminato l’anno del suo tribunato Clodio era tornato privato cittadino ma non aveva smesso di usare le sue bande. I suoi avversari si operarono comunque per il ritorno di Cicerone e si intesero con il tribuno della plebe Tito Annio Milone. Uno dei bersagli preferiti di Clodio divenne Pompeo, che pentitosi di non aver fatto nulla per Cicerone e preoccupato per i successi di Cesare, aveva appoggiato i fautori del richiamo; nel 57 Cicerone era rientrato a Roma. Pompeo fu in una situazione di stallo politico. Non osava impegnarsi nei conflitti e negli scontri di fazione per timore di offrire il fianco alle critiche e agli sbeffeggiamenti che Clodio e le sue bande non gli risparmiavano. Venire allo scoperto significava esporsi al pericolo di fallire e veder diminuita la sua autorità, ma anche il non far nulla rischiava di usurargli un capitale di prestigio che nessun incarico poteva arricchire, mentre quello di Cesare era in ascesa. Egli fu lieto di accettare l’incarico, affidatogli su proposta consolare, che gli conferiva per 5 anni poteri straordinari per provvedere all’approvvigionamento della città (cura annonae): tale mandato era reso necessario dal fatto che la popolazione di Roma era raddoppiata e le distribuzioni frumentarie gratuite di Clodio avevano contribuito ad aumentare le esigenze di vettovagliamento. Pompeo svolse l’incarico con efficienza. Contro Cesare veniva chiesto che si revocasse la legge sull’agro campano e uno dei candidati alle elezioni consolari per il 55, Lucio Domizio Enobarbo, lasciò intendere che se eletto avrebbe proposto la revoca del proconsolato di Cesare in Gallia A questo punto Cesare, incontrato Crasso a Ravenna, si riunì con lui e Pompeo a Lucca dove si accordarono su questo: il comando di Cesare in Gallia sarebbe stato prorogato altri 5 anni con l’ammontare a 10 delle legioni; i tre si sarebbero impegnati a far eleggere Pompeo e Crasso consoli per il 55; dopo il consolato a Pompeo sarebbero toccate le due Spagne e Crasso la Siria. Tutto si svolse secondo i piani Tornato in Gallia Cesare trovò la Bretagna in rivolta: le popolazioni costiere contavano sull’appoggio della loro flotta. Cesare fece costruire sulla Loira un’armata di piccoli e leggeri battelli che grazie all’ingegno del suo legato Decimo Giunio Bruto Albino, gli consentì di dominare sulla terraferma Egli potè rivolgere la sua attenzione sul fronte del Reno. Qui le tribù degli Usipeti e Tencteri avevano attraversato il fiume. Cesare li annientò alla confluenza tra la Mosella e il Reno e compì una spedizione intimidatoria sulla sua riva destra (55). Nello stesso anno fu compiuta un’incursione esplorativa in Britannia. L’anno successivo ebbe luogo in Britannia una campagna militare con 5 legioni, che raggiunse il Tamigi e portò alla sottomissione di tribù della costa. Il 53 trascorse nella repressione delle rivolte nelle regioni della Gallia. La grande crisi si verificò nel 52 nella Gallia Centro-occidentale sotto la guida di Vercingetorige, re degli Alverni. Cominciata con lo sterminio di Romani e italici residenti a Cenabum (Orleans), la sollevazione si estese al territorio compreso tra Loira e Garonna. Cesare si precipitò in Alvernia dove pose l’assedio al centro fortificato di Gergovia. Tentò di espugnare la città e fu respinto. Anche gli Edui defezionarono. Cesare fu costretto a dirigersi verso nord per ricongiungersi alle forze del suo legato Tito Labieno che aveva sconfitto tribù insorte presso Lutetia Parisiorum (Parigi) e insieme inseguirono Vercingetorige che si rifugiò ad Alesia attendendo rinforzi. Cesare fece cingere dai suoi uomini la città con due linee di fortificazione per bloccare gli assediati e per sostenere gli assalti degli alleati galli in loro aiuto. Alla fine la piazzaforte fu costretta a capitolare. Vercingetorige si arrese e fu inviato a Roma dove 6 anni dopo (46) fu fatto decapitare ai piedi del Campidoglio. Nel 51 furono frantumati i centri di resistenza e senza consulto del senato Cesare provvide a dare ordinamento alla nuova provincia Crasso e i Parti: remissione dei debiti e innescava sommosse per sostenerlo. Antonio lo fronteggiò e operò una sanguinosa repressione. Dolabella fu risparmiato ma le vittime furono tante e Antonio subì un grave danno d’immagine Nel 47 Farnace aveva tentato di approfittare della situazione per recuperare i territori paterni. Cesare marciò verso di lui, sconfiggendolo a Zela, nel Ponto Nel 47 Cesare sostò brevemente a Roma dove ripartì per l’Africa ove si erano rifugiati Catone e i pompeiani vinti, che si erano assicurati l’appoggio di Giuba, re di Numidia, ostilissimo sia a Cesare che a Caio Scribonio Curione, che aveva proposto l’annessione del suo regno a Roma. Curione venne sconfitto da Giuba e ucciso. Cesare tuttavia ottenne la vittoria decisiva a Tapso nel 46. Catone morì suicida ad Utica. Toltasi la vita pure Giuba, il suo regno divenne provincia romana col nome di Africa Nova Ritornato a Roma in luglio, Cesare celebrò i trionfi sulla Gallia, sull’Egitto, su Farnace e Giuba e infine fu costretto a partire per la spagna dove avevano ripreso i suoi avversari guidati da Tito Labieno e dei figli di Pompeo, Cneo e Sestio. A Mundia (odierna Cordova, 45) l’esercito nemico fu distrutto: solo Sesto Pompeo si salvò con la fuga e Cesare tornò a Roma. Cesare dittatore perpetuo: mentre era in Egitto Cesare era stato nominato dittatore per un anno, poi prima di partire per la campagna d’Africa era stato eletto al suo terzo consolato insieme a Marco lepido. A metà 46 gli venne conferita la dittatura (rei publicae costituendae) per 10 anni; nel 45 ricoprì il quarto consolato; nel 44 il quinto a cui cumulò a fine febbraio il titolo di dittatore a vita (dictator perpetuus). Ad una così ampia concentrazione di magistrature supreme si era aggiunta una serie impressionante di poteri straordinari. Dopo Tapso era stato fatto per 3 anni praefectus moribus con l’incarico di vigilare sui costumi e di controllare le liste di senatori, cavalieri e cittadini. Gli fu riconosciuta la facoltà di sedere tra i tribuni della plebe, poi assegnata la potestà tribunizia e le prerogative proprie dei tribuni; inoltre la possibilità di fare trattati di pace o di guerra senza consultare il senato e il popolo, di presiedere all’attribuzione di magistrature e di designare i suoi candidati alle elezioni e infine gli vennero offerti gli onori del primo posto in senato, del titolo di imperator a vita e di padre della patria Nel 49 aveva messo mano a tante riforme. Erano stati concessi il perdono e il richiamo in patria a tutti gli esuli e condannati politici. Vennero accordate facilitazioni ai debitori sia per il pagamento di canoni arretrati che per il rimborso prestiti. Il diritto di ottenere la cittadinanza romana venne esteso agli abitanti della Transpadana ad abbracciare tutta l’Italia fino alle Alpi; ne beneficiarono corpi militari, singoli individui e comunità della Spagna, della Gallia e dell’Africa resisi benemeriti. Tra il 46 e il 44 il senato fu portato da 600 a 900 membri, con l’immissione di un gran numero di seguaci di Cesare. Fu aumentato da 20 a 40 il numero dei questori, da 4 a 6 gli edili, da 8 a 16 i pretori: venivano garantite possibilità di far carriera politica ai suoi sostenitori, una reintegrazione annuale del Senato. Furono abbassate le qualifiche censitarie necessarie per l’ammissione all’ordine equestre. Le giurie di tribunali permanenti furono ripartite equamente tra senatori e cavalieri. Furono introdotte sanzioni più severe e fu rivisto il sistema tributario provinciale. Fu limitata la carica dei governatorati, limitandola ad un anno per i propretori e a due per i proconsoli. Fu fatto divieto ai cittadini tra i 20 e 60 anni di allontanarsi dal paese per più di 3 anni. Vennero disciolte le associazioni popolari, riportando i collegia alle loro funzioni originarie di corporazioni religiose. Furono confermate le distribuzioni gratuite di grano ma il numero dei beneficiari fu ridotto a 150.000. fu creato un programma di distribuzione di terre per i veterani di Cesare e più di 80.000 cittadini meno abbienti, specialmente nelle province. Per combattere la disoccupazione in Italia i proprietari vennero obbligati ad impiegare nei pascoli non meno di un terzo di uomini liberi. Con la legge (lex iullia municipalis) furono riordinate e raccordate le norme di governo e di amministrazione pubblica dei municipi e di Roma. Effetti duraturi ebbe la riforma del calendario civile nel 46 e promulgata in quanto pontefice massimo Le idi di Marzo: l’eccessiva concentrazione di poteri, il moltiplicarsi di onori senza precedenti e altre situazioni finirono per creare allarme sia tra gli ex pompeiani sopravvissuti e tra quanti tra senatori e cavalieri venivano colpiti nei loro interessi, ma anche tra alcuni dei sostenitori di Cesare. Nei primi mesi del 44 Cesare, al quinto consolato con Marco Antonio e come suo magister equitum in quanto dittatore Marco lepido, aveva preparato una campagna militare contro i Parti. A Roma venne messa in giro la voce che il regno dei Parti sarebbe potuto essere stato sconfitto solo da un re, andando ad alimentare le voci sulle aspirazioni monarchiche di Cesare. Fu ordita una congiura (guidata da Bruto, Cassio e Bruto Albino). Alle idi di marzo del 44 cadde trafitto dai pugnali dei cospiratori Agonia della Repubblica Le fonti: dall’assassinio di Cesare ad Azio (44-31): le principali fonti sono costituite da Cassio Dione e da Appiano e nei libri III-V delle guerre civili che giungono fino alla cattura di sesto Pompeo nel 35 a.C. le lettere e le filippiche di Cicerone sono una fonte di valore eccezionale fino alla morte di Cicerone nel 43. Da ricordare anche la pseudociceroniana Epistula ad Octavianum e la Vita di Augusto di Nicola di Damasco. Orazio e Virgilio danno testimonianza della loro epoca sebbene le loro opere risalgono a dopo il 31. Nell’VIII dell’Eneide risale una descrizione della battaglia di Azio. Importanti sono le trattazioni di Livio e di Velleio Patercolo. Il quadro è completato dalle biografie con la Vita di Antonio e la vita di Bruto di Plutarco e la vita di Augusto di Svetonio per quanto concerne la documentazione epigrafica i documenti più importanti sono in lingua greca: la città di Afrodisia di Caria ha restituito una numerosa documentazione. La lettera di Ottaviano contribuisce a chiarire i rapporti tra il triumviro e le province orientali prima di Azio. Al periodo posteriore della battaglia risale la redazione del dossier su Seleuco di Rhosos, un comandante navale che aveva parteggiato per Ottaviano. Al 31 risale una lettera di Ottaviano agli abitanti di Mylasa. Per la documentazione latina ricordiamo l’iscrizione del monumento commemorativo di Azio. Per il triumvirato di grande interesse è la Laudatio Turiae, elogio di una donna che si opera per il marito, colpito dalle proscrizioni. Accenni si trovano anche nelle res gestae divi augusti L’eredità di Cesare; la guerra di Modena: abbattuto Cesare, i cesaricidi non avevano abbattuto i suoi collaboratori tra cui Lepido e Marco Antonio. Dopo un primo sbandamento questi ultimi cominciarono a riorganizzarsi intorno ad Antonio e Lepido nonché ad altri cesariani eminenti come Aulo Irzio, fedelissimo di Cesare con cui aveva militato in Gallia, Spagna e Oriente e Caio Vibio Pansa Cetroniano, cesariano sin dai primi tempi. I Cesaricidi erano convinti che bastasse solo l’uccisione del dittatore per tornare alla vecchia lotta politica. Lepido, in procinto di partire per la Gallia e la Spagna Citeriore poteva contare su una legione accampata fuori Roma, caldeggiava l’idea di assalire subito i congiurati sul Campidoglio e vendicare Cesare. Antonio non intendeva cedere a Lepido un ruolo di primo piano e mirava a far sì che fossero riconosciuti gli ultimi decreti del dittatore compresa la designazione dei magistrati in carica e i loro successori. Antonio riuscì a imporre una politica di compromesso, ratificata dal senato, approvata il 17 marzo: l’amnistia per i congiurati e la convalida degli atti del defunto e il consenso ai suoi funerali di Stato. Dolabella sarebbe stato console insieme ad Antonio e le province già attribuite sarebbero state confermate agli assegnatari, congiurati compresi (Bruto Albino doveva ricevere la Gallia Cisalpina). Fu stabilito che dopo il consolato ad Antonio sarebbe toccata la Macedonia dove si concentravano le truppe per l’impresa partica e a Dolabella la Siria. Antonio seppe trasformare le esequie di Cesare in una manifestazione di furore popolare anche se fu abolita la dittatura dalle cariche dello stato Antonio usò le carte di Cesare per far approvare una serie di decreti che gli assicurarono popolarità. Questo lo rese l’interprete della politica di Cesare e il suo continuatore. Alla lettura del testamento si scoprì che Cesare aveva nominato suo erede effettivo per i tre quarti di beni il figlio adottivo Caio Ottaviano, suo pronipote. Il resto andava a due parenti, Lucio Pinario e Quinto Pedio. Era una decisione privata e familiare. Al popolo di Roma andavano i giardini di Trastevere e ad ogni cittadino 300 sesterzi. Alle idi Ottaviano si trovava ad Apollonia in Illiria per radunare le truppe per l’impresa partica. Saputo del testamento si recò in Italia insieme a pochi amici tra cui Marco Vipsanio Agrippa e giunse a Roma accompagnato da manifestazioni di simpatia dei veterani cesariani in Campania. Da lì reclamò l’eredità. Entratone in possesso ne onorò le clausole volendo vendicarne la morte, concentrando su di sé l’appoggio dei cesariani più accesi e dei veterani mentre in Senato lo videro come il mezzo per arginare Antonio. Antonio per controllare meglio l’Italia si era fatto assegnare dai comizi al posto della Macedonia la Gallia Cisalpina e la Gallia Comata (i territori gallici conquistati da Cesare) per 5 anni. Nel corso dell’estate Bruto e Cassio, ai quali era conferito l’incarico di curare il rifornimento granario dalla Sicilia e dall’Asia, avevano deciso di lasciare l’Italia e di dirigersi in Macedonia e Siria. Quando Antonio mosse verso la Gallia Cisalpina, il governatore originariamente designato, Bruto albino, rifiutò di cedergliela e si rintanò a Modena, assediato da Antonio. Ebbe inizio la guerra di Modena (43). Il senato ordinò ai due consoli Aulo Irzio e Caio Vibio Pansa Cetroniano di muovere in soccorso di Bruto Albino; ad essi era stato associato con un imperium propretorio anche negli anni successivi a Filippi Antonio si era concentrato sull’Oriente. Le sue prime necessità furono finanziarie: tributi furono imposti alle comunità d’Asia, poi si preoccupò di procurarsi l’alleanza di re e principi orientali. Il regno più potente era l’Egitto che aveva ingenti risorse economiche. Convocata Cleopatra VII a Tarso nel 41 la regina indusse Antonio a trascorrere l’inverno del 41-40 in Egitto. Nella primavera del 40 i parti di Orode II invasero la Siria e dilagarono in Asia Minore e in Giudea, dove prendeva consistenza il potere di Erode, riconosciuto a Roma col titolo di Re. Antonio fu richiamato in Italia per le conseguenze della guerra di Perugia. Vi si trattenne fino al 39 quando partì alla volta di Atene Prima della fine del 39 il generale antoniano Publio Ventidio Basso respinse i Parti dai territori provinciali romani; nel 38, divenuto governatore in Siria fronteggiò un loro nuovo tentativo di invasione e li ricacciò di là dall’Eufrate. Nel 37 si aprì in Partia una crisi dinastica che consentì ad Erode di espellere i Parti dalla Giudea e da Gerusalemme. Antonio non potè approfittarne perché in primavera fu costretto a recarsi a Taranto per il rinnovo del triumvirato. Dopo l’accordo di Taranto tornò in Oriente lasciando Ottavia in Italia. nel 37 cercò di dare nuovo assetto ai territori d’Oriente, ritrovò Cleopatra. l’attribuzione di territori che erano stati romani a principi locali e l’assegnazione all’Egitto di una parte della Cilicia, della Fenicia, della Celesiria, di una porzione dell’Arabia e forse di Cipro contribuirono a fornire elementi per la campagna diffamatoria che Ottaviano stava montando in Italia Nella primavera del 36 Antonio diede inizio alla spedizione partica. Attraverso l’Armenia invase i parti da nord, assediando Fraaspa (attuale Azerbaigian). Avendo perduto le macchine d’assedio, distrutte dai Parti, non riuscì a prendere la città e si ritirò. Il 35 fu trascorso a fare nuovi preparativi per l’invasione, che ebbe luogo nel 34 riuscendo solo a conquistare l’Armenia. Nel 35 si era consumata la definitiva rottura tra Antonio e Ottaviano, in seguito alla beffa giocata da Ottaviano in seguito alla sconfitta coi Parti. Ottaviano restituì solo 70 delle navi inviate da Antonio e gli inviò solo 2.000 uomini invece dei 20.000 pattuiti. Antonio cadde nella provocazione e ingiunse a Ottavia di tornare indietro. Adesso Ottaviano era l’offeso, oltraggiata la sorella e una donna romana e moglie legittima scacciata a causa di Cleopatra Antonio celebrò la conquista dell’Armenia con una cerimonia ad Alessandria confermando a Cleopatra e Tolomeo Cesare il trono d’Egitto, Cipro e Celesiria attribuendo anche altri territori ai figli avuti da lui con lei Lo scontro finale; Azio: Antonio non ebbe più tempo per intraprendere un’altra impresa partica. Nel 32 il triumvirato si avviò alla scadenza. I due consoli del 32 Cneo Domizio Enobarbo e Caio Sosio chiesero la ratifica delle decisioni prese da Antonio. Ottaviano ne impedì al senato l’approvazione. I consoli e 300 senatori abbandonarono l’Italia per andare da Antonio che rispose inviando ad Ottavia un atto di ripudio Rivelando un testamento in cui Antonio disponeva di essere sepolto ad Alessandria accanto a Cleopatra Ottaviano chiese che il triumviro fosse privato dei suoi poteri e anche del consolato del 31. Si presentò come il difensore di Roma. Ottenuto giuramento di fedeltà da parte di tutta l’Italia e dalle province occidentali dichiarò guerra contro Cleopatra. lo scontro determinante avvenne nel 31 ad Azio sulle coste dell’Epiro. Antonio e Cleopatra si rifugiarono in Egitto. Quando Ottaviano penetrò con le sue truppe e prese Alessandria (31) i due si suicidarono. L’Egitto fu dichiarato provincia romana. Anche Tolomeo Cesare era stato eliminato, come anche Antillo, figlio di Antonio e Fulvia L’impero da Augusto alla crisi del III secolo Augusto: le fonti: Augusto e la prima età imperiale: il suo principato diede una forte impostazione alla politica culturale. Se le maggiori informazioni sulla sua politica si ritrovano in opere del II e del III secolo, nella biografia di Svetonio e in Cassio Dione, non vanno dimenticati gli autori contemporanei. Tra di essi va ricordata la biografia di Augusto scritta in greco da Nicola di Damasco e il II libro della Storia Romana di Velleio Patercolo. La storia di Livio si basa sulle periochae. L’età augustea è documentata nella poesia. Cornelio Gallo, autore di elegie, fu prefetto d’Egitto e una sua iscrizione trilingue (geroglifico, latino, greco) dall’isola di File che documenta la rapida espansione romana nel paese. Anche Virgilio, Orazio, Tibullo, Properzio e Ovidio sono tra i principali testimoni della vita politica del periodo. Autori in prosa come il geografo Strabone (64 a.C. – 21 d.C.) forniscono dati importanti sull’assetto amministrativo e sulla storia delle singole aree dell’impero. Ad Augusto è dedicato il trattato sull’Architettura di Vitruvio. Sono utili anche l’opera di Floro, di Sesto Aurelio Vittore, Etrupio e Paolo Orosio. Le fonti epigrafiche dall’età di Augusto assumono una dimensione numerica rilevante e significativa per ricostruire la storia politica e l’ideologia imperiale, l’importanza delle iscrizioni, monumenti, statue. Emblematico è il ruolo delle Res Gestae. Fu grazie alla capillare diffusione di questo testo che noi conosciamo le imprese di Augusto. Di grande importanza è anche la lettera del 9 a.C. del proconsole d’Asia, Paullus Fabius Maximus e connesse deliberazioni del Koinon d’Asia, che introducono il nuovo calendario nella provincia d’Asia. Per via epigrafica ci sono giunti altri documenti ufficiali tra cui i giuramenti di fedeltà all’imperatore; i cinque editti di Augusto e il decreto del senato da Cirene; i Fasti Praestini, redatti da Verrio Flacco; gli elogia del Foro di Augusto; i decreta Pisana per la morte di Caio e Lucio Cesare; la Tessera paemeiobrigensis con cui si concede l’immunità fiscale a una popolazione della Spagna rimasta fedele durante le rivolte cantabriche; la Tabula hebana, la tabula siarensis e la tabula Ilicitana, altre 3 tavole in bronzo trovate in Etruria e spagna concernenti le disposizioni dei defunti Germanico e Druso Minore; il senatoconsulto de Cn. Pisone Patre. La politica di estensione di diritti ai provinciali è attestata da due documenti epigrafici: nella tavola di Lugdunum si conserva il provvedimento di ammissione al senato dei notabili della Gallia Comata, la tavola Clesiana contiene l’editto di Claudio sulla concessione della cittadinanza ad alcune popolazioni alpine. La tavola di bronzo con la lex de imperio Vespasiani, contenente il conferimento dei poteri imperiali a Vespasiano. Oltre a questi documenti vanno ricordate le iscrizioni municipali, i regolamenti delle città organizzate secondo la lex flavia municipalis e della lex malacitana e i paralleli statuti municipali. Le iscrizioni di opere pubbliche, i cursus honorum dei singoli personaggi costituiscono una delle fonti principali per ricostruire la struttura amministrativa dell’impero, la fiscalità, i rapporti tra gli imperatori e le autorità provinciali e cittadine e forniscono dettagli per contestualizzare informazioni note per altra via. Gli scritti dei giuristi come le Istituzioni di Gaio di età antonina, unica opera giuridica del principato da parte di Ponzio Pilato. Tra i giuristi ci sono anche Paolo e Ulpiano, vissuti alla corte di Settimio Severo, autori di libri di diritto civile e pubblico. Ulpiano compose più di 200 libri in cui illustrava il diritto romano anche a beneficio dei nuovi cittadini che avevano acquisito il nuovo status dopo l’editto di Caracalla e scrisse un’opera sui doveri connessi alla carica di governatore provinciale. Le loro opere ci sono note dal digesto giustinianeo Per la storia economica e sociale sono fondamentali papiri e monete, utili anche per l’ideologia imperiale. La documentazione papiracea proviene in gran parte dall’Egitto e anche dalla Mesopotamia e dal deserto di Giuda. Tra i testi augustei più importanti ci sono l’elogio funebre per Agrippa e l’editto per i privilegi dei veterani. Nei papiri sono conservati documenti della vita quotidiana di carattere privato, lettere, conti, contratti e il rapporto dei singoli con l’autorità. Contengono anche testi letterari di qualsiasi genere, dalla letteratura poetica a quella in prosa ecc. grazie ai papiri conosciamo testi di polemica politica pensati per una circolazione locale. Per i membri della dinastia Giulio-Claudia e per i Flavi oltre alle biografie di Svetonio vi è la storia Romana di Cassio Dione nei libri dal LVII al LX che coprono gli eventi dal 47 d.C. per gli eventi successivi il testo è lacunoso. Grazie al fatto che l’opera di Dione rappresentò in età bizantina il testo di riferimento per la storia di Roma, dalla sua opera gli eruditi Giovanni Xifilino (XI secolo) e Giovanni Zonara (XII) trassero riassunti che compensano le parti mancanti La narrazione più importante degli eventi della prima età imperiale è data dagli annali e dalle storie di Tacito. Il senatore Tacito rappresenta la vetta più alta della storiografia tradizionalista e aristocratica di Roma. Specialmente a causa dell’oppressione di Domiziano Tacito tratteggia a tinte fosche il principato. Tacito viene accolto nell’ordine senatorio da Vespasiano (apparteneva ad una famiglia equestre), la sua carriera politica segnò una battuta d’arresto con Domiziano; solo alla sua morte nel 97 pervenne al consolato. Gli annali coprivano gli anni dalla morte di Augusto a Nerone ma sono pervenuti solo i primi 6 libri e dall’XI al XVI. Le storie erano relative al periodo più recente: riguardavano gli eventi tra il 69 al 96 ma ci rimangono solo i primi 4 libri e parte del V, che coprono l’anarchia militare del 69-70. La sua prima prova era stata la vita di Agricola e in seguito la Germania. A lui viene attribuito anche il Dialogo sugli oratori Per singoli periodi o specifici eventi esistono altre fonti letterarie come l’opera di Velleio Patercolo che presenta nel II libro una narrazione favorevole del principato di Tiberio. Conosciamo la politica di Caligola verso gli ebrei di Alessandria e di Palestina da due opere in lingua greca del filosofo alessandrino Filone. Nella prima narra gli eventi a cui partecipò in prima persona cioè le vicende degli ambasciatori presso l’imperatore e la politica antiebraica di Caligola, nella seconda denuncia il comportamento fazioso tenuto dal prefetto equestre Aulo Flacco. Gli stessi eventi sono ricordati anche da Flavio Giuseppe che in greco pubblicò una storia della guerra giudaica del 66-70. Ottenne la cittadinanza romana da Vespasiano per avergli predetto la conquista del potere Lucio Anneo Seneca scrisse importanti opere come la clemenza e i benefici, un importante epistolario e opere filosofiche, scientifiche, morali e letterarie e una polemica letteraria contro Claudio. Materiale importante può essere ricavato dalla storia naturale di Plinio il Vecchio ma anche dalle opere di Stazio, marziale e Giovenale. Publio Stazio fu poeta alla corte di Domiziano. Un poema con competenza solo a Roma e l’Italia e solo in seguito avrebbe rivestito un comando militare provinciale in veste di proconsole e propretore. L’intervento di Silla aveva avuto lo scopo di aumentare il numero degli eleggibili a cariche che andavano moltiplicandosi I consolati del 31 e del 30 videro: nel 31 Antonio (designato ma dichiarato decaduto) e Ottaviano (tutto l’anno, III consolato); nel 30 Ottaviano (IV consolato) e Marco Licinio Crasso; suffetti (supplenti) Caio Antistio Vetus (in luogo di Crasso), Marco Tullio Cicerone (in luogo di Vetus) (figlio dell’oratore) Si presentò un problema di convivenza istituzionale. Crasso, nipote del triumviro e collega di Ottaviano nel 30 si era distinto come proconsole nel 29 e 28 in Macedonia vincendo i Bastarni, Geti e Traci. Rivendicava sia il trionfo e il diritto di deporre le spolia opima (spoglie prese da un generale romano fornito di imperium dal corpo del capo dei nemici da lui ucciso di sua mano) nel tempio di Giove Feretrio a Roma. Il prestigio militare di Ottaviano ne sarebbe stato scalfito. A Crasso il senato decise di concedere solo il trionfo (nel 27) e gli fu rifiutata la salutazione imperatoria. Dopo questo episodio di lui non si sa più nulla Nel 29 mentre era assente dall’Italia Ottaviano fu eletto console per la V volta insieme a Sesto Appuleio, suo nipote; supplente Potito Valerio Messalla. Ottaviano rimase in Oriente a sitemare lo stato di quella zona. Le donazioni antoniane furono abrogate mentre i titoli detenuti dagli altri maggiori principi vassalli vennero confermati. Questi re ebbero il controllo di ampi reami che presidiavano le frontiere orientali: Polemone nel Ponto, Aminta in Galazia, Archelao in Cappadocia e Erode in Giudea. La questione partica e l’esigenza di porre rimedio alla sconfitta di Carre vennero abbandonate. Le province romane in Asia restavano ridotte a 3: Asia, Bitinia-Ponto e Siria Ottaviano ritornò da Roma solo nella bella stagione ricevendo festeggiamenti e onori. La sua presenza, ad agosto del 29 fu coronata da 3 trionfi: per le campagne dalmatiche del 35-33, per Azio e per la sconfitta dell’Egitto Nel 28-27 il consolato fu condiviso con Agrippa. Nel 28 Ottaviano (VI volta) e Agrippa (II) a cui erano stati attribuiti i poteri censori, procedettero alla lectio senatus, che fu epurato dai membri indegni e indissero un censimento. Ottaviano fu fatto princeps senatus. Vennero indotti a dimettersi 190 senatori, antoniani, e ne furono cooptati nuovi tra i fedelissimi. Al 28 si data un’emissione monetale aurea che ritrae la testa di Ottaviano coronata d’alloro con la legenda imp(erator) Caesar Divi f(ilius) co(n)s(ul) VI e al rovescio Ottaviano togato, assiso su uno scranno curule, con un volumen nella destra, ai suoi piedi uno scrigno che doveva contenere altri rotoli e la legenda leges et iura p)opuli) R(omani) ovvero p(opulo) R(omano) restituit cioè “ha rimesso in sesto l’ordinamento giuridico romano). Si ritiene che l’aureo faccia riferimento all’abolizione delle norme emanate al di fuori di ogni legalità nell’età triumvirale e nelle guerre civili. Si stava preparando il passo del 27 Il rapporto tra organismi repubblicani e potere del principe: la translatio dello stato al volere decisionale del senato e del popolo romano nel 27 a.C.: all’inizio dell’anno Ottaviano entrò nel suo settimo consolato avendo come collega e collaboratore Agrippa (console per la III volta). In una famosa seduta del senato (13 gennaio) Ottaviano rinunciò ai suoi poteri straordinari accettando solo il comando decennale delle province non pacificate (province di Cesare) e sulle rispettive guarnigioni legionarie: la Spagna non ancora soggiogata, le Gallie, la Siria, Cilicia, Cipro e l’Egitto. Gli furono assegnati anche i regni clienti, i principati e le tetrarchie. Fu ridato al popolo il potere decisionale sul governo delle “pacificate” in cui non vi era bisogno di forti contingenti militari (province del popolo). questa ripartizione dava ad Ottaviano competenza sulla maggior parte delle forze legionarie disponibili ed evitava che altri legionari potessero conquistare gloria e seguito militare riportando vittorie su fronti importanti. All’inizio la distinzione non fu netta: in Africa, nell’Illirico, in Macedonia e in Panfilia sono documentati nei primi anni del principato proconsoli governatori al comando di forze legionarie. Nel corso del principato augusteo la ripartizione del 27 a.C. subì aggiustamenti. Qualche giorno dopo il senato lo proclamò “Augusto” appellativo che lo proiettava in una dimensione sacrale. Si aggiunse la corona civica per essersi prodigato per la salvezza dei cittadini e lo scudo d’oro su cui erano elencate le virtù di Augusto (virtù, clemenza, giustizia e pietà verso gli dei e la patria) per comprendere i fondamenti del potere di Ottaviano Augusto dopo il 27 oltre al possesso consolare fino al 23 fu il suo alone carismatico l’architettura istituzionale si rivelava ispirata alla prudenza e al compromesso con la tradizione repubblicana senatoriale. Traeva esperienza dalle guerre civili e non si poteva immaginare di porre in discussione l’opportunità che il potere venisse detenuto da un solo individuo. La nuova organizzazione statale rappresentava il superamento delle istituzioni della città stato. Le strutture della Repubblica non furono abolite e il loro funzionamento ridivenne regolare sia per quelle ordinarie sia per il senato e i comizi. In questo sistema si era insinuata la figura del princeps che deteneva il comando dell’esercito. Si poneva come un punto di riferimento e di equilibrio tra le componenti della nuova realtà che poteva definirsi imperiale: l’esercito, le province, il senato, la plebe urbana. Dal 26 al 23 a.C.: dal 26 al 23 continuò ad essere eletto console, dall’VIII all’XI volta, nel 26 con Tito Statilio Tauro (II volta) nel 25 con Marco Giunio Silano, nel 24 con Caio Norbano Flacco, nel 23 con Aulo Terenzio Varrone Murena. Tutti erano o suoi fedeli o appartenenti alle parti cesariane. Tra il 27 e il 25 a regime non stabilizzato, ma contando su colleghi fidati al consolato, fu assente da Roma e si recò in Gallia e Spagna settentrionale, dove combattè gli Asturi e i Cantabri. Ciò lo fece per dimostrare di provvedere con solerzia alla pacificazione dei territori assegnatili e rafforzava i contatti con l’esercito e gli ufficiali. Alternava sempre un periodo triennale in cui stava fuori Roma e un periodo biennale in cui risiedeva in città, anche per permettere il passaggio graduale al nuovo ordine e per rispettare la prassi secondo cui governavano il Senato, il popolo e i magistrati La crisi del 23 a.C.: nel 23 si verificò una grave crisi scandita da: una malattia che fu quasi esiziale, un processo di Stato, una congiura. In Spagna Augusto si era ammalato tanto che nel 24 tornò a Roma dove si sentì in fin di vita in linea di principio i poteri dati ad augusto erano personali per cui non trasmissibili per via ereditaria. Con la sua morte la gestione della cosa pubblica sarebbe tornata allo Stato anche se la situazione che si era venuta a creare presupponeva che alla testa dello stato ci fosse una persona sola, monocrate di fatto. La scomparsa prematura di Augusto avrebbe riaperto le guerre civili. Ottaviano aveva già iniziato a far progredire politicamente alcuni membri della sua famiglia ma il tempo era insufficiente. In assenza di figli maschi Giulia (maggiore) da lui avuta da Scribonia, era diventata il fulcro delle sue strategie politiche. Nel 25 a.C. aveva sposato il cugino Marco Claudio Marcello, figlio di Ottavia. Nel 29 Marcello aveva una posizione già preminente rispetto a Tiberio, primogenito di Livia; tra il 27 e il 25 era stato con Augusto tribuno militare nella campagna catabrica; nel 24 era entrato a far parte del collegio dei pontefici e nel 23 aveva assunto l’edilità curule. Tuttavia quando Augusto sentì di essere arrivato alla fine consegnò il suo anello col sigillo ad Agrippa e la lista delle truppe e delle pubbliche entrate al collega al consolato Cneo Calpurnio Pisone che aveva sostituito Murena. Augusto però si riprese e guarì perfettamente mentre Marcello morì nel 23 e nel 21 Giulia fu data in moglie ad Agrippa Iniziava ad essere motivo di irritazione il fatto che dal 31 Ottaviano ricopriva uno dei due posti del consolato limitando l’aspirazione di molti. In questa situazione avvenne che Marco Primo fosse tratto in giudizio per alto tradimento per aver mosso guerra, come proconsole di Macedonia, al popolo degli Odrisi Traci senza averne avuto autorizzazione. Si difese dicendo che era stato autorizzato dallo stesso princeps e coinvolgendo insinuazioni contro Marcello. Augusto comparve in tribunale e il suo diniego comportò la condanna dell’imputato. Murena nel 23 fu coinvolto nella congiura ordita da Fannio Cepione, esponente di ambienti filorepubblicani per eliminare Augusto. Si incrinò anche l’amicizia con Mecenate, della cui moglie Murena era fratello A metà anno Augusto depose il consolato e non lo ricoprì fino al 5 a.C. e nel 2 a.C. in sostituzione ottenne un imperium proconsolare rinnovabile a vita, conferitogli in forma tale che non dovesse deporlo più quando si trovava a Roma o in Italia. ciò gli consentiva di agire con i poteri di un promagistrato su tutte le province, all’occorrenza anche su quelle attribuite al popolo con un imperium superiore a quello dei governatori che le reggevano designati dal senato. Egli si definiva procunsul L’imperium proconsolare non consentiva però ad Augusto, quando era a Roma di agire nella vita politica, non poteva convocare né il senato né il popolo. ricevette quindi dal senato la tribunicia potestas vitalizia anche se rinnovata annualmente. Con essa Augusto diveniva il protettore della plebe a Roma, poteva convocare i comizi, porre il veto e godere della sacrosantitas cioè diveniva sacro e inviolabile senza l’obbligo di non allontanarsi da Roma. Gli fu dato il diritto di convocare il Senato. Aveva poteri che presi isolatamente erano compatibili con la tradizione repubblicana mentre era incompatibile che fossero detenuti contemporaneamente. La rinuncia alla carica di console lasciava piena disponibilità della carica all’aristocrazia senatoria. Con la sistematica introduzione, specie dal 5 d.C. di consoli suffetti (supplenti) si aumentò il numero di posti da ricoprire. Quanto alle elezioni esse erano state ristabilite in forma regolare dal 27 anche se potevano essere influenzate da Augusto tramite la nominatio (accettazione delle candidature da parte del magistrato che sovraintendeva l’elezione) e la commendatio (raccomandazione da parte dell’imperatore stesso). Nel 5 d.C. una legge consolare Valeria Cornelia istituì un complicato sistema di compromesso che teneva conto della nuova realtà politica e che durò fino alle integrazioni di età tiberiana. I comizi centuriati ratificavano i candidati preselezionati tramite votazione preliminare che li designava (destinatio), affidata a 10 centurie destinatrici che dovevano essere composte da senatori e cavalieri tratti dalle liste dei giudici per i giudizi pubblici. I senatori e cavalieri erano ripartiti nelle centurie tramite un meccanismo di sorteggio. Questo