Scarica Riassunto: manuale Letteratura latina. Dall'alta repubblica all'età di Augusto G.B. Conte e più Dispense in PDF di Letteratura latina solo su Docsity! LATINO I: LA SCRITTURA NELLA VITA PUBBLICA DI ROMA I FASTI: Un’importante categoria di documenti scritti sono i fasti: il termine designa in origine il calendario ufficiale romano, che ogni anno i pontefici stabilivano e divulgavano pubblicamente. I giorni dell'anno erano divisi in fasti e nefasti, a seconda che in essi fosse permesso o vietato il disbrigo degli affari pubblici. Ben presto i fasti si cominciarono ad arricchire di altre informazioni: dalle liste dei magistrati nominati anno per anno (fasti consulares, fasti pontificales) a quelle dei trionfi militari ottenuti dai magistrati in carica (fasti triumphales). La quantità di informazioni depositate nei fasti aumentò progressivamente. GLI ANNALES: Dalla tabula dealbata agli annales Un altro passo importante fu l'uso della cosiddetta tabula dealbata: il pontefice massimo usava esporre pubblicamente una «tavola bianca» che dichiarava, oltre ai nomi dei magistrati dell'anno in corso, anche avvenimenti di pubblica rilevanza, come date di trattati, dichiarazioni di guerra, fatti prodigiosi o cataclismi naturali. Queste registrazioni ufficiali, depositandosi anno per anno, presero il nome collettivo di annales e cominciarono a formare una vera e propria memoria collettiva dello Stato romano. In età graccana il pontefice Publio Muzio Scevola si incaricò di riunire in volumi gli annales degli ultimi 280 anni: la raccolta prese il nome di Annales Maximi. periodo e a questo ambito risalgono anche i fasti, cioè il calendario ufficiale di Roma, regolato dai Pontefici; L'influsso degli annales sulla storiografia romana Gli annales ebbero enorme importanza come impulso per la struttura di opere storiografiche latine; alcuni fra i maggiori storici di Roma, come Tito Livio e Tacito, preservarono nelle loro opere l'intelaiatura cronologica di queste registrazioni, basando sullo schema anno per anno la narrazione della storia di Roma. Così la tradizione degli annales contribuì allo sviluppo di un modello originale di storiografia latina, indipendente da influssi di origine greca. I COMMENTARII: Nel latino classico il termine commentarii ha un vasto raggio di applicazione: può indicare «appunti», «memorie», «osservazioni» a carattere privato. Per commentarii i Romani intendevano opere «non professionali» (di nome, non sempre di fatto), caratterizzate da un apporto di informazioni e memorie personali. L'origine di questa produzione risale a una pratica dei magistrati di età repubblicana. Un magistrato importante, per esempio un console, raccoglieva in una sorta di diario i provvedimenti e gli eventi principali del suo periodo di carica. Questi commentarii potevano assumere un carattere di documentazione ufficiale, essendo depositati presso i collegi sacerdotali. I TESTI GIURIDICI: La composizione delle XII tavole costituì una forte conquista civile e politica. Redatte da un’apposita commissione negli anni 451-450 e messe per iscritto su dodici tavole di bronzo che si trovavano esposte nel foro. I Romani dell'età classica le consideravano il più autentico fondamento della loro identità culturale: secondo Livio (3, 34, 6) esse rappresentavano il fons omnis publici privatisque iuris; i ragazzini le imparavano a mente, i dotti continuavano a commentarle e ad analizzarle. Cicerone definisce carmen le leggi delle XII tavole: se consideriamo le monumentali assonanze, le allitterazioni, la scansione in cola ritmici paralleli e staccati, che conferiscono alle norme del diritto un sicuro effetto di sanzione inappellabile, questa definizione appare pienamente giustificata. I PRIMORDI DELL'ORATORIA: L’oratoria, cioè l’arte di saper parlare, era per i romani più importante della scrittura. I romani delle origini consideravano la scrittura come una tecnica, una pratica manuale, mentre l’arte oratoria veniva considerato un importante mezzo per l’esercizio politico e per raggiungere il successo politico. La parola è strumento di persuasione, fondamento della vita civile e politica almeno fino alla guerra di Taranto tra 280 e 272 a.C. L'oratoria era considerata l'unica attività intellettuale veramente degna di un cittadino di elevata condizione. Mentre i primi poeti furono per lungo tempo (fino ad Accio e Lucilio) dei liberti, oppure degli italici di modesta condizione, l'oratoria fu sin dall'origine una prerogativa dell'aristocrazia. A differenza della vera e propria letteratura, che rientrava negli otia, nel tempo libero voluttuario e individuale, l'oratoria era considerata parte integrante e indispensabile della vita attiva. Non a caso il primo nome che incontriamo nella storia delle lettere latine è una figura semileggendaria di iniziatore della retorica: Appio Claudio Cieco, di nobilissima stirpe, console nel 307 e nel 296, censore nel 312, dittatore. Di Appio Claudio la tradizione celebra l'efficacia e l'abilità oratoria. Si dichiarò contrario alle trattative di pace con Pirro, pronunciando in Senato una famosa orazione: Cicerone ne parla come il primo discorso ufficiale pubblicato a Roma (contro la pace di Pirro). I CARMINA: I romani definivano carmina le composizioni più disparate: troviamo la parola riferita a preghiere, giuramenti, profezie, sentenze ma anche proverbi, scongiuri ecc. Dall'uso generalizzato del termine si deduce pertanto che il carmen arcaico non è tale per il suo contenuto, quanto per la sua forma. Ciò che i Romani intendono per carmen è una sorta di prosa dotata di una tessitura ritmica molto intensamente segnata e percepibile, caratterizzata da ripetizioni foniche (come l’allitterazione) e morfologiche, e soprattutto da corrispondenze fra i membri (o cola) della frase, costruiti in modo che abbiano uguale lunghezza e uguale composizione sintattica. Inversamente, la poesia arcaica (affidata al verso saturnio, di cui oggi sappiamo ricostruire pochissimo) ha una struttura metrica curiosamente 'debole', in quanto sottostante a regole larghe, a norme dall'intelaiatura non rigida. Le più antiche forme di carmina che ci sono giunte riguardano una produzione di carattere religioso e rituale, legata all'esecuzione di pubblici riti annuali. Le principali testimonianze che abbiamo sono relative a due importanti carmina rituali - il Saliare: era il canto del venerando collegio sacerdotale dei Salii, istituito, secondo la tradizione, da Numa Pompilio. I Salii erano i dodici sacerdoti del dio Marte, che ogni anno nel mese di marzo recavano in processione i dodici scudi sacri, gli ancilia: uno di essi era il famoso scudo caduto dal cielo, pegno della protezione divina su Roma. - l'Arvale: I Fratres Arvales, un collegio di dodici sacerdoti nel mese di maggio levavano un inno di purificazione dei campi (in latino arva) implorando la protezione da Marte e dai Lares (gli spiriti 'buoni' dei defunti). *In entrambi i carmina è presente un ritmo a tre tempi. GLI ELOGIA Ai carmen appartiene anche un genere di testi epigrafici per noi molto interessante, le iscrizioni celebrative o elogia di uomini illustri. L'elogium probabilmente più antico, quello di Lucio Cornelio Scipione, console nel 259 a.C., databile intorno al 240 o 230 a.C I CARMINA TRIUMPHALIA In occasione del trionfo, i soldati improvvisavano canti in cui alle lodi del vincitore si mescolavano liberamente scherni e pasquinate: forse anche qui è sensibile un'originaria funzione apotropaica, per cui l'esaltazione del successo veniva moderata e temperata dal riso, in modo da non suscitare effetti di empia tracotanza. (quindi di allontanare dal vincitore l’invidia degli dèi) IL TEATRO ROMANO ARCAICO: Le date più significative per il teatro romano sono il famoso 240 a.C. e il 207 a.C. quando viene fondato il collegio di attori e scrittori. A partire dal 240 a.C., anno della prima rappresentazione teatrale in lingua latina su testo (probabilmente una tragedia) di Livio Andronico, per oltre un secolo la cultura romana conosce una straordinaria fioritura di opere sceniche e di rappresentazioni teatrali. Tutti i poeti romani di cui ci è giunta notizia in questo periodo scrivono per la scena, molto spesso alternando tutti i vari tipi di generi teatrali codificati. Le forme del teatro romano sono: - La palliata: (Terenzio, Plauto, Cecilio Stazio) Commedia latina di ambientazione greca * il principale genere comico, la palliata, così definita dal pallio, che appunto era un tipico indumento dei Greci (sono autori di palliate - La coturnata: (Livio Andronico, Nevio, Ennio, Pacuvio) Tragedia romana di ambientazione greca. * il principale genere tragico, la cothurnata; i coturni erano gli altissimi calzari degli attori tragici greci (sono autori di coturnate Livio Andronico e Nevio, ma soprattutto Ennio, Pacuvio e Accio). Gli autori di palliate e coturnate presentano regolarmente le loro opere non solo come ambientate in Grecia, ma anche come derivate da precisi e conosciuti modelli greci. Questo dato è presupposto anche nei rapporti con il pubblico colto, che può meglio cogliere le finezze degli adattamenti e persino fare un paragone con gli originali greci. - La togata: commedia di ambientazione romana - La praetexta: tragedia di ambientazione romana di carattere storico, con intento di celebtrare eventi propri della romanità. La mediazione etrusca È possibile, ma non certo, che i generi teatrali greci siano giunti a Roma attraverso la mediazione etrusca. In effetti, i termini tecnici della drammaturgia sono tutti di origine greca o etrusca (come la parola histrio per «attore»). C'è poi la testimonianza dello storico Tito Livio, che afferma, in un passo famoso ma problematico, l'origine etrusca degli spettacoli romani; ma, se è sicuro che gli Etruschi praticavano e quindi potevano 'esportare' spettacoli di musica e danza, non abbiamo alcun indizio certo di una loro produzione di testi teatrali, o, ipotesi per noi più suggestiva, di una loro frequentazione dei generi istituiti dal teatro greco. IL MODELLO GRECO: I modelli per commedia e tragedia sono quelli greci: i latini si rifanno, soprattutto nel caso della commedia, alla commedia di Menando, la cosiddetta commedia nuova. Ciò che cambia dal modello greco è in prima cosa la forma: • la commedia greca prevede cinque atti con intermezzi musicali • nella commedia latina scompare la divisione in cinque atti e la struttura si articola in tre momenti: - il recitato: la parte in cui si dialoga/recita senza musica. (in senario giambico) - il recitativo: parte caratterizzata dall’accompagnamento musicale (in settenari trocaici) - i cantica: (polimetrici) Inoltre, la palliata ha una grande musicalità e varietà che non è presente nella commedia di Menandro. Una cosa che viene meno dal modello greco è il realismo borghese. Il passaggio dalla commedia greca a quella latina non è una semplice opera di traduzione: nell’azione di riscrittura c’è una modifica sostanziale data dal passaggio ad un altro codice espressivo, ad una nuova modalità di esecuzione. Nel caso della tragedia, l’elemento di differenziazione più importante è la soppressione del coro (che nei modelli greci aveva funzione di commento all’azione drammatica). Questa modifica comportò profondi mutamenti strutturali, che investirono anche la forma metrico-stilistica. Da una parte, infatti, i tragici latini dovettero riassorbire nelle nuove presentazioni sceniche anche ciò che delle parti corali sembrava loro meritevole o indispensabile. Dall'altra, la scomparsa della lirica corale apriva nelle tragedie come un vuoto di stile e di immagini: nelle parti corali i tragici greci avevano prodigato le loro immagini più ardite, le più impressionanti e alate figure di stile. I tragici latini ovviarono a questo vuoto alzando, mediamente, tutto il livello stilistico dei loro drammi. La tragedia latina è caratterizzata da uno stile che, nella sua elevatezza, appare uniforme, e che si oppone nettamente alla lingua quotidiana. I poeti tragici latini, che non avevano a disposizione tesori di lingua d'arte già consolidati, sfruttarono ogni risorsa disponibile: calchi dalla lingua poetica greca, arditi neologismi, prestiti dal solenne linguaggio ufficiale della politica, della religione e del diritto. Essi riuscirono così a dotare la tragedia di un suo linguaggio identificabile, come dimostra il fatto che Plauto e il poeta satirico Lucilio imbastiscono sullo stile 'esagerato' di Ennio e Accio delle parodie di sicura efficacia, con grande riuscita comica. L'ORGANIZZAZIONE DEGLI SPETTACOLI TEATRALI: Le rappresentazioni impegnano - le autorità statali, che organizzano i festival teatrali - la nobiltà, spesso coinvolta nella protezione degli artisti, - il popolo minuto, che di certi generi (come la palliata di Plauto, il massimo commediografo latino) è il principale fruitore. A Roma il teatro coinvolgeva tutta la collettività (tra cui i committenti, del ceto dirigente, che influenzano i contenuti soprattutto delle tragedie latine), in quanto momento di svago. Teatro e feste religiose: Un legame solo formale. In tutta l'età repubblicana, il teatro latino trova il suo spazio istituzionale in occasione di feste e solennità religiose. Sembra però che a Roma il legame fosse, fin dall'inizio, più esteriore: le feste erano certamente un momento di aggregazione, ma non sembra che il teatro latino abbia avuto al suo interno una forte presenza di tematiche connesse alla sensibilità religiosa o al contenuto delle singole celebrazioni festive. La più antica ricorrenza teatrale è quella legata alla celebrazione dei ludi Romani in onore di Giove Ottimo Massimo: fu ai ludi Romani del 240 che Livio Andronico, a quanto risulta, mise in scena il primo testo drammatico 'regolare', una tragedia su modello greco. I Romani di età classica sentivano questa data come il principio del loro teatro nazionale. La messa in scena: Come erano messe in scena le opere teatrali? Gli oneri finanziari erano dello Stato, rappresentato dai magistrati organizzatori. I magistrati dovevano trattare con gli autori, e con un'altra figura importante, il «capocomico» o dominus gregis, che dirigeva la compagnia, faceva da impresario e talora poteva collaborare con gli stessi autori da lui prescelti: famoso è rimasto l'attore-impresario Lucio Ambivio Turpione. Il primo teatro di pietra fu edificato a Roma solo nel 55 a.C.; si pensa che prima esistessero solo strutture provvisorie, in legno. Dobbiamo pensare che le rappresentazioni della palliata - impostata su modelli della Commedia Nuova, - - fossero in grado di riprodurre, sulla scena, gli allestimenti propri del teatro greco. Le maschere e i costumi: Un aspetto fondamentale della messa in scena era costituito dall'uso di maschere: Queste maschere erano fisse per determinati tipi di personaggi, che ritornavano praticamente in ogni trama di commedia: il vecchio, il giovane innamorato, la matrona, la cortigiana, il lenone, lo schiavo, il parassita, il soldato, e altri ancora. La loro funzione era di far riconoscere, sin dall'inizio dell'azione scenica, quale fosse il 'tipo' del singolo personaggio. Non a caso i prologhi di Plauto, che forniscono al pubblico informazioni sulla trama, citano i personaggi a seconda del loro 'tipo' generale (il vecchio, il giovane, il lenone...) e non insistono invece sui nomi, che il pubblico faceva più fatica a individuare e ricordare. L'uso delle maschere doveva avere anche un'implicazione pratica. Un attore, cambiando maschera e costume, poteva recitare più di una parte. LE GUERRE PUNICHE E L’ORIENTE GRECO: LE GUERRE PUNICHE: DALLA SICILIA A NUMANZIA La nascita della letteratura a Roma s'inquadra nel fenomeno generale della progressiva ellenizzazione della cultura latina. Questo processo ebbe inizio, come abbiamo visto, in età antichissima, ma divenne via via più intenso nel corso del III secolo a.C. In seguito alla conquista romana dell'Italia meridionale (272 a.C.) e della Sicilia (241 a.C.); giunse poi al suo massimo sviluppo durante e dopo la seconda guerra punica (218-202 a.C.) e nei primi decenni del II secolo, quando le guerre in Oriente portarono alle vittorie sui regni ellenistici di Macedonia (197 e 168 a.C.) e di Siria (189 a.C.) e all'estensione dell’egemonia romana in tutto il bacino del Mediterraneo, comprese la Grecia e l'Asia Minore. Con Cartagine, Roma intratteneva da secoli pacifici rapporti A partire dall'VIII secolo a.C., Cartagine aveva dato inizio a un'intensa politica di espansione sulle coste spagnole, in Sardegna e in Sicilia. In breve tempo, la città divenne la più importante potenza del Mediterraneo occidentale, costruendo un impero commerciale orientato all'acquisizione di metalli pregiati. Le relazioni tra Roma e Cartagine si incrinarono dopo la guerra contro Taranto (272 a.C.): Roma rafforzò notevolmente la propria posizione nel Mediterraneo, imponendo a tutte le città del Mezzogiorno trattati di alleanza; di conseguenza, la sfera d'influenza politica e commerciale dei Cartaginesi si ridusse di molto, benché la Sardegna, la Corsica e parte della Sicilia fossero rimaste sotto il loro controllo. LA I GUERRA PUNICA: Proprio la Sicilia, ambita per la posizione strategica e le risorse del territorio, fu al centro della I guerra punica. Occasione dello scontro furono alcuni gravi disordini provocati da un gruppo di mercenari, ribellatisi contro il tiranno di Siracusa, la più potente tra le città greche che ancora controllavano parte dell'isola: i ribelli, dopo essersi impadroniti di Messina, chiesero dapprima l'aiuto dei Cartaginesi, poi si rivolsero ai Romani, che decisero di intervenire attratti dai vantaggi economici e strategici delle ricche regioni siciliane. Dopo aver sconfitto i Siracusani, i Romani affrontarono i Cartaginesi e allestirono a questo scopo una flotta grazie alla quale riportarono importanti vittorie navali. La guerra si protrasse per oltre quindici anni, dal 264 al 241 a.C., e si concluse con la vittoria romana presso le isole Egadi. Cartagine fu costretta a cedere i domini in Sicilia e a pagare una pesante indennità di guerra. I Romani fecero della Sicilia la loro prima provincia, garantendo tuttavia l'autonomia al territorio di Siracusa, che era rimasta fedele alleata durante la guerra. Il resto del territorio fu affidato al governo di un pretore inviato da Roma e fu imposto il sistema delle decime sul raccolto. II GUERRA PUNICA: Poco dopo, nel 238 a.C., i Romani si impadronirono della Sardegna e della Corsica, trasformandole in altre due province, e negli anni immediatamente successivi estesero il proprio dominio anche su gran parte della Gallia Cisalpina. Una volta perse la Corsica e la Sardegna i cartaginesi avevano nel frattempo concentrato i loro interessi in Spagna, conquistando vaste regioni. Nel 219 a.C. il comandante cartaginese Annibale espugnò e distrusse la città di Sagunto, alleata di Roma, che rispose dichiarando guerra. Annibale intraprese un'azione rapida e inaspettata: marciando con il proprio esercito, valicò in pochi giorni i Pirenei e le Alpi; si diresse quindi verso sud, infliggendo gravi sconfitte agli eserciti romani (la più grave, a Canne, in Puglia, nel 216 a.C.). I romani riuscirono a resistere e contrattaccare i Cartaginesi in Spagna. Parallelamente, Roma evitava lo scontro frontale con l’esercito di Annibale. In Spagna i Romani ottennero importanti successi, tra il 209 e il 206 a.C., sotto il comando di Publio Cornelio Scipione (poi detto "l'Africano"), che conquistò quasi tutti i territori occupati dai Cartaginesi. Tornato a Roma ed eletto console nel 205 a.C., Scipione riuscì a far prevalere la strategia offensiva e ad organizzare una spedizione in Africa. Appena sbarcato, nel 203 a.C., sconfisse i Cartaginesi presso Tunisi. Data la gravità della situazione, Annibale fu costretto a tornare in Africa, ma nel 202 a.C. a Zama venne definitivamente battuto da Scipione. LA FINE DI CARTAGINE: LA III GUERRA PUNICA Le durissime condizioni di pace imposero a Cartagine - la rinuncia alla Spagna e ad una parte dei territori africani (a vantaggio dei Numidi, alleati di Roma) - la consegna dell'intera flotta - il pagamento di un enorme indennizzo e il divieto di condurre guerre, anche in Africa, senza il consenso di Roma. Roma aveva così acquisito un’incontrastata egemonia sul Mediterraneo occidentale. Anche se l'antica rivale non costituiva più per i Romani un pericolo né politicamente né economicamente, tuttavia l'annessione del suo territorio poteva favorire gli interessi dei commercianti italici e soprattutto quelli dei ceti agrari. Fu Catone il Censore, portavoce di tali interessi, a sostenere la necessità dell'intervento di Roma finalizzato alla distruzione di Cartagine. Nel 146 a.C., dopo tre anni d'assedio, la città fu incendiata e rasa al suolo dal console Publio Cornelio Scipione Emiliano (figlio di Lucio Emilio Paolo e nipote adottivo di Scipione l'Africano), la popolazione fu ridotta in schiavitù e il territo- io divenne una nuova provincia romana, la provincia d'Africa. Nel 197 a.C. anche la Spagna era stata organizzata dai Romani in due province, governate ciascuna da un pretore I CONFLITTI IN GRECIA E IN ORIENTE I GUERRA MACEDONICA: Nel a.C. Roma era intervenuta contro gli Illiri, che esercitavano la pirateria nell'Adriatico, e aveva stabilito importanti basi nel loro territorio. Filippo V di Macedonia che mirava a espandere il suo regno verso l'Illiria, reagì stringendo un'alleanza con Annibale, ma nel 205 a.C. fu facilmente sconfitto dai Romani, legatisi a loro volta con Pergamo, Rodi e con gli Etoli. II GUERRA MACEDONICA: Quando le mire espansionistiche di Filippo lo indussero ad allearsi con Antioco III di Siria per attaccare i possedimenti egizi nell'Egeo, il Senato romano decise di intervenire, dichiarando nel 200 a.C. guerra alla Macedonia Nel 197 a.C. il console Tito Quinzio Flaminino sconfisse Filippo a Cinocèfale, in Tessaglia: secondo il trattato di pace, il sovrano s'impegnava a ritirarsi entro i confini dell'originario regno macedone. GUERRA SIRIACA: All'inizio del II secolo a.C. Cartagine e la Macedonia erano state sconfitte, l'Egitto era in decadenza: le sole grandi potenze del Mediterraneo rimanevano dunque la repubblica romana e il regno di Siria. Lo scontro era inevitabile, dato che Antioco mirava a occupare territori dell'Asia Minore, minacciando il regno di Pergamo e di Rodi, alleati di Roma. La situazione precipitò nel 192 a.C., quando gli Etòli, insofferenti delle ingerenze romane, chiesero l'intervento del regno di Siria. Antioco fu sbaragliato a Magnesia, in Lidia, nel 189 a.C. e fu costretto a restituire tutti i territori che ancora possedeva in Asia Minore (spartiti tra Pèrgamo e Rodi) e a pagare una pesantissima indennità di guerra. III GUERRA MACEDONICA: Alla morte di Filippo V, gli successe il figlio Perseo, che si alleò con il re di Siria e fu capace di creare rapporti amichevoli anche con i più fidati alleati di Roma. Questo atteggiamento, benché non direttamente ostile ai Romani, si scontrava con la volontà di egemonia imperialistica di Roma, che non tollerava politiche indipendenti. Nel 171 a.C. la maggioranza del Senato romano decise di dichiarare guerra a Perseo. La guerra fu un atto di vera aggressione imperialistica: a essa si era opposto, senza successo, un gruppo di senatori, tra cui Catone il Censore. Perseo fu sconfitto a Pidna nel 168 a.C. dal console Lucio Emilio Paolo. La Macedonia fu suddivisa in quattro repubbliche indipendenti, soggette al pagamento di tributi. L’azione di Roma aveva liberato la Grecia dall’egemonia macedone per imporne una più dura: la crescente ingerenza romana nei rapporti tra le città greche portò al prevalere progressivo di tendenze antiromane, che sfociarono in una ribellione dei Greci contro Roma. La rivolta suscitò una repressione da parte dei Romani proprio negli stessi anni della TERZA GUERRA PUNICA che si concluse anch’essa nel 146 a.C. con la distruzione di una città, Corinto. La Grecia fu ridotta quindi a provincia, dipendente dalla Macedonia, anch’essa divenuta nel 148 a.C. provincia romana; mantennero invece la loro autonomia, restando alleate di Roma, le città che non avevano partecipato alla rivolta, come Atene e Sparta. Nel 133 a.C. avvenne poi un'altra considerevole acquisizione territoriale nel Mediterraneo orientale: il regno di Pergamo fu lasciato dal re Attalo III in eredità al popolo romano e successivamente, nel 126 a.C., fu ridotto a provincia (la provincia d"Asia"). L'APERTURA VERSO LA CULTURA GRECA: IL "CIRCOLO SCIPIONICO" Con l'espressione "circolo scipionico" si indica il gruppo di uomini politici e di letterati, romani e greci, che si raccoglieva intorno a Scipione Emiliano, figlio di Lucio Emilio Paolo, il vincitore di Pidna. Nel cosiddetto "circolo scipionico" molti storici di Roma e della letteratura latina hanno visto un momento decisivo nel processo di ellenizzazione della cultura romana: per la prima volta nell'ambiente scipionico si sarebbe realizzata una sintesi armoniosa tra le due opposte tendenze, conservatrice e innovatrice, con la piena consapevolezza, da parte dei Romani più qualificati intellettualmente, della necessità di vivificare e di arricchire il loro mondo spirituale con l’apporto della cultura greca, pur nel rispetto e nella salvaguardia dei valori tradizionali: e dall'incontro tra spirito romano e filosofia ellenica sarebbe nato l’ideale dell'humanitas, insieme con il senso nuovo di una missione morale e politica assegnata all’egemonia di Roma. Questa interpretazione del "circolo scipionico" è stata però giustamente ridimensionata dagli studi più recenti. Alle soglie del 240 a.C., proprio quando la dirigenza romana avverte forte l’esigenza di utilizzare la scrittura, entrano in campo esponenti sociali di ceti meno elevati, che grazie al possesso della scrittura diventano protagonisti del panorama culturale. Si tratta di ex schiavi, personaggi originari della Magna Grecia oppure dell’area italica, o personaggi che non hanno cittadinanza romana. Primo tra tutti, Livio Andronico; liberto originario della Magna Grecia e della gens Livia, di cui si racconta fosse fatto prigioniero a Taranto nel 272: è il suo patronus che ne favorisce l’ascesa culturale. Anche Nevio non è di stirpe nobile; campanus di Capua di origine plebea, cives romano sine suffragio: la sua è una cultura di confine, caratterizzata da influenze latine, greche e osche (aspetto comune anche ad altri autori della latinità arcaica). Plauto: originario di Sarsina, secondo la tradizione varroniana sarebbe stato ridotto a schiavitù per debiti. In gioventù diventa allievo di Nievo, col quale collabora. È possibile che abbia avuto la cittadinanza romana quando la sua città diventa municipio nel 266; sicuramente aveva diritti civili ridotti in quanto attore teatrale (incluso quindi tra coloro che erano colpiti dall’infamia, categoria generale di minorazione della capacità giuridica). Ennio è un autore di confine, tra cultura osca, latina e magno greca, originario della penisola salentina. Ottiene la cittadinanza romana nel 184 grazie ad un patronus. Cecilio Stazio è anch’egli scrittore (commediografo), nativo di Milano, condotto a Roma (diventa liberto di qualche membro della gens Cecilia) perché fatto schiavo nel 222, quando la sua città viene conquistata. Pacuvio, autore tragico, nipote di Ennio, di origine osca: non sappiamo se ottenne la cittadinanza. Terenzio è di origine cartaginese, schiavo e poi liberto di un senatore romano (di cui assume il nomen gentilizio). LIVIO ANDRONICO: Come altri scrittori latino-arcaici Livio è uomo di frontiera, giunge a Roma a partire da Taranto a seguito di un patronus, Livio Salinatore (da cui prende il nome perché probabilmente lo rende liberto). Svetonio (storico biografo) ci riporta che Livio Andronico fu anche grammaticus, quindi maestro di scuola, e scrisse per il teatro. 240 a.C. e 207 a.C. sono le date che lo riguardano il 207 è soprattutto l’anno nel quale secondo Tito Livio, Andronico avrebbe composto il famoso Inno a Giunone regina (partenio e inno processionale, verosimilmente un carmen). Viene composto nel 207, vigilia della partenza dei consoli Livio Savinatore e Claudio Nerone a capo delle legioni contro Asdrubale, quando si verificano a Roma una serie di prodigi che, spaventano i romani (poiché tra questi prodigi c’è anche la nascita di un androgeno). Si decide allora di far partire una precessione di 27 vergini, precedute da due giovenche bianche, da due statue di Giunone e altro: questo coro avrebbe dovuto innalzare un inno a Giunone: l’inno in questione è composto da Andronico e probabilmente egli stesso era stato direttore del coro (acquista qui notorietà). Dopo quest’affermazione Livio ebbe pubblici onori e la sua 'associazione professionale', il collegium scribarum histrionumque (vedi p. 36), fu insediata in un edificio pubblico, il tempio di Minerva sull' Aventino. Questo riconoscimento, che per la prima volta assegnava uno statuto ufficiale alla produzione letteraria, è anche l'ultima notizia che possediamo sulla vita di Livio. La sua fama è sostanzialmente legata all’Odusìa, traduzione, in metro saturnio, dell’Odissea omerica. Fu anche autore di teatro: ci rimangono otto titoli di tragedie (da cui si evince che Andronico attingesse al ciclo troiano) e Dcrisse anche delle palliate (che ottennero minore successo). LE FONTI Di tutta la produzione di Livio Andronico ci restano non più di una sessantina di frammenti, dovuti a citazioni di autori di età repubblicana, o di grammatici. Le informazioni sulla vita di Livio si basano essenzialmente su Cicerone (Brutus, 72 ss.) e Tito Livio (27, 37, 7). GNEO NEVIO: Nevio è il primo autore di praetextae, tragedie di argomento romano, ma soprattutto a lui si deve il primo testo epico di argomento romano, ancora in saturni, il Bellum Poenicum, dedicato al recentissimo conflitto contro Cartagine. LA VITA: Nevio è un campanus, civis romanus sine suffragio. Il fatto di essere un libero plebeo gli avrebbe consentito di assumere una posizione di indipendenza: pare non abbia avuto protettori. Fu soldato nella prima guerra punica e morì tra 204 e 201. In un passo del Miles Gloriosus, Plauto fa riferimento ad un poeta incarcerato, ridotto al silenzio, che secondo alcuni sarebbe Nevio. La testimonianza di Plauto trova riscontro in Gellio: Nevio fu incarcerato a Roma perché avrebbe diffamato i nobiles della città; Gellio sottolinea che li avrebbe infamati alla maniera dei poeti greci: Nevio avrebbe cercato di recuperare nella palliata l’atteggiamento di critica politica e sociale tipico, ad esempio, di Aristofane (commedia antica). Sempre Gellio nel primo libro delle notti attiche riporta l’epitaffio di Nevio (che avrebbe scritto da sé): plenus superbae campanae; Nevio sarebbe stato orgoglioso della sua indipendenza, fiero, libero e non compromesso dal potere. Lo stesso lascia trasparire la superbia e la sicurezza di sé e delle proprie capacità. Fu un autore originale, che godette di particolare successo presso i posteri: Cicerone ne riconosce la grandezza; lascia traccia di sé ma viene presto “sostituito” da Ennio e Virgilio. Fu anche autore di opere prosaiche (autore di teatro, scrive una praetexta di argomento mitologico e una di argomento storico -> duplice interesse che ritroviamo nel poema). Nelle commedie cerca di restaurare i toni della commedia antica; per ciò che attiene alle palliate è stato il più importante predecessore di Plauto. Tra le sue commedie si segnala in particolare la Tarantilla (frammento sulla ragazza di Taranto); utilizzò sicuramente la contaminatio: è Terenzio che ce lo dice, quando nei prologhi è costretto a difendersi da certe accuse, ad esempio quella di contaminatio (sottolineando che lo stesso Nevio ne abbia fatto uso). Per quanto concerne le tragedie (coturnatae: di contenuto mitologico, e due praetextae) sono particolarmente rilevanti le praetextae. È più importante però il Bellum Poenicum: poema in saturni sulla prima guerra punica, di circa 4000 saturni. BELLUM POENICUM: Si tratta di un carmen continuum composto quando i Romani affrontano la minaccia di Annibale durante la II guerra punica, è una sorta di incoraggiamento ai romani. (*verrà successivamente diviso in libri dal grammatico Lampadione) È un carmen tutto sommato breve: la brevitas è una scelta stilistica che aderisce al gusto moderno della poetica ellenistica (callimachea). Scevola Mariotti afferma che il poema neviano testimonia un momento importante sulla penetrazione dell’elemento alessandrino (brevitas) a Roma. (Non che siano pochi 4000/5000 versi; Nevio però in questi versi fonde lo spirito di entrambi i poemi Omerici: elemento guerriero + avventuroso). La scelta di raccontare un argomento storico non è una novità (in Grecia esisteva già). La novità però sta nel fatto che l’autore stesso abbia preso parte all’evento (prima guerra punica). In continuità con Andronico notiamo lo spirito emulativo nei confronti di Omero (che ritroviamo amplificato al massimo in Ennio). L’accostamento tra elemento avventuroso e guerriero viene sottolineato ancora di più dal fatto che le vicende storiche siano recentissime; ciò determina anche differenze di stile e tono, tra la parte propriamente storica e quella mitica. La scelta di un tema storico quasi contemporaneo non era l'unica novità dell'epica di Nevio. L'autore non si limitava infatti a trattare in poesia la guerra contro Cartagine, ma nella prima parte dell'opera, con un salto cronologico arditissimo, toccava le origini leggendarie di Roma. Dai frammenti superstiti, sappiamo che Nevio narrava con una certa ampiezza l'arrivo nel Lazio di Enea, il mitico progenitore troiano dei Romani: in Nevio, come sarà poi in Virgilio, la fondazione di Roma si ricollegava dunque alla caduta di Troia. LA FUSIONE DEL MODELLO STORICO E QUELLO MIOLOGICO: La fusione dei modelli trova un parallelo nella pratica della contaminatio che presiede alla composizione dei testi teatrali. Qui c’è un distacco maggiore tra le due parti, a differenza dell’opera teatrale Non sappiamo come esattamente i due strati fossero connessi tra loro; sicuramente non c’è narrazione continua, ma siamo di fronte a due blocchi distinti: come potrebbe averli collegati? La tesi prevalente è quella dello strzelecki (/streleki/) secondo il quale la parte relativa al mito che costituisce l’archeologia era una sorta di ampio excursus all’interno del racconto della guerra. Un po' come i racconti delle avventure di Ulisse (raccontate da lui stesso a banchetto) nell’Odissea. Questa tesi è quella che ha trovati ad oggi maggiori consensi; è anche stato supposto che Nevio inserisse tra i viaggi di Enea un incontro con Didone: Didone (regina di Cartagine) fungerebbe in questo caso da anello di congiunzione tra due blocchi narrativi. Se è così, allora, Virgilio sicuramente si è ispirato a Nevio quando ha scritto dell’amore infelice tra Enea e Didone LO STILE E IL LINGUAGGIO: Dal punto di vista stilistico il testo di Nevio e propriamente latino-arcaico, di fatti presenta tratti stilistici e di lingua latino-arcaici su cui però si innestano elementi di derivazione greca; figure di suono insistenti, allitterazioni, paronomasia, anafore, ripetizioni, figure etimologiche. Tra l’altro Nevio. È un linguaggio che attinge alla lingua giuridica e sacrale, caratterizzato dalla coordinazione e che procede per ripetizione di vocaboli e di concetti (creando spesso un effetto di sovrabbondanza). Un cambio di intonazione si avverte nei frammenti che riguardano la parte più propriamente storica: lo stile resta solenne ma diventa più cronachistico, attingendo da un lessico militare (linguaggio più semplice e concreto, ma che non perde solennità perché non mancano gli espedienti fonici). IL TEATRO DI NEVIO: Nevio scrisse molto anche per il teatro. LE TRAGEDIE Dei due titoli di praetextae, le prime tragedie latine di argomento storico di cui siamo informati, il Romulus trattava la drammatica storia della fondazione di Roma; Delle tragedie mitologiche, parecchie erano legate al ciclo troiano, prediletto anche da Andronico. LE COMMEDIE Di gran lunga più importante sembrerebbe la produzione comica di Nevio: secondo il canone dei dieci migliori commediografi latini redatto da Volcacio Sedigito, Nevio comico stava al livello di Plauto. Sembra che Nevio componesse palliate da modelli greci, perché Terenzio nel prologo di una sua commedia segnala che già Nevio usava 'contaminare' i modelli ATTACCHI PERSONALI E RIVENDICAZIONI IN FAVORE DELLA LIBERTÀ Il teatro comico di Nevio doveva essere più 'impegnato' di quello del secolo successivo. La sua opera conteneva attacchi personali contro avversari politici, e scandiva a più riprese il suo amore per la libertà Questo spirito censorio ben si adatta all' immagine di Nevio poeta superbo, esaltatore del proprio ingegno. Sarà difficilmente un caso, allora, che molti personaggi delle commedie di Nevio rivendicassero la propria libertà personale, di pensiero e di azione. L'aggressione satirica dell'avversario politico ha un precedente nella commedia ateniese dei tempi di Aristofane (V secolo a.C.), ma non trova altri continuatori nel teatro comico latino. Rispetto allo schema generale ci sono poi delle tendenze: - La commedia del servo: L'azione di conquista del 'bene' messo in gioco è delegata dal giovane (colui che desidera la posta in palio) a un servo ingegnoso; progressivamente, però, i servi crescono di statura intellettuale e di libertà fantastica: creano inganni e persino li teorizzano. Nelle opere più mature il servo sta al centro dell'azione come un vero demiurgo, un artista della frode, un poeta che sotto gli occhi di tutti sceneggia la vicenda Ben definita è anche la scansione temporale, che prevede tre fasi distinte: il servo medita l'inganno, agisce e alla fine trionfa. Su questo schema sono possibili, peraltro, numerose varianti occasionali, che però toccano solo alcune qualifiche esterne, non la sostanza dell'intreccio: è ovvio che il raggiratore possa essere anche un parassita (Curculio) o che anche il servo possa essere, per una volta, un giovane innamorato (come avviene nel Persa). - La commedia della fortuna: La presenza della Fortuna ha un grande valore stabilizzante. Il servo ha bisogno di un alleato, e anche, in fondo, di un antagonista alla sua altezza: altrimenti, certe volte, rischierebbe di dominare sino in fondo la trama come se manovrasse un teatrino meccanico. E la trama comica ha spesso bisogno di uno scatto irrazionale, di un quoziente imprevedibile. La fortuna agisce soprattutto nella commedia del riconoscimento, nella commedia degli equivoci: è lo scatto fortunoso che favorisce il lieto fine. - La commedia del riconoscimento: Sono commedie che ruotano tutte su un riconoscimento, un'identità prima nascosta, o mentita, o casualmente perduta, e poi, fortunosamente, rivelata a tutti. Queste commedie possono passare per una lunga fase di errori e confusioni di persona - si parla allora propriamente di «commedia degli equivoci», come nel caso dei Menaechmi) - oppure, assai spesso, il problema dell'identità salta fuori solo nel finale: ma tutte hanno in comune lo scatto fortunoso dell'agnizione conclusiva, del riconoscimento che scioglie ogni difficoltà. LO SPAZIO DEL SERVO: Fra tutti i personaggi della Commedia Nuova, Plauto ha chiaramente un suo favorito: è il servo, ribaldo, amorale, creatore di inganni e risolutore di situazioni. Questa figura tipica della commedia prende in Plauto uno spazio del tutto eccezionale. È quasi sempre lo schiavo furbo a gestire lo sviluppo dell'intreccio; è lui il solo che, stando sulla scena, può controllare, influenzare, commentare con ironia e lucidità lo sviluppo degli avvenimenti. La posizione del servo astuto, che regge le fila dell'intreccio, ne fa spesso quasi un equivalente del poeta drammatico: come se il teatro plautino trovasse in questa figura uno spazio di rispecchiamento, un modo per giocare con se stesso (è ciò che alcuni chiamano propriamente «metateatro»). Non a caso il servo è il personaggio che, più di ogni altro, gioca con le parole: è un grande cercatore di immagini, di metafore, di doppi sensi, di allusioni, di battutacce, ed è quindi il più vero portavoce dell'originale creatività verbale di Plauto. I MODELLI DI PLAUTO: Plauto sicuramente subisce una grande influenza dalla Commedia nuova e da modelli come Filemone e Menandro, ma oltre ai modelli greci su di lui si avverte anche l’influenza del teatro popolare, in particolar modo dell’atellana. Plauto si preoccupa molto poco di comunicare i suoi modelli e le sue fonti. Su alcuni modelli siamo abbastanza ben informati: Cistellaria. Stichus. Bàcchides si basano su tre commedie menandree (in particolare il modello di Bacchides, la commedia Dis exapaton, «Il doppio inganno», ci è stata restituita quasi integra da ritrovamenti papiracei); È chiaro che Plauto, pur attingendo soprattutto ai grandi maestri della commedia ellenistica, non ha una marcata preferenza per nessuno di essi, e ricorre anche, almeno occasionalmente, ad autori non di primo piano. LE DIFFERENZE CON IL TEATRO GRECO: DIFFERENZE STRUTTURALI: - Plauto non rivoluziona l'intreccio nelle sue linee generali, ma opera comunque trasformazioni significative: La ristrutturazione metrica: riscrive in cantica polimetrici brani recitati o recitativi che nell’originale greco sono trimetri giambici e tetrametri trocaici. - Cancella la divisione in 5 atti - Vi è una trasformazione onomastica: rispetto ai modelli cambia i nomi ma mantiene nomi greci. Per quanto ne sappiamo, Plauto non dà quasi mai a un personaggio il nome che l'originale gli attribuiva, introduce un gran numero di nomi di persona non attestati sulla scena greca; inoltre, pochissimi nomi riappaiono da commedia a commedia. DIFFERENZE STILISTICHE: I tratti costanti e dominanti dello stile plautino hanno in sé ben poco di ellenistico. Queste costanti non riguardano l'intreccio delle singole commedie - aspetto per cui Plauto aderiva più volentieri ai suoi modelli - ma le attraversano tutte quante: sono giochi di parole, bisticci, metafore e similitudini, bizzarri paragoni mitologici, enigmi, doppi sensi, toponimi fantastici e neologismi istantanei, allusioni scherzose alle istituzioni e al linguaggio militare di Roma. Questo compatto registro di stile è senza dubbio un’iniziativa originale di Plauto. LE PARTI CANTATE: La predilezione di Plauto (senza dimenticare, ad esempio, il suo predecessore Nevio) per le forme cantate - estranee alla struttura del modello teatrale menandreo - è uno dei principali fattori che regolano il vertere, la ricreazione in latino dei modelli greci. 'Riscrivere' il contenuto di una scena passando dal codice piano e prosaico dei trimetri greci alle fantasiose armonie dei cantica è già, ovviamente, un'operazione di elevata autonomia artistica UN TEATRO PRIVO DI FINALITÀ DIDASCALICA Ambientazione greca: realismo e straniamento Greci sono i nomi dei personaggi e dei luoghi, certe sfumature legali, certe istituzioni politiche o allusioni storiche: questi dettagli garantiscono che il genere comico ha sede 'altrove', per consentirsi, grazie appunto a questo 'altrove' spiazzante, solo occasionali e vivaci puntate anacronistiche verso la realtà romana. Ma questi dettagli punteggiano e coloriscono situazioni in cui è facilissimo ambientarsi, senza un vero sforzo di traduzione e di relativizzazione. Nessuna morale: il primato del servo Nessuna pretesa didattica e moraleggiante governa queste vicende tipiche. Basta a mostrarcelo, come già si accennava, il primato e il protagonismo incontrastabile dello schiavo furbo, che è il motore della trama e spesso anche del riordino finale. Orientata alla riconferma di un ordine e di una normalità sociale, la commedia plautina ha ben poco di sovversivo; anche il protagonismo dello schiavo, naturalmente, non vuole in nessun modo discutere o corrodere i dogmi della vita sociale; per converso, l'azione imprevedibile e amorale del servo ingegnoso porta nella trama un quoziente di disordine e di irriverenza che arriva quanto meno a sospendere la normalità irreggimentata della vita quotidiana. Il servo è per lo più colui che persegue un risultato legittimo, ma, altrettanto spesso, fa questo con mezzi illegittimi e truffaldini. FORTUNA DEL TEATRO PLAUTINO venti commedie che risalivano alla scelta canonica di Varrone (ventuno, in realtà, ma l'ultima, la Vidularia, era caduta, e ricomparve solo in parte con la scoperta del Palinsesto Ambrosiano al principio dell'Ottocento) continuarono a essere ricopiate per tutto il Medioevo, ma la lettura diretta di Plauto rimase per tutto questo periodo un fatto eccezionale. Dante e i suoi contemporanei ignorano i testi plautini, mentre grande fortuna ha Terenzio. A differenza di Terenzio, Plauto rimase invece per lunghissimo tempo estraneo alla tradizione dell'insegnamento. Le ragioni di questa poca fortuna scolastica sono molteplici: lingua, stile e metrica di Plauto risultavano troppo difficili e richiedevano particolari strumenti di comprensione; inoltre, l'insegnamento normativo della grammatica e dello stile latino si basava su ben altri autori, come Cicerone o lo stesso Terenzio; per di più, i temi e le trame delle commedie si prestavano male (con qualche eccezione, come i Captivi) a un insegnamento rivolto a fornire esempi di moralità e di serietà. L’AULULARIA: L’Aulularia rappresenta un’eccezione a tutto ciò che si è detto. Si tratta della sola commedia che spezza la meccanicità dell’intreccio evitando il caratteristico comico di scena. Per quanto riguarda la sua composizione è possibile azzardare una cronologia; ci sono due riferimenti interni alla commedia: Es. la lex oppia (che limitava il lusso delle donne), che venne abrogata nel 195 -con grande dispiacere di Catone- Come conferma del fatto che sia sicuramente posteriore al 195 è il fatto che viene citata da Megadoro nel suo sermone. l’Aulularia è sicuramente posteriore al 195 perché Megadoro ne fa riferimento nel suo sermone (195: terminus post quem). Meno certo è il terminus ante quem; secondo la maggior parte degli studiosi è il 186, anno in cui ci fu il senatus consultum che abolì i riti baccanali (al verso 408 si allude a questi baccanali come ancora fiorenti, evidentemente non ancora aboliti). LA NOVITA’ RISPETTO ALLE ALTRE COMMEDIE: Plauto non è creatore di caratteri, non ci sono personaggi “vivi”, ma è in questo senso che l’Aulularia si distingue: si presenta come se fosse commedia di carattere (si focalizza sullo studio del carattere del protagonista, l’avaro Euclione -largamente ripreso e imitato successivamente-). Il protagonista, l’avaro, è contraddistinto da un’umanità comica ma anche dolente: soffre per la sua avarizia, che lo mette in guerra con se stesso e con chi lo circonda, compreso il gallo. Si tratta della figura più distante dagli stereotipi plautini, più vicino alla commedia greca; tra l’altro a differenza delle altre commedie, qui tutto è mosso da Euclione e dal suo carattere, non dal servo. LA TRAMA: Il vecchio avaro Euclione trova una pentola (Aulularia è la commedia della «pentola», aula o aulla/olla) piena d'oro sotterrata in mezzo al focolare. È il nume tutelare della casa, il Lar familiaris in persona, a volerne il ritrovamento perché la figlia di Euclione, Fedria, abbia la dote necessaria al matrimonio. Tra molte inutili ansie dell'avaro, che ha un terrore ossessivo di essere derubato, la pentola finisce davvero per sparire; sarà utilizzata dal giovane innamorato, con l'immancabile aiuto dello schiavo, per ottenere le nozze con l'amata, che è la figlia di Euclione. I TEMI: L’originalità dell’Aulularia sta nel fatto che Plauto non punti tanto sul tema convenzionale dell’amore, ma principalmente sull’avarizia. ENNIO: Quinto Ennio nacque nel 239 a.C. a Rudiae, una cittadina (oggi presso Lecce) della regione chiamata dai Romani Calabria (non corrispondente all'odierna Calabria, ma alla Puglia meridionale). L'arrivo a Roma Ennio giunse a Roma in età già matura, nel 204 a.C. A condurlo con sé sarebbe stato, Catone che lo avrebbe incontrato in Sardegna, dove il futuro poeta militava come soldato di guarnigione. A Roma Ennio svolse attività di insegnante, ma presto (entro il 190 a.C.) si affermò come autore di opere teatrali, in particolare di tragedie. (come autore di commedie non fu particolarmente brillante) Il soggiorno in Grecia Nel 189-187 accompagnò il generale romano Marco Fulvio Nobiliore in Grecia, con l’intenzione di raccontare la sua esperienza militare in versi, spingendo contro la coalizione di popoli greci raccolti nella Lega etolica, che culminò nella battaglia di Ambracia. A questa vittoria romana il poeta dedicò una tragedia praetexta, l'Ambracia. Dopo la spedizione greca Ennio godette della protezione della nobile famiglia di Nobiliore e di quella degli Scipioni, entrando a far parte del cosiddetto «circolo degli Scipioni». Come riconoscimento e consacrazione pubblica dei suoi meriti, gli fu concessa la cittadinanza romana. All'ultima parte della sua vita risale la composizione degli Annales, il poema epico che gli avrebbe dato fama perpetua. Ennio mori a Roma nel 169 a.C. * un anno prima della Battaglia di Pidna e che Roma si impossessi della cultura greca e del modello greco in toto. LA PRODUZIONE LETTERARIA La cronologia delle opere di Ennio è incerta: di tutti i suoi testi abbiamo solo frammenti di tradizione indiretta. Un dato certo è che la produzione di tragedie, di grande successo, si estese lungo l'arco di tutta la sua vita, dagli anni giovanili fino alla morte: l'ultima tragedia, Thyestes, fu rappresentata nel 169. Sono giunti fino a noi i titoli di circa venti tragedie coturnate e un numero insolitamente ricco di frammenti. Inoltre, ci sono arrivati i titoli (e soltanto sei versi) di due tragedie praetextae: - l’Ambracia - le Sabinae, legata alla leggenda della fondazione di Roma (il ratto delle Sabine ispirato da Romolo). Attività comica: Ci sono stati conservati i titoli di due commedie, Caupuncula, «L'ostessa», e Pancratiastes, «Il lottatore», ma per la sua produzione comica Ennio era ritenuto un minore. L'esiguità dei frammenti rimasti non permette peraltro né di confermare né di respingere tale giudizio. In effetti, Ennio fu l'ultimo poeta latino a praticare insieme tragedia e commedia. LE OPERE MINORI GLI HEDYPHAGÈTICA A Ennio è attribuita una grande varietà di opere minori, di cui sappiamo ben poco. Gli Hedyphagètica («Il mangiar bene») erano un'opera didascalica sulla gastronomia, ispirata a un poemetto del greco Archestrato di Gela (circa 350 a.C.). Se, come tutto fa pensare, fu composta prima degli Annales, si tratta della prima opera latina in esametri a noi attestata. Ne possediamo undici versi, conservati da Apuleio (II secolo d.C.) nella sua Apologia. Era probabilmente un testo di carattere sperimentale e parodico: lo dimostra già la scelta dell'esametro, tipico dei poemi omerici, e, in generale, della poesia narrativa in stile elevato. LE SATURAE Primo esempio di un genere che avrà larga fortuna nella poesia latina. Ennio probabilmente raccontava episodi autobiografici, ma il contenuto di questa raccolta, in vari libri (quattro o sei) e in metri diversi, è largamente congetturale: ce ne restano 18 frammenti per un totale di soli 34 versi. OPERETTE FILOSOFICHE Altri testi si possono raggruppare per il loro sfondo filosofeggiante. EPIGRAMMI E POESIA ENCOMIASTICA Ennio compose anche epigrammi, in distici elegiaci (un altro dato importante per la fortuna che questo genere poetico avrà a Roma nel secolo successivo e più avanti); ne possediamo quattro di cui due in onore di Scipione l'Africano. I DUE PROEMI PROGRAMMATICI IL PRIMO PROEMIO: Ennio raccontava di avere ricevuto la propria investitura poetica in sogno. Il motivo era tradizionale: già Callimaco in uno dei due proemi degli Aitia narrava di essere stato trasportato in sogno sul monte Elicona, dove le Muse gli avevano insegnato la materia del canto Ennio apriva il suo poema proprio con l'invocazione alle Muse (1 Skutsch, Vahlen): Musae quae pedibus magnum pulsatis Olympum Muse che col vostro passo il grande Olimpo calcate. Tuttavia, Ennio immaginò qualcosa di molto più audace dei suoi predecessori: nel sogno gli appariva l'ombra di Omero (vv. 2-3 Skutsch = 5-6 Vahlen): .. somno leni placidoque revinctus .... preso da un dolce e calmo sonno visus Homerus adesse poeta ... apparve di fronte a me Omero, il poeta. E questo fantasma gli rivelava di essersi reincarnato proprio in lui. Ennio si presentava così come il 'sostituto' vivente di colui che, nel giudizio degli antichi, era il più grande poeta di tutti i tempi. IL 'PROEMIO AL MEZZO': Nel proemio al Libro VII Ennio dava più spazio alle divinità della poesia, le Muse (vv. 206-210 Skutsch = 213- 217 Vahlen): Il poeta sottolineava che queste erano proprio le Muse dei grandi poeti greci, non più le «Camene» dell'arcaico e ormai superato Livio Andronico; e certamente polemizzava anche con Nevio, che aveva poetato in saturni, i versi del passato precivilizzato, adatti alle divinità campestri (Fauni) e agli ancestrali profeti (vates). L'EPICA COME POESIA CIVILE Sul piano dei contenuti morali e ideali, gli Annales accentuano una tendenza che già doveva essere operante in Nevio: fissare nel testo epico non solo racconti di gesta, ma anche valori, esempi di comportamento, modelli culturali. L'epica di Omero era il libro fondamentale della civiltà greca: in esso erano depositati valori etici e tradizioni in cui tutti i Greci erano chiamati a riconoscersi. Su questa scia, i primi poeti epici romani tentano di rispondere al bisogno di una poesia formativa. LA CELEBRAZIONE DELLA VIRTUS ARISTOCRATICA La visione del mondo che Ennio comunica nel suo poema è il trionfo dell'ideologia aristocratica. Gli Annales celebrano la storia di Roma come somma di imprese eroiche dettate dalla virtus degli individui eccellenti: i grandi nobili e magistrati che hanno guidato disciplinati eserciti alla vittoria. LA STORIA FATTA DA GRANDI UOMINI Mentre nei frammenti di Nevio cogliamo celebrazioni anonime e collettive della gloria del popolo romano, dai versi di Ennio emergono ritratti di grandi condottieri e uomini di Stato. In contrasto con Ennio, Catone nella storia romana composta in quegli stessi anni taceva i nomi dei singoli magistrati e condottieri (e ricordiamo anche la sua polemica contro la spedizione di Ambracia). Ennio è dunque il più grande poeta di una cerchia aristocratica che rilegge la storia di Roma in funzione dei propri valori e interessi: un verso famosissimo che ha contribuito a fissare il mito di Roma LA VIRTUS: Tipica di questo periodo è una concezione colta e umanistica della virtus: Ennio infatti non elogia solo, omericamente, le virtù guerriere, ma anche, e forse soprattutto, le virtù di pace: saggezza, moderazione, saper pensare e saper parlare. Il grande ruolo che Ennio tributava alla letteratura, come sappiamo da varie testimonianze, è del tutto coerente con questa tendenza umanistica e grecizzante: è la poesia che deve portare incivilimento. LO STILE DI ENNIO: Dai frammenti che abbiamo emerge la fisionomia di un poeta sperimentale, che adotta uno stile arditamente innovatore. Questa impressione, tuttavia, potrebbe essere accentuata e in parte distorta dalla particolare tipologia delle fonti che ci trasmettono i versi di Ennio, e cioè grammatici e filologi tardo-antichi, interessati per lo più a registrare le peculiarità morfologiche, lessicali o metriche, e quindi i tratti anomali piuttosto che la normalità. GRECISMI Ennio utilizzò numerosi grecismi lessicali (cioè parole greche traslitterate), sintattici (costruzioni tipiche della lingua greca ed estranee all'uso latino) e persino morfologici, giungendo a inventare per esempio un occasionale genitivo in -oeo per ricalcare il genitivo omerico in -oio o abbreviando in do l'accusativo di domus per ricalcare la forma omerica do per doma, «casa». METRICA GRECA E STILE ALLITTERANTE I versi di Ennio sono ricchissimi di figure di suono. Lo stile allitterante era tipico della tradizione indigena dei carmina Ennio lo adotta nell'esametro, sottoponendo così un verso greco agli effetti di uno stile specificamente romano (nella poesia greca l'allitterazione non gioca un ruolo apprezzabile). SPERIMENTALISMO STILISTICO Livio Andronico e Nevio avevano conservato il metro tradizionale e ne avevano fatto il canale di comunicazione di una poesia etica che nel caso di Andronico si risolveva in una traduzione artistica di un testo greco che aveva affinità con la nascente e fiorente cultura romana; nel caso di Nevio la scelta del saturnio diventa atto della sua decisione di rimanere ancorato alla tradizione. Con Ennio la barriera rappresentata dal saturnio viene abbattuta, in quanto introduce l’esametro di matrice omerica. Ennio è cosciente della rivoluzione che scaturisce dall’adottare l’esametro, infatti egli stesso ne parla nella sua opera; va oltre: sente di essere il nuovo Omero. È rilevante come Ennio abbia legato l’esametro a tutti quegli aspetti sonori propri della poesia latino-arcaica, utilizzando le figure di suono es. allitterazioni. TERENZIO: Terenzio: novitas e rivoluzione (rispetto al teatro plautino) regressa, con il recupero dei caratteri menandrei (a differenza di Plauto). Terenzio non si interessa tanto alla psicologia del singolo ma del tipo di personaggio, perciò commedia di carattere. Mira al realismo, cercando quindi di riprodurre quel realismo borghese tipico della Nea. LA VITA: La biografia di Terenzio presenta molti elementi controversi. La sua biografia ci è nota attraverso Svetonio in una vita terentii, tramandataci attraverso il commento di Elio Donati; Ci sono pervenute notizie poco attendibili: la sua data di nascita (anno della morte di Plauto) le dinamiche della morte (morte per annegamento come nel caso di Menandro) Effettivamente è morto durante un viaggio verso la Grecia, che rappresenta inoltre il primo esempio di tour culturale latino. Sono inoltre circolate notizie di varia natura sulla sua vita privata e sui rapporti con i membri del circolo di Scipione; addirittura, si è ipotizzato che il suo fosse il prestanome per le commedie realizzate dai nobiles del circolo. Il legame con gli Scipioni Tutte le fonti antiche sottolineano gli stretti rapporti di Terenzio con Scipione Emiliano e Lelio, che furono sicuramente suoi protettori. Terenzio stesso nelle sue commedie fa cenno al sostegno ricevuto da illustri amici. Su questi rapporti correvano voci denigratorie di vario tipo, secondo cui i veri autori delle opere terenziane sarebbero stati Scipione o Lelio. LE SEI COMMEDIE SUPERSTITI: Terenzio è autore di sei commedie, che si collocano in un periodo di tempo piuttosto breve (166-160 ca). 160: a questo anno risale la notizia che Terenzio avrebbe letto a Cecilio Stazio la sua prima commedia ricevendo approvazione e incoraggiamento. Cecilio Stazio pare sia stato il massimo esponente della palliata, quindi della commedia, nel quindicennio che separa Plauto e Terenzio. *Per ciò che ne sappiamo, Cecilio non era di origine romana ma era giunto a Roma intorno al 222 a.C.; rispetto ai modelli greci e al suo modo di fare commedia, sicuramente Stazio conservava alcuni aspetti di novità del teatro plautino come la varietà materica e una certa libertà nei confronti del modello greco. CRONOLOGIA E TRAME DELLE COMMEDIE: • Andria - Rappresentata con medio successo nel 166 - Modello greco è l'Andria di Menandro, contaminata con la Perinthia dello stesso autore. La ragazza di Andro, da cui la commedia prende titolo, è Glicerio, abbandonata nella fanciullezza e allevata da una cortigiana. Di lei si innamora Panfilo, già fidanzato con Filumena, figlia di Cremete. Quest'ultimo, informato della relazione di Panfilo con Glicerio, va su tutte le furie e manda a monte le nozze del giovane con Filúmena, nonostante i tentativi del padre di Pànfilo di salvare il matrimonio già da tempo combinato. La situazione si complica per le trame di Davo, servo di Pânfilo, impegnato ad aiutare il padroncino. L'intreccio si scioglie con l'agnizione finale: si scopre infatti che anche Glicerio è figlia di Cremete; con il consenso di quest'ultimo, dunque, la ragazza può andare in sposa a Pânfilo al posto di Filumena. • Hècyra Rappresentata nel 165 con totale insuccesso, nonostante la bravura di Ambivio Turpione, l'attore e impresario teatrale di tutte le commedie terenziane; Riproposta senza successo insieme agli Adelphoe nel 160, e finalmente con successo al terzo tentativo, nello stesso 160 - Terenzio rielabora una commedia dal medesimo titolo (che significa «La suocera») di Apollodoro di Caristo, contaminandola con gli Epitrepontes («L'arbitrato») di Menandro. La trama ruota attorno al personaggio di Sostrata, madre di Pànfilo e suocera di Filumena. Sostrata è un personaggio completamente diverso dalla figura stereotipata della madre gelosa del figlio e ostile alla nuora; anzi, si adopra ad appianare le gravi incomprensioni fra i due sposi. Si scopre infatti che Filumena, prima del matrimonio, è stata messa incinta da uno sconosciuto durante una festa notturna: Pânfilo vorrebbe abbandonarla, ma alla fine risulterà che è lo stesso Panfilo lo sconosciuto che ha messo incinta Filumena. Conquistato dall'indole dolce e remissiva della moglie, Pànfilo si riconcilia con lei, rinunciando all'amore per la cortigiana Bacchide, che cerca di favorire anch'essa la riconciliazione tra gli sposi. • Heautontimorumenos - Rappresentata con buon esito nel 163 - Il titolo greco della commedia, che rielabora un omonimo testo di Menandro, significa «Il punitore di se stesso». Protagonista è il vecchio Menedemo, che si è autocondannato a lavorare duramente la terra con le proprie mani, come punizione per aver spinto il figlio Clinia ad arruolarsi in Asia ostacolandone le nozze con una ragazza di umili origini. Quando Clinia ritorna, il padre sa accoglierlo con un affetto più intenso e maturo. Dopo una serie di imbrogli, Clinia riesce anche a sposare la ragazza amata, che nel frattempo si è rivelata figlia di Cremete, amico di Menedemo. • Eunuchus - Rappresentata nel 161, è il maggior successo di pubblico e ‘commerciale' - Terenzio rielabora una commedia dallo stesso titolo di Menandro, traendo alcune scene dal Kolax («L'adulatore») dello stesso Menandro. L'etera Taide, concubina del soldato Trasone, è in realtà innamorata del giovane Fedria. Trasone riporta a Taide la giovane Panfila, che le era cresciuta accanto come una sorella e successivamente era stata venduta. Il fratello di Fedria, Cherea, innamoratosi di Panfila, si traveste da eunuco per farsi consegnare in custodia la ragazza. Trasone, geloso di Fedria, vorrebbe riprendere con la forza Panfila a Taide, ma è costretto a lasciar perdere. Il falso eunuco viene smascherato; ma poi si scopre che Panfila è cittadina ateniese e può quindi sposare Cherea, mentre Taide si tiene Fedria come amico del cuore. • Phormio - Rappresentata con successo nel 161 - Modello è l'Epidikazomenos («Il pretendente») di Apollodoro di Caristo. Formione è un parassita, che attraverso varie peripezie riesce ad aiutare due cugini, Fedria e Antifone, a sposare le ragazze di cui sono rispettivamente innamorati. Anche qui funziona il meccanismo dell'agnizione, perché verso la fine della commedia si scopre che Fanio, la ragazza di cui è innamorato Antifone, è in realtà figlia illegittima di Cremete, padre di Fedria e zio dello stesso Antifone. • Adelphoe - Rappresentata nel 160 - Rielabora una commedia dallo stesso titolo (che significa «I fratelli») di Menandro, traendo tuttavia una scena dai Synapothnèskontes («Coloro che muoiono insieme») di Difilo. La commedia mette a confronto due diversi sistemi di educazione. Demea ha allevato con grande rigore il figlio Ctesifone, mentre ha concesso in adozione l'altro figlio Eschino al fratello Micione, che lo ha educato nella più grande libertà. Demea considera Eschino uno scapestrato corrotto dal lassismo di Micione, e la sua opinione si rinsalda quando si viene a sapere che Eschino ha rapito una ragazza. In realtà, però, Eschino ha commesso il rapimento per conto del fratello, che Demea crede irreprensibile. Dopo varie vicissitudini, tutto si appiana, Ma la commedia ha un finale di difficile interpretazione, dove Demea sembra formulare quasi con dispetto, più che con sincera convinzione, il proposito di adottare i metodi permissivi facili, ma pericolosi - del fratello e di mostrarsi d'ora in poi più condiscendente con tutti. CECILIO STAZIO: LA VITA Cecilio Stazio era un libero di origine straniera. Veniva, pare, da Milano, ed era perciò un Gallo Insubre; dato che l'acme della sua produzione si colloca intorno al 180, è verosimile che sia stato portato a Roma dopo la battaglia di Clastidium del 222. La data di nascita potrebbe essere tra il 230 e il 220; l'attività letteraria colloca Cecilio come contemporaneo prima di Plauto, e poi di Ennio. Di Ennio fu anche amico intimo. Morì un anno dopo di lui, nel 168, e i due poeti furono sepolti vicini. LE OPERE: Di Cecilio ci restano una quarantina di titoli, tutti di palliate, e frammenti per quasi 300 versi. La commedia di gran lunga meglio conosciuta è il Plocium («La collana»); i titoli hanno sia forme greche che latine. UN INTERMEDIARIO TRA PLAUTO E TERENZIO: La posizione storica di Cecilio suggerisce una sorta di mediazione fra Plauto e Terenzio. Gran parte dei frammenti che abbiamo si iscrive perfettamente nell'atmosfera del teatro plautino: grande ricchezza di metri, vivace fantasia comica, sanguigno gusto per il farsesco. Rispetto a Plauto, però, Cecilio sembra più vincolato al modello della Commedia Nuova ateniese. Abbiamo quindi l'impressione che Cecilio fosse un po' più rispettoso dei modelli. Inoltre, egli sembra avere una predilezione decisa per Menandro. L’interesse per Menandro e più sorvegliata adesione al modello greco via via adottato sono tratti che accostano Cecilio a Terenzio e lo staccano da Plauto. Sulla stessa linea si colloca anche la peculiare riflessione sulla condizione umana. PACUVIO E ACCIO La lezione di Ennio tragico venne sviluppata e ripresa dai due maggiori tragici del II secolo a.C., Pacuvio e Accio. La fioritura dei due si colloca, rispettivamente, nel periodo scipionico e nell'età dei Gracchi e di Mario. LA VITA E LE OPERE: Pacuvio, nipote di Ennio, legato agli Scipioni Autore di sole tragedie fu Marco Pacuvio, figlio di una sorella di Ennio, nato a Brindisi intorno al 220 a.C. Fu senz'altro in contatto con personaggi dell'ambiente scipionico. Mori vecchio intorno al 130. Tra le sue tragedie ricordiamo - Illiona (la triste storia della figlia maggiore di Priamo, che, sposata a Polimestore, feroce re della Tracia, sacrifica il figlio Difilo per salvare il fratello Polidoro), - i Niptra, «I lavacri» (sul ritorno di Odisseo a Itaca e la morte dell'eroe per mano del figlio Telegono), - il Dulorestes, «Oreste schiavo». Sappiamo aver scritto anche satire (che non ci sono pervenute), coturnatae (quindi tragedie romane di ambientazione greca Accio, più prolifico di Pacuvio, e versato in vari generi letterari, era invece Lucio Accio, di Pesaro, nato intorno al 170 e già autore di discreta fama intorno ai trent'anni. A partire dal 120, Accio è l'uomo più importante del Collegium poetarum, l'associazione professionale dei poeti; muore fra il 90 e I'80 a.C. Di Accio si conoscono più di quaranta titoli di cothurnatae e frammenti per circa settecento versi. Fra le tragedie di argomento greco le coturnate), ricordiamo - l'Epinausimache («La battaglia alle navi»), la Nuktegrèsia («L'allarme notturno»), entrambe ispirate a episodi dell'Iliade - il Philoctèta (la storia dell'eroe Filottete abbandonato dai Greci sull'isola di Lemno durante la navigazione alla volta di Troia) - l'Asty'anax, - l'Âtreus, - la Medea. Sia Accio che Pacuvio riprendono la lezione di Ennio. Euripide rimane il modello principale, ma ciò che colpisce in entrambi gli autori è la loro volontà di rivitalizzare certi contenuti mitici; cioè vengono ripresi i miti attici ma al contempo attualizzati e rivitalizzati alla luce del nuovo (problemi, istante ed esigenze) romano. Altro elemento caratterizzante è il gusto per il patetico cui si aggiunge il gusto per l’orrido, per il macabro, il pittorico e per l’esotico. (-> tratto che ritroveremo in Seneca) LA TRAGEDIA ROMANA E I MODELLI GRECI La tragedia romana in questa fase continua a basarsi esplicitamente su originali greci ma dall'esame dei frammenti rimasti emerge che anche Pacuvio e Accio rielaborano il modello prescelto in piena autonomia, secondo i canoni della 'traduzione artistica'. L'ACCENTUAZIONE DEGLI ELEMENTI PATETICI E SPETTACOLARI È possibile che i tragici latini abbiano caricato ulteriormente i toni rispetto ai loro modelli antichi e anche ai loro intermediari ellenistici, e abbiano aggiunto al patetico dei rifacimenti greci di età postclassica molti elementi romanzeschi o avventurosi, che senza dubbio contribuivano a fare della tragedia un genere apprezzato e largamente popolare. I loro drammi, così, sono pieni di profezie, naufragi, sogni, sortilegi, di ogni genere di tradimenti e incidenti portentosi. I frammenti che abbiamo esibiscono un gusto particolare per il pittoresco e per l'orrido. Sangue e ossessioni, sono tra gli ingredienti più in voga nel gusto spettacolare. Pacuvio, che era anche pittore, era particolarmente noto per la 'visualità' delle sue descrizioni ATTUALIZZAZIONE: Pacuvio e Accio sottopongono i modelli greci a una consapevole opera di attualizzazione: quando affrontano temi religiosi, politici, morali e filosofici questi autori utilizzano i miti tragici in modo libero, toccando temi e problemi sentiti nella società romana contemporanea. In una società ricca di contrasti, di nuovi fermenti ideologici e culturali, come quella in cui vivono Ennio e ancora di più Pacuvio e Accio, i vecchi miti della tragedia attica offrono nuove possibilità e assumono anche significati attuali. Per esempio, il tema della tirannide, frequente nel dramma attico, torna a essere di attualità e di vivo interesse soprattutto quando, nella media età repubblicana, compaiono sulla scena politica le prime grandi personalità carismatiche: eroici condottieri, demagoghi, grandi oratori. L'INFLUSSO DELLA RETORICA Un altro aspetto in cui la tragedia del II secolo a.C. si lega alla cultura contemporanea è il crescente peso della retorica. L'eloquenza romana conosce in questo periodo uno sviluppo senza precedenti; il processo di assimilazione della raffinata retorica greca è ormai compiuto. Le tragedie, tutte intessute di discorsi, atti a commuovere e persuadere, o contrapposti in veri e propri dibattiti, offrivano ampio spazio all'influenza di questa disciplina del discorso. I TRENTA LIBRI DI SATIRE Lucilio scrisse trenta libri di satire, di cui abbiamo frammenti (quasi tutti brevissimi) per circa 1300 versi. Nel I secolo a.C. circolava un'edizione delle satire luciliane attribuita al grammatico e illustre poeta Valerio Catone; questa edizione era ordinata secondo un criterio metrico, che non corrispondeva però all'ordine cronologico divisi secondo questo ordine: i Libri 1-21, interamente in esametri dattilici; • Libri 1-21: esametri dattilici • Libri 22-25: distici elegiaci • Libri 26-30: giambici, trocaici ed esametri *Si presume che Lucilio avesse pubblicato verso il 130 a.C. una prima raccolta in cinque libri, quelli che noi conosciamo, sia pure frammentariamente, come 26-30. Della sezione in distici elegiaci (quella mezzana, quindi) sappiamo molto poco perché pochi sono i frammenti. Il titolo che egli stesso dà all’intero corpus è probabilmente Poemata, oppure Ludus o Sermones; non usa il termina satura, ma è possibile che abbia utilizzato il titolo greco Schedia, che significa improvvisazioni, per sottolineare il carattere improvvisato di questi componimenti. In realtà Lucilio è bravo ad imitare l’improvvisazione, ma si tratta sempre di testi che sono il frutto di un iter e di impegno. A livello stilistico potrebbe presentare tratti di trascuratezza, verbosità, prolissità, elementi che gli vengono contestati da Orazio pur riconoscendone l’ingenuum: parla di uno stile che manca di quella lima propria, invece, di Orazio stesso. Il titolo Non è affatto sicuro che il titolo Saturae risalga a Lucilio stesso, ma Orazio usa il termine satura per designare quel genere di poesia inaugurato dall'opera di Lucilio; nei frammenti che ci restano, Lucilio chiama le sue composizioni col nome di poemata, o anche sermones (o meglio ludus ac sermones, cioè «chiacchiere scherzose»); un'altra ipotesi è che il titolo primitivo dell'opera fosse, con nome greco, schèdia, «improvvisazioni». VARIETÀ DI TEMI E MOTIVI NELLA SATIRA DI LUCILIO Una produzione di trenta libri non può certamente essere ricostruita sulla base di frammenti brevi e citati per lo più a causa delle particolarità grammaticali che contenevano. Per quanto sappiamo, Lucilio affrontò uno spettro molto ampio di argomenti. Il grosso delle citazioni di Lucilio ci perviene dai grammatici (ad esempio da Carisio e Diomede, Macrobio) perché interessati alle parole difficili e rare di cui l’autore abbonda. • Il concilium deorum: Il Libro I conteneva una vasta composizione nota come Concilium deorum; attraverso una parodia dei concili divini, scena tipica dell'epica (da Omero a Ennio), Lucilio prendeva di mira un certo Lentulo Lupo, personaggio inviso agli Scipioni: gli dei decidevano di farlo morire per indigestione. Per quanto riguarda il I libro tutti sono d’accordo per la presenza del tema del concilium deorum: gli dei si riuniscono per discutere della morte di un certo Cornelio. • Il viaggio: Il Libro III delle Satire conteneva la colorita narrazione di un viaggio in Sicilia; un tema, quello del viaggio, che ritornerà per esempio nella satira oraziana (1, 5) e anche nel Satyricon di Petronio. Lucilio racconta il viaggio da lui stesso fatto via mare -> primo diario poetico (Lucilio racconta in prima persona una situazione che gli riguarda). • Una lettera personale: Al V libro risale una lettera personale: Lucilio è ammalato e scrive ad un amico (a ciò si ispira forse il carme 38 di Catullo). • Elementi erotici: Nel VII libro sono sicuramente presenti elementi erotici, che nel libro VIII vengono declinati a livello personale (auto erotismo autobiografico) • Tema amoroso: Il XVI libro è probabilmente dedicato alla donna amata: se questo è vero Lucilio sarebbe da considerarsi precursore della poesia d’amore sia lirica che elegiaca. • Questioni letterarie: Il IX libro (e sicuramente anche il X) contiene un’aspra polemica letteraria contro Accio (che sarà un dei bersagli preferiti di Lucilio), poeta tragico criticato per lo stile ampolloso e forzato. • Filone gastronomico: Il XX libro è interessante perché compare un tema che avrà fortuna nei satirici successivi, cioè l’allestimento di un banchetto da parte del parvenu (l’uomo arricchito) Granio -> archetipo/modello di altri testi satirici (ad esempio in Orazio, Petronio e Giovenale). Nel libro XXVI c’era sicuramente una satira proemiale -> “abitudine” che permane fino a Giovenale, che scrive una satira proemiale programmatica, nella quale giustifica e spiega la sua scelta letteraria. Lucilio in questo testo proemiale inserisce il rifiuto per la poesia epica a favore della satira, genere che gli risulta più congeniale e affine (dice che l’epos non si addice al suo temperamento). Ritroviamo in questo stesso testo la critica al genere tragico, perché ci sono parodie di Pacuvio e di Accio: evidentemente in questo testo proemiale Lucilio prendeva le distanze dal poema epica e dalla poesia tragica e affermava la propria vocazione satirica come un fatto legato fondamentalmente al suo temperamento. Lucilio sottolinea il fine concreto del suo testo: vuole essere gioia per gli amici e dolore per i nemici. Quando prende le distanze dalla poesia tragica e dalla poesia epica e afferma la sua vocazione satirica forte, specifica anche il tipo di pubblico: né dotto né del volgo; quello di Lucilio è un pubblico di media cultura, rappresentato verosimilmente dalla cerchia di amici -> nesso con Orazio, che rivolge le sue satire proprio alla cerchia di amici. IL 'REALISMO' STILISTICO DI LUCILIO La poesia di Lucilio rifiuta un unico livello di stile, e si apre in tutte le direzioni; amalgama il linguaggio elevato dell'epica, rivissuto come parodia, e i linguaggi specialistici che finora restavano esclusi dalla poesia latina: parole tecniche, di retorica, scienza, medicina, sesso, gastronomia, diritto e politica, e forme del linguaggio di tutti i giorni, attinte ai diversi strati sociali, perciò anche un'esorbitante quantità di grecismi. La disarmonia dello stile di Lucilio è certamente una scelta meditata, rivolta a un preciso programma espressivo, che fonde insieme vita e arte. In questa prospettiva Lucilio è con Petronio - quanto di più vicino al realismo moderno offra la letteratura latina: tende persino a simulare l'improvvisazione. LA RIFORMA DI MARIO: Nominato comandante in Numidia Mario introdusse nel reclutamento un'innovazione, che nell'immediato ebbe effetti positivi, ma i cui riflessi politici furono in seguito, come vedremo, una delle cause della crisi degli ordinamenti repubblicani: invece di chiamare alle armi soltanto i cittadini obbligati per legge a prestare servizio, Mario istituì il reclutamento volontario e lo estese anche a chi non apparteneva alle classi di cittadini cui fino ad allora era riservato il servizio militare. Questa riforma spinse un gran numero di proletari urbani e contadini poveri (prima esclusi dall’esercito) ad arruolarsi per ottenere, oltre al soldo militare e ai proventi della spartizione dei bottini, anche quelle assegnazioni di terre divenute il compenso abitualmente attribuito ai veterani, cioè ai soldati giunti al termine del loro servizio. La formazione di eserciti professionali si rivelò ben presto un pericoloso incentivo non solo per avventure militari nell'ambito di guerre esterne, che sfuggivano al controllo del Senato, ma anche per tentativi di conquista illegale del potere a Roma: i nuovi soldati combattevano infatti per il loro comandante (per Mario, come più tardi per Silla, Pompeo e Cesare), non per Roma, e per lui erano disposti a prendere le armi anche contro altri cittadini romani. LA VITTORIA DELLA GUERRA: Giunto in Africa con le nuove legioni, nel 105 a.C. Mario riuscì a porre fine con successo alla guerra, anche grazie all'aiuto di Lucio Cornelio Silla, e nel 104 a.C. fu nuovamente eletto console per fronteggiare la minaccia dei Cimbri e dei Teutoni, tribù germaniche che avevano raggiunto la Gallia Narbonese (l'attuale Provenza). La questione dei socii italici Il fallimento del movimento grac-cano aveva lasciato senza risposta anche le rivendicazioni dei soci italici: nel 91 a.C. un tribuno della plebe, Livio Druso, riprese la proposta già avanzata da Gaio Gracco e chiese di estendere la cittadinanza a tutti gli alleati italici. Anch'egli fu assassinato. La morte di Druso scatenò la reazione degli alleati che si ribellarono contro Roma. La guerra, detta "sociale" (da socii, "alleati"), durò per tre anni (90-88 a.C.), con un pesante bilancio di vittime da entrambe le parti e disastrose conseguenze sulleconomia della penisola. Dopo aver subito varie sconfitte, Roma affidò il comando degli eserciti schierati sui diversi campi di battaglia ai suoi migliori generali, Gaio Mario, Lucio Cornelio Silla e Quinto Cecilio Metello, costringendo così molti insorti alla resa. Nel frattempo però, mentre ancora si combatteva, fu approvata una legge, la lex Iulia de civitate (90 a.C.), che concedeva la cittadinanza agli alleati rimasti fedeli o agli insorti che avessero già deposto le armi o si fossero arresi entro breve tempo: vinti sul piano militare, gli alleati erano dunque riusciti a prevalere su quello politico. DAL CONFLITTO CON MITRIDATE ALLA DITTATURA DI SILLA LA PRIMA GUERRA MITRIDATICA E LA GUERRA CIVILE TRA MARIO E SILLA Alla fine del II secolo a.C., le maggiori minacce alla solidità dello Stato romano dall'interno: la durissima lotta per il potere tra optimates e populares e i conflitti sociali tra classi dominanti e classi inferiori, proprietari terrieri ed equites, proletariato urbano e contadini, avevano creato una situazione di tensione che non pareva più risolvibile con gli strumenti legali offerti dalle antiche istituzioni repubblicane. Il conflitto tra optimates e populares, già divampato in occasione delle riforme graccane e della guerra giugurtina, degenerò in guerra civile nei primi decenni del I secolo a.C., quando Roma dovette affrontare una rivolta antiromana in Asia Minore provocata da Mitridate, re del Ponto. Approfittando della crisi interna dello Stato romano, negli anni della guerra sociale Mitridate aveva infatti occupato la Bitinia e le province romane d'Asia e di Cilicia (istituita nel 102 a.C.). Presto si schierarono dalla sua parte la maggioranza delle città dell'Asia Minore, stanche del pesante fiscalismo romano, alle quali Mitridate diede ordine di uccidere tutti i Romani e gli Italici residenti. Nel corso dell'88 a.C. Roma intraprese la riconquista dei territori occupati dal re ribelle: il comando dell'esercito fu affidato a uno dei due consoli, Lucio Cornelio Silla, rappresentante della corrente più conservatrice dell'aristocrazia senatoria. La scelta suscitò la reazione dei populares, che fecero approvare un plebiscito per trasferire il comando a Gaio Mario, sebbene le assemblee della plebe non avessero alcuna competenza nella nomina o nella revoca dei poteri militari. LA PRESA DEL POTERE DA PARTE DI SILLA: Silla reagì compiendo un gesto senza precedenti: partito dalla Campania, dove era ancora impegnato nelle operazioni contro i ribelli italici, con le sue truppe rientrò a Roma e infranse la legge dell'inviolabilità del pomerio (il limite del territorio urbano, che non poteva essere oltrepassato in armi da chi deteneva il potere militare, fatta eccezione per il dittatore e per i generali che celebravano il trionfo). A Roma Silla ristabilì la propria autorità con la forza delle armi, sconfiggendo Mario e costringendolo alla fuga; poi si imbarcò con il suo esercito per la Grecia e l'Asia Minore, dove rimase per quattro anni, finché Mitridate fu disposto a ritirarsi nei suoi antichi confini e a pagare una cospicua indennità. Contrariamente alle attese dei cavalieri, Silla non intendeva affatto proseguire la guerra fino all'annientamento di Mitridate; il suo scopo era piuttosto quello di procurarsi, durante la campagna in Oriente, fama e denaro con cui garantirsi la fedeltà delle legioni. TENTATIVO DI ROVESCIAMENTO DI SILLA: Durante l’assenza di Silla e del suo esercito da Roma i populares, capeggiati da Lucio Cornelio Cinna, con l'appoggio di Mario (tornato nell'87 a.C.), avevano riorganizzato le loro forze e ripreso il controllo della città. Il rovesciamento politico ebbe come conseguenza una feroce repressione antisillana attuata dal partito dei populares, con vendette e violenze di ogni sorta, di cui Mario si rese corresponsabile. Silla, deciso a riprendere il potere, nell'84 a.C. partì per l'Italia e rientrò a Roma l'anno successivo, quando Mario e Cinna erano già morti (rispettivamente nell'86 a.C. e nell'84 a.C.). Nella guerra civile che seguì, molti esponenti di prestigiose famiglie gentilizie si schierarono dalla parte di Silla, che nell82 a.C. sbaragliò i populares. LA DITTATURA DI SILLA Silla sanzionò la sua vittoria con massacri e proscrizioni di cui caddero vittima migliaia di cittadini, la gran parte delle proprietà terriere confiscate fu poi distribuita da Silla ai suoi veterani, per garantirsi la loro fedeltà anche in futuro. Nell'81 a.C. Silla intraprese un vasto programma di riforma costituzionale e per realizzarlo fece votare un provvedimento che lo nominava "dittatore con il compito di emanare leggi e di riformare l'ordinamento dello Stato" (dictator legibus scribundis et rei publicae constituendae): si trattava quindi di una dittatura con funzione costituente, per riformare lo Stato sul piano politico-costituzionale. Alla base del programma di Silla, orientato a una visione aristocratica dello Stato, era il rafforzamento dell'autorità del Senato. A tale scopo era in primo luogo necessario superare il dissidio tra cavalieri e senatori. Silla riformulò pertanto la legge giudiziaria, modificata nel 123 a.C. a vantaggio degli equites da Gaio Gracco: l’ordine equestre fu escluso dai tribunali e il potere giudiziario restituito ai senatori; in compenso furono inclusi nel Senato stesso trecento nuovi membri, scelti tra i cavalieri che erano rimasti fedeli al dittatore e gli ufficiali del suo esercito. Per limitare il potere dei populares Silla privò i tribuni della plebe di quasi tutte le loro prerogative (tra cui il diritto di veto) e stabili che chi avesse rivestito la carica di tribuno non potesse accedere alle magistrature più importanti (pretura e consolato). Un grave problema sociale e politico era poi legato alla concessione della cittadinanza agli alleati, che comportava l'inquadramento dei novi cives nelle strutture politiche romane. Nell'88 a.C. i populares avevano fatto approvare una legge (successivamente abrogata da Silla e ripristinata dai mariani) che prevedeva l'iscrizione degli Italici in tutte le trentacinque tribù: in questo modo essi avrebbero avuto la maggioranza nei comizi tributi, in quanto più numerosi dei cittadini romani. Per impedire l'attuazione di tale legge, Silla sospese l'elezione dei censori e non ebbe più luogo alcun censimento: i nuovi cittadini non poterono pertanto essere iscritti nelle liste delle tribù e quindi partecipare ai comizi. Volendo evitare che il diritto di cittadinanza si estendesse ulteriormente, Silla istituì nella Pianura padana una nuova provincia, la Gallia Cisalpina. Per allontanare poi il rischio della presenza in Italia di eserciti armati e che altri generali, seguendo il suo stesso esempio, potessero attuare un colpo di mano per imporre al Senato la loro volontà con le armi, Silla estese a tutta Italia appenninica la zona in cui era vietato l'accesso alle truppe regolari. Nel 79 a.C. Silla si ritirò dalla vita politica, deponendo i poteri eccezionali che si era fatto conferire per risolvere i problemi dello Stato. LA STORIOGRAFIA NELL'ETÀ DEI GRACCHI Nell'età dei Gracchi, la storiografia, diventa un mezzo di analisi politica, a volte di contrapposizione feroce. A differenza dell'oratoria, però, non è praticata da personaggi di primissimo piano. Il fatto notevole rispetto alla storiografia arcaica è l'adozione di un metodo razionalistico, chiaramente influenzato dalla pratica dello storico greco Polibio, che era stato a lungo a Roma. GLI INIZI DELL'AUTOBIOGRAFIA Durante l'età di Silla si diffuse tra gli uomini politici importanti l'abitudine di scrivere commentarii sulla propria vita e sul proprio operato politico. Questi commentarii non avevano bisogno di particolari cure stilistiche (talora erano forse poco più che raccolte di appunti) e potevano servire anche da materiali per gli storici veri e propri. Gli autori appartenevano all'aristocrazia: sappiamo che scrissero commentarii autobiografici Emilio Scauro (console nel 115), Rutilio Rufo (console nel 105), Lutazio Catulo e (in greco) lo stesso Silla. Alcune autobiografie, come quella di Rutilio Rufo, erano probabilmente una sorta di autoapologia politica; in altre, soprattutto in quella di Silla, pare fosse notevole la presenza di elementi 'carismatici': l'autore cioè si esaltava come investito di una missione e, per sottolineare la propria 'investitura', dava probabilmente un certo spazio alla menzione di segni miracolosi, come i sogni premonitori, prova evidente della sua designazione divina. LA COMMEDIA DOPO TERENZIO Dopo Plauto e Terenzio c'erano stati molti continuatori della commedia. Tuttavia, nel corso del I secolo a.C. lo spazio della scena viene invaso da generi alternativi, più farseschi, oppure che tentano di rispondere a esigenze diverse di realismo. Nell'età di Cesare e di Cicerone, la commedia di ambiente greco è infatti sentita come un genere 'antico' e difficile, forse anche troppo stilizzato e convenzionale. La stessa metrica dei cantica risulta troppo difficile, mentre la metrica delle parti recitate troppo anarchica e irregolare. LA TOGATA, AMBIENTAZIONE ITALICA NEL SOLCO TERENZIANO La commedia togata ambienta trame e personaggi in realtà italiche o romane. Per il resto la togata è ancora molto vicina a Terenzio e al suo modello greco Menandro. Non sappiamo se gli autori di questo genere conducessero veramente una 'battaglia per il realismo'. Forse il realismo stava nella rappresentazione di un mondo di personaggi umili meno tipizzato di quello plautino. FORME POPOLARI DI TEATRO L’ATELLANA: Il pubblico cerca ormai svago in altri generi di rappresentazione scenica, che noi considereremmo più avanspettacolo che commedia vera e propria. È il momento in cui conosce un grande ritorno di fortuna quel genere di farsa popolare e sub-letteraria che era stata Anche l'atellana, però, sarà presto soppiantata; già nell'età di Cesare, è il mimo a dominare la scena, e lo sarà sempre di più fino a tutta l'età imperiale. Il termine greco, mimo, indica l' «imitazione» della vita reale. IL MIMO A ROMA: Dalle testimonianze degli antichi, che per lo più lo criticavano come genere diseducativo, capiamo soltanto che l'etichetta di «mimo» copre una varietà di spettacoli diversi. «Mimo» poteva essere una serie di 'numeri' slegati, di danze, intermezzi musicali, salaci gag, con ampie componenti di improvvisazione. Sappiamo che a volte il mimo era assai crudo: abbiamo notizia, per l'età imperiale, di condannati a morte che venivano giustiziati sulla scena, per accrescere il realismo delle scene di violenza. Sembra che le situazioni-base fossero delle scenette a sé stanti, con equivoci piccanti, amori boccacceschi, o litigi clamorosi: lo spettacolo aveva spesso un finale brusco e a sorpresa, con un comico incidente conclusivo e un fuggi fuggi generale. Abbiamo anche qualche notizia di autori: il mimografo a noi più noto è Publilio Siro, un liberto venuto dall'Oriente e padrone di una vera e propria compagnia di giro, dove recitava personalmente i suoi lavori. LA DECADENZA DELLE FORME DI SPETTACOLO TEATRALE: Il successo di pubblico riscosso da forme di spettacolo come l'atellana e il mimo dimostra la contemporanea decadenza delle forme teatrali tradizionali: la tragedia e la commedia. Certamente erano mancati nuovi autori di teatro e capacità di rinnovamento, ma soprattutto si era verificata una progressiva divaricazione nei gusti del pubblico. Da una parte, l'élite colta richiedeva un'espressione letteraria sempre più elaborata e raffinata Dall'altra, la massa urbana, aveva subito un processo di deriva culturale, che le rendeva ormai accessibili quasi esclusivamente forme di spettacolo semplici e in genere piuttosto volgari. Il teatro comico latino si era esaurito anche perché non parlava più all'insieme dei suoi destinatari, il suo linguaggio aveva perso la sua capacità di coesione culturale. Mentre i nuovi ideali e le nuove aspirazioni delle classi colte hanno trovato presto espressione in nuove forme letterarie, un vero teatro popolare non ci sarà mai più nonostante tutto l'impegno programmatico con cui la cultura ufficiale augustea abbia cercato di promuoverne la rinascita. L’ASCESA DI GNEO POMPEO DALLA MORTE DI SILLA AL CONSOLATO DI POMPEO E CRASSO Dopo la morte di Silla (78 a.C.), erano proseguiti i conflitti civili e le rivolte che andavano ormai espandendosi dal centro alla periferia del territorio romano. Le riforme sillane avevano vanificato le conquiste dei populares, restituendo tutto il potere all'aristocrazia senatoria. Benché Silla mirasse ad ampliare la classe dirigente e a rendere più efficiente un apparato di governo inadeguato alla nuova situazione dello Stato romano, i suoi provvedimenti avevano suscitato il malcontento non soltanto di plebe e cavalieri, ma anche di Italici e provinciali: non erano infatti riusciti a porre rimedio al grave peggioramento delle condizioni sociali ed economiche del centro-sud della penisola, conseguente alla guerra sociale, e avevano lasciato irrisolto anche il problema, dei rapporti tra Roma e le province. Le complesse vicende degli anni successivi videro le lotte interne (che ebbero l'episodio più rilevante nella congiura di Catilina del 63 a.C., repressa dal console Cicerone con la condanna a morte dei congiurati) intrecciarsi con vere e proprie guerre: - quella contro il ribelle Sertorio in Spagna (80-72 a.C.), la grande rivolta degli schiavi nell'Italia meridionale, capeggiata dal gladiatore Spàrtaco (73-71 a.C.) - la guerra contro i pirati (67 a.C.), un nuovo scontro con Mitridate - nuove campagne di conquista in Asia (66-63 a.C.). In questo arco di tempo, quasi un ventennio, denso di conflitti, un ruolo di protagonista pressoché costante ebbe Gneo Pompeo, un aristocratico di parte sillana, dotato di notevoli capacità militari. Appena conclusa la guerra civile in Italia, si ebbero rivolte in Sicilia, in Africa e soprattutto in Spagna. Il Senato, a partire dall'80 a.C., inviò in Spagna a più riprese i suoi eserciti. Nel 76 a.C. giunse in aiuto delle forze romane il giovane generale Gneo Pompeo, che dopo quattro anni di battaglie riusci, nel 72 a.C., a porre fine alla rivolta. Intanto in Italia era scoppiata una rivolta servile per sedare la quale l'esercito di Roma fu costretto a un impegno senza precedenti. Essa ebbe origine nella scuola di gladiatori di Capua, in cui nel 73 a.C. Spàrtaco, uno schiavo di origine tracia, si mise a capo di una settantina di ribelli. A questi presto si aggiunsero molti schiavi fuggitivi, per lo più prigionieri di guerra provenienti dai latifondi di tutta l'Italia meridionale, e anche uomini liberi appartenenti ai ceti più poveri delle campagne. Per fermare la rivolta il Senato autorizzò i consoli a mobilitare un esercito in Italia, ma esso venne ripetutamente battuto. Nell'autunno del 72 a.C. il comando fu conferito a Marco Licinio Crasso, anch'egli, come Pompeo, aristocratico di famiglia senatoria e sostenitore di Silla: questi riuscì nel 71 a.C. a sconfiggere i ribelli. Tornato a Roma, forte dei successi militari ottenuti, Pompeo aspirava ormai a essere eletto console, benché non avesse ricoperto le magistrature necessarie per accedere al consolato. Egli riuscì a superare l'opposizione del Senato alla sua candidatura grazie all'appoggio di Crasso. Entrambi avevano militato nelle file di Silla dalla parte dei conservatori; tuttavia, erano ormai consapevoli che la situazione era cambiata e che era necessario ricrearsi una solida base politica cercando il consenso di nuove forze e stringendo nuove alleanze, in particolare con l’ordine equestre, con cui Crasso aveva molti interessi in comune, essendo un esperto uomo d'affari, per di più straordinariamente ricco. L'ETÀ DI CESARE": DAL PRIMO TRIUMVIRATO ALLA MORTE DEL DITTATORE L'arco cronologico in cui Giulio Cesare, grande condottiero militare e uomo politico eccezionalmente abile e coraggioso, fu protagonista della scena romana va approssimativamente dal 60 a.C., l'anno del primo triumvirato, al 44 a.C., l'anno della sua morte. Tuttavia, dal punto di vista storico-politico, l'epoca che fa da sfondo e nel contempo condiziona i fenomeni letterari di questo periodo aveva avuto inizio circa trent'anni prima, con quelle lotte civili tra Mario e Silla che furono antecedente e quasi l'anticipazione della vera e propria guerra tra Cesare e Pompeo, svolta decisiva nella storia di Roma. La denominazione "età di Cesare" è da intendere dunque in senso piuttosto lato; essa può essere giustificata non soltanto perché nella figura e nella politica di Cesare culminò e trovò sbocco la crisi della repubblica romana, ma anche perché egli fu esponente di rilievo della cultura del suo tempo e perché con la sua soverchiante personalità s'incontrarono, e talora si scontrarono, alcuni tra i letterati contemporanei più eminenti: Catullo, che, nell'indifferenza espressa nei suoi confronti, ostentò provocatoriamente il distacco e il rifiuto dell'impegno politico propri del circolo letterario cui apparteneva; Cicerone, che lo ebbe come avversario lungo tutto il corso della sua attività politica, essendo schierato su posizioni conservatrici; Varrone, che combatté contro di lui durante la guerra civile, ma fu poi suo collaboratore e consulente culturale; lo storico Sallustio, suo fautore e seguace. Rispetto alle epoche precedenti l'età di Cesare si distingue non solo per l'emergere di forti individualità nella vita politica e culturale, ma anche per la ricchezza della documentazione relativa al contesto storico e ai suoi protagonisti. DAL PRIMO TRIUMVIRATO ALLA GUERRA CIVILE La carriera politica di Cesare, che aveva già ricoperto il pontificato massimo e la pretura, ebbe una svolta decisiva con il primo triumvirato (60 a.C.). In occasione della stipula di tale accordo, Cesare chiese e ottenne il consolato per il 59 a.C. e, a partire dall'anno successivo, il governo delle province delle Gallie per la durata eccezionale di cinque anni. Come console Cesare poté attuare vari punti del programma del triumvirato. Fece innanzitutto approvare la sistemazione data da Pompeo ai territori orientali: il Ponto fu unito alla Bitinia in un'unica provincia; furono confermate sia l'indipendenza delle città che Pompeo aveva lasciato libere sia le prerogative e i territori conferiti a vari notabili locali. Cesare fece votare poi una legge che concedeva ai pubblicani alcune agevolazioni, favorendo così gli interessi economici dei cavalieri, sostenuti da Crasso. Fece approvare anche due leggi agrarie, grazie alle quali poté non solo soddisfare il desiderio di Pompeo di assegnare terre ai veterani, ma anche estendere le concessioni di agro pubblico a proletari che non avevano partecipato alle guerre. Dopo il consolato, in qualità di proconsole, assunse il governo delle Gallie, organizzando una grande campagna di conquista. Il patto fra i triumviri fu rinnovato nell'incontro di Lucca del 56 a.C.: Crasso e Pompeo sarebbero stati consoli per il 55 a.C., poi per cinque anni Crasso avrebbe avuto il governo della Siria e Pompeo quello delle province spagnole; a Cesare venne invece prorogato per altri cinque anni il proconsolato in Gallia. Egli ebbe così la possibilità di procedere ininterrottamente, dal 58 al 50 a.C., a una serie di campagne militari, con cui sottomise al dominio romano tutta la Gallia A Roma, intanto, i conflitti tra optimates e populares avevano generato una situazione di anarchia: l'aristocratico Publio Clodio Pulcro, popularis radicale e nemico personale di Cicerone, fattosi eleggere nel 58 a.C. tribuno della plebe, fece approvare numerosi plebisciti, tra i quali uno che costringeva all'esilio Cicerone, con il pretesto che questi aveva fatto condannare a morte i seguaci di Catilina senza concedere loro di appellarsi al giudizio dell'assemblea popolare. I due triumviri presenti a Roma cercarono di arginare lo strapotere acquisito dalle bande armate del tribuno Clodio, che gli stessi Crasso e Pompeo avevano inizialmente considerato un alleato, ma che ora era diventato un pericoloso nemico. Unendo le loro forze con quelle degli optimates, essi fecero richiamare dall'esilio Cicerone ed eleggere per il 57 a.C. tribuni della plebe ostili a Clodio. L’ASCESA DI CESARE: Crasso mori a Carre nel 53 a.C. durante una campagna contro i Parti, che si concluse con la disfatta dei Romani, e nel 52 a.C. Clodio fu ucciso dagli uomini di Milone. I disordini conseguenti alla morte di Clodio trasformarono la città in un vero e proprio campo di battaglia, impedendo addirittura che si tenessero i comizi per l’elezione dei consoli. Il Senato si rivolse allora a Pompeo, nominandolo console sine collega per quell’anno, carica inesistente dal punto di vista costituzionale (in quanto il consolato era sempre stato una magistratura collegiale) e che equivaleva di fatto alla dittatura. Pompeo fu inoltre autorizzato ad arruolare truppe per ristabilire l'ordine pubblico e in breve tempo riportò la calma in città. Nel 50 a.C. Cesare concluse la conquista della Gallia e fu in grado, a questo punto, di contrapporre i suoi successi e le sue conquiste alle glorie che Pompeo aveva conseguito in Oriente; egli, di ritorno dalla Gallia, aspirava a farsi eleggere console per il 48 a.C., ma, per farlo, avrebbe dovuto prima presentarsi a Roma come privato cittadino, mentre Pompeo manteneva tutto il suo potere, consolidato dall'appoggio degli optimates. Cesare rifiutò di cedere alla volontà del Senato e marciò su Roma, mentre Pompeo si rifugiava in Oriente. Tra i due grandi generali si venne ben presto allo scontro aperto: a Farsàlo, in Tessaglia (regione settentrionale della Grecia), nel 48 a.C. l’esercito pompeiano fu sconfitto. Pompeo fuggi in Egitto, dove fu ucciso a tradimento dal sovrano Tolomeo XIII, che sperava così di guadagnarsi il favore di Cesare. LA DITTATURA DI CESARE Cesare, dopo aver risolto il problema del controllo militare dello Stato, si accinse ad affrontare anche quello della vita politica, con lo scopo di dare a Roma, i cui domini si erano ulteriormente ingranditi grazie alle recenti conquiste, un nuovo assetto, più efficiente e stabile. In seguito alla vittoria decisiva su Pompeo, egli tornò più volte a Roma per assolvere ai propri impegni di governo e riuscì a far approvare un numero considerevole di leggi. Nominato dittatore nel 48 a.C., la carica gli fu rinnovata nel 46 e nel 44 a.C. gli fu conferita a vita (fu nominato dictator perpetuus, » 3), e a vita mantenne anche il titolo di imperator. La costituzione repubblicana non veniva dunque restaurata nei suoi ordinamenti tradizionali, bensì modificata nella direzione di un accentramento del potere nella persona del dittatore. Tuttavia, sul piano sociale, il programma di riforme di Cesare fu moderato. Egli mirava a ottenere un ampio consenso tra i Romani, governando in accordo con la vecchia classe dirigente, rassicurando le classi agiate circa le loro prerogative, guadagnandosi il favore del popolo e non deludendone le aspettative. Cesare ampliò il Senato e portò il numero dei membri da seicento a novecento: molti nuovi senatori erano suoi ufficiali, provenienti da tutta l'Italia e anche dalla Gallia Cisalpina. Provvide a cospicue distribuzioni di terre e alla fondazione di colonie, in particolare nelle province. Le nuove terre vennero distribuite in gran parte ai veterani dell'esercito ma anche a molti proletari di Roma; fu avviato in tal modo un processo di riassorbimento della plebe urbana nell'agricoltura. Per ripristinare le finanze dello Stato, pressoché esauritesi durante la guerra civile, egli cercò di aumentare le entrate e diminuire le spese, non esitando a prendere provvedimenti impopolari: introdusse nuovi dazi sulle merci importate e ridusse le distribuzioni frumentarie, facendo rivedere le liste degli assegnatari e diminuendone il numero di circa la metà. Nel 46 a.C., in qualità di pontefice massimo, Giulio Cesare riformò il calendario, introducendone uno nuovo, basato sull'anno solare, in luogo di quello in uso precedentemente, attribuito dalla tradizione al re Numa Pompilio. Cesare si proponeva anche di vendicare l'affronto subito dai Romani nella battaglia di Carre a opera dei Parti, intraprendendo una grande spedizione contro di loro. Ma proprio alla vigilia della sua partenza per l'Oriente, il 15 marzo del 44 a.C., egli fu pugnalato da un gruppo di congiurati, appartenenti all'oligarchia senatoria, che vedevano in lui il tiranno che aveva messo fine alla libertas repubblicana. Si apriva così, con la morte di Cesare, un nuovo periodo di sconvolgimenti politici e di sanguinose guerre civili. I GENERI E LA PRODUZIONE LETTERARIA. IL MONDO DELLA CULTURA E DEGLI INTELLETTUALI Nello studio della cultura latina, l'ultimo periodo della repubblica vede un proliferare di fenomeni diversi: - i grandi dibattiti teorici, politici e ideologici, testimoniati dall'opera di Cicerone; - la massima fioritura dell'oratoria giudiziaria e politica; il formidabile impulso del pensiero filosofico romano - la crescita dell'antiquaria, della linguistica, della biografia e di altre forme di divulgazione culturale LA PROSA Nell'età di Cesare il primo dei due generi è rappresentato in modo autorevolissimo da Cicerone, considerato dai contemporanei e dai posteri l'oratore più valente che Roma abbia mai avuto: le sue orazioni, conservatesi in gran numero, ci permettono di seguire da vicino le intricate vicende di quegli anni tumultuosi e hanno dunque un enorme valore documentario, oltre che letterario. Quanto alla storiografia, essa trova un prestigioso esponente nello stesso Giulio Cesare (sia pure nel genere collaterale e minore del "commentario"), mentre opera di vero e proprio storico svolse, raggiungendo risultati artistici di prim'ordine, un partigiano di Cesare, Sallustio, che, scrivendo dopo la morte del dittatore cercò di capire e d'interpretare i grandi rivolgimenti di cui era stato testimone. A questi due generi, che avevano ormai a Roma una lunga tradizione, se ne aggiunsero altri, rappresentati in misura decisamente predominante dallo stesso Cicerone. Egli coltivò infatti varie forme di letteratura filosofica e specialmente il dialogo di tipo platonico-aristotelico, adottato per trattare argomenti filosofici, politici, retorici; inoltre, la pubblicazione postuma delle sue lettere (pur scritte solo in minima parte perché fossero divulgate) diede un forte impulso all'epistolografia latina, facendone un vero e proprio genere letterario (non senza l'influsso, come sempre, dei precedenti greci). LA POESIA Ben diverso ci appare il quadro della poesia, per un più marcato distacco dal passato e dalla tradizione e per la voluta presa di distanze dalla vita pubblica e dalle vicende storico-politiche. Erano ormai tramontati i generi teatrali (con l'unica eccezione del mimo), che in età arcaica avevano costituito il tramite più efficace tra gli intellettuali e il popolo, poiché si rivolgevano a un pubblico vastissimo, comprendente anche gli illetterati e gli analfabeti. Nel I secolo a.C. il carattere aristocratico ed elitario della poesia si accentua fortemente e al tempo stesso si spezza quel legame tra poesia e politica che era stato strettissimo nel III e nel II secolo a.C. Infatti, gli uomini politici, a differenza che nel passato, sono sempre più spesso cultori di poesia e poeti, ma tendono a svolgere tale attività in una dimensione privata, considerandola un passatempo e uno svago. D’altra parte, i letterati veri e propri, ossia coloro per i quali la poesia è l'occupazione princcipale, si orientano verso forme e temi diversi da quelli tradizionali: CICERONE: LA VITA Marco Tullio Cicerone nacque nel 106 a.C. ad Arpino, cittadina del Lazio sudorientale, da una famiglia di possidenti terrieri appartenenti all'ordine equestre: famiglia non "nobile" (i cui membri cioè non avevano mai rivestito magistrature a Roma), ma fornita dei mezzi economici e delle relazioni sociali necessari per avviare i figli alla carriera politica. Cicerone studiò a Roma con i migliori maestri greci di retorica e di filosofia e, fin da giovanissimo, frequentò il Foro, sotto la guida dei più autorevoli e illustri oratori del tempo. Nell'81, o forse prima, debutta come avvocato; nell'80 difende la causa di Sesto Roscio, cosa che lo mette in conflitto con importanti esponenti del regime sillano. Poco dopo lasciò Roma per un lungo soggiorno di studio (79-77 a.C.) in Grecia e in Asia Minore: frequentò ad Atene le scuole filosofiche e tutte le più importanti scuole di retorica nelle città dell'Asia Minore e nelle isole. Al ritorno a Roma intraprese la carriera politica: nel 75 a.C. fu questore in Sicilia e l'anno dopo, come ex questore, entrò per la prima volta in Senato Nel 70 a.C. la stima di cui già godeva si consolidò in seguito al processo intentato da varie città della Sicilia contro lex governatore Gaio Verre, accusato di malgoverno e di concussione. La sua carriera politica (proseguita con l'edilità nel 69 a.C. e la pretura nel 66 a.C.) culminò nell’elezione al consolato per l'anno 63 a.C. -che lo contrapponeva a Lucio Sergio Catilina, rappresentante dei populares, appoggiato da Giulio Cesare-. Durante il suo consolato Cicerone si impegnò decisamente su posizioni conservatrici e difese la legalità repubblicana e i ceti economicamente e socialmente più forti, rappresentati da senatori e cavalieri (gli optimates, cioè "i migliori"), che a suo parere dovevano collaborare politicamente tra loro (secondo l'ideale della concordia ordinum, la "concordia tra gli ordini") allo scopo di gestire e difendere gli interessi dello Stato. La questione più spinosa che dovette affrontare - e che gli procurò la massima gloria, ma fu anche l'inizio delle sue disgrazie politiche - fu la congiura di Catilina. Quest'ultimo, infatti, presentatosi nuovamente candidato al consolato per l'anno successivo con un programma accentuatamente popolare" (assegnazione di terre ai proletari, condono dei debiti, addirittura proscrizione dei ricchi), di nuovo sconfitto (nell'estate del 63 a.C.), si preparava a impadronirsi del potere con un’azione di forza. Le sue trame furono sventate Cicerone che, attaccandolo violentemente con la prima orazione "catilinaria". all'inizio di novembre lo costrinse a lasciare Roma. Ai primi di dicembre furono arrestati altri cinque capi della congiura, rimasti a Roma, e in una drammatica seduta del Senato si discusse se condannarli a morte o all'esilio. Cicerone non nascose la sua propensione per la pena capitale. Negli anni successivi il peso politico di Cicerone declinò sensibilmente, mentre si rafforzava la parte popolare. Nel 60 a.C. Cesare costituì con Pompeo e Crasso il primo triumvirato, che indebolì fortemente l'autorità del Senato. Nel 58 a.C. Clodio, entrato in carica come tribuno della plebe e sostenuto da Cesare, fece condannare all'esilio Cicerone per aver mandato a morte cittadini romani con procedura sommaria; fece inoltre confiscare tutti i suoi beni e demolire la sua casa sul Palatino. L’esilio durò sedici lunghissimi mesi, trascorsi in Grecia, in attesa del richiamo da Roma, che finalmente avvenne nel 57 a.C., grazie all'intervento di Pompeo e all'azione di vari amici. Dal ritorno dall'esilio alla guerra civile (57-46 a.C.) Dopo la dolorosa esperienza dell'esilio, Cicerone - che in precedenza, per coerenza con le sue posizioni aveva rifiutato gli inviti dei triumviri a collaborare con loro - si avvicinò ad essi, appoggiando nel 56 a.C. (con lorazione De provinciis consularibus) la proroga, contraria alle leggi vigenti, del comando di Cesare nelle Gallie (di cui era in corso in quegli anni la trionfale conquista). Negli anni successivi rimase ai margini della vita politica, ma si adattò a difendere in tribunale vari personaggi legati a Pompeo e a Cesare. Nel 52 a.C. Clodio venne ucciso durante una zuffa tra la banda armata che lo scortava e uomini al seguito di Milone. Nel processo che segui - e che si svolse in circostanze drammatiche, nel Foro presidiato da drappelli di soldati agli ordini di Pompeo - Cicerone, che aveva assunto la difesa di Milone, non riuscì a tenere l'arringa che aveva preparato; Milone venne condannato all'esilio. Allo scoppio della guerra civile si legò a Pompeo. In un primo tempo s'illuse - sopravvalutando il proprio peso politico - di poter favorire, mantenendosi neutrale, una rapida pacificazione. Si decise poi a raggiungere i pompeiani in Grecia; dopo la sconfitta di Farsálo (48 a.C.), tornò in Italia un anno dopo e si riconciliò con Cesare Durante la dittatura di Cesare, Cicerone cercò conforto nell'attività filosofica e letteraria, limitando i suoi interventi pubblici a discorsi in cui elogiava la clemenza di Cesare e la sua volontà di riconciliazione. Dopo l'uccisione di Cesare (il 15 marzo del 44 a.C.) Cicerone, pur non avendo partecipato alla congiura, si schierò prontamente dalla parte dei cesaricidi, mentre nel conflitto, che subito si delineò, tra i due aspiranti all'eredità politica del dittatore assassinato, Antonio ed Ottaviano, appoggiò il giovanissimo Ottaviano, sperando di diventare sua guida e consigliere e di indurlo a restaurare l'autorità del Senato. In realtà Ottaviano si servì di lui per far legalizzare dal Senato la sua posizione irregolare e lo utilizzò come alleato nella lotta contro Antonio, che Cicerone attaccò violentemente con le orazioni dette Filippiche. Nel 43 a.C., quando i due avversari si riavvicinarono per fronteggiare uniti i cesaricidi in armi (che avrebbero poi sconfitto a Filippi nel 42 a.C.) e si allearono (insieme con Lèpido) nel cosiddetto secondo triumvirato, il nome di Cicerone fu scritto per primo nella lista di proscrizione dettata da Antonio e approvata da Ottaviano. Raggiunto dai sicari nei pressi della sua villa di Formia, l'oratore fu ucciso il 7 dicembre del 43 a.C.; la sua testa e le sue mani furono mozzate e portate ad Antonio (D 3), che le fece esporre nel Foro romano. L’ORATORIA: LE PARTI DI UN'ORAZIONE 1. EXORDIUM: Esposizione dell'argomento di cui ci si occupa e tentativo di ottenere la simpatia dell'uditorio (captatio benevolentiae) 2. NARRATIO: Esposizione dei fatti per informare l'uditorio 3. ARGUMENTATIO: Presentazione delle prove a sostegno della tesi (confirmatio) e confutazione delle prove degli avversari (refutatio) 4. PERORORATIO: Riassunto degli argomenti presentati e avello ai sentimenti dell'uditorio GLI STILI DELL’ELOQUENZA Le accese lotte civili del sec. I a.C. contribuirono, ancor più che nell'età arcaica, a dare un peso rilevante all'eloquenza, politica e giudiziaria, nella vita pubblica romana L'ASIANESIMO Lo stile asiano, elaborato dal retore greco Egesio di Magnesia nel sec. III a.C., si impose a Roma dalla fine del sec. II a.C., in opposizione allo stile sobrio seguito dagli atticisti. La scuola asiana dava ampio spazio agli elementi patetici e sentimentali per meglio carpire l'attenzione e l'approvazione del pubblico, per suscitarne l'emozione e la commozione. Lo stile era ampolloso ed esuberante, cercava la musicalità delle frasi con assonanze e parallelismi; l'abbondanza di artifici e di regole retoriche distraevano in parte gli ascoltatori dal contenuto. Grande esponente dell'asianesimo fu Quinto Ortensio Ortalo, vissuto tra il 114 e il 50 a.C., tanto creativo e brillante da affascinare il giovane Cicerone che ne seguì l'indirizzo nelle sue prime orazioni, come egli stesso racconta nel Brutus. Soltanto in un secondo tempo Cicerone si allontanò dall'asianesimo per indirizzarsi, sotto l'influenza di Apollonio Molone di Rodi, verso lo stile mediano, detto appunto "rodio". L'ATTICISMO Alla corrente asiana si contrapponeva quella dell'atticismo, così chiamato perché erano assunti come modelli di perfezione stilistica da imitare gli oratori ateniesi dei secoli V e IV a.C., Lisia, in special modo, che aveva svolto la sua attività in Attica. I seguaci dell'atticismo usavano uno stile scarno e severo, attento soprattutto a chiarire i concetti piuttosto che la forma, il che non escludeva però la cura dell'eleganza espositiva: essi si limitavano piuttosto alla scelta dei termini più appropriati perché il discorso fluisse naturale e i fatti fossero esposti in modo chiaro e semplice. La corrente atticista ebbe come rappresentanti, tra gli altri, Licinio Calvo, Marco Giunio Bruto e Giulio Cesare, e alla lunga essa si impose per il costante mutamento del gusto del pubblico. LO STILE RODIESE Con stile rodiese o rodio si intende una prosa più temperata rispetto all'Asianesimo, ma priva dell'asciuttezza dell'Atticismo. Cicerone chiama così lo stile della scuola di retorica di Apollonio Molone da lui stesso frequentata nell'isola di Rodi, durante il suo soggiorno in Grecia e Asia Minore fra il 79 e il 77 a.C. In seguito a tale insegnamento, si sarebbe spogliato della sua "frondosità giovanile" (iuvenilis redundantia) - che lo portava ad un'oratoria imparentabile con quella degli asiani - per volgersi alla vera oratoria della "scuola rodiese". Il vero oratore, infatti, non è l'atticista che punta ad uno stile scarno e privo di forza, né l'asiano che esagera nel patetismo e nell'ampollosità. È invece colui che sa usare bene tutti e tre i diversi livelli stilistici, mescolandoli nella loro varietà anche all'interno di una stessa orazione, a seconda che occorra spiegare, dilettare o commuovere il pubblico con forti emozioni. Questa triplice varietà è stata quella che ha saputo usare il più perfetto degli oratori attici, che però gli atticisti tendono a mettere in disparte: Demostene. Ne consegue che la vera oratoria è quella che guarda a Demostene e alla sua compiuta padronanza di registri, quella della "scuola rodiese", cioè quella di Cicerone stesso. LO STILE DI CICERONE ORATORE: Lo stile di Cicerone oratore è, come quello del suo principale modello greco, Demostene, estremamente vario, duttile, multiforme: tende alla solennità e alla magniloquenza sconfinando talora nella ridondanza e nell'ampollosità, ma è capace anche, all'occorrenza, di brevità, stringatezza, essenzialità. I più tipici procedimenti stilistici ciceroniani si attuano prevalentemente nell'ambito dell'organizzazione sintattica del discorso. Il periodo è articolato in modo complesso, con abbondanza di proposizioni subordinate, ed è costruito, secondo criteri di coesione e di compattezza, su una rete di corrispondenze equilibrate e simmetriche. Grande importanza assumono anche l'eufonia e il ritmo: il ritmo della prosa è diverso da quello della poesia, ma è anch’esso regolato da norme che Cicerone rispetta scrupolosamente. Tali procedimenti, così come gli altri ornamenti del discorso, costituiti da un grandissimo numero di figure retoriche, sono adottati soprattutto negli esordi, nelle perorazioni e negli elogi, cioè nelle parti dell'orazione che richiedono uno stile più elaborato e più elevato. LE OPERE RETORICHE Quasi tutte le opere retoriche datano a partire dal 55, un paio d'anni dopo il ritorno dall'esilio. Cicerone era spinto dal bisogno di dare una sistemazione teorica a una serie di conoscenze ed esperienze e soprattutto una risposta culturale e politica alla profonda crisi dei suoi tempi. In quest'ottica va inquadrata la riflessione teorica sulla formazione dell'oratore. Il problema del tipo di formazione necessaria all'oratore, se questo dovesse accontentarsi della conoscenza di un certo numero di regole retoriche o gli fosse invece indispensabile una larga cultura nel campo del diritto, della filosofia e della storia, era dibattuto da tempo anche in Grecia. IL DE ORATORE Il De oratore, in tre libri, fu composto nel 55 a.C. ed è un dialogo di tipo platonico-aristotelico Questa impostazione - che l'autore adotterà in molte altre opere di argomento politico e filosofico - gli permette di sostituire a un’esposizione continuata, di tipo trattatistico, un dibattito vario e animato, in cui si fronteggiano tesi diverse, sostenute con nobile eloquenza da autorevoli personaggi Protagonisti del De oratore sono - Lucio Licinio Crasso - Marco Antonio Considerati da Cicerone come i più eminenti oratori della generazione precedente la sua e che lo avevano guidato e aiutato quando, durante l'adolescenza, aveva cominciato a frequentare il Foro. Egli immagina che il dialogo (a cui partecipano altri cinque personaggi minori) abbia avuto luogo nella villa di Crasso a Tuscolo, nel 91 a.C., pochi giorni prima della morte improvvisa di questi, che Cicerone rievoca con commozione nel proemio del libro III. • Nel Libro I Crasso sostiene che all'oratore è necessaria una vasta formazione culturale. Antonio gli contrappone l'ideale di un oratore più 'istintivo' e 'autodidatta", la cui arte si fondi sulla fiducia nelle proprie doti naturali, sulla pratica del foro e sulla dimestichezza con l'esempio degli oratori precedenti Cicerone prende posizione contro la concezione tecnicistica di quei retori greci che pretendono di formare il perfetto oratore soltanto per mezzo di regole e di esercizi, ma anche contro quella di chi, come Antonio, ritiene che siano sufficienti le doti naturali (ingenium) e l'esperienza. Egli afferma per bocca di Crasso l'ideale, che egli stesso si prefiggeva d'incarnare, di un oratore impegnato a fondo nella vita, ma fornito al tempo stesso di una ricchissima cultura che gli consenta di parlare con competenza ed efficacia su qualsiasi argomento • Nel libro II: Nel libro Il si passa alla trattazione delle "parti" della retorica. La parte relativa all'inventio contiene un interessante excursus, detto de ridiculis sul comico e sui suoi meccanismi, inserito a proposito delle reazioni psicologiche che l’oratore deve saper suscitare nel pubblico per conciliarsene il favore. LE OPERE POLITICHE: Il turbolento periodo di aspre lotte politiche che vive la repubblica nei suoi ultimi decenni di vita trova in Cicerone un protagonista di primo piano, impegnato nella difesa e nel consolidamento delle fondamenta dello Stato romano. Nell'ambito di questo sforzo, teso, se non a fermare, quanto meno a governare le profonde trasformazioni che premono sulla società romana, si colloca la riflessione teorica sullo Stato che Cicerone riversa nelle sue opere di carattere più strettamente politico, il De republica e il De legibus. IL DE REPUBLICA Il modello del dialogo platonico ritorna con la maggiore evidenza nel De republica al quale Cicerone lavorò lungamente fra il 54 e il 51. (dialogo in 6 libri) A differenza di quanto aveva fatto Platone nella Repubblica, tuttavia, Cicerone non elabora un modello di Stato ideale astratto e atemporale, ma si proietta nel passato e identifica la migliore forma di Stato nella costituzione romana del tempo degli Scipioni. Il testo si è conservato solo in parte. Restano i primi due libri, con lacune, e frammenti degli altri tre; ci è inoltre pervenuta per intero la parte finale del libro VI, ossia la chiusa dell'opera, detta Somnium Scipionis, tramandata separatamente per l'interesse che suscitò nella tarda antichità e nel Medioevo. Protagonista del dialogo è Publio Cornelio Scipione Emiliano, l'uomo politico più ammirato da Cicerone, che proiettò su di lui, in questa e in altre opere, i propri ideali e le proprie aspirazioni. Il dialogo si svolge nel 129 nella villa suburbana di Scipione Emiliano, che con l'amico e collaboratore Lelio è uno dei principali interlocutori. La ricostruzione della trama è ampiamente ipotetica, soprattutto per alcune sezioni, a causa delle condizioni frammentarie in cui l’opera ci è stata conservata: una parte cospicua venne ritrovata, agli inizi del XIX secolo, dal futuro cardinale Angelo Mai. Il contenuto del De re publica • Nel Libro I Scipione parte dalla dottrina aristotelica delle tre forme fondamentali di governo (monarchia, aristocrazia, democrazia) e della loro necessaria degenerazione nelle forme 'estreme' Rispettivamente della tirannide, della oligarchia e della oclocrazia (governo della 'feccia' del popolo). Riprendendo una tesi dello storico greco Polibio, Scipione mostra come lo Stato romano dei maiores si salvasse da quella necessaria degenerazione per il fatto di aver saputo contemperare le tre forme fondamentali: l'elemento monarchico si rispecchia nell'istituzione del consolato, l'elemento aristocratico nell'istituzione del Senato, l'elemento democratico nell'istituzione dei comizi. • Nel Libro II Espone lo sviluppo dello stato romano dalle origini alla forma attuale; poi si passa a sostenere la necessità di giustizia e armonia dello stato. • Il Libro III Trattava della virtù politica per eccellenza, la giustizia. Venivano riportate le argomentazioni del filosofo Carneade contro l'esistenza di un fondamento naturale di essa: non sulla giustizia, che prescrive di dare a ciascuno il suo, ma sulla sopraffazione dei più deboli, i popoli dominatori, e Roma stessa, fondano i loro imperi. Questo aveva affermato il filosofo greco, aggiungendo provocatoriamente che se i Romani avessero voluto essere giusti, avrebbero dovuto restituire agli altri popoli ciò di cui li avevano privati con la forza, ritornando alle capanne e alla miseria delle loro origini. Lelio assumeva invece la difesa della giustizia naturale, sostenendo la legittimità morale del dominio di Roma, in quanto esercitato a vantaggio dei popoli sottoposti. • Il Libro IV Si occupava dell'educazione dei cittadini e dei principi che devono regolare i loro rapporti. • Nel Libro VI Del libro VI si conserva soltanto il finale, ossia il Somnium Scipionis. Scipione Emiliano vi racconta un sogno in cui gli era apparso l'avo adottivo, Scipione l'Africano; questi, dopo avergli predetto le future imprese gloriose e la morte prematura, gli aveva mostrato lo spettacolo grandioso delle sfere celesti, rivelandogli che l'immortalità e una dimora in cielo sono il premio riservato dagli dei alle anime dei grandi uomini politici, benefattori della patria. Il De legibus DE LEGIBUS: Composto nel 52-51 a.C. e intitolato De legibus ("Le leggi"), doveva essere un complemento del De republica. Si conservano tre libri, ma l'opera doveva essere più ampia; forse rimase incompiuta. Gli interlocutori del dialogo sono Cicerone stesso, suo fratello Quinto e l'amico Attico. Vengono illustrate l'origine naturale del diritto e le sue forme Si passa poi all'esame e al commento di numerosissime leggi romane, per cui opera si configura come un vero e proprio trattato di storia delle istituzioni e del diritto pubblico, civile e religioso, di Roma. Al De republica e al De legibus si affiancherà più tardi il De officiis, trattato filosofico con forti implicazioni politiche. Queste tre opere, pur molto diverse nella struttura e negli argomenti, sono accomunate dall'intento dell’autore di usare gli strumenti concettuali offerti dalla filosofia greca per sostenere e difendere strenuamente le istituzioni della res publica oligarchica, contro le spinte, ormai inarrestabili, di quella "rivoluzione romana" che avrebbe portato, di li a poco, all'instaurazione del regime imperiale. LE OPERE FILOSOFICHE Cicerone si dedicò alla stesura di opere filosofiche negli ultimi anni della sua esistenza (45-44 a.C.), quando fu costretto dalle vicende politiche a ritirarsi quasi completamente dalla vita pubblica. È l'autore stesso a dire, nei proemi di alcune di queste opere, che l'attività letteraria in campo filosofico, oltre a riempire il vuoto di una vita prima operosissima, gli dà la possibilità di giovare ancora ai concittadini, mettendo a loro disposizione in lingua latina il grande patrimonio del pensiero filosofico greco, che i Romani potranno accostare per la prima volta in forme degne di contenuti così elevati LA TEORIA DELLA CONOSCENZA: GLI ACADEMICA Nell'ambito della teoria della conoscenza Cicerone aderì, nei suoi anni maturi, al probabilismo degli accademici, una sorta di scetticismo pragmatistico che, senza negare l'esistenza di una verità oltre i fenomeni, si limita tuttavia ad affermare la possibilità di una conoscenza probabile. I PROBLEMI ETICI: IL DE FINIBUS E LE TUSCULANAE DISPUTATIONES Cicerone affronta i problemi che lo interessano maggiormente, quelli morali, in due grandi opere dedicate la prima all'etica teorica, la seconda all’etica pratica. IL DE FINIBUS: Il problema del sommo bene e del sommo male è oggetto di trattazione, nel De finibus bonorum et malorum. Egli tratta la questione centrale su cui le scuole di pensiero ellenistiche avevano impostato le loro dottrine morali: quale sia lo scopo supremo della vita (in greco télos, reso in latino con finis), che costituisce per l'uomo il sommo bene, capace di assicurargli la vera felicità. L'opera, dedicata a Bruto, è divisa in cinque libri comprendenti tre dialoghi • Nel primo dialogo (Libri I-II) è esposta la teoria degli epicurei, cui segue la confutazione di Cicerone. • Nel secondo dialogo (Libri III-IV) si mette a confronto la teoria stoica (che individua il sommo e unico bene nella virtù e l'unico male nel vizio) con le teorie accademica e peripatetica. • Nel terzo dialogo (Libro V) è esposta la teoria eclettica di Antioco di Ascalona, maestro di Cicerone e di Varrone, la più vicina al pensiero dell'autore. Dopo che sono state confutate in modo netto e senza appello le tesi epicuree, Catone il Giovane si assume nel Libro III la difesa dello stoicismo tradizionale, nei confronti del quale la posizione ciceroniana fu sempre di sostanziale perplessità. Cicerone riconosceva che lo stoicismo forniva la base morale più solida all'impegno dei cittadini verso la collettività, ma da uno stoico intransigente come Catone, o da un accademico dalla morale rigorosa come Bruto, si sentiva lontano per cultura e per gusti: il loro rigore etico gli appariva anacronistico, scarsamente praticabile in una società che, dopo l'epoca delle grandi conquiste, era andata incontro a radicali trasformazioni. Nella nuova temperie socioculturale l'eclettismo ciceroniano punta, sulla base teoretica del probabilismo accademico, a una conciliazione tra il rigore e la solidità delle posizioni stoiche e l'apertura a un piacere moderato, propria della filosofia peripatetica. In quest'ottica, il sommo bene viene identificato, non senza incertezze, con il bene dell'anima, che coincide con la virtù: solo la virtù può garantire la felicità all'uomo. SULLA VECCHIEZZA E SULL'AMICIZIA Un posto a parte fra le opere filosofiche di Cicerone occupano due brevi dialoghi composti entrambi nel 44 e dedicati ad Attico - il Cato maior sive de senectute - il Laelius sive de amicitia In essi Cicerone mette in scena celebri personaggi della storia romana. Il Cato maior Al Cato maior Cicerone lavora nei primi mesi del 44, poco prima dell'uccisione di Cesare, in un periodo di forzata inattività politica: nel personaggio di Catone il Censore, che sceglie a proprio portavoce, Cicerone trasfigura l'amarezza per una vecchiaia che, oltre al decadimento fisico e all'imminenza della morte, è temibile soprattutto per la perdita della possibilità di intervento politico. Il Laelius Diversa è l'atmosfera che si respira nel Laelius, la cui stesura, all'indomani dell'uccisione di Cesare, segna il rientro di Cicerone sulla scena politica. Il dialogo è ambientato nel 129 (lo stesso anno del De re publica), pochi giorni dopo la misteriosa morte di Scipione Emiliano nel corso delle agitazioni graccane. Rievocando la figura dell'amico scomparso, Lelio ha modo di intrattenere i propri interlocutori sulla natura e sul valore dell'amicizia stessa. Amicitia, per i Romani, era soprattutto la creazione di legami personali a scopo di sostegno politico. La novità dell'impostazione ciceroniana consiste soprattutto nello sforzo di allargare la base sociale delle amicizie al di là della cerchia ristretta della nobilitas: a fondamento dell'amicizia sono posti valori come virtus e probitas, riconosciuti a vasti strati della popolazione. La fiducia in un rinnovato sistema di valori, in cui l'amicizia occupi un ruolo centrale, deve dunque servire a cementare la coesione dei boni. Ma l'amicizia auspicata dal Laelius non è solo un'amicizia politica: si avverte, in tutta l'opera, un disperato bisogno di rapporti sinceri, quali Cicerone, preso nel vortice delle convenienze imposte dalla vita pubblica, poté forse provare solo con Attico. IL DE OFFICIIS: L’ultima opera filosofica di Cicerone è il De officiis ("I doveri"), in tre libri. Non è un dialogo, ma un trattato, un manuale di comportamento per l'uomo politico (dedicato al figlio Marco) in cui l'autore segue, come ci informa egli stesso, un'unica fonte: un testo (per noi perduto) del filosofo stoico Panezio di Rodi (II sec. a.C.). Nel De officiis Cicerone afferma di rivolgersi in primo luogo ai giovani: ciò conferma la funzione pedagogica che egli in generale attribuisce al suo lavoro di divulgazione filosofica. LIBRO I Nel libro I viene chiarito il concetto di honestum, cioè di bene morale, in relazione al quale si stabiliscono i "doveri"', ossia i comportamenti moralmente validi. L'honestum scaturisce da tendenze naturali conformi a ragione, insite nell'uomo, e si esplica in quattro virtù fondamentali (che sono le stesse già indicate da Platone): sapienza, giustizia, fortezza (o magnanimità) e temperanza. Nell'ambito di quest'ultima virtù rientra il decorum, ossia il senso di ciò che e moralmente e anche esteticamente conveniente a ciascuna persona e situazione. LIBRO II Il libro II è dedicato all'altro punto di riferimento delle azioni umane: l'utile. La tesi da dimostrare è che i doveri, cioè i retti comportamenti che si stabiliscono in base al criterio dell'utile, sono i medesimi già dedotti, nel libro precedente, dal criterio dell'honestum, e s'identificano dunque anch’essi con l'esercizio delle virtù. LIBRO III: Nel III e ultimo libro Cicerone svolge un argomento che Panezio aveva tralasciato: il conflitto tra l'onesto e l'utile. Tale conflitto, egli sostiene, è soltanto apparente, perché nessuno può trarre vera utilità da azioni che mirino esclusivamente al tornaconto personale e non, anche, al vantaggio comune. L'opera scende sul piano della casistica minuta ed è illustrata da numerosissimi esempi tratti dalla vita quotidiana, dalla mitologia, dalla letteratura, dalla storia greca e romana. L'EPISTOLARIO Per la conoscenza della personalità di Cicerone disponiamo di uno strumento di impareggiabile valore: si è infatti conservata una cospicua quantità delle lettere che egli scrisse ad amici e conoscenti, insieme ad alcune lettere di risposta di questi ultimi. I testi di cui disponiamo datano dunque dal 68 al luglio del 43 (mancano tuttavia lettere dell'anno del consolato) e furono pubblicati in una data incerta ma successiva alla morte dell'autore Il ricco epistolario ciceroniano comprende testi di vario genere ed estensione: biglietti vergati frettolosamente, vivaci resoconti degli avvenimenti politici, lettere elaborate che sembrano brevi trattati, alcuni scritti, rivolti ai corrispondenti più importanti, probabilmente concepiti come lettere aperte' destinate forse a una qualche circolazione. Un epistolario non concepito per la pubblicazione Si tratta, è bene sottolinearlo, di lettere vere: quando le scrisse Cicerone non pensava a una loro pubblicazione (come sarà invece il caso dell'epistolario di Seneca); perciò esse ci mostrano un Cicerone non ufficiale, che nelle confidenze private rivela apertamente i retroscena a volte poco edificanti della sua azione politica, i dubbi, le incertezze e le esitazioni frequenti, gli alti e bassi del suo umore. L’interesse storico e linguistico: L’interesse è grande anche dal punto di vista linguistico, poiché le lettere sono un raro documento di linguaggio colloquiale Non si tratta, ovviamente, di un colloquiale "basso", popolare o volgare, ma della lingua parlata dai Romani appartenenti ai ceti più elevati. Caratteristiche principali di tale linguaggio sono la prevalenza della paratassi, l'abbondanza delle espressioni idiomatiche, dei neologismi e dei diminutivi (con funzione ora affettiva ora ironica), soprattutto la massiccia presenza di parole, frasi, citazioni e modi di dire greci. È questo il tratto che differenzia maggiormente le epistole dalle opere scritte in stile più elevato, dove i grecismi sono quasi completamente assenti, in ossequio alle norme del purismo, che vietavano o sconsigliavano l'uso di forestierismi. Le lettere rispecchiano invece l'abitudine dei Romani, perfettamente bilingui, di ricorrere al greco in contesti non formali come la conversazione quotidiana e familiare. Non va dimenticato, infine, l'eccezionale valore storico dell'epistolario ciceroniano, che a volte, quasi come un quotidiano dei nostri tempi, permette di seguire giorno per giorno l'evolversi degli avvenimenti politici. Anche se non ci sono prove che lo confermano, Archia secondo l’orazione di Cicerone, possedeva tutti e tre i requisiti. Dati gli abusi che derivarono da questa legge, nel 65 si corse ai ripari con la Lex Papia de Peregrinis Rigettò false richieste di cittadinanza ed espulse gli stranieri da Roma. In questo contesto Grattio accusa Archia. Due fatti, convalidavano l'accusa di Grattio. Il primo era la mancanza di documenti scritti che dimostrassero la cittadinanza eracleese dell'accusato Il secondo, l'assenza del nome di Archia nei due censimenti dei nuovi cittadini che erano stati fatti dopo la promulgazione della legge. L’INFLUENZA POLITICA: A Roma i processi hanno sempre un retroscena politico; in questo caso potrebbe essere costituito dal malumore dei pompeiani contro Lucullo e la sua cerchia; questo perché nel 66 a seguito della legge Manilia, la gestione della guerra contro Nitridate, re del Ponto, viene sottratta a Lucullo e ceduta a Pompeo. Inoltre, nel 62, quando Archia viene processato, Pompeo stava per ritornare in patria. Il rientro di Pompeo faceva pensare che questo volesse approfittare delle vittorie altrui (accusa che Lucullo stesso gli aveva mosso). Quindi la cerchia di Pompeo vuole attaccare Lucullo attraverso il poeta Archia, a lui legato, nonché autore del poema che ne celebrava le imprese. Per ciò che ne sappiamo Archia viene assolto, perché disponiamo di una epistola ad Attico in cui Cicerone fa riferimento ad Archia impegnato nelle sue normali attività. L’ultima citazione di Archia risale al De Divinatione di Cicerone, nel 44, in cui quest’ultimo allude ad un epigramma di Archia in si faceva riferimento ad un sogno; non sappiamo, comunque, se fosse già morto. PERCHÉ CICERONE DECIDE DI DIFENDERE ARCHIA? Il primo motivo per cui Cicerone ha assunto la difesa di Archia è una sorta di debito di riconoscenza nei confronti di colui che, quando era giovane, lo aveva spinto a iniziare e proseguire gli studi letterari. Vi erano però altri motivi: Cicerone contava sul fatto che Archia celebrasse il suo anno di consolato in un vero e proprio poema epico, che Archia in realtà non realizzò mai; fu lo stesso Cicerone a scrivere un epos intitolato proprio "De consolatu suo" di cui ci restano pochi frammenti. LA POSIZIONE DI CICERONE: Il tribunale è presieduto dal fratello di Cicerone, cosa che da all’oratore una prima condizione favorevole. Cicerone afferma che Archia avesse tutti i requisiti validi per essere civis romano, e che al di là dei requisiti, avrebbe meritato la cittadinanza in quanto poeta. La debolezza della situazione sta nel fatto che Cicerone non avesse prove: nessuno dei suoi argomenti è inconfutabile. Un’altra difficoltà fu il difficile clima politico che dovette affrontare Cicerone: Egli scrisse un testo a favore dell Lex Manilia … Vi è inoltre un clima di sospetti e rancori tra Pompeo e Lucullo ed egli aveva buoni rapporti con Lucullo e aspirava a manovrare la situazione politica diventando consigliere di Pompeo, e non aveva alcuna intenzione di inimicarselo. Come fa Cicerone a destreggiarsi in così difficile situazione? Loda Pompeo e loda Lucullo, ponendo sullo stesso piano Archia (che aveva celebrato Lucullo) e Teofane di Mitilene (cantore di Pompeo, che aveva ottenuto la cittadinanza in virtù dei canti a favore di Pompeo): entrambi hanno celebrato l’intero popolo romano (Cicerone non pone quindi l’attenzione sui singoli elogi). IL PROCESSO GIÀ VINTO: Archia era ben sostenuto e poi, a risiedere il tribunale, c’era il fratello dell’oratore Quinto Cicerone. La certezza di aver vinto, insieme alla mancanza di argomenti giudiziari portano Cicerone ad una particolare strategia difensiva: egli dedica la parte più ampia dell’orazione ai meriti culturali di Archia, producendo una sorta di elogio alla cultura. A partire da questioni quotidiane Cicerone arriva a trattare una questione universale, cioè il problema dell’otium letterario. Per Cicerone l’otium non è svincolato dal negotium, piuttosto si tratta di due aspetti complementari -> l’otium rappresenta la cura e la dedizione per la formazione del buon oratore e dell’uomo politico: otium consacrato alla ricerca delle ragioni etiche sottese all’agire dell’essere umano nella società. L’otium investe tutto l’individuo, nobilita l’uomo ed è sorgente di humanitas; difende la cultura letteraria: consente la formazione del buon oratore, è il mezzo che consente la realizzazione della libertà interiore dell’individuo; STRUTTURA DEL PRO ARCHIA: 1) EXORDIUM, l’introduzione (capp. 1-2); 2) NARRATIO, l’esposizione dell’oggetto in discussione (cap. 3); 3) DEMONSTRATIO, l’esposizione degli argomenti in difesa di Archia (capp. 4-5); 4) CONFIRMATIO EXTRA CAUSAM, l’elogio della poesia, che costituisce appunto una digressione (capp. 6- 11); 5) PERORATIO, la conclusione (cap. 12). EXORDIUM (capp. I-II) Nel cap. I Cicerone elogia il poeta Archia per gli insegnamenti da lui ricevuti. Infatti, egli afferma che tutte le arti concorrono alla formazione culturale dell’uomo, in quanto «tutte le arti, che riguardano la cultura dell’uomo, hanno un certo vincolo in comune e sono congiunte insieme come da una certa parentela». Nel cap. II Cicerone chiede al tribunale di concedergli la possibilità di uscire dai consueti canoni comportamentali e di affrontare argomenti anomali rispetto alle abitudini forensi. Infatti, egli intende parlare della poesia e del suo valore nella società, argomento insolito per un processo giudiziario pubblico. NARRATIO (CAP. III) Cicerone nel cap. III presenta la narratio, ossia quella parte dell'orazione nella quale viene esposto l'oggetto in discussione nella causa, oggetto che questa volta è rappresentato dall'accusa di indebita appropriazione della cittadinanza romana da parte del poeta Archia, di cui Cicerone tratteggia la biografia mettendone in risalto i dati salienti, cioè quelli relativi alla sua cultura e ai suoi successi. DEMONSTRATIO (CAPP. IV-V) La demonstratio comprende i capp. IV e V, nei quali Cicerone controbatte le accuse di Grattio, che avevano provocato il processo, e, con una serie di argomentazioni, smonta tutta l'impalcatura di tali accuse affrontandole una per una, con precisione e ironia. Cicerone, infatti, afferma che Archia aveva accompagnato Lucio Lucullo in un viaggio in Sicilia. Di ritorno dall'isola si era fermato con lui a Eraclea, dove aveva ottenuto la cittadinanza sia per i suoi meriti personali che per diretto interessamento dello stesso Lucullo. Archia si trovava nelle condizioni ideali per poter ottenere la cittadinanza romana: era stato iscritto ad Eraclea, si trovava a Roma da molti anni (dal 102) e si era fatto registrare dal pretore Quinto Metello. A questo punto, afferma Cicerone, la causa potrebbe anche essere considerata chiusa. Ma l'oratore continua il suo intervento dichiarando che niente di quanto è stato da lui affermato può essere messo in discussione. Infatti, alla testimonianza di Lucio Lucullo si aggiunge quella dei cittadini di Eraclea giunti a Roma con il compito di testimoniare, a nome della città, a favore di Archia. Era quindi inutile, da parte dell'accusa, richiedere i documenti scritti, cioè i registri pubblici di Eraclea, quando tutti sapevano che essi erano andati distrutti durante la guerra sociale del 91 a.C.