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Riassunto Manuale "Profilo storico della letteratura latina" G.B Conte, Dispense di Letteratura latina

Riassunto completo di tutte le parti del manuale, previo controllo ortografico.

Tipologia: Dispense

2018/2019
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Scarica Riassunto Manuale "Profilo storico della letteratura latina" G.B Conte e più Dispense in PDF di Letteratura latina solo su Docsity! PROFILO STORICO DELLA LETTERATURA LATINA Dalle origini alla tarda età imperiale G. B. Conte Parte Prima – Alta e Media Repubblica (pag. 3-56) • Nascita e primi sviluppi della letteratura latina • Livio Andronico e Nevio • Plauto • Ennio e l’epica fino a Cesare • La tragedia arcaica: Pacuvio e Accio • Catone e gli inizi della storiografia a Roma • Lo sviluppo della commedia: Terenzio e Cecilio Stazio • Lucilio e la satira • Politica e cultura fra i Gracchi e Silla Dalla fondazione alla conquista del Mediterraneo - Fondazione di Roma 21 APRILE 753 a.C. (data fissata da Varrone, diventata poi canonica). E’ un’indicazione cronologica non del tutto realistica ma, nonostante ciò, gli studiosi tendono ad attribuire la nascita dei primi insediamenti sul monte Palatino all’inizio dell’VIII sec. I primi secoli di vita della città furono caratterizzati dalla dominazione etrusca, la cui presenza coincide con l’inizio del regime di tipo monarchico, destinato a durare fino al VI sec. Prese avvio a Roma una fase di forti attività militari, dapprima contro le mire espansionistiche delle città vicine, e poi verso conquiste territoriali sempre più vaste. Tra il V e il II sec. a.C. i romani si trovarono a combattere prima contro le popolazioni italiche, presenti sul territorio, e poi contro Cartagine. Alla fine delle sanguinose guerre puniche e quelle contro le maggiori potenze dell’Asia minore (Macedonia, Siria, Pergamo), Roma si afferma come potenza egemone nel Mediterraneo. In questo periodo la società romana subisce profonde trasformazioni; assiste alla furiosa lotta tra patrizi e plebei, alla riforma agraria dei Gracchi, allo scontro tra Mario e Silla. Sempre nello stesso periodo s’infittiscono i contatti con l’Oriente e ciò permette ai romani di accostarsi sempre di più alla cultura greca e da essa prendere sempre più spunti culturali (vd. divinità, uso della ceramica, ecc.). Cap. 1 - Nascita e primi sviluppi della letteratura latina LA NASCITA DELLA LETTERATURA LATINA – I romani collocano l’inizio della loro storia letteraria nel 513 a.C. (data calcolata dalla fondazione di Roma), ovvero il nostro 240 a.C., anno in cui Livio Andronico fece rappresentare per la prima volta un testo scenico in lingua latina (forse una tragedia). Prima di allora la produzione letteraria rimaneva sprofondata in un periodo di oscurità (lungo forse più di 5 sec.). A Roma, in campo letterario, si avvertiva un continuo senso di concorrenza con la grande produzione greca e molti dei tentativi precedenti a Ennio (considerato il sommo progenitore della poesia-patria), furono oscurati poiché ritenuti ancora imperfetti e inferiori (rispetto alla grande tradizione greca - iniziatore e maggiore rappresentante Omero). Lo stretto contatto con la cultura greca impone alla letteratura romana (agli esordi, fatta di mere traduzioni), una precoce maturazione; si può dire che la letteratura latina nasce già adulta. I primi segni di una tradizione romana sono presenti nelle iscrizioni (su pietra o bronzo) e nei Fasti, tutti documenti scritti (più Roma cresceva, più diventava necessaria la scrittura e molte delle sue forme, dalla redazione di leggi, alla loro divulgazione ecc.). Il termine Fasti designava, in origine, il calendario ufficiale romano, che era stabilito ogni anno dai pontefici massimi. Molto presto i Fasti si arricchirono d’informazioni (es. nomi dei consoli che erano nominati annualmente, trionfi militari ottenuti dai vari magistrati, ecc.). L’uso della Tabula Dealbata fu un avvenimento molto importante poiché da essa traiamo i nomi dei magistrati in carica in quell’anno, e per l’appunto, gli avvenimenti più importanti. Tali registrazioni prenderanno poi il nome di Annales Pontificum. I CARMINA – Letterati e poeti romani delle età più mature talvolta ricordano, per accenni o intere citazioni, formule misteriose coniate in una lingua arcaica, spesso ritmate e ricche di assonanze. Queste citazioni sono riconosciute come antichi carmina sacrali (etimologicamente connesso a cano, “canto”). Sono testi che contengono principalmente leggi, preghiere, rituali (con un assetto culturale oscuro, ai limiti dell’incomprensibile già per i dotti romani di età classica). I carmina sacrali erano frammenti di antiche leggi, nate con finalità pratiche (dettare regole), e il loro essere così solenni e oscuri era proprio in riferimento a questo scopo; il messaggio che trasmetteva doveva produrre, nell’ascoltatore, precisi comportamenti. Cicerone definisce le Leggi delle XII Tavole un carmen. I carmina comprendevano anche giuramenti, profezie, scongiuri. Dalla diversità tematica si evince che la definizione arcaica “carmen” si utilizzi per indicare la forma di un testo piuttosto che i suoi contenuti. Era uno stile di scrittura senza distinzioni nette fra versi e prosa; mirava a distinguersi dallo stile della comunicazione quotidiana, univa le caratteristiche tipiche della prosa arcaica (trama fortemente ritmica, carica di ripetizioni foniche) a quelle della poesia dello stesso periodo, che si distingueva per una struttura metrica “debole”, soggiacente a regole non propriamente rigide. Erano forme sconosciute alla tradizione greca (sopravvivono in Plauto, Ennio, Catullo e Virgilio). Le più antiche forme di carmen a noi pervenute riguardano una tradizione di carattere religioso e rituale, legata all’esecuzione di pubblici riti annuali. Le principali testimonianze si hanno nel Carmen Saliare (canto del venerando collegio sacerdotale dei Salii, che ogni anno, nel mese di maggio, recavano in processione 12 scudi sacri chiamati Ancilia, con l’accompagnamento di formule rituali), e in quello Arvale. Il linguaggio dei Salii era incomprensibile anche ai romani di età storica e le tracce che abbiamo sono estremamente oscure; solo poco più chiaro risulta il carmen Arvale. I Frates Arvales costituivano un collegio di 12 sacerdoti, i quali, sempre nel mese di maggio, invocavano inni di purificazione per i campi; il carmen è inciso sul marmo degli Acta del 218 d.C. (resoconto della cerimonia). Già in questi anni il carmen era di difficile comprensione. I Carmina Triumphalia erano canti di lode e di scherno, improvvisati dai soldati, all’indirizzo del trionfatore (funzione apotropaica, per cui l’esaltazione tracotante del successo veniva moderata dal riso). LA QUESTIONE DEL SATURNIO – Il Saturnio è un verso la cui etimologia è legata al nome del dio Saturno; sembra indicare un’origine puramente italica, sebbene i testi in cui esso compare sono collocabili in un’epoca già imbevuta di cultura greca. Tale verso era utilizzato già nelle più antiche testimonianze poetiche romane (Livio Andronico e Nevio). Il saturnio sembrerebbe essere l’unico vero contributo in campo metrico dei romani. La struttura metrica, comunque, non si lascia ricondurre a un chiaro schema, la cui fluidità ha suscitato il dubbio che esso presupponga principi costitutivi diversi da quelli della metrica classica, basata sull’alternanza quantitativa. Forse è proprio questa sua irregolarità, rispetto ai versi canonici della letteratura greca, la causa della sua scomparsa (sostituito nell’epica dall’esametro). IL TEATRO ROMANO ARCAICO: FORME E CONTESTI - Tra il 240 a.C. e l’età dei Gracchi, la cultura romana conosce una straordinaria fioritura di opere sceniche. Tutti i poeti di cui c’è giunta notizia scrivono per il teatro (tragedie, commedie, generi minori). Fioriscono delle vere e proprie corporazioni professionali, in cui si raccolgono attori e autori. Il teatro a Roma fu importato dalla Grecia; tra i componimenti greci più importanti abbiamo: • La Palliata (di carattere comico, il cui nome deriva da “Pallio”, una veste tipicamente greca); • La Cothurnata (di carattere tragico, deve la sua definizione ai “Coturni”, gli alti calzari greci). Palliate e Cothurnate romane sono comunque ambientate in Grecia; i personaggi hanno nomi greci e sempre greco è lo sfondo degli avvenimenti della trama. Presto si svilupperanno una commedia e una tragedia ambientate a Roma: • Togata (veste romana); • Pretexta (veste del magistrato romano - ispirate alla storia e alle leggende romane). I termini tecnici della drammaturgia presentano una derivazione etrusca (si tende a riconoscere una mediazione etrusca nella diffusione a Roma di spettacoli musicali, mimici, di danza, pur rimanendo incerta l’esistenza in Etruria di effettive rappresentazioni teatrali). La più antica ricorrenza teatrale è quella legata alla celebrazione dei Ludi romani (in nome di Giove Ottimo Massimo). Proprio in occasione dei Ludi, Livio Andronico pare abbia messo in scena, nel 240 a.C. il primo testo drammatico (una tragedia ispirata al modello greco). Se prendiamo come riferimento l’età di Plauto e Terenzio, abbiamo quattro ricorrenze annuali disposte alla rappresentazione dei Ludi Scaenici: • Ludi Romani; • Ludi Manganales; • Ludi Apollinares; • Ludi Plaebei. A organizzare i Ludi erano sempre i magistrati (gli edili o i pretori urbani). La tragedia è fortemente impregnata e deviata dagli interessi dei committenti, con l’obbligo di rimanere lontani dall’autorità politica. Altra data importante per il teatro latino è il 207 a.C. fondazione del Collegium Scribarum Historumque (confraternita di attori e autori). Gli oneri finanziari erano a carico dello stato. Gli organizzatori trattavano con gli autori e con la figura del Capocomico, molto importante, il quale dirigeva la compagnia. Prima del 55 a.C., anno in cui fu edificato il primo teatro di pietra, le strutture teatrali erano probabilmente solo provvisorie, in legno. L’azione si svolgeva sempre in spazi esterni o nella piazza (agorà della città greca). Un aspetto fondamentale della messinscena era costituito dall’uso delle maschere (fisse) per determinati personaggi (es. il vecchio, il giovane, la matrona, la cortigiana, il lenone, lo schiavo, il parassita, il soldato ecc.). La maschera aveva una duplice funzione, la comodità: • Permetteva all’attore di rappresentare più personaggi nella stessa scena; • Permetteva al pubblico di riconoscere immediatamente il tipo di personaggio. Il verso utilizzato era, spesso, il senario giambico. Molto meno chiare appaiono le differenze o somiglianze tra la tragedia greca e romana (sappiamo solo che in quella romana non c’era il coro). XLIV grecizzazione si oppone fortemente Catone il Censore, difensore della tradizione e del mos maiorum. Catone però non combatte la grecità tout court, ma si oppone a quegli aspetti della cultura e del pensiero greco che gli sembrano mettere in discussione i principi basilari del mos maiuorum e le istituzioni su cui si basa il vigore dello Stato romano (es. l’esaltazione del singolo individuo eccezionale). Egli concepisce la res publica come un corpo collettivo, al cui servizio si mettono gli individui, svolgendo attività pubblica, pronti a sacrificarsi oppure a tirarsi indietro. L’atteggiamento reazionario di Catone è troppo intransigente e lontano dalla mentalità delle classi colte. Lo stesso Ennio, scoperto da Catone, si allontana presto da lui per schierarsi con gli ellenizzanti più accesi e impegnati nello svecchiamento della cultura tradizionale romana. Circolo degli Scipioni La perfetta incarnazione dell’ideale di uomo politico e di cultura a cui Catone si oppone è Scipione Emiliano, figlio di Lucio Emilio Paolo, vincitore del re di Macedonia, Perseo, nella battaglia di Pidna. È Scipione che invita a Roma e protegge Panezio, filosofo cui si rifarà anche Cicerone. Attorno a Scipione si raccolgono gli intellettuali più aperti ai temi della cultura greca, e tale élite prende il nome di “circolo degli Scipioni”. Al circolo avrebbero fatto parte anche Ennio e più tardi, Lucilio e Terenzio. Non si crede sia esistito un vero e proprio circolo quanto più una comunanza d’interessi tra alcune figure dell’aristocrazia. A dare importanza a tale circolo fu proprio Cicerone, idealizzando e utilizzando le figure più significative come protagonisti di alcune sue opere. Cap. 4 - Ennio e l’epica fino a Cesare LA VITA E LE OPERE MINORI DI ENNIO – Nacque in una cittadina della regione, chiamata dai Romani, Calabria (ovvero la zona più meridionale dell’odierna Puglia), nel 239 a.C. Ennio non era latino ma proveniva da un’area di cultura italica fortemente grecizzata. Giunse a Roma solo in età avanzata, compiendo i suoi studi probabilmente a Taranto (greca). A portarlo a Roma sarebbe stato Catone; qui svolse l’attività d’insegnante, scrivendo per lo più tragedie. Divenne il protetto di una grande famiglia aristocratica, quella di Marco Fulvio Nobiliore, fino a entrare, più avanti, nella cerchia degli Scipioni. L’età ellenistica aveva visto un formidabile sviluppo della poesia di corte; presso le regge dei sovrani greci d’Asia risiedevano poeti che celebravano le gesta dei sovrani. Ennio partecipò alla campagna di Nobiliore come poeta al seguito, scrivendo poi una tragedia per celebrare l’impresa. Catone protestò vivacemente contro l’iniziativa, che ai suoi occhi era un atto di propaganda personale. Risalgono all’ultima fase della sua vita gli Annales, vasto poema epico che gli darà fama immensa. Morì a Roma nel 169 a.C. Poco rimane delle sue opere minori: • Gli Hedyphagetica – opera didascalica sulla gastronomia. Se furono composti prima degli Annales, si tratta della prima opera latina attestata in esametri. GLI ANNALES: STRUTTURA E COMPOSIZIONE – Gli Annales sono il primo poema latino in esametri; narrano la prima storia di Roma, fino ai tempi del poeta (18 libri). Ne restano ca. 600 versi. Ennio doveva vedere la sua poesia come celebrazione di gesta eroiche; si rifaceva ad Omero e alla recente tradizione dell’epica ellenistica (di argomento storico e contenuto celebrativo). L’opera aveva il suo precedente più vicino nel Bellum Poenicum di Nevio, il quale però non disponeva gli avvenimenti in una sequenza continuativa, dalla caduta di Troia ai suoi giorni. Ennio invece narra senza stacchi, in ordine cronologico. Un’atra importante novità è la divisione in libri del poema, sulla scorta di quello che i dotti alessandrini avevano fatto per i poemi di Omero, originariamente un continuum indiviso di versi. Il titolo voleva richiamarsi alle raccolte degli Annales Maximi (pubbliche registrazioni di eventi fatte dai pontefici massimi). Ennio conduce l’opera secondo un ordine cronologico progressivo, dalle origini ai suoi giorni, ma non bisogna pensare che egli trattasse tutti i periodi con lo stesso ritmo e la stessa concentrazione. Prediligeva gli eventi bellici, mentre si occupava pochissimo di politica interna; è la guerra l’interesse di un poeta epico ed è la guerra l’attività in cui si mostra la virtù romana. ENNIO E LE MUSE: LA POETICA – Sembrerebbe che all’inizio gli Annales fossero pensati divisi in 15 libri, finendo con il trionfo di Nobiliore, protettore del poeta. Per motivi non chiari, Ennio invece aggiunse 3 libri al piano originario (forse per aggiornare la sua opera con la celebrazione di altre imprese romane più recenti). L’opera è contrassegnata da due grandi proemi, al libro I e al libro VII; qui il poeta prende direttamente la parola per rivelare le ragioni del suo fare poesia. Il primo proemio era probabilmente aperto dalla tradizionale invocazione alle Muse (Ennio racconta di un sogno in cui Omero gli rivela di essersi reincarnato in Lui - si presenta come il vivente sostituto di colui che, nel giudizio degli antichi, era il più grande poeta di tutti i tempi). Ennio si può considerare come il primo poeta dicti studiosus, ovvero filologo, cultore della parola. Nell’affermare orgogliosamente la sua priorità fra i romani si riferiva all’importanza di essere stato il primo ad adottare l’esametro dattilico, il verso della grande poesia greca. Anche per questo, lo stile epico enniano ci appare sperimentale, innovatore; Ennio accolse nel testo epico parole greche traslitterate e adottò caratteristiche forme sintattiche estranee all’uso latino, nonché alcune desinenze. Inventò, sempre sul modello della lingua della poesia greca, molti aggettivi composti. E’ ricco di figure di suono (tipico della tradizione dei carmina) che assumono una funzione patetizzante e non mancano, talora, di una certa esasperazione. A riguardo della durezza che mostra l’esametro enniano, a confronto con quello più fluido di Virgilio e Ovidio, va ricordato che Ennio fu il primo ad adattare questa forma metrica al latino, creando una tradizione letteraria senza potersi appoggiare ad alcun modello. LA POESIA EPICA COME CELEBRAZIONE DELLA VIRTUS ARISTOCRATICA: DA ENNIO A VIRGILIO – Il discorso epico, dopo Ennio, viene interpretato in chiave celebrativa; solo Virgilio, recuperando Omero, darà al genere un’interpretazione e un’impronta nettamente diverse, scrivendo un testo che non rinuncia a essere celebrazione ma anche complessa riflessione, fatta attraverso il mito, sull’uomo, sul destino, sulla guerra. Ennio è il cantore della virtus individuale; gli Annales sono affollati di condottieri, ricordati con il loro nome, con la presunzione che la voce del poeta saprà renderli immortali, non solo per le virtù guerriere, ma anche per quelle di pace. Molti romani pensavano che la poesia non fosse altro che questo: celebrazione di azioni eroiche in versi. Fino a tutta l’età imperiale, la poesia epica storica continua a essere il miglior legame tra letteratura e propaganda, tra letteratura e potere. LA POETICA DRAMMATICA – I temi delle tragedie di Ennio sono principalmente quelli del ciclo troiano e i modelli sono i grandi tragici ateniesi del V sec. (Eschilo, Sofocle, Euripide). Lo stile di questi testi doveva presentare una forte carica patetica, dovuta alla ricerca di effetti di commozione, secondo una tendenza comune a tutto il teatro latino arcaico. Gli studiosi antichi conoscevano anche due commedie: • La Caupuncula, l’ostessa; • Il Pancratiates, il lottatore. In questa parte della sua produzione però Ennio era ritenuto un minore, di fatti fu l’ultimo poeta latino a praticare insieme tragedia e commedia. Cap. 5 - La tragedia arcaica: Pacuvio e Accio POPOLARITA’ E DIFFUSIONE DELLA TRAGEDIA ARCAICA ROMANA – La tragedia, in età repubblicana fu un genere letterario di grandissima popolarità, persistente nella memoria letteraria anche quando lo stato cessò di patrocinare le grandi manifestazioni teatrali (i ludi). Questi poeti drammatici sono poeti-filologi, amanti dello stile difficile, che spesso utilizzano forme nuove, calchi dal greco, complicati composti, mirando a dare grandiosità al dettato delle tragedie. Non bisogna pensare che non avessero esperienza diretta del teatro o risultassero incomprensibili e lontani al pubblico romano. Al contrario di quanto accade per tragedie latine di epoca più tarda, i testi di questi autori erano scritti per essere rappresentati in scena. L’effetto grandioso, il terrore, la paura, la grande commozione, sono tutti elementi caratteristici del linguaggio teatrale di questi poeti. Se i loro modelli sono i grandi classici greci, il gusto del patetico, le grandi tirate che quasi assumono rilievo autonomo, l’addentrarsi delle accorate invocazioni, sono tratti che risalgono al teatro ellenistico del IV-III sec. a.C. E’ possibile che i tragici latini abbiano caricato ulteriormente i toni rispetto ai loro modelli antichi e anche ai loro intermediati ellenistici e abbiamo aggiunto al patetico dei rifacimenti greci di età post-classica molti tratti romanzeschi, addirittura avventurosi. Nei loro drammi sono frequenti apparizioni, profezie, naufragi, sortilegi e incidenti portentosi. Gli argomenti di questo teatro sono spesso politici, ad esempio l’antico tema greco del tiranno, di vivo interesse soprattutto quando nella media età repubblicana compaiono sulla scena politica le prime grandi personalità carismatiche (eroici condottieri, demagoghi, grandi oratori). Pacuvio e Accio sono figure di grande prestigio sociale, personaggi aristocratici. L’attività di chi scrive per il teatro, soprattutto chi scrive tragedie, non è più considerata un’occupazione inferiore. Accio non somiglia per nulla a un teatrante, come Plauto, che vive dei suoi copioni; è un grammatico, un teorico della letteratura, il rispettato presidente della società dei poeti. Autori tragici saranno i grandi protagonisti della politica: Giulio Cesare, Strabone, lo stesso Augusto. PACUVIO E ACCIO –Marco Pacuvio è autore di sole tragedie, nipote di Ennio, nato a Brindisi nel 220 a.C. ca. Fu in contatto con personaggi dell’ambiente scipionico. Fu molto criticato per il suo stile, specialmente da Lucilio, che lo considerava troppo contorto e ampolloso, spericolato nell’uso di parole nuove, non attestate nella tradizione. Era famoso per la visualità impressionante e spettacolare delle sue descrizioni. Tra le opere si ricordano: • Iliona; • Niptra; • Dulorestes. XLIV Più prolifico di Pacuvio e versato in diversi generi letterari era Lucio Accio. Nacque a Pesaro intorno al 170 a.C. La tradizione lo dipinge come un vecchio orgoglioso che pretese una statua gigantesca nella sede del collegium poëtarum, l’associazione professionale dei poeti, di cui fu l’uomo più importante dal 120 a.C. Le tragedie di argomento greco, le coturnate, sono: • L’Epinausimache; • L’Atreus. Sembra che Accio fosse particolarmente sensibile alla tragicità del potere assoluto. Sul piano formale Accio rimane noto per la maestria, al limite del virtuosismo, con cui utilizza i mezzi stilistici della tradizione poetica (es. giochi fonici come allitterazioni e assonanze). Accio si distingue per i suoi interessi eruditi che lo accostano a Ennio e alla sua figura di poeta-filologo. Pare fossero composti in un misto di prosa e versi i Didascalica, scritti di linguistica e ortografia latina (9 libri). Cap. 6 - Catone e gli inizi della storiografia a Roma CATONE, LA VITA E LE OPERE – La prima storiografia romana viene definita “annalistica”, in quanto fortemente influenzata dalla struttura e dalle informazioni degli Annales Pontificum, i doc. ufficiali in cui venivano registrati, anno per anno, i fatti salienti di pubblico interesse. Gli annali, nonostante lo stile solenne e impersonale, non avevano un taglio realmente oggettivo e imparziale. La caratteristica più notevole della produzione annalistica era l’adozione della lingua greca. Il primo a scrivere in greco è Fabio Pittore, aristocratico che ricoprì ruoli importanti durante la seconda guerra punica. Nella sua opera pare fossero prevalenti gli interessi per riti, tradizioni religiose, istituzioni giuridiche o sociali. La prima vera opera storica romana invece si ha con Catone il Censore, che sceglie polemicamente l’uso del latino. Marco Porcio Catone nacque nel 234 a.C., nei pressi dell’odierna Frascati, da una famiglia di prop. terrieri non nobile, ma benestante. Combatté nella guerra contro Annibale, rivestendo alti gradi della gerarchia militare. Percorse tutte le tappe del cursus honorum fino a essere eletto console per l’anno 195 a.C. Censore nel 184 a.C., esercitò le proprie prerogative presentandosi come il campione delle antiche virtù romane contro la degenerazione dei costumi e il dilagare di atteggiamenti individualistici e protagonistici incoraggiati dal pensiero greco. Quando nel 155 a.C. Atene inviò a Roma un’ambasceria di filosofi, Catone ne pretese (e ottenne) l’espulsione, temendo che i loro insegnamenti potessero insinuare nella mentalità dei romani colti, dubbi sulla validità dei modelli etici tradizionali. In vecchiaia Catone si dedicò alla composizione di un’opera storica, le Origines, concepita anche per diffondere i principi della sua azione politica e che rappresenta la prima opera storica in latino, nata nel dichiarato disprezzo verso l’annalistica romana in lingua greca. Catone è una figura tra le più eminenti e conferisce alla nascente storiografia latina un vigoroso impegno politico. Privilegia la storia contemporanea, alla quale dedica 3 libri su 7, quota notevole per un’opera che pretendeva di rifarsi molto addietro, alle stesse origini di Roma. Nelle Origines avevano largo spazio le preoccupazioni dell’autore per la dilagante corruzione dei costumi e la rievocazione delle battaglie che lui stesso aveva condotto, in nome del primato dello Stato, contro il culto delle personalità. La creazione della Repubblica era vista come l’opera collettiva del populus Romanus, stretto intorno alla classe dirigente senatoria. Catone non fa i nomi dei condottieri, né romani né stranieri (anche Annibale era chiamato solo dictator Carthagininsium). Talora sceglieva di portare in luce azioni e nomi di personaggi oscurissimi; soldati semplici o ufficiali di rango inferiore, che rappresentavano la virtù collettiva dello Stato. Catone s’interessava vivamente alla storia delle popolazioni italiche, altrimenti ignorata dalla storiografia, e metteva in rilievo il contributo da queste dato alla grandezza del dominio romano e alla costruzione di un modello di vita basato su rigore e austerità di costumi. Catone dimostrava inoltre interesse per i popoli stranieri e per le loro usanze. LE ALTRE OPERE E LE ORAZIONI – A Catone risale il testo in prosa latina più antico che ci sia giunto per intero, il trattato De agri cultura (serie di precetti esposti in forma asciutta e schematica, fu di grande efficacia, senza lasciare spazio a ornamenti letterari, né riflessioni filosofiche sulla vita e il destino degli agricoltori, diffuse in tanta parte della successiva trattatistica agricola latina). Nel De agri cultura Catone vuole dare una precettistica generale da applicarsi al comportamento del proprietario terriero. Questi rappresentato, secondo la tradizione, nelle vesti del pater familias, deve dedicarsi all’agricoltura come all’attività più sicura e onesta, la più adatta a formare i buoni cittadini e i buoni soldati. Il tono precettistico e sentenzioso doveva essere particolarmente caro a Catone, che aveva disposto nella medesima forma un’opera come i Praecepta ad filium. Sembra che si trattasse della prima enciclopedia latina dei “saperi” (medicina, retorica, arte militare, ecc.), come ne comporranno più tardi Varrone o Plinio il Vecchio. Ne sono rimasti alcuni frammenti, notevoli per l’energia e la concisione con cui vengono formulati gli ideali del mos maiorum. Forte il tono sentenzioso, anche nel carmen de moribus, scritto in una prosa che doveva essere ritmata. LA VITA E LE OPERE – Lucilio nacque forse nel 128 a.C., data attestata da Girolamo. La sua famiglia era agiata e proveniva dalla città campana di Suessa Aurunca. Lucilio è il primo letterato di alto ceto sociale a condurre vita da scrittore, volontariamente appartata dalle cariche pubbliche e dalla vita politica. La data di morte certa è il 102 a.C. Lucilio scrisse 30 libri di satire, di cui restano circa 1.300 versi, quasi tutti brevissimi. Come verso, Lucilio si orientò progressivamente sull’esametro, il metro che sarà poi usato anche da Orazio, che a Lucilio si richiama direttamente. I singoli libri potevano consistere sia di composizioni uniche, sia di più brevi unità poetiche e non è affatto sicuro che il titolo Saturae risalga a Lucilio stesso, che nei frammenti rimasti definisce le sue composizioni poemeta o anche ludus ac sermones, ovvero chiacchiere scherzose. LUCILIO E LA SATIRA – L’opera di Lucilio si radica nello stesso ambiente culturale di Terenzio; i grandi personaggi del partito scipionico. La sua posizione sociale è ben diversa da quella di Terenzio, come diversa è la protezione dei suoi aristocratici amici. Lucilio può permettersi scelte ben più ardite; l’indipendenza di giudizio, la verve polemica, l’interesse curioso per la vita contemporanea e per la politica sono qualità che Terenzio non poteva avere e che invece si adattano bene alla posizione di Lucilio, uomo d’alto rango e colto che non vive del proprio lavoro letterario e che non ha paura di farsi nemici tra i potenti. Secondo Aristofane la satira è un genere integralmente romano, un dato di fatto su cui non incidono neppure i tentativi degli stessi poeti satirici, soprattutto Orazio, di crearsi una specie di genealogia retrospettiva in Grecia, ad esempio chiamando in causa la mordacità della commedia ateniese del V sec. Per quanti apporti culturali la satira abbia via via accolto, l’impulso originario è specificamente romano. La nascita della satira può essere vista come la necessità avere un genere letterario disponibile a esprimere la voce personale del poeta, a raccontare in versi, momenti ed esperienze della sua vita. Se consideriamo l’epoca immediatamente anteriore a quella degli Scipioni, quella di Ennio, la produzione letteraria in latino ci appare già assai articolata. Si nota che nessuno dei generi canonici di poesia prevede uno spazio di espressione diretta in cui il poeta possa parlare di se stesso e del suo rapporto con la realtà contemporanea. La grande importanza storica di Lucilio consiste nell’essersi concentrato esclusivamente sul genere satirico, che Ennio invece aveva praticato come un’occupazione minore, accogliendo come proprio ideale mezzo espressivo questa forma di poesia varia e personale, aperta alla voce del poeta e al realismo quotidiano. Lo sviluppo della satira nell’età di Lucilio significa anche lo sviluppo di un nuovo pubblico, interessato alla poesia scritta, e desideroso di una letteratura più aderente alla realtà contemporanea. Lucilio affrontò uno spettro molto ampio di argomenti; il I libro conteneva una vasta composizione nota come Consilium deorum, attraverso una parodia dei concili divini, scena tipica dell’epica, Lucilio prendeva di mira un certo Lentulo Lupo, personaggio inviso agli Scipioni. Proprio contro la concezione della letteratura come vuota convenzionalità e ricordo a scene e motivi stereotipi voleva reagire con ironia la poetica realistica di Lucilio. Il III libro delle satire conteneva la colorita narrazione di un viaggio in Sicilia il tema del viaggio ritornerà più volte nella storia del genere, e forse proprio per ispirazione luciliana, nel Satyricon di Petronio. Il libro XVI pare fosse dedicato alla donna amata. Sono poi ampiamente attestate disquisizioni su problemi letterari; giudizi su questioni di retorica e poetica, vere e proprie analisi critico-letterarie e grammaticali. In questo senso Lucilio ricorda la cultura retorico-grammaticale di Accio, ma di Accio, come di Pacuvio e di altri poeti, Lucilio deride il gusto enfatico e declamatorio. La critica dello stile solenne è un’altra importante convergenza tra Lucilio e Callimaco, e un filo che lega Lucilio all’esperienza della poesia retorica nell’età di Cesare. Non sappiamo dire quanto le satire luciliane, nel loro sviluppo cronologico, fossero collegate da un programma unitario ed è pericoloso immaginare questo poeta come una sorta di riformatore. Quello che emerge dai frammenti è il rifiuto di un unico livello di stile e l’elaborazione di un amalgama fatto del linguaggio elevato dell’epica della poesia latina: parole tecniche di retorica, scienza, medicina, sesso, gastronomia, diritto e politica e forme del linguaggio di tutti i giorni, attinto ai diversi stati sociali e perciò ricchissimo di grecismi. La disarmonia dello stile di Lucilio è certamente una scelta meditata, rivolta a un preciso programma espressivo che fonde insieme vita e arte. Lucilio resterà un modello per tutti i satirici latini; Orazio lo consacrerà come inventor della forma satirica, cogliendo anche il carattere intimo, autobiografico della sua poesia. Un aspetto però dell’eredità lucilina va perduto; un certo tono di polemica personale, anche politica, legato a precise condizioni sociali e istituzionali. Nella Roma imperiale la satira dovrà cercarsi altri bersagli. Cap. 9 - Politica e cultura fra i Gracchi e Silla ORATORIA E POLITICA – Gli anni che vanno dal 133 al 79 a.C. ca., quando Silla rinuncia al potere, sono carichi di grandi violenze e tensioni (es. movimento dei Gracchi, guerra sociale di Roma contro gli italici, guerra civile tra Mario e Silla). La repubblica entra così in una crisi che durerà fino all’ascesa di Augusto al principato. In anni di lotta e dibattito politico tanto acceso, acquista importanza l’oratoria, le scuole di retorica, la trattatistica; l’eloquenza è un’arma potentissima e XLIV molto temuta. Nel 92 a.C. i due censori in carica, Licinio Crasso e Domizio Enobardo fecero chiudere la scuola di retorica di Plozio Gallo, cliente di Mario. La scuola era “pericolosa” per la parte aristocratica, date le sue tendenze popolari: agli uditori era richiesta la conoscenza preliminare del greco e le rette non erano elevate. L’insegnamento della scuola di Gallo sembra riflettersi nella Rhetorica ad Herennium, manuale composto da autore ignoto, probabilmente negli anni 80. Dall’opera traspaiono tendenze gracchiane e mariane; lo schematismo scolastico di origine greca è attenuato dall’inserimento di materiali tratti dalla cultura e dall’oratoria romane. Si conoscono molti nomi, che si possono inquadrare storicamente, di scuole e tendente di stile, grazie a Cicerone, che nel Brutus traccerà una lucida storia dell’eloquenza romana. Cicerone distingue tra stile grave e solenne (Scipione Emiliano) e stile pacato (Lelio). Veemente e ispirata era l’oratoria dei Gracchi; Cicerone l’apprezza tanto quanto è ostile alla loro ideologia riformista. POLEMICHE SULLA LINGUA E SULLO STILE E STUDI FILOLOGICI – Cicerone ci fornisce un’idea sul conflitto di gusti e stile che incominciava a tracciarsi già nella generazione precedente alla sua, quello fra asiani e atticisti. L’eloquenza asiana fiorisce nelle scuole di Pergamo, in Asia Minore, all’inizio del III sec. a.C.; ricerca il phatos e la musicalità, e si affida a uno stile ridondante, pieno di metafore e vocaboli coloriti. A Roma, il maggior esponente era Ortensio Ortalo, prima avversario e poi amico di Cicerone, morto intorno al 50 a.C. Più tardo fu l’affermarsi a Roma della corrente atticista, che prendeva a modello la semplice sobrietà dell’oratore attico Lisia. Lo stile atticista voleva una figura semplice e l’uso regolare dei costrutti sintattici. Assiani e atticisti si rifanno a due diverse concezioni del linguaggio, trascinando polemiche che già dividevano, nel mondo ellenistico, le scuole rivali di Pergamo e Alessandria. La prima è sostenitrice della teoria anomalista (a favore delle deviazioni e neologismi); la seconda, analogista, è pura e conservatrice, favorevole alla tesi che la lingua deve fondarsi su norme e sul rispetto di modelli conosciuti. Il più grande esponente della teoria analogista e brillante oratore atticista sarà Giulio Cesare (autore del De analogia). Nella seconda metà del II sec. a.C. si afferma a Roma anche la filologia; Lucio Elio Stilone Preconino si occupa dei problemi di autenticità delle commedie plautine; Ottavio Lampagione cura invece l’edizione dell’arcaici Nevio e Filocomo quella di Lucilio. LA PRODUZIONE STORIOGRAFICA – Nell’età dei Gracchi la storiografia diventa un mezzo di analisi politica, a volte di contrapposizione feroce. Gli autori sono membri autorevoli di un entourage, talvolta dei portavoce autorizzati, ma mai protagonisti o grandi capi di fazione. Il fatto notevole rispetto alla storiografia arcaica è l’adozione di un metodo razionalistico, chiaramente influenzato dalla pratica dello storico greco Polibio, che era stato a lungo a Roma. L’autore più interessante è Cornelio Sisenna; uomo politico di tendenze aristocratiche, convinto fautore di Silla, scrisse Historiae (trattavano esclusivamente di vicende contemporanee, dedicando alla storia più antica solo una rapida introduzione). Sisienna è attento agli eventi politici, ma senza dimenticare la valenza artistica del genere storico; i fatti narrati sono immersi in un’atmosfera romanzesca e favolosa, secondo il metodo della storiografia tragica che si rifaceva a Clitarco (uno degli storici di Alessandro Magno). Al contenuto della narrazione, in Sisenna si adeguava anche lo stile di un asianesimo fiammeggiante che Cicerone stesso, pur suo ammiratore, riteneva eccessivo e quasi puerile. LA COMMEDIA DOPO TERENZIO – FABULA PALLIATA E FABULA TOGATA – Nell’età di Cesare e Cicerone, la commedia di ambiente greco, la palliata di Pauto e Terenzio, comincia a essere sentita come un genere antico e difficile, forse anche troppo stilizzato e convenzionale. Nel corso del I sec. a.C. lo spazio della scena viene invaso da generi alternativi, più farseschi, oppure rispondenti a esigenze diverse di realismo. La commedia togata è ancora molto vicina a Terenzio e al suo modello greco Menandro, con la differenza che ambienta trame e personaggi in realtà italiche e romane. Nei frammenti risultano ancora usati certi metri lirici che già Terenzio non usava più e che riportano indietro alla commedia di Plauto. Forse il realismo stava nella rappresentazione di un mondo di personaggi umili, meno tipizzato di quello plautino. Seneca dice che la togata stava a metà fra la tragedia e la commedia; i toni comici dovevano essere stati molto smorzati rispetto alla palliata plautina e questo non contribuirà al successo del genere sulla scena. LA COMMEDIA DOPO TERENZIO – L’ATELLANA E IL MIMO – Nel I sec. a.C. il pubblico cerca ormai svago in altri generi di rappresentazione scenica. È il momento in cui conosce un grande ritorno di fortuna quel genere di farsa popolare e sub-letteraria che era stata l’atellana. Impiegata a lungo come exodium, agile comica finale che concludeva la rappresentazione di drammi più impegnativi, l’atellana acquista ora una sua indipendenza, quasi un certo prestigio. Lucio Pomponio, l’autore di atellane a noi più noto, compose anche testi di tipo più elevato, addirittura tragedie. I titoli rimasti conservano chiaramente l’impronta di un repertorio di maschere. Anche l’atellana sarà però presto soppiantata; già nell’età di Cesare, è il mimo a dominare la scena e lo sarà sempre di più fino a tutta l’età imperiale. Il termine greco mimos, indica l’imitazione della vita reale. Dalle testimonianze degli antichi, che spesso lo criticavano come genere diseducativo, capiamo soltanto che l’etichetta di mimo copre una varietà di spettacoli diversi; mimo poteva essere una serie di numeri slegati, di danze, intermezzi musicali, con ampie parti d’improvvisazione. Pare che i mimi più popolari fossero quelli dei ludi Florales. Esisteva inoltre il mimo muto, quello che oggi noi intendiamo per arte mimica. Sappiamo che altre volte il mimo era assai crudo (es. esecuzioni pubbliche). Gli attori non recitano più con la maschera e le parti femminili sono interpretate da donne, al contrario di quanto accadeva nel teatro classico. Abbiamo anche qualche notizia di autori, segno che il mimo a volte si alzava di tono per articolarsi in una narrazione più completa. Il mimografo a noi più noto è Publilio Siro. Gli antichi lo celebrano per la sua vena riflessiva e sentenziosa, apprezzata ad esempio da Seneca; come già accaduto per Menandro, venne messa insieme una raccolta di sue massime. Parte Seconda – Tarda Repubblica (pag. 60-111) • Cicerone • Filologia, biografia e antiquaria • Cesare • Sallustio • Lucrezio • Catullo e la poesia neoterica Il periodo cesariano (78-44 a.C.) – Morte di Silla (78 a.C.) - Morte di Cesare (44 a.C.): sono le due date che delimitano una vivacissima fase della produzione letteraria latina. Anche alcuni antichi (come Seneca il Vecchio o Tacito), collegavano la fine della repubblica alla fine di tutta una grande stagione intellettuale. Questi ultimi trent’anni vedono il culmine dell’attività di molti tra gli autori più famosi e sono anche quelli di formazione dei grandi poeti di età augustea: Virgilio, Orazio, Tibullo. Il periodo conosce i grandi dibattiti teorici, politici e ideologici; si può dire che nessun’altra generazione nella storia di Roma conobbe uno sviluppo culturale altrettanto vario e complesso. In ombra, fra i vari filoni letterari, rimase solo lo spettacolo. Uno dei fenomeni più notevoli di questo periodo è l’elaborazione di un autonomo pensiero filosofico-politico, che si pone al fianco del pensiero greco e vuole ereditarne la capacità di sintesi e di interpretazione della realtà, nell’attenzione a tradizioni e interessi specificamente romani. Si dibatte il ruolo della religione, non solo nei culti privati ma soprattutto nella vita dello Stato e nelle scelte politiche. La cultura s’interroga su se stessa, cercando di fondare il proprio ruolo nella vita pubblica e nella formazione della classe dirigente. XLIV Ispirandosi ancora a Platone, dopo il De re publica, fa seguire il De Legibus (52 a.C.), concludendo il dialogo iniziato nell’opera precedente. Sono conservati i primi tre libri mentre in modo frammentario il IV e il V. L’azione è ambientata nel presente e ha per interlocutori, oltre lo stesso Cicerone, il fratello Quinto e l’amico Attico. • Nel libro I Cicerone espone la tesi stoica dell’origine divina della legge, basata sulla ragione innata in tutti gli uomini e sulla convenzione; • Nel libro II l’esposizione delle leggi si basa sulla tradizione legislativa romana, orientata sul diritto pontificio e sacrale; • Nel III libro C. presenta il testo delle leggi riguardanti i magistrati e le loro competenze. UNA MORALE PER LA SOCIETA’ ROMANA – Cicerone comincia solo nel 46 a.C. a scrivere opere filosofiche (I paradossi degli stoici); fu costretto a ritirarsi dalla vita politica e perciò cercò consolazione nella filosofia. Come negli scritti di retorica, la forma privilegiata è il dialogo, di stampo platonico-aristotelico. De natura deorum (sulla natura degli dei), De finibus bonorum et malorum (del sommo bene e del sommo male), Tusculanae disputationes (discussioni) sono tra le principali opere composte da Cicerone che riprendono quelle che sono le grandi domande che si poneva la filosofia ellenistica (es. l’esistenza degli dei e il loro ruolo nel mondo, il dolore, il timore della morte ecc.). Il Cicerone-filosofo non ambisce a formulazioni originali, al contrario riassume posizioni e schemi teoretici, controbatte argomenti, traduce testi. Originale è il suo interesse nel cercare sempre, anche nei più raffinati problemi teoretici la conseguenza pratica, la ricaduta in termini di azione e partecipazione politica. L’impegno ciceroniano è principalmente moralistico e non dimentica i doveri del cittadino al servizio dello Stato (vuole offrire un punto di riferimento alla classe dirigente romana, in previsione di ristabilirne l’egemonia sulla società). Due opere importanti per questo tema sopra citato sono il Cato maior de senectute e il Laelius de amicitia. Il Cato maior ha come protagonista la figura (idealizzata e addolcita) di Catone il Censore, attraverso cui Cicerone evidenzia la tenacia da apporre all’impegno politico e il momento necessario dell’otium, che Cicerone ha cercato di conciliare per tutta una vita intera. Il dialogo contenuto nel Laelius de amicitia si immagina avvenuto pochi giorni prima della morte di Scipione Emiliano (129 a.C.). In questo dialogo vengono ricercati i fondamenti etici della società nel rapporto che lega fra loro le volontà degli amici, tentando di superare la tradizionale logica clientelare e di fazione propria dello Stato aristocratico (che intendeva con amicitia soprattutto la creazione di legami personali a scopo di sostegno politico). Cicerone (novità!) allarga il concetto di amicitia allargando la base sociale oltre la cerchia ristretta della nobilitas, attraverso il riconoscimento di valori quali virtus e probitas, attribuiti a vasti strati della popolazione e fondamento dell’amicizia. Cicerone vede negli Scipioni e nel loro enturage la realizzazione perfetta di questi ideali di humanitas e amicitia. Ai problemi di teoria della conoscenza sono dedicati gli Academia di cui rimangono sono due libri (Lucullus e Varro). Aderendo al probabilismo (scuola di Platone) ritiene che la conoscenza, anche solo su basi di probabilità, basti a orientare l’azione. La scrittura dei dialoghi è molto raffinata e da spazio all’invenzione narrativa, nella scelta delle scenografie e nell’elaborazione dell’incontro tra i personaggi. Cicerone emula Platone (nell’elaborazione stilistica), finendo con il sostituirlo fino al Rinascimento, come modello del dialogo. Anche quando mette in scena se stesso, evita di formulare un’opinione precisa, in modo da lasciar spazio al confronto libero e privo di contaminazioni. L’unica dottrina contro cui davvero si scaglia Cicerone è l’epicureismo, aggredito nel De natura deorum e nel De finibus (epicureismo = invito al disimpegno civile e all’affermazione del disinteresse degli dei verso le vicende umane). Di argomento religioso è anche il De divinatione, un dialogo sui segni che proverrebbero dagli dei. I DOVERI DELLA CLASSE DIRIGENTE: Il De officiis – Nell’autunno del 44 a.C. Cicerone iniziò la stesura del De officiis, un trattato dedicato al figlio Marco, allora studente di filosofia ad Atene. È un’elaborazione rapidissima, contemporanea alla composizione delle Filippiche. Mentre combatte contro la rovina della patria, riflette sui fondamenti di una morale della vita quotidiana che permette all’aristocrazia romana di riacquistare il controllo sulla società (base filosofica = stoicismo moderato di Panezio, che fornisce la casistica necessaria a regolare i comportamenti quotidiani dei membri dei gruppi dirigenti). Rispetto alla Stoà antica, la dottrina di Panezio attribuiva un valore positivo agli istinti (non devono essere oppressi dalla ragione, ma disciplinati). Le virtù tradizionali stoiche erano reinterpretate come organico sviluppo degli istinti fondamentali (giustizia, sapienza, fortezza, temperanza). Il prototipo dell’uomo ciceroniano descritto nel De officiis doveva sottomettersi agli istinti della ragione, con un saldo autocontrollo, ricercando l’approvazione degli altri con l’ordine, la coerenza, la giusta misura nelle parole e nelle azioni. La costante attenzione alla suscettibilità degli altri è necessaria alla fitta rete di obblighi sociali che a Roma competevano ai membri delle classi superiori. Cicerone si sofferma anche sui comportamenti da tenere nella vita quotidiana soffermandosi sui gesti e le posture in cui il decorum si manifesta o si rinnega, dando consigli sulla toilette, sull’abbigliamento e sui modi della conversazione d’intrattenimento. Sono solo alcuni dei precetti cui si dovrebbe attenere un uomo per rispecchiare il modello del vir bonus; non si parla ancora di ‘galateo’, vero e proprio modello letterario autonomo, ma sicuramente ha dato inizio a una nuova tradizione destinata ad avere grande fortuna. LO STILE E LE OPERE POETICHE – Con la stesura di opere filosofiche, Cicerone, come altri contemporanei, deve affrontare il problema della traduzione in latino di molti termini greci (traduzione del termine kathèkon con il latino officium). Il contributo più notevole di Cicerone all’evoluzione della prosa latina letteraria è la creazione di un periodo complesso e armonioso, basato sul principio della corrispondenza tra le parti, la concinnitas. I modelli greci sono i grandi oratori attici, come Isocrate e Demostene. Cicerone elimina tutte le incongruenze (anacoluti, costruzioni a senso) che la prosa arcaica latina aveva ereditato dal linguaggio colloquiale e privilegia l’ipotassi sulla paratassi (rende evidente l’articolazione e la connessione logica dei pensieri attraverso legami di dipendenza sintattica fra le proposizioni - periodi lunghi). Stile ricco di varietà di toni e registri stilistici. Secondo l’esigenze del probare, delectare e movere è scelta una gradazione di stile (semplice, temperato, sublime). Oltre che alla cura per lo stile della prosa, Cicerone apporta un simile interesse alla poesia. Le prime prove dimostrano interessi di erudizione mitologica, di sperimentazione metrica con poemetti come il Glaucus e l’Alcyones. Presto i suoi gusti divennero più tradizionalisti, fino ad arrivare ad avere ostilità nei confronti dei poeti moderni. Un’altra opera importante fu il De consulatu suo, 3 libri, composto intorno al 60 a.C. in cui si elogiava di aver salvato Roma dalla congiura di Catilina e che divenne la sua opera poetica più sbeffeggiata (soprattutto per la sua autocelebrazione, non fu molto apprezzato come poeta dai contemporanei, al contrario, estremamente considerato come traduttore). Cicerone è comunque considerato importante nello sviluppo dello stile e delle tecniche versificatorie. Egli raffina la tecnica dell’esametro, regolando il sistema delle cesure (pause ritmiche all’interno del verso), inaugurando la consuetudine di dare alle parole del verso, una disposizione ricca ed espressiva (tecnica dell’enjambement). L’EPISTOLARIO – L’Epistolario, importantissimo, comprende anche delle lettere di risposta dai suoi destinatari; si compone in 16 libri Ad familiare (parenti e amici, dal 62 al 43 a.C.), 16 libri Ad Atticum (Attico, migliore amico di Cicerone, dal 68 al 44 a.C.), 3 libri Ad Quintum fratem (dal 60 al 54 a.C.) e 2 libri Ad Marcum Brutum (autenticità controversa, sono tutte del 43 a.C.). Furono pubblicate in data incerta ma sicuramente post-mortem. Sono testi molto vari che comprendono vivaci resoconti della vita politica, brevi trattati, rapidi biglietti e, alla diversità di contenuti e dei destinatari, corrispondono quella dei toni, che vanno dallo scherzoso al preoccupato, dall’angosciato al sostenuto. Sono lettere vere, redatte senza l’obbiettivo della pubblicazione, che mostrano quindi un Cicerone non ufficiale, aperto alle confidenza e alle incertezze di ogni genere. Lo stesso stile è molto diverso da quello delle opere rivolte alla pubblicazione; il periodare è ellittico, gergale, denso di allusioni, abbondante di grecismi e colloquialismi. È una lingua che rispecchia il sermo cotidianus delle classi elevate di Roma. L’epistolario porta con sé un enorme valore storico, che permette di seguire l’evolversi degli avvenimenti politici e contribuisce a rendere l’epoca in cui visse Cicerone una delle meglio note della storia antica. LA FORTUNA DI CICERONE – Gli stessi contemporanei si dividono in suoi estimatori e detrattori (tra i secondi sono da ricordare gli oratori di tendenza atticista, come Sallustio). Il II sec. d.C. vide il nuovo modello senecano, fondato sul periodare nervoso, rapido e punteggiato rivaleggiare con quello ciceroniano; venne comunque ben presto riportato in vetta, almeno nella tradizione scolastica, della reazione classicista che trovò uno dei suoi centri nella scuola di Quintiliano. Per il Medioevo cristiano, Cicerone è uno dei massimi mediatori delle idee e dei valori della civiltà antica, maestro di filosofia e di arte retorica. Neanche Dante lo colloca tra i sommi prosatori ma comunque lo ricorda spesso per le sue opere filosofiche. Con il primo Umanesimo all’interesse per la figura umana e la personalità storica di Cicerone si aggiunge l’ammirazione per lo scrittore. Umanesimo e Rinascimento conoscono una lunga polemica di stile fra ciceroniani e anticiceroniani; • I primi additavano Cicerone come l’unico modello di prosa latina, unico da imitare; • Gli anti-ciceroniani si pronunciavano piuttosto per una pluralità di modelli. Il ciceronianesimo finì comunque abbastanza in fretta una volta che si trovò il campione in Pietro Bembo. Nel campo storico-politico, Cicerone, come altri autori antichi, ha contribuito ad alimentare il moderatismo politico (equilibrio fra impegno politico e libertà interiore). XLIV Il Romanticismo non valorizzò la cultura latina, anzi, preferì quella greca. Nuove tendenze hanno riconosciuto a Cicerone il primato di forgiatore della prosa latina e mediatore della trasmissione del pensiero greco. Cap. 2 - Filologia, biografia e antiquaria TITO POMPONIO ATTICO E CORNELIO NEPOTE – Nella tarda repubblica, la ricerca antiquaria diventa una disciplina di grandissimo interesse (attenzione a riti, costumi e istituzioni del passato derivante dalla nostalgia e dal rimpianto di un mondo in cui i valori avevano significato e non erano messi in discussione). Il più importante filologo-antiquario romano è Varrone, unitamente a Attico e Nepote. Attico fu il principale corrispondente di Cicerone, ricco cavaliere romano che si allontanò da Roma per paura delle proscrizioni al tempo di Silla, vivendo per tanto tempo ad Atene. Rientrò a Roma nel 65 a.C., e proprio qui, la sua casa sul Quirinale fu luogo d’incontro fra i principali rappresentanti dell’antiquaria del tempo (Cicerone, Varrone e forse anche Nepote). Attico aderisce all’epicureismo, conducendo una vita appartata. Il maggior merito di Attico deve essere stato quello dell’organizzatore di cultura e quello di raccogliere memorabilia, cioè imprese e gesta memorabili della gente romana. Cornelio Nepote nacque in Gallia Cisalpina intorno al 100 a.C. È autore del De viris illustribus, noto anche come Vitae, raccolta biografica di personaggi famosi (l’opera forse doveva comprendere sedici libri, divisi a seconda delle professioni); rimane solo il libro sui comandamenti militari stranieri. Nepote doveva intendere la biografia come il veicolo di un confronto sistematico tra le due civiltà, greca e romana; ogni categoria di ‘vite’ doveva occupare una coppia di libri, uno per i romani e uno per gli stranieri, distinti nello stesso campo di attività. Si è pensato che l’intento di Nepote fosse quello di suggerire la superiorità dei romani in ogni settore; quanto rimane però non sembra viziato da pregiudizi nazionalistici (rappresenta Annibale nel modo migliore). Si pensa invece che tale opera sia nata dalla necessità dei romani di quel tempo, di comprendere quali fossero i caratteri originali della loro civiltà e di rendersi più aperti ad apprezzare i valori di civiltà diverse. MARCO TERENZIO VARRONE – Nacque a Rieti nel 116 a.C. e fu allievo di Stilone e di Antioco di Ascalona e nella sua carriera politica fu questore, tribuno della plebe e pretore. Combatté nel 78/77 a.C. in Dalmazia e poi con Pompeo contro Sertorio, e poi ancora nella campagna contro i pirati. Fu legato di Pompeo in Spagna, raggiungendolo poi a Durazzo. Cesare, conquistato il potere lo perdonò e gli affidò l’incarico di organizzare una grande biblioteca a Roma. Nel 43 a.C. fu proscritto da Antonio perché simpatizzante dei cesaricidi, riuscendo comunque a salvarsi. Morì nel 27 a.C. Gli interessi filologici e antiquari sorsero in Varrone sin dalla giovinezza (De antiquitate letterarum – affrontava problemi di storia dell’alfabeto latino, dedicato ad Accio). Le opere principali furono pubblicate in età adulta, come le Antiquitates, il De lingua Latina, e le opere filologiche. Nell’Antiquitates viene illustrato quasi tutto il patrimonio mitico, rituale e istituzionale della civiltà latina. C’è nota per frammenti, tramite citazioni dei cristiani che fecero di Varrone il rappresentante e difensore della civiltà pagana contro cui dovevano battersi. Sempre dai cristiani sappiamo che Varrone nel Res divinae, distingueva tre modi di concepire le divinità: • Teologia favolosa (racconti mitici e le loro rielaborazioni); • Teologia naturale (insieme delle teorie dei filosofi sulla divinità); • Teologia civile (concepisce la divinità nel rispetto di un’esigenza politica, pertanto utile allo Stato). È contro questa tripartizione delle fedi che si scagliano i cristiani. Secondo Varrone, la religione è una creazione degli uomini; il popolo deve rimanere fedele alla teologia “favolosa”, mentre quella naturale deve restare possesso degli intellettuali e della classe dirigente perché se fosse diffusa tra il volgo, potrebbe minare il concetto di sanità delle istituzioni statali. Concezione varroniana della storia romana Roma sarebbe assurta al ruolo di grande potenza per aver saputo amalgamare e utilizzare al meglio una serie di apporti diversi (primo grande studioso delle antiche civiltà italiche – etrusca – tenendo però interessi diversi da quelli degli storici); non lo attiravano le gesta o le battaglie, il suo punto di vista è quello delle istituzioni, delle mentalità. Varrone affiancò gli studi antiquari a quelli di filologia; si occupò del testo arcaico, in particolare di Plauto, di cui tratto nell’opera Quaestiones Plautine e in De comoedii Plautinis, in cui affrontò il problema delle numerosissime commedie attribuite a Plauto. Verrone compilò un catalogo più sistematico dividendo in 3 gruppi le commedie: • Quelle sicuramente spurie (90); • Quelle incerte (19); • Le 21 sicuramente plautine, quelle a noi prevenute. Per l’attribuzione, Varrone si affidò alla sua sensibilità per la lingua e lo stile di Plauto. Altre opere dedicate al teatro arcaico erano il De scaenicis originibus, De personis e De actionibus scaenicis. La sensibilità per lo stile e l’interesse per i fatti linguistici portarono Varrone ad occuparsi anche di storia della lingua latina, partendo da problemi e metodologie della cultura ellenistica. Il De lingua riconosce che Cesare agì da purificatore della lingua latina, correggendo un uso difettoso e corrotto con uno più puro e irreprensibile. Cesare espose le sue teorie linguistiche nel De analogia (3 libri), composti nel 54 a.C. e dedicati proprio a Cicerone, che non condivideva quelle posizioni. Cesare poneva alla base dell’eloquenza l’accorta scelta delle parole, per la quale il criterio fondamentale è l’analogia, l’accettazione di ciò che diviene consueto nel sermo cotidianus. La selezione deve limitarsi ai verba usitata, parole già nell’uso. L’analogismo di Cesare è cura della semplicità, dell’ordine e della chiarezza, alla quale egli arriva sacrificando la grazia. LA FORTUNA DI CESARE SCRITTORE – Cicerone espresse sui Commentarii di Cesare un apprezzamento che appare significativo in ragione della profonda differenza di stile che separa i due. In seguito i giudizi critici sulla prosa storica si fecero però più severi e già Quintiliano, quando rivolgeva la sua attenzione al Cesare letterato, pur lodando l’oratore, non mostrava interesse per lo scrittore di storia. Sulla nitidezza del racconto e la perfezione del linguaggio anche Manzoni darà un giudizio di sommo elogio. Cap. 4 – Sallustio LA VITA E LE OPERE – Sallustio nacque in Sabina (nei pressi dell’odierna L’Aquila), nell’86 a.C., da famiglia facoltosa. Studiò a Roma, orientandosi presto verso la politica (inizialmente legato ai populares, fu tribuno della plebe nel 52 a.C.). Condusse una violenta campagna contro Milone e Cicerone (suo difensore). Ciò provocò la sua espulsione dal senato per mano degli aristocratici e solo in seguito alla vittoria di Cesare, riottenne uno slancio di carriera. Fu pretore e governatore della provincia detta “Africa nova” (ex regno di Numidia); accusato di malversazioni e corruzione, per evitare la condanna si ritirò a vita privata, dietro consiglio dello stesso Cesare. A questo punto Sallustio si dedica alla storiografia, scrivendo due monografie storiche, il Bellum Catilinae e il Bellum Iugurthinum (composte e pubblicate tra il 43 e il 40 a.C.). Restano alcuni frammenti di un’opera di maggior respiro, le Historiae, iniziate intorno al 39 a.C., incompiute al libro V a causa della morte dell’autore avvenuta nel 35 a.C. Altre due opere spurie rimaste incompiute sono le Epistulae ad Caesarem sene de re publica e l’Invectiva in Ciceronem. LA MONOGRAFIA STORICA COME GENERE LETTERARIO – Ad entrambe le monografie Sallustio antepone proemi di varia estensione, in cui spiega le ragioni del ritiro dalla vita politica e della scelta di dedicarsi alla storiografia. Come Cicerone, sente l’esigenza di giustificarsi davanti al pubblico romano, fedele alla tradizione per cui fare storia è compito più importante che scriverne. Attribuisce alla storiografia una precisa funzione nell’ambito della formazione dell’uomo di Stato, negandole un significato “autonomo”; la considera in stretto rapporto con la prassi politica. Tende a configurarsi come indagine sulla crisi dello Stato romano e in ciò risiede la motivazione di un impianto monografico per le sue prime opere storiche (mettere a fuoco un singolo problema storico sullo sfondo di una visione organica della storia di Roma). • Il Bellum Catilinae illumina il punto più acuto della crisi; • Il Bellum Iugurthinum affronta il nodo costituito dall’incapacità della nobilitas corrotta di difendere lo Stato e insiste sulla prima resistenza vittoriosa dei populares. Il BELLUM CATILINAE E IL LEGALITARISMO DI SALLUSTIO – Sallustio traccia il ritratto di Catilina, personaggio contraddittorio d’animo energico, irrimediabilmente depravato; aristocratico di antica famiglia, favorito dal regime sillano, rovinato poi dai debiti. Sallustio, come Cicerone, pone la congiura in uno spazio moralistico; Catilina organizza la congiura ma è tradito, scoperto, condannato e costretto a fuggire. In senato si dibatte sulla sorte di quei congiurati che sono già stati arrestati: Cesare chiede una condanna più mite, Catone insiste per la condanna a morte N.B. Il ruolo di Cicerone, in Sallustio, è molto defilato. Catilina cerca di rifugiarsi in Gallia, ma è intercettato dall’esercito presso Pistoia e a seguito di una battaglia perde la vita. Dai discorsi che Catilina pronuncia nella monografia sallustiana, affiorano i motivi profondi della crisi che travaglia da tempo lo Stato romano: • Da una parte i pochi potenti che monopolizzano cariche politiche e ricchezze, sfruttando i popoli dominati; • Dall’altra una massa senza potere, coperta di debiti e priva di vere prospettive future. L’aristocratico ribelle (Catilina) credeva di poter coalizzare un blocco sociale avverso al regime senatorio. Tutta la rappresentazione è dominata dalla componente moralistica, percepibile nel ritratto di Catilina e nella ricerca delle cause del fenomeno catilinario, individuate in una degenerazione morale della classe dirigente. Sallustio conduce un’analisi della decadenza repubblicana, delle lotte, della corruzione diffusa. Nell’ampio excursus iniziale (che prende il nome di “archeologia”, il suo modello è Tucidide, il quale aveva lucidamente cercato, in un remoto passato, le premesse dell’ostilità tra Atene e Sparta), cerca la causa del degrado consistente nella fine del metus hostilis, il timore verso i nemici esterni, cessato XLIV con la distruzione di Cartagine, che tenendo coalizzate le forze dello Stato, aveva garantito la conservazione degli antichi costumi. Un secondo excursus è collocato al centro dell’opera e denuncia la degenerazione della vita politica romana nel periodo che va dalla dominazione di Silla alla guerra civile fra Cesare e Pompeo. La condanna coinvolge entrambe le parti in lotta, i populares e i fautori del senato (optimates). Sallustio vede un legame organico tra la faziosità dei partiti contrapposti e il pericolo di sovversione sociale. Era da Cesare che Sallustio auspicava l’attuazione di una politica autoritaria che ponesse fine alla crisi dello Stato, ristabilendo l’ordine della res publica, risanando la concordia fra i ceti possidenti, restituendo prestigio e dignità a un senato ampliato con uomini nuovi. Il Bellum Catilinae sottopone il personaggio di Cesare a una purificazione da ogni legame con i catilinari ed evita la condanna esplicita della sua politica come capo dei populares. Stacca Catilina dalla politica sana dell’opposizione anti-aristocratica e indica nella corruzione della gioventù la causa prima della congiura. Il discorso di Cesare nei confronti della condanna a morte dei seguaci di Catilina, ripreso da Sallustio, non è un discorso rifatto o una falsificazione, ma l’insistenza sulle tematiche legalitarie. La preoccupazione per l’ordine e la legalità contiene un valore perenne. Importante per capire la posizione di Sallustio è la contrapposizione dei ritratti di Cesare e Catone, che egli delinea dopo il suo intervento in senato a proposito della sorte da riservare ai catilinari (personaggi fieramente avversi). Sallustio arriva a una sorte d’ideale conciliazione. Il ritratto di Cesare si sofferma sulla libertà del personaggio e sull’infaticabile energia che sorregge la sua brama di gloria. Le virtù tipiche di Catone sono quelle di integritas, severitas e innocentia, radicate nella tradizione. Sallustio affermava la complementare e irrinunciabile utilità di entrambi per lo Stato romano. IL BELLUM IUGURTHINUM: SALLUSTIO E L’OPPOSIZIONE ANTINOBILIARE – Quest’opera è indirizzata a mettere in luce le responsabilità della classe dirigente aristocratica romana nella crisi dello Stato romano. L’insolenza dell’aristocrazia Sallustio dice essere arginata per la prima volta nella guerra contro Giugurta (111-105 a.C.). Giugurta, dopo essersi impadronito con il crimine del regno di Numidia, corruppe con il denaro gli esponenti dell’aristocrazia, riuscendo così a concludere una pace vantaggiosa. Nel 107 a.C. Mario fu eletto console e ricevette l’incarico di portare a termine la guerra in Africa. Per prima cosa modifica la composizione dell’esercito arruolando anche i capite censi. La guerra riprende per terminare solo quando il re di Mauritania, dapprima alleato di Giugurta, lo tradisce consegnandolo ai Romani. La guerra contro l’usurpatore numida acquista rilievo sullo sfondo della degenerazione della vita politica; l’opposizione antinobiliare cui Sallustio si riallaccia rivendica, contro la nobiltà corrotta, il merito della politica di espansione e della difesa del prestigio di Roma. Sallustio introduce, al centro dell’opera, un excursus che indica nel regime dei partiti, la causa prima della lacerazione e della rovina della res publica. Il bersaglio principale di Sallustio è appunto la nobiltà; il quadro che emerge è piuttosto deformante. Al fine di rappresentare la nobiltà come un blocco unico guidato da un gruppo corrotto, Sallustio trascura di parlare di quell’aristocrazia favorevole a un impegno attivo nella guerra, la parte più legata al mondo degli affari e più incline alla politica di imperialismo espansionistico. Le linee direttive della politica dei populares sono espresse nei discorsi che Sallustio fa tenere al tribuno Memmio, per protestare contro la politica inconcludente del senato; i discorsi sono rappresentativi dei migliori valori etico-politici espressi dalla “democrazia” romana nella sua lotta contro la nobiltà. Memmio invita il popolo alla riscossa contro l’arroganza dei pauci, l’oligarchia dominante. Enumera i mali del regime aristocratico come il tradimento degli interessi della res publica, la dilapidazione del denaro pubblico, la monopolizzazione delle ricchezze, ecc. Nel discorso di Mario, il motivo centrale è fornito dall’affermazione di una nuova aristocrazia, quella della virtus, fondata non sulla nascita, ma sui talenti naturali di ciascuno e sul tenace impegno a svilupparli. Mario si richiama ai valori antichi che hanno fatto la grandezza di Roma. Il discorso esprime le aspirazioni dell’élite italica a una maggiore partecipazione al potere. Il giudizio complessivo di Sallustio su Mario rimane comunque segnato da ambiguità: • L’ammirazione per l’uomo che seppe opporsi all’arroganza nobiliare; • Consapevolezza delle responsabilità che in futuro Mario si sarebbe assunto nelle guerre civili. Non sembra approvare il provvedimento dell’arruolamento dei capite censi e sembra anzi che egli veda nell’affermarsi del proletariato militare un inquinamento di quell’aristocrazia della virtus che Mario esalta nel proprio discorso. Non nasconde la perplessa ammirazione nei confronti dell’energia indomabile di Giugurta, che è sicuro segno di virtus, seppure corrotta. Differenza Catilina – Giugurta la personalità del re barbaro è rappresentata in evoluzione. La sua natura non è corrotta sin dall’inizio ma lo diviene progressivamente. Il seme del degrado viene gettato in Giugurta durante l’assedio di Numanzia, da nibuli e homines novi romani. Comunque sia, una volta corrotto, Giugurta diventa un piccolo tiranno perfido e ambizioso, privo di scrupoli. LE HISTORIAE E LA CRISI DELLA RES PUBBLICA – Le Historie iniziavano nel 78 a.C., riallacciandosi alla narrazione di Sisenna, ma non sappiamo fino a che punto si spingesse il racconto (i frammenti restanti non vanno oltre il 67 a.C.). Sallustio si cimenta in un’impresa di ampio respiro, tornando alla forma annalistica. L’opera influenzò molto la cultura d’età augustea. Si tratta di 4 discorsi e di un paio di lettere, una di Pompeo e una di Mitridate. Dalle parole del sovrano orientale affiorano i motivi delle lagnanze dei popoli soggiogati e dominati da Roma. Il solo motivo che i romani hanno di portare guerra a tutte le nazioni, scrive Mitridate, è la loro inestinguibile sete di ricchezze e potere. Le Historiae dipingono un quadro in cui dominano le tinte cupe, la corruzione dei costumi che dilaga senza rimedio. Sulla scena politica si affacciano soprattutto avventurieri, demagoghi e nobili corrotti. Il pessimismo sallustiano sembra acuirsi nell’ultima opera; dopo l’uccisione di Cesare e la frustrazione delle aspettative riposte nel dittatore, lo storico non ha più una parte dalla quale schierarsi, né aspetta ormai alcun salvatore. LO STILE DI SALLUSTIO – Sallustio si pone in un’epoca che aveva visto da una parte il rinnovamento dell’oratoria e della prosa artistica ad opera di Cicerone e dall’altra, il travaglio dei poetae novi, che aspettavano la nascita di un nuovo stile storico. Sallustio, nutrendosi di Tucidide e di Catone il Censore, elaborò uno stile fondato sull’inconcinnitas (rifiuto di un discorso ampio e regolare), sull’uso frequente di antitesi e variationes di costrutto. Alla gravitas austea e maestosa di questo stile contribuisce molto la ricca patina arcaizzante. L’arcaismo non è solo la scelta di parole desuete ma anche nella ricerca di una concatenazione delle frasi di tipo paratattico. I pensieri vengono giustapposti come blocchi autonomi di una costruzione; periodare ordinato della subordinazione sintattica. Estrema è l’economia dell’espressione; alla condensazione del discorso, reso essenziale, reagisce il gusto per l’accumulo di parole quasi ridondanti. Stile arcaizzante ma innovatore, con un andamento spezzato e anticonvenzionale, con un lessico e una sintassi che contrasta quel processo di standardizzazione in atto nel linguaggio letterario. Sul piano della tecnica narrativa, si raggiunge una drammaticità più intenza proprio perché controllata. I protagonisti delle due monografie, Catilina e Giugurta, sono personaggi tragici, e quindi gli stili delle due opere sono scelti in funzione della varietà e della drammaticità dei casi che lo storico può mettere in scena. Lo stile elaborato raggiungerà la piena maturità nelle Historiae. LE EPISTULAE E L’INVECTIVA – Le sue opere ebbero un successo immediato. Le scuole retoriche non rimasero insensibili al desiderio di emulare il suo modo di scrivere. I manoscritti ci conservano una Invectiva in Ciceronem, che anche Quintiliano considerava autentica (è però molto più probabile che l’autore fosse un retore di età augustea). Sempre spurie sono da ritenersi le Epistule ad Caesarem senem de re pubblica, trasmesse in un codice contenente lettere e discorsi tratti dalle opere storiche di Sallustio. La questione dell’autenticità è ancora molto controversa ma sembra verosimile giudicare queste operette come il frutto di scuole di retorica della prima metà del I sec. d.C. LA FORTUNA DI SALLUSTIO – Nell’antichità, la fortuna di Sallustio fu in generale calda, venne rimproverato solo da Pollione per l’eccesso di arcaismo. Per lo stesso motivo fu invece uno degli autori prediletti quando, nell’età antoniniana, il gusto arcaizzante riprese vigore. Il suo maggior ammiratore fu Tacito, da cui desunse molti umori di moralismo austero, utilizzandolo per modellare il suo stile. Continuò a essere ammirato anche nel Medioevo ed esercitò una notevole influenza sulla storiografia degli umanisti. Fu uno degli autori più amati da Alfieri che lo tradusse con grande impegno. Cap. 5 – Lucrezio LA VITA E LE OPERE – Non vi sono fonti sicure sulla vita di Lucrezio (la più ampia viene da Girolamo – IV/V sec. d.C. autore del Chronicòn, trattazione cronologica che contiene notizie su vari scrittori latini). Sarebbe nato nel 96 a.C. ca. e morto suicida a 43 anni dopo aver scritto alcuni libri in momenti di lucidità, lasciati da una pazzia dovuta ad un filtro d’amore (forse invenzione nata in ambiente cristiano nel IV sec. d.C., per screditare la polemica antireligiosa di Lucrezio). S’ipotizza un’origine campana basata sulla presenza a Napoli di una fiorente scuola epicurea. Incerta è la classe sociale di appartenenza. L’Umanista Girolamo Borgia, in una biografia, sostiene che Lucrezio visse in stretto contatto con Cicerone, Attico, Bruto e Cassio. L’unico riferimento ciceroniano a Lucrezio però lo troviamo in una lettera del 54 a.C. al fratello, in cui appunto ne elogia le doti poetiche. Il De rerum natura è l’unica opera che abbiamo, composta da 6 libri in esametri (probabilmente incompiuta o mancante di un’ultima revisione). LUCREZIO E L’EPICUREISMO ROMANO. IL POEMA DIDASCALICO – La classe dirigente romana non si era opposta all’influenza della cultura greca, mostrando resistenza solo verso correnti di pensiero che presentavano elementi pericolosi per l’assetto istituzionale della res publica. XLIV suo empirismo, la dottrina di Epicuro, conciliandola con la presenza di un dio creatore. La prima traduzione italiana è del dotto Alessandro Marchetti, pubblicata a Londra nel 1717, dopo il divieto ricevuto in patria. Anche Leopardi dovette presumibilmente avere una conoscenza dell’opera, come dimostrano alcuni suoi passi. Nel 1850 l’edizione critica di Lachmann è il banco di prova del moderno metodo filologico basato sulla valutazione dei rapporti fra i vari rami della tradizione, individuati grazie alla presenza di errori- guida che li accomunano o separano. Cap. 6 – Catullo e la poesia neoterica I “NUOVI” POETI E I LORO PRECURSORI – Cicerone usa il termine “poetae novi” per indicare i protagonisti delle tendenze poetiche innovatrici accomunate dal rifiuto della tradizione nazionale personificata da Ennio. Il processo di rinnovamento del gusto letterario promosso dai poetae novi è un aspetto della generale ellenizzazione dei costumi, conseguenza delle grandi conquiste del II sec. a.C. L’arcaica società di contadini soldati si era messa a contatto con popolazioni abituate a forme di vita più raffinate (i greci). • Lento ma progressivo indebolimento dei valori e delle forme della tradizione (soprattutto di generi politicamente e moralmente impegnati, epica e teatro); • Emergere di nuove esigenze, dettate dall’affinarsi del gusto e della sensibilità. La novità rispetto ai predecessori è la predilezione per la letteratura greca recente, nonché la decisa imitazione dei suoi aspetti più eruditi e preziosi. I Neòteori prendono dai poeti ellenistici: • Il gusto per la contaminazione tra i generi; • L’interesse per la sperimentazione metrica; • La ricerca di un lessico e di uno stile sofisticati; • Carattere disimpegnato. Preludio della rivoluzione neoterica è la comparsa (nell’ambito dell’élite colta romana) di una poesia scherzosa e disimpegnata, frutto dell’otium, dello spazio sottratto alle occupazioni civili e dedicato alla lettura e alla conversazione dotta. La rivendicazione delle esigenze individuali accanto agli obblighi sociali si manifesta anche nell’interesse per i sentimenti privati, come l’amore, e nell’elaborazione formale (che rivela un gusto educato dal contatto con la cultura e la poesia alessandrine). L’eleganza spesso manierata, l’artificioso sperimentalismo praticato sui modelli greci dai poeti preneoterici, lasciano il posto, con i neoterici propriamente detti, a un tipo di poesia che non relega l’otium e i suoi piaceri in uno spazio ristretto, ma li colloca al centro dell’esistenza, né fa i valori assoluti, le ragioni esclusive, segnando dunque il culmine, sul piano letterario, di una tendenza da tempo sensibile nella cultura latina. Questa trasformazione del gusto letterario, mettendo in crisi i valori del mos maiorum, si riflette nel diffondersi dell’epicureismo, di una filosofia che predica la rinuncia ai negotia politico-militari per una vita appartata e tranquilla. La convergenza fra i principi dell’epicureismo e le tendenze dei poeti neoterici è evidente, ma vi è comunque una differenza importante: per gli epicurei, il cui fine è l’atarassia, il piacere senza turbamenti, l’eros è una malattia insidiosa da cui fuggire, perché fonte di angoscia e dolore, mentre per i neoterici l’amore è il sentimento centrale della vita. Ciò diventa il tema principale della loro poesia, a formare un nuovo stile di vita, ispirato dal culto delle passioni e dalla dedizione alla poesia che di esse si alimenta. Il tutto si trasforma in un’attività critico-filologica che accompagna la pratica poetica vera e propria e le fa da supporto e verifica. Il travaglio della forma, la cura scrupolosa della composizione, il paziente lavoro di lima sono il tratto distintivo della poetica callimachea. I generi adatti al labor limae e perciò privilegiati dalla poetica callimachea sono quelli brevi dell’epigramma o l’epillio (poema mitologico in miniatura), che permettono al poeta di sfoggiare la propria erudizione (antichi miti di soggetto erotico), e di attuare raffinate strategie compositive (racconti ad incastro, narrazioni cucite insieme che si rispecchiano l’un l’altra). I principi ispiratori della poetica di scuola callimachea danno luogo all’elaborazione di un nuovo linguaggio poetico. I NEOTERICI – Valerio Catone è il caposcuola delle nuove tendenze poetiche di stampo noterico. È originario della Gallia Cisalpina e nacque probabilmente agli inizi del I sec. a.C. A Roma visse come grammatico e maestro di poesia fino alla vecchiaia e povertà. Rinnova a Roma la grande tradizione dei critici-filologi alessandrini. Varrone è poeta neoterico ma anche autore di poemi epico-storici, che continua la poesia di stampo enniano, componendo un poema storico, il Bellum Sequanicum (campagna di Cesare contro Ariovisto). Aderisce al nuovo gusto poetico in un’opera intitolata Leucadia, dal nome della donna amata (i poeti elegiaci lo indicheranno come il primo esempio di poesia erotica latina). Molto importante è il poema epico Argonautae, libera traduzione in esametri latini delle Argonautiche di Apollonio Rodio. Prosegue così la tradizione dei poeti-traduttori, manifestando la preferenza per un tipo di epica che avrebbe attratto l’interesse dei poeti nuovi. Elvio Cinna e Licinio Calvo sono altre due figure molto importanti e conosciute grazie all’amico in comune, Catullo. Cinna, di Brescia, partecipò con Catullo al suo viaggio in Bitinia nel 57 a.C. Ispirata ai componimenti del greco Paternio, doveva essere la Zmyrna di Cinna, storia d’amore incestuosa di una fanciulla per il proprio padre. Il poemeto, la cui composizione aveva richiesto 9 anni, molto apprezzato da Catullo, doveva essere, per densità di dottrina, talmente impenetrabile da aver bisogno del commento esegetico di un grammatico, come ci informa Svetonio. Calvo, appartenente ad un’illustre famiglia plebea di Roma fu un oratore famoso, seguace dell’indirizzo atticista che era contrario all’enfasi e alle prolissità e dunque meglio si conciliava con il gusto neoterico. CATULLO, LA VITA E LE OPERE – Gaio Valerio Catullo nasce a Verona, forse nell’84 a.C. Famiglia agiata, giunto a Roma conosce e frequenta personaggi come Cornelio Nepote o Cinna. Ebbe un’importante storia d’amore con Clodia (la Lesbia dei suoi versi), quasi certamente sorella del tribuno Clodio Pulcro e moglie di Cecilio Metello (console nel 60 a.C.). Secondo Girolamo morì a trent’anni; sappiamo solo con certezza che fino al 55 a.C. era in vita come dimostrano alcuni suoi accenni ad avvenimenti di quell’anno. Di Catullo abbiamo 116 carmi, raccolti in un liber che si divide, in base metrica, in tre sezioni: • I sezione (1-60) – componimenti generalmente brevi, di carattere leggero (nugae). Metro variabile, per lo più endecasillabi faleci ma anche trimetri giambici, scazonti, saffiche; • II sezione (61-68) – eterogeneo, numero di carmi limitato ma con un’estensione nettamente maggiore e impegno stilistico. Metro variabile, sono i così detti carmina docta; • III sezione (69-160) – carmi prevalentemente brevi, in distici elegiaci, così detti epigrammi. Non si sa se sia stato il poeta stesso a pensare le sue composizioni racchiuse in un liber o se sia da attribuire a posteri (visto che sono sostanzialmente divisi per metro). Alcuni componimenti sono rimasti esclusi da questa edizione perché giunti solo per tradizione indiretta. CATULLO, LA VITA E LE OPERE: I CARMI BREVI – Il nome e la poesia di Catullo sono tradizionalmente associati alla rivoluzione neoterica. Mentre si sgretolano nell’età di crisi acuta della repubblica, gli antichi valori morali e politici della civitas, l’otium individuale diventa l’arternativa seducente alla vita collettiva (spazio in cui dedicarsi alla cultura, alla poesia, alle amicizie). L’attività letteraria non si rivolge più all’epos o alla tragedia (generi portavoce della civitas) ma alla lirica, alla poesia individuale, introversa. Progetto di recupero della dimensione intima a questa dimensione si accosta la produzione poetica di Catullo, indicata come “carmi brevi” (insieme di polimetri e di epigrammi). L’oggetto di questa poesia sono gli effetti, le amicizie, le odi, le passioni, gli aspetti minori o minimi dell’esistenza. Ne risulta un’impressione d’immediatezza, favorendo l’equivoco di una poesia ingenua e spontanea di un poeta “fanciullo”. In realtà la celebrata spontaneità catulliana è solo un’apparenza ricercata e ottenuta grazie a un ricco patrimonio di dottrina. Bisogna sottrarsi ai rischi del biografismo e verificare di volta in volta la genesi complessa di questa coltissima poesia, non per negare l’importanza insolita della vita vissuta, ma pe vedere come si atteggia secondo movenze letterarie. Lo sfondo della poesia catulliana è l’ambiente letterario e mondano della capitale: “lepos, venustas, urbanitas”, sono i principi che fondano questo codice etico e insieme estetico che governa comportamenti e rapporti reciproci, ispirando il gusto letterario e artistico. Importante è la figura di Lesbia, incarnazione della devastante potenza dell’eros. Il suo stesso pseudonimo (rievoca Saffo, poetessa di Lesbo) crea intorno alla donna un alone idealizzante (grazia, bellezza non comune, intelligenza, cultura, spirito brillante, modi raffinati tutto ciò alimenta la passione del poeta). Amore vissuto da Catullo come l’esperienza capitale della sua vita; l’eros cui non è più riservato lo spazio marginale datogli dalla morale tradizionale, diventa centro dell’esistenza e valore primario, il solo in grado di risarcire la fugacità della vita umana. All’amore e alla vita sentimentale Catullo trasferisce tutti il suo impegno, sottraendosi ai doveri e agli interessi proprio del civis. Il rapporto con Lesbia, nato come adulterio, come amore libero, nel farsi oggetto esclusivo dell’impegno morale del poeta, tende a configurarsi come un tenace vincolo matrimoniale. Un motivo insistente sono le recriminazioni per la violazione, da parte della donna, del foedus d’amore, il suo carattere sacrale è accentuato dal richiamo a due valori cardinali dell’ideologia e dell’ordinamento sociale romano: la fides, che garantisce il patto stipulato vincolando moralmente i contraenti, e la pietas, virtù propria di chi assolve ai suoi doveri nei confronti degli altri. L’offesa ripetuta del tradimento produce in lui un doloroso dissidio fra la componente sensuale e della affettiva. Come unica speranza al poeta, resta il fatto di non aver mai mancato al foedus d’amore con Lesbia. XLIV CATULLO, LA VITA E LE OPERE: I CARMINA DOCTA – Catullo presenta il suo libellus (stile) come lepidus, novus, expolitus. Siamo davanti a criteri che definiscono una nuova poetica, ispirata alla brillantezza di spirito e rafinatezza formale, rivelando la sua ascendenza alessandrina, meglio ancora callimachea (vd. Carme 95, come manifesto del nuovo gusto letterario). Dottrina e impegno stilistico (nonché maggiore ampiezza dei componimenti) sono evidenti nella sezione dei carmi chiamati “dotti”, in cui Catullo sperimenta anche nuove forme compositive (raffinata sapienza strutturale). Carme 63 e 64 rappresentano appieno il nuovo genere epico, l’epillio. Il carme 64 (408 esametri), narra il mito delle nozze di Pèleo e Tètide, ma nella vicenda principale vi è inserita un’altra storia (ekphrasis – tecnica alessandrina di incastonare più storie all’interno di una), quella dell’abbandono di Arianna a Nasso, da parte di Teseo. L’intreccio delle due vicende d’amore istituisce fra di esse una serie di relazioni che hanno il loro nucleo nel tema della fides, virtù cardinale del mondo etico catulliano. Fides di cui, nella lontana età degli eroi, gli stessi dei si facevano garanti, nella corrotta età presente è violata e vilipesa insieme agli altri valori religiosi del poeta. Nei carmina docta, Catullo si cimenta anche in altri generi, oltre che l’epillio, per esempio nell’epitalamio, ovvero il canto nuziale (praticato da Saffo in età alessandrina) Carmi 61 e 62. Nei carmina docta è compreso anche una sorta di omaggio al poeta principe dell’alessandrinismo, Callimaco (traduzione in versi latini di un’elegia nota come Chioma di Berenice, rimasta a noi mutila e frammentaria). Catullo introduce e accentua temi centrali della sua ideologia, particolarmente insistenti nei carmi maggiori: • Esaltazione della fides e della pietas; • Condanna dell’adulterio; • Celebrazione delle virtù eroiche, dei valori tradizionali. Particolarmente complesso è il carme 68 che riassume i temi principali della poesia di Catullo (es. amicizia, amore, attività poetica, rapporto con Roma, dolore per la morte del fratello. Il ricordo dei primi amori, furtivi, con Lesbia sfuma nel mito della vicenda di Protesilao e Laodamia, che si fa archetipo della vicenda di Catullo e Lesbia, di un coniugium anch’esso imperfetto e precario. CATULLO, LA VITA E LE OPERE: LO STILE – Accanto all’influsso dominante della letteratura alessandrina, Catullo è sensibile anche alla lirica greca arcaica, con una particolare intesa affettiva verso Archiloco e Saffo. La lingua catulliana è il risultato di un’originale combinazione di linguaggio letterario e sermo familiaris. Le movenze della lingua parlata vengono assorbite e filtrate da un gusto aristocratico che li raffina e li impreziosisce. Particolarmente frequenti, fra i tratti di sermo familiaris, i diminutivi, che sembrano rilevare l’adesione a quell’estetica del lepos, della grazia, che accumuna la cerchia di amici e ne condiziona i modi espressivi. È uno stile composito e vitale, con un’ampissima gamma di modalità espressive che vanno dallo sberleffo, dall’invettiva sferzante alla grazia leggera, alla pacata malinconia. Anche nei carmina docta non manca la vitalità del linguaggio e l’intensità del pathos mantenendo comunque una certa distinzione rispetto ai carmi brevi (selezione di un lessico più ricercato, presenza di stilemi e movenze della poesia ‘alta’ della tradizione enniana tutto serve per dare un carattere spiccatamente letterario). LA FORTUNA DI CATULLO – Il successo di Catullo fu vasto ed immediato, esercitando un profondo influsso sui grandi poeti augustei (es. elegiaci e i poeti imperiali, come Marziale). La sua fama si spense un po’ nel Medioevo. Nel IX sec., il vescovo Raterio recuperò a Verona un codice contenente dei carmi, che scomparve però di nuovo riemergendo solo nel XIII sec. (da questo dipende tutta la nostra tradizione). Dopo Petrarca che lo amò e lo imitò ebbe grande fortuna anche tra i poeti umanisti, fino a Foscolo e Pascoli. Parte Terza – L’età di Augusto (pag. 118-183) • Virgilio • Orazio • L’elegia: Tibullo e Properzio • Ovidio • Livio e gli orientamenti della storiografia • Erudizione e discipline tecniche LE GEORGICHE - LO SFONDO AUGUSTEO – L’appartato mondo agricolo del poema ha una costante cintura protettiva nell’opera di Ottaviano, che dapprima si profila come unico salvatore del mondo civilizzato dalla decadenza e dalla guerra civile, poi appare nella sua veste di trionfatore e portatore di pace. Le Georgiche sono considerate il primo vero documento della letteratura latina nell’età del principato. Nel primo proemio compare una netta frattura verso la tradizione politica romana (figura del principe quale sovrano divinizzato). Ottaviano e accanto a lui il suo consigliere Mecenate sono accolti nell’opera come illustri dedicatari e veri e propri ispiratori. Il ruolo di destinatario della comunicazione didattica è assegnato invece alla figura dell’agricola, in cui cela il destinatario reale dell’opera (un pubblico che conosce la vita delle città e le sue crisi). Il poema finisce per affrontare di scorcio anche i problemi della vita urbana e i vari problemi del vivere. L’immagine dell’economia rurale che traspare dal poema è una idealizzata costruzione regressiva, inadeguata alla realtà dell’epoca ( l’eroe del poema è il piccolo proprietario agricolo; Virgilio non accenna alle grandi trasformazioni in corso quali l’estensione del latifondo, le assegnazioni di terre ai veterani, ecc.). E’ totalmente assente ogni accenno al lavoro schiavile, vero cardine dell’economia agricola. L’ideologia augustea non è solo un apparato ideologico preformato che il poeta si limita a rispecchiare, ma anche il risultato di singoli apporti intellettuali. La complessità di questo mondo ideologico risulterà più evidente se si esamina la struttura compositiva del poema. LE GEORGICHE - STRUTTURA E COMPOSIZIONE – I temi dei quattro libri sono: • Lavoro dei campi; • L’arboricoltura; • L’allevamento del bestiame; • L’apicoltura. L’ordine in cui questi lavori sono collocati nel testo prevede che l’apporto della fatica umana si faccia sempre meno accentuato e la natura sia sempre più protagonista. La struttura del poema sembra orientata dal grande al piccolo. L’opera è impostata su una serie di libri dotati di chiara autonomia tematica, collegati da un piano complessivo, ciascuno introdotto da un proemio dotato di sezioni digressive. Differenze con Lucrezio: • Virgilio tende ad indebolire le costrizioni logiche del pensieri, i forti nessi argomentativi, i collegamenti fra un tema e l’altro; • L’architettura formare del poema si fa più regolata e simmetrica. Nasce così una nuova struttura poetica nella quale il discorso fluisce naturale e talora capriccioso, nascondendo i passaggi logici, muovendo per associazioni di idee o contrapposizioni. Ogni libro delle Georgiche è dotato di una digressione conclusiva: • Le guerre civili; • La lode della vita agreste; • La peste degli animali nel Norico; • La storia di Aristeo e delle sue api. I due proemi, I e III libro, sono molti lunghi, in modo esorbitante rispetto al tema georgico dei singoli libri, mentre i proemi introduttivi del II e del IV sono molto brevi e strettamente introduttivi. Queste grandi polarità fra temi di morte e temi di vita danno un senso all’architettura formale, ponendo il lettore in uno stato di riflessione. Le Georgiche sono un’opera di contrasti e di incertezze. La fatica dell’uomo è inviata dalla Provvidenza divina per una sorta di necessità cosmica, ma l’ideale del contadino si richiama al mito dell’età dell’oro (quando il lavoro non era necessario perché la Natura rispondeva da sola ai bisogni. N.B. La vita semplice e laboriosa del contadino italico ha portato alla grandezza di Roma – Roma è anche la Città, vista come luogo di degenerazioni e di conflitti, polo opposto all’ideale georgico. DALLE GEORGICHE ALL’ENEIDE – Nelle Georgiche Virgilio organizza un ampio e continuo concentrato di temi, senza rinunciare a una grande elaborazione formale e alla perfezione dei dettagli. Descrive e narra senza rinunciare alle emozioni, immergendo oggetti e personaggi nella propria partecipazione soggettiva. Era ormai pronto per compiere il passo verso il poema epico da cui in precedenza si era volutamente tenuto lontano; ci si sarebbe aspettati una sorta di Cesareide (visto che il poema epico celebra le vicende contemporanee); Virgilio invece propone un risultato totalmente diverso. L’ENEIDE - OMERO E AUGUSTO – Eneide = storia della missione di enea, esule da Troia e scelto dai Fati affinchè la sua discendenza fondasse l’impero di Roma. Gli antichi credevano che Augusto XLIV volesse imitare Omero e lodare Augusto, partendo dai suoi antenati. Nel poema sono forti la presenza e il modello di Omero; l’Eneide è ripetizione, continuo ed infine superamento dell’Iliade e dell’Odissea. Il senso della missione di Enea è nella futura ricostruzione della città che era stata distrutta nell’Iliade. Alla fine Enea riassumerà in se l’immagine di Achille vincitore, ma anche quella di Odisseo, che dopo tante prove ha ritrovato la patria lontana. Leggenda Albalonga sarebbe stata fondata da Ascanio, figlio di Enea, detto anche Iulo. Da lui si vantava di discendere la gente Giulia. Qui viene a saldarsi il cerchio tra Virgilio, Augusto e l’epica eroica. Il piano dell’opera è il seguente: • Libro I – Giunone, che prova odio per i Troiani, scatena una tempesta che decima le navi di Enea, costringendolo ad approdare in Africa (Cartagine). Favorito dalla madre Venere, è accolto da Didone, regina della città fenicia, che chiede al suo ospite di narrare la fine di Troia; • Libro II – Enea racconta della distruzione e con la protezione divina riesce a fuggire con il padre, i figlio e i Penati, simbolo della continuità di una stirpe, perdendo la moglie Creùsa; • Libro III – Partiti dalla Troade, i troiani capiscono che una nuova patria li aspetta in Occidente. Si chiude il racconto retrospettivo, dopo meravigliose peripezie, con la morte del vecchio Anchise; • Libro IV – Didone, innamorata di Enea, quando questo parte, costretto a seguire il corso del fato, la abbandona e lei si uccide, maledicendo prima Enea e profetizzando eterno odio fra Cartagine e i discendenti dei troiani; • Libro V – I Troiani fanno tappa in Sicilia (quasi tutto il libro è occupato dai giochi funebri in onore di Anchise); • Libro VI – Giunto a Cuma Enea consulta la Sibilla, guadagnando l’accesso al mondo dei morti. Qui incontra una parte del suo passato; Deifobo, caduto a Troia, Didone morta per causa sua, Palinuro, Anchise. Esso gli schiude il lontano futuro mostrandogli gli eroi, i condottieri che faranno la storia di Roma; • Libro VII – Incoraggiato dal racconto del padre, Enea sbarca alla foce del Tevere e dopo aver riconosciuto la terra promessa, instaura un patto con il re Latino. Per intervento di Aletto, demone della discordia inviato da Giunone, Amata, la moglie di Latino, e il principe rùtulo Turno, promesso sposo della figlia di Latino, fomentano la guerra. Rottosi il patto e saltato il matrimonio tra Enea e Lavinia, figlia di Latino, una coalizione di popoli italici marcia sul campo troiano. Lavinia, nuova Elena, è al centro della discordia; • Libro VIII – Enea, per consiglio divino, risale il Tevere con un piccolo distaccamento, e nel luogo dove sorgerà Roma, trova l’appoggio di Evandro, re di una piccola nazione di àrcadi. Insieme a Pallanto, figlio di Evandro, Enea trova un potente alleato: la coalizione etrusca sollevata contro Mezenio, crudele tiranno di Cere, alleato di Turno. Gli dei fanno dono ad Enea di un’armatura forgiata da Vulcano, il cui scudo è istoriato con il futuro di Roma; • Libro IX – L’assenza di Enea favorisce turno che ottengono parziali successi suo troiani. Il coraggioso sacrificio dei giovani troiani Eurìalo e Niso in spedizione notturna non dà esito; • Libro X – Enea torna con gli alleati e capovolge la situazione. Turno uccide il giovane Pallante ed Enea di rimando uccide Mezenio; • Libro XI – Enea piange Pallante, offrendo senza successo la pace. Turno tenta ancora la sorte delle armi. In una grande battaglia cade un altro eroe di parte latina, la vergine guerriera Camilla; • Libro XII – Provato dagli insuccessi, Turno accetta un duello decisivo con Enea. La ninfa Giuturna, spinta da Giunone, fa cadere anche questo patto. La battaglia ricomincia e la vittoria è ormai nelle mani dei troiani. Giunone si ricongiunge con Giove e ottiene che nel nuovo popoli non resti più traccia del nome troiano. Enea sconfigge Turno in duello e spinto dall’ira, vedendolo indossare il balteo di Pallante, lo uccide. Il poeta sottopone il materiale ad una profonda ristrutturazione. La guerra è stata rappresentata da Virgilio come scontro tra i troiani, coalizzati con gli etruschi e con una piccola popolazione greca stanziata sul suolo della futura Roma, e i latini, appoggiati da numerosi popoli italici. Nel tentativo di creare una vera epica nazionale romana, Virgilio muove nello spazio delle origini tutte le grandi forze da cui nascerà l’Italia del suo tempo. L’Eneide è un’opera di denso significato storico-politico, ma non è un poema storico. L’opera non traccia nemmeno un quadro completo della biografia di Enea, lascia il protagonista prima ancora che possa assaporare il suo trionfo, nulla è certo sul suo futuro. L’ENEIDE - IL NUOVO STILE EPICO – Virgilio lavora sul verso epico portandolo insieme al massimo di regolarità e al massimo di flessibilità. Plasma il suo esametro come strumento di una narrazione lunga e continua, articolata e variata. Con Virgili la frase si libera da qualsiasi schiavitù nei confronti del metro; il periodare si può fare ampio o breve, scavalcare o rispettare la coincidenza con le unità metriche, i piedi dattilici o la linea del verso. La tradizione del genere epico richiedeva un linguaggio elevato, staccato dalla lingua d’uso è naturale che l’Eneide sia l’opera virgiliana più ricca di termini arcaici e solenni. Lo stile di Virgilio è fatto di “parole normali”, termini non marcatamente poetici; la novità stava nei nuovi collegamenti che V. imponeva a queste parole. Tale tipo di elaborazione, del linguaggio quotidiano, non aveva precedenti nella poesia latina (ma in grandi autori greci come Sofocle o Euripide). La sperimentazione sintattica lavora su un lessico che sa mantenersi semplice e diretto le parole subiscono una forzatura di significato che da loro rilievo nel contesto. La narrazione epica deve essere graduale, tutta piena (azioni ricorrenti e ripetute si prestano a ripetizioni verbali). Virgilio accetta questa tradizione e dà largo spazio a procedimenti formulari, ma la sua tendenza è quella di caricare questi moduli di una nuova sensibilità. Caratteristica fondamentale dello stile epico di Virgilio è l’aumento di “soggettività” = maggiore iniziativa è data ai personaggi e al narratore. La funzione oggettivante è garantita dall’intervento del poeta, che lascia emergere nel testo i singoli punti di vista soggettivi, ma si incarica sempre di ricomporli in un progetto unitario. L’ENEIDE - L’IDEOLOGIA DEL POEMA E LE RAGIONI DEI VINTI – Come detto, è lo sviluppo della soggettività che interessa l’ideologia del poema virgiliano. L’Eneide è la storia di una missione voluta dal Fato, che renderà possibile la fondazione di Roma e la sua salvezza per mano di Augusto. Il poeta è portavoce di un progetto e focalizza il suo racconto su Enea, il portatore di questa missione fatale e personaggio diverso dagli altri. Virgilio si assume in pieno l’eredità dell’epos storico romano. Il suo poema è un’epica nazionale in cui la collettività deve rispecchiarsi e sentirsi unita. Sotto la linea “oggettiva”, voluta dal Fato, si muovo personaggi in contrasto fra loro (i sentimenti dei personaggi sono costantemente in primo piano). La cultura romana nell’età delle conquiste rappresentava le guerre puniche come uno scontro fra diversi. Per V. la guerra contro Cartagine non nasce invece da una differenza, ma da un eccessivo e tragico amore fra simili (es. Didone, vinta dal destino). La guerra che Enea conduce nel Lazio è un tragico errore voluto da potenze demoniache. È una guerra fratricida l’uccisone di Turno appare necessaria, ma V. non fa nulla per rendere facile questa scelta. Enea ha imparato da suo padre a battere i superbi e risparmiare chi si assoggetta; la scelta è difficile, Enea uccide solo perché in un attimo cruciale, la vista del balteo di Pallante lo travolge in uno slancio d’ira funesta. Virgilio chiede molto ai suoi lettori, ovvero di guardare il mondo da una prospettiva superiore e partecipare alle sofferenze degli individui. LA FORTUNA DI VIRGILIO – Virgilio fu già in vita un personaggio popolare, da molti indicato come il più grande poeta romano. Per le cure di Vario, incaricato della sua pubblicazione, l’Eneide cominciò a ricevere chiari contrassegni di classicità; l’adozione come libro di scuola e la critica di accaniti detrattori. Una pleiade di poeti minori si da a imitare i più vari aspetti della poesia virgiliana da qui nasce quella raccolta spuria che prende il nome di Appendix Vergiliana. Nel II sec. d.C. l’esegesi virgiliana comincia a depositarsi progressivamente in veri e propri commenti. L’affermarsi della cultura cristiana segna un passaggio decisivo nella fortuna di Virgilio. Lo sforzo di assimilare la letteratura pagana alla nuova cultura trovò in V. il suo migliore strumento (es. IV Egloga, riletta come simbolico annuncio dell’avvento del Redentore sulla Terra). La cultura medioevale trasforma V. in un profeta. Il confronto Omero-Virgilio torna attuale e si fa spia delle evoluzioni del gusto. Il primato riconosciuto a V. dai suoi commentatori del 500/600 sarà rovesciato a vantaggio di Omero dal movimento romantico. Ma queste polemiche e gli aspri dibattiti sull’originalità di V. non sembrano aver spento né la sua fortuna come testo di scuola. Cap. 2 – Orazio LA VITA E LE OPERE – Quinto Orazio Flacco 65 a.C., Venosa, colonia militare romana, al confine fra Apulia e Lucania (qui il padre, liberto, possedeva una piccola proprietà). Si trasferirono a Roma quando il padre trovò lavoro come esattore nella vendita all’asta. Ebbe la migliore educazione (frequentò la scuola del grammatico Orbilio, per poi trasferirsi in Grecia a perfezionare i suoi studi). Qui fu coinvolto nella lotta, seguita all’assassinio di Cesare, tra repubblicani e cesaricidi. Ottiene da Bruto il grado di tribuno e il comando di una legione; con la sconfitta di Filippi (42 a.C.) cessa la sua carriera militare. Con l’amnistia del 41 a.C. può rientrare a Roma ma è costretto, a causa della confisca dei suoi territori a Venosa, a impiegarsi come scrivano di un magistrato. Da questo momento comincia a scrivere gli Epodi e due libri di Satire (durante la sua frequentazione del circolo di Mecenate, a cui fu introdotto grazie a Virgilio e vario). Dal 30 al 23 a.C. lavora ai primi tre libri delle Odi, soggiornando in Sabina, in una piccola tenuta donatagli da Mecenate stesso. Stretti sono i suoi rapporti con Augusto, pur senza servilissimo, tanto da rinunciare anche alla proposta di diventare suo segretario personale. Nel 20 a.C. pubblica un libro di Epistole, a cui si aggiunge un secondo tra il 19 e il 13 a.C. Augusto gli commissiona, nel 17 a.C., un inno, il Carmen saeculare, in occasione dei ludi saeculares che celebravano l’inizio di una nuova era. Un ultimo libro di Odi è posteriore al 13 a.C. Muore l’8 a.C. XLIV Non è per niente facile collocare un’ode oraziana in un tipo ben definito (il poeta ama spesso contaminare, in un medesimo componimento, categorie liriche diverse). I luoghi più propriamente oraziani sono quelli individuati dallo spazio limitati e racchiuso del piccolo podere personale, spazio caro, noto e sicuro, inattaccabile perché appartato e volutamente modesto. È un luogo-rifugio, che si fa figura letteraria nel tema dell’angulus, luogo deputato al canto, al vino e alla saggezza. Accanto all’Orazio privato esiste l’Orazio di regime, che celebra le vittorie e le iniziative politiche di Augusto. Lirica molto discussa nei suoi risultati che non manca comunque di originalità. La sua poesia però non va liquidata come propaganda in versi. Dell’ideologia augustea, la lirica civile oraziana condivide l’impostazione moralistica critica del lusso, di stravaganze e follie, ammirazione per l’autosufficienza della virtus. LE ODI - LO STILE – La perfezione dello stile deve molto alla lezione di Callimaco. Usa un vocabolario molto semplice; la semplicità e l’essenzialità guidano la scelta dell’aggettivazione, moderato impiego delle figure di suono, la cautela delle metafore e delle similitudini. Meno scontata è la sintassi, che ama le ellissi, le costruzioni greche, l’enjambement. L’elevatezza dello stile è ottenuta con una sorvegliata riduzione dei mezzi espressivi, con una dizione libera da ogni ridondanza, asciutta e levigata. Virtuosismo metrico e accortezza nella collocazione delle parole. Nell’Ars poetica questa arte Orazio stesso chiamerà della callida iunctura la tessitura verbale della frase tende ad accostare alcune parole fra loro e ad allontanarne altre perché si richiamino a distanza (Es. un aggettivo, staccato dal sostantivo che vuole completare o determinare, dislocato in un punto della sequenza metrico-ritmica che gli dia rilievo, figura come isolato nella frase per ritrovare così tutta la sua risonanza originaria). Associa il massimo di espressività al minimo d’invenzione linguistica preferisce affidarsi a nitide corrispondenze contestuali, strutture ben disegnate nelle quali le singole parole, per azione reciproca riacquistano intatta la propria energia comunicativa. LE EPISTOLE – Con le Epistole Orazio ritorna all’esametro della conversazione; riapplica la definizione di sermones, già usata con le satire, anche alle epistole. La specifica identità delle Epistole è assicurata dalla forma epistolare, identificata dalla presenza di destinatari e da quella di formule di saluto e commiati (alcune forse sono state realmente inviate, come omaggio letterario, ai rispettivi destinatari). Differenze con le satire (oltre alla forma) Le epistole mancano di aggressività, che era la marca evidente del genere satirico oraziano. La morale oraziana sembra prendere coscienza sempre più netta delle proprie debolezze e contraddizioni. L’equilibrio fra autarkeia e metriotes, su cui si reggeva la satira, sembra ormai irrecuperabile e senza alternative valide. La ricerca morale è ora animata dalla necessità di saggezza, la cui conquista è resa più urgente dal trascorrere inesorabile del tempo, associato all’impressione di una precoce vecchiaia. Sembra che Orazio non sia più in grado di costruire un modello di vita soddisfacente. La rinuncia alla vita sociale e all’ottimismo etico è simboleggiata dalla fuga da Roma, verso il raccoglimento della campagna sabina, l’angulus delle Odi. L’esigenza dell’autarkeia è più forte che mai, ma neanche questa sembra garantire al poeta un atteggiamento coerente e costante. Egli sembra oscillare tra un rigore morale che lo attrae ma lo spaventa e un edonismo di cui avverte insieme concretezza e fragilità. Ricerca morale vs. Insoddisfazione di sé, dell’incostanza, della noia angosciosa e tenace. A questa debolezza etico-filosofica corrisponde un’accresciuta impostazione didascalica del discorso oraziano. Nella forma epistolare c’è spazio per confessare ma anche per ammonire e insegnare, soprattutto se la persona di un destinatario inesperto sembra richiederlo. LE EPISTOLE - IL II LIBRO – Il II libro delle Epistole fu aggiunto dopo, per le pressioni di amici e potente. Queste ultime tre lettere sono abbastanza affini fra loro, ma lontane dal progetto epicureo del primo libro, quello ancora centrato sull’angulus e sulla lontananza del poeta. Orazio ne fa una specie di testamento letterario, il cui interlocutore esplicito, per la prima delle tre lettere, è lo stesso Augusto. Orazio interviene nei dibattiti politico-letterari con l’autorità che gli è garantita dal sicuro prestigio e dal suo personale rapporto con il principe. Augusto vedeva con favore una produzione letteraria nazionale e popolare. Al teatro, forma d’arte cui si riconosceva la più larga possibilità di penetrazione ideologica, poiché capace di rappresentare valori e modelli culturali, Orazio dedica grande attenzione nell’epistola ad Augusto il poeta polemizza contro il favore indiscriminato nei confronti dei poeti del teatro romano arcaico. Orazio si schiera dalla parte dei poeti moderni, in nome del principio callimacheo dell’arte colta e raffinata. Egli resiste alle preferenze di Augusto stesso. Orazio non mostra fiducia in una vera rinascita del teatro (per via del pubblico meno selezionato e raffinato che non è in grado di apprezzare una produzione drammatica di qualità). L’epistola ai Pisoni, cosiddetta Ars Poetica sposta la sua analisi dell’arte e della poesia sui problemi della letteratura drammatica. Orazio accetta di offrire con l’Ars poetica il proprio contributo di teorico, se non di poeta militante, alla questione del teatro. Resta comunque fedele ai suoi principi, predicando un’arte raffinata, paziente, colta e attenta. Nel quadro di queste riflessioni, Orazio ha occasione di disegnare preziosi tracciati di storia della cultura e della letteratura sia greca che romana, nonché di aprire interessanti squarci sulla vita quotidiana del letterato romano e dei circoli letterari della capitale. LA FORTUNA DI ORAZIO – Già il pubblico contemporaneo vide in Orazio uno dei grandi della letteratura romana, e la sua fortuna conoscerà poche cadute, sino ai giorni nostri. Ad un precoce ingresso nelle scuole (già durante la prima età imperiale) si accompagnò un’intensa attività di editori e commentatori, a partire dall’edizione curata in età neroniana dal grammatico Valerio Probo. Fu poi ben conosciuto dall’età carolingia, ma rimane comunque più secondario rispetto a Virgilio (si apprezza soprattutto il poeta moraleggiante). Nella Divina Commedia poi, “Orazio satiro” è consacrato fra i poeti del limbo. Orazio lirico invece è imitato da Petrarca e esaltato a partire dall’età rinascimentale, per divenire modello incontrastato della letteratura di stampo classicista. Con la sua Ars Poetica rimaneva il punto di riferimento insostituibile nelle discussioni di poetica e di letteratura dagli umanisti in avanti. Il ‘700 fu un vero e proprio secolo oraziano la cultura illuminista e arcadica ammirava il poeta lirico elegante e raffinato, il razionalista arguto e il moralista pungente. In età romantica subì una decisa svalutazione ma restò comunque caro a poeti di formazione classica come Leopardi e Carducci. Cap. 3 – L’Elegia: Tibullo e Properzio CARATTERISTICHE GENERALI DELL’ELEGIA – Quintiliano scrisse “anche nell’elegia sfidiamo i greci” dimostra l’orgigliosa consapevolezza che la cultura letteraria latina matura sull’alto livello toccato a Roma dal genere elegiaco. Quintiliano ci fornisce anche il canone dei suoi autori più rappresentativi (Gallo, Tibullo, Properzio, Ovidio). Il periodo di massima fioritura dell’elegia, che a Roma si caratterizza soprattutto come poesia d’amore (tratti marcatamente soggettivi), è quindi la seconda metà del I sec. a.C. Elegia, nell’antica letteratura greca, indicava un componimento poetico il cui metro era l’èlegos (distico elegiaco costituito da esametro e pentameteo dattilico). Originaria della Ionia, dal VII sec. in poi vediamo l’elegia diffondersi e trovare impiego in svariate occasioni della vita pubblica e privata (componimenti di carattere guerresco, esortatorio, polemico, politico e moraleggiante, erotico. L’elegia doveva essere usata anche come espressione di lutto (es. Lide di Antimaco, che costituisce un nodo di grande importanza nello sviluppo di questo genere). È su modello di Antimac che alcuni poeti ellenistici riunirono componimenti elegiaci sotto il titolo di un nome di donna, come Fileta ed Ermesianatte. Tutto ciò è importante per comprendere le origini dell’elegia latina. La tesi di una sua derivazione diretta da quella ellenistica è oggi generalmente rifiutata; il tratto distintivo dell’elegia latina, l’impostazione fortemente soggettiva, autobiografica, non ha precedenti in nessuno dei poeti elegiati ellenistici. Appare insoddisfacente anche l’ipotesi che vedeva nell’elegia latina uno sviluppo dell’epigramma greco. L’influenza dell’epigramma sembra tuttavia qualificare alcune elegie particolari più che il genere come tale. In realtà è bene non marcare troppo, negando così dei tratti comuni, la contrapposizione tre il carattere soggettivo dell’elegia latina e il tono oggettivo, non autobiografico di quella greca. Il soggettivismo, che contraddistingue l’elegia latina, non doveva essere infatti assente in quella greca. Le amarezze e le continue delusioni lo potano a proiettare la propria vicenda nel mondo puro del mito o nella felice innocenza di unìetà dell’oro, trasferirla cioè in un universo ideale e pienamente appagante. Prigioniero di un amore irregolare, di una passione alienante, egli pratica una vita di nequitia, di degradazione, di dissipazione. Egli ripudia i suoi doveri di civis, i valori gloriosi del cittadino-soldato, contrapponendo alle durezze della guerra le mollezze dell’amore (in questa sfera trasferisce tutto il suo impegno morale, fino alla dedizione assoluta (eroe non di guerra, ma di amore). È singolare che l’elegia recuperi quei valori consolidati della tradizione, il mos maiorum, ai quali è dichiaratemente ribelle. Come in Catullo, l’amore tende a configurarsi come legame coniugale, vincolato dalla fides, salvaguardato dalla pudicitia, diffidente dalla luxuria e delle ragginatezze cittadine. In questa sorta di bohème che è la vita del poeta elegiaco, le ragione dell’amore e dell’attività poetica si indentificano, delimitano lo stesso universo. La poesia che nasce dall’esperienza diretta del poeta-amante, che somiglia alla sua vita, deve al tempo stesso assolvere a ua funzione pratica, servire come mezzo di corteggiamento, cooperare a sedurre l’amata col miraggio della fama e di una gloria immortale. Ne consegue il rifiuto della poesia elevata, in favore della musa leggera, dai toni e dai contenuti ispirati all’immediatezza della passione. Si vede qui l’enorme debito della poesia elegiaca verso Catullo e la poesia neoterica. Con essa condivide in primo luogo la rivoluzione del gusto letterario. Da Catullo l’elegia eredita il senso della sua rivolta morale, il gusto dell’otium, della vita estranea all’impegno civile e politico, tesa a coltivare gli affetti privati e a farne l’oggetto dell’attività poetica. Di questa continuità con la tradizione neoterico-catulliana la stessa poesia XLIV elegiaca si mostra più volte apertamente consapevole, rendendo il debito omaggio ai suoi progenitori. CORNELIO GALLO E GLI INIZI DELL’ELEGIA LATINA – Del primo poeta elegiaco, Cornelio Gallo, abbiamo solo pochissime notizie e la sua produzione poetica è andata totalmente perduta. Neto intorno al 70 a.C. nella Gallia Narbonese, fu a Roma condiscepolo e amico di Virgilio. Durante le guerre civili si schierò dalla parte di Ottaviano, combattendo nel 30 a.C. in Egitto. Fu nominato praefectus Aegypti, ma cadde successivamente in disgrazia subendo la condanna all’esilio e la confisca dei beni. Morì suicida nel 26 a.C. Virgilio gli dedica la X egloga, che riprende i temi e i motivi trattati dalla poesia d’amore di Gallo e la propone come un affettuoso dono di salvazione per l’amico malato d’amore. Fu autore di 4 libri di elegie, pubblicate sotto il titolo di “Amores”, in cui cantava la sua passione per Licòride. L’elemento erotico era centrale nella sua poesia, ma dovevano svolgervi un ruolo rilevante anche la dottrina mitologica e la minuta erudizione geografica. Nel 1979 un fortunato ritrovamento papiraceo nelle sabbie egiziane ci ha restituito una decina di versi benchè frammentari, sembrano confermare l’ipotesi che vede in Gallo l’iniziatore dell’elegia d’amore latina. In tali frammenti compaiono alcuni elementi fondanti di questo genere poetico; la donna occupa una posizione centrale come fonte di ispirazione e destinataria della poesia. L’amante dichiara la sua condizione di schiavo nei confronti di chi è domina, padrona della sua esistenza (motivo del servitium amoris poetica del corteggiamento mediante la poesia che avrà una funzione importante negli altri elegiaci). Forse, a partire da Gallo, l’elegia erotica latna fissa già gli elementi costitutivi del suo statuto letterario, caratterizzati dal muoversi in un campo di tensioni sostanzialmente contrapposte e irrisolte. TIBULLO, VITA E OPERE – Nato forse fra il 55 e il 50 a.C., nel Lazio rurale, sarebbe morto intorno al 19 o al 18 a.C. era di famiglia agiata, apparteneva al ceto equestre e fu molto amico di Messalla Corvino, uomo politico repubblicano. Visse forse gli ultimi anni della campagna laziale, dove Orazio, in una delle Epistole, lo ritrae appartato e malinconico. Sotto il nome di Tibullo, l’antichità ci ha trasmesso una raccolta eterogenea di elegie (Corpus Tibullianum), in 3 libri, che unisce a componimenti sicuramente autentici, poemetti spurii e testi dichiaratamente di altri autori (forse dallo stesso circolo di Messalla). Il canzoniere di Tibullo è dominato dala figura della donna amata, Delia, il cui nome, come d’uso, era solo uno pseudonimo. La donna è descritta come volubile, capricciosa, amante del lusso e dei piaceri mondani. La sua relazione con il poeta è tormentata, sempre insidiata dai rischi del tradimento. Nel II libro compare tuttavia una seconda figura femminile, Nèmesi, “Vendetta, una figura dai tratti più aspri, una cortigiana avida e spregiudicata che ha scalzato Delia dal cuore del poeta. TIBULLO, IL MITO DELLA PACE AGRESTE – Tibullo è noto come “poeta dei campi”, della serena vita agreste. Già nell’elegia d’apertura del I libro egli dichiara la propria scelta di vita, quella di pauper agricola (figura ideale di contadino dai beni modesti ma capace di vivere con intensità l’amore e di farne poesia). Non manca lo scenario abituale della poesia elegiaca, la vita cittadina, che fa da sfondo all’intrecciarsi degli amori e degli intrighi. È in un altro senso che si può sostenere la centralità del mondo agreste nel suo universo poetico; una tendenza tipica della poesia elegiaca è quella di costruirsi un mondo ideale, uno spazio di evasione, di rifugio dalle amarezze di un’esistenza tormentata, dalle delusioni di una relazione maipieamente appagante. Tensione che trova sfogo nel mito, dove il poeta elegiaco proietta idealmente la propria esperienza. In Tibullo il mondo del mito è assente e la sua funzione è svolta dal mondpo agreste. La campagna tibulliana è uno spazio di idilliaca felicità, di vita semplice e serena. Tibullo fa di questo spazio ideale il luogo del simpianto e del desiderio. In uno spazio solitamente convenzionale e stilizzato colpiscono alcuni accenni indubbiamente autobiografici, come l’immagine di Tibullo bambino che corre per casa. È forte nel poeta questo bisogno del rifugio, di uno spazio intimo e tranquillo in cui proteggere e coltivare gli affetti di fronte alle insidie e alle tempeste della vita. Altro tema dominante della poesia tibulliana è quello della pace. Dietro i tratti dell’idillio bucolico (influenza virgiliana) la campagna di Tibullo rivela il suo carattere italico, col patrimonio di antichi valori agresti celebrati dall’ideologia arcaizzante del principato. Tibullo rappresenta forse il caso più vistoso di quella contraddizione che la poesia elegiaca, dichiaratamente anticonformista e ribelle, cova in se stessa. TIBULLO, POETA DOCTUS – La familiarità di Tibullo con l’opera dei grandi poeti ellenistici doveva essere notevole, come confermano molti tratti che la sua poesia sembra condividere con quella alessandrina. Poeta doctus Il suo stile rivela lo sforzo di una scrittura attentissima, in cui la semplicità stessa è il risultato laborioso di una scelta artistica, il segno visibile di una fiducia nella potenza espressiva delle parole che non richiede torsioni del discorso o intensificazioni patetiche (la • Ibis (poemetto di invettive). Ovidio muore, senza rivedere Roma, a Tomi nel 17 d.C. POESIA E VITA REALE IN OVIDIO – Ovidio resta estraneo alla sanguinosa stagione delle guerre civili (quando entra nella scena letteraria, la pace è consolidata e cresce l’aspirazione a forme di vita più rilassate, a un costume meno severo, agli agi e alle raffinatezze che le conquiste orientali hanno fatto conoscere a Roma). Ovidio non si contrappone rigidamente al regime e alle sue direttive ideologiche. Prima produzione Ovidiana Lungo quella tradizione di poesia d’amore (soggettiva e appassionata) impersonata da Properzio e Tibullo, Ovidio si cimenta in tutti i generi della letteratura (elegia, epos, epistola, tragedia), manifestando, con questa sperimentazione, una diversa concezione del rapporto tra vita e letteratura. Ovidio non crede davvero che la poesia imiti la vita, riproducendo esperienze biografiche reali. Contrario alla teorizzazione aristotelico-oraziana secondo cui la poesia imita la vita, egli privilegia gli aspetti fantasiosi e inventivi dell’effetto estetico. Da tale concezione derivano i suoi atteggiamenti provocatori. La loro “verità” (degli elementi che racconta) risulta sempre molto incerta, il poeta non lo nega ma neppure l’attesta con convinzione. N.B. Il rapporto che lega la letteratura alla vita reale tende a rovesciarsi. La letteratura è una forza autonoma che ha in se i suoi modelli e che trova in se la possibilità di intervenire sulla realtà. GLI AMORES – Esordio poetico di Ovidio, raccolta di elegie di soggetto amoroso. Mostra ancora ben visibile le tracce dei grandi modelli dell’elegia erotica (Tibullo e Properzio). Ovidio da voce ai temi tradizionali del genere elegiaco: • Poesie d’occasione o di schietto stampo alessandrino; • Avventure amorose, incontri fugaci, baruffe con l’amata. Accanto alla “maniera” della tradizione di notano gli elementi tipici dell’elegia ovidiana. Novità Mancanza di una figura femminile attorno a cui si raccolgono le varie esperienze amorose, che costituisca il centro unificante dell’opera e insieme della vita del poeta. Corinna, la donna che Ovidio evoca, è una figura tenue, dalla presenza limitata. Il poeta stesso dichiara di non sapersi appagare di un unico amore. All’evanescenza della figura femminile corrisponde uno stemperamento di quel pathos che aveva caratterizzato le voci della poesia d’amore precedente. L’esperienza dell’eros è analizzata dal poeta con il filtro dell’ironia e del distacco intellettuale. Scarsa è la presenza del motivo del servitium amoris (frequente ed elevata nei predecessori) professione di totale dedizione dell’amante all’amata. È un’intera elegia dedicata al servitium nei confronti di Amore. LA POESIA EROTICO-DIDASCALICA – Nuovo ciclo poetico (Ars Amatoria, Medicamina faciei, Rimedia Amoris), che appartinene più al genere del manuale, del libro che impartisce precetti e consigli utili in materia d’amore. Ovidio pratica un’arte cinica e smaliziata (il modello non è più la fervente passione dell’innamorato sofferente ma la furbizia della mezzana, la ruffiana esperta d’amore, ecc.). la relazione d’amore costituisce un gioco intellettuale. Ars = 3 libri: • La relazione d’amore costituisce un gioco; • Conservare l’amore; • Seduzione degli uomini. Ovidio descrive i luoghi d’incontro, gli ambienti mondani della capitale (momenti di svago in cui mettere in atto la strategia della seduzione). Poema didascalico (modelli Lucrezio/Virgilio) da cui Ovidio mutua modelli, movenze e schemi compositi. La figura del perfetto amante delineata, si caratterizza per i suoi tratti di disinvoltura e spregiudicatezza. Il carattere libertino è solo la veste scintillante, seducente dell’opera. L’eros ovidiano reclama solo una certa tolleranza, una zona franca in cui sospendere la severità di una regola morale ormai inadeguata al costume della metropoli ellenizzata. È all’esaltazione convinta del cultus, degli agi e delle raffinatezze che risponde il poemetto sui cosmetici per le donne. Il ciclo didascalico è concluso dai Rimedia Amoris; ribalta il motivo topico della poesia erotica dell’immedicabilità del male d’amore affermando che è possibile sottrarsi all’amore e bisogna farlo se provoca sofferenza. LE HEROIDES – Eros Tema unificante, poesia giovanile. Mito Grande tema della restante composizione. Le Heroides sono una raccolta di lettere poetiche: • Da 1 a 15 – scritte da donne famose (eroine del mito) ai loro amanti o mariti lontani; • Da 16 a 21 – scritte da 3 innamorati per le loro 3 donne, che rispondono. Sono due diverse fasi di produzione. La forma epistolare imponeva dei vincoli ben precisi (monologhi che non attendono risposta) tendono a ripetere il lamento della donna abbandonata che aveva ispirato l’epillio catulliano di Arianna. XLIV Il senso delle Heroides non sta tanto nella caratterizzazione psicologica, quanto nel gioco letterario della transcodificazione dei testi. Dei modelli fa un adeguamento, nonché una sistematica deformazione e reinterpretazione dei testi. Le eroine alludono all’atto stesso della scrittura epistolare pratica che implica calma, riflessione e limpida argomentazione; “Monologo tragico della prima donna”. Nell’analisi degli stati d’animo delle sue eroine Ovidio deve molto ai soggetti della tradizione greca (Euripide). Dominante rimane il senso ironico del gioco letterario con i modelli (gusto callimacheo per gli aspetti minori). LE METAMORFOSI – L’opera ha la veste formale dell’epos (esametro), ma riprende contenutisticamente una tradizione letteraria diversa da quella omerica, guerresca e avventurosa. Il suo modello è quella del poema collettivo, il libro fatto di una serie di storie indipendenti tra loro, solo accomunate da un tema. Nelle diverse trasformazioni Ovidio cerca le origini, dato che l’origine spiega in modo soddisfacente l’essenza della cosa trasformata. Dalla prima combinazione degli elementi cosmici all’impero universale di Roma, Ovidio riassume una storia del mondo, in un grande poema eziologico, vegamente colorato di filosofia pitagorica. Ovidio vuole riavvicinare la sua poesia alle esigenze nazionali e augustee; l poema fa del nuovo regime il coronamento della storia del mondo, lungo processo che va dal chaos primordiale alla celebrazione di Ottaviano, conclusione dell’opera. La dimensione celebrativa occupa, nel poema, una parte esigua. Il racconto mitico non interessa dunque come testimone di una fede, quanto come bella invenzione, occasione di un incontro tra il proprio testo e i testi del passato. Tale consapevolezza della propria letterarietà si traduce anche in un distaccato sorriso sul carattere fittizio dei propri contenuti, in garbata ironia sull’inverosimiglianza delle vicende narrate. Le metamorfosi sono attente soprattutto alla dimensione spettacolare del racconto l’equilibrio dei diversi momenti narrativi è fortemente sproporzionato a vantaggio degli attimi della trasformazione. Al poeta interessano soprattutto le zone d’ombra, i confini incerti tra la vecchia e la nuova forma. Il mondo del poema ovidiano è fatto di apparenze ingannevoli, travestimenti, ombre, riflessi, echi; trappole che deludono le speranze degli esseri umani e che solo il poeta, dall’alto conosce. L’opera può apparire anche patetica e triste. Le stesse metamorfosi sono altrettante morti di cui è pieno il poema, anche se la morte, in questo modo, è come messa tra parentesi. LE METAMORFOSI, COMPOSIZIONE E STRUTTURA – La struttura in cui si dispongono i contenuti è necessariamente flessibile; le vicende mitico-storiche narrate sono ordinate secondo un filo cronologico che subito dopo gli inizi si attenua fino a rendersi quasi impercettibile, e lasciare spazio ad altri criteri di associazione. Le varie storie possono essere collegate per: • Contiguità geografica; • Analogie tematiche; • Contrasto; • Rapporto genealogico fra i personaggi; • Analogia di metamorfosi. Alla fluidità della struttura corrisponde la varietà dei contenuti. Molto variabili sono le dimensioni, che fa di molti episodi dei veri e propri epilli. La sapienza narrativa di Ovidio si rivela poi nella cura con cui sono accostate o alternate storie dal contenuto e dal carattere diversi. Importante è anche la mutevolezza dello stile, ora solennemente epico, ora liricamente elegiaco; le Metamorfosi sono una sorta di galleria dei vari generi letterari. La cesura fra i vari libri delle Metamorfosi cade per lo più proprio nei punti “vivi”, nel mezzo di una vicenda, a sollecitare e tener desta la curiosità del lettore anche nelle pause del testo, a non allentare la tensione narrativa. Tecniche di narrazione Ovidio, il narratore principale, fa spesso ricorso alla tecnica del racconto a incastro, che gli permette di evitare la pura successione elencativa delle varie vicende, incastonandone una o più all’interno di un’altra usata come cornice. Sono di solito gli stessi personaggi a impadronirsi della narrazione per raccontare altre vicende all’interno delle quali può ancora riprodursi lo stesso meccanismo, in una proliferazione ininterrotta di racconti. La tecnica del racconto nel racconto ha la funzione di permettere al poeta di adattare talora toni, colore, stile alla figura del personaggio narrante; è il caso, ad esempio, della stria solennemente epica del ratto di Proserpina raccontata proprio da Calliope, la musa dell’epos. I FASTI E LE OPERE DELL’ESILIO – I Fasti sono l’opera ovidiana meno lontana dalle tendenze culturali, morali, religiose del regime augusteo. Sulle orme di Properzio, anche Ovidio si impegna sul terreno della poesia civile; il progetto è quello di illustrare gli antichi miti e costumi latini, seguendo la traccia del calendario romano (erano previsti 12 libri, ognuno per un mese dell’anno). L’esilio interruppe a metà l’opera, che fu parzialmente rivista negli anni trascorsi a Tomi. L’opera deve molto agli Àitia callimachei. Ancor più di Properzio, Ovidio vuole essere il Callimaco romano, facendo un’opera compiuta, un nuovo genere poetico, di quelle che in Properzio erano prove sperimentali alternate al consueto argomento erotico. Ovidio s’impegna in dotte e accurate ricerche di svariate fonti antiquarie (da Varrone a Livio). L’adesione di Ovidio al programma culturale del regime, nonostante la sua insistenza sulla funzione della propria poesia civile resta piuttosto superficiale; egli inserisce materiale mitico di origine greca o di carattere aneddotico. Ciò gli permette di ovviare ai limiti imposti dalla natura del poema e di soddisfare il suo gusto per il pathos delicato. L’alta società e il demi-monde della città imperiale sembravano lo spazio naturale della poesia ovidiana; allontanato bruscamente da Roma, Ovidio si trova di colpo solo, a comporre poesia per se stesso, un artista senza pubblico. Abbandona la strada della poesia vivace e ritorna all’elegia, ma le due raccolte composte nel periodo dell’esilio non sono poesie d’amore. Dell’elegia Ovidio riscopre la vocazione lamentosa e quasi funebre. Trattando la propria desolata condizione di esule, il poeta cerca conforto nella scrittura. Cerca di ricomporre situazioni di solidarietà, di vicinanza, cerca un contatto che il decreto imperiale gli aveva precluso. Fu costretto a diventare oggetto della sua stessa poesia. Allo stesso periodo dell’esilio risale l’Ibis, un poemetto in distici elegiaci dove Ovidio si difende dagli attacchi di un suo detrattore. Il poema (prende il nome da un uccello dalle abitudini coprofile) deriva da un omonimo componimento perduto di Callimaco, diretto contro Apollonio Rodio. LA FORTUNA DI OVIDIO – La fortuna di Ovidio è stata immensa fino al Romanticismo. Criticato per il suo gusto del virtuosismo gratuito, Ovidio ebbe scarsa diffusione nelle scuole antiche di grammatica e fra i retori; nonostante ciò la sua popolarità fu subito vastissima (ebbe imitatori già in vita ed esercitò molta influenza sui poeti immediatamente successivi, fino a tutta la tarda antichità, da Seneca tragico a Lucano). Noto nel Medioevo e in età carolingia, il cui influsso si estenderà fino a Dante, Petrarca e Ariosto. Ovidio tornerà ad affascinare d’Annunzio e a farsi nuovamente apprezzare dal gusto di questi ultimi decenni per la sua poesia elaborata e riflessa. Cap. 5 – Livio e gli orientamenti della storiografia LA VITA E LE OPERE DI LIVIO – Tito Livio nacque a Padova nel 59 a.C., entrò in relazione con Augusto senza partecipare alla vita pubblica. Ai primi interessi per la filosofia si sostituirono quelli per la sua grande opera storica, gli Ab urbe condita libri. L’opera comprendeva 142 libri, di cui restano i primi 10 (fatti più antichi della storia romana, fino al 293 a.C.) e quelli dal 21 a 45 (sugli anni 218-167 a.C., seconda guerra punica fino alla guerra contro la Macedonia). La narrazione iniziava dalle origini mitiche di roma, per arrivare con l’ultimo libro, al 9 a.C.; il progetto originario, interrotto dalla morte dell’autore nel 17 a.C. non fu portato a termine, ma prevedeva forse anche il racconto degli anni fino alla morte di Augusto (14 a.C.), per un tot. di 150 libri. IL PIANO DELL’OPERA DI LIVIO E IL SUO METODO STORIOGRAFICO – Livio tornava alla struttura annalistica che aveva caratterizzato dall’inizio la storiografia romana, rifiutando implicitamente l’impianto monografico delle prime opere di Sallustio. La narrazione di ogni impresa si estende per l’arco di un anno, al compiersi del quale viene sospesa per raccontare di altri avvenimenti contemporanei. Alla divisione in decadi (gruppo di dieci) si fa cenno per la prima volta verso la fine del V sec. d.C., ma essa sarebbe molto più antica, e secondo alcuni, da attribuire direttamente allo stesso Livio (che pubblicò l’opera per gruppi di libri comprendenti periodi distinti, premettendo introduzioni ad alcuni dei libri con i quali si apriva un nuovo ciclo). Una delle più celebri è il proemio con cui si apre la terza decade, quella relativa alla seconda guerra punica (la presenza di un proemio in apertura di una decade sembrerebbe confermare che questo tipo di suddivisione rispecchi sostanzialmente le fasi della pubblicazione dell’opera da parte dell’autore. Livio ampliava al sua narrazione man mano che si avvicinava all’epoca contemporanea (come afferma lo stesso Livio nella praefactio generale dell’opera, questa dilatazione corrispondeva alle aspettative dei lettori, maggiormente interessati alle vicende recenti e alla tremenda crisi politico- sociale da cui era emerso il principato augusteo). Le fonti utilizzate da Livio furono numerose; per la prima decade c’erano a disposizione quasi esclusivamente gli annalisti, nelle decadi successive agli annalisti romani si afficancava il grande storico greco Polibio (sporadico pare essere l’uso delle Origines di Catone). Livio non sembra procedere a un attento vaglio critico delle proprie fonti, la facilità di accesso e di reperibilità sarebbe stata per lui criterio di scelta determinante scarsa attenzione a colmare le lacune della tradizione storiografica con il ricorso a documentazione di altro genere (es. manoscritti e antiche iscrizioni). Tutto ciò gli ha attirato spesso la fama di exornator rerum, preoccupato soprattutto di amplificare e adornare la traccia che trovava nella propria fonte tramite una drammatizzazione piena di varietà e movimento. A Livio è stata rimproverata la sua condizione di storico letterato, che lavora soprattutto di seconda mano sulla narrazione di storici precedenti e quindi la mancanza di una concreta pratica politica che grazie alle posizioni ricoperte, l’accesso a fonti riservate come gli acta senatus, implica spesso XLIV • Celso, sotto Tiberio, mise insieme in un’unica opera enciclopedica discipline teoriche e pratiche come medicina, arte militare e oratoria. Dell’opera rimangono solo otto libri relativi alla medicina, facendo supporre, dalla loro precisione, che fosse un vero medico di professione; • De rustica, Columella – tratta della coltivazione dei campi, degli alberi, della vite, dell’allevamento, temi, quelli dall’agricoltura, molto importanti anche tra gli aristocratici romani. Un libro, il decimo, è scritto in esametri in onore di Virgilio. LA PRECETTISTICA CULINARIA: MARCO APICIO – Ad Apicio, contemporaneo di Tiberio, viene assegnato un corpus di ricette culinarie diviso in dieci libri che prende il titolo di De re coquinaria. Alla base vi sono opere di carattere medico (spesso accompagnate dalle varie proprietà degli alimenti) e trattati di culinaria greca. Lo stile espositivo è privo di eleganza retorica e formale, gli ingredienti sono indicati con puntigliosa essenzialità. Dietro questa essenzialità si nasconde l’attenzione rivolta alla creatività e all’elaborazione scenografica dei piatti. Parte Quarta – La prima età imperiale (pag. 190-279 • I generi poetici nell’età giulio-claudia • Seneca – Lucano - Petronio • Persio e Giovenale • L’epica di età flavia • Plinio il Vecchio e il sapere specialistico • Marziale - Quintiliano • Plinio il Giovane - Tacito • Svetonio e la storiografia minore - Apuleio • Filologia, retorica e critica letteraria • La poesia tra II e III sec. d.C. L’età imperiale da Tiberio ai Flavi – La gratitudine e il legame della seconda generazione augustea rispetto al principe, che aveva restaurato l’ordine dopo la traumatica esperienza delle guerre civili, erano meno sentiti e di conseguenza anche molto meno apprezzata era la letteratura che a quel programma di restaurazione morale e politica aveva accordato il proprio consenso. La scomparsa di Mecenate provoca, con il venir meno della sua opera di mediazione, un distacco destinato a non ricomporsi più in modo stabile, tra potere politico ed élite intellettuale (la crisi del mecenatismo è già manifesta con Tiberio). È in questa corrente storiografica, innestata sulla tradizione repubblicana dell’élite senatoria, che nasce quell’atteggiamento di ostilità verso la dinastia giulio-claudia che avrebbe esteso il suo influsso fino a Svetonio e a Tacito, e a cui risale l’immagine che dei sovrani di quella famiglia si sarebbe trasmessa alla prosperità. La situazione non migliora con Claudio, nonostante i suoi interessi letterari (aveva scritto varie opere, una a carattere storico in latino, uno scritto in difesa di Cicerone e uno di grammatica, in cui proponeva l’introduzione di tre nuove lettere nell’alfabeto latino). Solo Nerone, all’inizio del suo principato, sotto la guida di Seneca, tenta un recupero del consenso del senato e una ripresa del mecenatismo. Nerone stesso fu poeta e promosse in vario modo le attività artistiche. La moda dei pubblici agoni poetici, in occasione di certe feste, persiste e anzi si diffonde ulteriormente sotto il principato dei Flavi, ma l’avvento della nuova dinastia imperiale segna una netta inversione di rotta rispetto agli indirizzi culturali di Nerone (i Flavi oppongono un programma di restaurazione morale e civile). Sul piano letterario spiccano soprattutto due fenomeni: • La ripresa della poesia epica, nel segno del primato di Virgilio; • Per la prosa, l’assurgere di Cicerone a modello di una maniera stilistica ma anche di un’educazione fondata sulla retorica. Tra il regno di Nerone e l’età Flavia, il teatro torna a godere di immensa fortuna (pantomima, il genere di spettacolo favorito; caratteristico della pantomima è il realismo nella rappresentazione di certi effetti). Con la fine della libertas repubblicana viene meno la grande oratoria politica, ma l’eloquenza è coltivata con passione nelle scuole dei retori e dà luogo al fenomeno culturale delle declamationes, per le declamazioni possediamo una testimonianza preziosa, quella di Seneca il Vecchio, il padre di Seneca filosofo (Oratorum et rhetorum sententiae divisiones colores). Il titolo elenca i tre caratteri che distinguono lo stile dei singoli retori: • Sententiae = frasi di tipo epigrammatico destinate a colpire e impressionare per la loro brevità fulminante l’ascoltatote; • Divisiones = diverse articolazioni giuridiche della vicenda; • Colores = coloriture stilistiche con cui i declamatori presentano personaggi e situazioni. Accanto alle declamazioni, un’altra forma di pubblico intrattenimento culturale sono le recitationes, a cui aveva dato inizio Asinio Pollione (lettura di brani letterari davanti a un pubblico di invitati). Il metro di valutazione di un pezzo letterario diventa l’applauso dell’uditorio. Il poeta diventa prestigiatore della parola (letteratura concepita come spettacolo). L’abuso degli artifici retorici sono il componente caratteristico della letteratura di questo periodo, che si caratterizza anche per una forte reazione anticlassicistica, chiara sia nella scelta dei contenuti, sia nel trattamento delle forme, in cui si accentuano i toni cupi e patetici e le tinte espressionistiche. Cap. 1 – I generi poetici nell’età giulio-claudia POESIA MINORE DELLA GENERAZIONE OVIDIANA: LA POESIA ASTRONOMICA – Tra il principato di Tiberio e l’avvento di Nerone, la poesia latina manca di figure capaci di costituire nuovi punti di riferimento e subisce fortemente l’influenza di personalità quali Virgilio, Orazio e Ovidio. Cresce l’interesse per generi letterari “minori” come l’epillio, la bucolica, l’epigramma nonché, dopo la preferenza accordata da Virgilio e Orazio, la poesia greca arcaica. A questo neo-alessandrismo è riconducibile la comparsa della poesia astronomica, che si ispira ad Arato, già tradotto da Cicerone e in parte imitato anche dal Virgilio delle Georgiche. Di particolare importanza sono gli Astronomica, cinque libri di esametri attribuiti all’ignoto Manilio. Nel corso del I sec. a.C. le dottrine astrali erano state accolte ai più diversi livelli nel corpo della cultura ufficiale romana. Il poema di Manilio è il più convinto tentativo di dare dignità poetica a questo filone di pensiero. La volontà didascalica porta Manilio verso il grande modello della poesia lucreziana. Gli Astronomica emulano Lucrezio, soprattutto nella struttura espositiva e nel modo di disporre la materia per libri. Manilio è il primo esponente di quella che si usa chiamare latinità argentea; il suo esametro rivela l’influenza dominante di Ovidio. La presenza di Ovidio si sente anche nel gusto sentimentale e rococò di certe digressioni mitologiche. La versificazione raffinata, una certa tendenza alla brevitas e all’ellissi espressiva, la difficoltà dei temi trattati, fanno di Manilio uno dei poeti più difficili della letteratura latina. L’APPENDIX VERGILIANA – Nel quadro della poesia “minore” del I sec. d.C. trovano posto anche una serie di componimenti che, per essere stati anticamente attribuiti a Virgilio, vengono chiamati tutti insieme Appendix Vergiliana (il nome e la compilazione stessa sono opera di umanisti cinquecenteschi). Forse solo pochissimi dei componimenti presenti nell’Appendix sono da attribuire davvero a Virgilio. I componimenti non risalgono allo stesso periodo e sono di mani differenti. Vi sono poesie d’invettiva (es. Ibis ovidiana), e molto importanti i testi che trattano dell’espropriazione dei campi (es. Bucoliche). Due poemetti sono abbastanza importanti, il Culex e la Ciris. FEDRO E LA TRADIZIONE DELLA FAVOLA – Nato forse intorno al 20 a.C., fu attivo sotto Tiberio, Caligola e Claudio; morì probabilmente intorno al 50 d.C. Tra i letterati della prima età imperiale, è uno dei pochissimi di nascita non libera (forse schiavo di origine tracia, poi liberato dall’imperatore, come fa pensare l’espressione libertus Augusti, con cui è citato nei manoscritti delle sue opere). I codici ci tramandano poco più di 90 favole, divise in 5 libri, tutte in senari giambici. Il corpus originario forse era molto più ampio (alcuni libri appaiono di una eccezionale brevità). Il secondo corpus contiene solo 8 favole, il quinto 10, ed entrambi hanno meno di 200 versi. Fedro è per molti versi un autore marginale; la sua posizione sociale è modesta e la sua poesia non molto raffinata. Tuttavia è una delle massime glorie della letteratura latina; è il primo autore, nella cultura greco- romana, che ci presenti una raccolta di testi favolistici concepiti come autonoma opera di poesia, destinata alla lettura (solo nella satira e nel romanzo la cultura romana mostra un’autonomia altrettanto spiccata). La favola è il più universale e profondamente popolare dei generi; gli autori di favole sono quasi sempre gli eredi di una tradizione narrativa, orale, popolare, già consolidata. Il merito di Fedro sta nell’impegno costante e sistematico per dare alla favola una misura, una voce ben definita e riconoscibile. La tradizione esopica si era fissata in Grecia intorno al IV sec. a.C., in raccolte letterarie che pare fossero composte in prosa. Si era affermato l’uso di una premessa e/o di una postilla in cui veniva fissato il tema o illustrata la morale della favola. Tipico di questo genere è l’uso di animali come maschere, personaggi umanizzati e dotati di una psicologia fissa e ricorrente (quasi costante la presenza di una morale, verità di carattere universale che si vuole estrarre dal raccontino). Le morali di Fedro presentano un tratto originale, ovvero il tono amareggiato con cui spesso il poeta commenta la legge del più forte. Fedro è uno dei pochissimi letterati romani che da voce agli emarginati. Nonostante quello delle favole sia un mondo astratto, non mancano punti di adesione alla realtà contemporanea. Nei prologhi dei libri Fedro dimostra notevole consapevolezza letteraria, difende il suo tipo di poesia e ne esalta le virtù. Fedro non manca di accenni polemici verso la società e giunge a rivendicare alla sua opera un certo carattere satirico. Le sue favole, che vogliono svagare ed educare, hanno il pregio di preservare un genere popolaresco. I GENERI POETICI IN ETA’ NERONIANA – Continua, anche sotto Nerone, la fioritura dei generi “minori”, come la bucolica e l’epigramma. Sette egloghe, che imitano Virgilio, sono da attribuire a un certo Calpurnio Siculo (biografia ignota). Sono componimenti leziosi e di maniera, importanti per la storia letteraria in quanto sono il primo chiaro testimone di una concezione “allegorica” della poesia pastorale (alcuni pastori sono veri e propri travestimenti di personaggi storici). Calpurnio potenzia anche certi spunti allegorici già presenti nelle egloghe di Virgilio. XLIV La perdita più grave sono forse le poesie di Nerone stesso; è chiaro dai suoi titoli che Nerone propugnava un ritorno alla poesia mitologica di chiara ispirazione neoalessandrina. Abbiamo notizie di uno stravagante poema sulla guerra di Troia, i Troica, il cui eroe era Paride, invece che Ettore. Nerone propugnava un tipo di poesia decadente, contro il quale polemizzava Persio nelle sue Satire. Nerone incoraggiò molti letterati e promosse regolari concorsi poetici; si diffonde la pratica delle recitazioni e l’imposizione di uno stile lussuoso e barocco, che stupisce il pubblico con immagini stravaganti. Le parodie che Persio e Marziale fanno di questo gusto ci danno una certa informazione sull’atmosfera e sulla cultura di questi poeti. Lo stesso Lucano si distinse giovanissimo, nella poesia mitologica. Cap. 2 – Seneca LA VITA E LE OPERE – Nato forse nel 4 a.C., Lucio Anneo Seneca discendeva dalla ricca famiglia degli Annei (originari della Spagna). Dopo un soggiorno in Egitto, nel 26 d.C., iniziò a Roma la carriera di oratore e avvocato (a questo periodo potrebbero risalire alcune delle nove tragedie di argomento greco). Nel 41 d.C. venne condannato alla relegazione in Corsica dall’imperatore Claudio. In esilio compone due Consolazioni: • Ad Helviam matrem; • Ad Polybium. Richiamato a Roma nel 49 d.C. per intercessione dell’imperatrice Agrippina, sarà scelto da lei come tutore del figlio Nerone. Di questo periodo sono i tre libri del De clementia, una sorta di guida per il regnante, indirizzata a Nerone. Con il progressivo degenerare del comportamento di Nerone, Seneca si ritira gradualmente dalla scena per dedicarsi agli studi. A questi anni risalgono i lavori di maggior impegno: • De beneficiis; • Naturales quaestiones; • Epistulae morales ad Lucilium; • De otio; • De providentia. Controversa è la datazione degli altri scritti filosofici di Seneca, tutti raccolti nei dodici libri dei Dialogi, titolo che non implica una vera forma dialogica. Inviso ormai a Nerone, Seneca viene coinvolto nella repressione della congiura di Pisone, di cui forse era solo al corrente senza esserne partecipe; accusato da Nerone, è costretto al suicidio. I DIALOGI E LA SAGGEZZA STOICA – Le singole opere dei Dialogi costituiscono trattazioni autonome di aspetti o problemi particolari dell’etica stoica (stoicismo che ha stemperato l’antico rigore dottrinale sulle orme della cosiddetta “scuola di mezzo”). I tre libri del De ira sono una sorta di fenomenologia delle passioni umane (opera indirizzata al fratello Novato, al quale dedicherà anche il De vita beata affronta il problema della felicità e del ruolo che nel suo proseguimento possono svolgere gli agi e le ricchezze). Posto che l’essenza della felicità è nella virtù e non nella ricchezza, Seneca legittima l’uso della ricchezza se questa si rivela funzionale alla ricerca della virtù. Altri 3 dialoghi, dedicati all’amico Sereno, sono il De constantia sapientis, De tranquillitate animi, De otio; il primo esalta l’imperturbabilità del saggio stoico, il secondo affronta un problema fondamentale nella riflessione filosofica senecana, la partecipazione del saggio alla vita politica. Seneca cerca una mediazione fra i due estremi dell’otium cntemplativo e dell’impegno proprio del civis romano. Agli anni tra il 49 e il 52 d.C. risale il De brevitate vitae (problema del tempo, della sua fugacità, dell’apparente brevità, che ci pare tale perché non riusciamo a coglierne l’essenza). Agli ultimi anni appartiene il De providentia (dedicato a Lucilio) che apre la raccolta dei dialoghi e affronta il problema della contraddizione fra il progetto provvidenziale che secondo la dottrina stoica presiede alle vicende umane e la sconcertante constatazione di una sorte che sembra spesso premiare i malvagi e punire gli onesti. La risposta di Seneca è che le avversità che colpiscono chi non le merita non contraddicono tale disegno provvidenziale; il sapiens stoico realizza la sua natura razionale nel riconoscere il ruolo che nell’ordine cosmico a lui è assegnato e nell’adeguarvisi compiutamente. Consolationes il genere della consolazione, già coltivato nella tradizione filosofica greca, si costituisce su un repertorio di temi morali attorno ai quali ruota gran parte della riflessione filosofica senecana. La Consolatio ad Marciam è indirizzata alla figlia dello storico Cremuzio Cordo, per consolarla della morte del figlio. FILOSOFIA E POTERE – Seneca è uno dei pochi a realizzare l’utopia platonica dei filosofi al potere. Dedica gran parte della sua riflessione a temi “pubblici” (se il sapiente debba partecipare alla vita dello Stato, quale sia il comportamento del buon principe, fino a che punto il possesso e la ricchezza sono conciliabili con l’ideale astinenza del filosofo). diventa la denuncia della guerra fratricida, del sovvertimento di tutti i valori, dell’avvento di un’era di ingiustizia; tentativo di confutare quel modello virgiliano che avrebbe esaltato l’avvento di Augusto come una missione fatale, coprendo così con un velo di mistificazioni la trasformazione dell’antica res publica in tirannide. Il mito virgiliano di Roma città eterna, destinata a reggere il mondo nella pace, si rovescia nell’anti-mito di una potenza destinata a una tragica rovina. La degenerazione del regime accentuò il pessimismo di Lucano che nel resto dell’opera non menzionerà mai più Nerone. I PERSONAGGI DEL POEMA – La Pharsalia non ha un personaggio principale, un vero e proprio “eroe”; l’azione del poema ruota intorno alle personalità di Cesare, di Pompeo e di Catone. Cesare domina a lungo la scena con la sua malefica grandezza; assurge a incarnazione del furor che un’entità ostile, la Fortuna, scatena contro l’antica potenza di Roma (sembra che Lucano lo ammiri). Cesare rappresenta il trionfo di quelle forze irrazionali che nell’Eneide venivano domate e sconfitte; il furos, l’ira, l’impatientia e una colpevole volontà di farsi superiore allo Stato. Importanti sono anche la ferocia e la crudeltà; nella Pharsalia Lucano spoglia Cesare del suo attributo principale – la clemenza verso i vinti – a costo di stravolgere la verità storica. Alla frenetica energia di Cesare si contrappone una relativa passività da parte di Pompeo (personaggio in declino, affetto da una sorta di senilità politica e militare, eppure proprio per questo meno responsabile). La vera colpa della catastrofe di roma è così attribuita alla brama di potere di Cesare, mentre Pompeo è tratteggiato come una sorta di enea cui il destino si mostra avverso invece che favorevole; egli diviene una figura tragica. La Pharsalia rappresenta il precipitare di Pompeo dai vertici più alti, mentre la Fortuna gli si rivolge contro con ostile determinazione. Alla progressiva perdita di autorevolezza in campo politico fa riscontro un ripiegamento nella sfera del privato, degli affetti familiari. Anzi, la stessa parabola della fortuna di Pompeo si associa alla figura delle sue due mogli: • Fase ascendente – prima moglie (Giulia); • Fase discendente – seconda moglie (Cornelia). Ad esse, oltre che ai figli, vanno gli ultimi pensieri di Pompeo prima di essere assassinato. Abbandonato dalla Fortuna, egli va incontro una sorta di purificazione; comprende che la morte in nome di una causa giusta costituisce l’unica via di riscatto morale. Questa consapevolezza, frutto di una lunga e dolorosa consapevolezza, per Pompeo, è per Catone un solido possesso fino dalla sua prima apparizione nel poema. Lo sfondo filosofico della Pharsalia è di tipo stoico, ma nel personaggio di Catone si consuma la crisi dello stoicismo di stampo tradizionale. Di fronte alla consapevolezza della malvagità di un fato che cerca unicamente la distruzione di Roma, diviene impossibile per Catone l’adesione volontaria alla volontà del destino che lo stoicismo pretendeva dal saggio. Catone si fa pari agli dèi; il saggio non può nemmeno mantenere la propria tradizionale impertubabilità di fronte al suo realizzarsi; Catone si impegna nella guerra civile, con piena consapevolezza della sconfitta alla quale va incontro, e della conseguente necessità di darsi la morte, l’unico modo che gli resta per continuare ad affermare il diritto e la libertà. Intorno ai tre protagonisti si muove una serie di personaggi minori, la cui caratterizzazione è condizionata dall’appartenenza all’uno o all’altro degli schieramenti in lotta. Molti dei pompeiani e dei catoniani sono presentati come combattenti valorosi anche se sfortunati. L’esercito di Cesare è costituito per lo più da mostri assetati di sangue. Il poeta non manca di sottolineare l’ingiustizia della causa per cui essi combattono. Tra i personaggi femminili di distingue Corneli, moglie di Pompeo, la quale incornava il ritratto dell’assoluta fedeltà e devozione al marito, con cui condivide le avversità della sorte. In forte contrasto con Cornelia è Cleopatra, la dissoluta regina, causa e simbolo della decadenza di Roma, postasi della parte del vincitore, Cesare. LO STILE – Quintiliano definì Lucano ardens et contitatus, forse riferendosi all’incalzante ritmo narrativo dei periodi; l’urgenza concitata dei pensieri si riscpecchia nel continuo uco dell’enjambement, e la sintassi delle parole aspira a uscire dai vincoli dello schema esametrico imprimendo un’eccezionale tensione espressiva al verso. Lo stile di Lucano ha molti punti di contatto con quello delle tragedie di Seneca: si è parlato di barocco, , di tumores, entratizzazioni e anche di manierismo. L’io del poeta è praticamente onnipresente per giudicare e spesso per condannare in tono indignato perciò, frequenti sono gli apostrofi e in genere gli interventi dell’autore a commento degli eventi narrati. Questo stile non è solo frutto dell’adesione alle mode letterarie del tempo, ne intende semplicemente compiacere il gusto delle sale di declamazione; la tensione espressiva dell’epica lucana si alimenta dell’impegno e della passione con le quali il giovane poeta ha vissuto la crisi della sua cultura. Ora che lo sviluppo degli eventi ha tradito un mondo ideale, l’epica non può assolvere a questo compito di positiva commemorazione dei grandi modelli eroici. Lucano cerca un rimedio di compenso nell’ardore ideologico con cui ne denuncia la crisi. La presenza di un’ideologia politico-moralistica si fa in lui ossessiva, invade il suo linguaggio, diventa linguaggio, perché viene gridata, ostentata; propugnata linguisticamente si riduce a retorica. La retorica che anima questo XLIV linguaggio è il gesto di uno stile che per ritrovare autenticità non può più affidarsi a un’espressione semplice e diretta, ricorrendo invece agli schematismi enfatici del discorso retorico. -Manca “La fortuna di Lucano”- perché sono sempre le solite cose.. Cap. 4 – Petronio AUTORE E DATAZIONE – Nessun autore antico ci dice chi fosse Petronius Arbiter, autore, secondo la tradizione, del Satyricon (romanzo la cui composizione si colloca ca. alla fine del I sec. d.C.). Gli storici accettano l’identificazione con il Petronio descritto negli Annales di Tacito (lo storico, senza fare cenno all’opera, lo indica come cortigiano di Nerone e da questi ritenuto il giudice per eccellenza della raffinatezza, il suo elegantiae arbiter). Tolto Tacito, mancano testimonianze esplicite o prove indiscutibili di un’identificazione precisa. Alcune figure minori parlano un latino profondamente diverso da quello letterario, più vicino alla lingua delle iscrizioni pompeiane o anche alla lingua d’uso dei prosatori meno stilizzati. I volgarismo non offrono un criterio valido per la datazione. L’INTRECCIO – La parte superstite del romanzo, compre stralci dei libri XIV e XVI e la totalità del XV libro, che all’incirca coincideva con la Cena di Trimalchione. Sicuramente il testo che abbiamo era preceduto da un lunghissimo antefatto e seguito da una parte di lunghezza per noi imprecisabile. La storia è narrata in prima persona dal protagonista Encolpio che troviamo all’inizio, discutere con Agamennone, scadente maestro di retorica, sul problema della decadenza dell’oratoria. Enclopo viaggia in compagnia di un altro avventuriero dal passato burrascoso (Ascilto) e di un bel giovinetto (Gitone). Compare una matrona, Quartilla, che coinvolge i tre in un rito in onore del dio Priapo (simboleggia il sesso maschile). I riti di Priapo si rivelano un pretesto per asservire i tre giovani ai capricci lussuriosi della donna, alla quale i tre riescono cmunque a sfuggire per recarsi poi ad un banchetto in casa di Trimalchione (liberto ricchissimo e cafone). La rivalità omosessuale tra Enclopio e Ascilto precipita; i due, delosi dell’amore di Gitone, hanno un violento litigio e Ascilto si porta via il ragazzo. Enclopio si imbatte in una pinacoteca, dove conosce un nuovo personaggio, Eumolpo (vagabondo, anziano, insaziabile di avventure). Enclopio riesce a recuperare il suo Gitone e a liberarsi di Ascilto, che scompare, per noi, dalla vicenda, ma non di Eumolto, che si rivela il nuovo spasimante di Ascilto. L’azione si è svolta in una Graeca urbs, città costiera della Campania. Ad un certo punto di cambia scena e Encolpio, Eumolpo e Gitone si imbarcano su una nave, il cui padrone si rivelerà essere il peggior nemico di Encolpio (mercante di nome Lica). Con Lica viaggia una donna di dubbia moralità, Trifena. Eumolpo tenta una mediazione con Lica; per divertire i compagni racconta la piccante novella della Matrona di Efeso. Provvidenziale tempesta Licia viene spazzato in mare, Trifena fugge con una barca e la nave cola a picco. I tre finiscono su una riva e scoprono di essere vicino a Crotone, citta iena di ricchi senza eredi e di cacciatori di testamenti, che li colmano di onori e favori per ottenere l’eredità. Eumolpo finge di essere un vecchio facoltoso e senza eredi, assecondanto da Encolpio e Gitone, che ne inpersonano gli schiavi. Durante il cammino verso Crotone, Eumolpo tiene ai suoi compagni una lezione sulla poesia epica e declama un lungo poemetto sulla guerra tra Cesare e Pompeo (Bellum civile). L’ultima fase del racconto è difficile da seguire (lacunoso). La finzione continua per un po’ e i tre vivono comodamente alle spalle dei cacciatori di dote; Encolpio viene poi abbandonato dalle sue facoltà sessuali, si sottopone a umilianti e inutili pratiche magiche. I crotoniani stanno per scoprire il raggiro; nell’ultima scena viene letto l’assurdo testamento, con cui Eumolpo assegna i suoi lasciti a chi si ciberà del suo cadavere i pretendenti sono pronti a farsi cannibali (l’opera si conclude qui, non sappiamo per quanto continuasse il romanzo). LA PARODIA COME CHIAVE DI INTERPRETAZIONE DEL SATYRICON – Il principio di fondo della costruzione narrativa del Satyricon sembra essere quello della parodia letteraria; l’arte, comica ma anche riflessiva, di parlare attraverso altra letteratura. Satyricon antiromanzo. Il Satyricon rovesca tutte le convenzioni più significative e caratterstiche di quello che definiamo il “romanzo antico”. Gli antichi applicano a queste opere narrative termini molto generici o designazioni particolari usate senza nessun rigore. I critici moderni chiamano di solito “romanzi” un gruppo ristretto di opere che rientrano in due tipologie molto differenti, le cui origini letterarie sono ancora discusse: • Due testi latini, tra l’altro reciprocamente indipendenti e poco simili fra loro (il Satyricon di Petronio e le Metamorfosi di Apuleio); • Una serie di testi greci (di Caritone, Achille Tazio, Senofonte Efesio, Longo Sofista, Elidoro). Al contrario dei romanzi latini, questa serie di opere greche è unita da una notevole omogeneità e permanenza di tratti distintivi. La trama è quasi invariabile; una coppia di innamorati, un giovane e una ragazza, viene separata dalle avversità e i due devono superare numerose traversie prima di riunirsi e coronare il loro amore. Gli intrecci stanno tutti nella serie degli incidenti che ritardano il felice scioglimento. Il tono è serio, i protagonisti sono visti come figure patetiche che suscitano simpatia. Lo scenario è invece variabile e spazia nei Paesi del Mediterraneo grecizzato. L’amore è trattato con pudicizia, passione seria ed esclusiva. Anche il Satyricon racconta le peripezie di una coppia di amanti, tuttavia l’amore vi è trattato in modo ben diverso. Non c’è spazio per la castità e nessun personaggio è un serio e credibile portavoce di valori morali. Il protagonista è sballottato tra peripezie sessuali e il suo partner preferito è maschile; il sesso è trattato esplicitamente ed è visto come una continua fonte di situazioni comiche. Il romanzo di Petronio finge di appartenere a una letteratura popolare di intrattenimento e di consumo. Da sempre la letteratura bassa, convenzionale e di consumo, ha come modello la letteratura impegnativa e sublime, i generi poetici maggiori. Il Satyricon trova il registro della parodia e ne fa il codice principale del proprio racconto; riconosce e rappresenta in sé una letteratura “popolare” nostalgica della poesia sublime. Nel Satyricon le peripezie di Encolpio e degli altri personaggi diventano un’odissea di pitocchi, che allude spesso alle disavventure capitate all’eroe di Omero. Encolpio stesso, perseguitato da Priapo, si paragona a Ulisse perseguitato da Poseidone. Le disavventure di Encolpio potrebbero risalire a un incidente iniziale, contenuto nell’antefatto; es. un sacrilegio o una maledizione divina. Nel Satyricon chi dice “io” non è l’autore ma un narratore inaffidabile; Petronio lascia che il protagonista-narratore viva gli eventi della sua quotidinana esistenza in una sorta di esaltazione eroica, che lo porta continuamente ad assimilare la realtà ai grandi modelli della letteratura sublime. Nel Satyricon i modelli alti evocati dal protagonista-narratore si scontrano con la sceneggiatura romanzesca che Petronio ha scelto per lo svolgimento dell’azione e con le molte altre forme discorsive che si intrecciano. Sotto la prospettiva unificante e deformata dell’io narratore, si dissolve il sistema tradizionale dei generi letterari, la sua pretesa di rappresentare il mondo in forme compiute. Ma la parodia non è ottenuta attraverso un’aggressione diretta dei grandi modelli sublimi bensì scoprendo di volta in volta quanto inopportune siano le immaginazioni che guidano il protagonista-narratore nel suo cammino attraverso il mondo (fantasie sovraccariche di pathos, pese letterarie e declamatorie). Encolpio, giovane fresco di studi, uno scholasticus con tutti i difetti della scuola, è il catalizzatore della satira di Petronio. Affidare a lui la narrazione è la strategia scelta dall’autore per colpire l’autoritarismo culturale. La distinzione tra “autore nascosto” e ”narratore mitomane” sovraintende alla regia dei modelli attivati dal testo. Alcuni restano di competenza dell’autore, altri appartengono esclusivamente alla fantasia del protagonista narratore. Petronio struttura la storia di Encolpio come una parodia continua della narrativa greca idealizzata. Strumento del rovesciamento ironico è Encolpio, l’antimodello dell’eroe del romanzo idealizzato; Encolpio è debole e rotto a ogni ingano, vittima delle sue illusioni di consumatore scolastico dei testi letterari sublimi. Scascherando le illusioni di Encolpio, la parodia aggredisce i modelli romanzeschi e il meccanismo di trivializzazione con cui essi hanno ridotto a schematismi melodrammatici i paradigmi sublimi. LA FORMA DEL ROMANZO – La prosa narrativa è spesso interrotta da inserti poetici; alcune di queste parti in versi sono affidate alla voce dei personaggi (soprattutto Eumolpo) che dà spazio alla sua torrenziale vocazione poetica (è il caso della Presa di Troia e della Guerra civile). Questi inserti sono motivati e hanno come uditorio i personaggi del romanzo, ma molte altre parti poetiche sono strutturate come interventi del narratore, che nel vivo della suo storia abbandona la relazione deggli avvenimenti per commentarli. Spesso questi commenti hanno una funzione ironica perché il commento poetico non corrisponde, vuoi per stile e per livello letterario, vuoi per contenuto e orientamento, a quella situazione in cui dovrebbe inquadrarsi. Ne derivano dei contrasti, degli sbalzi tra aspettative e realtà, tra illusioni materiate di fantasmi e brusche ricadute anche di volgarità brutale. La libera alternanza di prosa e poesia non ha una presenza marcata nei testi narrativi antichi che conosciamo (es. romanzo di Apuleio). Il punto di riferimento più vicino è quello della tradizione della satira menippea, rappresentato ad esempio dall’Apokilokyntosis di Seneca. Sebra che questo tipo di satira fosse un contenitore aperto, molto vario per temi e soprattutto per forma (caratteristica menippea continuo scontro di toni seri e giocosi, risonanze letterarie e di crude volgarità, tutto sorvegliato da una raffinata tecnica compositiva che ricorda piuttosto da vicino Petronio). Il Satyricon deve molto alla narrativa per la trama e la struttura del racconto, e qualcosa deve alla tradizione menippea per la tessitura formale di versi e prosa (prosimetro). Il dato più originale della poetica petroniana è forse la sua forte carica realistica. Petronio ha un vivo interesse per la mentalità delle varie classi sociali, oltre che per il loro linguaggio quotidiano, e ci porta in luoghi tipici e fondamentali del mondo romano (scuola di retorica, tempio, ecc.). La categoria interpretativa del realismo è sempre debole e ambigua. La trama del Satyricon è inverosimile di quella dei tardi romanzi greci; i suoi personaggi sono caricaturali, ci piace immaginarli con la grottesca maschera della commedia. Anche dove lo studio realistico appare più fedele, è facile riconoscere la parodia di famosi episodi letterari, la caricatura di libri che il lettore antico doveva conoscere bene. Non c’è in tutto il Satyricon una sola voce del tutto attendibile, portatrice di una verità cui il lettore possa credere. XLIV deve riuscire a coltivare la propria ispirazione nella miseria. Giovenale guarda a questo confuso spettacolo come una tragedia di maschere grottesche, di fronte alla quale non gli resta che l’amara soddisfazione dell’invettiva. Al suo sguardo deformato di moralista, la società romana appare irrimediabilmente perversa e i ruooli delle vatie classi sociali stravolti, a cominciare dalla nobiltà che ha indegnamente abdicato alle funzioni che le competono e si abbruttisc enei bagordi e nella lussuria. La sua furia aggressiva non risparmia nessuno; bersaglio privilegiato sono le donne, emancipate e libere, che per il loro disinvolto muoversi nella vita sociale personificano agli occhi del poeta lo scempio stesso del pudore e gli ispirano la lunga satira sesta, uno dei più feroci documenti di misoginia di tutti i tempi, in cui campeggia la cupa grandezza di Messalina, la prostituta imperiale. Radicale avversione al suo tempo e rabbiosa protesta contro le ingiustizie atteggiamento democratico di Giovenale (prospettiva illusoria). Il suo atteggiamento verso il volgo, verso i rossi e gli indotti, è di profondo disprezzo. L’orgoglio intellettuale, insieme all’astio nazionalistico contro i greci e orientali adulatori e intriganti, gli consente al massimo di rivendicare per sé agiatezza e riconoscimenti sociali, ma lo tiene lontano dal concepire velleità di solidarietà sociale. idealizzazione nostalgica del passato, di una società non inquinata da orientali, liberti, commercianti. Un marcato cambiamento di toni si avverte nella seconda parte dell’opera di Giovenale, cioè negli ultimi due libri, in cui il poeta rinuncia espressamente alla violenta ripulsa dell’indignatio e assume un atteggiamento più distaccato, mirante all’apàtheia, all’indifferenza, degli stoici, riavvicinandosi a quella tradizione diatribica della satira da cui si era drasticamente allontanato. Indugia su una riflessione più pacata; sulla facciata dell’impassibilità si aprono qua e la crepe dell’antico furore, riaffiora la rabbia di sempre. GIOVENALE, LO STILE SATIRICO SUBLIME – La satira deve adeguarsi agli argomenti che tratta, e quindi inizia a rifarsi a caratteri stilistici grandiosi, simili a quelli dei generi letterari tradizionalmente opposti alla satira, come l’epica e soprattutto la tragedia. La satira resterà realistica ma avrà l’altezza di torno, quella grandiosità di stile conforme alla violenza dell’indignatio. Giovenale trasforma il codice formale del genere satirico recidendo il legame tradizionale con la commedia. Importante è il ricorso alle solenni movenze epico-tragediche proprio in coincidenza con i contenuti più bassi e volgare. il realismo ha una forte spinta deformante che si esplica nel tratteggiare figure e quadri di violenta crudezza in cui trova sfogo la vena irosa del moralista indignato. Espressione che sembra esplodere nell’iperbole, in cui si scontrano toni aulici e plebei. Tono quasi sempre teso alla denuncia e all’invettiva. GIOVENALE, LA FORTUNA – La sua fama fiorisce nel IV soprattutto fra poeti e grammatici, diffusione favorita ovviamente dal carattere spiccatamente moralistico dei suoi versi e attestata anche dalla grande quantità di manoscritti trasmessici. Grande fortuna avrà soprattutto nella tradizione satirico- moralistica europea, da Ariosto a Parini, da Alfieri a Hugo. Cap. 6 – L’epica in età flavia La poesia di Stazio, Valerio Flacco e Silio Italico presenta notevoli concordanze di gusto e di clima culturale, proponendosi come modello Virgilio. L’Eneide, che era per Lucano era stata anche uno stimolo all’innovazione, diventa ora un rifugio di orizzonte chiuso. Molto importante per i letterati flavi l’influsso di Ovidio (stile narrativo). STAZIO, LA VITA E LE OPERE – Publio Papinio Stazio nacqua a Napoli tra il 40 e il 50 d.C., figlio di un maestro di scuola che poi si trasferì a Roma. Si cimentò con successo in recitazioni pubbliche e gare poetiche. Merì nel 96 d.C. dopo essere tornato in Campania (Domiziano suo protettore). Scritte tre poemi epici e le Silvae. Le Silvae sono divise in 5 libri, che variano nei metri e nei temi, raccoglie poemetti di ringraziamento o di lode rivolti a patroni e benefattori del poeta. La Tebaide, poema epico in 12 libri, racconta la sotira, tratta dal mito greco, dei Sette contro Tebe, tema ricorrente nella letteratura antica. I 12 libri sono divisi in due esadi; la prima mostra tratti odissiaci (peripezie del viaggio), come la prima metà dell’Eneide, la seconda è una storia di guerra, come la metà idiliaca del poema virgiliano. Anche sul piano ideologico Stazio appare chiaramente virgiliano, in opposizione a Lucano (salvare l’apparato divino dell’epica, ma anche renderlo più moderno approfondendo la funzione del fato e del destino). Le divinità epiche tradizionali appaiono come svuotate o appiattite; le forze divine più vitali sono le personificazioni di idee più astratte. L’assenza di riferimento diretti all’attualità romana non esclude che l’opera possa riflettere gli incubi propri della sua epoca. Una guerra civile vista come scontro fra tiranni. L’altro poema giunto fino a noi, incompiuto, è l’Achilleide (si ferma all’inizio del secondo libro). Forse a causa del tema, il tono è più disteso e idilliaco che nella Tebaide. Il progetto complessivo dell’opera rivela ambizioni letterarie grandiose, che avrebbero indotto Stazio a rapportarsi con Omero e Virgilio. STAZIO, LA FORTUNA – L’importanza di Stazio la comprendiamo dalla sua comparsa nel Purgatorio dantesco (sulla falsa convinzione che il poeta si fosse convertito al cristianesimo, da vero discepolo di Virgilio, che il Medioevo considera precursore e profeta dell’avvento di Cristo). Dante fa notevole uso del modello epico di Stazio. Esso risulterà un importante punto di riferimento per lo sviluppo di un’epica medievale a contenuto allegorico. VALERIO FLACCO – Di lui non sappiamo praticamente nulla; scrisse gli Argonautica, poema epico rimasto incompiuto all’ottavo libro, che narra una serie di vicende corrispondente ai tre quarti del racconto sviluppato dal greco Apollonio Rodio. Valerio, pur ispirandosi ad Apollonio, mira a una riscrittura autonoma della vicenda (riduzioni, aggiunte, modifiche nella psicologia dei personaggi e nel ritmo del racconto). Rimane sempre e comunque debitore ad Apollonio. Nelle parti in cui segue da vicino il testo greco, Valerio accentua il pathos e la drammatizzazione. È elegante e raffinato nel particolare, nel dettaglio invece descrittivo; fallisce nella creazione di scene narrative articolate (mancata specificazione delle coordinate spazio-temporali dell’azione, che da l’impressione di un modo di comporre per blocchi isolati). L’influsso di Virgilio spinge Valerio a una poetica reazionaria (il tema mitologico, l’apparato divino onnipresente, ecc.). Il poeta presuppone che il lettore sia già a conoscenza degli avvenimenti e talvolta che abbia presente l’immediato riferimento di Apollonio ne risulta un testo narrativo difficile, spesso oscuro. SILIO ITALICO – Importante uomo politico dei suoi tempi, console nel 68 d.C., proconsole d’Asia sotto Vespasiano. Dopo essersi ritirato a vita privata si dedicò al suo poema storico, i Punica. Tratto importante amore maniacale per Virgilio, che lo induceva a raccogliere cimeli del poeta e addirittura ad acquistare il luogo del suo sepolcro. I Punica sono il più lungo epos storico latino giunto a noi (17 libri); l’opera racconta la seconda guerra punica, dalla spedizione di Annibale in Spagna, fino al trionfo di Scipione dopo Zama (già trattato da Nevio e da Ennio). Evidente è l’uso dell’opera di Tito Livio. L’impulso fondamentale venne dall’Eneide (la guerra di Annibale discende direttamente dalla maledizione di Didone contro Enea e i suoi discendenti). L’opera è un mix di verità e mitologia, e di fatti ciò che interessa di più sono queste digressioni mitologiche e la ricerca di esattezza antiquaria. Cap. 7 – Plinio il Vecchio e il sapere specialistico PLINIO IL VECCHIO, LA VITA E LE OPERE – Gaio Plinio Cecilio Secondo nacque a Como (23 d.C.). Le campagne germaniche suggerirono a Plinio la composizione di un’ampia opera storica i “Bella Germaniae” (non ci è giunta, ma è sicuramente fonte di Tacito). Dopo l’avvento di Nerone, a cui è violentemente ostile, si ritira a vita privata. Scrive di retorica e linguistica. Torna alla vita pubblica sotto Vespasiano. L’unica opera di Plinio conservata è il Naturalis historia (77/78 d.C.). Muore nel 79 d.C. soffocato dai gas fuoriusciti dall’eruzione del Vesuvio. PLINIO IL VECCHIO, L’ENCICLOPEDISMO: LA NATURALIS HISTORIA – Uno sforzo di sistemazione del sapere è evidente in tutta la cultura romana della prima età imperiale; testi che vogliono raccogliere il meglio delle conoscenze in un certo settore delle attività pratiche, e fornire al lettore un orientamento accessibile e complessivo. La Roma imperiale conosce una grande espansione dei ceti tecnici e professionali (coloro che amministrano le province sono sempre meno militari e molto più tecnici). La curiosità scientifica si afferma anche sotto forma di intrattenimento e consumo. I testi naturalistici di successo sono i cosiddetti paradossografi e le raccole di paradossi e mirabilia, cose stupefacenti. I paradossografi si presentano come viaggiatori. Le loro opere contengono aneddoti, favole, notizie antropologiche di varia attendibilità ed estratti da lavori scientifici più seri. La gigantesca opera erudita di Plinio è la realizzazione più compiuta di queste tendenze della cultura romana; si configura come enciclopedia (conservazione integrale dello scibile, non esistevano opere greche in qualche modo paragonabili). Naturalis Historia (37 libri): • Indice generale dell’opera e bibliografia di tutti i libri uno per uno (I); • Cosmologia e geografia fisica (II); • Geografia (III-VI) • Antropologia (VII) • Zoologia (VIII-XI) • Botanica (XII-XIX) • Medicina (XX-XXXII) • Metallurgia e mineralogia (XXXIII-XXXVII) Lo scopo di Plinio è quello di giovare all’umanità. Stilisticamente, Plinio è considerato da molti critici il peggior scrittore latino. La stessa folle ampiezza del lavoro non era compatibile con un processo di regolare elaborazione stilistica; inoltre la tradizione enciclopedica romana non comportava uno sforzo particolare di bello scrivere (Varrone, grandissimo enciclopedista, è nettamente superiore a Plinio per lucidità e competenza, ma il suo stile appare sciatto e inelegante). XLIV PLINIO IL VECCHIO, FORTUNA DELLA NATURALIS HISTORIA – Opera troppo lunga per essere letta tutta e anche per essere usata nelle scuole. L’architettura generale è separabile in blocchi omogenei (es. geografia della terra, botanica, rimedi farmacologici). E gli indici contenuti nel primo libro facilitano la consultazione. La Naturalis historia ha avuto una duplice sopravvivenza. Se ne trassero riduzioni, compilazioni di singole parti, antologie. Tuttavia queste manipolazioni non arrivarono a impedire la diffusione del testo originale. Continuò ad essere copiata per tutto il Medioevo e la fama di Plinio crebbe fino a fare di lui un’autorità nel suo genere. Gli stessi difetti di Plinio diventano preziosi; la sua tendenza a salvare tutto quanto è stato tramandato ci garantisce un inventario confuso ma vitale. UNO SCRITTORE TECNICO: FRONTINO – Di Sesto Giulio Frontino (governatore della Britannia) si conservano due opere, il De aquis urbis Romae e gli Stratagemata (raccolta di aneddoti di vita militare). Lo scritto sugli acquedotti è una buona e concreta trattazione dei problemi di approvvigionamento idrico a Roma. Frontino era stato curator aquarum, responsabile degli acquedotti. Cap. 8 – Marziale LA VITA E LE OPERE – Marco Valerio Marziale nacque in Spagna tra il 38 e il 41 d.C. Venne a Roma conducendo una vita modesta, da cliente, di cui si lamenterà spesso nelle opere. nell’80 d.C. gli viene commissionata una raccolta di epigrammi per celebrare l’inaugurazione dell’Anfiteatro Flavio. Dall’84-85 d.C. comincia a pubblicare i propri componimenti in libri. Nell’87 d.C. lascia Roma e torna nella sua città natale, morendo nel 104 d.C. GLI EPIGRAMMI DI MARZIALE – Di Marziale resta una raccolta di Epigrammi in 12 libri, composti tra l’86 e il 102 d.C. Va aggiunto il Liber de spectaculis (30 epigrammi) e i due libri di Xenia e Apophoreta (raccolte di distici che accompagnano i doni che si inviavano durante le feste dei Saturnali). L’origine dell’epigramma risale all’età greca arcaica, quando la sua funzione era per lo più commemorativa. In età ellenistica, l’epigramma, conservando la sua brevità, mostra di essersi emancipato dalla forma epigrafica e dalla destinazione pratica tipo di componimento adatto alla poesia d’occasione. I temi sono di tipo leggero (erotico, simposiaco, satirico-parodistico, carattere funebre). È il realismo che Marziale rivendica come tratto qualificativo della sua poesia. Egli osserva comunque lo spettacolo della realtà e dei suoi vari personaggi con l’occhio deformante della satira. Osservatore attento ma distaccato, che raramente impegna un giudizio morale. Gli argomenti investono l’intera esperienza umana (spiccano alcuni componimenti relativi alle vicende personali del poeta, o il costume sociale del tempo. Rispetto alla tradizione greca, Marziale sviluppa molto l’aspetto comico-satirico dell’epigramma, continuando un processo iniziato da Lucillio. Spesso l’epigramma diventa solo un meccanismo costruito in funzione del fulmen in clausula. Tale scelta di poesia realistica comporta un linguaggio e uno stile capaci di aprirsi alla vivacità dei modi colloquiali e alla ricchezza del lessico quotidiano. Spesso usa termini fortemente osceni che giustifica invocando il motivo della netta distinzione tra poesia e vita. Successo immediato e duraturo, la cui fortuna arrivò all’apice in età umanistica e rinascimentale, quando il poeta su assunto a maestro e modello della nuova moda di comporre epigrammi. Cap. 9 – Quintiliano LA VITA E LE OPERE – Nacque in Spagna nel 35 d.C. Figlio di un maestro di retorica, si trasferì a Roma dove seguì l’insegnamento di vari grammatici e retori. Galba lo volle come maestro di retorica, nel 68 d.C. Il successo, ottenuto con l’insegnamento (tra i suoi discepoli Plinio il Giovane e forse anche Tacito) gli valse, nel 78 d.C. con Vespasiano, la prima cattedra statale di eloquenza. Domiziano lo incaricò dell’educazione dei suoi nipoti. Nell’88 d.C. si ritirò dall’insegnamento per dedicarsi agli studi. La sua opera principale è l’Institutio oratoria, 12 libri iniziati forse nel 93 d.C. e pubblicata nel 96 d.C. L’INSTITUTIO ORATORIA – L’opera è dedicata a Vittorio Marcello, oratore ammirato anche da Stazio, preceduta da una lettera a Trifone, editore che forse ne curò la diffusione. I primi due libri sono quelli propriamente didattici e pedagogici (trattano l’insegnamento elementare e delle basi di quello retorico, discutendo dei doveri degli insegnanti). I libri III-IX si addentrano in una tradizione più tecnica che esamina analiticamente le diverse sezioni della retorica delle sue suddivisioni fino alla elocutio e alle figure di parola e pensiero. Il libro X insegna come acquisire la facilitas (disinvoltura nell’espressione). Qui si inserisce il famoso excursus sulla storia letteraria romana vuole mostrare come la letteratura latina regga il confronto con quella greca. Il XI libro si occupa delle tecniche della memorizzazione e dell’arte del porgere. Il XII libro tratta dei requisiti culturali che si richiedono all’oratore e accenna al problema dei rapporti col principe. capace e competente delle fonti, rispetto della verità). È un grande artista drammatico (forte coloritura poetica. A questa forte componente tragica Tacito non assegna tanto il compito di impressionare e suscitare emozioni, quanto quello di sondare nelle pieghe dell’animo dei personaggi per portare alla luce le ambiguità (interpretazione moralistica della storia – manca l’intuito storico di un Sallustio). Per Tacito le cause dei disastri sono da ricercare nell’inadeguatezza degli uomini di fronte agli eventi o nella corruzione fondamentale della natura umana. Raccontando le vicende di Roma, Tacito conduce il lettore attraverso un territorio umano desolato, privo di luce e speranza. A volte i suoi personaggi sono addirittura figure patologiche (es. Nerone, descritto come un pazzo maniaco). Tacito segue i suoi personaggi dall’interno. L’arte tacitiana del ritratto raggiunge il suo vertice con Tiberio, negli Annales (ritratto del tipo “indiretto” = fa si che si delinei progressivamente). Tacito ne descrive anche il ritratto fisico. Il senato diventa il centro della delazione, del servilismo, della finzione, verso cui Tacito si scaglia violentemente; nella sua adulazione vero il principe, si cela l’odio segretamente covato nei suoi confronti. LO STILE DI HISTORIE E ANNALES – Sallustio è spesso modello di Tacito, il quale carica e accentua molti tratti forti dello stile sallustiano, come la predilezione per gli arcaismi, la sintassi disarticolata, fatta di sententiae filminanti. Tacito è un autore volutamente difficile; ama sottintendere verbi, lascia cadere coniugazioni, ecc. Quando una frase sembra terminata, spesso la prolunga con una coda a sorpresa. Gli Annales mostrano delle differenze rispetto alle Historiae. Fino al libro XIII, Tacito evolve verso uno stile sempre più lontano dalla norma, un lessico sempre più arcaico e solenne. Abbondano le metafore violente e l’uso audace delle personificazioni. All’interno degli Annales stessi, si registra un cambiamento, in cui alcuni hanno visto un’involuzione. A partire dal libro XIII, Tacito sembra ripiegare su moduli più tradizionali, meno lontani dai canoni del classicismo ciceroniano. Lo stile è più ricco ed elevato, meno acre. La differenza è stata attribuita al diverso argomento; il principato di Nerone, abbastanza vicino al presente di Tacito, richiedeva di essere trattato con minore distanziamento solenne di quello ormai remoto di Tiberio, che sembrava ancora radicato nell’antica res publica. LA FORTUNA DI TACITO – Tacito trovò un ammiratore entusiasta in Plinio il giovane. Nell’umanesimo e nel primo Rinascimento a Tacito venne spesso preferito Livio. Nell’epoca della Controriforma e delle monarchie assolute prese piede il fenomeno del tacitismo, che vide nell’opera di Tacito un complesso di regole e di principi direttivi dell’agire politico di tutti i tempi. Le generazioni dell’illuminismo sentirono in Tacito soprattutto l’opposizione della tirannide. Cap. 12 – Svetonio e la storiografia minore LA VITA E LE OPERE – Nato intorno al 70 d.C. da una famiglia di rango equestre, Gaio Svetonio Tranquillo fu avvocato e funzionario di corte, inizialmente preposto alla cura delle biblioteche pubbliche e poi, sotto Adriano, all’archivio imperiale, nonché alla corrispondenza del principe stesso. Ignoto è l’anno della morte. Della sua produzione rimane il De vita Caesarum, raccolta di biografie degli imperatori da Giulio Cesare a Domiziano, e il De viris illustribus, serie di biografie di letterati e uomini di cultura (conservata solo l’ultima parte). La parte superstite dell’opera svetoniana si inserisce nella tradizione del genere biografico, coltivato a Roma fin dai tempi di Varrone. Le vite conservate nel De grammaticis (parte che abbiamo del De viris illustribus) ha un disegno ricorrente; brevi informazioni su origini e luogo di nascita, sull’insegnamento esercitato, sugli interessi principali e le opere composte. Stesso schema per le biografie imperiali anche se ad un certo punto interrompe l’ordinamento cronologico per passare in rassegna virtù e vizi dei diversi imperatori. L’esposizione non procede per tempora ma per species, ovvero secondo una serie di rubriche che trattano separatamente i vari aspetti della personalità del principe. Nella scelta del genere biografico e nella rinuncia allo schema annalistico, si è voluta scorgere la realistica presa di coscienza della nuova forma storiografica più adatta a fungere da criterio di periodizzazione per l’impero. Sembra nascere dall’intenzione di fornire un ritratto integrale del personaggio, senza atteggiamenti encomiastici. Svetonio si rivolge a un pubblico di funzionari e burocrati che avrà apprezzato il senso di concretezza della sua pagina, la registrazione del particolare curioso, la divulgazione del documento inedito. Senza assurgere al livello della grande storiografia, le Vite dei Cesari costituiscono comunque un documento eccezionalmente ricco di notizie e informazioni per la ricostruzione stoica del primo periodo imperiali (diverso dalle Vite di Tacito). FLORO E LA “BIOGRAFIA DI ROMA” – Floro è un autore di cui non sappiamo motlo se non di una sua opera tramandataci sotto il titolo di Epitoma de Tito Livio bellorum omnium annorum DCC, documentata anche da Svetonio. S’ipotizza che si tratti del Floro, autore del dialogo Vergilius orator an poeta. Il titolo dell’opera storiografica, forse aggiunto da altri, è inadatto perché quello di Floro non è un riassunto da Livio, sua fonte principale ma non certo l’unica. L’opera è interessante perché la XLIV crescita della progressiva della potenza romana viene modellata sullo schema di una crescita biologica. Floro personifica il popolo romano, facendone una sorta di protagonista collettivo della narrazione e ne descrive le varie età. Cap. 13 – Apuleio LA VITA E LE OPERE – Nacque il 125 d.C. in Numidia (estrazione agiata, studiò a Cartagine e Atene). Fu a Roma per qualche tempo e poi viaggiò di nuovo verso l’Oriente. Gli ultimi anni, trascorsi a Cartagine, lo videro al centro della vita pubblica, oratore celebre e apprezzato. Le notizie su di lui si fermano nel 170 d.C. Di Apuleio filosofo sopravvivono il De Platone et eius dogmate, sintesi non originale della fisica e dell’etica di Platone; il De deo Socratis, studio sul demone che Socrate diceva di sentire dentro di sé. Infine il De mundo, rifacimento pseudo-aristotelico Perì kòsmou. Attività oratoria Flòrida, Apologia (autodifesa pronunciata nel processo per magia intentatogli con l’accusa di aver sedotto la moglie). L’Apologia è l’unica orazione giudiziaria del periodo imperiale pervenutaci. Vi era in giro la credenza che Apuleio avesse poteri magici (l’autore stesso, nell’Apologia, sottolinea questa somiglianza tra i poteri del filosofo e quelli dello stregone). APULEIO E IL ROMANZO – Le Metamorfosi sono l’opera più celebre di Apuleio (11 libri). La loro mancata menzione nell’Apologia sembra indicare che all’epoca del processo esse non fossero ancora scritte o comunque non pubblicate. Il titolo Metamorphoseon libri conservato da vari codici subì presto la concorrenza di quello usato da Agostino (Asinus aureus). Il genere a cui di solito ci si riferisce è quello del romanzo anche se all’interno del sistema dei generi tramandatoci dall’antichità, il romanzo sembra mancare di una fisionomia definita, e appare piuttosto come il risultato di un’intersezione di segni diversi. Difficoltà di tracciare un vero e proprio quadro del genere “romanzo”. Altro problema per definire il genere è il rapporto con le fabule Milesiae, cui l’autore esplicitamente riconduce la sostanza dell’opera. L’unica certezza su queste novelle è il loro carattere erotico e licenzioso (Aristide di Mileto, II sec. a.C.). Ad Apuleio si deve forse l’aggiunta dell’elemento magico (che forse era già presente nel modello greco, ma non con una funzione così rilevante). L’autore doveva essere ben conscio dell’innovazione in quanto inserisce una serie di racconti a carattere spiccatamente magico, rappresentando figure come quelle di Socrate, Aristomene e Telifrone, figure molto comuni nella fabula Milesia. Nel romanzo apuleiano, la logica della loro vita appare frustrata, se non ribaltata, nell’urto con lo spietato mondo della magia. I racconti iniziali solo prefigurazioni narrative con la funzione di fornire avvertimenti esemplari al protagonista Lucio, ma sembrano anche corrispondere alla volontà dell’autore di definire la propria opera rispetto al genere in cui essa si inserisce. Altra questione importante sono le fonti complicata la questione di paternità dei singoli brani. Importante è anche la divergenza nel significato complessivo e nel tono del racconto, che il testo di Apuleio presenta rispetto a quello pseudo-lucianeo (una fonte da cui Apuleio potrebbe aver preso spunto). Nelle metamorfosi, l’intera vicenda, pur dichiaratamente finalizzata al semplice svago del lettore, assume i caratteri del racconto esemplare. Amore e Psiche la trama rispecchia tradizioni favolistiche comuni in tutti i tempi: Psiche, figlia minore di un re, per la sua bellezza straordinaria suscita l’invidia di Venere, che ne fa preda di un mostro. La fanciulla, sicura del suo destino di morte, viene portata invece in un bellissimo palazzo e qui incontra il suo sposo, di cui ignora però l’identità (la sua vista le era vietata, pena la separazione da lui). Le due sorelle invidiose la spingono a trasgredire al divieto e Psiche spia Amore mentre dorme immediato distacco e dolorosa espiazione cui Psiche si sottopone, con varie prove, per tornare da lui. La novella si conclude con le nozze e l’apoteosi di Psiche. Tutto il romanzo si configura come un itinerario attraverso un mondo fatto di segni e di simboli letterari, verso una liberazione che si situa nella luce della moralità. La continua compenetrazione tra l’elemento mistico-religioso e il tessuto originario della favola milesia costituisce la qualità originalissima dell’opera. La presenza costante delle riflessioni dell’asino cra un effetto di continuità che uniforma i due livelli di lettura e scandisce il senso complessivo dela vicenza come iter progressivo verso la sapienza. Trama: • Primi 3 libri – Narrano le avventure del protagonista, il giovane Lucio, prima e dopo il suo arrivo in Tessaglia, dove la curiositas ne causerà il coinvolgimento nei sortilegi che animano la città. Un suo errore durante la somministrazione di vari unguenti lo porta a trasformarsi in un aniso, mantenendo le facoltà raziocinanti umane. L’episodio-chiave del romanzo, che muove tutto l’intreccio, è il suo apprendere che per riacquistare le sembianze umane dovrà cibarsi di rose, riuscendo a farlo solo a fine romanzo, dopo una lunga serie di peripezie; • Libri successivi, fino al 10 – Ripercorrono le tragicomiche peripezie di Lucio, che passa per le mani di personaggi di vario genere, rimanendo sempre inosservato sotto le spoglie asinine, diventando testimone di storie varie, come adulteri e morti; • Undicesimo Libro – E’ dominato da un’atmosfera decisamente mistica. La dea Iside predice a Lucio-asino l’imminente recupero della forma umana. Troverà i fiori tanto sospirati in una processione in onore della dea stessa in cui un sacerdote indosserà proprio una corona di rose. Da qui in poi vengono raccontate le varie fasi dell’iniziazione di Lucio che finisce col diventare devoto di Osiride e con l’esercitare a Roma, per volere dello stesso dio, la professione di avvocato. LINGUA E STILE – Visse in epica di fervori arcaizzanti; condivide la predilezione dei suoi contemporanei per la parola obsoleta e per gli autori arcaici, facendola rientrare in una più generale ricerca di letterarietà. Preziosità verbale + consolidata pratica oratoria = piena padronanza di registri diversi. Stile contraddistinto dall’accostamento di arcaismi, neologismi, volgarismi e poetismi mescolati al lessico tecnico della scienza e dei mestieri. Le parole si fanno evocative particolarmente avvertibile la tendenza (di tutta la letteratura latina) di condizionare la forma dell’espressione attraverso il suono. La prosa apuleiana rispetta i canoni della retorica classica, aprendosi però a nuovi ritmi e costruzioni, lasciando presagire la non lontana prosa mediolatina. LA FORTUNA DI APULEIO – Apuleio esercitò un certo fascino sui fermenti dell’ultimo paganesimo e sulla cultura medievale. La fortuna davvero notevole dell’autore è legata al romanzo, la cui diffusione si deve al ritrovamento del codice che ne contiene il testo da parte di Boccaccio, il quale ne fece anche una trascrizione e commentò la favola di Amore e Psiche. Fu tradotto dal Boiardo. Probabilmente influenzò la nascita del genere picaresco in Spagna. Cap. 14 – Filologia, retorica e critica letteraria Lo studio filologico e critico dei testi latini che giunge a piena maturazione nel periodo tra i Flavi e gli Antonini, ha alla spalle una storia molto lunga e complessa. La filologia è molto legata alla stessa natura dell’operazione letteraria, in quanto i poeti romani, dai tempi di Livio Andronico, cominciano come traduttori e rifacitori di testi poetici (spesso greci), che essi devono capire e interpretare con precisione. Le caratteristiche della filologia romana del II sec. a.C. rivelano influssi sia di tipo alessandrino che pergameno. Il lavoro dei filologi latini del II sec. a.C. è ricco e differenziato (es. ricerche di cronologia, problemi di autenticità, studi linguistici, ecc.). Poco sappiamo di vere e proprie attività editoriali, come quelle che stavano rendendo famosa Alessandria e neppure esiste un ceto omogeneo di insegnanti. I grandi maestri del I sec. a.C. sono figure isolate, al centro di circoli e cenacoli privati. La filologia dell’età augustea è segnata dall’imporsi quali nuovi “classici” di Cicerone, Virgilio, Orazio. Queste figure diventano subito per i filologi oggetto di studio e analisi. Igino su Virgilio, questioni di contenuto, ricerche antiquarie, difficoltà di interpretazione. PROBO E FRONTONE – Filologo più importante del I sec., si colloca nell’età dei Flavi ed è il più grande studioso di Virgilio. Probo è lo studioso latino che più si avvicina alla specializzazione di un moderno filologo, e che dedica la parte più rilevante della sua attività alla cura di edizioni attendibili dei classici. Si occupò di Virgilio e Terenzio ma anche di Persio. Probo correggeva gli errori che si erano prodotti nella tradizione manoscritta, apponeva segni diacritici e li spiegava in annotazioni poste in calce al testo. Si procurava manoscritti particolarmente antichi e autorevoli sentendosi particolarmente libero di intervenire sul testo con correzioni e congetture proprie. Vero l’inizio del II sec. d.C. l’attenzione e la cura per gli autori del passato sono favorite dall’affermarsi di un movimento arcaizzante. Capofila del gusto arcaizzante è Marco Cornelio Frontone (Africano nato intorno al 100 d.C., ebbe una notevole carriera politica). Di lui è andata completamente perduta la sua produzione, per la quale era molto celebrato, ovvero le orazioni pubbliche. AULO GELLIO – Fu autore delle Noctes Atticae, raccolta di appunti presi a veglia, durante un inverno trascorso nei pressi di Atene. Argomenti di varie erudizione: da un capitolo sui nomi dei venti ad un confronto tra Cecilio Stazio e Menandro. Ha un estremo interesse per tutta la latinità arcaica ed è appassionato ricercatore di tradizioni antiquarie e di particolarità linguistiche ormai estinte. Cap. 15 – La poesia tra II e III secolo d.C. LA POESIA NEL II SECOLO D.C. – Il II sec. presenta un quadro sociale, artistico e culturale di grande vivacità. I “tempi” della poesia sono diversi: i prosperi anni di Traiano, Adriano, Antonino Pio e Marco Aurelio non vedono un’importante fioritura di talenti poetici. Dall’epistolario di Plinio il Giovane la poesia emerge come un raffinato hobby delle classi elevate e non come una vocazione profonda. La poesia sembra aver perso ogni centralità culturale. XLIV Tertulliano nacque a Cartagine alla metà del II sec. da genitori pagani. Studiò retorica ed esercitò la professione di avvocato in Africa e a Roma. La conversione avvenne solo in età avanzata (forse verso il 195 – morì dopo il 220). Sono famose le sue requisitorie contro i pagani e contro i cristiani avversari nelle dispute dottrinali che accompagnarono gli ultimi anni della sua vita. La difesa della fede diventa un durissimo attacco, efficace grazie alla sua sapienza retorica e allo stile barocco e pesante. Gli scritti principali sono l’Ad nationes e l’Apologeticum, che uniscono sapienza giuridica e passione di chi vede nel sangue dei martiri il seme che frutterà nuove conversioni. L’Ad nationes è indirizzato ai pagani, l’Apologeticum invece ai magistrati e alle autorità dei quali Tertulliano denuncia l’infondatezza giuridica delle persecuzioni, motivate dal semplice nome di cristiani. Altri suoi scritti affrontano problemi morali all’interno della comunità cristiana offrendo una finestra sulla situazione sociale africana tra il II e il III sec. Sosteneva, in altri scritti, che tutte le attività quotidiane erano piene di paganesimo e quindi inaccettabili per il buon cristiano; invitò anche le donne a non uscire di casa a volto scoperto e sostenendo che dovessero vestirsi in modo discreto (misoginia) sosterrà che la donna è il più pericoloso strumento di Satana. È importante il suo operato per aver gettato le basi della formazione della lingua letteraria della latinità cristiana. Anche Minucio Felice fu avvocato, molto più tollerante di Tertulliano. Nacque a Cirta, vivendo a Roma. La sua principale opera è l’Octavius, un dialogo che si svolge sul lido di Ostia e narra di tre personaggi: il pagano Cecilio, il cristiano Ottavio e Minucio stesso. Ottavio rimprovera Cecilio per un gesto di adorazione a una statua del dio Serapide da ciò Cecilio propone di esporre le reciproche ragioni e di nominare Minucio giudice della controversia. Dopo le due esposizioni, il secondo, senza l’intervento di Minucio sostiene di essere stato sconfitto. Cosa ne emerge? Il monoteismo è preferibile al politeismo e i cristiani non commettono nessun misfatto. Minucio si rivolge ai pagani colti, per convertirli e cita abbondantemente gli autori classici, astenendosi dai riferimenti alla Bibbia. La discussione è svolta con serenità e dignità e Minucio rivolge molta attenzione all’aspetto letterario e all’elaborazione formale (Cicerone è un modello presente nella costruzione del periodo). Il cristianesimo di Minucio è quello dei ceti dirigenti favorevoli al cambiamento di religione senza sommovimenti sociali e convinti della necessità di una sopravvivenza della finezza e dell’equilibrio costruiti da secoli di diviltà greco-latina. Il suo è un cristianesimo sincero e autentico ma privo di quella carica rivoluzionaria che aveva affascinato alcuni intellettuali come Tertulliano. GLI APOLOGISTI MINORI – Cipriano, vescovo di Cartagine, fu martirizzato nel 258. Compose vari scritti ad esempio sulla sua conversione, sulle colpe dei pagani e le punizioni divine, sui comportamenti che dovevano tenere le donne che avessero fatto voto di consacrarsi a Dio. Commodiano fu un altro apologista le cui attività sono affidate ad alcune composizioni in metro, come il Carmen apologeticum; l’argomento è la storia del mondo, quella dell’Antico Testamento e quella di Roma, vista come scontro tra Dio e il diavolo, fino all’apocalisse, la distruzione dell’impero e il giudizio universale. Quella di Commodiano, unico a usare il latino, è una voce anomala nel panorama della poesia latina si rivolge alle fasce meno alte della società e nelle sue opere rappresenta le credenze e le aspirazioni dei diseredati. Utilizza quindi una lingua che risente degli sviluppi del parlato e di una metrica ormai priva di continuità con quella dei classici. Nel verso di Commodiano è l’andamento degli accenti tonici, non l’alternanza quantitativa a garantire la tenuta ritmica dell’insieme. Commodiano non conosce molto la dottrina cristiana crede che gli dei pagani siano figli di angeli e donne mortali, è convinto che la fine del mondo sarà preceduta da un’ultima età felice e verrà un regno terreno di Dio in cui i più deboli vedranno esaurire le loro speranze. Questa speranza chiamata millenaristica doveva essere molto diffusa nel cristianesimo degli umili e rispondeva alle esigenze sociali. Da Costantino al sacco di Roma (306 – 410 d.C.) – L’ascesa al trono della dinastia di Costantino torna ad imporre stabilità all’impero. Riforme economiche riuscite, rinnovato centralismo, fortunata serie di vicende militari assicurano all’impero l’ultima stagione di fioritura. In Occidente la vita tende a spostarsi, per la prima volta da secoli, nelle campagne sono i grandi latifondi, come le villae galliche, a garantire ai poveri, una vita più sicura. La Chiesa, che si è ormai saldamente organizzata come struttura di potere, coopera con l’autorità amministrativa, e spesso la sostituisce, quando questa è assente o inerte. La figura del vescovo cresce in prestigio e autorità e progressivamente, soprattutto in Occidente, le principali sedi vescovili vengono occupate da rappresentanti delle grandi famiglie aristocratiche. Con la fine del sec. sotto Teodosio, il cristianesimo diventa l’unica religione dello Stato. Nel frattempo i barbari aumentano la pressione sulle frontiere; dopo la morte di Teodosio (396 d.C.) risulta difficile resistere alla penetrazione germanica. Tuttavia all’inizio vengono in pace, accettano di sottomettersi a Roma, ricevendo cariche ufficiali. Nell’esercito e nell’amministrazione, questi barbari sono spesso fedelissimi funzionari, guardati comunque con sospetto dagli ambienti romani. Nel 406 d.C. il fronte del Reno cede sotto una violenta invasione di alani, Suebi e Vandali. Contemporaneamente, dall’Italia del Nord, muovono contro Roma i Visigoti di Alarico, che nel 410 mettono a sacco la città. Cap. 2 - La letteratura pagana del IV secolo LA CONVERSIONE DELLE MEMORIE PAGANE: grammatica, filologia e discipline erudite. Nonio Marcello – Per combattere il senso della fine di una civiltà si intensifica la conservazione e l’insegnamento dell’antico, ed è nel mondo della scuola che la continuità con la tradizione del passato rimane forte. Parte da questo periodo la produzione di raccolte enciclopediche (summe di lingua e letteratura). Nonio Marcello, africano di età costantiniana, scrisse il De compendiosa dctrina, venti libri di lunghezza diversa, un’opera enciclopedica in campo grammaticale. L’opera è dedicata al figlio e divisibile in due “parti” (dal I al XII libro e dal XIII al XX). La prima parte è più linguistica e grammaticale nonché molto lunga; la seconda è più breve e tratta argomenti singoli (es. navi, abbigliamento, alimentazione) e il suo interesse è legato alla descrizione di usi e costumi romani. La prima parte è organizzata secondo una successione di lemmi, dei quali viene chiarito il significato o l’uso e di tutti da la spiegazione citando autori antichi (molti dei quali li conosciamo proprio grazie ad autori come Marcello). I COMMENTATORI. LE EDIZIONI DEI CLASSICI – I grammatici stendevano anche commenti dei classici. Elio donato è forse il maggiore tra i grammatici del IV sec. e maestro di Girolamo; preparò due trattati di grammatica destinati a diventare, fino al Medioevo, il testo su cui i giovani avrebbero imparato il latino. Scrisse inoltre un commento a Virgilio, perduto quasi tutto, e uno a Terenzio. Molto ricco è il commento di Servio a Virgilio, probabilmente discepolo dello stesso Elio Donato. Il commento risale ai primi anni del V sec. ed è ricco di notizie relative alla composizione, di osservazioni stilistiche e grammaticali. Spazio è riservato anche all’esegesi sono presentate diverse interpretazioni del testo, che vengono discusse e giudicate. In questo periodo l’attività di edizione di testi conosce una buona fioritura e si diffondono edizioni sempre più sicure (passaggio dei libri dal rotolo al codice in pergamena). MACROBIO – Poche sono le notizie su di lui e incerte sono le diverse ricostruzioni; si sa che a Roma percorse una brillante carriera politica avendo rapporti con grandi famiglie dell’epoca (es. famiglia Simmachi). La sua opera principale sono i Saturnali (sette libri), dialoghi articolati in tre giornate introdotti da un prologo tra due personaggi, Decio e Postumiano. Postumiano racconta delle dotte conversazioni che si tennero nel dicembre del 384 nelle case d’importanti esponenti dell’aristocrazia dove alcuni uomini di cultura si erano raccolti per festeggiare i Saturnali (festa per la fine dell’anno). I primi due libri (prima giornata) sono dedicati ad argomenti di varia erudizione, a problemi religiosi e al racconto di motti di spirito degli antichi. La seconda e la terza giornata, descritte nei libri rimanenti, hanno per argomento Virgilio, nelle cui opere gli amici ricercano informazioni di ogni genere e preziosi modelli di stile. L’ambientazione scelta rientra in una tradizione inaugurata dal Simposio di Platone, divenuta fissa, che conferisce alla trattazione una cornice letteraria capace di alleggerire la fatica al lettore e rendere più scorrevole e piacevole l’esposizione (l’ambientazione delle feste e dei banchetti). Il tema di fondo è la presenza e l’eredità della tradizione classica (tradizione poetica e religiosa); vengono affrontate questioni nodali del tardo paganesimo. Gli interessi di Macrobio per la filosofia sono confermati dal suo commento all’ultimo libro del De re pubblica di Cicerone, dal titolo Somnium Scipionis, ricco di osservazioni astronomiche, interpretazioni mistiche e allegoriche. Il manoscritto era accompagnato anche dal testo di Cicerone, garantendone così la “salvezza” a differenza del resto del testo. L’ORATORIA PAGANA: i panegiristi e Simmaco – L’oratoria è un preciso genere letterario canonizzato di recente da retori greci, quello dei panegirici. La principale raccolta conosciuta s’intitola Panegyrici Latini (dodici discorsi rivolti a vari imperatori, risalenti al III e IV secolo). Il più importante è invece il Panegirico di Plinio a Traiano. L’oratore professionista, pronunciando il suo panegirico, svolgeva il compito del pubblicista intento in una campagna di convincimento. Per delineare il ritratto morale del principe doveva scegliere temi di lode, tracciando una graduatoria di valori. Il panegirico riusciva a raccogliere i desideri e le necessità delle popolazioni, o dei circoli colti e presentali al regnante, intrecciandoli abilmente con gli elogi. Ci documentano sulle condizioni di vita e su specifici avvenimenti del periodo. Il più famoso fra gli oratori del IV secolo è Simmaco, prefetto di Roma, console e poi senatore. Di lui ci restano otto orazioni, tre delle quali indirizzate a Valentiniano e Graziano. Fu autore anche di Lettere, epistolario di dieci libri, e di Relazioni, rapporti inviati agli imperatori durante la sua prefettura a Roma. Nella Relatio III Simmaco chiede all’imperatore Valentiniano II di ricollocare nella sede del senato l’altare della Vittoria, rimosso da Costanzo; Ambrogio ottenne che la petizione fosse respinta. Gli antichi esaltavano l’abilità di Simmaco oratore come prodigiosa. Fra i suoi temi principali vi è quello dell’amicizia (reciprocità di favori fra due amici). Lo stile è per lo più gradevole e tendente a una brevità che Simmaco dichiara essere la principale qualità di una lettera. XLIV L’ULTIMA STORIOGRAFIA PAGANA E AMMIANO MARCELLINO – Opera importante dal punto di vista storiografico è l’Historia Augusta, raccolta di biografie degli imperatori da Nerva a Diocleziano, oggetto d’importante questione filologica in quanto i nomi dei sei autori contenuti nei codici non ci sono noti da nessun’altra fonte. Si è ipotizzato potesse essere un falso più tardo ad opera di un solo autore, ma l’orientamento filopagano e anticristiano fa comunque optare per una datazione agli anni di Giuliano l’Apostata, o agli anni sotto Teodosio in cui si ebbe una ripresa pagana. Il modello principale sono le Vitae di Svetonio. Lo storico più importante di tutto il periodo tardo è Ammiano Marcellino (Antiochia, Siria nel 330/335). Apparteneva a una famiglia benestante di lingua e cultura greca; fu ufficiale dell’esercito e partecipò a diverse campagna contro i parti. La sua opera, i Rerum gestarum libri XXXI, partiva dal regno di Nerva (96) e finiva con l’imperatore Valente, alla sua morte avvenuta nella battaglia di Andrianopoli nel 378. A noi rimangono solo i libri che trattano dal 353 al 378. Il punto saliente della parte rimastaci è la sezione di Giuliano detto l’Apostata che abiurò la religione cristiana per un momentaneo ritorno al cristianesimo, e Marcellino gli dedica ben unidici libri. Ammiano vuole presentarsi come prosecutore di Tacito e della sua Historiae, che giungeva fino all’avvento di Nerva. Quindi a differenza di Svetonio, Ammiano, seguendo Tacito, vuole ridare importanza agli eventi piuttosto che ai protagonisti. L’influsso di Tacito si nota anche nell’intento di essere imparziale. Vengono presentati obbiettivamente anche i difetti e vengono mosse critiche all’atteggiamento nei confronti dei cristiani dell’eroe di Ammiano, Giuliano. Sempre a Tacito ci rimanda l’atteggiamento profondamente pessimistico di Ammiano, e la convinzione che lo Stato sia in sfacelo con la scarsa speranza in un futuro in cui Roma possa tornare al suo splendore. Lo stile è enfatico e caratterizzato da un grande uso degli artifici della retorica, difetto forse attribuito alla sua conoscenza limitata del latino, lingua imparata da adulto. In certe descrizioni affiora un gusto per il macabro e il meraviglioso, per l’orrido e il sensuale che produce scene di grande effetto (es. morte di Giuliano). LE STORIE ROMANZATE – Grande successo ebbero, in questo periodo, anche le storie romanzate di argomento orientale, che tornano a raccontare temi del ciclo troiano o le avventure di Carlo Magno. Sono ovviamente letture di piacere destinate ad un pubblico non particolarmente colto ma benestante. Si tratta di rielaborazioni o traduzioni di originali greci. La diffusione in Occidente di questi scritti è parallela alla popolarità del romanzo nell’Oriente grecizzato, un genere avventuroso con il quale queste storie hanno molto in comune. L’opera più nota è l’Ephemeris belli Troiani che riprende un testo greco del I sec. d.C. sulla guerra di Troia. La Historia Alexandri Magni invece si basa su un testo greco, il romanzo di Alessandro, che ebbe grande fortuna in Oriente. LA POESIA PAGANA E IL TEATRO NELLA SECONDA META’ DEL IV SECOLO. Ausonio, Claudiano, il “Querolus” – Le corti imperiali della seconda metà del IV sec. sono importanti centri di produzione poetica presenza di pubblico colto ampio, opportunità di carriere anche brillanti procurate da un carme ben composto, interesse dei regnanti di circondarsi di letterati che potevano diffondere le ideologie dominanti presso i ceti economicamente e politicamente più significativi. Anche i signori iniziarono a dilettarsi nella composizione di scritti. Il tratto comune a questi poeti e letterati itineranti, pronti a scrivere di tutto pur di poter vivere, è la ripresa dei classici dell’età augustea (considerati gli autori di assoluta eccellenza oltre al fatto che il principato augusteo era il modello ideale a cui dichiaravano di volersi ispirare gli imperatori tardoantichi). Si ricorda Rufio Avieno, autore di una traduzione dei Fenomeni di Arato, e di altri due poemetti didascalici di argomento geografico. AUSONIO – Ausonio è sicuramente il poeta più noto della seconda metà del IV sec., proveniente dall’Aquitania. Era cristiano, nonostante la sua erudizione pagana che non nascondeva, anzi tendeva al recupero di una tradizione che riteneva degna di poesia. Nel IV secolo le religioni convivono abbastanza bene e la divisione fra pagani e cristiani non è ancora così netta, persino all’interno di una stessa famiglia. Ausonio fu professore di grammatica e retorica, maestro e poi consigliere dell’imperatore Graziano. Ausonio rappresenta il gusto manierato, a volte frivolo, dell’ultima stagione classicheggiante. Nella sua letteratura non filtrano questioni attuali, del tutto sordo verso i reali problemi sociali, politici ed economici che mirano alla solidità dell’impero. È invece molto attento alla scelta delle parole e predilige i giochi metrici, che dimostrano la sua esperienza di retore uso di vari tipi di verso (polimetria), virtuosismo, eleganza compositiva e formale. Commemoratio professorum Burdigalensium serie di ricordi di professori di provincia, dei quali l’autore immagina di comporre gli epitaffi (interessante spaccato di vita sociale). Parentalia appartengono alla poesia funeraria, sono carmi che il poeta dedica ai suoi cari. Sono presenti espressioni di tenerezza e di affetto, sempre e comunque in modo discreto. Alla fine del IV sec., quando il rischio delle persecuzioni è ormai remoto, si sviluppa un interesse alla ricostruzione di quel passato di violenze e martirii di cui si idealizzano sempre più gli aspetti eroici la combinazione di orrido e meraviglioso attrae il pubblico come testimoniato dalla fortuna che ebbe il genere narrativo delle Passiones nel V sec. Prudenzio è un buon conoscitore dei classici e sceglie come modello rivale Orazio. La mitologia è sostituita da racconti biblici e da narrazioni talora fantasiose di martiri. Nonostante la riconosciuta grandezza dei grandi autori pagani, i poeti cristiani possono per lui confrontarsi con i classici senza timori reverenziali, perché l’eccellenza della materia compensa i limiti soggettivi delle persone. Gli inni prudenziani ebbero grande diffuzione e successo e furono utilizzati per secoli nella liturgia ecclesiastica. Un’altra opera degna di menzione è la sua Psychomachia, poemetto didascalico-allegorico sul combattimento di vizi e virtù (gli scontri sono descritti con gli strumenti della tecnica epica e le personificazioni delle virtù e dei vizi agiscono come personaggi omerici o virgiliani). PAOLINO DI NOLA – Meropio Ponzio Paolino, di Burdìgala (353-431 d.C.) è conterraneo di Ausonio, di cui fu anche alunno, prima di intraprendere la carriera politica, culminata con il consolato nel 378 d.C. Si fece poi prete e si dedicò completamente alla sua comunità, quella di Nola, di cui fu vescovo nel 409 d.C. È stimato interlocutore di intellettuali importanti, come Agostino, ma non ha ambizioni teologiche; ha il suo ideale in un mondo sereno, in cui ogni problema è risolto dall’intervento provvidenziale di un santo. Si tiene lontano anche dal discorso sull’eresie e si tira addosso anche qualche replica per quella che viene scambiata come tiepidezza verso la vera fede, quando in realtà è solo aspirazione di pace e fratellanza. Di lui si conservano una cinquantina di Epistule e una raccolta di Carmina in vari metri, per la metà dedicati a San Felice (patrono di Nola). Paolino pratica con grande adesione il realismo umile dei cristiani, l’estetica dell’attenzione alla realtà dei semplici, anche se lo stile e la lingua sono sostenuti e difficili. Prudenzio e Paolino rappresentano due diversi aspetti della poesia cristiana di questi anni: • Prudenzio deve tutto ai suoi studi e alle sue capacità professionali, è espressione del ceto medio di funzionari dello Stato, che costituiva la spina dorsale del tardo impero; • Paolino appartiene alla ricca nobiltà senatoria e può compiere il gesto di rinunciare ai suoi beni per essere vicino ai poveri. Da tali differenze si evince anche il diverso ruolo assegnato dai due scrittori alla poesia: • Prudenzio, vissuto a corte, vuole realizzare il proprio cristianesimo attraverso la letteratura e dare ala fede una nuova voce poetica; • Paolino punta alle realizzazioni materiali, che sono, del resto, di sua competenza essendo egli vescovo. Il nobile Paolino ha sicuramente ambizioni minori rispetto al funzionario Prudenzio. La sua passione per la vita dei contadini è le storie degli animali, i suoi argomenti preferiti, lo avvicinano al modello che si era proposto, quello di Virgilio e delle sue Bucoliche e Georgiche. Cap. 4 - I Padri della Chiesa Gli scrittori della II metà del IV sec. sono chiamati “Padri della Chiesa”, in quanto è grazie alla loro mediazione tra cristianesimo e cultura greco-latina che l’analisi dei problemi religiosi ed etici arriva a profondità mai raggiunte prima. I tre principali sono Ambrogio, Girolamo e Agostino. AMBROGIO – Nacque intorno al 339-340 d.C. in Germania, dove suo padre risiedeva come prefetto del pretorio per la Gallia. Si recò a Roma per completare la sua formazione e qui Ambrogio frequentò le migliori scuole e cominciò la propria carriera pubblica. Fu in seguito inviato a Milano, in pratica come governatore di tutta l’Italia settentrionale. Nel 374, alla morte del vescovo di Milano Aussenzio, ariano, per scongiurare uno scontro tra ariani e ortodossi, fu nominato proprio Ambrogio come vescovo, apprezzato per le sue capacità di mediazione. Restò in carica fino alla sua morte, nel 397, divenendo, grazie alla sua personalità vigorosa che in alcune occasioni ha oscurato anche alcuni papi, la vera autorità della Chiesa d’Occidente. Si assiste con lui a una delimitazione dell’autorità decisionale dell’imperatore, il quale, in quanto cristiano, è soggetto alla Chiesa per tutte quelle iniziative politiche che hanno rilievo sul piano morale. Più controverso è invece il ruolo di Ambrogio nella storia della letteratura latina. Gli Inni sono ritenuti la sua opera migliore (quelli autentici sono solo quattro), la cui genuinità è garantita dalla testimonianza di Agostino. Sono scritti in diametri giambici acatalettici. La storia di tali inni è raccontata dallo stesso Ambrogio. Il successo che ebbero presso i fedeli fece si che gli inni entrassero stabilmente nella liturgia milanese e poi in tutta quella cristiana. Molto importante è anche l’epistolario, che alterna lettere private e ufficiali, in cui trova posto la cronaca delle principali vicende del ministero di Ambrogio. XLIV Bisogna ricordare il De officiis ministrorum, dedicato alla definizione dei doveri ecclesiastici, sul modello del De officiis ciceroniano, e, fra le opere esegetiche, l’Hezameron, commento in sei giorni della creazione, come sono narrati nel libro della Genesi. Qui l’autore mostra l’ingenuo stupore dell’uomo che vede la natura del creato per la prima volta e una raffinata esposizione descrittiva che usa al meglio le figure retoriche tradizionali. GIROLAMO – Nacque a Stridòne, in Dalmazia, verso il 347 d.C. Fu a Roma nel 354, studiando con maestri quali Mario Vittorino e Donato. Viaggiò molto, soprattutto in Occidente, dove imparò il greco e fu ordinato sacerdote. Tornato a Roma, fu scelto da papa Damaso come suo segretario. Alla morte del papa però, il suo prestigio declinò rapidamente. Fu criticato per gli eccessi del proprio rigore ascetico e abbandonò Roma nel 385 per l’Oriente e trascorse l’ultimo periodo di vita in Palestina, dove morì in uno dei conventi da lui fondati, nel 419 o 420 d.C. Di lui abbiamo scritti agiografici e di polemica religiosa, commenti a vari libri dell’Antico e del Nuovo Testamento e un epistolario che tocca molteplici argomenti. Uno tra tutti la sua abiura del classicismo (sogno mentre era in Terrasanta, dove il giudice divino gli è apparso accusandolo di essere “Ciceronianus”, non cristiano). La promessa non fu mantenuta e i rapporti di Girolamo con Roma e la sua cultura rimasero comunque molto intensi. L’opera principale di Girolamo è la Vulgata, la traduzione in latino della Bibbia. Durante il periodo romano Girolamo allestì la traduzione dei Vangeli e una versione dei Salmi (effettuata dal testo greco definito “dei Settanta”, che traduceva a sua volta l’originale ebraico). Girolamo si convinse presto della necessità di lavorare direttamente sull’ebraico, senza passare per il testo greco; in quindici anni di lavoro costante, fra il 391 e il 406 d.C. l’opera fu completata. Con la traduzione di Girolamo, l’Occidente ebbe finalmente un testo unitario e abbastanza attendibile, destinato a rimanere praticamente fino a oggi come unica versione autorizzata circolante in tutti i Paesi. La Vulgata non entrò nelle simpatie di tutti in modo immediato, e questo dovuto anche alle resistenze di Agostino che vedeva nello svincolamento del testo dei Settanta, un pericoloso fattore di allontanamento della Chiesa d’Occidente da quella d’Oriente, che in quella versione della Bibbia aveva il proprio testo ufficiale. I rapporti fra le due Chiese andavano progressivamente deteriorandosi; in compenso, la Vulgata rappresentò per l’Occidente devastato e diviso dalle invasioni germaniche, un fondamentale momento di aggregazione, e così fu anche per l’Europa del Medioevo. Fervido lettore di poeti classici, è grazie a lui che conosciamo alcune notizie importanti su di essi; tradusse la Cronaca di Eusebio, integrandola con notizie relative al mondo latino. Nonostante alcune inesattezze, la Cronaca resta l’unico testimone di notizie preziose, fra l’altro attinte dal perduto De poëtis di Svetonio, che Girolamo poteva ancora leggere. Da Svetonio trae il titolo l’altra opera storiografica di Girolamo, il De viris illustribus, che contiene una serie di biografie di scrittori cristiani. Sono valutazioni molto personali; da essa si evince che Girolamo preferisca figure religiose e ascetiche, come Tertulliano, mentre maltratta esponenti della secolarizzazione della Chiesa, come Ambrogio. AGOSTINO – Africano, della Numidia (Africa settentrionale), Agostino nacque intorno al 354 d.C. Studiò prima a Madaura e poi a Cartagine. A 19 anni legge l’Hortensius di Cicerone, che gli causò una profonda crisi spirituale, che lo portò ad accostarsi alla dottrina del manicheismo. Nel 384 d.C. fu chiamato a Roma per svolgere la funzione di insegnante. Più tardi, sotto raccomandazione di Simmaco, capo dei senatori pagani, ottenne la cattedra di retorica a Milano. Qui, gli stretti rapporti con i circoli neoplatonici, l’ascolto delle prediche di Ambrogio, la compagnia della madre Monica, fervente cristiana, lo portarono alla definitiva conversione. Ricevette il battesimo nel 387 e tornò poi in Africa nel 395 per diventare vescovo di Ippona fino alla sua morte, nel 430, durante l’assedio che i Vandali avevano posto alla città. Le sue teorie hanno condizionato gran parte del Medioevo, fornendo i fondamenti teorici delle dottrine della Riforma protestante. Le sue argomentazioni filosofiche sono sottilissime e straordinariamente moderne (scoperta della relatività del tempo, che non è una categoria assoluta ma esiste in rapporto ai singoli soggetti, che di questa categoria si servono). Importanti sono anche le considerazioni sul rapporto fra destino, grazia divina, peccato originale e libero arbitrio, che lo portano a una complessa dottrina che respinge contemporaneamente sia le posizioni manichee sia quelle del pelagianesimo. Agostino fu forse il più prolifico scrittore dell’antichità. Secondo il calcolo di un suo discepolo, egli compose almeno 1000 scritti, la maggior parte dei quali è arrivata a noi. L’opera più letta e celebrata sono comunque le Confessiones (tredici libri), il cui titolo non si riferisce a una confessione di peccato ma significa piuttosto “lode, esaltazione di Dio”. Le scrisse nei primi anni di vescovato, e contiene, almeno nei primi nove libri, un resoconto autobiografico in cui Agostino traccia la storia del proprio itinerario spirituale, dai primi passi ostacolati dal peccato, fino alla conversione, e infine, alla morta della madre. Con il libro decimo l’autobiografia lascia posto a riflessioni filosofiche che negli ultimi tre libri sono sviluppate sotto forma di commento al testo biblico della creazione. Protagonista è Agostino, che non si descrive come un personaggio straordinario per il ruolo che ricopre o per le sue vicende, ma come un comune peccatore. Gli avvenimenti narrati non sono eccezionali ma diventano tali in quanto Agostino riconosce la loro importanza nel suo cammino spirituale. Nelle confessioni Agostino tocca livelli di analisi psicologica mai raggiunti e difficili da trovare anche in opere di epoche successive; l’angoscia per il peccato, i drammatici travagli delle crisi spirituali, la famosa scesa della conversione, con la voce infantile che ripete come una cantilena “tolle lege”, “prendi e leggi”. Sono tutti quadri di grande effetto, per l’abilità di enfatizzare il sentimento, di mescolare al pathos un linguaggio lirico forte di coloriture poetiche, in cui anche le frequenti reminiscenze bibliche cerano un’atmosfera di commossa sacralità. Oggi le Confessiones verrebbero sicuramente considerate come appartenenti al genere autobiografico ma all’epoca ciò doveva risultare meno ovvio in quanto mancavano molte informazioni tradizionalmente presenti nel genere biografico come ad esempio notizie suo genitori, la città natale, il corso degli studi. Oltre ad essere una delle pochissime autobiografie antiche, l’opera è la prima autobiografia nel senso moderno del termine, con toni prevalentemente introspettivi, e diventerà modello per figure quali Petrarca, Lutero e Calvino, i mistici spagnoli e soprattutto Pascal. L’altro grande capolavoro di Agostino è il De civitate Dei, 22 libri, composti e pubblicati per gruppi tra il 413 e il 427 d.C. Dopo il sacco di Roma del 410, i pagani accusarono i cristiani di aver provocato l’indebolimento e la rovina dell’impero. È contro queste accuse che Agostino concepisce il disegno dell’opera. Egli teorizza l’esistenza di due città, la città terrena, che è del diavolo, e la città celeste, di Dio, che coesistono intrecciate nella realtà del mondo e addirittura all’interno di ogni singolo individuo. Gli stati, espressione della città terrena, sono destinati a morire, ma la città di Dio è eterna. Idea innovativa la storia non deve più essere storia di nazioni ma storia dell’umanità, in contrasto con tutte le teorie storiografiche de pagani, che avevano sempre scritto storie degli imperi. Con la “Città di Dio”, Agostino da un fondamentale contributo all’edificazione di un sistema ideologico del cristianesimo e rompe con quell’aristocrazia pagana della quale, all’inizio della sua carriera, era stato un protetto. Agostino non manca di smitizzare il grande passato dei romani, rifugio idealizzato in cui la cultura pagana cercava scampo contro l’amara realtà del presente. Mostra con ironia che la storia romana non è affatto piena di exempla morali disastri di ogni tipo erano gravi e frequenti nel passato come nel presente, i romani non erano ne peggiori ne migliori di altri popoli. Il pubblico cui Agostino si rivolge è abituato a pensare in termini di storia romana, come dell’unica storia esistenza, e il De civitate è una minuta polemica contro i fatti, persone, credenze relative alla storia di Roma. Dimostra una grande conoscenza degli storici classici e dei loro più recenti continuatori. Dichiara che gli uomini non sono sempre esistiti, ne sono destinati a esistere per sempre, e che l’inseparabile mescolanza delle due città diventerà alla fine separazione. Altre opere: • Dialoghi di Cassiciàco; • Soliloquia (dialogo fra Agostino e la Ragione sulla conoscenza di Dio e dell’anima – due libri); • De musica; • De magistro (dialogo con il figlio sui metodi e i limiti dell’insegnamento scolastico); • De Trinitate; • De doctrina Christiana (analizza i rapporti fra la retorica cristiana e la retorica classica); • Sermones. Uomo di Chiesa, riteneva suo dovere raggiungere il più debole e incolto dei suoi fedeli, si sforzava di scrivere per tutti e non soltanto per un’élite di studiosi. Lo stile varia da opera a opera, nei sermoni cerca di essere più colloquiale, con la ripetizione di singoli nessi e singoli termini in modo da imporre alla memoria dei fedeli alcuni concetti fondamentali. Uno stile che presuppone una lettura a voce alta, come era quella degli antichi. Da Onorio a Odoacre (410 – 476 d.C.) e la fine dell’impero d’Occidente – La caduta dell’impero segna, prima della deposizione dell’ultimo imperatore, il progressivo frantumarsi di ogni controllo centralizzato. L’Oriente fa già storia a parte; è meno ferito dalle invasioni e sopravvivrà ancora per un millennio. Le province occidentali invece perdono ogni forma di legame con l’Italia. Vandali, Alani, Suebi e poi Visigoti, Franchi, Burgundi, si assediano su un acro che va dall’Africa romana alla Gallia. La Britania viene abbandonata dalle legioni ancor prima che sbarchino gli invasori Angli e Sassoni. I ceti umili sempre più esasperati dalla tassazione passano alla rivolta, mentre i grandi latifondisti e i ricchi senatori armano eserciti privati per difendersi. L’amministrazione e la burocrazia rimangono quelle romane, come anche l’aristocrazia fondiaria e quella ecclesiastica. L’unica vera XLIV