Scarica RIASSUNTO MATERIA PSICOLOGIA DELL'EMERGENZA e più Sintesi del corso in PDF di Psicologia Clinica solo su Docsity! 1 RIASSUNTO Gli operatori dell’emergenza. Fattori di rischio e protezione RIASSUNTO MATERIA PSICOLOGIA DELL’EMERGENZA Università Kore di Enna Prof. Calogero Iacolino Testi di riferimento Iacolino, C. (2016). Dall’emergenza alla normalità. Strategie e modelli di intervento nella psicologia dell'emergenza. Milano: Franco Angeli. Iacolino, C. (2018). Il trauma psicologico. Nuove frontiere di ricerca. Milano: Franco Angeli. Iacolino, C. & Cervellione, B. (2019). Gli operatori dell’emergenza. Fattori di rischio e di protezione. Milano Franco Angeli. Cervellione, B., Rossi, S., Carbone, R., Ferracane, G., Lombardo, E.M.C., Pedrelli, E., Sozzi, A., Artioli, G., Sarli, L., Iacolino, C. (2021). The intervention of the emergency psychologist: the SIPEM SoS Emilia Romagna during the first lockdown from COVID-19. A retrospective study Acta Biomed: Health Professions. Vol. 92 No. S2 2 RIASSUNTO Gli operatori dell’emergenza. Fattori di rischio e protezione 5 RIASSUNTO Gli operatori dell’emergenza. Fattori di rischio e protezione Psicologia dell’emergenza, stato dell’arte Allo stato dell'arte attuale, sono tre i principi fondamentali della psicologia dell'emergenza: - Pianificazione degli interventi: gli interventi non devono essere concepiti come momenti di improvvisazione, ma devono seguire ad attività di previsione, ossia di studio insieme agli altri operatori dell'emergenza, dei rischi a cui quello specifico territorio è soggetto,; attività di prevenzione, ossia di redazione insieme agli altri operatori, di un piano di emergenza teso a prevenire e ridurre i danni alle persone ed alla comunità; attività di soccorso, ossia assistenza alle persone coinvolte dall’emergenza. - Specificità degli scenari: gli scenari in cui si potrebbe svolgere l'intervento di assistenza possono essere suddivisi in: o eventi naturali, determinati da fenomeni della natura, eruzioni, terremoti, alluvioni, esondazioni. o eventi antropici, ossia derivati dall'azione dell'uomo, atti terroristici, conflitti armati, radiazioni nucleari, incidenti ferroviari ed aerei, incendi, inquinamenti, violenze di massa. o eventi antropico-naturali, ossia quella categoria di gravi eventi in cui la mano dell'uomo crea le condizioni che rendono disastrosi gli eventi naturali. - Peculiarità e finalità specifiche dell’intervento di assistenza psicologica nelle emergenze collettive: quando avviene una calamità importante il principale obiettivo degli interventi e ristabilire l'equilibrio della comunità colpita. I servizi di salute mentale per la calamita mirano a ristabilire il funzionamento psicologico e sociale delle persone e delle comunità e a contenere l'occorrenza e la gravità degli effetti negativi di salute mentale correlati alla calamità. ➢ Articolazione dell’intervento in base alle fasi dell’evento Esperienza e ricerca hanno messo in evidenza che non si deve pensare ad un generico intervento, ma all'intervento per quella specifica fase dell'evento emergenziale, che deve avere gli obiettivi di quella fase, che devono essere perseguiti con gli strumenti operativi più adatti a quella fase. Le fasi in cui l'intervento emergenziale viene articolato sono tre: impatto, riorganizzazione e ricostruzione, anche se la terminologia più utilizzata ai giorni nostri è emergenza, post-emergenza e ristabilizzazione. ➢ Tipologia degli interventi in psicologia dell’emergenza In questo ambito si possono distinguere quattro categorie di intervento, ognuna delle quali ha una base teorica ed un obiettivo definito che riguarda una particolare combinazione di scopo e oggetto. - interventi terapeutici. Lo scopo terapeutico rivolto all’individuo è primariamente servito dalla psicoterapia, nelle sue diverse forme. La psicoterapia può svolgersi anche in gruppo, ma il suo scopo finale è comunque la riduzione della sofferenza e della malattia psichica individuale. - interventi psicosociali. Quando lo scopo terapeutico è rivolto ad una comunità colpita esistono una serie di interventi psicosociali che mirano soprattutto a ricostruire le forme di convivenza comuni e a favorire il benessere di quella particolare ecologia e cultura. Si tratta di interventi terapeutici, anche se non si può terapeutici, perché sono mirati alla ricostruzione di un benessere possibile per un certo gruppo e contesto. Intervento psicosociale è un intervento mirato al benessere psicologico dell'intero gruppo sociale ed implica una partecipazione attiva delle comunità colpite. - interventi psicoeducativi. Quando lo scopo è primariamente comunicativo possiamo avere interventi di tipo psico educativo mirato dell'individuo. L'intervento mira a fornire informazioni che possono essere utili al singolo individuo, anche se l'attività pratica può essere condotta in gruppo. L'intervento psicoeducativo tende ad inserire nella mente di chi lo riceve informazioni e contenuti che gli consentono un migliore fronteggiamento personale della situazione di emergenza. - interventi di formazione. Viene fornita dallo psicologo dell'emergenza esperto nei risvolti psicologici conseguenti ai disastri ed ai traumi, e si rivolge a tutte le figure che hanno un qualche ruolo nella riduzione e nella gestione di un disastro, piccolo o grande che sia, dalle forze dell'ordine, ai vigili del fuoco, alla protezione civile, agli amministratori, ai volontari, ai giornalisti. La formazione può essere fatta in molti modi, inclusa la partecipazione attiva ai gruppi pluridisciplinari ed ai comitati tecnici che gestiscono le emergenze. 6 RIASSUNTO Gli operatori dell’emergenza. Fattori di rischio e protezione ➢ Tutela della salute psicofisica del soccorritore. Tra i molti compiti della psicologia dell'emergenza, quello della tutela del soccorritore dai disturbi legati allo stress è uno dei compiti su cui non solo c'è accordo unanime tra gli operatori, ma che viene persino sollecitato dalla normativa in vigore. Tutto questo perché l'esperienza e la ricerca hanno messo in evidenza che il soccorritore è tra le persone maggiormente a rischio di sviluppare disordini psichici nelle situazioni di emergenza, tanto che sulla scala dei livelli di vittimizzazione che si articola su 6 diversi livelli, il soccorritore è collocato al terzo livello, subito dopo le vittime dirette, dette vittime di primo livello, ed i parenti delle vittime dirette, dette vittime di secondo livello. Dobbiamo precisare che la traumatizzazione del soccorritore può avvenire in maniera acuta ed in maniera progressiva. Infatti, il soccorritore può arrivare a manifestare mutamenti a carico del proprio equilibrio psicologico sia nell'immediato, perché durante le operazioni di soccorso ha assorbito fino a superare le proprie capacità di tolleranza l'atmosfera cruenta e dolorosa dell'evento traumatico, sia successivamente, per via empatica, assistendo alle sofferenze delle vittime ed ascoltando le loro descrizioni dell'evento. ➢ Tutela della salute psicofisica nelle emergenze individuali. Alla psicologia dell'emergenza collettiva, che riguarda la comunità, va affiancata anche il settore della psicologia dell'emergenza che riguarda l'individuo ah, il micro sistema familiare, nel momento in cui la persona si confronta con eventi capaci di compromettere più o meno gravemente gli equilibri individuali o familiari del soggetto colpito. Questo settore si occupa degli eventi traumatici che colpiscono le persone che nella loro vita privata subiscono direttamente l'evento traumatico virgola le persone che si trovano ad assistere all'evento traumatico che subisce un'altra persona e le persone che vengono a conoscenza o si confrontano con eventi gravi successi a persone care. Gli ambiti principali in cui possiamo riunire gli eventi traumatici individuati sono essenzialmente due: gravi eventi esistenziali, come violenti aggressione fisiche e psichiche, stupro, errori giudiziari, sequestro di persona, gravi incidenti stradali e del lavoro, molti cruente premature e inattese, riduzione in schiavitù; e gravi situazioni cliniche, come venire a conoscenza della morte di una persona cara, venire a conoscenza che ad una persona cara è stata fatta una diagnosi di male incurabile, vivere l'imminenza della propria morte, vivere l'esperienza di subire gravi danni, amputazioni e menomazioni, vivere l'esperienza di cure ed interventi ad alto rischio e con scarse probabilità di successo. 7 RIASSUNTO Gli operatori dell’emergenza. Fattori di rischio e protezione CAPITOLO 2 IL COLLOQUIO IN EMERGENZA Il pronto soccorso psicologico Il colloquio è uno dei principali strumenti nella cassetta degli attrezzi dello psicologo, e dovrebbe trovare un'adeguata valorizzazione all'interno della progettazione dell’assistenza psicosociale alla popolazione, già nelle primissime fasi che seguono il verificarsi di un evento traumatico. Le ricerche hanno empiricamente dimostrato che l'atto di portare alla mente il ricordo di un evento sia frutto anche di influenze operanti nel presente. Intervenire nella fase di codifica, consolidamento, immagazzinamento e primo recupero dell'esperienza traumatica significa avere la possibilità di operare sull’esperienza soggettiva del ricordo prima che i contenuti trovati ci siano cristallizzati. Inoltre, i tempi ed i modi del ristabilimento delle condizioni di sicurezza e fiducia si saldano con le componenti traumatiche, ea seconda di come vengono condotti possono gravare o alleggerire significativamente le condizioni psichiche della vittima. La possibilità di essere pienamente riconosciuti e rispettati appare decisiva, chi non viene accolto come persona con il medesimo valore e la medesima dignità è completamente ferito. Il colloquio vs il colloquio in emergenza Le principali caratteristiche che differenziano il colloquio in situazioni di emergenza da quello tradizionale riguardano il setting e gli obiettivi. In ambito emergenziale, la persona da soccorrere viene raggiunta dallo psicologo direttamente sul luogo e nei centri di prima accoglienza, oppure potrebbe essere necessario recarsi nell'abitazione della vittima. L'assenza di una situazione ambientale controllata e prevedibile come quella che troviamo nello studio professionale non è di ostacolo e permette di perseguire quegli importanti obiettivi di primo soccorso che ci affida la direttiva sui criteri di massima sull' intervento psicosociale in emergenza, ovvero la messa in sicurezza, l'identificazione attiva dei bisogni, la valutazione psicologica e la comunicazione di tutte le informazioni utili ad attivare comportamenti auto protettivi e di riorientamento adattivo, ha fatto però di mantenere un'accurata attenzione alle altre componenti del setting quali l'ambiente interno soggettivo dello psicologo e l'ambiente istituzionale. Un’adeguata formazione clinica, teorica e pratica, unita ad un'attenta valutazione delle attitudini dello psicologo ad operare in questo campo, saranno importanti fattori di protezione personale per il professionista e condizioni determinanti per l'efficacia dell’intervento. È superfluo dire che operare in emergenza richiede consolidate competenze professionali, oltre ad un costante monitoraggio delle proprie condizioni psicofisiche, e che sono da evitare inutili eroismi. Un setting interno elastico ma anche solido contenitore di pensieri ed emozioni e sostenuto essenzialmente dalla professionalità e dall'esperienza dello psicologo, ma anche dalla fiducia che il professionista ripone nel sistema dei soccorsi e nella rete di sostegno che le istituzioni saranno in grado di offrire. Condurre il primo colloquio in emergenza Obiettivi del colloquio sono stabilizzare, prevenire altri traumi che possono avvenire a ridosso dell'evento, dovuti anche alla qualità dell'assistenza ricevuta, ed agevolare l'apertura alla via interiore ed al lavoro su se stessi per far fronte in maniera positiva all'evento traumatico. Il primo approccio alla vittima deve sempre essere preceduto da un'auto presentazione, completa di informazioni sul ruolo dello psicologo e sul mandato a lui affidato. Nel corso del primo colloquio è importante mettere le basi per una relazione di fiducia della persona coinvolta con il mondo del soccorso e con i servizi di salute mentale che prenderanno in carico eventuali problematiche nei giorni, mesi o anni successivi. Si tratta di avviare un'alleanza che non deve coinvolgere in modo esclusivo lo psicologo soccorritore, ma indirizzare verso uno spazio, possibilmente non solo mentale, di cura del sé e di fiducia nell’altro. Anche se le vittime sono numerose, deve essere posto uno sforzo costante nel riconoscimento dell'individualità di ciascuno per fornire un'assistenza che parta dai bisogni espressi, anche il più concreti e semplici. È importante curare l'accoglienza, agevolare i ricongiungimenti familiari ed ascoltare le richieste sostenendo le persone nell’espressione dei bisogni e nell'elaborazione delle 10 RIASSUNTO Gli operatori dell’emergenza. Fattori di rischio e protezione 11 RIASSUNTO Gli operatori dell’emergenza. Fattori di rischio e protezione CAPITOLO 3 IL TRIAGE NELLE GRANDI EMERGENZE Origine e significato del termine triage Il termine triage deriva dalla parola francese “trier” che significa letteralmente operare una selezione, una scelta. In Italia, nell'ultimo trentennio del novecento, è avvenuta una rivalutazione ed una riformulazione del concetto di triage in ambito sanitario ospedaliero e territoriale. Le regole che sono oggi alla base del triage si basano su criteri completamente opposti a quelli che sostenevano le pratiche di triage nelle emergenze militari nei secoli scorsi. Mentre allora venivano soccorsi prima i feriti che presentavano condizioni cliniche che con poche cure ed in poco tempo potevano guarire e tornare a combattere, oggi, secondo criteri prestabiliti e condivisi, si individuano le persone che per la loro situazione clinica hanno più urgenza di trattamento e si assistono per prima quelle persone e poi via via quelle con situazioni cliniche meno gravi. Per il sistema nazionale di emergenza tu, di cui fanno parte le centrali operative del 118, il pronto soccorso, i dipartimenti ospedalieri di emergenza, le rianimazioni e le terapie intensive, il triage consiste in una procedura di valutazione delle condizioni cliniche e delle possibilità prognostiche di un gruppo di pazienti, per determinarne le rispettive priorità di trattamento. I pazienti ad essere trattati per primi saranno quelli appartenenti alla classe di priorità più elevata, seguiti da quelli assegnati alle categorie via via inferiori. Questa nuova concezione del triage, che ha come principio fondamentale il doversi dedicare prima di tutto e soprattutto alle persone con il quadro clinico più grave o con un maggiore rischio di evoluzione patologica, oltre che modificare il criterio di accesso alle cure del primo soccorso ribalta completamente la filosofia precedente del triage e crea un nuovo concetto di triage rispetto a quello che la storia ci ha consegnato. La moderna concezione del triage La moderna concezione del triage si delinea negli anni settanta negli stati uniti, dove ogni cittadino stipula una propria copertura assicurativa per ricevere le cure mediche. In quegli anni, a seguito di politiche sanitarie che determinarono per ampie fasce della popolazione l'impossibilità di stipulare le necessarie coperture assicurative per accedere alle cure mediche, moltissime persone si recavano al pronto soccorso per ricevere cure. Ogni pronto soccorso era in condizioni di sovraffollamento per le numerose richieste di interventi ritenuti urgenti dai cittadini e che in moltissimi casi non avevano, invece, reale carattere di urgenza. A causa del sovraffollamento si verificarono vari casi in cui per assistere persone con una soggettiva situazione di urgenza non può possibile prestare cure immediate a chi ne aveva realmente bisogno e da questo non appena una gestita di creare un sistema di cernita che permettesse di accedere a visita e cure in base all'effettivo grado di urgenza e rischio di vita. In Italia, nel 1996 vennero emanate le linee guida per il sistema emergenza urgenza, nelle quali si afferma che l'intervento del dipartimento di emergenza urgenza e accettazione deve essere prevista la funzione di triage come primo momento di accoglienza e valutazione dei pazienti in conformità a criteri definiti che consentono di stabilire le priorità dell'intervento. Sia il triage medico che quello psicologico si fondano sulla necessità di far fronte con risorse umane limitate a richieste di assistenza formulate da numerose persone e contemporaneamente, in questo il triage trova senso e ragione di essere attuato. È nella quantità di richieste da fronteggiare che trova senso il dover separare chi ha più urgenza di ricevere visita e terapia da chi ne ha meno, e quindi può aspettare. Un'altra osservazione importante è che in nessun caso, né sul piano medico né su quello psicologico, il triage sostituisce l'intervento, la visita, il trattamento medico o il supporto psicologico. Il triage, infatti, non è la cura, ma il processo per decidere che è urgenza a quel determinato paziente di accedere alle cure del medico in pronto soccorso, o dello psicologo, in una situazione di grande emergenza. 12 RIASSUNTO Gli operatori dell’emergenza. Fattori di rischio e protezione Concetto e obiettivo del triage psicologico Il triage psicologico è un'azione, o meglio un processo, accoglitivo-valutativo-decisionale, che si effettua attraverso l'uso di criteri valutativi e modalità operative prestabilite, che consentono valutazioni uniformi del paziente, articolate in momenti successivi e ben definiti, che sono: - Accoglienza (disponibilità, empatia, rassicurazione, normalizzazione); - Riconoscimento (dei segni, dei sintomi e del problema principale); - Attribuzione (del codice di priorità). Il triage psicologico è il processo attraverso cui si arriva a stimare l'urgenza, per quel determinato soggetto, in quel determinato momento, di ricevere e percepire sostegno psicologico. Il triage psicologico va concepito come una procedura preliminare ai successivi interventi di visita psicologica e supporto psicologico, funzionale alla determinazione di un ordine di accesso al trattamento psicologico. La domanda a cui deve dare risposta lo psicologo, attraverso il processo di triage è: al fine di tutelare la funzionalità e prevenire lo scompenso, il soggetto che sto osservando deve ricevere sostegno subito o può aspettare? Differenze tra triage psicologico, screening e psicodiagnosi Il triage psicologico non deve essere affatto considerato un atto o un processo diagnostico. Il triage psicologico infatti va considerato come un processo valutativo che mira ad individuare chi ha bisogno di intervento psicologico urgente e chi no, in modo da concentrare l'azione clinica su chi ha più urgenza di essere trattato. Con il triage psicologico per veniamo ad una stima della differibilità dell'intervento, non ad una diagnosi, che sarà effettuata successivamente da coloro che prenderanno in carico le persone che presentano un quadro psichico con i caratteri dell’urgenza clinica. Molto diversa è la finalità degli screening oh, che si effettuano su persone che al momento non mostrano nessuna urgenza di trattamento, ma rispetto alle quali noi supponiamo che, per effetto di ciò che hanno vissuto in situazioni di emergenza, potrebbero sviluppare in tempi successivi alcune difficoltà psicologiche correlate all'evento emergenziale vissuto. Gli screening, al contrario del triage, portano l'attenzione valutativa non sulle persone che già presentano un quadro più o meno evidente e difficoltà, ma sulle persone che non presentano al momento un bisogno manifesto di trattamento, ma per le quali noi teniamo che potrebbe sorgere successivamente il bisogno di ricevere aiuto. Necessità del triage psicologico Spesso nelle situazioni di maxi emergenza si crea una proporzione tra risorse umane disponibili e bisogno di assistenza della popolazione colpita. Nelle grandi emergenze spesso ci si trova nella situazione di dover distribuire una quantità limitata di risorse ad un elevato numero di pazienti. La forte probabilità, qui, che in situazioni di emergenza collettiva ci si possa trovare in un evidente sproporzione tra la consistenza delle richieste di aiuto e l'esiguità del numero degli psicologi disponibili per fronteggiare le rende evidente la necessità di uno strumento che consente di svolgere una selezione nel modo migliore possibile, è lo strumento migliore è il triage. Tutto questo implica che se lo psicologo delle emergenze collettive non fosse formato al triage e non si attrezzate con schede e criteri di triage, si troverebbe a dover decidere chi assistere e chi non assistere, chi trattare prima e chi dopo, si troverebbe cioè ad effettuare delle scelte, delle selezioni, ma in maniera improvvisata, secondo criteri soggettivi e non sostenuti da precedenti momenti di analisi. Ogni psicologo, si troverebbe infatti a prendere decisioni in base alla propria esperienza, alle proprie conoscenze ed alle proprie capacità di organizzarsi, con tutti i rischi connessi a fare questo in una situazione di emergenza, quando è già difficile fare anche ciò che è chiaro, ben definito e di cui si ha esperienza. Il triage psicologico alla luce dei criteri di massima del 2006 Con la direttiva del Presidente del consiglio dei Ministri “Criteri di massima sugli interventi psicosociali da attuare nelle catastrofi” del 2006, vengono emanate le disposizioni relative agli interventi psicologici da attuare nelle catastrofi, indicando: obiettivi degli interventi, finalità, destinatari, sedi operative, equipe che deve attuare gli interventi ecc., ponendo fine all’idea che l’intervento psicologico in emergenza è improvvisazione e al di fuori di ogni norma. 15 RIASSUNTO Gli operatori dell’emergenza. Fattori di rischio e protezione CAPITOLO 4 L’INTERVENTO PSICOSOCIALE NELLE MAXI-EMERGENZE: CRITERI DI MASSIMA PER IL SUPPORTO PSICOSOCIALE Dalla prassi alla norma L’intervento psicosociale nelle catastrofi non ha inizio quando ci troviamo di fronte alla vittima, benzina il momento in cui ci inseriamo con il nostro team nella macchina dei soccorsi. Entriamo in quel momento in un sistema organizzato, regolato da norme istituzionali ed operative che definiscono non solo la scansione degli interventi e le procedure, ma anche il significato del supporto che riceveranno le vittime. Le modalità con cui lo psicologo dell'emergenza entra in tale sistema ed anche io sono strettamente correlati alla fase preparatoria di ordine istituzionale, legislativo e politico che ha posto le basi per la realizzazione degli interventi psicosociali. Conoscere i criteri di massima sugli interventi psicosociali da attuare nelle catastrofi significa quindi avere la possibilità di comprendere il contesto entro cui operiamo, che inevitabilmente determina il significato delle nostre azioni. Questi criteri definiscono oggetto, metodo, inquadramento istituzionale degli interventi di psicologia dell'emergenza, apportando un importante contributo alla definizione e sistematizzazione dei principali aspetti della disciplina. L’organizzazione mondiale della sanità e la comunità europea hanno sviluppato numerosi progetti in linee guida inerenti esame ambito. Tutti gli studi scientifici al riguardo sono concordi nel rilevare che in caso di catastrofi naturali o antropici che le persone normali in una situazione anormale possono andare incontro a difficoltà psicologiche e disagi emotivi non presenti prima dell'evento. L'assistenza di tipo psicologico nello scenario delle calamite per disastri appartiene in maniera chiara all'organizzazione dei soccorsi, nel senso che ne è stata sperimentata la funzione positiva per i sopravvissuti, quella di sostegno per i soccorritori, quella di collaborazione per un miglior funzionamento della macchina organizzativa è quella comunicativa per migliorare la trasmissione di informazioni adeguate ed utili al pubblico così come i rapporti con i mass media. La direttiva del 2006 ribadisce l'importanza dell'intervento psicosociale da attuare nelle catastrofi ed individua quali soggetti incaricati di attuare la il personale selezionato appartenente al servizio sanitario regionale integrato con ulteriori risorse identificate nell'ambito di associazioni di volontariato, enti locali, ordini professionali, raccomando che tale personale sia adeguatamente formato sui compiti da svolgere in situazioni di catastrofe collettiva ed addestrato tramite specifiche esercitazioni. Prima del suddetto atto, solo gli interventi di soccorso sanitario avevano trovato una loro organizzazione attraverso la realizzazione dei piani di emergenza extra ed entra e ospedalieri. Gli interventi psicosociali venivano attuati partendo dall' attivazione spontanea e spesso non coordinata delle associazioni di volontariato. A seguito della pubblicazione di questa direttiva, le aziende del servizio sanitario sono state incaricate per la predisposizione e conduzione degli interventi psicosociali. Finalità degli interventi Nel contesto degli interventi a sostegno delle vittime di eventi catastrofici è necessario prestare massima attenzione ai problemi di ordine psichiatrico psicologico che possono manifestarsi sulle popolazioni colpite e sui loro territori. La psicologia dell'emergenza è un abito che consente di riconoscere appieno l'importanza della funzione psicologica in se stessa, senza necessariamente richiedere una specializzazione in psicoterapia. L'intervento, in contesti di emergenza, viene effettuato su una maggioranza di soggetti non inquadrabili come patologici o affetti da disturbi, ma individui sani che sperimentano un’eterogenea gamma di reazioni che, pur provocando e denotando una profonda sofferenza psichica, costituiscono normali risposte all'esposizione ad un evento eccezionale che minaccia il senso di continuità dell'esistenza. Vanna Axia ci ha lasciato una descrizione appassionata ed affascinante della figura dello psicologo dell'emergenza quel ricostruttore che, più che soccorrere, aiuta gli individui attraverso i tre principi generali dell'intervento sulla crisi: sostegno delle capacità naturali, risoluzione dell’eccesso di attivazione dell'organismo, pazienza e fiducia. 16 RIASSUNTO Gli operatori dell’emergenza. Fattori di rischio e protezione Azioni specifiche per soggetti a rischio In seguito all'esposizione all' evento catastrofico possono esacerbarsi delle fragilità preesistenti, basti pensare agli anziani fragili, disabili, immigrati, nuclei madre bambino in situazioni di disagio ed emergenza sociale e agli individui affetti da psicopatologie. Quest'ultima tipologia di sopravvissuti richiede degli interventi mirati ed integrati, che tengano conto della rete dei servizi socio- sanitari coinvolti nella presa in carico pregressa ed attuale. È fondamentale saper diagnosticare il funzionamento mentale il residuo delle persone, effettuare una valutazione del livello di funzionamento e della compromissione mentale. Si possono tuttavia il problema del triage e della diagnosi, che richiede indubbiamente una stretta collaborazione con gli psichiatri. L’individuo affetto da problematiche di ordine psichiatrico può perdere, dopo l'evento catastrofico, i riferimenti del suo sistema di supporto socio sanitario, quindi intere fasce della popolazione, già vulnerabili in precedenza, si trovano improvvisamente con una diminuita disponibilità di risorse sia personali che sociali. Il trauma psichico provoca nella maggior parte delle persone la perdita del pieno contatto con la realtà, il malfunzionamento del sistema cognitivo corticale e le reazioni emotive rendono le persone vulnerabili. Per questi pazienti è quindi fondamentale garantire la conservazione del regime farmacologico e dei servizi socio-sanitari. Fasi di intervento Nella fase acuta gli interventi sono rivolti prevalentemente alla salvaguardia della popolazione attraverso l'allontanamento della medesima dalla zona di pericolo, all'adozione di tutte le misure sanitarie di primo soccorso. Nella fase a breve e medio termine l'equipe svolge non solo attività rivolte al sostegno della popolazione, ma anche funzioni volte a promuovere il ripristino delle reti di supporto sociale. A partire dalle azioni di ricognizione, protezione, guida, connessione, lo psicologo si muove nel contesto in cui opera. Questo movimento, tuttavia, comporta spesso momenti di inattività, per rappresenta forse la sfida più grande per i professionisti che hanno scelto di soccorrere ed aiutare. Nelle prime esperienze successive ad eventi fieristici, gli psicologi si domandavano in che modo riuscire a coinvolgere la maggior parte delle vittime in incontri individuali e di gruppo. Venivano così sperimentate varie strategie per motivare le persone a partecipare basandosi sulla prescrizione universale del trauma: parlare, a chi? A ogni persona fidata che ti ascolti, il prima possibile. Successivamente, si è compreso che alcuni individui non prendono parte ai debriefing, non sono pronti a parlare in quello specifico momento, isolano, questo è il loro modo di fronteggiare l'evento. Come direbbe Solomon, si comportano come gli animali feriti che si rifugiano in fondo alla tana a leccarsi le ferite. 17 RIASSUNTO Gli operatori dell’emergenza. Fattori di rischio e protezione CAPITOLO 5 LA PIANIFICAZIONE DEI SERVIZI IN SITUAZIONI DI MAXI-EMERGENZA: IL MODELLO EPS EMERGENZA-PRIMO INTERVENTO-SOSTEGNO E RECUPERO Cornice teorico/metodologica L’intervento psicosociale proposto da Napoli e Iacolino trae origine da riferimenti teorico/metodologici in ambito nordamericano: • Il CCP Crisis Counselling Program; • Il DMHS Disaster Healt Service; • Il CISM Critical Incident Stress Management Un interessante contributo in ambito italiano si è avuto dalla recente pubblicazione da parte della presidenza del consiglio dei ministri dei criteri di massima sicurezza sugli interventi psicosociali da attuare nelle catastrofi. In termini generali, si può affermare che in situazioni di maxi emergenza bisogna fare ricorso a modalità proprio di un intervento di crisi. Le strategie propri dell'intervento di crisi rivelano la propria adeguatezza in un complesso che presenta alcuni elementi tipici: • La grande varietà e la natura cumulativa delle risposte psicologiche nel dopo disastro • La riluttanza delle vittime, specialmente nelle prime fasi dell'emergenza, a richiedere consulenze psicologiche o servizi clinici correlati • La necessità di intervenire direttamente sul campo piuttosto che in strutture istituzionali • La necessità di adottare un approccio estremamente flessibile ed aperto, molto diverso dall' intervento psicoterapeutico classico. Obiettivi dell’intervento L’obiettivo strategico generale da seguire è sintetizzabile come segue: ridurre l'impatto dell'evento è lo stato di crisi dell'individuo e della comunità, cosicché si possa riacquistare nel più breve tempo possibile il livello di funzionamento critico. Questo obiettivo può essere raggiunto attraverso la realizzazione di sotto obiettivi tattici che mirino a: - individuare le vittime che necessitano di assistenza psicologica acuta. Bisogna utilizzare un approccio di triage che stavi lista delle priorità rispetto ai bisogni delle vittime, privilegiando i soggetti maggiormente impattati dall'evento. - facilitare l'accesso ai servizi di supporto, valutazione e trattamento. Bisogna fare in modo che i servizi disponibili siano conosciuti e facilmente accessibili. Questo comporta numerose attività: networking, organizzazione dei contatti con i superstiti, connessione, guida, roaming, outoreaching. - favorire la remissione spontanea e l'uso di risorse. Bisogna incoraggiare ogni espressione spontanea di guarigione e la coesione comunitaria e di gruppo. In questo senso, è interessante il concetto di contesto di supporto: un contesto di supporto deve offrire ascolto, sostegno e risposta ai bisogni pratici, normalizzare e rassicurare le vittime circa il fatto che presentano normali reazioni di stress, facilitare il ricongiungimento familiare, organizzare il supporto da parte dell'ambiente sociale della vittima, offrire informazioni aggiornate sull'evento. Si suppone che queste azioni favoriscano la remissione spontanea dei sintomi acuti. Il contesto di supporto deve essere continuamente disponibile e accessibile. Dal punto di vista operativo e pratico è necessario dar vita, nel breve periodo, ad un sistema temporaneo alternativo di risposta che affianchi il sistema istituzionale, gestendo le prime fasi dell'emergenza sul campo. 20 RIASSUNTO Gli operatori dell’emergenza. Fattori di rischio e protezione • Feedback e decisione di intervenire Una volta fatto accesso all'area e completata la prima ricognizione è possibile avere degli elementi minimi per valutare la necessità e l'opportunità di intervenire. Per una valutazione efficace bisogna tenere in considerazione: il numero dei sopravvissuti ospitati nelle strutture di accoglienza, il numero di casi di lutto all'interno dei nuclei familiari, il numero di soggetti a rischio, la consistenza delle strutture di supporto presenti sul territorio, l'interesse delle istituzioni alla strutturazione di un intervento di assistenza psicosociale delle vittime, la presenza di risorse professionali del territorio disponibili ad affiancare gli esperti nelle prime fasi dell'intervento e a continuare le attività di supporto una volta superata l'emergenza. • Attivazione servizi di training Per i componenti del team vanno organizzati in momenti specifici di inserimento, con descrizione della situazione generale, dei bisogni prioritari, delle risorse disponibili e delle attività messe in campo. L'inserimento nel sistema di supporto deve prevedere un briefing di ingresso e briefing giornalieri di aggiornamento e assegnazione di compiti. Contemporaneamente alle attività a favore delle vittime, bisogna cominciare attività di inserimento dei colleghi del territorio nel sistema di supporto. • Organizzazione dei contatti con i superstiti I contatti con i superstiti vanno organizzati secondo una metodologia che promuova la continuità nella relazione di aiuto, continuità del servizio piuttosto che del singolo componente del team. Bisogna quindi offrire i riferimenti per essere contattati, creare luoghi stabiliti dove è possibile ricevere assistenza, creare iniziative stabili e specifiche nelle quali è possibile ricevere assistenza, essere il più possibile presenti e riconoscibili da parte delle vittime, creare incontri individuali e di gruppi spontanei. • Networking È difficile offrire servizi psicosociali efficaci senza la cooperazione ed il supporto di coloro che coordinano ed offrono forme di soccorso medico e materiale, a livello centrale così come locale. Devono essere messe in campo una serie di attività per integrare e mettere in rete il servizio di assistenza psicosociale di emergenza con il sistema istituzionale di assistenza in generale. Per diffondere informazioni sui servizi offerti, per raccogliere i bisogni e per coordinare le iniziative vanno organizzati e realizzati una serie di incontri con il responsabile del coordinamento delle attività di protezione civile presenti a livello locale. • Organizzazione del team Il team deve essere organizzato attraverso la suddivisione dei compiti e la realizzazione di momenti di verifica del lavoro svolto e di programmazione delle attività. Se ci sono le condizioni sufficienti, in termini di risorse, è sicuramente opportuno individuare almeno due figure specializzate, il coordinatore operativo ed il responsabile della comunicazione. Il coordinatore operativo agisce prevalentemente dietro le quinte, occupandosi dell'organizzazione dei servizi, del contatto con le istituzioni, dell'unificazione delle attività smorfie e dei bisogni da soddisfare in una cornice generale. Il responsabile della comunicazione agisce occupandosi dell'organizzazione di iniziative di diffusione di informazioni utili e di promozione dei servizi offerti. Ai componenti del team vanno assegnati i vari compiti di assistenza diretta delle vittime: ricognizione, triage, comunicazione di decesso, assistenza in fase acuta, interventi psicoeducativi, attività formative e informative, interventi di emergenza individuali e di gruppo, interventi specifici per soggetti a rischio. Bisogna organizzare e svolgere briefing giornalieri per la verifica e supervisione delle attività svolte, la condivisione dell'esperienza, la gestione di eventuali problematiche e la programmazione delle attività future con assegnazione dei relativi compiti. • Smobilitazione Così come per quanto riguarda la mobilitazione, ogni team deve sviluppare anche procedure di smobilitazione che permettano la disattivazione della risposta organizzata. Bisogna dunque pianificare il rientro dei componenti del team, questo significa sia essere pronti dal punto di vista logistico per il trasporto dei colleghi, ma anche predisporre il ritorno dolce che i componenti alle attività quotidiane, organizzando perlomeno un incontro di gruppo dedicato al confronto finale ed alla chiusura dell’esperienza. Per i colleghi che lamentino in prima persona problematiche psico-sociali 21 RIASSUNTO Gli operatori dell’emergenza. Fattori di rischio e protezione legate all'esperienza fatta o che manifestino tali problematiche all'osservazione esterna è opportuno offrire iniziative di supporto a breve e medio termine. Bisogna anche portare a termine un passaggio di consegne con nelle strutture di assistenza psicosociale del territorio. Erogazione dei servizi È possibile suddividere le attività di erogazione dei servizi di supporto psicosociale in tre fasi: - Fase di emergenza (0-96 ore) - Fase di primo intervento (da 24-48 ore a 12 settimane) - Fase di sostegno del recupero (da 3 a 52 settimane) Fase di emergenza È il periodo immediatamente successivo al verificarsi di un evento maxi-emergenziale. In questa prima fase devono avere assoluta precedenza le vittime di i, ii e iii livello, nonché i soggetti ad alto rischio (feriti, estratti dalle macerie). Nelle fasi successive si potrà estendere la portata degli interventi anche a soggetti diversi. I primi interventi di supporto psicosociale sono essenzialmente di tipo pratico. Nella fase di emergenza, bisogna offrire i seguenti servizi: • Protezione: bisogna proteggere i superstiti lavorando su più fronti per aumentare il senso di prevedibilità, controllo e sicurezza, per proteggere i superstiti dall'esposizione a stimoli traumatici bisogna valutare l'ambiente in cui si muovono, individuare l'eventuale presenza di stimoli traumatici ed adoperarsi per rimuoverli, bisogna proteggere i superstiti anche dai curiosi e dai media, creare un posto sicuro, anche immaginario. • Connessione: i superstiti hanno perso la connessione con il mondo che per loro era familiare. Un semplice contatto umano, ed ancora di più il contatto con le persone che vogliono essere di aiuto, può contribuire a promuovere un'esperienza di connessione a valori sociali condivisi come l'altruismo e la solidarietà. Per quanto gli scambi possano essere brevi, tali relazioni sono elementi importanti del processo di recupero e adattamento. • Guida: le vittime sono spesso stupite e confuse. Bisogna quindi guidarle in modo deciso, anche se gentile, lontano dal luogo della catastrofe dove è possibile ci sia ancora pericolo per la propria incolumità e lontano dalla visione di immagini problematiche come l'estrazione di vittime dalle macerie o il soccorso di persone gravemente ferite. La confusione delle vittime può manifestarsi anche nella loro incapacità a compiere azioni utili per usufruire dei servizi offerti. Le vittime vanno quindi guidate ed accompagna passaggi necessari per rendere espliciti i loro bisogni e per richiedere l'aiuto necessario. • Triage (si rimanda al capitolo dedicato). • Assistenza in fase acuta (si rimanda al capitolo dedicato). • Comunicazione del decesso (si rimanda al capitolo dedicato). Fase di primo intervento È il periodo compreso tra le prime 24-48 ore successive all'evento catastrofico e la dodicesima settimana. Una volta conclusa la fase di emergenza si possono cominciare una serie di iniziative per allargare il campo di intervento ad una platea più bassa di soggetti. Queste iniziative devono affiancare le attività già in corso, e non sostituire le. Nella fase di prima intervento si possono realizzare le seguenti attività: • Interventi psicoeducativi e attività informative e formative: in questa fase, partendo dalle particolari necessità del momento, è possibile realizzare una serie di interventi psicoeducativi e di attività formative ed informative. Si possono organizzare incontri di orientamento allo stress da evento critico, incontri di prevenzione dell'abuso di sostanze, servizi informativi alle famiglie, training degli operatori psicosociali del territorio. • Interventi di emergenza individuali. • Interventi di emergenza di gruppo, come il defusing, il debriefing, i gruppi di auto aiuto. • Outreaching: con questo termine vengono riassunte tutte le procedure che permettono di diffondere informazioni sulle variabili psicologiche legate al disastro e di aumentare la conoscenza dei servizi di assistenza e delle risorse disponibili. Di grande beneficio per i sopravvissuti sono i materiali 22 RIASSUNTO Gli operatori dell’emergenza. Fattori di rischio e protezione educativi che descrivono le reazioni psicologiche al disastro enfatizzandone la normalità e proponendo consigli pratici per fronteggiare le risposte di adattamento allo stress. • Referring: con questo termine vengono indicate le procedure attraverso cui i casi che necessitano di un trattamento nel medio e lungo termine vengono inviati alle strutture territoriali di assistenza psicologica e sociale. È opportuno adoperarsi per l'invio quando si entra in contatto con le vittime che manifestano sintomi persistenti o disabilitanti, ideazione suicidaria o etero lesiva, segni evidenti di problematiche a livello cognitivo. Fase di sostegno del recupero È il periodo compreso tra le tre settimane successive un evento catastrofico è la quindicesima settimana. Questa è la fase conclusiva dell'intervento, in cui il sistema temporaneo alternativo di risposta deve lasciare il campo, permettendo alle strutture territoriali di assistenza di farsi carico della continuazione dell'intervento nel medio e lungo termine. Questa fase di passaggio e forse uno dei momenti più critici, poiché alle volte il territorio non ha risorse o competenze necessarie per assistere un rilevante numero di vittime di un evento critico. Se necessario, bisogna comunque continuare ad offrire i servizi delle fasi precedenti. Nella fase di sostegno del recupero bisogna realizzare le seguenti attività: • Valutazione delle popolazioni a rischio: bisogna proseguire la valutazione delle vittime che nelle fasi precedenti dell'intervento hanno evidenziato fattori che hanno fatto di tenere fossero soggetti a rischio. Questi soggetti devono essere contattati e, possibilmente, incontrarti per una valutazione a distanza di tempo del loro processo di recupero ed eventualmente inviati a risorse professionali che si facciano carico del supporto nel medio e lungo termine. • Valutazione dei servizi disponibili: bisogna avere un quadro chiaro ed aggiornato dei servizi di supporto psicosociale disponibili per le vittime. I servizi sono attivi concretamente? I servizi sono facilmente accessibili o vengono percepiti come inadeguati? I servizi vengono utilizzati o vengono ignorati? Le informazioni riguardanti i servizi disponibili stanno raggiungendo la popolazione a cui sono destinati? • Follow-up degli interventi e degli invii: bisogna valutare gli interventi offerti alle vittime. I sopravvissuti hanno ricevuto gli interventi loro promessi? Se in una fase precedente sono stati programmati più interventi, bisogna verificare se questi interventi sono stati effettuati e se i soggetti vi hanno preso parte. Nel caso si verifichino problemi, se rispetto all'erogazione dei servizi che rispetto alla partecipazione delle vittime, bisogna prontamente a portare rimedi efficaci. • Seminario post evento critico: può essere realizzato entro il 4-18 mesi successivi ad un evento critico. È un intervento della durata di tre o quattro giorni. La durata prolungata permette ai partecipanti di raccontare la propria storia, di interagire con altre persone con le quali condividere il coinvolgimento di un evento fieristico, di ricevere informazioni utili sulle risposte fosse traumatiche e sulle strategie di coping e di rielaborazione nell'evento. 25 RIASSUNTO Gli operatori dell’emergenza. Fattori di rischio e protezione Basarsi sulle risorse disponibili e sulle competenze locali: tutti i gruppi colpiti dispongono di risorse in grado di fornire supporto psicosociale. Un principio chiave è quello di rafforzare le competenze locali e valorizzare le risorse già presenti. Basarsi su sistemi integrati di supporto: la programmazione e le attività devono essere il più possibile integrate. La proliferazione di servizi isolati per singoli gruppi può creare un sistema di assistenza altamente frammentato. Le attività integrate in più anche sistemi raggiungono più persone, sono più sostenibili e tendono a stigmatizzare meno i destinatari. Basarsi su supporti a livelli multipli: nelle emergenze le persone sono colpite in modi differenziati e richiedono differenti modalità di supporto. Una chiave per organizzare un efficace supporto psicosociale consiste nello sviluppare un sistema più livelli di supporto complementare che soddisfino i bisogni dei diversi gruppi. Biglietti Livello 1 - servizi di base e sicurezza: il primo livello coinvolge l'intera popolazione colpita dalla catastrofe, soprattutto dove sono installati i campi per accogliere i profughi. Il benessere della popolazione va tutelato attraverso il ristabilimento di condizioni di sicurezza, un'adeguata governabilità e la disponibilità di servizi che soddisfino i bisogni fisici di base. Un intervento di salute mentale e supporto psicosociale relativo ai servizi di base e sicurezza è indiretto e richiede di agire perché tali servizi siano attivati da operatori competenti e responsabili, di documentare l'impatto di tali fattori sulla salute mentale e sul benessere psicosociale, di indirizzare gli operatori umanitari ad adottare comportamenti a tutela della salute mentale e del benessere psicosociale. I servizi di base vanno attivati in modo partecipato, sicuro e socialmente appropriato, in modo da tutti vita della popolazione locale, rafforzare i supporti locali e mobilità nelle reti comunitarie. Livello 2 - supporti alle comunità e alle famiglie: il secondo livello della piramide ika interventi psicosociali diretti di carattere comunitario. Normalmente nei contesti di emergenza chi è una significativa dispersione familiare e comunitaria, dovuta alla perdita di vite umane, agli spostamenti forzati, alle separazioni familiari. Anche quando le famiglie e le reti comunitari restano intatte, le popolazioni in emergenza necessitano di supporti comunitaria e familiari. Gli interventi a questo livello includono: riunificazione i familiari, riti e cerimonie comunitarie, comunicazioni sulle modalità di copying, programmi di supporto parentale, attività educative formali e non formali ed attività ludiche diretta i bambini. Livello 3 - supporti focalizzati non specialistici: il terzo livello prevede supporti specifici rivolti ad un numero più limitato di persone che necessitano di interventi individuali, familiari o di gruppo da parte di operatori formati e supervisionati, pur privi di una formazione specialistica. Ad esempio, le persone vittime di violenze sessuali possono necessitare di un supporto emotivo e sociale fornito da operatori psicosociali con una formazione specifica. Questo livello include anche il primo soccorso psicologico ed un’assistenza psichiatrica di base da parte di operatori sanitari. Livello 4 - servizi specializzati: l'ultimo livello implica un specialistico per i casi che presentano una sintomatologia post traumatica, in cui il grado di sofferenza comprometterne la funzionalità. Questo tipo di assistenza prevede supporti psicologici e psichiatrici per persone con disturbi psichici quando i loro bisogni superano la competenza dei servizi sanitari di base. Tali problematiche richiedono il ricorso a servizi specialistici, se esistono, o l'inizio di una presa in carico lungo termine da parte dei servizi sanitari di base. 26 RIASSUNTO Gli operatori dell’emergenza. Fattori di rischio e protezione 27 RIASSUNTO Gli operatori dell’emergenza. Fattori di rischio e protezione CAPITOLO 7 SCENARI ED ESPERIENZE DI INTERVENTO IN AMBITO INTERNAZIONALE Scenari Gli interventi di aiuto umanitario da parte della comunità internazionale si rendono necessari nei paesi privi delle risorse economiche ed organizzative adeguate ad affrontare gravi situazioni di emergenza, ove la catastrofe naturale o la crisi socio-politica si innestano in una situazione preesistente di criticità. Ciò aggiunge complessità all’intervento, in quanto implica il confronto interculturale, moltiplica gli attori in gioco, richiede risorse ingenti e garanzie forti, determina conseguenze importanti sulla modalità e la logica stessa degli interventi, configurando quattro cornici entro cui le agenzie umanitarie devono orientare il proprio lavoro. La prima cornice è rappresentata dalla committenza: gli interventi nelle emergenze internazionali comportano costi elevati, richiedono tempi rapidi di mobilitazione e necessitano di una copertura politico-diplomatica, spesso anche militare, che garantisca agibilità e sicurezza a chi li attua. Ciò può essere fornito unicamente dalle grandi organizzazioni intergovernative come le Nazioni Unite, l’Onu o l’Unione Europea. Tali agenzie costituiscono il macrosistema dell’aiuto umanitario e sono in grado di mobilitarsi immediatamente all’insorgere dell’emergenza. Un secondo vincolo che regola gli interventi è costituito dalla cornice del progetto: muoversi nei contesti internazionali, caratterizzati da situazioni di instabilità, significa muoversi nella complessità: ciò esclude sia qualsiasi tipo di improvvisazione, sia qualsiasi tipo di rigidità e richiede alti livelli qualitativi. Lo strumento di elezione, a tal fine, è rappresentato dal progetto, un quadro operativo in cui obiettivi, metodologie, mezzi, costi e tempi sono predefiniti in base a puntuali studi di fattibilità che tengono conto di tutte le variabili in gioco. Un terzo fattore che determina la qualità dell’intervento è costituito dalla cornice delle interrelazioni: l’intervento in emergenza infatti non avviene in un deserto, ma in contesti abitati da una pluralità di attori con i quali è necessario confrontarsi e coordinarsi, ricordando sempre che il requisito indispensabile per operare è mantenere costantemente una posizione ed un’immagine di neutralità. Una quarta cornice, infine, consiste nell’adeguamento alle linee guida riconosciute a livello internazionale. Negli ultimi anni si sono imposte le linee guida IASC, di cui si parla in altre parti di questo libro. Esperienze Terremoto del 2010 ad Haiti. In sostanza hanno fatto un buon lavoro seguendo le linee guida IASC e attraverso un buon lavoro di squadra. Per approfondimento leggere sul libro. 30 RIASSUNTO Gli operatori dell’emergenza. Fattori di rischio e protezione Mitchell aveva inizialmente suggerito di applicare il debriefing entro 24 o 72 ore dall’incidente, ma successivamente riconobbe che le limitazioni temporali dovevano essere più flessibili punto la pratica, l’osservazione e la riflessione hanno determinato un atteggiamento molto più elastico rispetto ai tempi in cui è opportuno effettuare l’intervento punto si è giunti così alla posizione oggi piuttosto condivisa secondo cui entro le prime due settimane dall’accaduto viene organizzata una discussione di gruppo strutturata condotta con gruppi omogenei; comunque, nel caso di disastri di massa, si può ricorrere all’intervento anche tre settimane dopo l’evento critico. Si ritiene oggi che il tempo che deve trascorrere dopo l’evento critico, prima di somministrare l’intervento di de briefing, non debba essere né troppo, né troppo poco. Setting e durata dell’incontro di debriefing Il luogo in cui si svolge il debriefing ha la sua importanza, sia perché deve facilitare l’instaurarsi di un’atmosfera di tranquillità, di partecipazione e di riservatezza, sia perché le persone devono restarci per qualche ora e quindi deve offrire un minimo di confort: spazi sufficienti, temperatura, luminosità, sedie comode. Tuttavia, e chiaro che possiamo pensare ad un luogo con tutte queste caratteristiche solo se non stiamo operando in situazioni di emergenza collettiva che, invece, ci obbligano ad effettuare il debriefing nel miglior setting che la situazione offra. La durata dell’incontro di debriefing può andare da una a tre ore, in base al numero di partecipanti, alla gravità ed alla complessità degli eventi messi in campo durante l’incontro. Numero e caratteristiche dei partecipanti Sul numero dei partecipanti ad un incontro di debriefing, Mitchell suggerisce dai quattro ai 25 partecipanti, anche se da 8 a 10 sembra l’ideale. Anche altri autori suggeriscono di non superare le 10- 15 unità. In generale è necessario mirare alla formazione di gruppi omogenei. Ciò significa che le persone che si trovano nella stessa situazione sono riunite nello stesso gruppo, per esempio quelli che hanno assistito alla scena dell’incidente formano un loro gruppo, i familiari un altro; saranno riunite quindi solo persone che hanno condiviso un’esperienza, una situazione, e che proprio sulla base di questa condivisione sono naturalmente con notabili come gruppo. Protocollo del debriefing psicologico di Mitchell Preparazione all’incontro Prima dell’incontro vero e proprio, sarebbe necessario che i conduttori ed i co-conduttori si incontrassero per prendere informazioni sull’evento critico, accordarsi sulla suddivisione dei ruoli, sulla gestione del tempo, nonché per valutare l’ambiente ed ottimizzarlo laddove ve ne sia necessità. Fase uno: introduzione Il conduttore inizia spiegando che il debriefing non e psicoterapia, ma piuttosto un metodo per alleviare le reazioni comuni di stress innescate dagli eventi critici. Nella fase dell’introduzione vengono illustrati ai partecipanti gli obiettivi, il funzionamento del debriefing psicologico, le sue regole di base e l’evoluzione delle fasi, spiegandone il significato. Vengono informati i partecipanti del fatto che stanno seguendo una procedura che è già stata utile in situazioni simili, e che stanno per condividere pensieri stati d’animo che probabilmente non hanno mai trovato prima punto si chiarisce che non c’è alcun obbligo di parlare, e che solo chi lo desidera interviene. Si sottolinea che è però importante ascoltare, astenersi dal giudizio, per poter trarre beneficio dall’esperienza altrui. Fase due: fase del fatto Nella fase del fatto viene chiesto ai membri del gruppo di descrivere il proprio coinvolgimento nell’evento e la propria esperienza. Scambiarsi informazioni sull’accaduto, comunicando, a turno, ognuno la propria esperienza, consente di pervenire ad una ricostruzione chiara e completa dell’evento, che supera il punto di vista parziale dei singoli e che consente di giungere ad una visione d’insieme integrale e completa, che consente la giusta organizzazione cognitiva dell’evento e la possibilità di ragionare su di una visione oggettiva del fatto. 31 RIASSUNTO Gli operatori dell’emergenza. Fattori di rischio e protezione Durante il racconto dei fatti è necessario aiutare le persone nell’esposizione, evitando però di stimolare le emozioni e cercando di rimanere sui fatti. La dimensione su cui deve basarsi questa fase è quella cognitiva. Il punto intorno a cui deve ruotare la discussione e la descrizione delle percezioni sensoriali, ossia ciò che si è fatto, visto, udito, odorato, toccato eccetera, così come la descrizione di ciò che riguarda il dove, il cosa, il come, il quando, con chi, perché eccetera. Il baricentro di questa fase deve restare il racconto del fatto punto è molto probabile, però, che vengano espresse anche molte emozioni, che il conduttore deve considerare come materiale prezioso ed essere molto attento nel coglierle e memorizzarle, specialmente se esprimono intense emozioni di paura, colpa, vergogna o impotenza. Di fronte a queste emozioni il conduttore, oltre a prenderne atto con molta attenzione, per richiamarla e poi nella fase destinata all’espressione delle emozioni, con molto garbo deve far presente che questi aspetti saranno esplorati successivamente e riportare l’attenzione sul racconto del fatto. Con l’inizio della fase del fatto comincia l’azione positiva e benefica dei fattori terapeutici su cui si fonda l’effetto curativo del debriefing, che va inteso come un intervento restitutivo e riparativo del precedente equilibrio psichico del soggetto ed al tempo stesso preventivo di derive psicopatologiche che potrebbero favorire l’insorgenza di molteplici disturbi come ansia, depressione o disturbi post traumatici. Tra i vari fattori terapeutici che rendono il debriefing, se ben condotto, un intervento capace di dare sollievo, aiutare a recuperare la normalità e prevenire l’attivarsi di processi psico patogeni, dobbiamo ricordare: • la narrazione, che, oltre a dare una struttura cognitiva all’evento, consente l’attivarsi di abreazione e catarsi; • le manifestazioni di ascolto attivo, solidarietà, condivisione ed empatia, sia da parte degli altri membri del gruppo che dei conduttori, attivano forti vissuti di supporto emotivo, capaci di ridurre il malessere psicofisico attivando processi di equilibrio delle emozioni e delle reazioni psicosomatiche; • gli interventi di ristrutturazione cognitiva mirata, agita attraverso la normalizzazione ed il ridimensionamento; • il vissuto di chiusura dell’evento e di ritorno alla normalità lavorativa e sociale, che concorrerà ad abbassare i livelli di ansia, favorendo il recupero di assetti cognitivi ed emotivi precedenti. Fase tre: fase del pensiero La fase del pensiero inizia quando il conduttore del gruppo chiede ai partecipanti di indicare quale sia stato il loro primo pensiero, o il loro pensiero predominante, una volta finite le reazioni istintive. Questa fase è molto importante perché rappresenta il momento di passaggio tra la fase del fatto e la fase delle reazioni emotive. In questa fase si porta l’attenzione sull’elemento intermedio che lega il fatto alle reazioni emotive, e cioè sui pensieri che si sono determinati nell’individuo quando si è reso conto che qualcosa di grave e pericoloso stava accadendo. L’attenzione di ogni singolo partecipante, a turno, va riportata sul flusso dei pensieri più importanti che si sono associati all’evento, dall’inizio alla fine. Particolarmente importante è conoscere anche i pensieri positivi che gli individui hanno avuto, ossia i pensieri che sono risultati utili per combattere angoscia e paura, per alimentare la fiducia e la speranza, per darsi coraggio e conforto; conoscere anche questi pensieri è importante perché ci dà modo di conoscere quali pensieri sono utili al soggetto e che quindi possono ancora esserlo in futuro. Fase quattro: fase della reazione La fase della reazione e la più forte emotivamente. Viene domandato ai membri del gruppo quali elementi dell’incidente hanno provocato in loro il maggior disagio e con quali è stato più difficile convivere una volta passato il momento critico. Esternare e condividere le emozioni, i pensieri e le sensazioni di quei momenti favorisce un vissuto di normalità, condivisione e uguaglianza. In questa fase è normale che i partecipanti mostrino forti emozioni ed è naturale che ci siano momenti di pianto, e non deve preoccuparci se qualcuno sente il bisogno di allontanarsi momentaneamente. Bisogna rassicurare i partecipanti che è sano esprimere i sentimenti e le emozioni, 32 RIASSUNTO Gli operatori dell’emergenza. Fattori di rischio e protezione e quindi le reazioni, e che non devono spaventarsi di questo, perché le dinamiche costruttive e benefiche del lavoro di gruppo impediranno all’angoscia di causare danni e favoriranno la loro ripresa. Questa è la fase più delicata e difficile da gestire, poiché tratta l’esame dei vissuti emotivi e delle implicazioni psicologiche collegate allo svolgersi degli eventi traumatici; è il momento della condivisione e discussione, con gli altri, delle proprie paure, ansie, speranze, dolori, delle emozioni in generale che hanno caratterizzato il proprio coinvolgimento, come sopravvissuto, nel disastro. Fase cinque: fase dei sintomi Nella fase dei sintomi viene chiesto ai partecipanti del gruppo di ricapitolare i loro sintomi da stress cognitivo, emotivo e comportamentale durante e dopo l’evento traumatico, fino a includere il momento presente. I membri del gruppo possono descrivere reazioni fobiche, di evitamento, di paura, flashback tremori, tachicardia, sudorazione, confusione, trasalimenti, insonnia o ipersonnia, smarrimento, e moltissimi altri sintomi da stress emotivo e da reazione psicosomatica, così come possono parlare di chiusura, isolamento, abbattimento, depressione, o dell’aumento del consumo di alcolici, tabacco, droghe, caffè ecc. Potrebbe anche accadere che i membri del gruppo non riescano ad identificare ed esprimere i loro sintomi; in questo caso il conduttore deve aiutarli indicando le reazioni da stress emotivo più comuni e chiedendo chi ha avvertito quelle reazioni o qualcosa di simile. Bisogna cercare di chiedere a tutti com’è andata durante l’evento e come è andata nei due o tre giorni successivi, se ci sono sintomi che ancora persistono o sono comparsi nuovi sintomi a distanza di molti giorni. Fase sei: fase dell’insegnamento Questa fase viene spesso indicata anche come fase della formazione e in qualche caso dell’istruzione. In questa fase, chi conduce il gruppo ha il compito di spiegare le normali reazioni allo stress e di insegnare le tecniche più utili al fine di ridurre lo stress. Fase sette: re-entry Infine, si riepiloga lo svolgimento della seduta e si tirano le conclusioni su quanto appreso dall’incontro e dall’intera esperienza; ci si accorda anche su eventuali sedute di follow-up. L’ultima fase del debriefing rappresenta l’opportunità finale per chiarire problemi o chiedere informazioni. Attività di post-debriefing Le principali attività post-debriefing che, secondo Solomon, il team deve effettuare, sono le seguenti: stringere la mano, a chiusura dell’incontro, a ciascuno dei partecipanti e rivolgersi in particolare a coloro che hanno mostrato chiari segni di disagio o che sono rimasti troppo silenziosi, avvicinarsi a coloro che sembrano aver bisogno di un maggiore supporto, predisporre invii, ove necessario e servire bevande subito dopo il debriefing, per facilitare l’interazione informale tra i partecipanti e tra questi ultimi e la squadra. Principali modifiche al modello di debriefing di Mitchell Negli ultimi anni sono stati proposti alcuni modelli di debriefing che, pur essendo ispirati al modello di Mitchell, aggiungono delle varianti. Tra questi, ricordiamo il modello di Perren- Klinger che prevede la “fase del rito”, che va intesa come un momento di azione concordata e condivisa dal gruppo, tesa ad aiutare i membri del gruppo a voltare pagina e a tornare alla propria quotidianità. Il gruppo viene sollecitato a scegliere un gesto o un’azione che tutti dovranno compiere, ognuno nel proprio tempo e nel proprio luogo e quando lo ritiene opportuno, come segno pratico di conclusione del lavoro e che rappresenta il momento di congedo con l’esperienza traumatica. Ad esempio, ogni membro del gruppo può buttare nel fiume qualcosa che ha a che fare direttamente o simbolicamente con l’evento traumatico cui si vuole dare una chiusura simbolica. 35 RIASSUNTO Gli operatori dell’emergenza. Fattori di rischio e protezione Indagare gli stati d’animo Questa è la fase più delicata del defusing perché si può caricare di forte partecipazione emotiva e sofferenza; proprio per questo è necessario adoperare varie cautele. Le persone vengono invitate a descrivere i propri stati emotivi e le proprie reazioni relative ai momenti in cui l’evento stava accadendo, a quelli successivi ed al momento attuale. Viene raccomandato anche di non dimenticare che il defusing non è un intervento che consente un sostegno prolungato, e quindi non si deve indugiare nel fare emergere emozioni troppo forti; bisogna cogliere le emozioni che la persona esprime spontaneamente e fare azione supportiva normalizzando, ridimensionando e rinforzando tutto quello che è possibile e ristrutturando pensieri ed emozioni altrimenti lesivi dell’equilibrio psichico del soggetto. Sostenere, rassicurare, informare L’empatia, l’ascolto attivo, la condivisione, la narrazione ed il supporto di gruppo concorrono ad attivare una relazione supportiva, ossia una relazione di aiuto che facilita il sostegno dell’Io del soggetto e l’abbassamento dei suoi livelli di ansia. Altrettanto positivamente agiscono sull’equilibrio psico-fisico del soggetto le informazioni relative alle reazioni normali a seguito di forti stress emotivi: comprendere che le reazioni che si vivono sono normali, che passeranno e che fanno parte delle comuni risposte allo stress conseguente ad un trauma aiuta a rassicurarsi e stare meglio e facilita il recupero del proprio equilibrio. 36 RIASSUNTO Gli operatori dell’emergenza. Fattori di rischio e protezione 37 RIASSUNTO Gli operatori dell’emergenza. Fattori di rischio e protezione CAPITOLO 9 LA ZOOANTROPOLOGIA DELLE EMERGENZE Dalla pet therapy alla zooantropologia assistenziale Il termine pet therapy si riferisce ad una metodologia che coinvolge gli animali domestici e finalizzata al trattamento di specifiche patologie e/o situazioni emotive. La pet therapy ha una storia antica quanto l’uomo, poiché la specie umana riconosce nel processo di addomesticazione una preziosa opportunità nel percorso evolutivo, che si coniuga con la tendenza naturale dell’uomo a stringere legami di affiliazione, amicizia e collaborazione con le altre specie. Il principio della pet therapy si basa sull’utilizzo del rapporto speciale che le persone instaurano con gli animali domestici. Il primo studio accertato dell’utilizzo scientifico di tale metodica a scopo terapeutico risale al 1792. Il termine pet therapy venne poi coniato da Boris Levinson nel 1962 per descrivere il coinvolgimento di animali da compagnia nella cura di malattie psichiatriche. Levinson considera infatti l’animale come co-terapeuta In Italia, la terapia con gli animali è stata riconosciuta come co-terapia ufficialmente nel 2033. Ad oggi, i contributi presenti nella letteratura scientifica evidenziano che la relazione con l’animale, oltre a garantire la sostituzione di affetti mancanti o carenti, favorisce i contatti interpersonali attraverso meccanismi di facilitazione sociale. Da un punto di vista operativo, tuttavia, è consigliabile non utilizzare il termine pet therapy, ma di parlare invece di zooantropologia assistenziale. La zooantropologia assistenziale include: • Attività Assistite dagli Animali (AAA): attività ludico-ricreative svolte all’interno di piccoli gruppi che hanno lo scopo di migliorare la qualità della vita, favorire la socializzazione o educare; • Terapie Assistite dagli Animali (TAA): è un evento terapeutico a carattere individuale che prevede una progettazione ed una programmazione individuale basata sulle necessità terapeutiche del singolo fruitore. La zooantropologia nella psicologia delle emergenze In Italia Roberto Marchesini ha fondato la SIUA (Scuola Interazione Uomo-Animale). Secondo Marchesini, la zooantropologia è la disciplina che esplora la relazione tra persona e animale sotto la dimensione dell’intersoggettività e dell’esperienza di incontro. La peculiarità che differenzia l’intervento di zooantropologia svolto in contesti emergenziali, rispetto a quelli svolti in ambito clinico, sociale o educativo, risiede nel fatto che nell’ambito delle emergenze le azioni di supporto sono rivolte a soggetti sani che esperiscono reazioni normali ad un evento estremo e inaspettato. L’animale in questo caso si configura come una sorta di facilitatore emozionale. Nelle situazioni di emergenza, parallelamente al supporto psicologico, sarebbe auspicabile la strutturazione di metodologie zooantropologiche che utilizzino la relazione che si instaura con l’alterità dell’animale come facilitatore del processo di riorganizzazione del Sé. Il coinvolgimento di un animale in eventi critici può ridurre lo stress e migliorare la capacità dei soggetti di affrontare le richieste ambientali, innalzando il livello di adattamento tra se stessi e l’ambiente; a livello fisiologico, solo guardare o accarezzare un cane fa produrre ossitocina, un ormone che suscita sensazioni di piacere e mitiga lo stress. Nel caso in cui le vittime di eventi tragici siano dei bambini, i livelli di ansia e stress si riducono maggiormente quando il bambino interagisce con un animale rispetto a quando si relazione con adulti e coetanei. La riduzione dei livelli di ansia e l’effetto calmante prodotto dall’interazione con l’animale non solo facilita il raggiungimento di risultati positivi, ma può anche influire sull’apprendimento: i bambini coinvolti in un programma di educazione con l’ausilio degli animali sono in grado di generalizzare i loro apprendimenti e mostrano alti livelli di empatia nelle relazioni sociali. 40 RIASSUNTO Gli operatori dell’emergenza. Fattori di rischio e protezione La comunicazione del rischio, per poter fare una buona prevenzione, non deve limitarsi ai messaggi di allarme ed alle informazioni pratiche per farvi fronte, ma dovrebbe costruire una consapevolezza del perché esiste un rischio, e rispondere alle domande sulla sua origine. Il passaggio successivo è la spiegazione delle conseguenze, senza fare allarmismo, ma per capire come ridurre l’impatto di un possibile evento rischioso. La comunicazione del rischio deve essere pianificata temporalmente, in modo da coinvolgere l’audience nel processo di gestione del rischio, e non solo durante la possibile emergenza; il cuore della comunicazione di prevenzione sta nell’agire in tempo di pace, impedire che le coscienze si addormentino e costruire una consapevolezza del rischio e della prevenzione. 41 RIASSUNTO Gli operatori dell’emergenza. Fattori di rischio e protezione CAPITOLO 11 COMUNICARE IN UNA SITUAZIONE DI CRISI La comunicazione in una situazione di crisi richiede una serie di accorgimenti ed attenzioni, proprio perché la crisi non permette di operare con i mezzi e con le persone in maniera programmata, pianificata e ragionata. In situazioni normali, chi ha la responsabilità della comunicazione può: programmare i messaggi, scegliere con calma gli interlocutori, fare un’analisi dei mezzi di informazione, privilegiando nei alcuni e sviluppare un rapporto più mirato con un emittente televisiva piuttosto che con un’altra. così la comunicazione segue una programmazione Ben definita, si può fare un controllo della sua efficacia e si possono fare aggiustamenti e correzioni con relativa calma. In una situazione di crisi, sotto la pressione del tempo e con i vincoli delle risorse disponibili, queste modalità di programmazione e gestione degli interventi comunicativi non possono essere impiegate. In una situazione di crisi siamo chiamati ad operare in un ambiente informativo fortemente destabilizzato. L'ambiente comunicativo instabile è caratterizzato da: • Una situazione estremamente fluida, dove le notizie, i bisogni, i protagonisti ed i destinatari della comunicazione sono in continua evoluzione; • una maggiore emotività del pubblico, a causa dello stress cui è sottoposto che crea stanchezza e maggiore reattività, ma anche a causa di possibili recriminazioni per quanto avvenuto che possono creare sentimenti di rabbia o di colpa; • una minore ricettività del pubblico, a causa dell’ intasamento dello spazio comunicativo da parte di numerose fonti, con il ripetersi di aggiornamenti, precisazioni, polemiche, e con il sommarsi di notizie spesso contraddittorie o addirittura di segno opposto; • un accesso limitato ai fatti, con la difficoltà di identificare e contattare fonti informative affidabili e aggiornate. Obiettivi della comunicazione in situazioni di crisi La comunicazione di crisi è un processo interattivo di scambio di informazioni ed opinioni tra individui, gruppi ed istituzioni che coinvolge messaggi multipli circa la natura della crisi, l’espressione di preoccupazioni ed opinioni, la reazione ai messaggi di crisi, i supporti legali ed istituzionali per la gestione della situazione critica. la regola cardine della comunicazione di crisi è la stessa che per la medicina di emergenza: non danneggiare. Gli obiettivi essenziali di una comunicazione di crisi efficace sono: • Prevenire o modificare risposte pubbliche non efficaci; • Prevenire o modificare risposte ansiogene o dannose; • Rafforzare la fiducia e la sicurezza. Destinatari della comunicazione in situazioni di crisi - Le vittime La comunicazione può essere fatta in modo diretto, attraverso l'incontro ristrutturati o informali, e in modo indiretto, attraverso la creazione o distribuzione di materiale informativo o la realizzazione di campagne informative. Nel caso della comunicazione con le vittime, diventa indispensabile individuare un responsabile della comunicazione, che individuare le risorse umane da affiancare al responsabile della comunicazione, predisporre l'organizzazione e la pianificazione degli strumenti e delle risorse necessarie. - Le istituzioni Anche nel caso delle istituzioni, la comunicazione può essere fatta in modo diretto, attraverso incontri strutturati per la raccolta di informazioni, la promozione dei servizi di supporto psicosociale, la programmazione di interventi, ed in modo indiretto, attraverso la creazione e distribuzione di materiale informativo. La comunicazione istituzionale in caso di emergenza può essere sviluppata secondo due tipologie: la comunicazione intra istituzionale, che comprende tutte le comunicazioni operative da attuare all’interno del sistema di soccorso, e la comunicazione Inter istituzionale, che comprende tutte le comunicazioni operative da attuare tra le diverse realtà che si occupano dell'assistenza delle vittime. 42 RIASSUNTO Gli operatori dell’emergenza. Fattori di rischio e protezione - I mass media La comunicazione può essere veicolata attraverso la realizzazione di interviste, dirette o telefoniche, a televisioni, radio o giornali. i media possono essere coinvolti mediante la realizzazione di incontri pubblici o conferenze stampa. Le iniziative di comunicazione del rischio dovrebbero essere preparate così come ogni altra operazione di emergenza. Dovrebbero essere preparate liste di referenti con indirizzi e numeri telefonici così come volantini esplicativi e materiali informativi. E, cosa ancora più importante, devono esserci i protocolli condivisi per l'azione. Comunicare prima, durante e dopo una situazione di crisi Comunicare efficacemente durante una crisi richiede pianificazione, preparazione, capacità di gestire il flusso delle informazioni, comprensione dei protocolli di comunicazione, del valore dei messaggi e del funzionamento dei media. Molto del successo delle comunicazioni di crisi efficaci risiede Nella quantità di lavoro impiegato nella pianificazione e nella preparazione. Quali informazioni devono esserci, chi prende le decisioni, Chi dà gli ordini, chi le esegue. Una situazione di crisi non è il momento migliore per cominciare a rispondere a queste ➢ Pianificazione Esistono alcuni passi per gli operatori istituzionali possono fare, prima che si verifichi un qualsiasi incidente, per pianificare la comunicazione e per preparare meglio i simboli e le comunità, i gestori dei soccorsi, i media, il personale sanitario ed ospedaliero a rispondere alle sfide lanciate dalla gestione di situazioni critiche. In estrema sintesi, per una pianificazione efficace bisogna porsi alcune domande e trovare le risposte adeguate. Quale informazione è cruciale convogliare nel messaggio iniziale per sollecitare risposte pubbliche appropriate? Per rispondere efficacemente a questa domanda bisogna innanzitutto valutare gli aspetti caratteristici dell’evento, con le sue peculiarità ed i particolari rischi che ci si aspetta possa generare per le vittime. Bisogna poi stabilire quale obiettivo comunicativo sia prioritario e quali invece possano essere perseguiti in un secondo momento. Bisogna rassicurare i superstiti o bisogna far sì che si adottino dei comportamenti particolari? Oppure nelle prime comunicazioni bisogna perseguire un altro obiettivo? La risposta a questa domanda discende dalla risposta ad una ulteriore domanda. Quali domande del pubblico possono essere anticipate? Bisogna valutare l’ambiente in cui si sta introducendo l’informazione. Quali sono i temi di interesse, i problemi in primo piano, le preoccupazioni maggiori, le eventuali distorsioni? Bisogna inoltre acquisire un’idea dell’attitudine generale del pubblico verso la situazione e disegnare la comunicazione in modo conforme. I destinatari sono preoccupati e bisognosi di rassicurazione? Sono disinteressati e bisognosi di avvertimento? Sono arrabbiati e bisognosi di essere tranquillizzati? Quali sono le opportunità per effettuare comunicazioni e come possono essere massimizzate? Bisogna sfruttare tutte le occasioni disponibile per raggiungere i destinatari individuati. Per quanto riguarda le vittime bisogna approfittare dei momenti in cui queste si riuniscono nelle strutture di accoglienza, bisogna utilizzare gli spazi dedicati alla diffusione di informazioni, ed è poi possibile organizzare degli incontri o partecipare ad incontri organizzati da altri offrendo il nostro contributo. ➢ Preparazione Le persone falliscono spesso nel comunicare efficacemente a causa della mancanza di Chiari obiettivi comunicativi ed i messaggi chiave che li supportino. Stabilire questo obiettivi ed identificare i messaggi di supporto ad essi sono decisioni che devono essere prese prima di rilasciare qualsiasi tipo di pubblico convento, e che sono particolarmente importanti in una crisi. L'obiettivo di educare il pubblico alla complessità del problema e prepararlo ad ogni eventualità non è realistico. Informare il pubblico del problema e dei pericoli specifici, e allentare le preoccupazioni sono invece obiettivi raggiungibili. Una comunicazione sulle probabilità statistiche e su come queste si traducono in uno scenario di rischio per la popolazione può andare bene per gli scienziati, ma per il grande pubblico una tale discussione confonderà solamente le idee, fallendo l'obiettivo di informare e di allentare le preoccupazioni. Prendiamo, ad esempio, una situazione di temuto contagio. Se l'obiettivo è quello di allentare le preoccupazioni del pubblico, i messaggi chiave di supporto possono essere: il rischio è basso, la malattia è curabile, la trasmissione non è facile, i sintomi sono facilmente riconoscibili. Se l'obiettivo è fornire una guida su come rispondere, i messaggi 45 RIASSUNTO Gli operatori dell’emergenza. Fattori di rischio e protezione Prima, durante e dopo un’intervista: cose da fare e cose da non fare Prima dell’intervista Cosa fare: - Chiedere chi farà l’intervista - Chiedere quali soggetti saranno trattati - Avvisare l’intervistatore sui limiti delle proprie competenze - Indagare sul formato e sulla durata - Chiedere chi altro sarà intervistato - Suggerire altre persone da intervistare Cosa non fare: - Permettere di essere intervistati su argomenti al di fuori delle proprie competenze - Chiedere che vengano fatte solo specifiche domande - Dichiarare alcuni argomenti fuori discussione: dichiarando che non saranno discusse certe cose si dà l’impressione che c’è qualcosa da nascondere. Durante l’intervista Cosa fare: - Offrire e ribadire i propri messaggi chiave - Rimanere aderenti ai fatti - Essere disponibili a raccogliere informazioni che non si hanno - Offrire una giustificazione se non si può discutere un argomento - Correggere gli errori fatti - Ricordarsi che i microfoni e registratori sono accesi Cosa non fare: - Suscitare questioni che non si vogliono citare nella cronaca - Rispondere a domande che vanno al di là delle proprie responsabilità - Fare speculazioni, profezie, ipotesi - Parlare per altri - Dire “no comment” Dopo l’intervista Cosa fare: - Ricordarsi che si è ancora ascoltati e registrati - Verificare se è sorta qualche domanda - Offrirsi volontariamente di dare informazioni - Rispettare le scadenze e fornire tutte le informazioni aggiuntive che si sono promesse - Guardare e leggere gli articoli risultanti - Chiamare il giornalista per chiarire le imprecisioni che intaccano il senso dell’intervista Cosa non fare: - Pensare che l’intervista è finita e che i registratori siano spenti - Rifiutare di parlare ulteriormente - Chiedere “come sono andato?” - Chiedere di rivedere l’articolo prima della pubblicazione o della trasmissione - Lamentarsi con il responsabile del giornalista prima di farlo con lui Come rispondere a imprecisioni sostanziali Se si verificano imprecisioni sostanziali, ad esempio imprecisioni che possono potenzialmente portare ad aggravare una situazione critica, ci si dovrebbe attivare per correggerle. È importante ricordare che più a lungo la disinformazione permane nell’ambiente informativo, più sarà difficile correggerla. È importante mantenere il proprio livello di risposta adeguato al livello del problema. Reagire compostamente ad un errore non farà che attrarre l’attenzione sul problema che si sta cercando di correggere. Il miglior modo per affrontare un errore singolo è quello di fare una tranquilla telefonata al giornalista che ha fatto l’errore. 46 RIASSUNTO Gli operatori dell’emergenza. Fattori di rischio e protezione CAPITOLO 12 LA COMUNICAZIONE DEL DECESSO La comunicazione di cattive notizie: un modello a fasi La comunicazione del decesso pone enormi sfide ai vari gruppi professionali che devono svolgere questo compito. Tali operatori si trovano nell’indesiderabile ruolo di messaggeri di cattive notizie e si confrontano in modo diretto con le reazioni dei familiari o altri cari. Gli effetti della comunicazione del decesso si possono ripercuotere sull’operatore: si è visto che tra il personale militare preposto a parlare con i familiari dei deceduti, quelli che erano stati esposti al dolore acuto dei familiari riportavano umore depresso e diminuzione del senso di benessere. Oltre al benessere degli operatori, va considerato anche quello delle persone il cui lutto comincia proprio con la comunicazione della cattiva notizia. Il processo di comunicazione del decesso potrebbe essere interpretato come un’opportunità di prevenzione secondaria che può ridurre la probabilità di un ulteriore danno psicologico. Quando si parla di comunicazione di cattive notizie si tende a pensare solo al momento in cui l’operatore comunica ai familiari l’accaduto; in realtà, la comunicazione di cattive notizie è un processo che comprende tutta una serie di passaggi prima e dopo la notifica. Auto-valutazione Un primo punto riguarda chi comunica, ossia la persona deputata a fornire la notizia ai familiari. Dal momento che una condizione essenziale per una buona comunicazione è la conoscenza in dettaglio dell’accaduto, sarebbe opportuno che venisse coinvolto nella notifica del decesso il personale intervenuto sulla scena dell’incidente/disastro/crimine. Una valutazione personale, inoltre, permette di comprendere in anticipo alcuni dei vissuti e delle reazioni a tale compito. Preparazione La preparazione per la comunicazione di una cattiva notizia può essere intesa sia in senso personale, sia come raccolta di informazioni: sull’accaduto e sui familiari a cui si deve portare la notizia. La raccolta di informazioni sui familiari permette di prevedere reazioni particolarmente significative e, soprattutto, di identificare la persona più appropriata a cui comunicare: è sconsigliabile, ad esempio, comunicare la notizia ad un individuo cardiopatico. Conoscere i dettagli dell’accaduto, poi, permette all’operatore di rispondere alle domande che i familiari possono fare; comunicazioni errate potrebbero causare sofferenze inutili per i familiari. Comunicazione dell’accaduto La comunicazione dell’accaduto andrebbe fatta di persona. Una volta di fronte al familiare ritenuto più appropriato, è necessario portarlo in un ambiente tranquillo, lontano dai rumori e non affollato. La comunicazione delle cattive notizie deve essere semplice, diretta e completa. In generale, è buono preparare la persona avvisandola del fatto che si stanno portando cattive notizie. In caso di decesso, espressioni come “spirato” “trapassato” o “non è più con noi” sono da evitare: gli eufemismi possono rendere il messaggio poco chiaro e generare confusione, facilitare reazioni di negazione o di falsa speranza. Alcun autori sostengono che anche la parola “deceduto” vada evitata, in quanto risulta troppo distaccata. È meglio dire che il familiare è morto, nonostante i tentativi di soccorso. Interessamento distaccato: rispondere alle reazioni dei familiari Una volta comunicata la cattiva notizia, l’operatore non può più fare altre comunicazioni, poiché non sarebbero recepite. Occorre sempre ricordare che è assolutamente normale che, in questi momenti, vi siano delle reazioni emotive molto intense, e che generalmente avvengono nei primi 15 minuti successivi alla comunicazione della cattiva notizia. Se il familiare chiede ulteriori dettagli, in questa fase è preferibile dosare le informazioni, evitando soprattutto i dettagli troppo cruenti. 47 RIASSUNTO Gli operatori dell’emergenza. Fattori di rischio e protezione CAPITOLO 13 IL LUTTO E LA PERDITA Le conseguenze psicologiche della perdita: un modello multifattoriale Secondo il modello psicosociale della resilienza di Prati e Pietrantoni, una perdita innesca un processo in cui entrano in gioco diversi fattori legati alla persona, al suo contesto e alle modalità di fronteggiamento. Le caratteristiche della perdita Le perdite possono avere caratteristiche molto diverse tra loro, se pensiamo per esempio alla morte di una persona di 95 anni dopo una lunga malattia, o a quella improvvisa di una bambina di 5 anni a seguito di un incidente. Perdite che avvengono all’improvviso, che sono percepite come violente, premature ed evitabili sono tendenzialmente associate a maggior esiti negativi quali il lutto complicato. Vanno inoltre considerati i decessi multipli: pensiamo ad esempio ad un adolescente che sopravvive ad un incidente stradale perdendo tutta la famiglia. La morte di una persona cara comporta anche un cambiamento della propria identità: la perdita del partner o dell’unico figlio va a influire sulla definizione di sé come moglie/marito o come genitore. Parallelamente al cambiamento dell’identità avviene anche un mutamento nella rete sociale: se muore un genitore, la persona è deprivata di un’importante fonte di sostegno affettivo; se muore un partner può accadere che diminuiscano i contatti con amici, colleghi e familiari del defunto, anche se prima erano parte della rete sociale della coppia. Queste perdite e cambiamenti conseguenti il decesso di una persona cara costituiscono una seconda categoria di fonti di stress associate al lutto. I fattori sociali e ambientali Una perdita chiama in causa il ricorso a risorse sociali e personali per farvi fronte. Fra le prime, troviamo il sostegno sociale, che si rivela essere un fattore di protezione generale per il benessere, ma non un fattore di protezione specifico in caso di lutto: gli studi hanno infatti dimostrato che non vi sono differenze nell’effetto protettivo del sostegno sociale fra persone che hanno subito un lutto e persone che non l’hanno subito. In ogni caso, fra le persone che hanno subito un lutto il sostegno sociale si associa a maggiore benessere, e l’isolamento sociale risulta essere uno fra i maggiori predittori di disagio. Il sostegno sociale risiede in parte all’interno della famiglia; tuttavia, le dinamiche familiari conseguenti al lutto possono costituire non sono una risorsa, ma anche un’ulteriore fonte di stress. La partecipazione a programmi di intervento (ad esempio gruppi di auto-aiuto) è un’altra forma di sostegno sociale e di risorsa ambientale che risulta avere un impatto positivo. I fattori personali Fra i fattori demografici, il genere ha un impatto diverso a seconda del tipo di perdita: le madri rispetto ai padri sono più vulnerabili alla perdita dei figli, mentre i mariti rispetto alle mogli sono più vulnerabili alla perdita del partner. Parlando di età, le evidenze suggeriscono che più si è giovani, più si è vulnerabili. I sistemi di credenze dell’individuo giocano un ruolo cruciale nel processo di adattamento al lutto. Le persone che hanno credenze volte ad accettare la morte come parte del processo della vita tendono ad adattarsi meglio e a vivere in modo più sereno una perdita. I fattori processuali La relazione fra richieste imposte dalla perdita e risorse personali e sociali influisce sull’interpretazione soggettiva della perdita e sulle strategie di coping adottate. Gli studi hanno messo in luce che le persone che reinterpretano o riformulano positivamente l’evento, o si sforzano di trovarne degli aspetti positivi, tendono ad adattarsi meglio all’accaduto. 50 RIASSUNTO Gli operatori dell’emergenza. Fattori di rischio e protezione psicologico e sociale delle persone e delle comunità e a contenere l’occorrenza e la gravità degli effetti negativi e dei problemi di salute correlati alla calamità. Azioni di supporto psicologico Al sostegno pratico ed emozionale già in atto, e che deve essere portato avanti, in questa fase devono prendere avvio le azioni di empowerment, ossia le azioni che devono facilitare la capacità di reazione delle persone e migliorarne le abilità e le strategie di coping. In particolare, in questa fase si devono avviare interventi volti a promuovere la resilienza e a favorire modalità di coping adattive. Il primo soccorso psicologico Il protocollo di primo soccorso psicologico può essere messo in atto dallo psicologo o da personale delle associazioni di soccorso opportunamente preparato e mira al recupero dell’equilibrio psico-fisico e al contenimento dello stress attraverso interventi fondati sulla continua offerta di supporto pratico ed emotivo. Il protocollo di primo soccorso psicologico è articolato in 8 moduli che rappresentano le azioni chiave: 1. Primo contatto e aggancio: rispondere alle richieste di contatto da parte dei superstiti, avvicinarsi in modo non intrusivo ma empatico e tale da essere d’aiuto. 2. Sicurezza e conforto: promuovere uno stato di sicurezza immediato e a lungo termine, offrire conforto fisico ed emotivo. 3. Stabilizzazione: calmare e orientare i superstiti sopraffatti dalle emozioni. 4. Raccolta di informazioni: identificare bisogni e preoccupazioni immediate, raccogliere informazioni aggiuntive e pianificare il promo soccorso psicologico più adeguato. 5. Assistenza pratica: offrire aiuto pratico nella gestione dei bisogni e nelle preoccupazioni immediate. 6. Collegamento alla rete di supporto sociale: aiutare a instaurare contatti brevi o più a lungo termine con le persone che offrono il supporto primario e con altre fonti di supporto, inclusi i familiari e le altre figure della comunità. 7. Informazione sulle strategie per far fronte alla situazione: offrire informazioni sulle possibili reazioni a eventi stressanti, nonché sulle strategie più utili a ridurre lo stress e a promuovere un buon adattamento. 8. Collaborazione con altri servizi: collegare i superstiti con i servizi disponibili sul territorio in emergenza e a lungo termine. Intervento sui soccorritori Di primaria importanza nei primi giorni dopo la calamità è anche l’avvio degli interventi di supporto ai soccorritori, che sono tra le persone più a rischio nell’ambito dell’emergenza. Le azioni di supporto ai soccorritori rappresentano una categoria di interventi supportivi da effettuare in maniera articolata e costante. Le reazioni di stress negli operatori che intervengono nella calamità sono normali e vanno previste, e proprio per questo è necessario che siano sempre attive le squadre per la realizzazione dei necessari interventi di defusing, debriefing, rilassamento psicofisico ecc… Fase di ristabilizzazione/ricostruzione Per fase di ristabilizzazione si intende quel periodo di tempo che va dai tre mesi successivi alla catastrofe a circa i tre anni. Obiettivo dell’intervento in questa fase è quello di portare a compimento gli interventi di facilitazione delle strategie di coping dopo la catastrofe, articolare in maniera sempre più organica gli interventi volti a supportare le persone che necessitano di interventi a lungo termine, continuare gli interventi di supporto psicologico con i soccorritori che hanno sviluppato problemi e che necessitano di trattamenti protratti, proseguire con le attività relative ai programmi di recupero psicosociale, assistere la comunità ed i singoli individui affinchè riescano a vivere rituali e commemorazioni come momenti di elaborazione individuale e collettiva. 51 RIASSUNTO Gli operatori dell’emergenza. Fattori di rischio e protezione Azioni di supporto psicologico Il sostegno sociale è necessario e utile in ogni fase successiva al disastro e quindi anche in questa fase per proseguire nell’azione di contenimento dello stress psicofisico. Oltre alle azioni di supporto mirate a favorire il recupero del benessere individuale e collettivo relativo ai vissuti e alla sintomatologia collegate alla catastrofe, e quindi generalmente transitorie e non marcate, in questa fase l’attenzione si rivolge in maniera particolare sulle persone che presentano ancora problemi psicologici e che necessitano di interventi di supporto articolati e protratti nel tempo. Aspetti fondamentali di una buona relazione di aiuto L’assistenza psicologica in generale, e quella in situazioni di emergenza in particolare, deve essere svolta tenendo conto di una serie di aspetti e caratteristiche che la rendono accettabile, benefica, positiva, terapeutica, per le persone che ne fruiscono. La relazione deve essere percepita come relazione di aiuto, come relazione che genera benessere e che risulta supportiva. Questo tipo di relazione è la risultante dell’azione sinergica di una serie di fattori capaci di incidere sul piano cognitivo, emozionale e psicosomatico del soggetto messi in atto dallo psicologo che conduce l’intervento. Tra i fattori che devono caratterizzare l’azione supportiva dello psicologo dell’emergenza possiamo indicare: la calma, la socievolezza, il buonsenso di evitare conflitti, l’empatia, la considerazione positiva del superstite, la capacità di ascolto attivo, l’atteggiamento incoraggiante e positivo e infine l’atteggiamento cautamente umoristico. 52 RIASSUNTO Gli operatori dell’emergenza. Fattori di rischio e protezione 55 RIASSUNTO Gli operatori dell’emergenza. Fattori di rischio e protezione sensazionale scoperta sul fattore scatenante delle isterie, ossia un fattore primario che le causa. Nel 1896 pubblica una ricerca su 18 casi clinici con il titolo “etiologia dell'isteria”, in cui esprime il risultati del lavoro svolto, affermando che alla base di ogni caso di isteria b sono uno o più episodi di esperienza sessuale precoce nella prima infanzia, episodi che il lavoro analitico è in grado di evocare nonostante i decenni trascorsi. Questa tesi, nota come teoria della seduzione, contemplava sia le idee sia la presenza di un trauma infantile, che svolgeva la funzione di causa specifica delle psiconevrosi. Psiconevrosi era infatti il nuovo termine che designava le isterie e tutti i disturbi con riconosciuta causa psichica. La pubblicazione di queste coraggiosa affermazioni porto, però, Freud a pesanti preoccupazioni derivanti dalle reazioni di rifiuto generalizzato dovute alle implicazioni sociali della sua tesi. Bisogna considerare infatti che l'isteria era così comune tra le donne che, se queste storie delle pazienti erano vere e la sua teoria era corretta, sarebbe stato obbligato a concludere che quelli che definiva atti perversi contro i bambini erano endemici e non solo tra il proletariato , dove aveva studiato, ma anche tra le rispettabili famiglie borghesi di Vienna, dove esercitava la sua pratica medica. Questa idea era semplicemente inaccettabile, al di là della credibilità. Risultava impossibile accettare che alla base dei sintomi nevrotici ci sarebbe dovuto essere un episodio di abuso sessuale infantile perpetrato da un adulto. La grande difficoltà vissuta da Freud determinò la decisione di smentire la teoria elaborata precedentemente. Si faceva strada nella sua mente una nuova visione dell'eziologia dell'isteria, basata sulle nuove osservazioni fatte sulla sessualità infantile. Dopo questa fase, in Freud inizia un periodo di svolta che lo porta a concezioni completamente diverse sul trova psichico rispetto a quelle degli anni precedenti. Freud comincia a trasformare il suo concetto di trauma psichico accogliendo e facendo proprio un orientamento già presente nella psicologia di quegli anni, riassumibile nella nozione di rappresentazione di desiderio. Si dovrebbe cominciare l'analisi dell’isteria con la scoperta dei motivi che agiscono al momento presente e che inducono ad accettare la malattia. In questa affermazione di Freud è già pienamente rilevabile il concetto di tornaconto di malattia, un concetto che in quel periodo comincia a farsi strada e che implica l'idea che il sintomo isterico si sviluppi in una cornice motivazionale di tipo soggettivo che, partendo da una rappresentazione di desiderio, ci porta ad accettare le malattie psicogene per via di un tornaconto della malattia. Potrebbe accadere ad esempio che a seguito di un più o meno grave incidente sul lavoro un operaio possa sviluppare una paralisi isterica, motivata è sorretta dal desiderio di una pensione. È evidente a questo punto che il trauma per Freud intorno ad un contenuto di realtà intrapsichica inaccettabile e quindi rimosso, e quindi un desiderio inconscio che sottende e motiva i sintomi isterici e le psiconevrosi. Quando Freud decise di smentire la teoria dell'isteria basata sulla seduzione infantile aveva già preso posto nella sua mente una nuova visione dell'eziologia dell'isteria, basata sulle nuove osservazioni fatte sulla sessualità infantile. L’analisi aveva portato all'individuazione di traumi sessuali infantili, e tuttavia questi non corrispondevano al vero. Si era dunque perduto il terreno della realtà. Se gli isterici riducono i loro sintomi a traumi inventati, la novità consiste nel fatto che essi creano tali scene nella loro fantasia, e dietro alle fantasie appare allora in piena luce la vita sessuale del bambino in tutta la sua estensione. Nella sostanza, il trauma non viene causato da un'esperienza insopportabile, ma da un vissuto inaccettabile che determina la rimozione. Proprio dalla rimozione dei vissuti e delle fantasie inaccettabili e inammissibili prende avvio la nuova visione del trauma. Freud arriva alla conclusione che i ricordi degli abusi sessuali subiti durante l'infanzia, riportati dalle sue pazienti isteriche, non corrispondevano al vero, ed al riguardo afferma che si vide costretto a riconoscere che tradisce nel di seduzione non erano mai avvenute nella realtà, ma erano fantasie create dall'immaginazione delle pazienti. La psicoanalisi attraverso queste fasi di evoluzione teorica passa da una concezione del trauma come evento esterno che ci colpisce e ci causa problemi costringendoci a vivere una condizione invivibile, insopportabile e quindi traumatica, ad una concezione del trauma come vicissitudini interni della fantasia e del desiderio dissociati dalla realtà e dall'esperienza. 56 RIASSUNTO Gli operatori dell’emergenza. Fattori di rischio e protezione Il trauma psichico dal 1900 a oggi La grande guerra. I traumi da combattimento come invalidità morale e nevrosi da indennizzo La considerazione della nevrosi traumatica come reazione psicologica poneva, però, il problema di quale fosse il motivo della persistenza dei sintomi. La reazione psicologica iniziale poteva anche essere ammessa, ma doveva poi, in un breve arco di tempo, essere padroneggiata è superata. Quando questo non avveniva voleva dire che l'azione di qualche altro fattore aveva determinato la fissazione dei sintomi. L’idea comune era che la fissazione dipendesse da desideri non dichiarati ed ho una volontà troppo debole per contrastare tali desideri, ossia da disposizioni psicologiche che erano espressione di una personalità morbosa, all'epoca si parlava per lo più di inferiorità psicopatica. Queste tesi si fondavano in sostanza sul desiderio di ammalarsi per sottrarsi al fronte e sull'assunto di inferiorità morale costituzionale della persona. Secondo la lezione della psichiatria morale, a seguito delle esperienze scioccanti fatte in trincea la reazione di turbamento poteva anche esserci, ma se si creavano flashback, immagini che si ripresentavano nei sogni, se non sopraggiungeva l'oblio, senza soggetto non riusciva a dimenticare queste cattive impressioni allora bisognava chiedersi come mai queste cattive impressioni potessero far presa sull'animo del soldato e fissarsi durevolmente. Per la morale la risposta era che, per perseverare l'armonia dei sentimenti, la natura previdente aveva dato all'uomo sano e attivo la capacità di dimenticare presto tali impressioni. Se questo non avveniva, allora voleva dire che una parte della sua anima indulgeva su esse, alimentando con vane chimere segrete passioni. E poiché le passioni erano considerate dannose quando si sottraevano al guinzaglio della ragione per porsi al servizio del vizio e del peccato, in ultima istanza erano proprio i vizi e i peccati della vittima ad essere chiamati in causa come fissativo delle cattive impressioni. In sostanza, per i medici militari del tempo erano ammissibili solo le reazioni iniziali allo shock. Se poi le reazioni iniziali non andavano incontro a progressivo a remissione si attivava il dogma psichiatrico del tempo che sottintendeva che una prognosi negativa dovesse essere la conseguenza di vulnerabilità premorbose. Qualora i problemi del soggetto per si stessero, la colpa era da attribuire alla relazione tra predisposizione, costituzione, inclinazione degenerativa e risarcimento. Psichiatri e neurologi ritennero di essere impegnati nella lotta contro il disfacimento della volontà, contro le passioni morali insane e le mire di risarcimento fuga dal fronte dei soldati colpiti da shock da bombardamento. Occorreva stimolare e amplificare il desiderio di star bene del paziente, mediante esercizi fisici. Il trattamento era talmente doloroso che molti pazienti preferivano farsi spedire in prima linea, e in questo modo venivano considerati i guanti. Alla fine della grande guerra andava affermandosi il trauma psichico da conflittualità interna, ossia da contenuto intrapsichico aggressivo o sessuale inammissibile è inaccettabile, ma il trauma psichico da evento esterno sembrava essere scomparso è inammissibile, come se nulla fosse rimasto di tanti studi precedenti. La seconda guerra mondiale. Prevedere-prevenire-curare i traumi psichici da combattimento In totale contrapposizione con quanto veniva asserito drasticamente durante la prima guerra mondiale, si cominciò ad affermare che qualunque uomo può avere un crollo su un campo di battaglia e che le malattie psichiatriche possono essere predette in diretta proporzione con l'intensità dell'esposizione al combattimento, che 200 giorni di combattimento erano sufficienti a creare un collasso psichico anche al più forte dei soldati. Persone malattie psichiatriche in guerra sono inevitabili. Per proteggere i soldati dalle angosce successive ad azioni di combattimento di particolare impatto emotivo, presero avvio le sedute operative di gruppo divenute poi celebri con il nome di “debriefing”, una forma di sostegno e protezione della salute psichica dei soldati. Con la seconda guerra mondiale si assiste quindi alla nascita del trauma da evento esterno reale. Un ambito che contribuì non poco a questa rinascita furono le atrocità dei campi di sterminio. Gli psichiatri e psicoanalisti che riuscirono a salvarsi sentirono infatti il bisogno di approfondire e comprendere quanto avevano osservato su loro stessi e sui compagni deportati nei campi di sterminio. 57 RIASSUNTO Gli operatori dell’emergenza. Fattori di rischio e protezione La guerra dei Vietnam. La richiesta di cure e di dignità per le ferite psichiche da combattimento Dopo la fine della seconda guerra mondiale furono messe rapidamente da parte e dimenticate le conoscenze acquisite sulle nevrosi da guerra o sui traumi psichici da combattimento. Nel 1968, in pieno conflitto con il Vietnam, il trauma da guerra era considerato così raro che la associazione psichiatrica americana elimino dalla nuova edizione del suo manuale ogni menzione di disturbo da stress. Ma poco dopo la pubblicazione di quel manuale un enorme numero di soldati americani, emotivamente trovati dal servizio in Vietnam, cominciò ad affollare i centri di assistenza. Ci vollero altri 12 anni e la previsione del manuale ufficiale di diagnostica psichiatrica nel 1980 perché le sofferenze dei redditi del Vietnam fossero formalmente riconosciute ed etichettate come disturbo da stress post traumatico. Come accade subito dopo ogni guerra, la società non era pronta ad accogliere e curare adeguatamente i reduci, e tra disorganizzazioni, impreparazione, tensione e malcontento le condizioni cliniche dei reduci psichicamente traumatizzati si acuirono egli il loro si determinò un vissuto di abbandono da parte della collettività. Questa situazione spinse un gruppo di reduci del Vietnam a uno sforzo organizzativo che si concretizzò nella nascita di un'organizzazione chiamata “Vietnam veterans against the war”. I veterani del Vietnam diedero luogo ad un'organizzazione indipendente ed autonoma che poteva essere più attenta ai loro bisogni psicologici e alle loro sofferenze da trauma. Durante gli anni settanta furono promossi moltissimi gruppi di sostegno reciproco tra pari in tutti gli stati uniti, e grazie agli studi sistematici sui veterani condotti in quegli anni alla fine di quel decennio a livello politico, scientifico e di opinione pubblica e lo divenuto chiaro che la vita dei reduci era spesso disturbata da danni permanenti a carico della loro personalità, e che quei disturbi rappresentavano un'eredità di guerra. Queste nuove sensibilità e le nuove consapevolezze maturate a livello culturale e scientifico portarono nel 1980 l'associazione americana di psichiatria ad includere nel suo manuale ufficiale dei disturbi mentali, il DSM-III, una nuova categoria diagnostica denominata disturbo post traumatico da stress, cosa che comportò il pieno riconoscimento della natura di condizione psichica di vulnerabilità e di bisogno di assistenza psicologica e sociale al trauma psichico da combattimento. L’evoluzione del concetto di trauma nel DSM-5 Il disturbo post traumatico da stress è stato inserito ufficialmente nel manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali nel 1980, per indicare una patologia che insorge acutamente in conseguenza all'esposizione ad eventi stressanti di gravità estrema che mettono a repentaglio la propria o altrui incolumità. Nella letteratura dei primi anni ottanta si faceva riferimento prevalentemente alle conseguenze psicologiche di soggetti esposti ad operazioni di guerra. I soggetti con disturbo post traumatico da stress rimangono incastrati nel ricordo terrificante, incapace di concentrarsi sul presente. Il disturbo è caratterizzato dalla continua intrusione nella coscienza di ricordi dolorosi cui segue una forte attivazione fisiologica con relativi tentativi di impedire il riaffiorare dei ricordi attraverso strategie di evitamento attivo e passivo. Gli studi condotti sul trauma hanno, da alcuni anni, chiarito il ruolo del disturbo post traumatico da stress come una delle risposte di vulnerabilità nelle vittime di eventi traumatici. I fattori che possono favorire lo sviluppo di un disturbo post traumatico da stress sono: una vulnerabilità genetico costituzionale a malattie psichiche, traumi infantili, alcune caratteristiche di personalità, recenti stress o cambiamenti, la mancanza di un adeguato sostegno sociale, grave e recente abuso di alcol, locus of control esterno. Il quadro sintomatologico del disturbo post traumatico da stress può essere raggruppate in tre parti: • La risperimentazione del trauma, attraverso ricordi, sogni, flashback, a carattere intrusivo e ricorrente, a livello percettivo e affettivo; • L’evitamento di tutte le situazioni che rievocano l'evento traumatico fino ad uno stato dissociativo che comporta un senso di distacco ed estraniameno; • L’iperattivazione che si manifesta con la difficoltà a modulare il grado di arousal anche di fronte a sollecitazioni ambientali di lieve entità. 60 RIASSUNTO Gli operatori dell’emergenza. Fattori di rischio e protezione aiutarlo in questa elaborazione, prima di tutto regolando gli stati affettivi che saranno, ovviamente, disregolati. Un fallimento in questo compito da parte del genitore può compromettere lo sviluppo ottimale del bambino che, dovendo impegnare le proprie energie nel mantenere dissociata l'esperienza traumatica, non avrà più risorse sufficienti per raggiungere lo stato di quiete necessario ad acquisire la capacità di mentalizzare o di regolare autonomamente i propri stati affettivi. Appare evidente che sia maggiormente grave il caso in cui sia proprio il genitore ad essere la fonte dell'esperienza traumatica, sia attraverso abusi di tipo sessuale, emotivo o fisico, che per colpa di una incapacità di entrare in relazione con il proprio bambino. Infatti, anche l'assenza del genitore, sia fisica che psicologica, nel momento in cui il bambino ha bisogno di lui può essere considerata a pieno titolo un'esperienza traumatica. Numerosi studi confermano d'altra parte che eventi avversi accaduti durante l'infanzia incidono sulla successiva comparsa di disturbi psicopatologici, sia con esordio infantile che con esordio durante l'età adulta. Il convergere di una mole di studi nel campo dello stress traumatico ha, parallelamente, stimolato una riflessione sull'interrelazione tra natura del trauma ed i suoi esiti. In particolare, all'attenzione dei ricercatori in questo campo si è posta una casistica rispetto alla quale fare più adeguato riferirsi nei termini di trauma complesso: si tratta, cioè, i bambini che hanno fatto esperienza di eventi traumatici molteplici, cronici e prolungati, soprattutto di natura interpersonale e con un esordio precoce, spesso nel loro sistema di accudimento primario. Questa nuova diagnosi si muove dall'assunto che l’esposizione a molteplici traumi interpersonale comporti conseguenze su diverse aree del funzionamento del bambino, con effetti del trauma complesso sulle seguenti aree: • Attaccamento: difficoltà interpersonali e nella sintonizzazione emotiva con gli altri; • Livello biologico: analgesia, somatizzazione, problematiche mediche nell'arco di vita; • Regolazione dell’affetto: disregolazione emotiva, scarsa comprensione degli stati interni di sè e degli altri, incapacità a comunicare i propri bisogni e desideri; • Dissociazione: alterazioni dello stato di coscienza, depersonalizzazione; • Controllo del comportamento: scarsa modulazione degli impulsi, aggressività auto ed eterodiretta, abuso di sostanze; • Cognizione: disregolazione attentiva, difficoltà nel processamento degli stimoli, difficoltà di apprendimento; • Senso del sé: senso del sé carente, scarso senso di separatezza, disturbi dell’immagine corporea, bassa autostima, senso di vergogna e colpa. Il trauma nella psicobiologia Va ricordato come il trauma in età evolutiva sia fortemente caratterizzato da sequenze di tipo neurobiologico per le quali appare indispensabile riferirsi alle eziologia del trauma. Diversamente da eventi traumatici isolati, infatti, che tendono a produrre singole risposte biologiche e comportamentali condizionate in presenza dei riattivatori del trauma, nel trauma complesso mas trattamento cronico o traumatizzazione ripetuta tendono ad avere effetti pervasivi sullo sviluppo del cervello e della mente, interferendo con lo sviluppo neuropsicologico. Negli anni recenti si è cominciato ad indagare l'aspetto dell'impatto biologico del trauma con lo studio dei correlati neurobiologici, sotto la spinta degli studi rivolti alle relazioni cervello comportamento. Ora sappiamo che l'esperienza influisce sullo sviluppo cerebrale, ed è stato provato che l'esperienza ambientale gioca persino un ruolo sulla differenziazione dello stesso tessuto cerebrale. Il trauma psicologico precoce esita non solo in una sensibilizzazione emotiva, ma anche in una patologica sensibilizzazione della reattività neurofisiologica. Esperienze traumatiche alterano l'attività dell'asse ipotalamo ipofisi surrene, sistema evoluto nei mammiferi per il coping in condizioni di pericolo e minaccia. In presenza di un trauma acuto, è necessario per la sopravvivenza un aumento del cortisolo, l'ormone dello stress che esprime diverse e importanti funzioni. Una disregolazione dell'asse ipotalamo-ipofisi-surrene e di frequente riscontrata negli studi sui correlati neurobiologici del trattamento, che rilevano quasi invariabilmente livelli anormali di cortisolo. 61 RIASSUNTO Gli operatori dell’emergenza. Fattori di rischio e protezione Studi recenti hanno riscontrato in persone con diagnosi di disturbo post traumatico da stress, sia adulti che bambini, una riduzione delle dimensioni dell'amigdala o dell'ippocampo. La riduzione risulta più evidente sei il trauma è precoce, ovvero se si è verificato in un momento critico dello sviluppo, e laddove sia ripetuto. Un altro studio sui bambini che avevano subito abusi precoci ha messo in luce che il campione con disturbo post traumatico da stress avevo una maggiore larghezza della sostanza grigia del giro temporale superiore, coinvolta nell' ascolto non verbale e nel linguaggio. Più in generale, sembra che i traumi legati a maltrattamenti durante l'infanzia influiscono sullo sviluppo dell' emisfero destro, dominante per le risposte di attaccamento, per le elaborazioni degli stimoli non verbali, nella regolazione degli affetti e nella modulazione delle risposte allo stress. 62 RIASSUNTO Gli operatori dell’emergenza. Fattori di rischio e protezione 65 RIASSUNTO Gli operatori dell’emergenza. Fattori di rischio e protezione Disturbo da disinibizione del coinvolgimento sociale Il disturbo da disinibizione del coinvolgimento sociale presenta delle somiglianze con il disturbo da deficit di attenzione/iperattività, può verificarsi anche in bambini che non necessariamente soffrono di assenza di figure di attaccamento e può essere presente anche in presenza di attaccamento sicuro. I bambini manifestano una serie di comportamenti (verbali o fisici) eccessivamente familiari e privi di inibizione nell’approccio e nell’interazione con gli adulti sconosciuti, tanto che non mostrano alcuna reticenza ed esitazione ad allontanarsi con loro. Manifestano una generale e marcata felicità quando entrano in contatto con gli estranei, aspetto che, invece, può essere del tutto assente nei confronti dei caregivers. Quando gli sconosciuti rifiutano la loro ricerca di attenzione iniziano a manifestare elevati livelli di ansia e frustrazione. I comportamenti sociali disinibiti si estendono anche in adolescenza e si rivolgono al gruppo dei pari, con il quale si instaurano ben presto delle relazioni superficiali e caratterizzate da conflitti. Questi bambini non presentano rimorso, colpa o dispiacere quando feriscono o deludono le persone intorno a loro. Il comportamento disinibito si instaura perché i bambini, dal momento che i caregivers non soddisfano i loro bisogni emotivi e non li proteggono, iniziano a cercare, con una modalità amicale ed eccessivamente familiare, altri che possano farlo. Criteri diagnostici DSM-5 per il disturbo reattivo del coinvolgimento sociale A. Uno schema di comportamento in cui il bambino si approccia e interagisce attivamente con adulti non familiari ed esibisce almeno due dei seguenti sintomi: reticenza ridotta o assente nell’approcciare e interagire con adulti non familiari; comportamento verbale o fisico eccessivamente familiare, che non è coerente con i confini sanciti culturalmente e appropriati alletà; controllo diminuito o assente con un adulto che si occupa del bambino dopo essersi avventurati lontano, anche in ambienti non familiari; disponibilità ad andarsene con un adulto non familiare con minima o nessuna esitazione. B. I comportamenti nel criterio A non sono limitati all’impulsività (come nel disturbo da deficit dell’attenzione/iperattività) C. Il bambino ha sperimentato cure insufficienti come evidenziato da almeno uno dei seguenti sintomi: trascuratezza sociale o deprivazione nella forma di una mancanza persistente nell’avere le necessità emotive basiche per il conforto, la stimolazione e l’affetto incontrate dagli adulti che prestano le cure; cambi ripetuti degli assistenti all’infanzia che limitano le opportunità di formare attaccamenti stabili; allevamento in ambienti inusuali che limitano seriamente le opportunità di formare attaccamenti selettivi. D. La cura, nel criterio C, si presume sia responsabile per il comportamento disturbato nel criterio A. I disturbi nel criterio A cominciano in seguito alla mancanza di cura adeguata nel criterio C. E. Il bambino ha almeno 9 mesi. Tab. 3. Criteri diagnostici DSM-5 per il disturbo da disinibizione del coinvolgimento sociale. (APA, 2013) Disturbo post traumatico da stress Il disturbo post traumatico da stress o disturbo da stress post traumatico si manifesta in conseguenza di un fattore traumatico estremo, in cui la persona ha vissuto, ha assistito, o si è confrontata con un evento o con eventi che hanno implicato morte, o minaccia di morte, o gravi lesioni, o una minaccia all’integrità fisica propria o di altri. Eventi come ad esempio, aggressioni personali, disastri, guerre e combattimenti, rapimenti, torture, incidenti, malattie gravi. La risposta della persona comprende paura intensa e sentimenti di impotenza o di orrore. 66 RIASSUNTO Gli operatori dell’emergenza. Fattori di rischio e protezione Criteri diagnostici DSM-5 per il disturbo post traumatico da stress in adulti, adolescenti e bambini di età superiore a 6 anni A. Esposizione a morte reale o minaccia di morte, grave lesione, oppure violenza sessuale in uno (o più) dei seguenti modi: Fare esperienza diretta dell’evento/i traumatico/i. Assistere direttamente a un evento/i traumatico/i accaduto ad altri. Venire a conoscenza di un evento/i traumatico/i accaduto a un membro della famiglia oppure a un amico stretto. Fare esperienza di una ripetuta o estrema esposizione a dettagli crudi dell’evento/i traumatico/i (per es., i primi soccorritori che raccolgono resti umani; agenti di polizia ripetutamente esposti a dettagli di abusi su minori). B. Presenza di uno (o più) dei seguenti sintomi intrusivi associati all’evento/i traumatico/i, che hanno inizio successivamente all’evento/i traumatico/i: Ricorrenti, involontari e intrusivi ricordi spiacevoli dell’evento/i traumatico/i. Ricorrenti sogni spiacevoli in cui il contenuto e/o le emozioni del sogno sono collegati all’evento/i traumatico/i. Reazioni dissociative (flashback) in cui il soggetto sente o agisce come se l’evento/i traumatico/i si stesse ripresentando. Intesa o prolungata sofferenza psicologica all’esposizione a fattori scatenanti interni o esterni che simboleggiano o assomigliano a qualche aspetto dell’evento/i traumatico/i. Marcate reazioni fisiologiche a fattori scatenanti interni o esterni che simboleggiano o assomigliano a qualche aspetto dell’evento/i traumatico/i. C. Evitamento persistente degli stimoli associati all’evento/i traumatico/i, iniziato dopo l’evento/i traumatico/i, come evidenziato da uno o entrambi i seguenti criteri: Evitamento o tentativi di evitare ricordi spiacevoli, pensieri o sentimenti relativi o strettamente associati all’evento/i traumatico/i. Evitamento o tentativi di evitare fattori esterni (persone, luoghi, conversazioni, attività, oggetti, situazioni) che suscitano ricordi spiacevoli, pensieri o sentimenti relativi o strettamente associati all’evento/i traumatico/i. D. Alterazioni negative di pensieri ed emozioni associati all’evento/i traumatico/i, iniziate o peggiorate dopo l’evento/i traumatico/i, come evidenziato da due (o più) dei seguenti criteri: Incapacità di ricordare qualche aspetto importante dell’evento/i traumatico/i. Persistenti ed esagerate convinzioni o aspettative negative relative a se stessi, ad altri, o al mondo. Persistenti, distorti pensieri relativi alla causa o alle conseguenze dell’evento/i traumatico/i che portano l’individuo a dare la colpa a se stesso oppure agli altri. Persistente stato emotivo negativo (per es., paura, orrore, rabbia, colpa o vergogna). Marcata riduzione di interesse o partecipazione ad attività significative. Sentimenti di distacco o di estraneità verso gli altri. Persistente incapacità di provare emozioni positive. E. Marcate alterazioni dell’arousal e della reattività associati all’evento/i traumatico/i, iniziate o peggiorate dopo l’evento/i traumatico/i, come evidenziato da due (o più) dei seguenti criteri: Comportamento irritabile ed esplosioni di rabbia (con minima o nessuna provocazione) tipicamente espressi nella forma di aggressione verbale o fisica nei confronti di persone o oggetti. Comportamento spericolato o autodistruttivo. Ipervigilanza. Esagerate risposte di allarme. Problemi di concentrazione. Difficoltà relative al sonno (per es., difficoltà nell’addormentarsi o nel rimanere addormentati, sonno non ristoratore). F. La durata delle alterazioni (Criteri B, C, D, E) è superiore a 1 mese. G. L’alterazione provoca disagio clinicamente significativo o compromissione del funzionamento in ambito sociale, lavorativo o in altre aree importanti. H. L’alterazione non è attribuibile agli effetti fisiologici di una sostanza o a un’altra condizione medica. Tab. 4. Criteri diagnostici DSM-5 per il disturbo post traumatico da stress in adulti e adolescenti (APA, 2013) 67 RIASSUNTO Gli operatori dell’emergenza. Fattori di rischio e protezione Criteri diagnostici DSM-5 per il disturbo post traumatico da stress in bambini sotto i 6 anni A. Nei bambini sotto i 6 anni, esposizione a morte reale o minaccia di morte, grave lesione, oppure violenza sessuale in uno (o più) dei seguenti modi: Fare esperienza diretta dell’evento/i traumatico/i. Assistere direttamente a un evento/i traumatico/i accaduto ad altri, in particolare ai caregiver primari. Venire a conoscenza di un evento/i traumatico/i accaduto a un membro della famiglia oppure a una figura di accudimento. B. Presenza di uno (o più) dei seguenti sintomi intrusivi associati all’evento/i traumatico/i: Ricorrenti, involontari e intrusivi ricordi spiacevoli dell’evento/i traumatico/i. Nota: Ricordi spontanei e intrusivi non appaiono necessariamente come spiacevoli e possono essere espressi come gioco riattualizzante. Ricorrenti sogni spiacevoli in cui il contenuto e/o le emozioni del sogno sono collegati all’evento/i traumatico/i. Reazioni dissociative (flashback) in cui il bambino sente o agisce come se l’evento/i traumatico/i si stesse ripresentando. La riattualizzazione specifica del trauma può verificarsi nel gioco. Intensa o prolungata sofferenza psicologica all’esposizione a fattori scatenanti interni o esterni che simboleggiano o somigliano a qualche aspetto dell’evento/i traumatico/i. Marcate reazioni fisiologiche in risposta a fattori che ricordano l’evento/i traumatico/i. C. Uno ( o più) dei seguenti sintomi, che rappresentano persistente evitamento degli stimoli associati all’evento/i traumatico/i o alterazioni negative di pensieri ed emozioni associati all’evento/i traumatico/i: Evitamento o tentativi di evitamento di attività, luoghi o fattori fisici che suscitano ricordi dell’evento/i traumatico/i. Evitamento o tentativi di evitamento di persone, conversazioni o situazioni interpersonali che suscitano ricordi dell’evento/i traumatico/i. Alterazioni negative della cognitività Sostanziale aumento della frequenza di stati emotivi negativi (per es., paura, colpa, tristezza,vergogna, confusione). Marcata diminuzione di interesse o partecipazione ad attività significative, inclusa la limitazione del gioco. Comportamento socialmente ritirato. Persistente riduzione dell’espressione di emozioni positive. D. Alterazione dell’arousal e della reattività associate all’evento/i traumatico/i, iniziate o peggiorate dopo l’evento/i traumatico/i, come evidenziato da due (o più) dei seguenti criteri: Comportamento irritabile ed esplosioni di rabbia tipicamente espressi nella forma di aggressione verbale o fisica nei confronti di persone o oggetti. Ipervigilanza. Esagerata risposta di allarme. Problemi di concentrazione. Difficoltà relative al sonno (difficoltà nell’addormentarsi o nel rimanere addormentati, oppure sonno non ristoratore). E. La durata delle alterazioni è superiore a 1 mese. F. L’alterazione provoca disagio clinicamente significativo o compromissione nella relazione con genitori, fratelli, coetanei o altri caregiver, oppure nel comportamento scolastico. G. L’alterazione non è attribuibile agli effetti fisiologici di una sostanza o a un’altra condizione medica. Tab. 5. Criteri diagnostici DSM-5 per il disturbo post traumatico da stress in bambini di età inferiore ai 6 anni (APA, 2013) 70 RIASSUNTO Gli operatori dell’emergenza. Fattori di rischio e protezione Disturbi dissociativi La dissociazione è un termine utilizzato per descrivere la disconnessione tra alcuni processi psichici rispetto al restante sistema psicologico dell’individuo. Con la dissociazione si crea un’ assenza di connessione nel pensiero, nella memoria e nel senso di identità di una persona. La dissociazione è dunque un processo di dis-integrazione, la mente viene a perdere la sua capacità di integrare alcune funzioni superiori, e svariate osservazioni cliniche stabiliscono un legame causa-effetto tra trauma e dissociazione. La dissociazione è un termine che indica sia la categoria diagnostica dei disturbi dissociativi sia i sintomi dissociativi della coscienza sia alcuni processi psicopatogenetici causati da esperienze traumatiche che interferiscono con l’integrazione delle funzioni psichiche. I processi patogenetici dissociativi generano sintomi dissociativi che a loro volta possono dominare alcuni quadri clinici come un Disturbo Dissociativo oppure possono presentarsi in maniera variabile in pressoché tutte le categorie diagnostiche del DSM rappresentando un indice di gravità del quadro clinico. Secondo il DSM 5, i disturbi dissociativi sono caratterizzati da una discontinuità nella normale integrazione della coscienza, della memoria, dell’identità, della percezione, della rappresentazione del corpo e del comportamento. I sintomi dissociativi possono potenzialmente compromettere ogni area del funzionamento psicologico. I disturbi dissociativi comprendono: ▪ Il disturbo dissociativo dell’identità ▪ L’amnesia dissociativa ▪ Il disturbo da depersonalizzazione/ derealizzazione ▪ Il disturbo dissociativo non specificato Un disturbo dissociativo si manifesta frequentemente a seguito di traumi, e molti dei sintomi, compreso l’imbarazzo, la confusione circa i sintomi o il desiderio di nasconderli, sono influenzati dalla stessa esperienza del trauma. Dissociazione somatoforme Per dissociazione somatoforme si intende un insieme di risposte somatoformi legate ad uno stato dissociativo che non possono essere spiegate secondo una prospettiva medica. La dissociazione somatoforme può manifestarsi con sintomi quali: anestesia, ipoestesia, sensazioni strane e dolore. ad esempio, le memorie traumatiche di abusi sia fisici che sessuali possono presentarsi attraverso il corpo, dissociate dagli eventi che l’hanno prodotta, come in alcuni casi di dolore sessuale. Disturbo d’ansia da separazione Il disturbo d’ansia di separazione è caratterizzato dalla presenza di paura o ansia intensa ri- guardo alla separazione da casa o dalle figure di attaccamento e l’intensità della sintomatologia ansiosa è maggiore di quanto ci si aspetterebbe riguardo allo stadio di sviluppo dell’individuo. Il quadro clinico può presentare una sintomatologia ansiosa multiforme costituita da: • preoccupazione sullo stato di salute o sul rischio di morte delle figure di attaccamento accompagnata dal bisogno di sapere dove sono queste figure e dalla necessità di contatto; • preoccupazione rispetto ad eventi imprevisti per se stessi, come perdersi, avere un incidente, che impedirebbero loro di ritrovare le figure di attaccamento; • paura di uscire, di stare da soli e riluttanza di dormire da soli per timore della separazione; • presenza di incubi che narrano la loro ansia di separazione (per esempio, una catastrofe che si abbatte sulla famiglia). • A questi sintomi si possono associare sintomi fisici come dolori di stomaco, nausea, vomito, cefalea quando si prevede o si verifica una separazione dalle principali figure di attaccamento. Il quadro può ulteriormente complicarsi con ritiro sociale, apatia, tristezza o difficoltà di con- centrarsi nel gioco e nello studio, con conseguenti difficoltà scolastiche e isolamento sociale. La durata del quadro sintomatologico deve essere superiore alle 4 settimane nei bambini e adolescenti e pari o superiore ai 6 mesi negli adulti; l’intensità deve essere significativa e determinare una compromissione del funzionamento sociale, lavorativo o di altre aree di vita importanti. 71 RIASSUNTO Gli operatori dell’emergenza. Fattori di rischio e protezione Disturbo port traumatico da stress complesso L’aspetto caratteristico di questa diagnosi è l’inclusione nel concetto di disturbo post traumatico di caratteristiche tradizionalmente associate all’Asse II (disturbi di personalità). Si ritiene che la sindrome abbia origine da traumi severi, prolungati e ripetuti, soprattutto di natura interpersonale. Oltre ai consueti sintomi del disturbo post traumatico da stress, possono essere presenti anche altri disturbi: • alterazione della regolazione delle emozioni e del comportamento: difficoltà di modulazione della rabbia, comportamenti autolesivi, comportamenti o preoccupazioni suicidarie, tendenza eccessiva ai comportamenti a rischio; • disturbi della coscienza e dell’attenzione: amnesia, episodi dissociativi transitori, depersonalizzazione; • somatizzazioni: dolori cronici, sintomi cardiopolmonari, disturbi gastrointestinali, disfunzioni sessuali, sintomi da conversione; • alterazione della percezione di sé: senso di impotenza e scarsa efficacia personale, sensazione di essere danneggiati, senso di colpa eccessivo, vergogna pervasiva, idea di non poter essere compresi; • alterazioni della percezione delle figure maltrattanti: tendenza ad assumere la posizione dell’altro, derealizzazione del maltrattante, timore di danneggiare il maltrattante; • disturbi relazionali: incapacità o difficoltà ad avere fiducia negli altri, tendenza alla rivittimizzazione, tendenza a vittimizzare gli altri; • alterazione nei significati personali: disperazione e senso di non poter essere aiutato, visione negative di sé, perdita delle convinzione personali. Disturbo post traumatico da stress in remissione parziale/sottosoglia Si prevede la possibilità di diagnosticare un disturbo post traumatico da stress che non soddisfi completamente i requisiti richiesti dalla diagnosi attuale. In particolare, si evidenzia la necessità di poter diagnosticare un disturbo post traumatico da stress anche in assenza del soddisfacimento del criterio D, ovvero la presenza di sintomi persistenti di aumentato arousal, come indicato da almeno due dei seguenti elementi: • difficoltà ad addormentarsi o a mantenere il sonno; • irritabilità o scoppi di collera; • difficoltà a concentrarsi; • ipervigilanza; • esagerate risposte di allarme. Sembra che sia possibile sviluppare un disturbo post traumatico anche in assenza di queste caratteristiche, oppure tali caratteristiche sarebbero stato presenti nella fase iniziale, ma con il passare del tempo la persona le avrebbe progressivamente ridimensionate o superate. Sviluppi traumatici e disturbi traumatici dello sviluppo Si assiste sempre più ad una frequenza di traumi psicologici cumulativi di natura relazionale durante lo sviluppo e la loro significativa correlazione con diversi disturbi psicopatologici nell’età adulta. In particolare, da oltre vent’anni, clinici e ricercatori hanno individuato un nucleo costante di sintomi e criteri diagnostici che caratterizzano una precisa sindrome conseguente allo sviluppo della personalità in contesti traumatici per la quale sono stati proposti diversi nomi: disturbo post traumatico da stress complesso, disturbo traumatico dello sviluppo, disturbo post traumatico di personalità, disturbo da stress estremo. Le principali aree sintomatiche coinvolte nei disturbi traumatici dello sviluppo (somatizzazioni, alterazioni della coscienza e della modulazione delle emozioni) sembrano inoltre diffondere in un numero ampi di quadri clinici, costituendo una dimensione psicopatologica che si associa con altri disturbi peggiorandone la prognosi. 72 RIASSUNTO Gli operatori dell’emergenza. Fattori di rischio e protezione Disturbi da dolore In letteratura, il dolore viene valutato anche come una possibile risposta dissociativa somatoforme legata ad eventi traumatici che può manifestarsi con sintomi quali: anestesia, ipoestesia, sensazioni strane e di dolore. le memorie traumatiche di abusi sia fisici che sessuali possono presentarsi attraverso il corpo, dissociate dagli eventi che l’hanno prodotta. Recentemente è stato scoperto che le aree cerebrali deputate all’elaborazione cognitiva del dolore fisico sono le stesse che si attivano per l’elaborazione del dolore provocato da problemi interpersonali, come il sentirsi rifiutati, che ripropone la tematica dell’attaccamento infantile e relativi traumi dell’attaccamento. Gli studi hanno valutato l’importanza dello stile di attaccamento nell’esperienza del dolore cronico, riscontrando in pazienti con dolore cronico stili di attaccamento preoccupato, distanziante o disorganizzato. Altri ricercatori hanno evidenziato come lo stile di attaccamento insicuro in popolazioni sane sia associato a ipervigilanza e paura del dolore e ad una ridotta soglia del dolore. tra i pazienti con dolore cronico lo stile insicuro di attaccamento è stato associato a maggiori preoccupazioni sul dolore, un’aumentata percezione del dolore e scarse capacità di coping nei confronti del dolore stesso. Disturbi da dolore genito-pelvico La somatizzazione dolorosa, compresa quella genito-pelvica, dolore pelvico, cistite interstiziale, che sempre con maggiore frequenza viene rintracciata nelle vittime di maltrattamento e abusi sessuali infantili, sembra essere una conseguenza del cambiamento dei meccanismi di regolazione biologica riscontrata nei pazienti affetti da trauma. Un evento traumatico può ipereccitare il sistema nervoso simpatico, portando la nostra fisiologia a rispondere come se la minaccia fosse costante, senza che avvenga la normale risposta di rilassamento dopo la minaccia. Le risposte post-traumatiche: fattori di rischio e di protezione Le reazioni psicologiche ad un evento traumatico possono essere estreme e provocare sofferenza, ma generalmente non diventano problemi cronici. La maggior parte delle persone si riprende in un arco di tempo compreso fra i 6 e i 16 mesi. La traumaticità di un evento è il prodotto della combinazione di una serie di fattori che possono essere di rischio o di protezione: • l’evento stesso: com’è la minaccia, quanto dura, con che frequenza si presenta; • l’età: minore è l’età del soggetto, maggiori potranno essere le ripercussioni psicologiche; • il contesto di vita: si valuta al momento dell’evento traumatico se ci siano altri fattori di stress; • le caratteristiche fisiche: certe persone hanno per costituzione maggior capacità di recupero di altre in caso di eventi stressanti; • le capacità apprese: neonati e bambini, o chiunque privo di esperienza o delle abilità necessarie per gestire una situazione traumatica, sono più vulnerabili alla traumatizzazione; • il senso individuale delle proprie capacità di affrontare il pericolo: ci sono persone che si sentono capaci di affrontare situazioni di pericolo; le risorse interiori includono attitudini psicologiche ed esperienza, resilienza e piani di azione innati; • la storia dei successi e dei fallimenti: l’abilità o meno di utilizzare i piani d’azione istintivi è fortemente influenzata dai nostri successi e fallimento in passate situazioni simili. Un ruolo importante come fattore di rischio, o di protezione, è ricoperto dall’attaccamento. Le ricerche sull’attaccamento evidenziano il ruolo della relazione caregiver-bambino nello sviluppo delle capacità di esplorazione dell’ambiente, di regolazione delle emozioni, di attuazione di strategie di coping e resilienza adeguate in situazioni di stress. Le esperienze precoci strutturano gli schemi di risposta da cui attingere nelle esperienze future, forniscono un’opportunità di sviluppare risposte di coping adattive che verranno immagazzinate come reti mnestiche funzionali e forniranno resilienza per gli eventi futuri. L’incapacità dei sopravvissuti ad un evento traumatico di regolare i propri stati emotivi non è soltanto dovuto agli affetti avversi degli eventi; i loro deficit sono correlati alla mancata esposizione a interazioni di attaccamento sicure in età evolutiva, necessarie per favorire lo sviluppo di capacità per l’autoregolazione. 75 RIASSUNTO Gli operatori dell’emergenza. Fattori di rischio e protezione CAPITOLO 3 IL DISTURBO TRAUMATICO POST-STRESS Nella quinta edizione del DSM sono stati apportati dei significativi cambiamenti al disturbo post traumatico da stress. Una prima differenza consiste nell’aver escluso tale disturbo dai disturbi d’ansia per farlo rientrare fra i disturbi correlati ad eventi traumatici e stressanti, ovvero fra quei disturbi in cui l’esposizione a un evento traumatico o stressante è elencata esplicitamente come criterio diagnostico. La ragione principale che ha portato a questo cambiamento sta nell’aver considerato l’ansia non più come il sintomo principale, ma come uno dei molti sintomi che possono caratterizzare il quadro diagnostico del disturbo post traumatico da stress, assieme ai flashback, alla depressione, agli incubi. Fra le novità riguardanti i criteri del disturbo post traumatico da stress riscontriamo una dettagliata descrizione degli eventi, la cui traumaticità è in rapporto alla natura oggettivamente rilevante dell’evento stesso, come può essere la minaccia di morte, l’aver riportato una grave lezione o l’essere stati vittima di una violenza sessuale. Si tratta di distinguere in maniera netta un evento traumatico da un evento puramente spiacevole. Questo chiarimento è stato stimolato dalla preoccupazione nell’ambito clinico che il disturbo post traumatico da stress venga diagnosticato troppo frequentemente. DSM-IV-TR DSM-5 A. La persona è stata esposta a un evento traumatico nel quale erano presenti entrambe le caratteristiche seguenti: La persona ha vissuto, ha assistito o si è confrontata con un evento o con eventi che hanno implicato morte, o minaccia di morte, o gravi lesioni, o una minaccia fisica propria o altrui; La risposta della persona comprende paura intensa, impotenza o orrore. A. Esposizione a morte reale o minaccia di morte, grave lesione, oppure violenza sessuale in uno (o più) dei seguenti modi: Fare esperienza diretta dell’evento traumatico. Assistere direttamente a un evento traumatico accaduto ad altri. Venire a conoscenza di un evento traumatico accaduto a un membro della famiglia o amico stretto. Fare esperienza di una ripetuta o estrema esposizione a dettagli crudi dell’evento/i traumatico/i. B. L’evento traumatico viene rivissuto persistentemente in uno o più dei seguenti modi: Ricordi spiacevoli ricorrenti e intrusivi dell’evento, che comprendono immagini, pensieri o percezioni; Sogni spiacevoli ricorrenti dell’evento. Nei bambini possono essere presenti sogni spaventosi senza contenuto riconoscibile; Agire o sentire come se l’evento traumatico si stesse ripresentando; Disagio psicologico intenso all’esposizione a fattori scatenanti interni o esterni che simbolizzano o assomigliano a qualche aspetto dell’evento traumatico; Reattività all’esposizione a fattori interni o esterni che assomigliano a qualche aspetto dell’evento traumatico. B. Presenza di uno (o più) dei seguenti sintomi intrusivi associati all’evento/i traumatico/i, che hanno inizio successivamente all’evento/i traumatico/i: Ricorrenti, involontari e intrusivi ricordi spiacevoli dell’evento/i traumatico/i. Ricorrenti sogni spiacevoli in cui il contenuto e/o le emozioni del sogno sono collegati all’evento/i traumatico/i. Reazioni dissociative (flashback) in cui il soggetto sente o agisce come se l’evento/i traumatico/i si stesse ripresentando. Intesa o prolungata sofferenza psicologica all’esposizione a fattori scatenanti interni o esterni che simboleggiano o assomigliano a qualche aspetto dell’evento/i traumatico/i. Marcate reazioni fisiologiche a fattori scatenanti interni o esterni che simboleggiano o assomigliano a qualche aspetto dell’evento/i traumatico/i. C. Evitamento persistente degli stimoli associati con il trauma e attenuazione della reattività generale, come indicato da tre o più dei seguenti elementi: Sforzi per evitare pensieri, sensazioni, conversazioni associate al trauma; Sforzi per evitare attività, luoghi o persone che evocano ricordi del trauma; Incapacità di ricordare aspetti importanti del trauma; Riduzione di interesse e partecipazione ad attività; Sentimenti di distacco o estraneità verso gli altri; Affettività ridotta (incapacità di provare emozioni); Sentimenti di diminuzione delle prospettive future. C. Alterazioni negative di pensieri ed emozioni associati all’evento/i traumatico/i, iniziate o peggiorate dopo l’evento/i traumatico/i, come evidenziato da due (o più) dei seguenti criteri: Incapacità di ricordare qualche aspetto importante del trauma. Persistenti ed esagerate convinzioni o aspettative negative relative a se stessi, ad altri, o al mondo. Persistenti distorti pensieri relativi alla causa dell’evento/i traumatico/i. Persistente stato emotivo negativo (paura, orrore, rabbia, colpa o vergogna). Marcata riduzione di interesse o partecipazione ad attività significative. Sentimenti di distacco o di estraneità verso gli altri. Persistente incapacità di provare emozioni positive. 76 RIASSUNTO Gli operatori dell’emergenza. Fattori di rischio e protezione D. Sintomi persistenti di aumentato arousal, come indicato da almeno due dei seguenti elementi: Difficoltà ad addormentarsi o a mantenere il sonno; Irritabilità o scoppi di collera; Difficoltà a concentrarsi; Ipervigilanza; Esagerate risposte di allarme. D. Evitamento persistente degli stimoli associati all’evento/i traumatico/i, iniziato dopo l’evento/i traumatico/i, come evidenziato da uno o entrambi i seguenti criteri: Evitamento o tentativi di evitare ricordi spiacevoli, pensieri o sentimenti relativi o strettamente associati all’evento/i traumatico/i. Evitamento o tentativi di evitare fattori esterni (persone, luoghi, conversazioni, attività, oggetti, situazioni) che suscitano ricordi spiacevoli, pensieri o sentimenti relativi o strettamente associati all’evento/i traumatico/i. E. La durata del disturbo (sintomi ai criteri B, C e D) è superiore a 1 mese. E. Marcate alterazioni dell’arousal e della reattività associati all’evento/i traumatico/i, iniziate o peggiorate dopo l’evento/i traumatico/i, come evidenziato da due (o più) dei seguenti criteri: Comportamento irritabile ed esplosioni di rabbia (con minima o nessuna provocazione) tipicamente espressi nella forma di aggressione verbale o fisica nei confronti di persone o oggetti. Comportamento spericolato o autodistruttivo. Ipervigilanza. Esagerate risposte di allarme. Problemi di concentrazione. Difficoltà relative al sonno (difficoltà nell’addormentarsi, sonno non ristoratore). F. Il disturbo causa un disagio clinicamente significativo o menomazione del funzionamento sociale, lavorativo o di altre aree importanti della vita dell’individuo. Specificare se: - Acuto: se la durata dei sintomi è inferiore a 3 mesi. - Cronico: se la durata dei sintomi è superiore a 3 mesi. - A esordio ritardato: se l’esordio dei sintomi avviene almeno 6 mesi dopo l’evento stressante. F. La durata delle alterazioni (Criteri B, C, D, E) è superiore a 1 mese. G. L’alterazione provoca disagio clinicamente significativo o compromissione del funzionamento in ambito sociale, lavorativo o in altre aree importanti. Specificare quale: - Con sintomi dissociativi: i sintomi dell’individuo soddisfano i criteri per un PTSD e, inoltre, in risposta all’evento stressante fa esperienza di sintomi persistenti o ricorrenti di uno dei due seguenti criteri: • Depersonalizzazione; • Derealizzazione. Specificare se: - Con espressione ritardata: se l’esordio dei sintomi avviene almeno 6 mesi dopo l’evento stressante. Tab. 8. Confronto dei criteri diagnostici per il DPST: DSM-IV & DSM-5 Rispetto al DSM-IV, la presenza di una reazione emotiva di paura, orrore e impotenza è stata riformulata e inserita come “Persistente stato emotivo negativo”; ulteriore novità è l’inserimento di un raggruppamento di sintomi riguardanti le alterazioni negative dei pensieri ed emozioni associati all’evento traumatico. Di particolare interesse è l’inclusione di due criteri in cui è possibile constatare una maggiore considerazione dei vissuti cognitivo ed emotivo elicitati dall’evento traumatico. Si tratta di un timido tentativo di considerare le dinamiche personologiche in un costrutto, quello del trauma, che rimane legato alla straordinarietà di episodi particolarmente stressanti. Il ruolo della dissociazione nel disturbo post-traumatico da stress La novità più importante presente nel disturbo post traumatico da stress riguarda la specificazione dei sintomi dissociativi di depersonalizzazione e derealizzazione. Sembra che questo inserimento sia stato stimolato dalle numerose sollecitazioni di ricercatori e clinici che hanno considerato opportuno dar rilievo alle reazioni dissociative che di frequente si presentano nelle sindromi post-traumatiche. Ma, come per la definizione del concetto di trauma, anche per quanto concerne il rapporto fra disturbo post traumatico da stress e dissociazione le posizioni non sono univoche. 77 RIASSUNTO Gli operatori dell’emergenza. Fattori di rischio e protezione Ad esempio, Lanius e colleghi distinguono un sottotipo dissociativo da un sottotipo non dissociativo del disturbo post traumatico da stress. Questa distinzione è suffragata da evidenze neuroscientifiche da cui emerge la netta separazione fra soggetti con disturbo post traumatico da stress, i quali riportano alti livelli di distress psicologico, iperarousal, flashback, rispetto ad una seconda tipologia di soggetti con disturbo post traumatico da stress in cui sono presenti sintomi dissociativi, fra i quali la depersonalizzazione e la derealizzazione, in assenza di stati di iperattivazione fisiologica. La prima tipologia (non dissociativa) è il risultato di una disregolazione degli affetti associata ad una inadeguata inibizione prefrontale dell’attività della regione limbica; al contrario, la tipologia dissociativa presenta una disregolazione affettiva mediata da una eccessiva inibizione della corteccia prefrontale sul sistema limbico. Nijenhuis pone il disturbo post traumatico da stress in rapporto ad una dissociazione strutturale della personalità fra una parte apparentemente normale e una parte emozionale. Sinteticamente, l’autore giustifica l’opportunità di far rientrare il disturbo post traumatico da stress fra i disturbi dissociativi in ragione di una divisione strutturale che si porrebbe alla base di una serie di sintomi dissociativi positivi, ad esempio il riemergere di percezioni uditive e visive legate al trauma, e negativi, ad esempio la depersonalizzazione. Queste due tipologie di sintomi sarebbero il risultato della tendenza della parte emozionale, in cui sono depositate le memorie traumatiche, ad emergere a livello della coscienza, e alla conseguente reazione oppositiva della parte apparentemente normale. Van del Hart, Nijenhuis e Steele, in un libro intitolato Fantasmi del Sé, distinguono i seguenti tre livelli di complessità della divisione strutturale della personalità in rapporto alla gravità delle esperienze traumatiche: - dissociazione strutturale primaria, ovvero la divisione più semplice e basilare della personalità, in risposta a traumi, tra una singola parte apparentemente normale e una singola parte emozionale. Rientrano in questa tipologia il disturbo acuto da stress, il disturbo post traumatico da stress, tipi semplici di disturbo dissociativo, tipi semplici di sindromi dissociative; - dissociazione strutturale secondaria, in cui avviene un’ulteriore divisione della parte emozionale, mentre rimane intatta una singola parte apparentemente normale. Rientrano in questa tipologia il disturbo post traumatico da stress complesso, i disturbi da stress estremo, il disturbo dissociativo di personalità legato a traumi, il disturbo borderline di personalità, tipi complessi di sindromi dissociative; - dissociazione strutturale terziaria, caratterizzata da una ulteriore divisione che riguarda sia la parte emozionale che la parte apparentemente normale. Rientra in questa tipologia il disturbo dissociativo dell’identità. Colin Ross sostiene che di per sé la presenza di una dissociazione strutturale della personalità non giustifica l’inserimento del disturbo post traumatico da stress fra le sindromi dissociative. Dall’evento stressante allo stress traumatico pur constatando la presenza di importanti cambiamenti nell’attuale formulazione del disturbo post traumatico da stress, rimangono alcuni limiti che richiedono ulteriori riflessioni. Come sappiamo, il disturbo post traumatico da stress, rispetto agli altri disturbi, si è sempre distinto per la netta definizione data a ciò che bisogna considerare traumatico. A tal proposito, la task force del DSM-5 ha deciso di non lasciare spazio alla libera interpretazione, considerando traumatica l’esperienza reale di un evento particolarmente stressante: in questo modo viene sottolineata la straordinarietà dell’evento, per evitare che vengano posti nel novero degli episodi traumatici anche quelli che sono semplicemente spiacevoli. In questa interpretazione però i termini trauma e stress in pratica coincidono, lasciando poco spazio alla dimensione soggettiva, e in particolar modo alla vulnerabilità psicologica che inevitabilmente finisce col condizionare la risposta del soggetto all’evento traumatico. Gli studi ad orientamento psicodinamico hanno riscontrato che le cose non stanno proprio nella maniera proposta da sempre. In realtà sebbene non si possa prescindere dalle caratteristiche oggettive e catastrofiche di un evento stressante, questo non sta a significare che il soggetto debba necessariamente sviluppare una sindrome post-traumatica a lungo termine, ad esempio dopo un grave incidente stradale. Ciò presuppone quindi la necessità di distinguere il trauma dallo stress. In poche 80 RIASSUNTO Gli operatori dell’emergenza. Fattori di rischio e protezione le esperienze di abuso fisico da parte dei genitori, bullismo, attaccamento insicuro, e tra le allucinazioni e l'essere stato vittima di abusi sessuali. Meccanismi esplicativi psicologici Dal punto di vista psicologico, la relazione tra stress psicosociale e disturbi psicotici riguarda due aspetti differenti: primo, il ruolo dei traumi infantili a della trascuratezza precoce nell'aumentare la vulnerabilità della persona ai disturbi psicotici; secondo, la tendenza degli stress psicosociali dell'età adulta nel favorire l'esordio, la riacutizzazione e la persistenza dei sintomi psicotici. Secondo il modello cognitivo delle psicosi, l'esposizione ad abusi o perdite precoci, al bullismo ed all'isolamento sociale, favoriscono l'insorgenza di sintomi psicopatologici più o meno gravi e persistenti come ansia e depressione, che a loro volta aumentano il rischio di sviluppare sintomi psicotici. Eventi avversi infantili compromettono la possibilità di stabilire attaccamento sicuri con i caregiver e contribuiscono a strutturare i modelli operativi interni caratterizzati da l'idea di essere deboli, inadeguati, cattivi, privi di valore, e che gli altri siano ostili e pericolosi. Inoltre, favoriscono uno stile di attribuzione orientato all'esterno e compromettono lo sviluppo della teoria della mente, alterando la capacità di interpretare correttamente gli stati mentali e le intenzioni altrui. Questi individui caratterizzati da schemi negativi di sé e dell'altro ed ha problemi emotivi preesistenti sono anche più suscettibili a sviluppare sintomi psicotici a seguito di stress anche di modesta evita. Infatti, in presenza di sintomi psicopatologici come ansia, labilità emotiva o insonnia la persona tende a manifestare reazioni emotivi intense e prolungate in risposta ad eventi stressanti della vita quotidiana, con aumento dei livelli di angoscia e di reattività agli stimoli esterni. L’altro fattori di vulnerabilità è rappresentato dagli errori di ragionamento e dalle distorsioni dei processi di attribuzione. Tra queste vanno ricordate le difficoltà a selezionare gli stimoli rilevanti da quelli irrilevanti, la difficoltà ad interpretare le rappresentazioni facciali delle emozioni e le intenzioni degli altri, la tendenza a saltare troppo rapidamente alle conclusioni, la tendenza al pensiero dicotomico e la tendenza ad attribuire all'esterno le cause degli eventi e delle proprie esperienze. Nel tentativo di descrivere più accuratamente il processo patogenetico degli specifici sintomi psicotici, il modello cognitivo delle psicosi ha proposto di spiegare le allucinazioni come il risultato della compromissione del processo di identificazione della sorgente degli stimoli percettivi, per cui un pensiero interiore viene percepito come uno stimolo proveniente dall'esterno o le sensazioni legate al ricordo inclusivo dell'esperienza di abuso vengono esperite come provocate da stimoli attuali e reali. Questa ipotesi sembrerebbe confermata dagli studi epidemiologici che indicano una maggiore prevalenza di allucinazioni in vittime di abusi sessuali, e da alcuni lavori su campioni poco numerosi che segnalano un certo grado di coerenza tra il sistema dei deliri e delle allucinazioni e il tipo di abuso subito nell'infanzia. In maniera differente, i deliri persecutori sono stati concettualizzati come dei tentativi, inaccurati e talvolta incoerenti, di dare spiegazione a stati emotivi intensi, come l'angoscia, ho esperienze percettive incomprensibili, come le allucinazioni, nel contesto di una rappresentazione di sé debole e del mondo come potente è minaccioso. Infine, i fattori psicosociali giocherebbero un ruolo chiave anche nel mantenimento dei sintomi psicotici. Le distorsioni cognitive e l'isolamento sociale impedirebbero l'accesso a informazioni alternative e spiegazioni più razionali delle esperienze disturbanti ed il loro utilizzo per adattare i contenuti del pensiero alla realtà. Inoltre, l'isolamento sociale e le esperienze di stigmatizzazione, comprese quelle relative al essere affetto da disturbi mentali, sottrarrebbero all'individuo le risorse sociali utili a gestire le emozioni negative e rispondere in maniera adattiva agli eventi stressanti. Meccanismi esplicativi biologici Dal punto di vista biologico è stato proposto che nazione di eventi avversi infantili sulla schizofrenia sia mediata dalle l'asse ipotalamo-ipofisi-surrene e dalla sua azione modulatoria sistema dopaminergico. È noto, infatti, che gli adulti affetti da disturbi depressivi che sono stati esposti da bambini a stress precoci e prolungati presentano un aumento dei livelli di cortisolo e di adenocorticotropina, l'ormone secreto dall'ipofisi che stimola il rilascio di cortisolo a livello della corteccia surrenale, in risposta a stress psicosociale, come il parlare in pubblico o lo svolgimento di 81 RIASSUNTO Gli operatori dell’emergenza. Fattori di rischio e protezione semplici calcoli aritmetici. Inoltre, adulti sani che sono stati vittime di abusi o trascuratezza infantile mostrano una riduzione del volume dell'ippocampo e della corteccia prefrontale mediale e dorsolaterale. Questo pattern di iper attivazione dell'asse ipotalamo ipofisi surrene e di riduzione del volume della corteccia prefrontale potrebbe indicare una compromissione dei meccanismi di feedback inibitorio del sistema di risposta allo stress, derivante da una sua stimolazione precoce e massiccia. Un pattern lievemente differente da quello dei pazienti depressi è stato osservato in pazienti affetti da disturbo post traumatico da stress e da disturbi psicotici. Questi pazienti sono caratterizzati da un aumento dei livelli di cortisolo basale ma anche da un diminuito rilascio di cortisolo in risposta a stimoli lievemente stressanti come il risveglio. È stato ipotizzato che l'iperattività dell'asse ipotalamo- ipofisi-surrene, in parte dipendente dall'esposizione a trony precoci o eventi di vita stressanti, possa determinare una compromissione dei meccanismi di feedback inibitorio regolati dal cortisolo e dalla acetilcolina, che a lungo termine produce un aumento dei livelli di cortisolo basale, una riduzione del volume dell'ipofisi e dell'ippocampo ed una risposta attenuata del sistema agli stress di minore entità. Ciò rende i pazienti meno capaci di gestire la quotidianità domestica e sociale e più suscettibili alla riacutizzazione. Alterazioni dell'attività dell'asse ipotalamo-ipofisi-surrene influenzano la funzionalità del sistema dopaminergico cerebrale. È stato rilevato che i livelli di cortisolo sono correlati ai livelli di dopamina in diverse regioni cerebrali, particolarmente nelle aree mesolimbiche, è che i livelli di cortisolo diurno sono più elevati negli individui con sintomi prodromici della schizofrenia rispetto ai soggetti sani, e durante le fasi attive dei disturbi psicotici rispetto alle fasi di remissione. Tutti questi dati suggeriscono che l'asse ipotalamo-ipofisi-surrene medi gli effetti dello stress sul sistema dopaminergico. Per un modello eziopatogenetico integrato Si comprende come lo studio dei traumi infantili e degli eventi di vita stressanti abbia stimolato lo sviluppo di modelli eziopatogenetici complessi degli studi psicotici, capaci di integrare le teorie biologiche con quelle psicologiche e sociali. Un modello psicopatologico integrato individua nei traumi infantili un elemento che, sul piano psicologico, compromette la sicurezza dell'attaccamento e favorisce lo sviluppo di schemi negativi di sé e dell'altro, distorsioni cognitive, uno stile attribuzionale orientato all'esterno. Parallelamente, sul piano biologico, i traumi infantili concorrono ad alterare la funzionalità del sistema dopaminergico, rendendolo maggiormente sensibile sia all'azione di sostanze d'abuso stimolanti che a successivi stress psicosociali, come gli eventi stressanti dell'età adulta e gli stress minori della vita quotidiana. Complessivamente, la sensibilizzazione del sistema dopaminergico, l'attaccamento insicuro, i modelli operativi interni disfunzionali e le distorsioni del pensiero diminuiscono la capacità della persona di adattarsi alla vita quotidiana e di fronteggiare le sfide. Per questa ragione, le persone che presentano questo tipo di vulnerabilità tenderanno più facilmente a manifestare sintomi psicotici in risposta a eventi stressanti o problemi della vita quotidiana. Allora volta, i sintomi psicotici comportano elevati livelli di stress che stimola ulteriormente il sistema dopaminergico instaurando un pericoloso circolo vizioso in cui lo stress favorisce la disregolazione dopaminergica e l'insorgenza dei sintomi psicotici, e la disregolazione dopaminergica diminuisce a sua volta la capacità di rispondere efficacemente allo stress. 82 RIASSUNTO Gli operatori dell’emergenza. Fattori di rischio e protezione 85 RIASSUNTO Gli operatori dell’emergenza. Fattori di rischio e protezione principalmente delle questioni economiche della famiglia, mentre la madre doveva prendersi cura della casa e dei figli. La fragilità di questo accordo risultava però evidente, in quanto il padre non era sempre in grado di sostenere economicamente la famiglia, e la madre si sentiva colpevole, incapace di gestire la casa con quel poco che aveva. Le risposte dei genitori a questa situazione più o meno celata di disagio erano fluttuanti e inconsistenti: si andava da una totale negazione dei problemi ad improvvise e furibonde esplosioni di aggressività tra i coniugi, in forma di liti e prevaricazioni alle quali G. e il fratello non potevano che assistere impotenti. Questi compiti spesso coinvolgono anche i due bambini, indirettamente o direttamente accusati di essere la causa dei problemi della famiglia. Così G. seppe, fin dall’infanzia, anche se in maniera implicita e scarsamente consapevole, che la sua esistenza costituiva un peso per i genitori, è che le figure di attaccamento non potevano essere disponibili per lui nel momento del bisogno perché troppo assorbito dalle loro problematiche. Apprese dunque che il papà, quando presente, andava ubbidito, altrimenti era capace di fargli del male, e che la mamma forse era buona, ma era troppo debole, e tante volte addirittura come se non ci fosse. La solitudine affettiva che avvolse il bambino, l'impossibilità di dare significati condivisibili alle esperienze emotive vissute all'interno del nucleo familiare, trovarono già dall'adolescenza come unica soluzione di adattamento il rifugio in un gruppo di pari con problematiche relazionali simili, o anche peggiori. Isolato e temuto dai compagni di scuola perché impulsivo e violento, e c'è da chiedersi come poteva non esserlo visto che queste erano le modalità relazionali che implicitamente ed esplicitamente aveva appreso nel suo contesto familiare, i suoi amici erano perlopiù ragazzi del quartiere, un po' più grandi, sbandati e alla ricerca di una via di fuga dalla realtà. L'eroina sarebbe giunta nella vita di G. da lì a poco. G. ed il fratello iniziano a drogarsi, e l'insostenibile realtà dei propri problemi, delle emozioni disregolate e del dolore fugge via rapida, si dissolve attraverso l'eroina. La droga prefigura una nuova vita sensoriale, dolcemente attesa e controllabile. È il tempo scandito dal rito, dagli incontri clandestini con gli amici e con i pusher, dalla “cupola” che preserva da qualsiasi dolore, anche da quelli che non si conoscono e non si sa di avere. La madre, presumibilmente, si rende conto già dopo qualche mese della condizione di dipendenza dei ragazzi, ma forse nega se stessa il problema, o forse vive profondi sensi di colpa connessi alle sue capacità genitoriali. Comunque, tace e fa finta di nulla. Il padre scopre tutto quando è passato un anno dal primo buco, per una mancanza di denaro dal cassetto in cui conservava i risparmi. La vicenda diviene l'occasione per una nuova e violentissima lite tra i genitori, con G. e il fratello che vorrebbero fuggire di casa ma che temono che il padre possa fare del male alla madre, la quale fino ad allora li aveva protetti tacendo il segreto. Inizia così per i tuoi ragazzi un percorso separato in due comunità terapeutiche differenti. G. è quasi maggiorenne, il fratello invece ha 16 anni. È un percorso che inizialmente sembra fruttuoso, ma circa un anno dopo il craving di G. è troppo forte, e lo spinge alla fuga dalla comunità. Scappa su un treno e ritorna nella propria città, a casa. Il padre è fuori, la madre non appena lo vede lo abbraccia, scoppia in lacrime e gli dice: “tu non dovresti essere qui. Tuo padre non ti deve vedere”. Poi gli dà dei soldi, G. la saluta piangendo, cerca una vecchia conoscenza per recuperare la droga e torna a bucarsi. Adesso G. è ancora più solo. Non può tornare a casa, e da quel momento non vi tornerà mai più, e non può tornare in comunità. Quel che resta sono i vecchi amici e la strada. Conclusioni L’individuo dipendente usualmente percepisce dei disturbi emotivi dolorosi e sopraffacenti, i quali investono sia le relazioni con le figure significative sia le rappresentazioni di sé, è che egli non risulta in grado di contrastare efficacemente, poiché presenta un deficit proprio rispetto alle capacità di identificare e mentalizzare le emozioni. Il disconoscimento genitoriale delle necessità da parte del bambino di orsetti ed attaccamenti sicuri può risultare psichicamente tossico, in quanto le forme insensibili di accudimento sono in grado di sostituire agli istinti vitali del bambino le paure, le proiezioni e i desideri dei genitori stessi. In questo caso, primitive forme di identificazione con gli oggetti genitoriali distruttivi potranno parassitare la psiche del figlio, instillando un dilaniante nucleo di sofferenza non pensabile punto di fatto, la trascuratezza emotiva, al di là dei suoi probabili esiti psicopatologici, avvelena la personalità, 86 RIASSUNTO Gli operatori dell’emergenza. Fattori di rischio e protezione disconnette l'unità psiche-soma, ferramenta il sé e produce una pervasiva sofferenza psichica non individuabile e non nominabile. È proprio in simili contesti di sviluppo traumatici che, in una prospettiva evolutiva, si costituiscono le basi per la futura insorgenza di una dipendenza patologica. I fallimenti nella regolazione diadica, negli scambi intersoggettivi primari e nelle relazioni di attaccamento possono infatti determinare un ricorso pervasivo a meccanismi di difesa di tipo dissociativo, i quali hanno lo scopo di escludere dalla coscienza i vissuti emotivi intollerabili. In tal senso, sia l'abuso di sostanze psicotrope che l'ha messa in atto impulsiva e compulsiva di comportamenti di addiction costituiscono esperienze dalla forte componente sensoriale, che strutturandosi come regolatori esterni emozioni permettono una fuga dalla sofferenza psichica attraverso la separazione tra gli stati di coscienza. Attraverso la dipendenza l'individuo riesce a sottrarsi, seppur in maniera temporanea e disfunzionale, alla dolorosa realtà, rinchiudendosi in stato di coscienza ed esperienza alternativi, contrassegnati dalla prevedibilità ed alla ricerca di uno stato di piacere che sembra capace di antagonizzare il dolore. Nei soggetti dipendenti, però, l'utilizzo delle difese dissociative è di tipo primitivo, e ovviamente non è in alcun modo al servizio dell' io: esso, piuttosto, rappresenta la modalità privilegiata di regolazione degli stati affettivi spiacevoli e dolorosi, fornendo il substrato psicobiologico su cui si fonda il comportamento di addiction. Joyce McDougall ha sostenuto che sebbene l'individuo dipendente possa sentire di essere schiavo del tabacco, dell'alcol, del cibo, dei narcotici, degli psicofarmaci o da un comportamento sessuale maniacale, inconsciamente l'oggetto della dipendenza è comunque esperito come essenzialmente buono, poiché procura un senso di benessere altrimenti irraggiungibile, e in casi estremi può essere considerato come l'unica cosa capace di dare significato alla vita. Ciò spiegherebbe le ragioni per cui gli approcci alla cura delle dipendenze patologiche di tipo esclusivamente rieducativo o farmacologico tendono ad essere inefficaci: le conseguenze negative delle condotte di addiction, infatti, se non vengono elaborate e mezza lizzate restano in secondo piano rispetto alla funzione di oblio e di autocura che la dipendenza svolge. L’elaborazione del sistema di memorie traumatiche nel soggetto dipendente, in particolare di quelle esperienze di trascuratezza intervenute nella relazione con i genitori durante l'infanzia, è un obiettivo cruciale rispetto alla cura delle dipendenze patologiche, ma è anche difficile da perseguire poiché implica il recupero delle memorie di trascuratezza, e delle emozioni dolorose associate a queste memorie. È pertanto necessario che nell'elaborazione delle esperienze infantili il clinico risulti particolarmente sensibile al vissuto del paziente e alle modalità con cui cerca di difendersi dagli affetti traumatici, mostrando altresì molto tatto all'interno della relazione al fine di perseverare il sistema di attaccamento del soggetto dipendente e di prevenire un ulteriore disorganizzazione. Infatti, i contesti di cura incapaci di sostenere il sistema di attaccamento e di alimentare il senso di fiducia nelle esplorazione della realtà emotiva ed esperienziale rischiano di replicare, in modo diretto o indiretto, le relazioni trascuranti dell'infanzia, con gravi conseguenze sui sistemi psicologici e comportamentali del paziente, oltre che sulla compliance terapeutica. 87 RIASSUNTO Gli operatori dell’emergenza. Fattori di rischio e protezione CAPITOLO 6 ONLINE GROOMING: L’ADESCAMENTO DEI MINORI ATTRAVERSO INTERNET Le nuove tecnologie ci permettono di comunicare in modo molto differente rispetto al passato. In particolare, internet favorisce lo scambio di informazioni e notizie in tempo reale, e permette di entrare agevolmente in contatto anche con persone che non abbiamo mai incontrato e con le quali non avevamo in precedenza alcun tipo di reazione. Il rovescio della medaglia è che l'ingente quantità di informazioni personali che immettiamo e condividiamo nella rete può anche attirare attenzioni indesiderate, fino a comportare gravi rischi per il benessere psicologico dell'individuo. Ad esempio, termini come cyberstalking, ovvero le molestie assillanti perpetrate attraverso l'utilizzo di strumenti informatici, o phishing, ovvero le truffe via internet attraverso cui si cerca con messaggi ingannevoli di convincere l'individuo a fornire informazioni personali sensibili, fanno ormai parte, purtroppo, del vocabolario comune. Questo tipo di problematica è ancora più sentite rileva e nel caso dei minori. È infatti ormai noto che le attività criminali si avvalgono, così come quelle legali, di tutte le opportunità offerte dalla globalizzazione e dallo sviluppo delle nuove tecnologie dell'informazione. Se da un lato le nuove reti di comunicazione, quali la telefonia mobile ed internet hanno favorito la realizzazione e la formazione di rapporti sociali, dall'altro hanno permesso ai criminali informatici di commettere attività illecite di varia natura. Chi sono i groomers Il groomer seleziona le sue vittime partendo spesso da siti frequentati da minori, chat, forum, ma anche social network. In un primo momento, solitamente, il groomer si limita all'osservazione delle interazioni tra i minori stessi. Dopo questo periodo di osservazione, il minore viene selezionato in base ad alcune potenziali caratteristiche di vulnerabilità, e viene quindi contattato. Ad un primo contatto, esclusivamente on-line, seguono ulteriori contatti. I contatti vengono quindi intensificati, spesso avviene il passaggio all'utilizzo di telefoni cellulari e webcam. Al fine di intensificare i rapporti con il minore, il groomer spesso effettua un'operazione che in termini psicologici potrebbe essere concepita nei termini di un processo di ”adultizzazione guidata” di tipo manipolatorio: egli spinge il minore verso argomenti relativi all'autonomia o addirittura stimola la curiosità di tipo esplicitamente sessuale. Vengono quindi proposte interazioni sessuali via internet, ed il contatto con il minore può essere mantenuto anche tramite i regali o minacce. Infine di un incontro fisico, durante il quale verrà consumato l'abuso sessuale vero e proprio. Questo è, per grandi linee, il modus operandi standard del groomer. Il termine inglese grooming, in ambito della biologia sociale, richiama il comportamento osservato in diversi primati, per cui un animale provvede a ripulire un suo possibile dai parassiti. Dalle significato viene ulteriormente esteso nell'ambito del linguaggio comune a concetti quali preparare, istruire e avviare, ed è proprio questo che solitamente l'online groomer fa: prepara il minore per l’abuso. Tuttavia, l'universo dei groomers è assai eterogeneo punto alcuni di loro sono attratti solo dai bambini, mentre altri sono attratti da minori di qualsiasi età. Allo stesso modo, alcuni di loro utilizzano internet ed altre tecnologie come mezzo per connettersi con i minori con finalità prevalentemente auto erotiche, ma senza ricercare mai un contatto nella vita reale virgola mentre altri utilizzano internet, i social network e le chat come un’ulteriore piattaforma per identificare mettersi in contatto con i minori con l'intenzione di incontrarvi e avere rapporti sessuali con loro. Mentre entrambi questi sottotipi sono pericolosi per la sicurezza e il normale sviluppo del bambino, quelli che hanno lo scopo di incontrarli hanno spesso una storia caratterizzata da precedenti condotte antisociali, inclusi precedenti reati sessuali, e sono dunque più pericolosi in termini di rischio di abuso sul minore. Le ricerche epidemiologiche suggeriscono comunque che gli on-line groomer sono per lo più uomini, occidentali, occupati, con un buon livello di istruzione, all'interno di una fascia di età ampia. Nelle rassegne emerge anche che molti abusatori di minori sono anche on-line groomer, e che inoltre è presente un numero significativo di soggetti i quali fruiscono di materiale pedopornografico senza poi cercare contatti di tipo sessuale con i minori. 90 RIASSUNTO Gli operatori dell’emergenza. Fattori di rischio e protezione 91 RIASSUNTO Gli operatori dell’emergenza. Fattori di rischio e protezione CAPITOLO 7 IL TRAUMA DA USTIONE Cenni epidemiologici Gli incidenti da ustione si collocano al quarto posto tra le cause di lesioni e ferite accidentali, dopo gli incidenti stradali, le cadute e la violenza interpersonale. Le più frequenti cause di ustione sono il contatto con liquidi bollenti, oggetti incandescenti o piange. Altre cause riconosciute sono l'esposizione ad agenti chimici o alla corrente elettrica. Si stima che nel 2004 circa 11 milioni di persone nel mondo siano state vittime di ustioni abbastanza gravi da richiedere l'ospedalizzazione, con un maggiore interessamento dei bambini, degli anziani e degli abitanti dei paesi in via di sviluppo. La qualità della vita del paziente ustionato Sebbene grazie ai progressi della medicina e della chirurgia la mortalità dovuta a traumi da ustione sia sensibilmente ridotta negli ultimi decenni, le ustioni costituiscono una delle maggiori cause di disabilità. Nonostante la modalità derivante dagli incidenti da ustione si è stata ridimensionata, l'impatto delle lesioni sul funzionamento rimane comunque alto punto molti pazienti con ustioni moderate o gravi devono sottoporsi a medicazioni dolorose, ripetuti interventi chirurgici o prolungati trattamenti riabilitativi. Indipendentemente dalla gravità della lesione i pazienti ustionati dovranno convivere per gran parte della loro vita con le modificazioni più o meno estese e visibili del proprio aspetto fisico punto inoltre, la pelle ustionata è maggiormente sensibile al sole e al calore, le cicatrici possono comportare contratture che limitano i movimenti, con compromissione dell'autonomia nella vita quotidiana e nelle prestazioni lavorative. È facilmente intuibile come tutto ciò abbia delle conseguenze negative sull'autostima, sull'umore e sulle relazioni interpersonali, con compromissione del benessere psicologico, della capacità di mantenere o di trovare un lavoro, e con effetti a lungo termine anche di natura economica. Sebbene la dimensione fisica della qualità della vita, ossia l'autonomia nella vita quotidiana e la cura delle lesioni, sia suscettibile di miglioramento nel corso del primo anno dopo l'ustione, vi sarebbe una prolungata riduzione della qualità della vita affettiva e delle relazioni interpersonali. Le vittime di ustione riportano frequentemente un restringimento della propria vita sentimentale e sociale, con difficoltà a mantenere rapporti interpersonali e a stabilirne di nuovi con conseguenti vissuti di solitudine e demoralizzazione. Queste problematiche sono più diffuse tra coloro che presentano funzioni in zone visibili, attribuiscono un peso maggiore all'immagine del proprio corpo e presentano tratti personologici di introversione. Un altro aspetto cruciale della qualità della vita del paziente ustionato e la possibilità di riprendere la propria vita lavorativa, possibilmente mantenendo le stesse mansioni. Circa il 30% dei pazienti ustionati perde il proprio lavoro è circa il 40% è costretto ad un cambiamento di ruolo o mansione. Tra i fattori che influenzano positivamente il ritorno al lavoro vi sono il supporto sociale percepito, la capacità di adattamento, la tenacia e la visione ottimistica della propria situazione. Infine, pazienti con ustioni in parti del corpo visibili devono spesso affrontare curiosità, pregiudizi e stigmatizzazione nell'ambito dei rapporti sociali. Reazioni di sorpresa, sguardi insistenti, commenti e domande personali sono comportamenti che questi pazienti si trovano spesso a fronteggiare. Ciò li rende eccessivamente e dolorosamente consapevoli del proprio corpo e della alterata immagine di sè, provocando sentimenti di ansia sociale, rifiuto, imbarazzo, diversità punto non è raro che questo provochi risposte comportamentali simili a quelle delle dismorfofobie, con ripetuti controlli, eccessivo mascheramento del viso e ritiro sociale. Il rischio psicopatologico Esiste un relativo consenso della letteratura nel riconoscere che i pazienti ustionati sono esposti ad un maggiore rischio di sintomi e disturbi psicopatologici rispetto alla popolazione generale, particolarmente depressione, ansia, insonnia, abuso di sostanze punto nel corso del ricovero ospedaliero da un quarto ad un terzo dei pazienti presenta disturbi cognitivi come confusione mentale, delirium e sintomi psicotici transitori, una proporzione maggiore manifesta ansia, insonnia e depressione. Nel decorso lungo termine è stato stimato che tra 11 % e il 25% dei pazienti sia interessato 92 RIASSUNTO Gli operatori dell’emergenza. Fattori di rischio e protezione da disturbo da stress acuto e che tra il 20% e il 45% sviluppi disturbo post traumatico da stress anche la depressione caratterizza spesso il decorso della malattia, con una prevalenza che supera di poco il 25% per le forme moderate e gravi. L'esperienza dell'ustione con infatti, la necessità di rielaborare l'immagine di sé, riconoscendo la perdita dell'integrità, le deformazioni della cute e spesso le limitazioni funzionali, generando angosce di un rifiuto e di abbandono. Nel caso di gravi incidenti, questi si possono aggiungere vissuti di colpa, impotenza e disperazione per non essere stati capaci di prevenire o fronteggiare l'incidente, le menomazioni, oppure in qualche altro caso la perdita di vite umane. Aspetti psicodinamici Dal punto di vista psicologico, vale la pena ricordare come Freud avesse sottolineato il ruolo delle sensazioni epidermiche nello sviluppo dell'io, suggerendo che questo fosse innanzitutto un entità corporea. Successivamente Winnicott ha richiamato l'importanza di una manipolazione assente responsiva da parte delle figure di accudimento, come essenziale per il processo di personalizzazione e per l'insediamento della psiche nel soma. La mancanza di una “buona pelle”, derivante dell’inadeguatezza delle cure ambientali, è stata messa in relazione alla scissione tra vero sé e falso sé che si manifesta attraverso vissuti di inautenticità, insoddisfazione e vuoto, e mediante la tendenza a sovrainvestire il pensiero per sopperire agli aspetti deficitari dell'ambiente o a sviluppare sintomi somatici con parziale eziologia organica al fine di ristabilire la coesione tra la psiche e il soma. Più recentemente è stato ipotizzato che le sensazioni epidermiche derivanti dal contatto con il corpo della madre, dalla manipolazione e dal ritmo costituiscono la base per una primitiva forma di funzionamento mentale di natura sensoriale, pre-simbolica e pre-ogettuale. In questa modalità di funzionamento, l'angoscia si manifesta come una rottura nella continuità dell'esperienza sensoriale, come la sensazione di una perdita di coesione o come la paura che i propri contenuti si disperdano all'esterno. Per far fronte a questo tipo di minaccia la persona può utilizzare comportamenti e pensieri ripetuti e auto sedativi al fine di ristabilire la coesione corporea attraverso la creazione di una pelle sostitutiva o “seconda pelle”. Questi comportamenti possono includere, ad esempio, stuzzicamenti e manipolazioni della pelle o dei capelli, la ripetizione mentale di elenchi o serie di numeri, l'eccessiva attività sportiva ed i rituali alimentari. Anzieu ha suggerito che il trauma da ustione rappresenti il prototipo di una situazione in cui alcune funzioni della pelle sono compromesse più o meno stabilmente, con alterazioni delle corrispondenti funzioni psichiche. Tra queste, la funzione di conservazione della vita psichica, mediante interiorizzazione della funzione di holding materna, la funzione di contenitore degli affetti sensazioni e pensieri, la funzione di individuazione del sé che permette di riconoscersi individuo diverso e separato dagli altri, la funzione di integrazione degli stimoli sensoriali e di comunicazione tra interno ed esterno. Pertanto, la lacerazione della pelle nel trauma da ustione può esporre l'individuo ad angosce di perdita di contenuti digitali, disintegrazione, diffusione dell'identità, tanto maggiori quanto maggiore è la severità della lesione e soprattutto quanto meno sviluppate sono le funzioni dell'io pelle. Interventi terapeutici La presa in carico integrata del paziente ustionato ha il ruolo di sostenere l'involucro psichico lacerato mediante ciò che Anzieu definiva “un bagno di suoni” o “una pelle di parole”, capace di sopperire alle funzioni sospese o compromesse e di favorirne il recupero a lungo termine. Infatti, la possibilità di avere accanto a sé qualcuno che si occupa dei suoi bisogni psichici, e non solo di quelli fisici, permette al paziente di ricostruire un io-pelle capace di difendere dalle aggressioni esterne e di contenere gli effetti dolorosi. La pelle di parole, tessuta nel colloquio con il terapeuta e con il gruppo fornisce in tal modo all’io-pelle un appoggio di tipo socio-culturale, sostituendosi al supporto biologico lacerato. In linea con la letteratura, è utile che l'intervento psicologico sia proposto al paziente fin dal primo accesso ai servizi ospedalieri, a fine di migliorare la compliance ai trattamenti medico-chirurgici, sostenerlo nel processo di accettazione della nuova immagine corporea, facilitare il suo reinserimento nella realtà sociale e lavorativa. 95 RIASSUNTO Gli operatori dell’emergenza. Fattori di rischio e protezione cordoglio la sua fondamentale dimensione sociale: la necessità di rendere pubblico il dolore dovuto alla frizione per la perdita sarebbe connessa alla presenza di emozioni legate a fantasie inconsce di ambientamento dell'altro, che sarebbero in tal modo sottoposti a negazione. È come se, nei rituali del lutto, gli altri venissero chiamati di continuo a testimoniare che chi ha subito la perdita non è l'uccisore ma l’ucciso. Le quattro fasi del lutto Bowlvy descrive dei modelli tipici di reazione al lutto e suddivide il modo di reagire alla perdita di un parente stretto in quattro fasi: stordimento, fase di ricerca per la figura perduta e rabbia, fase di disorganizzazione e disperazione, fase di riorganizzazione. Ovviamente tali fasi sono sfumate ed il singolo individuo può oscillare avanti e indietro tra l'una e l'altra. Stordimento: la reazione immediata alla notizia della morte di una persona cara varia molto da persona a persona. Solitamente un soggetto appena colpito da un lutto si sente incapace di accettare la notizia. A volte il soggetto può andare avanti a fare la solita vita in modo automatico, ma questa calma innaturale può essere rotta in qualsiasi momento da uno scoppio di intensa emozione. Fase di ricerca e struggimento per la persona perduta: la fase della rabbia. Dopo qualche ora o giorno, avviene un cambiamento, il soggetto inizia a rendersi conto della realtà della perdita entrando così in uno stato di angoscia accompagnata da irrequietezza, insonnia e dal pensiero continuo del caro perduto. Il soggetto ritiene di sentire la presenza reale del defunto interpretando segnali e rumori come indicatori del suo ritorno. Un'altra caratteristica tipica della seconda fase è la rabbia. Scoppi improvvisi di rabbia e risentimento sono molto comuni subito dopo la perdita, specie quando questa è improvvisa. Il sentimento di rabbia provato da chi subisce un lutto a volte può essere rivolto anche al defunto stesso per averlo abbandonato, il soggetto oscillerà così tra la conservazione dei ricordi come fossero tesori ed il desiderio di disfarsene. Fase di disorganizzazione e disperazione: perché il lutto abbia un decorso funzionale è indispensabile che la persona che lo sperimenta sopporti il tormento emotivo che esso comporta. Solo che riesci a tollerare la sofferenza acuta, la ricerca continua del perché della perdita, la rabbia contro chiunque possa sembrare il responsabile, può arrivare ad accettare che questa perdita è davvero definitiva e che la vita può subire una ristrutturazione. Fase di riorganizzazione: in questa fase il soggetto comincia ad esaminare la nuova situazione in cui si trova e a considerare come può affrontarla. Questa ridefinizione di se stesso e della situazione è dolorosa quanto cruciale perché significa rinunciare definitivamente alla speranza di recuperare la persona perduta. Lutto e perdita patologica Un individuo colpito da un lutto può giungere ad ammettere che le circostanze sono cambiate e perciò deve rivedere i propri modelli di rappresentazione e ridefinire i propri scopi nella vita, oppure può restare imprigionato in uno stato di blocco, di sospensione nella crescita. La maggior parte dei soggetti che hanno subito una perdita riesce ad affrontare e ad andare incontro, nell'arco di tempo di circa un anno virgola ad una risoluzione del lutto, mentre alcuni individui sviluppano una grave reazione a lungo termine che assume le caratteristiche di uno stato di cordoglio cronico definito lutto complicato. Il lutto complicato è caratterizzato da pensieri e ricordi intrusivi che riguardano la persona defunta e persistono da almeno 12 mesi. Al contrario del disturbo post-traumatico da stress, in cui i sintomi inclusivi riguardano eventi traumatici correlati alla perdita, nel disturbo da lutto complicato i sintomi intrusivi si focalizzano su molti aspetti che riguardano la persona morta, compreso gli aspetti positivi della relazione, il dolore e la separazione. Dal punto di vista fenomenologico, la sintomatologia del lutto complicato comprende due cluster di sintomi: - Sintomi relativi al distress da separazione, come intenso struggimento, desiderio della persona amata, ricordo della persona scomparsa; 96 RIASSUNTO Gli operatori dell’emergenza. Fattori di rischio e protezione - Sintomi da distress post-traumatico: pensieri ricorrenti e intrusivi circa l’assenza della persona perduta, senso di incredulità riguardante la morte, rabbia e amarezza, tendenza all’evitamento dei ricordi associati al dolore della perdita. Parker compila un elenco dei processi messi in atto da tutti i soggetti colpiti da un lutto: • Processi che provocano nella persona colpita dal lutto stordimento e impossibilità di pensare a quanto è accaduto; • Processi volti ad allontanare l’attenzione e le attività da pensieri e ricordi dolorosi, dirigendoli verso qualcosa di neutro e di piacevole; • Processi che tengono in vita la convinzione che la perdita non sia permanente e che sia ancora possibile ritrovarsi con il caro perduto; • Processi che inducono ad ammettere che la perdita è effettivamente avvenuta, accompagnati dal sentimento che persista un legame con la persona perduta, che spesso si manifesta in una sensazione continua della sua presenza. Il lutto patologico è all'origine di numerose forme di malattie fisiche e mentali. Dal punto di vista psicologico un lutto provoca una compromissione della capacità di stabilire e mantenere rapporti affettivi, ed il soggetto in fase di lutto presenta un incapacità di riorganizzare la propria esistenza. Secondo bowlby vi sono varie forme estreme di lutto patologico. Una variante è il lutto cronico nel quale le reazioni emotive alla perdita sono intense e prolungate punto in molti casi prevalgono e persistono il rancore e gli autori libro veri, mentre il dolore è ero più assente. Un'altra variante del lutto patologico è esattamente l'opposto, cioè caratterizzata da un assenza più o meno prolungata di lutto cosciente. In questa variante la vita del soggetto rimane organizzata come prima del lutto ma c'ho porta il soggetto a sviluppare svariati disturbi psichici e fisici e accadere in una grave depressione inspiegabile. Apparentemente queste due varianti si presentano opposte ma presentano vari punti in comune. In entrambi la perdita viene vissuta, consciamente o inconsciamente, ancora reversibile, l'elaborazione del lutto non è stata completata è la vita del soggetto è falsamente pianificata oppure cade in un caotico disordine visto che in lui i modelli di rappresentazioni di se stesso e del mondo sono rimasti immutati. Il lutto cronico sembra correlato ad uno stile di attaccamento ansioso ambivalente e si presenta con maggiore probabilità in coloro che avevano sviluppato un legame di dipendenza con il defunto. Horowitz e collaboratori hanno identificato gli aspetti costitutivi del lutto complicato: pensieri intrusivi, momenti di forte emotività, sensazioni di stress, sentimenti di solitudine è vuoto, tentativi di evitare il ricordo della persona defunta, disturbi del sonno, perdita dell'interesse nelle attività quotidiane, rischi di disadattamento. Perdita di un figlio Le perdite possono avere caratteristiche diverse che danno un impatto diverso nella vita di chi subisce la perdita, ad esempio se pensiamo alla morte di una persona di 95 anni dopo una malattia oppure a quella improvvisa di una bambina di 5 anni in seguito ad un incidente stradale punto perdite che vengono all'improvviso the associate a maggiori esiti negativi quali il lutto complicato, a queste caratteristiche si aggiunge il grado di parentela con la persona deceduta come la perdita di un figlio. La perdita di un bambino di ogni età è un'esperienza di dolore profonda è difficile da elaborare. I bambini infatti assumono un'enorme importanza simbolica per i genitori in termini di capacità di generare e di speranza per il futuro. La perdita di un figlio è dunque una delle più grandi tragedie della vita di un genitore ed ha effetti dirompenti sul sistema familiare, soprattutto nella società occidentale contemporanea. L'intensità del trauma e la profonda ferita che lascia rende questo evento probabilmente ancor più incomprensibile ed inaccettabile. È in che un genitore sopravviva al proprio figlio. In tal caso i genitori soffrono sia per la perdita del figlio che per la privazione di ciò che significava per loro: questa morte può costituire la perdita di una parte di te e della propria identità lasciando spesso esiti psicologici lunghissimi. Nel caso di un bambino che muore a causa di una malattia, poi, emergono, oltre al dolore, altre emozioni: il senso di colpa legato al dubbio di aver fatto tutto il possibile e la paura di dimenticare il bambino defunto. Nessun genitore è mai preparato a perdere il proprio figlio. È una vera e propria missione nella successione ordinata delle generazioni, uno stravolgimento dell'ordine naturale delle cose. La 97 RIASSUNTO Gli operatori dell’emergenza. Fattori di rischio e protezione sofferenza è talmente forte e lancinante da pensare di non riuscire a sopravvivere punto in tale esperienza il genitore vede morire, insieme al proprio bambino, una parte di se stesso, della propria identità corporea e psicologica. Un vissuto che si può definire deserto del tutto, e che determina una crisi profonda nel senso della vita. Il processo del lutto per la perdita di un bambino è un percorso complesso è dolorosissimo, in cui è coinvolto in prima persona il bambino che tutti noi siamo stati: esso è vivo e vitale nelle parti più profonde del nostro essere, è parte di noi e costituisce anche il terreno sul quale si esprime tutta la nostra vita emozionale. Quando muore un bambino molto piccolo, i genitori sentono un forte desiderio di averlo accanto a loro e possono continuare a svegliarsi per sentire se piange, o avere bisogno di tenere a lungo i suoi abiti o la sua stanza in tassa, onde evitare che la percezione della morte diventa reale. Molti abbandonano i luoghi di socializzazione, astri interrompono le proprie carriere punto in alcune coppie possono insorgere problemi relazionali: il dolore rende egocentrico il genitore, privandolo dell’energia necessaria per prendersi cura del partner, proprio quando anche lui avrebbe bisogno di conforto e sostegno. In questo modo ogni membro della famiglia finisce per isolarsi dagli altri e soffrire in solitudine. Inoltre, i due genitori raramente procedono di pari passo nel percorso di elaborazione del lutto: uno potrebbe essere depresso, mentre l'altro continua a vivere un profondo sentimento di rabbia. Uno potrebbe trovare sfogo nel parlare della morte, mentre l'altro non vuole neppure sentirla nominare. In generale, è molto importante poter piangere la mancanza, fare memoria dei momenti condivisi, rivivere esperienza di vita comune, mantenere eventualmente l'attaccamento ai valori e agli interessi di cui la persona perduta era portatrice. Si può parlare di introiezione dell'oggetto perduto sotto forma di ricordi, parole ed ha i, e quindi di interiorizzazione della relazione con chi non c'è più. La fase depressiva, che può sembrare la più negativa, in realtà è molto importante perché può dare origine a momenti meditativi, di ricerca di significato e di riparazione, che favoriscono una vera elaborazione e trasformazione del lutto. Comunque il percorso di elaborazione non è così lineare, poiché spesso si tenta di rimandare o evitare questo penoso lavoro e di intrattenere rapporti sempre più stretti con l'immagine interna dell'oggetto perduto. La morte di un figlio comporta una destrutturazione del senso di sé genitoriale e di crisi familiare che possiamo definire tempo della disorganizzazione, con la messa in atto di una serie di meccanismi difensivi che sono caratterizzati da sentimenti di confusione, perdita di interesse per il mondo esterno e diminuita capacità di fare nuovi investimenti relazionali. Elaborare il lutto con i gruppi terapeutici o non terapeutici? La psicoterapia di gruppo è nata con l'intento di andare incontro alle esigenze economiche dei pazienti, in un tempo successivo si è osservato come il gruppo presenti per le peculiari caratteristiche che favoriscono lo sviluppo di relazioni, la nascita di legami identificativi, la creazione di una cultura comune e potenti meccanismi trasformativi a prescindere dall'orientamento di base del gruppo terapeutico, alcune funzioni sono presenti in ciascuna terapia di gruppo punto infatti, nonostante le differenze metodologiche e tecniche e gli approcci diversi degli psicoterapeuti, i fattori terapeutici generali validi per tutti gli approcci gruppali sono: - universalità: il paziente trae beneficio dal rendersi conto che tutti i suoi sintomi possono essere condivisi - acquisizione di nuove informazioni: la pluralità che caratterizza il gruppo è ponte inevitabilmente di notizie e chiarimenti sui problemi condivisi - instillazione della speranza: il farsi coraggio a vicenda mobilita l'ottimismo tra i partecipanti alla sensazione di potercela fare - altruismo: i partecipanti al gruppo sperimentano l’importante vissuto di essere non solo bisognosi ma anche competenti e in grado di aiutare gli altri - sviluppo di tecniche di socializzazione: il gruppo svolge una fondamentale funzione di specchio; i partecipanti attraverso feedback e risposte aiutano e sono aiutati nell’acquisizione di una più accurata autopercezione