Scarica Riassunto "Moderno Antimoderno" di Cesare De Michelis e più Schemi e mappe concettuali in PDF di Letteratura Italiana solo su Docsity! RIASSUNTO “MODERNO ANTIMODERNO”, Cesare De Michelis Quando finisce il Novecento, l’impressione che si ha è che fosse finito molto tempo prima, e non il 31 Dicembre 1999. Qualcosa di profondamente diverso aveva attraversato e caratterizzato il secolo dal suo sorgere al suo tramontare definitivamente. Il secolo è iniziato con il rifiuto e la ribellione totale verso il passato, le tradizioni, gli eroi, i maestri, portando alla distruzione e alla morte. Cesare De Michelis scrive “Moderno Antimoderno” senza alcuna congiunzione tra i due termini, come se l’uno fosse contenuto dentro l’altro, senza che uno dei due venga prima o dopo. Non esiste nessun “post”, al contrario di quanto scrivevano molti intellettuali. Già nel titolo possiamo vedere una visione, un punto di vista diverso nei confronti del Novecento, rivisitato in chiave critica, a voler vedere quali elementi non fossero più moderni nel pieno della modernità. Alcuni scrittori collocano la fine del Novecento nel 1989, quando terminano le grandi ideologie che avevano finito per spaccare letteralmente in due Berlino e il mondo: è la caduta del muro di Berlino. Seguito dalle prime crisi petrolifere, dal terrorismo, dai disastri ambientali e un insieme di elementi che facevano maturare la convizione che qualcosa fosse già finito, chiuso, e che tutto questo non avesse nulla a che vedere con il secolo. La lettura che Cesare De Michelis fa del Novecento e del Moderno è l’analisi di quanto in realtà contenesse già delle contraddizioni, fino a negare sè stesso diventando appunto Antimoderno. E’ il tentativo disperato di dare un’identità ad un secolo, il Novecento, che sfugge da ogni definizione, da ogni stereotipo, troppo cangiante, come se fosse riflesso in un prisma. E’ impossibile applicargli un’etichetta addosso, come spesso avviene con il Medioevo, considerato il periodo oscuro, o il Rinascimento. E’ un secolo babelico, che parla con voci molteplici e soprattutto tra loro dissonanti. Questa sfuggevolezza, questa doppiezza del secolo si riflette anche sui testi della letteratura, come se questi corressero in avanti con lo sguardo rivolto all’indietro, verso il passato e le rovine che di esso rimangono. Cesare de Michelis e Massimo Cacciari negli anni 60 fondano una rivista critica letteraria, “Angelus novus”, ispirato alla creatura terrificante di Paul Klee. L’angelo della Storia che preannuncia la morte. Curioso è che questa rivista fosse scritta negli anni del boom economico, gli anni più floridi per il nostro Paese. L’angelo della Storia, sempre presente, sapeva che quella rinascita stava già portando irrimediabilmente delle sconfitte, in una società impreparata all’industrializzazione. De Michelis è subito attento ai rapporti che si instaurano tra uomo e fabbrica, seguendo gli autori principali che raccontavano come la società si stesse trasformando, da Volponi, Fortini, Ottieri, che avevano ruotato intorno alla Olivetti. Sono gli intellettuali ad avere un atteggiamento di antimodernità, non riescono a comprenderla, la rifiutano del tutto. L’industria è uno dei tanti argomenti, infatti, in cui si riflette il moderno-antimoderno di cui parla De Michelis. L’industrializzazione era irrimediabile, e anche quella si è conclusa, lasciandoci dall’inferno della civiltà contadina a quella dello della fabbrica, di cui restano macchine arrugginite. Quando finisce il secolo, c’è il dolore: un dolore che non può essere medicato neanche dalla Letteratura, che può fare soltanto da testimone agli orrori e alle sciagure che sono avvenute durante le guerre, dove ovunque si gridava alla modernità mentre dal cielo piovevano bombe atomiche. Il Novecento si è sbarazzato dell’uomo, arrivando a ridurlo in numero, in nulla, come accade nei campi di sterminio, concepiti esattamente per questo ruolo. E così l’uomo perde la sua identità, la sua memoria, e parte per un nuovo luogo in cui ricominciare, ricostruirsi. Ecco perchè nel Novecento ci sono state moltissime emigrazioni. E’ il tema dello sradicamento. E gli intellettuali che ruolo hanno avuto nel Novecento? Sono stati sbalzati fuori dalla Storia, dal potere, è stato banalizzato il loro ruolo, considerato ormai inutile. Sono stati aguzzini e vittime degli orrori. Benda ne parlerà nel saggio del 1927, Il tradimento dei chierici, in cui auspica un ritorno ai tempi del Medioevo, quando l’intellettuale era totalmente staccato dalla storia e dalla politica. E di fronte al disastro, alla tabula rasa, ci sono due atteggiamenti: costruire la città perfetta, ideale oppure ricostruirla come prima, con tutti i suoi difetti, ma pur sempre legata alla nostra memoria. *fine premessa di Lupo* CAPITOLO 1 Il Novecento è il secolo innominabile, perchè non si riesce a coglierne la cifra distintiva. Mentre l’innovazione avanzava lungo il secolo, tutte le speranze e le ideologie fallivano miseramente, portando soltanto alla distruzione e al sentimento di vuoto, di oblio, dato dalla perdita dei punti di riferimento, dei padri, della tradizione. E poi? Oggi è accaduto che il cerchio diventato retta si è piegato, divenendo una curva. Siamo alla fase del riciclo: riutilizziamo tutto quanto appartenga alla tradizione e ci passi tra le mani. CAPITOLO 3 A cavallo tra i due secoli assistiamo ad una grave crisi democratica. I giudici non esercitano più il loro ruolo. Così sono gli intellettuali a voler sostituire quel vuoto, pretendendo un potere politico: di entrare quindi nella storia. Subito fanno gruppi, alleanze e le loro parole diventano propaganda, armi utilizzate nelle battaglie delle idee che andranno avanti nel corso del secolo doloroso. A partire dall’Ottocento, pubblico di lettori e di ELETTORI, si confondono. Così gli intellettuali diventano politici, rappresentazione del potere. Quarto potere. Durante questo secolo è ancora concesso agli uomini di lettere di starsene in disparte, fuori dal conformismo. Ma poi, agli albori della guerra, tutti o quasi sono chiamati a schierarsi da una parte o dall’altra, e le loro parole diventano MANIFESTI. Tanto che tra di loro c’è chi auspica la partecipazione alla guerra per il progresso, il tanto desiderato bagno di sangue. Chiunque si fermasse, era perduto. Quando arriva la prima guerra mondiale, crolla ogni ideale romantico, perchè il conflitto si rivela per quello che è: una carneficina. E così gli intellettuali capiscono che per loro non esiste uno schieramento politico a destra o a sinistra. Tertium datur. La soluzione è la terza: non partecipare alla vita politica, ma assistere da lontano, da testimoni, come i chierici. Ma oltre agli intellettuali conformisti, ci sono gli irregolari. Quelli che non si lasciano abbindolare dalle ideologie. Tra questi Chiaromonte, che rifiuta totalmente ogni ideologia tanto da non renderne testimonianza perchè nulla si poteva imparare da quell’esperienza. Ricci e Vittorini sono suoi coetanei, sono esagitati e sentono il bisogno di un rinnovamento della società, per liquidare il perbenismo della borghesia: si schierano con il regime fascista, ma in fondo si sentono pesci fuor d’acqua. Vittorini sognerà di combattere per la resistenza. Giovanni Pirelli, noto fin dalle origini per la più grande fabbrica italiana di gomme, sarà l’emblema di una generazione di uomini che hanno dovuto seppellire gli ideali adolescenziali nelle macerie, e ricominciare. Aderì prima al fascismo, poi nel dopoguerra divenne socialista, e si impegnò nella lotta politica per tutta la vita, perdendosi in una miriade di progetti. La sintesi di tutto questo è forse quanto esprime Bobbio in Politica e Cultura, nel 1955: la prospettiva da seguire è “di qua e di là”. Ossia senza schieramenti, senza blocchi, senza fratture da una parte e dall’altra. La verità, il bene, non sta in due fazioni, non ci sono buoni e cattivi. L’intellettuale non riesce a vedere le due fazioni contrapposte, e il suo ruolo dovrebbe essere quello di scoprire la verità, eliminare le menzogne che allontanano sempre di più le fazioni, in modo da cancellare i blocchi, le fratture. L’intellettuale, forse, più che non stare da nessuna parte, per essere libero deve andare oltre il suo stesso ruolo, oltre il suo stesso tradimento. CAPITOLO 4 Nel corso dei primi anni del 2000 nascono circa 5 volumi che interpretano il romanzo nella contemporaneità. Può esistere il romanzo senza la modernità o la modernità senza romanzo? Magris ritiene che il romanzo nasca dalla rottura, dalla fine del mondo contadino, e che sia una sorta di resistenza, un tentativo di controllare la realtà e il corso degli eventi, in una modernità dove tutto per definizione è in costante mutamento. Serve a costruire, a trovare un senso dove esso non esiste più. In questo periodo, a cavallo tra 800 e 900 si teorizzano utopie che vedevano nel futuro il progresso, ma anche il nichilismo di Nietzsche, la perdita di ogni valore, il pensiero di Freud che faceva emergere l’incoscio. Il moderno l’ha vinta con lo scoppio della Grande Guerra: vincono le ideologie dell’aggressività, del progresso, della potenza, e i primi monumenti sono le tombe dei militi ignoti. Tutte le ideologie finiscono con il crollo del muro di Berlino, e improvvisamente ci si ritrova spaesati, senza più nulla a cui credere, da un momento all’altro. E allora ci si chiede se si debba ricordare o dimenticare tutto questo, mentre nel Novecento viene scoperta quella tremenda malattia che fa perdere la memoria, il morbo di Alzheimer. Di questo ne parlavano già i greci, che paragonavano questo a due fonti, Lete che faceva dimenticare ogni cosa, e Mnemosine, che al contrario arricchiva di conoscenze. Se per la tradizione cristiana è meglio dimenticare, per i classici è bene ricordare. Prima dell’invenzione della stampa, si riteneva che l’unico accesso alla conoscenza fosse la memoria. Con l’invenzione del libro la memoria si scopre non servire più a nulla, il sapere è accessibile sui tanti manoscritti in ogni momento. La guerra è diventata l’orgia dell’oblio, il trionfo di esso in ogni sua forma. E oggi, ricordare è un dovere morale. Anche perché dimenticare è diventato impossibile a causa della tecnologia, che archivia ogni cosa. Siamo infatti nell’era di un terzo elemento che viene dopo L’oblio e la memoria: il perdono. Se infatti è impossibile cancellare ciò che è stato, l’unica soluzione è leggere il passato e reinterpretarlo, capirne gli errori in modo tale da non rifarli mai piu. Se il moderno è stato un BIG BANG per la letteratura, che è esplosa creando le opere più diverse, il romanzo è un freno ad essa, un modo per comprendere e rendere definitivo, fermo ciò che è stato. Così il romanzo diventa la soluzione, l’ampliamento nel tempo e nello spazio della nostra vita. Concilia memoria, oblio e perdono. CAPITOLO 5 Nella forma del romanzo ogni contrapposizione ha una mediazione, un equilibrio. Città e campagna, nobiltà e proletariato. Nel Novecento c’è più che altro una crisi delle ideologie, di tutti gli “ISMI” che lo avevano dominato. Da quando Zola aveva preteso di difendere Dreyfus, gli intellettuali sono condannati a due condizioni: o si emarginano dalla società, diventando pazzi, alcolizzati, oppure diventano militanti nella battaglia delle idee, ma in ogni caso si sentono tremendamente a disagio. Emblematica è la figura di Federico Tozzi, che nasce negli anni 80 dell’800 e che si contraddistingue per il suo essere moderno, di voler rompere con la tradizione eppure far coincidere letteratura e vita. Ha una adolescenza turbolenta, rapporti conflittuali col padre che lo vede inadeguato e malaticcio, e con una madre che lo ama di un affetto superstizioso e che lo lascia a 12 anni. Fa a botte, viene espulso diverse volte a scuola, è irrequieto, ma trova nella letteratura una via d’uscita. All’inizio del novecento comincia la sua vera vita: si innamora di Isola, contadina del padre e a Giurisprudenza conosce Giliotti, un amico e poeta a cui dichiara di essere un artista inespresso, di avere una vocazione letteraria. La svolta per Tozzi arriverà con un annuncio su un giornale di una donna che cercava una corrispondenza letteraria. Si presenta a lei come un Come detto prima, tutto ciò è la testimonianza di come nell’età moderna siano provvisori i valori, i progetti, di come ogni mossa sia precaria in questo mondo di scacchi impazziti. La grandezza di Tozzi sta in questo, nel suo sguardo fermo nell’assistere agli orrori della modernità, al vuoto dei valori, delle azioni, dei sentimenti. Nessuno gli ha voluto credere. È il primo degli scrittori espressionisti italiani, un anticipatore di quello che sarà il neorealismo negli anni Venti. CAPITOLO 6 Gianni Stuparich nasce a Trieste nel 1890. È innamorato profondamente della sua città, del suo essere esposta alle correnti europee, tanto da poter studiare da lì tutti i popoli e le loro culture. È immerso nel clima di anime fervide di quella città, e in una rivista “Voce”, comincia a parlare di lotta per la nazionalità, del concetto stesso di nazione moderna. Ma lo scoppio della guerra e la partecipazione dell’Italia, vista come inevitabile e unica scelta possibile - oltre ai primi giorni di eroico entusiasmo - rivela subito i suoi orrori. Dopo qualche giorno non sanno più se volere la guerra sia stata la cosa giusta, e quale sia il motivo per cui sono in trincea. Questo comprare nei diari di Gianni Stuparich “Guerra del 15”. Si trovano lì, come dice anche il fratello Carlo, per non restare fuori dalla storia, perché chi lo fa è un egoista e vive nell’astrattezza. Morirà nel 1916, da comandante e deciderà di darsi la morte da solo pur di non finire nelle mani dei nemici, dopo che furono uccisi tutti i suoi uomini. Da quel momento in poi Gianni si tormenterà, chiedendosi se davvero non ci fossero altre soluzioni, oltre a quella inevitabile guerra. Non avevano mai creduto nelle ideologie aggressive nazionaliste, al prevalere di un Paese su un altro, ma erano rimasti fedeli a quell’idea di federalismo europeo, di unione di diverse civiltà europee. Eppure avevano scelto di essere interventisti perché senza una guerra non sarebbe mai stato possibile trovare un nuovo ordine, una nuova Europa, un cambiamento. Solo così sarebbero nati dei nuovi valori. Collaborerà poi con una rivista di Milano, in cui darà luce ai problemi legati all’annessione di Trieste in Italia, alla rivalsa degli slavi, e prega di lasciar stare lo spirito nazionalistico da vincitori, e occuparsi della convivenza pacifica fra le nazionalità, al rispetto di esse, riproponendo la sua visione di federazione europea. Ancora più violenta era infatti l’ideologia del dopoguerra, che caricava di odio la nuova generazione. È l’ideologia della violenza, una violenza ottusa e bestiale, una sorta di vendetta che non conduce da nessuna parte. Quello che fa questa ideologia nuova è fomentare gli egoismi, non ricostruire. Non ci sono propositi costruttivi, come quelli che avevamo mosso gli interventisti. Dalla morte del fratello, Giani deciderà di vivere la sua vita cercando di trasformare l’esperienza della guerra in un messaggio di speranza verso il futuro, affinché il sacrificio di molti fosse servito a qualcosa. Infatti dimostra una grandissima fiducia nell’ umanità, nell’avvenire. I reduci dell’interventismo sono stati sopraffatti dalla guerra, e devono essere i testimoni, i nuovi maestri, punti di riferimento. Carlo era legato a lui da un affetto fortissimo, e a lui si rivolge nei Colloqui con mio fratello, rendendolo simbolo di una giovinezza eterna, di un insieme di valori che sono definitivamente caduti con la sua morte e con gli orrori della guerra. Carlo è come la parte migliore di se stesso, quella che non tornerà più. Non è più possibile, infatti, tornare come prima. Dopo la guerra si è rotto qualcosa nel mondo, ed è impossibile ripristinare l’umanità come se niente fosse. Per questo c’è caos, scontentezza, odio che cova, vendetta. Credevano che dopo la guerra si sarebbe costruito un mondo del tutto nuovo, invece, dice “ci ritroviamo al posto di prima, solo siamo più nudi, le cose ci paiono snebbiate” Idealizzare il sacrificio di quella generazione di soldati si rivela inutile, arido. Nei suoi esami di coscienza, nella memoria che caratterizza tutti i Colloqui, l’unica soluzione appare quella di tornare ad essere solidali, comprendere il dolore altrui. Purtroppo, però, il suo libro Colloqui con mio fratello con la sua grande solennità, fu sepolto da moltissima polvere, e dagli anni del fascismo. Era troppo presto, e per molti anni non fu capito. CAPITOLO 7 Un’altra figura emblematica del suo tempo è Marcello Gallian, la cui vita sarà caratterizzata da un grandissimo fervore. Seguirà D’Annunzio ad appena 17 anni per riprendere la città di Fiume, e crederà ciecamente nella patria, nel nazionalismo più aggressivo, convinto come i suoi contemporanei che sarebbe nato un ordine nuovo. A partire da Baudelaire, come sappiamo, si era generata una nuova figura di intellettuale che andasse contro la borghesia, una persona eccentrica e fastidiosa alla massa benpensante. L’ardore di Gallian lo trascina da D’Annunzio alle camicie nere di Mussolini, fino a diventare un anarchico. Voleva rifondare il mondo con i suoi compagni ed era convinto che nel fascismo e nei suoi ideali avrebbe trovato la risposta giusta, e che fosse soltanto questione di tempo. Scrivere per lui e i suoi compagni significava combattere, demolire il mondo vecchio e le tradizioni per creare una nuova civiltà. Dichiara di avere sete e fame, di ardere, come avesse urgenza di cambiamento. Non gli interessa del consenso del pubblico, quello che vuole anzi è la loro indignazione. Dichiara che gli scrittori sono stufi di questa letteratura da tavolino, che vogliono essere protagonisti della storia. Credeva in un mondo del tutto nuovo, fondato sulla perfetta uguaglianza, e finisce per essere censurato dal regime stesso perché proclamava delle ideologie totalmente controcorrente, che non appartenevano al fascismo. I protagonisti dei suoi romanzi sono eroi anarchici, che fuggono dal mondo corrotto nel quale vivono per andare nella natura incontaminata, e ricominciare da zero. Sfidano la storia, si battono per i poveri e i disperati. Riteneva che davvero Mussolini potesse rendere realizzabile questa sua utopia di società nuova ed ugualitaria. Presto però si rende conto che insieme a tutti gli altri scrittori e intellettuali antiborghesi, gli vengono impediti i mezzi di comunicazione più vicini alle masse: la radio, il cinema, il teatro, e che vengono premiati coloro che facevano comodo ai più. Ecco che arriva il fallimento. Il tradimento della rivoluzione: gli intellettuali avevano abbandonato le avanguardie e avevano vinto i più forti, coloro che erano riusciti a piegarsi ai bisogni dei più. I traditi, nel frattempo, sono rimasti bloccati in una sorta di limbo, tra la delusione e l’euforia che li aveva animati per molto tempo, e in cui avevano profondamente creduto. Il titolo “Soldato postumo” è emblematico di questa condizione di “mezzo”, di coraggio e fallimento, realizzazione che la rivoluzione non sia possibile se non tradendo i suoi stessi figli. Per molto tempo Gallian non è stato compreso, soprattutto per le sue scelte politiche discutibili, ma oggi è perdonabile nello spirito di ansia di rinnovamento che scorreva così ardentemente nel Novecento, e che era inevitabile, in tutte le sue contraddizioni. CAPITOLO 8 Dopo la Prima Guerra Mondiale si assiste ad una crisi morale e sociale senza precedenti: sono crollati tutti i fondamenti su cui si reggeva la Il primo romanzo che segna “un prima e un dopo” è Gli Indifferenti di Moravia, del 1929, che subito fa intuire che qualcosa sia cambiato. C’è della tridimensionalità, la psicologia modella i personaggi, ha un ruolo fondamentale, e questo era del tutto assente nella letteratura della generazione precedente. Il Saggiatore nel suo primo numero, nel 1930, è una rivista che vuole raccogliere questa nuova cultura, comprendendo che fosse ormai insuperabile l’abisso che separava i figli dai loro padri. Gli scrittori nuovi credono in un romanzo che non è più letteratura del frammento - come gli esempi precedenti- : quella apparteneva ai padri, a chi era tradito, disilluso. Loro credono nel romanzo come qualcosa di compiuto, di costruttivo, che sia VITA. I giovani scrittori non hanno dei maestri, dei punti di riferimento, delle tradizioni da riprendere: se mai degli esempi lontani da cui partire per una rivoluzione copernicana che avrebbe riportato al centro la letteratura per la vita. La loro cultura nasce direttamente dalla pratica, dalla vita: per questo motivo sono anche dei neo romantici, poichè il romanticismo è collegato alla vita, partendo anche dalla lezione di Francesco De Sanctis. Però l’atteggiamento dei neorealisti presuppone un impegno morale nella società, quindi un maggiore coinvolgimento. Il problema è che la stessa esigenza di rinnovamento, di un legame tra la politica e la letteratura era auspicato anche dal regime fascista negli anni 30, quindi gli intellettuali finiscono per aderirvi, quasi non vi fossero altre alternative al di fuori di esso. Il regime era infatti totalizzante, molto più che un’ideologia, un sistema filosofico, e inglobava ogni cosa. I punti di riferimento per i neorealisti sono gli scrittori russi dell’Ottocento come Dostoevskij e soprattutto i contemporanei tedeschi interpreti di una nuova oggettività. Nel Saggiatore ancora una volta compaiono della pagine programmatiche che spiegano il movimento contemporaneo della Nuova Oggettività tedesca, in cui letteratura, vita e azione si legano indissolubilmente e hanno come oggetto la massa e i suoi stati d’animo dopo la disgregazione causata dalla guerra. Ma questa letteratura così cruda e spietata porta all’universale ogni messaggio: sembra che non ci sia più nemmeno una persona normale, che tutti siano dei casi clinici, degli psicopatici causati dalla guerra. E’ una della narrazioni più brutte e disperate che si possano leggere. Pannunzio sul Saggiatore confronta il romanzo dei neorealisti con quello dell’Ottocento e dimostra che i fatti non vengono trattati dal punto di vista oggettivo, della realtà, ma sotto una lente che deforma, quasi una radiografia che penetra fino all’essenza delle cose. E continua, dicendo che il romanzo è un’esigenza fondamentale, perchè in esso convergono i valori, i pensieri, i sentimenti dell’uomo ed è possibile ricostruire la figura dell’uomo come entità completa, intera, nei suoi rapporti con sè stesso, con l’altro, con la natura, con le forze oscure. E quella del romanzo è un’esigenza che si avverte non soltanto in Europa, ma in tutto il mondo: il bisogno di unità, di compattezza, di una trama in cui raccontare e analizzare la realtà e il suo sistema complesso di valori di riferimento. I neorealisti italiani non prendono spunto dall’Ottocento e dal verismo, ma caricano di espressionismo i loro romanzi. Diventano fondamentali i gesti, i momenti, il pensiero e l’azione dei protagonisti, la loro coscienza, la loro moralità. Un romanzo che esemplifica questa tendenza è Quartiere Vittoria di Dettore (1936), che parla della costruzione di un quartiere nuovo ai margini della città vecchia dopo la prima guerra mondiale. Protagonisti sono i costruttori e il loro denaro, i muratori e i nuovi inquilini interpreti della borghesia. Le persone emigrano dalla città vecchia da dieci anni, lasciandosi indietro tutto, come a voler dare uno strappo al passato. E’ il passato infatti il vero nemico di cui liberarsi, il dolore, il male. E questo lo fa il nuovo quartiere, assorbe tutto il passato e lo filtra tra le pareti, fino a quando gli inquilini dimenticheranno tutto. Inoltre il quartiere appiattisce, rende tutti uguali, si perde l’individualità, fino a perdersi nella collettività. Come possiamo vedere c’è molto di più della realtà in questo romanzo: è un’analisi profonda della società, dei suoi cambiamenti, del suo combattere tra valori vecchi e nuovi. CAPITOLO 9 Mario Pannunzio nasce nel 1910 ed era un bambino quando ci furono due ottobri importanti: la rivoluzione bolscevica e la marcia su Roma dei fascisti, alle quali si contrapporrà per tutta la sua vita. Non fu nè fascista nè comunista, perchè quando la Storia giungeva ad un bivio secondo lui stava nascondendo la verità. Il padre era un giornalista, che tornato dalla Russia si convertì e divenne un apostolo di Lenin: da quel momento la sua vita e quella della sua famiglia non fu facile e dalla Toscana dovettero trasferirsi nella speranza di mimetizzarsi nella grande città di Roma. Inizia a scrivere per il Saggiatore e per una rivista fondata da studenti universitari di Lettere a Roma, in una tendenza neoromanticista. I ragazzi sentivano un abisso tra loro e i loro padri: a dividerli la tragedia della guerra e le speranze di costruzione di un mondo nuovo dettate dal fascismo. Si sentivano eternamente adolescenti, come bloccati in un’attesa infinita, a dover continuamente imparare. Si trovano a costruirsi da zero dei nuovi ideali di riferimento per risolvere il problema dell’esistenza. Questo è ciò che afferma Dettore ne il Saggiatore, e gli fa eco anche Giorgio Granata che auspica un ritorno ad un’umanità viva, palpitante, piena. Vogliono uscire dall’indifferenza. Sembra che neorealismo e neoromanticismo siano definizioni importanti più che altro per il loro prefisso: nuovo. Poichè non hanno più nulla a che vedere con quelle esperienze già consumate. Non si erano dichiarati antifascisti, poichè il fascismo era qualcosa di talmente invadente in ogni ambito della società che era impossibile scinderlo. Ma non erano neanche fascisti. Delfini tratteggia un ritratto grottesco e ironico di questi ragazzi presi dalla “foia intellettuale”, dal loro continuo fumare sigarette su sigarette, dal loro snobismo, ma forse non si rende conto che proprio in quelle riunioni stava nascendo la nuova generazione di scrittori. “Del romanzo” è il manifesto programmatico scritto da Pannunzio e che dice che il romanzo moderno non ha nulla a che vedere con il verismo ottocentesco, e che è un modo per sondare un mondo sempre più oscuro e torbido. Nel 32 deciderà di aprire una rivista settimanale tutta sua, e finirà l’esperienza del Saggiatore. La rivista è Oggi, curata da Pannunzio, Delfini, Eurialo De Michelis, Serafini, Talarico. Porta l’idea di un romanzo fondato sull’importanza dell’individualismo, del punto di vista dell’uomo e della sua esistenza in relazione con quanto accade intorno a lui. Una letteratura che sapesse di vita. Oggi era una rivista apertamente polemica, con moltissimi collaboratori, voleva favorire il dibattito vivo. La sua fine avverrà quando Pannunzio inviterà Moravia a collaborare, portando ad uno scontro tra i fondatori. Aprirà poi una nuova rivista nel 1934, Caratteri, al quale collaborerà finalmente anche Moravia. Durerà pochi mesi e poi si occuperà di cinema, che secondo lui nel nostro Paese era estremamente mediocre. La potenzialità enorme del cinema era quella di dare l’accesso alla massa dei contenuti artistici. Poteva diffondere messaggi culturali con un linguaggio immediato. Longanesi lo chiamò poi a collaborare per Omnibus, da cronista cinematografico: era ciò che aveva sempre desiderato ed era una rivista collettiva adatta a specchiare i movimenti culturali del tempo. Così nel 1933 su Solaria pubblica a puntate il suo primo romanzo, Garofano Rosso, che vuole essere programmatico e parlare della letteratura in funzione della politica. Lo fa attraverso un romanzo, il luogo ideale, come per molti scrittori del Novecento, per risolvere le contraddizioni del mondo e progettarne uno nuovo, recuperando i valori indissolubili. Qui costruisce la mitologia del mondo operaio, con dei valori semplici, genuini. Quest’opera però assomiglia più ad un mosaico frammentato di fatti e idee, che non trovano unità. C’è il viaggio e l’infanzia, la felicità e la nostalgia. Per gli operai, il recupero della felicità primordiale, secondo Vittorini è una strada più semplice, poichè essi il più delle volte provenivano dalle campagne, e hanno ancora fresco, nella memoria, il ricordo del rapporto genuino con la natura. Consapevole della disorganicità di quest’opera, Vittorini tenterà da questo momento in poi di separare speranza e rimpianto, infanzia e futuro, e di proiettare la speranza e quei valori ancorati all’età infantile in un futuro lontano. Con Erika e i suoi fratelli possiamo vedere la sua maturazione. Da un lato è un romanzo con un carattere quasi fiabesco, allusivo e metaforico, dall’altro è un’analisi sociologica e politica delle estreme conseguenze della sua interpretazione del fascismo. Siamo nella crisi del 29, la disoccupazione dilaga ovunque. Lo sfruttamento annienta la bontà degli uomini. Ancora una volta, la campagna è il luogo dei valori perduti, mentre la città è l’emblema della solitudine, dell’egoismo, del calcolo. Erica crescerà proprio passando dalla campagna alla città, con la disillusione che essa portava. Ma qui cambia la prospettiva dell’autore: i valori perduti non devono essere un rimpianto, qualcosa da ritrovare nella memoria, ma una lotta, un progetto concreto. Erica è però da sola, in città, e seppur tenti di lottare, non c’è una collettività pronta ad aiutarla, per arrivare insieme alla salvezza. Il passo successivo è la guerra d’Africa, per la conquista dell’Etiopia, vista da Vittorini come l’occasione ideale e concreta per formare questa nuova collettività che collaborasse in funzione della costruzione di una nuova società. Un progetto totalmente utopistico. Con la partecipazione dell’Italia alla guerra di Spagna, dove secondo Vittorini il fascismo avrebbe dovuto aiutare i repubblicani e non i franchisti, si chiude completamente la fase fascista dell’autore e la caduta definitiva di ogni illusione. Dirà infatti “Io ero in quell’anno, in preda ad astratti furori.” Rimarrà soltanto la fiducia nell’arte e nella cultura. CAPITOLO 11 Per molto tempo non è mai esistito il risvolto di copertina, e il libro affrontava da solo il lettore, sicuro di sè e della sua identità. Sono state le avanguardie all’inizio del secolo a cambiare rapidamente le cose, inserendo sulle copertine dei caratteri strampalati. Dopo la guerra si cominciarono a illustrare le copertine, in modo tale che evocassero i temi, i contenuti del libro. E piano piano anche il retro dei libri cominciò a riempirsi di parole, di elenchi di titoli e la pubblicità cominciò a urlare sempre di più alla nuova scoperta, al nuovo Dante del millennio. Il risvolto di copertina dona finalmente la parola all’editore, che fino a questo momento aveva lavorato nel silenzio. Elio Vittorini dirà che la cultura continua a muoversi, a rifiutare opere del passato che un tempo aveva invece venerato. Con la collana Corona di Bompiani, negli anni 40, vorranno raccogliere quelli che saranno i capisaldi della letteratura di oggi, italiani e stranieri. Questo compare sul risvolto della collana. L’ansia, la frenesia di Vittorini a ricominciare, a ricostruire, la si legge soprattutto nel suo Politecnico, a partire dal primo numero del 29 Settembre 1945, dove invoca una cultura che non si limiti a consolare dalle sofferenze, ma che le combatta e le elimini a priori. Così decide di raccogliere i nuovi scrittori italiani, quelli usciti dall’Aprile del 45, e di dargli voce, dispensando loro consigli, pareri. Vuole che la genti si racconti, persino la più umile, e riceve manoscritti da tutta Italia. Politecnico chiuderà dopo la polemica con Togliatti, ma nel 1948 darà vita ad un progetto che raccogliesse i nuovi autori, chiedendo loro anche di dare una propria visione dell’arte, della vita, del modo in cui sono diventati scrittori. Opera una vera e propria ricerca letteraria che costituisca un quadro, un disegno di ciò che era accaduto. Questa collana avrà il nome di Gettoni: gettoni come modo per comunicare, come “germogli” per un nuovo punto di partenza, come gioco. Raccoglie autori giovani, appartenenti del neorealismo italiano, anche se ognuno ha un “neorealismo” personale. E’ una collana sperimentale, in quanto la letteratura non esiste se non in funzione di ciò che è stato e della società, della storia in cui è inserita. Nei Gettoni non è importante la qualità o la compiutezza, quanto il valore dei testi, la loro forza documentaria e creativa, la definizione di una nuova era che ancora non aveva un nome. Proprio qui Vittorini prenderà man mano confidenza con il risvolto, utilizzandolo come un diario pubblico con i lettori, nel quale possa raccontare le avventure degli autori con quella del mondo, della storia e del racconto che essi ne hanno fatto. Li utilizza con discrezione, senza urlare al capolavoro, anzi, esprimendo persino le perplessità. Diventano proprio un genere letterario vittoriniano, che si potrebbe leggere interamente come un documento che abbia un fine, uno scopo ultimo: trovare la via d’uscita dalla crisi. In otto anni di Gettoni sono stati pubblicati 58 libri, di autori che sono scomparsi o altri che si sono affermati come i grandi della letteratura, ma che in ogni caso sono stati documenti esemplari di una fase storica, culturale e politica unica. “Due sono i motivi per cui un manoscritto può diventare un gettone: o la sua innocenza, cioè la sua scrittura documentaria, oppure la forza creativa” CAPITOLO 12 Nell’aprile del 1945, alla luce del giorno e della primavera, apparvero a tutti i disastri della guerra: i morti, i feriti, i dispersi, le città devastate. Tutti hanno una storia da raccontare diversa dalle altre, impossibile da accomunare. La memorialistica, la testimonianza è il genere che prevale su ogni cosa. Ma soprattutto occorreva trovare un senso a quanto fosse accaduto: il genere che si prestava di pià a questo era naturalmente il romanzo. Chiunque infatti aiutasse a trovare la bussola era visto bene, con gratitudine. Ed ecco che il romanzo diventa rassicurante, soprattutto per chi aveva bisogno di certezze, di chiudere in un modo o nell’altro un capitolo oscuro e avere pace. Nel frattempo la fabbrica diventa il luogo della ripartenza, un luogo infernale e oscuro in cui l’operaio veniva distrutto una seconda volta, perdendo la propria identità ed essendo qualcuno soltanto per l’appartenenza ad una classe, la classe operaia. Poche fabbriche, Olivetti, Pirelli, Finmeccanica, Eni, provano a raccogliere intellettuali e letterati per dare fiducia alla fabbrica, per tratteggiarne un disegno di progresso e benessere, ma a parte il lavoro della Olivetti sulla comunità, poche danno risultati incoraggianti. La fabbrica e in particolare la città diventano simbolo dell’orrore del moderno, luoghi dell’anonimato, della massa, della perdita dell’identità. Era infatti totalmente scomparsa la civiltà contadina, e quel vuoto sarà impossibile da colmare. Si perdono le coordinate: l’asse del tempo bloccato nelle mura della fabbrica, lontano dallo scorrere delle stagioni, del giorno e della notte. Il successo di questo romanzo sarà una vendetta contro il male oscuro e contro la piccola borghesia della sua città natale di cui non si sentiva parte. Nel Male Oscuro l’IRONIA dissacrante viene rivolta anche alla figura del terapeuta che dichiara che il male dell’uomo sia insignificante perché l’intero universo soffre, e bisognerebbe guarire prima quello per andare avanti. Le fobie e le ossessioni del paziente si allargano a tutto il mondo, a tutta la storia. Il male di uno è il male di tutti. Gli uomini si illudono solitamente di trovare soluzioni ad esso, ma sono provvisorie. Infatti, come concluderà nella sua ultima opera, La gloria, se Giuda non avesse tradito Gesù, egli non avrebbe potuto sacrificarsi per noi. Se assolve il suo compito, invece deve dannarsi per sempre. Non si può fare bene senza fare male. Non si può dire verità senza tradire, l’unica arma che rimane è l’ironia. CAPITOLO 14 E’ il 14 Novembre del 1951 quando il Po rompe a Paviole e l’isola di Polesine, che Cibotto conosce molto bene, viene allagata così tanto che i suoi abitanti perdono ogni cosa, e neanche sei mesi sono sufficienti per ricominciare da zero. E’ un paese che ama e che odia Cibotto, e dal quale vuole fuggire, allontanato dall’ipocrisia di una civiltà millenaria ancorata a valori troppo antichi. Diventa scrittore quasi per caso, quando scrive Cronache dell’alluvione, sentendo l’emergenza di dover raccontare quanto accaduto nel modo più realistico e frammentario possibile, ma distaccandosi dal neorealismo e volendo piuttosto trovare una verità, una giustizia dietro alla catastrofe. Lo nota persino Eugenio Montale. E’ una scrittura molto asciutta, a tratti telegrafica, ma piena di un moralismo tipico della saggezza popolare, e di una voglia indiscussa di fare luce sulla verità. Sono persone gentili ma rozze quelle del polesiano, pronte a riprendersi la loro terra con le unghie e con i denti, e che vivono la vita come una dura resistenza contro la natura, a cui a volte sono però destinati a soccombere, ad arrendersi. Parlerà di questa lotta ne La coda del parroco, fatto da sei episodi che raccontano la gente del suo posto, e che esce nel 1958 suscitando scandalo. Parlano della sua voglia di evadere, di andare in città, dove è possibile un’apertura mentale, ma dove i protagonisti rimangono in sospeso, perchè la città non è in grado di accoglierli, ma non vogliono più tornare indietro. Vi si possono trovare immagini peccaminose che ricordano anche la Dolce Vita di Fellini. Cibotto, in questi racconti, era stato in grado di registrare i grandi cambiamenti che attraversavano tutta l’Italia degli anni cinquanta, che andava verso il tanto desiderato benessere. Scrive poi Scano Boa, che parla di lotta tra la vita e la morte, di resistenza. Scano Boa era un villaggio di pochissime capanne, neanche segnato sulla cartina geografica, tanto era provvisoria la sua esistenza. Era vicino al delta del Po, e per questo motivo, grazie alle correnti, era possibile pescare gli storioni, che valevano molto. Un vecchio decide di avventurarsi alla ricerca di questi pesci pregiati, nella speranza di dare una svolta alla sua vita: ma è una lotta impari, è destinato a soccombere contro la forza della natura. Mentre lui muore, dall’altra parte del fiume una donna sta partorendo. E’ il racconto pieno di umanità e di verità, di vita e di morte. La Vaca Mora, del 1964, inizia con una premessa dell’autore che dichiarava che il libro fosse per lui una trascrizione fedele della vita, con i suoi slanci e i suoi bruschi arresti. Ma non è solo realismo fine a sè stesso, perchè come sempre i racconti sono pervasi dalla morale, dalla volontà di cercare risposte sull’esistenza. Qui abbiamo il confronto tra due generazioni: quella millenaria con i suoi indiscutibili valori, e la nuova, che dopo la guerra è euforica, percepisce un nuovo inizio, un nuovo ordine, ma non sa da dove iniziare. Neanche nella pace tanto desiderata si ha la serenità. Negli ultimi racconti di Cibotto il Veneto sta cambiando, poichè arrivano i miti americani e pure la civiltà contadina si sta ammorbidendo. Ma esiste ancora un Veneto segreto, con la sua saggezza popolare e la sua purezza. Ne parla il Diario Veneto, con una prosa dialettale e malinconica, sui ricordi della sua terra tanto odiata e amata. La sua è stata una narrazione piena di verità e umanità. CAPITOLO 15 Fulvio Tomizza nasce nel 1935 in terra istriana e croata, nella parrocchia di Materada. Comincia i suoi studi tra Istria e Gorizia, ma quando suo padre diventa una vittima comunista, decide di trasferirsi con la sua famiglia a Trieste e ripartire. Vive a pieno il dramma dello sradicamento, che diventa ancora più potente quando l’Istria viene separata definitivamente da Trieste. A quel punto da separazione si è consumata in modo irreversibile. Si trova a Trieste senza radici: del comunismo aveva subito il fascino a causa del padre, e della città italiana non condivideva il nazionalismo. Era tra due fuochi, con l’impressione di aver semplicemente subìto tutti quegli avvenimenti. Scrivere è per lui un’urgenza per fare chiarezza almeno sulla pagina di quel turbinio di emozioni e di disorientamento profondo. Il primo risultato è Materada, del 1960, in cui racconta il dramma che non è soltanto autobiografico, ma che coinvolge l’intera comunità in un esodo senza alcuna terra promessa. E’ chiaro che sia ancora una materia che lo scrittore sente troppo vicina, incandescente: polemica e rabbia, malinconia e nostalgia si alternano. E’ il racconto, da testimone, della fine della civiltà contadina, che esiste soltanto nel ricordo. E’ un tema ricorrente nei suoi libri, che cresce di anno in anno, contro la totale indifferenza verso gli istriani. Vuole essere un semplice cantore, una parte del coro, eliminando la sua autobiografia per quanto possibile: il suo scopo è svegliare le coscienze degli uomini per comprendere la tragedia che ha vissuto un popolo sulla propria pelle, lasciando la patria, la storia, la cultura, la loro identità. In La ragazza di Petrovia si racconta di questo popolo di profughi accolti in un campo, davanti alla città che li aspettava, ostile, con regole del tutto diverse: una donna incinta vuole andare nel nuovo mondo, e tornare indietro se non le fosse stato consono. Ma non sa che indietro non si torna, dalla città, così muore. La trilogia istriana si conclude con il Bosco di acacie, in cui ai profughi non resta che adattarsi a una terra che non è la loro, dimenticando la civiltà secolare da cui provengono, la loro lingua, i loro usi. Un contadino morto viene sepolto, quasi a simboleggiare la fine di qualcosa definitiva. Inizia così una seconda trilogia, composta da La quinta stagione, L’albero dei sogni e La città di Miriam. Nel primo il riferimento alla sua infanzia è chiaro, tramite il personaggio di Stefano Markovich che parte per Capodistria, c’è la guerra ma loro sono giovani e ignari, anche se cominciano da qui i rapporti conflittuali col padre. C’è un bellissimo affresco della comunità natale. Nel secondo libro, Stefano parla in prima persona e c’è il passaggio dall’infanzia spensierata all’adolescenza, con le paure e le ansie. Qui deve affrontare tutte le sue contraddizioni interne: tra la storia e il mondo, l’Italia e la Jugoslavia, il comunismo e il mondo cattolico, il rapporto di amore e odio col padre. Soltanto facendosi carico del passato, attraversandolo, è possibile infatti andare avanti, immergersi nel futuro, non ignorandolo. La chiusura del romanzo è un abbraccio tra il padre e tutto ciò che significava, passato, tradizioni, radici, conflitti. Ecco che la vita di Tomizzi si gioca tutta così, in bilico costante tra due tensioni, morale e storia, invenzione e letteratura, tra una frontiera e l’altra. CAPITOLO 16 Anche all’origine della vocazione letteraria di Camon c’è uno strappo, una lacerazione. In questo caso dalla sua civiltà contadina, dalla quale decide di fuggire, per andare a studiare in un centro urbano e diventare un letterato. I primi versi che scrive e che raccoglie in “Fuori storia” parlano della sua diversità rispetto alla sua comunità di appartenenza, e vuole scrollarsi di dosso la sua provenienza per guardare avanti. Nel Mestiere di Poeta ci sono dei colloqui coi grandi maestri della lirica italiana, di cui dice è utile conoscere la provenienza, il retroterra culturale, il vissuto: indizio che ci fa comprendere come sentisse il bisogno di confrontarsi ancora una volta con gli altri e il loro passato. Nelle sue prime opere emerge chiaramente la sua salda volontà di essere reale. Vuole documentare, testimoniare un mondo di cui ha fatto parte. Un mondo fuori dalla storia, nel senso che ogni cosa che accade è destinata a ripetersi identica per l’eternità. Persino i bambini, quando nascono, hanno già il volto degli anziani maligni e imbruttiti dalla povertà. Quando parla della sua terra non emerge nostalgia. La terra non è un eden, idilliaca. Cova cattiveria, violenza. Ne parla ne Il quinto stato, in cui tratta la materia narrata con sarcasmo, con ironia grottesca, in modo da essere il più vero possibile. Tanto che un contadino anonimo si sentirà offeso e gli manderà una lunga recensione, che Camon pubblicherà rispondendo ad ogni punto. Camon dice che i contadini che si trasferiscono in città devono subito dimenticare quello che hanno imparato in campagna, perchè li rendeva simili alle bestie. Non potevano diventare uomini. Raccontare, per Camon, è un’urgenza, anche se un tradimento. E’ un modo per intraprendere la strada del riscatto, della liberazione, anche se la lacerazione che avverte dentro è grandissima, perchè coinvolge l’identità. Il quinto stato farà parte in realtà di un ciclo, Il Ciclo degli ultimi, in cui ogni tappa segna una conquista diversa per l’autore. Se nel primo prevaleva un realismo a tutti i costi, ne La vita eterna parla della fine della civiltà contadina, della sua scomparsa a seguito della luce elettrica e della televisione a partire dagli anni 60. L’avvento della luce elettrica era una rivoluzione enorme sulla natura, sul giorno e la notte. Il suo infatti era un paese che non era neanche segnato sulle cartine geografiche: da lì la storia non passava, le guerre iniziavano e finivano senza che lo sapessero. Nonostante ciò in questo secondo romanzo si parla dell’invasione nazista e dello scontro con la civiltà contadina. Questa reagisce in una maniera così violenta e sanguinosa da diventare grottesca, barocca. Camon esagera nei particolari, nel sangue versato. Quando i tedeschi andranno via dal Paese, non arriveranno neanche i Mericani, come li chiamavano. Accade però che con la luce elettrica viene spazzata via per sempre la civiltà contadina, il più grande avvenimento dopo la nascita di Cristo, ripete Camon. E in lui piano piano comincia a comparire l’emozione, la pietà nei loro confronti e nei confronti di un cataclisma vero e proprio. L’ultimo romanzo del ciclo è intitolato Un altare per la madre (1978), e ha al suo centro la storia di una famiglia, e in particolare la morte della madre. La morte, che per Camon è parte della vita, serve a comprendere, a guardarsi indietro. La morte nella civiltà contadina - che ora esiste soltanto nella memoria - aveva un senso: per gli ultimi significava conquistare l’immortalità, avere qualcosa per cui vivere, un premio. Paradossalmente è la morte della madre a farlo riconciliare con il suo mondo eterno ed immortale. Non c’è più odio o sarcasmo, ma tenerezza e dolore per un mondo di cui ha voluto liberarsi in fretta. Prima di questo ultimo romanzo, aveva scritto Occidente, con un lungo resoconto degli ultimi avvenimenti a Padova, tra insurrezioni, stragi, attentati. Questa volta si rivolge direttamente al lettore, che conosce bene i fatti narrati, e parla la sua stessa lingua: vuole essere considerato da essi un cittadino con elementi in comune, piuttosto che uno scrittore. Ancora una volta emerge la sua volontà di testimoniare. Oltre all’evidenza dei fatti narrati, in Occidente emerge l’analisi di una società malata che stava cambiando a causa del boom economico. Gli attentati infatti non sono una rivoluzione, piuttosto una restaurazione, un tentativo di tornare indietro. E i ragazzi diventano neofascisti pur di far parte di qualcosa, dopo il vuoto dei genitori. In La malattia chiamata uomo, Camon parla ancora una volta della sua esperienza psicanalitica, nell’aiutare un uomo nevrotico. Alla malattia chiamata uomo, però, non c’è scampo: la psicanalisi è utile, ma non è magia, non è sacra. Storia di Sirio è invece un libro inconsueto, che ha come protagonista la nuova generazione. Sirio è figlio di un ricco imprenditore, proprietario di una fabbrica che trasforma i lamenti di chi vi lavora in musica. Sirio non vuole far parte di questa ingiustizia, fugge dalla città e vuole fare la rivoluzione: una battaglia persa a prescindere. Prima di fare delle rivoluzioni, bisogna partire da rivoluzioni interne, da noi stessi. Bisogna fermarsi, guardarsi indietro, ripensare la storia. In La donna dei fili ritorna il tema della psicanalisi, che questa volta ha come protagonista una donna, sesso sconosciuto nel profondo da Camon. La psicanalisi uno ad uno svolge tutti i “fili”, rendendo il cammino dritto e chiaro. In questo modo Camon rivela un mondo dove la pace e i sentimenti hanno posto. Tra gli anni ottanta e novanta si cominciano a cogliere i disastri che la modernità aveva lasciato: non c’erano speranze, ma bilanci. Camon si definì il cantore di ciò che va perduto. Comprendendo che stava per avere inizio un nuovo mondo, cominciò un altro Ciclo: il Ciclo dei primi, nel 1995. Negli anni ottanta la psicanalisi era stata per Camon il luogo in cui risolvere la doppiezza della vita: sciogliendo i fili, le donne e gli uomini capivano la doppiezza tra la vita e la mente, tra la memoria e la rimozione e trovavano la guarigione. Ma non è finita: nel 1987 i personaggi gli scrivono, si arrabbiano dicendo che la verità fosse altra. La letteratura era solo parziale, addolciva la vita. Le parole non erano sufficienti. Forse, in questa prospettiva, ha senso parlare solo di ciò che è definitivamente perduto, perchè non esisterebbe altro. Con Il canto delle balene facciamo fatica a riconoscere il Camom tradizionale: la vita è indicibile, inspiegabile e i personaggi parlano inventandosi versi e parole assurde, senza comprendersi. Fanno fiii. No fanno muuu, dialogo tra moglie e figlia sul canto delle balene. C’è una grande frattura che contrappone infatti quest’opera alle precedenti: alla coppia donna uomo si contrappone quella di paziente ed analista, a seguito di un tradimento di cui il protagonista non ha il minimo pentimento. In una seduta collettiva, l’uomo deva sbandierare i segreti della coppia a letto, svelando ciò su cui una coppia si fonda. La modernità elimina i segreti, distrugge l’individualità. L’amore viene messo in ridicolo, i personaggi sono caricature di sè stessi ed è tutto terribilmente scontato. È una commedia che ci fa ridere del nostro mondo, delle nostre insicurezze, delle nostre fobie. Al protagonista non resta altro che tradire la moglie con una vecchia compagna di vita, la sua preferita: ma la modernità ha fatto svanire anche i ricordi che li legavano, per cui riescono soltanto a farsi forza a vicenda, nelle loro frustrazioni. Un romanzo questo, che legato alla malattia chiamata uomo ride sarcastico dell’uomo contemporaneo e del dramma della modernità. dal mondo. E’ la difesa del particolare, in un mondo totalizzante e autoritario. Lungo il fiume, lo scrittore incontra tutti i suoi fantasmi del passato, attraverso una serie di episodi. E qui comprende la differenza tra il fiume, che svolge eternamente il suo stesso corso, nei suoi stessi argini, e il mare, che attraverso le onde si abbandona verso l’ignoto. Magris si cimenterà anche nella scrittura teatrale, con Stadelmann, del 1989, che ancora una volta parla del tema della verità, della memoria e della menzogna. Il protagonista è il servo di Goethe, chiamato per parlare di lui diversi anni dopo la sua morte: ma egli, anziano, ha dei ricordi sempre più svaniti, poco limpidi per ricostruire l’identità della persona. Faceva parte di un mondo unitario, che non ha nulla a che vedere con la modernità, di cui invece è emblema tragico Stadelmann, che non riesce più a ricordare. Enrico Mreule a 23 anni decide di tagliare i ponti con il presente e di fuggire il più lontano possibile per la Patagonia, appena prima dello scoppio della prima guerra mondiale, prima che crollasse il sogno mitteleuropeo. Carlo Michelstaedter, il suo compagno di vita, non aveva ancora finito di scrivere La persuasione e la retorica, e di suicidarsi. Magris racconta questa avventura incredibile per trovarne un significato. Sceglie la narrativa, ma attinge ancora una volta alle fonti documentarie. E’ raccontato in Un altro mare, del 1991. Gli amici sono una comunità all’alba del nuovo secolo. Da una parte il regno stava crollando, dall’altra il nuovo, il moderno faceva paura. Carlo comprende che il passato e il futuro sono solo retorica, e vogliono farci sentire prigionieri del tempo, a rincorrere costantemente la morte. Meglio allora rendersi persuasi, convincersi, che la vita è il presente e nient’altro, rinnegando le coordinate temporali. Preme il grilletto della pistola e finisce tutto. Enrico Mreule, nel frattempo, corre lontano in un posto in cui il tempo non sia visibile. Non vuole sentire notizie del mondo, non si lega a nessuna persona, legge sempre gli stessi libri poichè quello che serve sapere è già stato scritto. Sogna l’oceano immobile dove tutto è sempre fermo e uguale a sè stesso. Quando torna trova un mondo stravolto dalla guerra, Carlo è morto. E così si isola di nuovo, in Istria. Non vuole figli, pur di tenersi lontano e non lasciare nulla al tempo, anche se invecchiando si rende conto che è impossibile stare da soli, senza dipendere da nessuno. Questo eroe anticonformista finisce per diventare la vittima di sè stesso. Il Conde del 1993 questa volta non ha nessun riferimento storico e documentale. E’ pura invenzione. Per raggiungere una nuova frontiera, Magris va nella costa atlantica del Portogallo, il confine per eccezione. C’è un solo io, un marinaio che attraversa l’ultimo tratto del fiume sulla barca del Conde. L’acqua è di nuovo un terra di nessuno, un luogo immobile, silenzioso. Da lì viene svelata la verità, che viene a galla come i corpi morti dei marinai. I marinai diventano eroi come i poeti, che ricercano la verità nei luoghi più difficili. Il Conde è una sorta di Orfeo fallito, che non ritorna dalla morte, ma è consapevole che questa sia già avvenuta una volta per tutte. Il destino è compiuto. In Microcosmi, del 1997, ritorna il tema della persuasione di Carlo, dell’attaccarsi tenacemente al presente stando attenti ai microcosmi, alle piccole situazioni quotidiane. Ma non riesce ad arrendersi, vuole andare oltre il presente, per abbracciare tutti i tempi e tutti i luoghi. E’ una situazione paradossale, un ossimoro. L’esempio più lampante di questa situazione di Magris, di questo suo volersi ancorare al presente ma sperare nell’utopia, è l’idea della frontiera, che divide come una barriera ma allo stesso tempo accoglie. Come il lievito, senza il quale non si può fare bene il pane, ma da solo non basta a crearlo. La persuasione altro non è che l’accettazione di un presente uguale a sè stesso, terribile e sublime, e legarsi solo ai valori universali, come stelle fisse a cui rivolgere lo sguardo. In Alla cieca, il protagonista è un paziente di un centro di salute mentale che non riesce a ricordare la sua avventura di perseguitato dai fascisti, dai comunisti, perchè la mescola a quella degli altri. Ogni svolta, ogni possibile cambiamento viene ogni volta smentito. In L’infinito viaggiare, del 2006, torna sul tema del viaggio e compie una sorta di dichiarazione della sua poetica, che culmina sul viaggio, sull’andare senza meta. Il viaggio per Magris è un modo per far tardare l’arrivo, per arrivare il più tardi possibile oppure mai. Ecco che torna ancora una volta la persuasione di Carlo, il viaggio come modo per ancorarsi al presente come unica certezza del moderno, e possedere davvero a pieno la propria vita. I conflitti, le contraddizioni sono impossibili da superare nel moderno. Ma Magris non sarà mai del tutto persuaso, e continuerà a rivolgere lo sguardo da una parte della frontiera all’altra. Ritorna poi al mito, per fare una lettura della modernità. Immagina Euridice, tornare indietro e spiegare ad Ade che era stata colpa sua, che aveva chiamato Orfeo. Euridice si rende conto che Orfeo non fosse tornato indietro per salvarla, ma per salvare sè stesso. Voleva conoscere come fossero realmente le cose, cosa ci fosse oltre la soglia. Così, chiamandolo a voce alta e decisa, decide di riportarlo alla vita, e di sottrarlo alla conoscenza del vuoto, dell’abisso, del nulla. “Ignaro del nulla, ancora capace di serenità, forse anche di felicità”, conclude Euridice, parlando anche della condizione dell’uomo nella modernità. Il mito dichiara l’impotenza dell’uomo e la sua rassegnazione definitiva nella modernità. Se capire è impossibile, sciogliere le contraddizioni anche, allora non resta altro che rimanere persuasi al presente, alla vita. CAPITOLO 18 Antonio Debenedetti è stato chierichetto ma anche profondamente insofferente alla figura ingombrante del padre. I protagonisti della sua narrativa sono i piccoli borghesi insignificanti, un mondo di non eroi, di persone senza qualità e senza alcuno scopo. Secondo Debenedetti è impossibile cogliere il senso della realtà in un mondo senza senso. In Fine di un addio, del 1984, il protagonista assomiglia molto alla sua vicenda autobiografica. Amerigo si forma a Torino, segue il cinema, si circonda di una vita piacevole e spensierata, fatta di dandy nuovi, non più legati al bello, ma ad una chiaroveggenza psicologica, tra inconscio e conscio. Le case di Roma sembrano sospese, come se da un momento all’altro dovesse sempre accadere qualcosa. C’è un’irrequietezza di fondo che attraversa l’esistenza, una vita senza vocazione. L’attesa di qualcosa è sterile, invana. Le nostre vite sembrano destinate a perdersi senza lasciare un segno, senza costruire nulla. Sono le parole di uno dei protagonisti, che vive delle giornate a vuoto. Non stringono in pugno nessuna situazione, non arrivano mai a nulla. Almeno fino a quando arrivano le leggi razziali, e la crudeltà divampa ovunque. Scrive poi Spavaldi e strambi, i cui protagonisti sono una decina di individui al confine tra la normalità e la devianza, goffi ma non ci fanno ridere e neanche commuovere. Soffrono per le ragioni più assurde, sono incompresi. Sono privi di qualsiasi tipo di speranza di riscatto, rimangono Inizia da giovane, neanche trentenne, per fotografare una generazione senza qualità, con alle spalle avvenimenti spaventosi di cui si avverte il peso, ma non la colpa. Comincia quasi per caso ad annotare eventi senza alcun filo conduttore, quasi per noia. Piano piano, il diario comincia ad avere uno scopo più importante, una responsabilità, un valore di testimonianza. Lo scrittore sente di avere un ruolo ideologico e pedagogico nei confronti di chi leggerà. Ogni incontro dei personaggi che compaiono nel diario diventa allusivo e metaforico della condizione umana moderna, di tutte le sue forme. Negli anni settanta accade semplicemente che una nuova generazione di scrittori vuole ricominciare senza dover necessariamente disfarsi della tradizione e dei padri, come era stato fatto per tutto il novecento. E’ accaduto lentamente, senza manifesti o proclami aggressivi. E così si ricomincia semplicemente a riscrivere delle storie, perchè di racconti ha sempre avuto bisogno l’uomo. In una conferenza intitolata Le ragioni del cuore e la nudità dello sguardo sulla vita, Lodoli esprime la sua poetica. Dice che bisogna essere consapevoli della precarietà di tutto ciò che ci circonda, ma prendersene cura, essere responsabili, e trovare un raccordo con tutte le piccole cose della nostra vita. Il raccordo sarà il tema di Grande Raccordo, del 1989, che richiama l’anello stradale che abbraccia Roma, quello super trafficato. E’ fatto da 16 racconti, come un discorso circolare, un nodo che ritorna sempre al punto di partenza in cui compaiono strani personaggi che attraversano la loro esistenza. E’ come se ci fossero due mondi: la normalità della città urbana, con le sue rigide regole, e la vita della periferia, dell’emarginazione. La realtà è disgregata in rigide classificazioni, in classi che non comunicano tra di loro, che non si comprendono: il ruolo dello scrittore è quello di metterle in comunicazione, di aprire un dialogo. Il linguaggio è allegorico ed espressivo, e i suoi personaggi vivono vite al limite, al paradosso. Seppur siano disperati, c’è sempre spazio per i sentimenti buoni, c’è posto per il riscatto. Una Donna con giardino, per esempio è una strana maestra che coccola un topo nauseabondo: bisogno di amore, di cura. I principianti, del 1994 è una trilogia. Il nuovo millennio è atteso come l’apocalisse, in un’atmosfera di attesa, di disperazione. Lodoli dice che più invecchia e più si sente un principiante, ha sempre qualcosa da imparare sul mondo. Sappiamo di tutto ma non sappiamo la cosa più importante che tutti ci attende: cosa sia la morte. Eppure continuiamo a costruirci favole, immaginazioni, non riusciamo a farne a meno. I personaggi di questa trilogia sono assurdi, grotteschi. Cesare corre le maratone trascinandosi una capra, solo per liberarsi della pena di vivere, dei ricordi del passato che lo tormentano. Lodoli ha costruito un universo immaginario e strambo, pieno di disadattati, di inetti, di emarginati, frutto di quella generazione stralunata e priva di coordinate che è uscita dalle guerre. Non sappiamo che cosa accada nella società ordinata, nella città, dove le cose sono sempre di fretta, fino a finirne sbalzati fuori come da una centrifuga se non si riesce a stare al passo. La vita vera per Lodoli è altrove, ai margini, nella periferia dove asfalto e ciuffi d’erba segnano il confine con il mondo “Normale”. In Cani e Lupi si parla di questi animali nel senso concreto del termine, e della legge di natura: uno per la fedeltà, l’altro per la ferocia. Contrappone ad essi i due tipi di società, la civiltà e la natura, la storia e l’istinto, l’uomo e la bestia, tutta una serie di contrari. In Perle, un ragazzo non riesce a sopportare di essere stato rifiutato dall’amore di Matilde, pur essendo ricco e avendo tutto. Mentre un cane, Rorò sfugge alla padrona ma ha la museruola, quindi è condannato a morire di fame. La vita ha le sue regole, non perdona gli slanci, gli imprevisti. Sono storie di malintesi. In un’altra storia il protagonista è Luca, che si mette al bordo di una volante e in modo illecito trasporta i passeggeri di Fiumicino, lasciandosi raccontare le loro storie. Ma il romanzo parla in realtà del rapporto tra l’autore, che si sforza fisicamente di immaginare i personaggi, e questi ultimi, che hanno già un pensiero, un obbiettivo, e continuano a sfuggirgli. L’autore non sa come la storia andrà a finire, ma da qualche parte il destino è già stato scritto. Si intitola Il vento, e parla di come il vento con il suo soffio scombini tutto quello che pensiamo di sapere per certo, rinnova l’esperienza di vita. Il vento continua a ravvivare, a scombinare le carte. Si chiede chi sia a comandare questo vento. E conclude, dicendo che giorno dopo giorno fatichiamo per dare un senso alla nostra vita in tutta la sua assurdità, e poi la perdiamo in un attimo. Dobbiamo disseminare un po’ di felicità prima di raccogliere questi quattro stracci e andare via. Non smette di interrogarsi sul senso, e non smettono di farlo neanche i suoi strambi personaggi. Nei Fiori c’è un personaggio che sdraiato su una pachina aspetta non si sa da quanto, per quanto. E’ solo pronto ad essere chiamato da lassù, dice. La chiamata, evocata dal mondo cristiano, è per Lodoli laica. Una metafisica laica. E’ un poeta che un giorno viene chiamato per il suo compito, che lascia ogni cosa, il lavoro alle poste, e appende un cartello con scritto che torna presto. Parte a piedi, da pellegrino, lasciandosi indietro la società ordinata, consapevole che la verità si trovi altrove, ai margini di essa. A Tito si aggiungeranno altri amici, uno senza una gamba, una che vuole fare l’indovina, tanti cani. Il loro destino non è - a differenza di tanti eroi del moderno - di venire schiacciati, di perdersi, ma di poter finalmente risalire, grazie alla fiducia nella chiamata della poesia, della letteratura e i sentimenti buoni. Affinchè tutto continui, tramonto dopo tramonto, parola dopo parola, è necessaria l’umana fede nella conoscenza. CAPITOLO 21 Come abbiamo visto, a partire dagli anni ottanta, la letteratura della crisi aveva esaurito tutte le energie, così come la polemica antiborghese, a causa degli anni di piombo. Si avvertiva l’esigenza di ricominciare. De Michelis pensa a dare vita ad una collana di autori nuovi, che cominciassero un’avventura in un mondo sopravvissuto alle catastrofi. Narratori che dovevano appartenere al presente, nati alla metà degli anni 50 ed estranei al 68. Si chiamava Primo Tempo. Gli autori inizialmente nascondevano i loro testi dietro ciò che era comune e bello nel Novecento, con timidezza e paura del giudizio. Tra questi c’è Susanna Tamaro, che prima di pubblicare Testa fra le nuvole, era stata rifiutata molte volte dalle case editrici. Il primo romanzo rifiutato si chiamava Illmitz e parlava di un paese austriaco e di un protagonista che era fuggito, tormentato perchè il mondo aveva perso il senso. Partire per il protagonista era un gesto ostile, di guerra, vuole dichiarare guerra al mondo. Federico Fellini si innamorò dello stile della Tamaro e dei racconti che compongono Per voce sola, del 1991. E’ nata in una terra di confine, come Italo Svevo, ai confini della già citata e sognata Mitteleuropa. Si rifiugia ai margini, ha il desiderio di fuggire dal mondo com’è. Ma comprende subito che la scelta migliore è porsi ai margini della società per comprenderla meglio, per vedere che cosa c’è oltre.