Scarica Riassunto per capitoli del libro di Brian O’Doherty Inside the white cube e più Schemi e mappe concettuali in PDF di Museologia solo su Docsity! Brian O’Doherty - INSIDE THE WHITE CUBE Brian O’Doherty: artista concettuale irlandese. Nato nel 1934 e laureato in medicina, ha lavorato nella ricerca medica prima di dedicarsi totalmente all’arte. Editor per la famosa rivista Art in America e poi critico d’arte per l’emittente radiofonica NBC, è stato per molti anni membro del National Endowment for the Arts, per il quale ha curato trasmissioni televisive di successo dedicate alle arti visive. È inoltre autore di numerosi saggi di critica d’arte. Primi tre saggi di O'Doherty pubblicati su Artforum nel 1976, quarto saggio nel 1981, introduzione e postfazione nel 1986, quinto saggio in versione finale integrato nel libro nel 2006. Nel volume O'Doherty affronta un momento di particolare crisi nell'arte del secondo dopoguerra ed esamina i presupposti su cui si fonda lo sviluppo dello spazio espositivo, privato o museale. In un'analisi che si confronta con le complesse e delicate relazioni tra economia, contesto sociale ed estetica condensate all'interno di una galleria d'arte, O'Doherty si pone il problema di come gli artisti debbano concepire il proprio lavoro in relazione allo spazio espositivo e al sistema dell'arte. White Cube → standard espositivo internazionale nei musei d’arte contemporanea affermatosi nel XX sec grazie al MoMA INTRODUZIONE Principio fondamentale del white cube: il mondo esterno deve stare fuori, motivo per il quale le finestre sono sigillate, le pareti bianche e l'unica fonte di luce è data dal soffitto (artificiale). L'opera d'arte non deve essere contaminata dal tempo. O'Doherty analizza gli effetti che il contesto severamente controllato della galleria d’avanguardia ha avuto sull’oggetto d’arte e sull’osservatore: il contesto ha divorato l’oggetto, rubandogli la scena. Il fine ultimo del white cube è quindi mirare ad un'immutabilità del tempo. L’eternità evocata dai nostri spazi espositivi è apparentemente quella della posterità artistica, della bellezza immortale, del capolavoro: l’Occhio e lo e lo Spettatore sono tutto quello che rimane di chi è “morto” entrando nel white Cube. Nelle gallerie d’avanguardia tradizionali come nelle chiese non si parla con un tono normale, non si ride, mangia, beve, dorme ne ci si sdraia poiche il white Cube promuove il mito secondo cui essenzialmente siamo esseri spirituali, isolati all'interno del non spazio esso stesso isolato. l’Occhio è l’occhio dell’anima che entra in relazione solo con mezzi visivi informali, lo Spettatore è come un fantasma privo di emozioni. La galleria priva l’opera di tutti i riferimenti che si frappongono al suo essere arte. Il white cube è l’archetipo dell’arte del ‘900 - galleria- limbo. All’interno il campo di forze percettive è cosi potente che fuori l’arte puo scadere in una dimensione terrena, le cose diventano arte in uno spazio in cui potenti idee sull’arte su concentrano su di esse. L’oggetto è mezzo per le idee già presenti nella galleria: piu lo spazio invecchia, piu il contesto diventa il contenuto e piu il mondo deve restare fuori. I saggi di O'Doherty spiegano e allo stesso tempo condannano la pratica del white cube ponendosi a favore della vita reale contro la sala asettica, il mito dell'eternità e la trascendenza della forma pura del white cube. 1. OSSERVAZIONI SULLO SPAZIO ESPOSITIVO La storia dell'arte moderna è incentrata sullo spazio, per tale motivo si è piu propensi a vedere prima lo spazio e poi concentrarsi sull'opera. L'idea di uno spazio bianco fa in modo infatti di liberare la mente, la galleria ideale priva l’opera di tutti i riferimenti che si frappongono al suo essere “arte” e isola tutto cio che nuove all'autovalutazione.In questo modo lo spazio acquisisce una presenza che tipica dei luoghi in cui le convenzioni si preservano attraverso la ripetizione di un sistema chiuso di valori. Una volta fuori l’arte puo scadere in una dimensione terrena. È l’oggetto introdotto nella galleria a “inquadrare” la galleria stessa e le sue leggi. Lo spazio senza ombre, bianco, pulito e artificiale è dedicato alla tecnologia dell'estetica, le opere d'arte sono appese e distanziate per essere studiate, la loro superficie non è invasa dal tempo e dalle sue vicessitudini. Il Salon definisce implicitamente una galleria, una definizione appropriata all’estetica dell’epoca. Una galleria è un luogo dotato di un muro a sua volta ricoperto da un muro di dipinti. La “Galleria del Louvre” di Morse sconvolge l’osservatore moderno: una tappezzeria di capolavori non ancora separati l’uno dall’altro e isolati nello spazio a mo di trono. Quello che l’allestimento impone all’osservatore va al di là della comprensione poiche ciascun dipinto era considerato un’entità autonoma ed era totalmente isolato dal suo incombente vicino da una massiccia cornice esterna e al suo interno grazie a un sistema prospettico completo. La scoperta della prospettiva coincide con il successo del quadro da cavalletto che a sua volta conferma la promessa illusionistica propria della pittura. Visti da vicino i murali tendono a esibire apertamente i propri strumenti: i murali proiettano una rete di vettori ambivalenti e instabili rispetto ai quali l’osservatore cerca di allinearsi. Il quadro da cavalletto sulla parete, invece, gli indica immediatamente dove guardare. È il modello classico della prospettiva presentato nella sua cornice accademica a permettere che i quadri possano essere allineati. Nulla suggerisce che lo spazio all’interno del dipinto possa prolungarsi ai suoi lati. I dipinti che, focalizzandosi su un frammento indeterminato di paesaggio, spesso sembrano “sbagliare” soggetto, introducono l’idea di un occhio che scruta. Nel corso del 700/800 La prospettiva inizia essere contrastata dalla tonalità colore e cominciano ad apparire dipinti che fanno pressione sulla cornice che piano piano comincia a svanire.resta una superficie ambigua che la linea dell'orizzonte inquadra parzialmente dall'interno. La fotografia accentua la sparizione della cornice → La separazione dei dipinti lungo la parete diventa inevitabile. Il fenomeno venne accentuato e in larga misura innescato dalla nuova scienza, o arte, dedicata a estrarre il soggetto dal suo contesto: la fotografia. La fotografia ha imparato subito a rifuggire le cornici pesanti e a montare una stampa su un foglio di cartone. La cornice poteva circondare il cartone solo dopo un intervallo neutro. Monet: uno dei tratti distintivi dell’impressionismo è il modo in cui la scelta casuale del soggetto attenua il ruolo strutturale del margine nel momento stesso in cui questo subisce pressioni da parte di uno spazio sempre meno profondo. La resa letterale del piano pittorico è un tema sconfinato. Il concetto di struttura del Cubismo manteneva lo status quo della pittura da cavalletto: i dipinti di questo movimento sono centripeti, si raccolgono verso il centro e si dissolvono verso il margine. Seurat è riuscito a definire molto meglio i limiti di una formulazione classica. Spesso i suoi bordi dipinti, composti da un agglomerato di puntini colorati, si dispiegano verso l’interno; a volte cosparge tutta la cornice di puntini n modo che l’occhio possa uscire dal dipinto, e rientrarvi, senza scosse. Nei grandi dipinti di Matisse non abbiamo quasi mai coscienza della cornice. Egli non privilegia il centro a discapito del margine o viceversa. L’allestimento, il modo di appendere un dipinto fornisce molte indicazioni su cio che viene esposto. Esso esprime un’interpretazione e un giudizio scatola della galleria e il desiderio di rendere concreta l’illusione ediventa un segno distintivo dell’arte degli anni 60. La galleria diventa un bar o una stanza d’ospedale (Kienholz), una stazione di servizio (Segal), una camera da letto (Oldemburg), un soggiorno (Segal), un “vero” studio (Samaras). Lo spazio espositivo cita le opere e le rende arte, proprio come la loro rappresentazione diventa arte all’interno dello spazio illusorio di un quadro tradizionale. Lo spettatore, avvicinandosi, si sente un intruso poiche le opere sono state portate all’interno di una galleria e queste le ha rese arte. Sono tappe del percorso che conduce al collage ultimo e definitivo: la figura viva. Presentata da Jeffrey nella mostra “OK. 1972 “ la scultura vivente recitava a comando la propria storia. Dopo il cubismo analitico, l’Occhio e lo Spettatore, prendono 2 strade diverse. L'Occhio segue il cubismo sincretico nella sua ridefinizione di piano sincretico ( assumere la realtà esterna globalmente anziche nei suoi particolari) e lo Spettatore si occupa dell’invasione dello spazio, le due direzioni competono tra di loro. Nel tardo modernismo si rincontrano allo scopo di rinnovare le loro incomprensioni. Dopo il modernismo l’Occhio trasporta il piano pittorico di Pollock verso il Color Field, mentre lo Spettatore lo conduce nello spazio reale dove tutto puo accadere. Tra la fine degli anni 60 e 70 l’Occhio e lo Spettatore negoziano alcune transazioni. Gli oggetti minimalisti spesso provocano percezioni diverse da quelle distinte. Si trattava di un processo in due tempi dove l’occhio coglieva subito l’oggetto, come dipinto, poi il corpo faceva girare l’occhio intorno ad esso. Questo provocava una reazione tra l’aspettativa confermata e la sensazione fisica fino ad allora subliminale. L’occhio e lo spettatore collaboravano per l’occasione. Gli altri sensi dello spettatore, ancora allo stato grezzo, erano pervasi dai raffinati giudizi dell’occhio. Quest’ultimo spinge il corpo per fornire informazioni, trasformandolo in una sorta di raccoglitore di dati. È da questa riconciliazione che hanno origine le messe in scena della percezione, la performance e la body art. Spesso abbiamo l’impressione di non poter fare esperienza di qualcosa se prima non ce ne allontaniamo: soltanto nelle foto dell’estate possiamo vedere quanto ci siamo divertiti. Essere presenti davanti a un’opera d’arte, allora, significa assentarsi lasciando il posto all’Occhio e allo Spettatore, che ci riferiscono cosa avremmo potuto vedere se ci fossimo stati. L’opera d’arte assente spesso per noi è piu presente (probabilmente Rothko l’ha capito meglio di chiunque altro). Noi, insomma, oggettiviamo e consumiamo l’arte per nutrire il nostro io inesistente o per mantenere un cosiddetto “uomo formalista” affamato di esperienze estetiche. I problemi di comportamento sono intrinseci al modernismo ed è con l’impressionismo che è iniziato quel tormento dello Spettatore inscindibile dall’arte piu innovativa. Leggendo i dispacci dell’avanguardia, infatti, sembra che il modernismo abbia sfilato su un enorme angoscia sensoriale. Il modernismo sottolinea il fatto che nel 900 l’identità” è incentrata sulla percezione. Ottocento: ossessionato dai sistemi, Novecento: ossessionato dalla percezione, che media tra l’oggetto e l’idea che li include entrambi. L’Occhio rappresenta due forze opposte: la frammentazione dell’io e l’illusione di tenerlo unito. Lo Spettatore rende possibile l’esperienza che ci è concesso di fare. Quando guardare un’opera d’arte è diventato un atto consapevole - guardare noi stessi che guardiamo (Foucault)-, qualsiasi certezza riguardo a cosa c’è là fuori è stata intaccata dalle incertezze del processo percettivo. L’Occhio e lo Spettatore rappresentano quel processo, che riformula in maniera costante i paradossi della coscienza. La possibilità di un’esperienza diretta dà l’opportunità di eliminare l’Occhio e lo Spettatore e al tempo stesso di istituzionalizzarli. L’arte concettuale intransigente, infatti, elimina l’Occhio a vantaggio della mente. Il pubblico legge. Il linguaggio è dotato degli strumenti necessari per esaminare la serie di condizioni che elaborano il prodotto finito dell’arte, ovvero il “significato”. Questa analisi spesso tende a diventare autoreferenziale o contestuale, vale a dire piu simile all’arte o alle condizioni che la sostengono. Una di queste condizioni è lo spazio espositivo: l’installazione presentata da Joseph Kossuth nel 1972 alla Leo Castelli Gallery, composta da tavoli, panchine e libri aperti, non era una sala da guardare ma una sala di lettura. L’opera, pur cancellandolo, attingeva allo speciale chiostro dell’estetica rappresentato dalla galleria. Altrettanto notevole era il suo opposto: un uomo in una galleria che minaccia la sua stessa essenza con atti di violenza implicita o esplicita (Chris Burden). La punizione dello spettatore è uno dei grandi temi dell’arte di avanguardia. C’è qualcosa di patetico nella figura solitaria dentro la galleria che mette alla prova i suoi limiti, ritualizza gli assalti al proprio corpo e raccoglie scarse informazioni sulla carne di cui non puo liberarsi. 3. IL CONTESTO COME CONTENUTO Negli spazi espositivi tradizionali il soffitto è occupato da lucernari, lampadari, circuiti e impianti elettrici, dare importanza al soffitto di un'esposizione non è vitale, oggi nemmeno lo si guarda piu. Nel Rinascimento, esso chiudeva le figure dipinte in celle geometriche. In eta barocca, si spacciava sempre per qualcosa di piu di un soffitto, come se il concetto di copertura dovesse essere trasceso: il soffitto è in realtà un arco, una cupola, un cielo, un vortice che turbina di personaggi. Con la luce elettrica il soffitto è diventato una coltivazione intensiva di impianti e il modernismo l’ha semplicemente ignorato. L’unica grazia che la tecnologia ha concesso al soffitto è illuminazione indiretta: l’illuminazione indiretta è il Color Field del soffitto. L’Exposition internationale du Surrealisme” del 1938 alla galerie Beaux-Arts fu la prima volta in cui Duchamp ricopriva il ruolo di Generatore- Arbitro della mostra e prense quello che non voleva nessuno: il soffitto e un pezzetto di pavimento. Sospesa sopra la testa, l’opera piu voluminosa della mostra era tutto sommato discreta ma, sul piano psicologico, totalmente invadente. Con i suoi “1200 sacchi di carbone”, Duchamp mise letteralmente “sottosopra” la mostra costringendo i visitatori a stare a testa in su: il soffitto si è trasformato il pavimento il pavimento nel soffitto. (es. la stufa era diventata il lampadario) Era la prima volta che un artista abbracciava un’intera galleria in un solo gesto, per di piu mentre pullulava di altre opere. Mettendo a nudo l’effetto che il contesto aveva sull’arte, il contenitore sul contenuto, Duchamp riconobbe una zona dell’arte che non era ancora stata inventata, fu il primo di una serie di gesti che sviluppavano l’idea dello spazio espositivo come entità a se, che si prestava alla manipolazione come una vetrina. I gesti sono una forma di invenzione, il cui brevetto conta molto di piu del contenuto formale, sempre che ne abbiano uno. Se insegna qualcosa, lo fa con l’ironia e l’epigramma, l’astuzia e la provocazione. Un gesto ci fa aprire gli occhi e il suo effetto dipende dal contesto delle idee che trasforma e mette in relazione. Forse non è arte, ma le somiglia. I gesti sono mutevoli e alcuni di essi possono, a posteriori, diventare progetti → I progetti sollevano la questione della sopravvivenza dell’effimero. Documenti e fotografie sfidano l’immaginario presentandogli un’arte che è già morta. I progetti sono una forma di revisionismo storico operata da un osservatorio privilegiato. L’osservatorio è definito da due presupposti: 1. che i progetti (arte a breve termine creata per occasioni e luoghi specifici) siano interessanti al di là dell’arte; 2. che possano piacere sia agli esperti che alla gente comune. I gesti erano indirizzati al pubblico, alla storia, alla critica d’arte e agli artisti, ma l’indirizzo risulta illeggibile. L’interferenza dell’artista, fine conoscitore di ogni tipo di aspettativa, nella sfera dello spettatore, faceva parte della sua maligna neutralità. Quello spago che teneva i visitatori a distanza dalle opere divento l’unica cosa che avrebbero ricordato. Lo spago perlustra lo spazio, senza sosta. Lo spettatore è sotto assedio, ogni centimetro è contrassegnato. È cosi che Duchamp elabora la monade modernista: il pubblico nella galleria scatola. Lo spago rimase incastrato nella storia, che spago affonda le sue radici nel Costruttivismo ed è un cliche della pittura surrealista: esso non fa altro che tradurre alla lettera lo spazio illustrato da molti dei dipinti esposti. Dipingere una cosa vuol dire incassarla nello spazio dell’illusione: il dissolvimento della cornice ha trasferito quella funzione allo spazio espositivo. Ridurre lo spazio a scatola o trasformare la scatola in spazio espositivo è uno dei nodi formali dell’arte di Duchamp: quello del contenimento-interno-esterno. (es. la Boite en valise è la memoria, il grande vetro l’apoteosi pseudomeccanica dell’apertura e dell’inserimento; le porte (aperte-chiuse) e le finestre (opache-trasparenti) sono gli inaffidabili sensi attraverso cui l’informazione transita in una direzione o nell’altra) Duchamp tiene in sospeso lo spettatore, che è sempre li di sua spontanea volontà, impedendogli di disapprovare il maltrattamento di cui è vittima e procurandogli cosi un ulteriore fastidio. - L’ostilita nei confronti del pubblico è uno degli elementi chiave del modernismo e si potrebbero classificare gli artisti in funzione dell’intelligenza, dello stile e della profondità con cui la mostrano. È un’ostilità attraverso la quale si crea un conflitto ideologico sui valori dell’arte, dello stile di vita che la accompagna. Coltivando il pubblico attraverso l’ostilità, l’avanguardia lo ha messo in condizione di trascendere l’insulto e prendersi la rivincita. Uno scambio negativo è fondamentale: l’artista cerca di fare in modo che il collezionista si entusiasmi per la sua ottusità e rozzezza e quest’ultimo a sua volta lo incoraggia a esibire la sua irresponsabilità. Il rapporto artista-pubblico puo essere interpretato come un mettere alla prova l’ordine sociale attraverso propositi radicali poi riassorbiti dal sistema istituzionale. Lo strumento principale di questo assorbimento è lo stile, il costrutto sociale. Nell’arte esso è l’equivalente del codice delle buone maniere nella società. L’arte di avanguardia ha avuto rilevanza nel mondo contemporaneo con il suo ruolo di critico implacabile e quel sottile ordine sociale che ha messo alla prova. La tipica ostilità dell’avanguardia si esprime attraverso il disagio fisico (il teatro radicale), il rumore eccessivo (la musica) o l’eliminazione dei punti di riferimento percettivi (lo spazio espositivo). Comuni a tutti sono la trasgressione della logica, la dissociazione dei sensi e la noia. Il postmodernismo avvicina l’artista allo spettatore, rendendoli piu simili. La galleria ha mantenuto il suo status attenuando le proprie contraddizioni negli imperativi socio-estetici. È stato lo spazio nato per accogliere i pregiudizi della borghesia e la valorizzazione dell’immagine che esse ha di se stessa. L’arte del tardo modernismo è irreparabilmente dominata dai presupposti inconsapevoli della borghesia, come profetizzava la velenosa e solenne prefazione che Baudelaire scrisse per il Salon del 1845 intitolata “Ai borghesi”. A colpi di paradossi, l’idea di libera impresa applicata ai beni artistici e alle idee rafforza le costanti sociali tanto quanto le attacca. Attaccarle è diventato un gioco di società tollerabile, di cui entrambe le parti sono relativamente soddisfatte. → Questo è il motivo per cui l’arte degli anni 70 concentra il suo radicalismo negli atteggiamenti verso il sistema “artistico” ereditato del quale lo spazio espositivo è l’emblema. A mettere in discussione il sistema sono in gesti e i progetti. L’arte degli anni 70 è una moltitudine di generi eterogenei e non gerarchici, di Negli anni 60 si poteva entrare nella Leo Castelli Gallery e vedere Ivan Karp che teneva a bada con un bastone i cuscini argentati di Andy Warhol che fluttuavano nello storico spazio dell’uptown. Quest’opera d’arte discreta, mutevole e silenziosa si prendeva gioco delle urgenze cinetiche che ronzavano e sferragliavano nelle gallerie dell’epoca, rivendicava un’origine nobile, lo spazio all over, e coniugava felicità e chiarezza didattica. I visitatori sorridevano come sollevati da una grossa responsabilità. Nonostante i suoi eccessi, l’avanguardia americana non ha mai attaccato il concetto di galleria, se non per un breve periodo al fine di promuovere il trasferimento all’aperto (Land Art), che poi comunque veniva fotografato e riportato nella galleria per essere venduto. Il visitatore escluso, costretto ad ammirare la galleria e non l’arte, divento a sua volta un tema. Nell’ottobre del 1968, l’artista europeo piu sensibile alle politiche dello spazio espositivo, Daniel Buren, sigillo la galleria Apollinaire di Milano per tutta la durata della mostra, incollando alla porta strisce verticali bianche e verdi su stoffa. Le sue opere hanno per tema la volontà di incoraggiare i sistemi del mondo a esprimersi attraverso lo sprone costante dell’artista, il suo segno distintivo, monografico e catalizzatore. Le strisce rappresentano un aspetto riconoscibile dell’avanguardia europea: un’intelligenza fredda, politicamente sofisticata, capace di analizzare le convenzioni sociali, che pur umiliandola consente la creazione artistica. - Nell’aprile dello stesso anno, Buren presento la sua Proposition didactique, dove ricopri una parete della galleria vuota di strisce bianche e verdi. 200 cartelloni con fasce simili erano collocate in giro per la città. Fuori dalla galleria, due uomini sandwich sfilavano con cartelloni, anch’essi a strisce. Le strisce di Buren chiusero la galleria nello stesso modo in cui gli ispettori sanitari chiudono i locali infetti → La galleria è considerata un sintomo di un corpo sociale disturbato. L’arte è contenuta anche da un’altra convenzione sociale, chiamata stile. Le strisce che identificano una personalità con un motivo decorativo, e il motivo con l’arte, imitano il modo di operare dello stile, attraverso lo stile tutte le culture comunicano qualcosa. Questa idea puo essere considerato il pendant del white cube privo di identita. All’interno delle gallerie “a-spaziali” l’arte rappresenta, un sistema di fede e commercio. Buren comprende questa questa forma di integrazione sociale “come puo l’artista contrastare la società quando la sua arte appartiene a essa?” sul finire degli anni 60 e gli anni 70 sono state molte l opere d’arte su questo tema. La concettualizzazione della galleria raggiunse il suo apice nel 1969 su Art & Project Bulletin n. 17 dove Robert Barry scrisse: “Durante la mostra la galleria rimarra chiusa” e per tre settimane la galleria Eugenia Butler Gallery di Los Angeles venne chiusa. Nella galleria chiusa lo spazio invisibile, abbandonato sia dall’occhio sia dallo spettatore, puo essere penetrato solo dalla mente e, nel momento in cui inizia a contemplare lo spazio, essa comincia a rimuginare sulla cornice, il piedistallo e il collage: le tre energie che, rilasciate dentro il suo biancore immacolato, lo rendono in tutto e per tutto un’opera d’arte. Di conseguenza tutto cio che si vede in quello spazio risulta di intralcio alla percezione, provocando un ritardo durante il quale si proietta e si vede l’aspettativa dello spettatore, vale a dire la sua idea dell’arte. Negli anni 60 questo raddoppiamento dei sensi divento un segno tipico del periodo. Esso consente alla vista di vedere se stessa. Il fenomeno di “vedere la vista” si nutre del vuoto: l’occhio e la mente vengono riflessi per attivare i loro stessi processi. Gli anni 60 si preoccuparono di piu di indebolire le barriere che per tradizione separavano colui che percepisce da cio che viene percepito, l’occhio e l’oggetto. Trasformando cio che si trova nella galleria diventiamo creatori. In questo processo anche noi siamo artificati, estranei all’opera anche se la trasformiamo. L’arte diventa viva e purifica il pubblico la cui coscienza funge da agente e da medium. Nella galleria chiusa di Barry, per tre settimane lo spazio si agita e borbotta, gli occupanti della galleria vuota hanno assunto la condizione dell’arte diventando oggetti d’arte ribellandosi contro quello status. Nel giro di un’ora si è verificato un transfert dall’oggetto (dov’è l’arte?) al soggetto (io). La rabbia dell’artista viene sostituita dalla rabbia del pubblico nei confronti dell’artista che, secondo lo scenario classico del transfert dell’avanguardia, conferisce autenticità alla rabbia del primo nei confronti dei visitatori. Il white cube è adesso un cervello in una ciotola e riflette. L’ apoteosi si raggiunse a Chicago nel 1969 quando Van der Marck chiede a Christo di realizzare una mostra al nuovo Museum of Contemporary Art e di conseguenza lo impacchetto dall’interno e all’esterno. Fu audace collaborazione tra un artista e un direttore di museo di quegli anni, Van der Marck divento co-creatore dell’opera: offrire il museo come oggetto d’analisi era un gesto perfettamente conforme alla pratica modernista di verificare le premesse di ogni ipotesi e sottoporle a discussione. Non rientrava, pero, nella tradizione della curatela americana, tanto meno in quella dei consigli di amministrazione di un museo. Gli imballaggi di Christo sono una sorta di parodia delle divine trasformazione dell’arte e si appropria dell’oggetto perduto e mistificato. Il museo, il contenitore, è a sua volta contenuto in qualcosa. L’opera riporta i temi estetici nel loro contesto sociale, per poi impegnarsi in un’operazione di mediazione politica. La decisione di imballare il Museum of Contemporary Art era sintomo della profonda serietà di Christo e di Van der Marck i quali avvertivano il malessere di un’arte spesso soffocata da un’istituzione che, come l’università, adesso tende ad assomigliare a un’azienda. Il progetto mirava a raggiungere una piu profonda comprensione di un tema importante degli anni 60 e 70: l’isolamento, la descrizione e la messa a nudo della struttura attraverso cui si fruisce l’arte, incluso cio che accade nel processo → In quel momento la galleria è oggetto di ostilità formali. 5. STUDIO E GALLERIA. IL RAPPORTO TRA IL LUOGO IN CUI L’ARTE SI CREA E LO SPAZIO IN CUI VIENE ESPOSTA Nel 1964 Lucas Samaras ricostrui la sua stanza da letto presso la Green Gallery di New York e la espose come fosse un’opera inserendovi lo spazio in cui l’arte viene creata in quello in cui viene esposta e venduta. Con questo gesto Samaras costrinse studio e galleria a coincidere sovvertendo il loro tradizionale rapporto ed esponendo uno stile di vita molto differente dal galateo museale. Nel suo lavoro la galleria incorniciava lo studio, che a sua volta incorniciava il modo di vivere dell’artista, che a sua volta incorniciava gli attrezzi dell’artista, che a loro volta incorniciavano l’artista, che non c’era. Non siamo cosi distanti dall’inquietante aforisma di Oscar Wilde secondo cui essere naturali è una posa poiche la consapevolezza ci rende tutti artificiali → Cosi fa la galleria, nella galleria tardo modernista gli osservatori sono in qualche modo artificiali, consapevoli di essere consapevoli: la consapevolezza cita se stessa. Uno dei compiti principali della galleria è separare l’opera dal suo artefice, mettendola in circolazione ai fini della vendita. Samaras ci rammenta che è l’artista a generare la propria mitologia, trasferendola poi allo studio che, per il pubblico, diventa il locus misterioso dell’atto creativo. Nel tardomodernismo si avvia spostamento dell’attenzione dall’opera all’artista, il cui atto creativo è incentrato sul proprio apparato mitologico. Nell’arte europea possono essere individuati quattro celebri passaggi in cui lo studio diventa soggetto esplicito dell’opera: 1. “Ritratto dei coniugi Arnolfini” di Jan van Eyck 2. “Las Meninas” di Velasquez 3. “L’Arte della pittura” di Vermeer 4. “L’Atelier del pittore” di Courbet L’artista che dipinge se stesso nell’atto di dipingere è uno strano circolo chiuso, in cui il pittore si presenta come il mezzo attraverso cui si realizza l’opera. “L’atelier del pittore” di Courbet è un manifesto in cui è riassunta “la storia morale e fisica del mio studio”. Non si tratta tanto delle opere che si possono realizzare in questo studio quanto dei pensieri che li si possono elaborare. Se questa rappresentazione del suo atelier conteneva un messaggio, il messaggio era socialista, la compassione profonda, l’egoismo grandioso, persino ottuso, i testimoni a destra inappuntabili, gli emblemi dell’oppressione a sinistra irreprensibili. Per la prima volta un dipinto asseriva in maniera moderna e politica che il pennello puo essere piu potente della penna. Sulla parte sinistra della tela di Courbet si trova un elemento che stuzzica la curiosità: il retro di un quadro → Le arti visive implicano tutta una storia legata all’attenzione o al modo di rendere visibile cio che è stato visto ma non guardato. La stessa distinzione si puo fare riguardo a sentire e ascoltare. Nel 1967-1968 l’artista newyorkese Lowell Nesbitt visito gli studi dei suoi colleghi in compagnia di un fotografo; pensava che gli atelier fossero “ritratti degli artisti in cui non c’erano ne volti nei corpi”. Confrontando la fotografia dello studio di Nesbitt con la sua riproduzione su tela, si nota un tocco di ordine in piu, ma in generale tutto è rimasto al suo posto. Nel dipinto sono incluse le macchie di colore sul muro. Nel ritrarre l’atelier di Oldenburg mise un po’ a posto il disordine che aveva cercato ma si attenne con fermezza al proposito di lasciare ogni cosa nel punto esatto in cui l’aveva trovata. Questa idea del disordine si sarebbe poi estesa alla galleria con lo sviluppo di un altro genere: la distribuzione e/o l’accumulo di elementi sul pavimento che, divento sensibile quanto la superficie della tela. → Con Nesbitt e altri, l’artista è scomparso e lo studio è diventato l’artista manque. Il creatore è un intruso nel suo stesso spazio, dove ritorna con vari pretesti e travestimenti. Quando sono catturati dalla macchina fotografica gli atelier sono spazi frugali che sembrano avere quasi un’aria sorpresa, non sanno ancora di essere documenti storici ma rappresentano l’inizio della parabola che si concluderà con l’artista celebre nel suo studio da celebrità, diventando uno dei feticci principali del tardo modernismo. Il surrealismo fu il movimento che elevo i feticci a feticcio, accentuo il carattere magico della belva dentro l’atelier facendo emergere con forza dall’insieme degli oggetti un linguaggio che non era mai stato ne visto o sentito prima. Nello studio surrealista nacquero sogni di riforma sociale fondata sull’anarchia, un luogo in cui gli adepti di un culto decidono di vivere, formando una sorta di comune con tanto di leader, per sperimentare pratiche non ortodosse agli occhi dell’opinione popolare e produrre arte per gli sciocchi che la vogliono. “Factory” di Warhol o lo studio di Rauschenberg furono una sorta di stomaco gigante che digeriva le scorpacciate di possibilità espressive del Novecento. Attraverso la serigrafia i due riuscirono a dominare qualsiasi soggetto. Lo studio di Rauschenberg era una sorta di comune animata da un’innocenza radicale, nel solco della tradizione dell’atelier come circolo sociale. Nel suo stile carismatico e arbitrario univa l’arte, la scienza e la danza con i collezionisti, il denaro, il mondo degli affari e la cultura della carta stampata nella piacevole promessa di una gratificazione immediata. Fu proprio nello studio di Rauschenberg che cube dove il visitatore è sempre trasgressivo. Tutto cio che poteva interferire con la sua vita e la sua arte era tagliato fuori. Sulla parete ogni dipinto autonomo disponeva di una porzione di spazio ben definita. Lo studio di Mondrian è stato uno dei fattori da cui hanno avuto origine l’orgogliosa sterilità e l’isolamento dell’arte all’interno del white cube. Tre fattori principali che hanno trasformato la galleria da contenitore di oggetti a oggetto in se: 1. assenza di una cornice, 2. il pavimento sotto il piedistallo mancante, 3. il collage. Il metodo di Brancusi di lavorare in segreto, riflettere sull’opera o realizzarla rapidamente e mostrarla solo dopo averla ultimata, consolida la sua idea dell’atelier come luogo espositivo. Quell’atelier era di fatto una galleria e Brancusi ne era il direttore. Ha creato una galleria in uno studio che poi ha trasferito in un museo, esattamente all’opposto della camera studio di Lucas Samaras, trasportata nella galleria. Dal Cubismo in poi l’arte esposta all’interno del white cube ha prodotto un cambiamento radicale nelle nostre modalita di percezione, profondamente legate a due aree: 1. lo spazio= il medium inconoscibile di tutti i nostri discorsi visivi, 2.la natura umana= con l’esplorazione dei suoi insondabili abissi. Preservare il white cube come una boutique è stato necessario per il commercio e ha consentito ai musei di dimostrare le loro ricchezze, seppure in una maniera sempre piu vicina allo spettacolo. Lo spazio bianco è rimasto praticamente immutato nella matrice della nostra cultura, trovando il suo posto accanto all’artista medium e ai suoi strumenti. È stata la pittura la piu fedele alleata del white cube, per quanto radicali fossero le sue innovazioni, la tela restava tranquillamente appesa alla parete. Il declino della pittura, che ha perso il suo ruolo dominante, non ha potuto non intaccare la purezza dello spazio bianco. Oggi, possiamo parlare anche di una mentalità anti-white cube, diventata aggressivamente evidente con il Postmodernismo. Con l’intrusione delle installazioni, dei video e tutto il resto, il white cube è diventato sempre piu irrilevante. Se un tempo la galleria trasformava tutto quello che vi si trovava in arte (e ogni tanto lo fa ancora), i nuovi media hanno capovolto il processo: ora sono loro a trasformare incessantemente la galleria a loro piacimento. POSTFAZIONE L’arte di un tempo era al servizio dell’illusione, oggi è fatta di illusioni, la storia dell’arte vale denaro e pertanto noi non abbiamo l’arte che meritiamo ma l’arte per cui paghiamo. Nessuno ha mai osteggiato questo sistema di comodo, nemmeno il suo protagonista principale, ovvero l’artista. Ogni sistema definisce la natura umana in funzione dei propri obiettivi, ma ignorarne o mascherarne gli aspetti piu sordidi è l’attrattiva principale di qualsiasi ideologia. Le diverse versioni del capitalismo riconoscono l'egoismo di base dell'uomo ed è questo il loro punto di forza. Le commedie dell’ideologia e dell’oggetto (che si tratti di un’opera d’arte, di un televisore o di una lavatrice) si svolgono su un terreno in cui proliferano le solite false speranze, menzogne e megalomania. → In tutto questo è coinvolta anche l’arte, di solito come spettatrice innocente. Nessuno infatti è piu innocente dell’intellettuale di professione, che non ha mai dovuto decidere tra due mali e agli occhi del quale il compromesso è un atto di disonore pubblico. È stata l’avanguardia a elaborare, nell’intento di proteggersi, l’idea della portata mistica e detentrice del valore estetico, sociale e morale della sua produzione. Oggi sappiamo che il produttore ha un controllo limitato sul contenuto della propria arte. E’ la ricezione di quest’ultima che ne determina il contenuto, e quel contenuto è retroattivo. Quello originale, se analizziamo la storia del modernismo, non ha un effetto ideologico di grande impatto. Negli anni 60 e 70, quando la comunità artistica ha espresso il proprio dissenso sulla questione Vietnam e Cambogia, si impose una nuova visione: il sistema dell’arte andava rimesso in discussione. Gli artisti americani del dopoguerra non capivano granche del ruolo giocato dalla politica nell’accoglienza dell’arte. Viceversa, non pochi artisti degli anni 60 e 70, in particolare la generazione minimalista/concettuale, lo coglievano benissimo. L’analisi che l’arte conduceva su se stessa divenne un’analisi del suo contesto sociale ed economico. Molti artisti erano irritati dal pubblico di riferimento insensibile a tutto tranne che alla critica d'arte. La voce del pubblico era smorzata dal costoso circuito galleria, collezionista, casa d’aste, museo attraverso cui l’arte era inevitabilmente offerta. Il formalismo ha portato a un’arte fabbricata su ordinazione, cosi i musei hanno promosso una sorta di arte da museo, adatta allo sguardo delle masse. Il sistema mantiene anche la sicurezza di disporre sempre di un nuovo prodotto grazie all’imperativo dell’ “assegnazione di spazi riservati”. Molti artisti vengono identificati con il momento culminante della loro attività e non sono autorizzati a distaccarsene. La scena artistica di tutti i grandi centri è sempre una necropoli di stili e di artisti, un colombario visitato e studiato da critici, storici e collezionisti. Questa grande intuizione ha finito per portare, negli anni 80, a una riconferma di tutto cio che era stato messo a nudo e spazzato via: prodotto e consumo sono tornati con una sovrabbondanza di contenuti per coloro che ne avevano sentito la mancanza. Il soggetto sfrutta sè stesso e riappaiono alcuni dei paradossi passati Lo spazio espositivo è tornato a essere l’arena incontrastata del discorso. L’arte pericolosa e inafferrabile del periodo che va dal 1964 al 1976, insieme ai suoi insegnamenti, sta sprofondando lontano dal nostro sguardo: cosi vuole la cultura del nostro tempo.