Scarica Riassunto "Realismo e letteratura" di Federico Bertoni e più Sintesi del corso in PDF di Letterature comparate solo su Docsity! Federico Bertoni - Realismo e le2eratura. Una storia possibile. PREMESSA Data la natura mul*forme del realismo il libro non ha come obbie4vo darne una definizione univoca. Si configura come un’analisi di come l’esperienza possa essere trado=a in le=eratura, come rappresentare la realtà a parole. Si vedranno in par*colare le difficoltà di rappresentare l’ambiguità degli intrecci tra realtà e finzione. Quest’analisi si ar*cola in 3 tappe: - approssimazione ai problemi este*ci e teorici alla base del rapporto tra le=eratura e realtà. - percorso diacronico di analisi dello sviluppo del moderno novel realis*co. - prospe?va sugli sviluppi più recen* della le=eratura contemporanea (focus su Don DeLillo). Obbie?vo = discutere il ruolo della le=eratura nell’odierno sistema culturale. PARTE PRIMA - APPROSSIMAZIONI PRELUDIO GLI ELISIR DEL DIAVOLO (di Ersnt Theodor Amadeus Hoffman, 1815). Romanzo che si configura come una frene*ca e fantasmagorica successione di immagini, narrato con l’ar*ficio le=erario del manoscri=o le=erario ritrovato in un convento. Si apre con un giovane che mezzo addormentato sull’orlo di un burrone viene svegliato dal frate Medardo, cade e muore davan* ai suoi occhi. Se ne sente colpevole. In un’altra scena durante la no=e sente bussare e si trova la sua figura nuda e folle che lo minaccia con un coltello e una risata raggelante. L’immagine del suo omicidio lo con*nua a perseguitare. In un’altra no=e viene perseguitato dallo stesso fantasma (suo sosia) e scappa nel bosco, gli sembra di correre per mesi e mesi. U*lizza questa formula del “mi sembrava di” per svolgere un’introduzione sul fantas*co. => Todorov: è l’esitazione provata da un essere il quale conosce soltanto le legge. L’apparizione del sosia viene poi spiegata, era Vi=orino (il ragazzo dell’inizio) che lo perseguitava. Nonostante la spiegazione razionale rimane un margine di ambiguità, un cara=ere irreale, fantas*co. Il testo sprigiona una tale potenza visionaria da rendere azzardato ogni riferimento all’universo dell’esperienza comune [ > LA BOTTEGA DI VENUS ]. => il racconto di Hoffman ha spiegazioni razionali ma NON è ascrivibile al realismo perché presentano elemen* lontani dalla sfera delle esperienze comuni. Tu=avia… Eppure Lukàcs lo ascrive al realismo evidenziando come il suo trascendere la realtà gli conferisca una maggiore profondità realis*ca per mostrare la degradazione della moderna società borghese (che in quel periodo passava dal sistema feudale avviandosi verso il capitalismo) in par*colare per la sua capacità di creare un quadro sociale a=raverso le descrizioni (usi, costumi, abi*, ambien*…) of 1 43 Hoffman rompe quindi la tradizione e può essere definito realis*co e an*realis*co all’unisono, è ambiguo, cerca di darci la chiave per aprire le infinite porte della mimesis. “Forse la vita è già talmente folle e meravigliosa che tu8a la follia dell’arte sta nel miraggio di res:tuirne l’inequietante splendore” - Hoffman. Tu=o il problema del realismo starà infa4 in questa tensione nel tracciare con chiarezza il confine tra occhio fisico e interiore, reale e irreale. CAPITOLO 1 - DEFINIZIONI. 1.1. UNA PAROLA SFORTUNATA - Storia della parola «realismo». Nabokov definisce la parola “realtà” una delle parole più ambigue e controverse della cultura occidentale, insensata senza virgole=e, imprecisa. Hardy parla di “parola sfortunata”, conce=o problema*co dal contenuto vasto e vago. Cercare il realismo è di per sé problema*co, eppure è altre=anto necessario per la cri*ca. Si tra=a di una nozione che ha prodo=o grandi quan*tà di opinioni (anche perché varia di cultura in cultura) e che Walton, in Mimesis as make-believe, definisce “mostro con molte teste”. La parola «realismo» è un an*co termine della filosofia medievale (do=rina secondo cui gli universali esistono come en*tà autonome), che indicava fede nell’esistenza reale delle idee e ed era contrapposto al nominalismo, per il quale le idee erano soltanto nomi e astrazioni e non esiste un bello universale ma tante cose belle. Del «realismo» nel ‘700 parlano già Schlegel e Schiller, riferendosi a scri=ori «realis*» e al «realismo» in poesia. Ma è sopra=u=o in Francia, nel secolo successivo, che il termine tende ad affermarsi in arte, poesia e pi=ura, fino a designare un periodo storico (1826 giornalista francese usa il termine realismo per indicare la fedele imitazione della natura). È il 1850 che dà luogo al diba4to culturale che cara=erizzerò tu=a la sua storia perché inizia a designare la minuta descrizione di usi e costumi contemporanei. Nel 1857, Gustave Courbet (pi=ore) viene salutato come realista, ma di ciò egli si lamentava, sentendosi e*che=ato così come lo erano sta* i roman*ci. Da qui il termine si diffonde in riviste… Parallelamente, in quell’anno, Madame Bovary di Flaubert veniva accusato di mirare ad un realismo che era più che altro la negazione del bello e del buono, in contrapposizione con le teorie degli idealis* che volevano il bello in ogni frangia del reale. Altrove, il termine «realismo» si diffonde più lentamente: - in Inghilterra circola già durante gli anni ’50 ma è negli anni ’80, con Moore e Gissing, che si afferma un movimento realista propriamente de=o; - stessa situazione negli Usa dove, negli anni ’80, si ha la definizione di una scuola realista grazie a Howells; - ancora più occasionale la diffusione in Germania, dove spicca l’espressione di «realismo poe*co»; of 2 43 CAPITOLO 2 - ORIGINI. 2.1. MIMESIS I: OMERO MENTE - L’arte come imitazione: la posizione di Platone. Come quello di «realismo», il conce=o di mimesis ha una storia molto travagliata ed è fra i più confusi del pensiero occidentale. La parola mimesis-imitazione (termine postomerico) è legata originariamente ai ri* del culto dionisiaco: indicava le a4vità rituali del sacerdote, danze, can*, musica, ovvero la naturale a4tudine ad imitare, mimare le azioni e i comportamenV degli altri uomini [Walter Benjamin parla di “facoltà mimeVca” intesa come capacità umana di scorgere e produrre somiglianze, che si restringe con lo sviluppo della civiltà]. L’imitare è un conce=o antropologico congenito nell’uomo che si manifesta sin dall’infanzia. In un primo tempo indicava semplicemente l’imitazione del mondo esteriore da parte dell’uomo; con Socrate passò alla sfera delle arV (scultura e pi=ura in par*colare) che imitano ciò che vediamo. Questa teoria dell’imitazione sarà ripresa e sviluppata autonomamente da Platone (in par*colare ne La Repubblica del 370 a.C.) e da Aristotele (nel La Poe:ca del 320 a.C.) che tu=avia NON riusciranno a dare una definizione univoca del conce=o. Ne La Repubblica, Platone u*lizza il termine mimesis in due accezioni: - L’imitatore è chiunque realizzi una riproduzione rappresenta*va di qualcosa e quindi il poeta, lo scultore, l’a=ore, il musicista; - L’imitazione è intesa in senso propriamente este*co e designa un par*colare “modo di dizione”, ovvero il procedimento s*lis*co con cui il poeta cede la parola si suoi personaggi e li fa parlare in prima persona. Socrate a questo proposito aveva suddiviso la narrazione in una forma semplice e una forma imitaVva: - la prima sussiste quando il poeta parla in prima persona, senza farci credere che a parlare siano altri diversi da lui; - la seconda è quando il personaggio parla in prima persona, ovvero quando il poeta imita il modo di parlare del personaggio, per farci credere che sia il personaggio a parlare (escludendo la voce della “figura autore”). Gene=e in Figure parla di una classificazione di tre forme narra*ve: - Una narraVva, quando il poeta parla a proprio nome (di*rambo); - Una imitaVva, basata sui dialoghi dei personaggi, ovvero quando il poeta non parla a proprio nome (tragedia e commedia); - Una mista, che alterna discorso dire=o e indire=o, ovvero quando il narratore racconta e i personaggi parlano (epica). Alcune osservazioni mosse da Socrate arrivano addiri=ura a cri*care Omero colpevole di aver rappresentato dèi e uomini in modo menzognero, come un pi=ore che dipinge immagini per nulla somiglian* alla realtà. => inizia una sorta di condanna nei confron* dei contenu* falsi, spesso censura*. of 5 43 Socrate dà un giudizio negaVvo all’arte intesa come imitazione, sopra=u=o per la riproduzione dei discorsi perché imitare significa annullarsi: la poesia ha il torto di creare l’inganno, menzogna, perché gli a=ori sono talmente persuasi, come fossero possedu* dal “divino potere della poesia” che riescono a persuadere gli altri. Per chiarire quanto afferma il maestro, Platone (allievo di Socrate) ricorre alla metafora del Magnete, o pietra di Eraclea, che ha la proprietà non solo di a4rare a sé gli ogge4 metallici, ma anche quella di trasme=ere a ciascun ogge=o la sua capacità magne*ca, per cui ogni pezzo diventa magnete; allo stesso modo accade tra il potere divino della poesia che sugges*ona l’a=ore e chi lo ascolta. => contagio mimeVco. Questa propagazione e questo contagio mimeVco di cui parla Platone, necessitano di un an*doto contro il “veleno” della narra*va irrazionale inie=ato nel corpo sociale, distruggendo l’elemento razionale. => la mimesis viene scomunicata non perché sia una minaccia contro la verità, ma perché è una minaccia contro l’ordine: s*mola passioni, confonde i ruoli, crea proliferazione di immagini instabili. In un primo tempo, il rimedio sembra consistere in una accurata legislazione del bene e del male, secondo cui è possibile amme=ere in ci=à solo l’imitatore onesto dell’uomo onesto. In un secondo momento, esa=amente nel Libro X, Platone giunge ad una condanna radicale dell’arte imitaVva, e in par*colare della pi=ura, perché ogni cosa che cade so=o i sensi non è altro che copia di qualcosa di ideale e perfe=o. Infa4, secondo la teoria delle idee, la realtà che appare ai nostri occhi è già di per sé imitazione delle idee iperuraniche. L’arte, dunque, non è altro che imitazione dell’apparenza e le opere che produce sono di ben tre gradi lontane dall’essere. C’è dunque un paradosso originario del realismo/imitazione: Platone condanna l’imitazione che pretende di copiare la realtà che non è realtà. Dunque la mimesis non è altro che un’immagine. => Nella concezione platonica dell'arte, la mimesi è da condannare perché, imitando le cose che a loro volta sono copia delle idee, la realtà si allontana tre volte dal vero. (Socrate porta l’esempio di 3 le4: il le=o creato da dio, quello che realmente è. Poi costruito dal falegname. Infine imitato dal pi=ore => l’arte imita*ve è lungi dal vero). La mimesi è pervasa da un paradosso sin dalle origini, scomunicata proprio perché nel tenta*vo di imitare la realtà non la riesce a rappresentare. 2.2. MIMESIS II: OMERO MENTE “NELLA GIUSTA MANIERA” - L’arte come imitazione: le idee di Aristotele. La differenza fra il modo platonico e quello aristotelico di valutare l’arte, NON deriva da concezioni diverse della funzione dell’arte, ma da concezioni diverse della realtà. of 6 43 Epica, poesia, tragedia, commedia, sono per Aristotele tu2e imitazioni. Ma se la forma delle cose risiede nelle cose stesse, non c’è nulla di sbagliato se la poesia decide di farsene specchio. Egli circoscrive l’ambito della mimesis a quello delle ar* le=erarie, le cui differenze sono dovute in primo luogo ai mezzi usa* per imitare (ritmo, parola, melodia). Per quanto riguarda i modi dell’imitazione, Aristotele ritocca l’idea platonica: la mimesis non è, per lui, un’opzione s*lis*ca con cui il poeta si traveste nella voce dei suoi personaggi (lasciandoli parlare in prima persona). Ora tu=a la poesia viene subordinata alla categoria generale di mimesis. Esistono tre modi di imitare: - Modo misto: il poeta può imitare raccontando e trasformandosi ogni volta in qualcun altro (epica); - Modo narraVvo: il poeta può imitare restando sempre uguale a sé stesso; - Modo drammaVco: il poeta può imitare in modo che tu4 si trovino a parlare e agire. Con Aristotele, il disaccordo platonico fra poesia e filosofia è es*nto/sanato: Platone denunciava le «favole false» di Omero; Aristotele lo ammira perché ha insegnato «a dire il falso nella giusta maniera». Quindi, per Aristotele, la mimesis non è più perversione e minaccia della verità e dell’ordine, ma una facoltà umana che procura piacere e produce conoscenza. Infa4, per Aristotele, imitazione non è imitazione delle idee dell’arVsta ma di cose parVcolari: ovvero le azioni degli uomini (come nella tragedia e nella commedia); uomini migliori di noi, nella tragedia; peggiori nella commedia. Ed è in questo che sussiste la differenza fra i due generi. Aristotele => il poeta è tale in quanto imita le azioni Per quanto riguarda il rapporto da sempre os*le tra storia e poesia, Aristotele afferma che: - compito del poeta non è dire ciò che è avvenuto, ma dire ciò che potrebbe avvenire, secondo somiglianza o necessità. - quello dello storico è raccontare ciò che è realmente accaduto, i fa4 restando legato al con*ngente, quindi con minuzia e precisione, in tu=a la verità e anche banalità degli even*. E quindi, poiché la storia si occupa del parVcolare e la poesia dell’universale, quest’ul*ma è più vicina alla filosofia rispe=o alla prima. La mimesis si deve collocare quindi nella verosimiglianza. Il verosimile, inoltre, non è per forza vero (e in questa affermazione precede Balzac di 2000 anni): il poeta deve avere l’abilità di selezionare il vero e saper riada=are ciò che ha scelto, per creare un verosimile, il quale ha un cara=ere persuasivo ben maggiore, in quanto spesso la realtà può essere banale. (sbagliato ancorare il verosimile a un criterio di possibilità sta*s*ca perché la poesia si fa portatrice di significa*). Omero, dice Aristotele, è stato grande perché parlandoci di Troia, non ha raccontato tu=a la guerra nel de=aglio, cosa che sarebbe risultata eccessiva dal punto di vista della trama; piu=osto ha operato una selezione, scegliendo la persuasione (producendo equivalenza tra mimesis e mythos). of 7 43 CAPITOLO 3 - PARADOSSI. 3.1. I NOMI - Il problema dell’«irriducibilità ontologica» di segni e cose, linguaggio e mondo. Esiste una radicale eterogeneità tra le parole (nomi) e le cose (ogge? che i nomi designano). Sarebbe auspicabile che fra di essi intercorresse un rapporto occulto di somiglianza, dato da suoni e le=ere. Secondo Foucault in origine i nomi rappresentavano ciò che indicavano, come la forza è scri8a sul corpo del leone. Tale trasparenza fu distru=a a Babele. Ma in realtà non è così semplice. Qualunque cosa potrebbe chiamarsi con un altro nome. Nel nostro linguaggio, cioè, i segni linguis*ci sono fru=o dell’arbitrarietà dei referen*. Ne Il cavaliere inesistente di Calvino, Suor Teodora cerca di rendere le cose a=raverso le parole, di invadere la carta con il mondo empirico, per annullare la fumosità della scri=ura e rendere concreta la presenza delle cose. Ma ella sa benissimo che non può esserci coincidenza alcuna fra ogge2o simbolico e reale e che, anzi, proprio una eventuale coincidenza porterebbe alla morte stessa dell’arte come eclissi del fa=o este*co. La le=eratura prova a rappresentare le cose a=raverso convenzioni come onomatopee, fonosimbolismi, ideogrammi, scri=ure iconiche, che comunque non riescono a saldare il mondo verbale con le en*tà extralinguis*che. Il punto, afferma Jakobson, è che il linguaggio non può imitare un ogge2o reale. Oltretu=o, sos*ene Barthes, la le=eratura è essa stessa linguaggio e ciò che avviene nel testo è linguaggio. Quindi è impossibile una coincidenza con l’ogge=o reale. A meno che l’ogge=o narrato non sia a sua volta linguaggio, come nel caso dei dialoghi dei personaggi. Tolto questo caso par*colare che Hamon classifica come «realismo testuale», pare d’obbligo affermare che qualunque componente del testo le=erario, poiché manufa=o verbale e quindi simbolico, non può essere rappresentazione dire=a del mondo ma rappresentazione del mondo organizzato in forme e stru=ure di significato. Del resto verosimiglianza non significa somiglianza con il reale, ma con il vero (conce=o teorico). 3.2. MEDIAZIONI - Le metafore o?che del quadro, dello specchio, del vetro. Si è pensato di colmare l’enorme divario tra il segno e la cosa a=raverso immagini tracciate sulla carta dalle parole, che rendano cioè visibile ciò che si descrive del mondo sensibile. Il paragone oraziano fra pi=ura e poesia, ovvero “la poesia dev’essere come la pi8ura perché è l’arte con maggiore efficacia mime:ca”, è riuscito a fondersi con il conce=o dell’imita6o naturae in un esa=o paralogismo: se la poesia deve imitare la natura e se la pi=ura è la migliore imitatrice della natura, allora la poesia dev’essere come la pi=ura. Leonardo stesso elogiava la superiorità dell’immagine rispe=o alla parola grazie alla sua immediatezza espressiva. Da qui deriva la subordinazione del linguisVco al visuale che ha cara=erizzato la storia del realismo e ha trovato massima espressione nel romanzo o2ocentesco, sopra=u=o francese. of 10 43 Infa4, scrivendo Madame Bovary nel 1855, Flaubert diceva di voler dipingere il paesaggio di Rouen e non di volerlo scrivere. Barthes riteneva che per poter descrivere, l’autore realista doveva prima operare un ritra=o del reale, un dipinto, per poi staccarlo dalla pi=ura. E quindi, per Barthes, il realismo non consiste nel copiare il reale, ma nel copiare una copia (dipinta) del reale. La poesia, abbiamo de=o, deve imitare la pi=ura. Nell’O=ocento la pi2ura è quella prospe4co- figura*va, basata su presuppos* composi*vi o4co-geometrici, che le conferiscono il primato nella mimesi arVsVca del reale. => Dunque, il realismo le=erario mutua da quello pi=orico una «grammaVca della prospe?va», una tendenza a configurare il mondo rappresentato come omogeneo e ogge4vo. Il modello pi=orico riusciva, quindi, con le sue regole e i suoi calcoli, a mediare e colmare la distanza ontologica fra parole e cose. Non è un caso che la mimesis le>eraria sia costellata di metafore visive come la finestra, la camera oscura, lo specchio, lo schermo, poi la macchina fotografica. Mentre il quadro riesce a rappresentare più facilmente la realtà a=raverso l’imitazione e riesce a comunicare il realismo a=raverso l’osservazione di sé, il romanzo ha bisogno di molte altre preroga*ve per riuscirci a=raverso le parole: deve rappresentare la vita, lo spessore psicologico, le dinamiche temporali e sociali, etc. Il romanzo realista è stato dapprima descri=o a=raverso la metafora dello specchio. Stendhal diceva che «un romanzo è uno specchio portato su una strada maestra» (citazione ad Amleto secondo cui lo scopo del teatro è di “porgere uno specchio alla natura”). Ma Eliot darà una svolta significa*va alla metafora dello specchio; con lei, lo specchio non è en*tà intermedia fra autore e mondo, ma appar*ene al piano sogge4vo, alla dimensione personale: lo specchio rifle=e non il mondo che è fuori, ma il mondo a=raverso la mente dell’autore. La metafora cambia ancora, spostandosi questa volta su un’altra immagine: il vetro. È Zola l’autore della nuova metafora. Egli percepiva e concepiva la metafora dello specchio come ingannevole miraggio delle immagini riflesse, illusione di con*nuità fra mondo sensibile e mondo scri=o. Allo specchio, dunque, preferì lo schermo di vetro, che annulla il potere deformante dello specchio. Lo schermo realista (≠ dallo specchio classico e roman*co) è una lastra so4le e trasparente, dice, che perme=e alle immagini viste a=raverso di essa, di mostrarsi in tu=a la loro realtà. Questo schermo, vedremo, è alla base della le=eratura naturalista, che ha fra i suoi presuppos* il grado 0 del linguaggio, il quale non deve svelarsi come ar*ficio, ma essere il più scarno possibile, per perme=ere alle immagini di restare fedeli alla realtà. 3.3. DAL COSMO ALL’ETEROCOSMO (E RITORNO) - Aporie dello specchio e dello schermo: la via d’uscita «eterocosmica». Lo stesso Zola, che aveva ado=ato la metafora le=eraria dello schermo, si rende conto di quanto questa mini le basi della resa immediata del realismo. Ma lo schermo, la sua presenza of 11 43 imprescindibile, è alla base stessa della le=eratura. Dunque il paradosso è che la perfe=a realizzazione del realismo coincida con la negazione dell’opera d’arte stessa. Non esiste, infa4, la pura trascendenza e trasparenza dello schermo; nemmeno il testo più ogge4vo può prescindere da una certa opacità di fondo, che si materializza non appena l’a=enzione del le=ore o dell’autore si rivolge al mezzo espressivo e s*lis*co del testo. Quindi la parola “rappresentare” va intesa in due dimensioni contrastan*: - una transi*va: ”rappresentare qualcosa”, cioè sos*tuire un elemento presente a uno assente; - una riflessiva: “presentarsi”, cioè mostrare, esibire l’a=o stesso della rappresentazione. Ovvero rappresentare significa presentarsi nell’a=o di rappresentare qualcosa. Il problema del realismo è des*nato a rimanere insoluto finché il discorso verte su dicotomie sogge=o/ogge=o, autore/mondo, linguaggio/realtà. La soluzione si ha nel ‘700, con lo sviluppo di una corrente di pensiero nuova a par*re dall’ontologia dei «mondi possibili» di Leibeniz. Di qui si sviluppa la concezione di opera le=eraria come eterocosmo, alter mundus, non più specchio/copia della natura ma seconda natura, creata dall’ar*sta, fa=a di personaggi, modalità e leggi che possono essere diversi da quelli del nostro mondo. L’intuizione fonda le proprie basi nella traduzione di possible world in fic:onal world. Il nostro mondo corrisponde ad un’infinità di mondi possibili. Ne I Promessi Sposi, ad esempio, lo sfondo storico della la peste è vero, ma Renzo e Lucia sono personaggi fi4zi, la loro non è una storia vera. Ogge4 del mondo reale possono essere trasporta* in un mondo parallelo, diverso e autonomo: un eterocosmo, che è un mondo finzionale, un mondo delle cose come “sarebbero potute andare se…”. Quindi ogni testo le=erario va considerato come macchina proposizionale, che produce un mondo alterna*vo a quello a=uale, cioè insieme di fin* “individui”, “regole”, “cambiamen*”, “proprietà”, etc. Nell’eterocosmo tu=o corrisponde a verità proposizionali che hanno valore di verità solo nella finzione eterocosmica del testo, e che possono o meno avere corrispe4vi nel mondo reale. Problema connesso all’eterocosmo è quello di stabilire il valore di verità degli enuncia* dei tes*. Bertrand Russel li riteneva tu4 falsi, perché non esiste nel mondo una en*tà corrispondente a quanto affermato nel testo. Altri, come Benede=o Croce, ritenevano invece che fosse completamente fuori luogo parlare di dis*nzione fra vero e falso in le=eratura, e sbagliato applicare un criterio di verità a frasi prive di denotazione. La soluzione più nota al problema dello statuto logico del discorso finzionale, è forse quella di John Searle, il quale afferma che l’autore finge di eseguire una serie di a4 illocutori, laddove fingere vuol dire comportarsi “come se” si stesse affermando davvero qualcosa, senza intenzione di menVre al desVnatario. Dunque, fingendo di riferirsi a qualcosa o qualcuno, l’autore finge anche che quel qualcosa/qualcuno esista, me=endo in a=o quello che Coleridge ha chiamato “volontaria sospensione dell’incredulità”: cioè il le=ore non deve valutare gli enuncia* che legge in termini di of 12 43 - la narrazione del rapporto io-mondo mediata in prima persona dal picaro, il furfantello - la sfilata carnevalesca del quo*diano, fa=o di merci, pros*tute, desideri. => Auerbach lo definisce vivacissimo nonché opposto ai modelli ideali cavallereschi e pastorali, ma troppo pi2oresco per essere reale (“Introduzione alla filologia romanza”). È il successo del romanzo picaresco ad accelerare la disgregazione della materia eroica e la presa di coscienza di una realtà sociale fino ad allora trascurata. In Europa, ma sopra=u=o nella Francia seicentesca, i nuovi tenta*vi di romanzo ambiscono a formare un roman comique o bourgeoise che rimuova gli stereoVpi dei romanzi pastorali, eliminando le censure contenu*s*che. Romanzi, ques*, che Sorel definisce “quadri naturali della vita umana” (“La conoscenza dei buon libri”), in cui i le=ori possano trovare riferimen* alla vita comune, accessibili alla loro esperienza. Naturale, credibile, verosimile diventano parole d’ordine in questa narra*va che si prefigura come scri=ura di even* reali, piccole avventure come una visita a Parigi piu=osto che storie eroiche e mirabolan*. La verosimiglianza diventa pilastro portante dell’edificio romanzesco. È quindi in nome della natura e della ragione che il filone eroico viene contestato, e non solo dal romanzo comico ma anche dalla novella galante di Segrais o di Mme de Lafaye=e, un modello di narrazione sobria e lineare, improntata sulla storia, intesa a mostrare le cose come siamo abituaV a vederle e non come la nostra immaginazione se le figura. Ne La principessa di Clèves (1678), Mme de Lafaye=e dirà che non c’è romanzesco, tu=o è concentrato sulla rappresentazione veriVera dei cara2eri e delle passioni in un gioco so4le tra storia e invenzione. La principessa innamorata del duca di Nemours, confessa tu=o al marito, il quale, muore di dolore però convinto dalla confessione che la moglie non lo avesse tradito. Alla sua morte, il duca chiede alla principessa di sposarlo, ma ella rifiuta e si chiude in convento. L’elemento della confessione spontanea è un’assoluta novità, un episodio che sfida il codice sociale come qualcosa di scandalosamente imprevisto. Per il Seicento francese è infa4 assolutamente inverosimile che una donna confessi un tale sen*mento al marito, ma l’inverosimile diventa verosimile grazie alla presa di coscienza della stessa Mme de Clèves, che si interroga sul suo azzardo e ne rimane lei stessa quasi spaventata al punto che quando la voce gira e le viene raccontata la storia, lei stessa dice che non ci crede ed è un pe=egolezzo inverosimile. Dunque, l’inverosimile ha creato, secondo la regola aristotelica, il nodo o catastrofe che fanno il romanzo; la presa di coscienza ha minato le basi dell’inverosimile riportando alla luce il verosimile. Ma il gesto di Mme de Clèves è concepito come scandaloso perché non corrispondente ad alcuna verità socialmente condivisa che possa mo*varlo: non risponde ad alcuna massima comune. È chiaro che, in quel periodo storico-sociale, opinione e realtà interagiscano in un reciproco scambio e rimodellamento. of 15 43 Dunque, a questa altezza è impossibile pensare ad una pretesa di verità o aspirare ad una immediatezza le=erale, perché il verosimile è mediato da convenzioni sociali che orientano le scelte di chi voglia narrare «menzogne simili al vero» (Huet, “Tra=ato sull’origine dei romanzi”). 1.2. QUESTO NON È UN ROMANZO - La nascita del romanzo (epopea) borghese (novel). Defoe e Richardson. La do=rina del verosimile si sviluppa in un complesso sociale preciso: quello dell’aristocrazia. Infa4, Sorel, Mme de Lafaye=e scrivono per l’aristocrazia, dipingendo l’honnete homme, che altro non è se non un corpo di massime comuni. Dunque i romances comique NON potevano essere realis*, ma solo perché offrivano una realtà modellata sui canoni aristocraVci (come sostenuto da Antoine Adam). Solo l’avvento della borghesia (individualismo), della coscienza di classe media e laica, del nuovo pubblico borghese che chiede qualcosa in cui iden*ficarsi, porterà alla nascita del nuovo romanzo (novel realis6co), ciò che Hegel definisce «moderna epopea borghese» (“Este*ca”). La nascita del nuovo romanzo avviene nel ‘700, in Inghilterra, paese europeo socialmente ed economicamente più avanzato, con Defoe e Robinson Crusoe (1719). Lo stesso incipit del romanzo è un vero manifesto di poe*ca: ogni cosa viene precisata, con estrema minuzia. Crusoe è il borghese Vpizzato (“Adamo borghese”), poco colto e semplice che si dedica però alla le=ura. Lo s*le disadorno e il linguaggio dire=o, rendono l’idea che Crusoe voglia imporre nuovi nomi alle cose, quasi a registrare il suo dominio sul reale a=raverso un inventario di misure, calcoli e volumi. [> analisi postcoloniale] => rappresentazione di uomini comuni, reali, vicini nel tempo e nello spazio ai le2ori. È a questo punto che inizia a svilupparsi il realismo formale, come lo definisce Ian Wa2 (>“Le origini del romanzo borghese”): un a=eggiamento dei romanzieri, minuzioso verso la vita, che impone loro di offrire ai le=ori un rapporto completo sull’esperienza umana, comprensivo di de=agli, inventari, liste, circostanze definite di tempi e luoghi. E lo scenario eso*co del viaggio, del naufragio, dell’isola, decisamente romanzeschi, appaiono rovescia* perché Defoe sembra volerli incanalare in un pragma*co manuale di sopravvivenza umana comune. Altro punto nevralgico per la nascita del novel è Pamela di Richardson (1740), dove, lontano dallo scenario eso*co, si compie defini*vamente l’acquisizione le=eraria del quoVdiano nell’universo sociale inglese in cui la storia è raccontata. Esibisce la vita nel suo stato reale, variegata dagli inciden* che accadono quo*dianamente e influenza* dalle passioni. La stessa esigenza di verità percorre il Se2ecento in Francia, quell’esigenza del pubblico borghese di conoscere nel modo più completo la realtà. Così l’a=enzione si sposta sempre più verso la nuova società e diventa cara=eris*co del periodo il romanzo dell’ascesa sociale del protagonista, dove anche le classi inferiori fanno la loro sporadica comparsa. L’a=enzione le=eraria si sposta alla scoperta dei vizi e delle virtù del secolo. of 16 43 Ma la ricezione dei modelli inglesi, so=olineò l’enorme divario tra le esigenze delle due società. Emblema*co è l’esempio delle traduzioni dei romanzi di Richardson operate da Prévost, che finì per eliminare tu=e quelle che per lui erano lungaggini, de=agli inu*li e noiosi ma che, come ben osserverà Diderot, cos*tuivano il potenziale realis*co dei romanzi, dunque snatura* se resi privi di essi. => Diderot percepiva l’enorme scarto fra i romanzi tradizionali e le opere di Richardson che necessitavano, a de=a del francese, di un nuovo nome. E infa4, già da tempo gli inglesi avevano preso a dis*nguere il novel dal romance, come dimostra la prefazione a Incognita di William Congreve del 1691, in cui l’autore afferma che i romances sono percorsi dall’amore e dal coraggio, da re e eroine; mentre i novels, ovvero i romanzi propriamente de4, hanno natura più familiare, presentano intrighi ed even* par*colari, ma non del tu=o inconsueV. È del tardo ‘700 la felice definizione della scri=rice inglese Clara Reeve, che cerca di schema*zzare le differenze fra i due generi: - romance: favola eroica con personaggi fantas*ci (quindi, linguaggio aulico, nobile e prezioso); - novel: rappresentazione reale della vita e dei suoi costumi (quindi linguaggio familiare). Dunque, la narra*va se=ecentesca, nel rifiuto delle convenzioni e nella rivendicazione iden*taria, (e il ritorno alla mimesis come rappresentazione della vita com’è) apre la strada al romanzo o=ocentesco. Sul finire del ‘700, Mme de Staël tenta di is*tuzionalizzare questo nuovo genere, parlando di fic:on naturelle, dove niente è vero, ma dove tu2o è verosimile (“Saggio sulle finzioni”), sfuggendo a quella ossessione del vero che aveva spinto i romanzieri ad accreditate la veridicità delle loro opere. La denegazione romanzesca diviene parola chiave del nuovo pa=o narra*vo: “caro le8ore, credimi, questo non è un romanzo”, come se il genere cercasse di legi4marsi davan* alla verità, negando la sua natura. Così Nievo, nelle Confessioni scriveva di non stare ricamando un romanzo, ma piu=osto di stare ricordando la sua vita. Tante prefazioni pongono quindi il le=ore nell’ordine di idee di credere alla storia come veri*era. Balzac stesso definiì Papà Goriot né finzione né romanzo. Questa strategia denegaVva apre tu=o un ampio repertorio di figure e topoi con l’obie4vo di convincere il le2ore della veridicità di ciò che legge (si arriva addiri=ura a rivolgersi al le=ore dicendo “penserai che si tra4 di… e invece no perché non siamo in un romanzo come * ho già de=o” - in Diderot). L’autore non si fa scrupoli ad ingannare il le=ore [ > fratelli Cohen in Fargo ]. Così, anche i luoghi strategici dell’opera (*tolo, so=o*tolo, prefazione, ecc.) vengono presidia* da parole come “storia”, “cronaca”, “memorie”. Lo stesso Defoe aveva in*tolato il suo Robinson Crusoe “a just history of facts” (il vero *tolo è di fa4 “La vita e le strane sorprenden: avventure di Robinson Crusoe”). Lo stesso Defoe si “lamenta” in Moll Flanders della molteplicità di opere presen* sul mercato che rendono difficile credere ad una “normale storia di cronaca”. of 17 43 Il romanziere ora tenderà a lasciare sullo sfondo i grandi personaggi e i grandi even*, per indagare quelle circostanze all’apparenza poco rilevan*. Così l’Ivanhoe di Walter Sco= (1819), che si propone di dare luce alla vita privata degli an*chi, a=raverso uno studio assiduo e de=agliato. E la cara=erizzazione di tu4 i suoi personaggi risponde a questa istanza borghese e an*roman*ca; si tra=a di figure minori, uomini medi che in genere possiedono una certa saggezza che però non è mai troppo eccezionale. Stanno al centro dei romanzi proprio per la loro mediocrità, che li rende *pici e capaci di incarnare le tendenze dello sviluppo storico. Sco= ragiona sulle opposte definizioni di novel e romance, constatando quanto spesso sia difficile a=ribuire all’uno o all’altro genere un lavoro. E in questo sembra proprio voler dire che il suo Ivanhoe non è classificabile. Sco= rivendica, infa4, al tempo stesso verità e finzione: si serve del romance per reinventare la storia e risca=arla dalla sua opacità. Ed è questo il paradosso, in questa sua doppia natura che crea una ammaliante interferenza fra l’immaginario racconto del romance e i fa? storici, dando a ques* un peculiare alone di magia. Sembra, allora, iniziata quella che Mario Praz definisce la “crisi dell’eroe” (La crisi dell’eroe nel romanzo o=ocentesco), ovvero quel processo di neutralizzazione del protagonista che troverà il suo massimo esempio ne La fiera della vanità di Thackeray (1847-1848), per l’appunto un “romanzo senza eroe”. Sco= ragiona sulle opposte definizioni di novel e romance, constatando quanto spesso sia difficile a=ribuire all’uno o all’altro genere un lavoro. E in questo sembra proprio voler dire che il suo Ivanhoe non è classificabile. Sco= rivendica, infa4, al tempo stesso verità e finzione: si serve del romance per reinventare la storia e risca=arla dalla sua opacità, si serve del novel per raccontare di personaggi ordinari. Ed è questo il paradosso, in questa sua doppia natura che crea una ammaliante interferenza fra l’immaginario racconto del romance e i fa4 storici, dando a ques* un peculiare alone di magia. 2.2. MENZOGNA ROMANTICA E VERITÁ ROMANZESCA - La ba2aglia romanVca per il realismo (Hugo); la ba2aglia anVromantca dei realisV (da Duraty e Zola). Secondo René Girard (“Menzogna roman*ca”), la “menzogna romanVca” consiste nel fingere l’impossibilità di un rapporto fra l’eroe e il proprio des*no, fra i quali si frappone un terzo elemento con il quale deve scontrarsi la “verità romanzesca”. Il mondo, ora, non è più qualcosa di aleatorio e capriccioso, ma è diventato un mediatore inflessibile, che condiziona e ordina all’individuo cosa scegliere, indicandogli l’unica via possibile per giungere al suo scopo; pena il fallimento e l’esclusione sociale. Gli scri=ori roman*ci, vivono e operano nella scissione messa in luce da Hegel, fra parVcolare e universale; è una realtà «ordinata a prosa», in cui si manifesta la scissione fra Io e Mondo, anima e realtà. Per questo, dice Hegel, ada=a e comune per il romanzo è la collisione fra la poesia del cuore e la prosa dei rappor*. Confli4 che spesso, come nell’Or:s di Foscolo (1802) e nel Werther di Goethe (1774) si risolvono con la sconfi=a dell’individuo di fronte al peso della società, perché, dice Hegel, gli eroi dei romanzi of 20 43 moderni, con i loro sogni, ideali, l’onore, le ambizioni, devono necessariamente scontrarsi col corso del mondo che si realizza al posto dei loro sogni (fra=ura fra io e mondo). Una grande fe=a di scri=ori roman*ci, ha dato più spazio alla disposizione d’animo, a=raverso cui lo spirito si eleva e l’eroe cerca all’interno di sé la sua ogge4vità. Molto più incerta è la seconda scelta, con cui il romanziere deve ogge4vare il confli=o fra mondo e io, fra i pensieri dei suoi personaggi e il mondo della prosa, senza concedersi fughe ideali. È questo il presupposto del romanzo o2ocentesco di formazione, quello in cui l’eroe deve me=ersi a dura prova contro il mondo, per educare sé stesso, pagando con i propri sogni, la propria gioventù e la propria innocenza. È quindi necessaria la predisposizione al compromesso dell’eroe, davan* al quale si apre un ventaglio infinito di possibili des*ni, come la conciliazione fra individualità e normalità o l’incompa*bilità fra individuo ed esperienza, come nel “romanzo della delusione” di Stendhal, Balzac e Dickens, dove l’uomo è costre=o a prendere coscienza del mondo reale, con i suoi sporchi meccanismi poli*co-sociali, il denaro, l’ipocrisia e il servilismo. E il romanziere o=ocentesco è diviso fra l’esigenza di rappresentare l’hegeliana “prosa del mondo” e quella di negarla. - La ba2aglia romanVca per il realismo (Hugo); la ba2aglia anVromantca dei realisV (da Duraty e Zola) - La cultura roman*ca ha giocato un ruolo fondamentale nella rappresentazione realis*ca del mondo e, in par*colare, la nascita di una coscienza storicis*ca e la lo=a contro le regole s*lis*che del classicismo, hanno posto le basi per il realismo o2ocentesco, perme=endo ad autori come Balzac e Manzoni di superare il romanVcismo, facendone uno dei massimi momen* di realismo. È sopra=u=o nell’ambito del dramma, in un paese classicista come la Francia, che la ba=aglia roman*ca contro la tradizione giunge all’apice. Secondo Auerbach (“Mimesis”), Hugo è stato fondamentale per la nascita del realismo le=erario francese, con la sua polemica contro il teatro francese, e la sua ipotesi a favore di una “mescolanza degli s*li”: infa4, secondo Hugo il cara=ere del dramma è la verità, e la sua fonte la realtà, la quale può risultare solo dalla commis*one fra sublime e gro=esco, che si intrecciano nel dramma come nella vita, «perché la poesia vera, la poesia completa, sta nell’armonia degli oppos:» (Prefazione a “Cromwell”). Mol* sapevano già che la fine del roman*cismo e il sorgere di una nuova era interessata alla scienza, era ben vicina. Difa4, di qui in poi, le strade si separeranno al punto che con autori come Duranty, Champfleury e Zola, si tenderà a fare del romanVcismo il contraltare polemico del realismo, in una visione diale4ca in cui i due termini finiranno per contrapporsi su tu=o: idealismo e posi*vismo, spiritualismo e materialismo, poesia e prosa, astra=o e concreto, straordinario e quo*diano, ispirazione e osservazione… TERZO INTERLUDIO IL ROSSO E IL NERO di Stendhal, 1830. of 21 43 L’interludio si interroga sulla ques*one centrale del manuale: perché i discenden* di Omero, bugiardi in buona fede, sono così ossessiona* dalla verità? Perché l’autore di novels cerca una legi4mazione fuori dal testo di quanto narra? Stendhal u*lizza questa forma di legi4mazione scrivendo false autobiografie o fingendo di trascrivere vecchi manuali dicendo che tra le pagine non si troveranno artefa4 e finzione. Stendhal dunque mente ai le=ori, ma non è questo il cuore del problema. Usa un fa=o “vero” come modello del possibile, scheletro narra*vo su cui costruire un corpo. In un’ul*ma analisi si rende conto che la verità creata nell’opera d’arte è qualita*vamente diversa rispe=o a quella del mondo reale: confessa che spesso dedica decine di minu* per scegliere un agge4vo che si addica al sostan*vo che ha scelto, in questo modo cerca di raccontare con verità e chiarezza. Stendhal, parlando di verità, si riferisce alla verità interna al romanzo, unica a cui uno scri=ore debba sen*rsi obbligato. Ha orrore della descrizione materiale, le trova noiose ed inu*li (cri*ca Walter Sco= per il fa=o che descrive i suoi se4ng medievali con de=agli maniacali, dai ves** alla forma delle poltrone, dai modi agli ambien*…). È proprio da questo rifiuto di svolgere una nomenclatura del mondo che nasce il proge=o rivoluzionario di Il rosso e il nero. L’incipit del romanzo è una messa in scena descri4va immediata, scri=a al presente (per mantenere i le=ori vicini al loro universo): “la ci8à è prote8a da un’alta montagna.”. Ci inserisce subito, a=raverso la sua *pica narra*va descri4va frammentaria, nello squallore dell’aristocrazia parigina: Julien è l’occhio che ci mostra la società d’oggigiorno. L’universo sociale ci sembra verosimile ma è in realtà plasmato in funzione dell’eroe. Il realismo di Stendhal nasce dal suo disagio entro il mondo postnapoleonico in cui non sente un senso d’appartenenza (Auerbach), ovvero il suo realismo rappresenta un modo per sfuggire, a=raverso la scri=ura, alla meschinità dell’ipocrita mondo borghese di allora. Il protagonista stesso Julien Sorel in diverse occasioni viene visto in contrapposizione agli ambien* e alle persone, risulta sempre straniero, incomprensibile. Riesce a mime*zzarsi solamente imparando le qualità strategiche della società: ipocrisia, cinismo, egoismo, estro (accompagna invita* alla porta e dentro di sé urla canaglie mentre sorride e si comporta in modo delizioso). Costruire personaggi e situazioni che sfidano la verosimiglianza, pur ispirandosi ad even* reali, serve per me=ere a fuoco un sistema di codici e convenzioni. Da un lato abbiamo modelli e schemi di comportamento, dall’altro un desiderio di escapismo. Stendhal rinuncia alla verosimiglianza del personaggio per creare un discorso narra*vo che va oltre i fa4 reali e che in ul*ma analisi proprio per questo risulta realista. of 22 43 nell’indugio narra*vo. Tu=o ciò avviene perché Thackeray rifiuta il romanzesco e i suoi toni sensazionali, preferendo aderire alla poe*ca realista; vuole offrire non un romance ma una homely story, una storia alla buona, senza eroi e dove contano le piccole cose, fa=a di una rappresentazione onesta e veri*era dei de=agli più comuni della vita ordinaria. È in questo contesto che Thackeray si collega agli altri romanzieri d’età vi=oriana, come Trollope, Elizabeth Gaskell e George Eliot; a=raverso una visione realisVca del mondo, disincantata, i cui tra4 dis*n*vi sono figli di Jane Austen: concezione an*eroica, sfera d’azione ristre=a, rifiuto delle convenzioni del romance e interesse per i de=agli più comuni. In realtà, queste istanze contrarie ai canoni del romance, il desiderio di azzerare l’esagerazione romanzesca, derivano sopra=u=o, in questo preciso momento storico, dalla omogeneità tra lo scri=ore e la cultura vi=oriana, che u*lizza altre=an* disposi*vi s*lis*ci. In questo quadro, dunque, l’opera di George Eliot (pseudonimo di Mary Anne Evans) spicca per profondità e maturità. La Eliot, infa4, sviluppa una concezione mime*ca basata sull’unione tra: - opzione tema*ca (mondo naturale e vita delle classi inferiori) - serietà e fedeltà di rappresentazione. Ella afferma che rappresentare la verità è difficile, ma che non può cedere alle “falsità”, perché l’an*tesi del realismo non è l’idealismo, bensì il “falsismo”. Suo sogno è quello di risca=are dal silenzio secolare la storia dei grigi e mediocri esseri della società media, che cos*tuiscono la più grande fe=a di società, nei quali, afferma, c’è pathos, poesia, tragedia e commedia di a4 senza storia e che solo il romanziere può vedere. Secondo la Eliot, lo specchio è collocato nella mente dello scri=ore, che vede tu=o dal suo punto di vista sogge4vo, per cui la percezione è filtrata dal linguaggio e trado=a negli schemi poe*ci, retorici e simbolici della costruzione narra*va. E la vita degli umili, abie4, nella sua diversità e difformità, cos*tuisce l’orizzonte di contrasto che il romanzo può assumere. E talento della Eliot è proprio quello di avvolgere personaggi apparentemente vanali in un alone di interesse romanzesco. => Il romance sopravvive a2raverso la forza delle passioni che persone insignificanV e quoVdiane vivono nelle loro vicende. Infa4, benché storie di umili, è il loro stato di eccezionalità, devianza, ad essere materia narrabile. Quindi, il romance sopravvive in tu=a la tradizione del romanzo vi=oriano, come evidente dalle opere di Dickens o Charlo=e/Emily Bronte (in cui il romance sopravvive nella diale?ca), e anche nell’opera dei realis* più dissolu*. In Dickens per esempio sopravvive in quello che alcuni cri*ci hanno chiamato magical realism. Pip in Great ExpectaVons viene posto davan* a personaggi umani, ma che presentano peculiarità irriducibili al nostro mondo. Sa*s House viene trasfigurata in un rudere sinistro, Ms Havisham in una sposa cadaverica che Pip non resiste dall’immaginare impiccata, Estella con la sua bellezza irresis*bile e spietata viene elevata a donna trofeo, vorrebbe fare entrare luce nella casa, rime8ere of 25 43 in funzione gli orologi, togliere le ragnatele, insomma cogliere imprese che lo possano portare a sposare la principessa (come lui stesso si riferisce, da piccolo, ad Estella). Il compromesso con il romance è ancora più evidente nella narra*va americana e in par*colare nel 1851, con Moby Dick e La casa dei se=e abbaini. Hawthorne, nella prefazione del romanzo, rivendica la libertà del romance e il diri=o di presentare la verità del cuore umano, u*lizzando le circostanze scelte dall’autore; Meville, invece, coniuga minuzia descri4va e vas*tà dell’affresco con con un immaginario mi*co e simbolico. 3.3. FRONTIERE DEL REALISMO - Il realismo o2ocentesco fuori di Francia e Inghilterra: Italia, Germania, Russia. Il trionfo del realismo, fuori dalla Francia e dall’Inghilterra, appare molto più frastagliato. - L’Italia, a parte Manzoni e Nievo, può considerarsi ancora ai margini della narra*va europea, almeno fino a Verga. - Ancora più arretrata la situazione in Spagna e Portogallo, dove la tradizione realista inizia a svilupparsi solo dopo il 1870. - La Germania e i paesi di lingua tedesca sono in ritardo rispe=o al realismo inglese e francese, forse per la frammentazione poli*ca e la cultura piu=osto provinciale. In Germania, O=o Ludwig (1880-1952; illustratore e pi=ore tedesco, che negli anni della prima guerra mondiale divenne il più richiesto grafico di Monaco) parla di realismo poeVco per designare il compromesso mime*co di mol* autori, impegna* a conciliare realismo e idealismo, rimanendo bloccato a metà tra Goethe e Balzac. - Un’idea par*colarmente impura di realismo si sviluppa in Russia, dove la le=eratura realista circola fin dagli anni Trenta nel diba4to cri*co. Qui Belinskij promuove la nozione di “poesia realisVca” che iden*fica con una “scuola naturale” il cui massimo esponente è lo scri=ore Gogol. I grandi romanzieri russi hanno dedicato mol* sforzi al diba4to sul realismo, spesso a=accandone i presuppos* este*ci e i principi opera*vi. In effe4, il realismo russo coincide con la storia del romanzo russo: dalle Anime morte di Gogol (1842) a Oblomov di Goncarov (1859) e da Padri e figli di Turgenev (1862) ai capolavori di Dostoevskij e Tolstoj degli anni sessanta e se=anta dell’O=ocento. I romanzi russi hanno una potenza narraVva e rappresentaVva che gli altri romanzi europei sembrano aver smarrito; è la miscela di banalità quoVdiane e circostanze estreme, quella capacità di incarnare le più astra=e istanze filosofiche che rende la narrazione più vera di qualunque altra storia. Secondo Lukàcs, Tolstoj è il con*nuatore del grande realismo, il momento in cui il romanzo realista trova la sua massima realizzazione, un unicum dopo cui non c’è altra svolta e segna il traguardo del romanzo realista, des*nato da qui pian piano ad esaurirsi ed eclissarsi. Intanto, Dostoevskij dichiara di avere idee ben diverse sul realismo rispe=o a quelle degli altri cri*ci e realis*, prefigurando così l’avvento di un nuovo paradigma mime*co. La sua è insofferenza verso il realismo iden*ficato con il modo di pensare della folla e l’esigenza di spingere la scri=ura nelle of 26 43 prossime fron*ere del romanzo. E il problema degli scri=ori novecenteschi sarà proprio quello di rinnegare forme e modelli del realismo o=ocentesco, per diventare nuovi realis*, in un senso più profondo e diverso. Dostoevskij, a volte addiri=ura chiamato scri=ore psicologo, si definisce realista in un senso più alto, capace di descrivere tu2e le profondità dell’animo umano. CAPITOLO 4 - LO SPECCHIO INFRANTO. 4.1. “EN HAINE DU REALISME” - Il realismo dopo il ’48: grandezza e tristezza di Flaubert. Nello stesso giro di anni in cui Tolstoj scriveva Guerra e Pace (1863-1869), Flaubert lavorava a Educazione sen:mentale. Così il senso della totalità, il legame organico tra uomo e natura nei paesaggi russi, trovano il loro rovescio nella flauber*ana ”epica senz’aria” (H. James, Gustave Flaubert), nell’immagine della realtà che si sfalda, in una Parigi scossa dalla rivoluzione del ’48; alla filosofia della storia di Tolstoj si contrappone la teologia svuotata e la noia di un viaggio senza meta di Flaubert. Quella di Flaubert è la storia di un roman*co deluso, che nasce da uno sguardo così profondo sul mondo, che arriva a reimpostare il rapporto fra le=eratura e realtà. E questo non solo perché Flaubert si documenta sul campo ma sopra=u=o perché annulla ogni utopica trasfigurazione, mira, cioè, ad un grado zero della finzione il cui risultato sia la verità come scienza esa2a (“orribile, crudele e nuda”). La grandezza di Flaubert, suo malgrado, si accompagna ad un cinismo e una tensione nega*va, dovu* al disgusto per la volgare borghesia di provincia, per cui il suo romanzo la descrive con fermezza, senza offrire scappatoie alla sua eroina. Tu=o nasce, secondo Lukacs, dalle delusioni poli*che successive al ’48, che fanno morire in Flaubert ogni utopia della società borghese. E infa4 Madame Bovary è un “tour de force”, il prodo=o di uno sforzo immane in cui manca tu=o ciò che Flaubert ama. Il disgusto e la fa*ca del romanziere durante la stesura del romanzo, non sono dovu*, quindi, allo s*le ma piu=osto agli argomen*. Ora, i protagonisV banali perdono ogni importanza, crollano nell’inu*lità di giornate tu=e uguali, non più come accadeva con Jane Austen, Manzoni, Eliot e Tolstoj. La vita borghese, compa=a e perfe=amente omogenea, rappresenta il lirismo, che altro non è che l’altra faccia della volgarità; Emma, con i suoi miraggi di una vita migliore, crea solo una falsa caricatura del reale. È come se in Flaubert, ogni estremo si rovesciasse nel suo contrario: il roman*cismo della sua indole diventa irrisione dei clichés roman*ci; il disgusto per la realtà alimenta l’osservanza realista (“è in odio al realismo che ho cominciato questo romanzo”), l’eso*smo pi=oresco diventa anatomia dei grigi. Quei fantasmi poe*ci racchiusi nella mente di Emma, non sono valori da contrapporre al disvalore, ma sono essi stessi prodo4 degrada* della società borghese. 4.2. PROCESSI VERBALI - Il realismo di Zola e la parabola del naturalismo. Il disprezzo per la realtà e conseguentemente per il realismo di Flaubert sfoceranno in quegli anni nella corrente del naturalismo. of 27 43 Sul finire dell’O=ocento, Verga intuisce che non c’è una corrispondenza necessaria fra “reale” e “vero”, tra l’a=enta osservazione del mondo esterno e la sua resa sulla pagina. È questo un momento di svolta per il romanzo. Robbe-Grillet, in Pour un nouveau roman, afferma che dopo Flaubert, si è incrinata la fiducia con cui il romanziere tentava di imporre l’immagine di un universo stabile. È da questo momento che si genera una progressiva angoscia verso il confronto con i grandi autori del passato. Ma Flaubert era stato il primo a segnalare la crisi del romanzo dopo il 1850: aveva già intuito che la ricerca ossessiva della perfezione formale poteva diventare un alibi per mascherare l’impotenza crea*va, la paralisi dell’immaginazione. Dunque, solo uno sVle virtuoso poteva risca2are questa genialità perduta. Flaubert aveva registrato quella fra=ura fra s*le e realtà, parole e cose, da cui nacque Madame Bovary, un romanzo sul nulla, come aveva affermato lo stesso Flaubert in una le=era del 1850. In realtà, lungi dall’essere tale, Madame Bovary è ricco di passione, noia, sesso, tradimento. Ma è il materiale che lo cos*tuisce ad essere freddo. È un testo autoreferenziale, chiuso nella luce del suo tessuto verbale, nell’irrilevanza del mondo. “Lo s:le è tu8o” diceva Flaubert, e dunque non conta la materia narrata, ma il modo in cui l’autore la tra=a. Ad offrirci alcune intuizioni sui paradossi del realismo è Stevenson. Nel 1884 Henry James pubblica un saggio, L’arte del romanzo, in cui dichiara che il romanzo deve avere una corrispondenza con la vita. Pochi mesi dopo, Stevenson replica con Un’umile rimostranza, affermando che l’arte e la vita non possono essere in concorrenza, poiché la vita è ricca e complessa di forme e colori, che nessun arVsta sarebbe in grado di riprodurre nella loro totalità. Dunque, l’unica verità accessibile allo scri=ore è proprio lo sVle e la forma che Stevenson, come Flaubert, considera come l’essenza dell’arte le=eraria. E quindi, l’ar*sta, deve distogliere lo sguardo dallo scenario policromo del reale, affidando la mul*formità della natura a una schema*zzazione e immaginazione astra=e. E solo mediante un paziente studio del repertorio della vita, l’autore può sancire il valore della sua opera, che un conta=o troppo stre=o con la realtà distruggerebbe. James si dirà d’accordo. Quindi vita e le=eratura non saranno più contrastan* e concorren*, perché la vita è tu=a inclusione, mentre l’arte è scelta e discriminazione alla ricerca di un valore latente a=raverso un lento processo che James immagina come un susseguirsi di calcoli e proge4, passi falsi e correzioni. Ogni parvenza di naturalezza, verosimiglianza e realismo non è dunque spontanea, ma fru=o di una ricerca accurata. Maupassant, fidato discepolo di Flaubert, dirà che il grande valore del suo maestro stava nel comporre le sue opere in modo tanto minuzioso ed elaborato, da non farne apparire il disegno alle spalle. E se l’arte è tecnica, metodo e ar*ficio, la capacità dello scri=ore starà proprio in un lavoro di dissimulazione del marchio autorale. Il romanzo, allora, sembrerà reale solo quando la mano dell’ar*sta sarà invisibile. E questa impersonalità va le=a come una evoluta concezione di mimemis. Allora, la realtà del romanzo è il fru=o di una illusione che si genera nella mente del le=ore. E, se c’è, Flaubert dice che deriva dall’impersonalità dell’autore, dal non scrivere di sé. Allora gli ar*s* tentano di ricreare una illusione completa della realtà, perché, diceva James, of 30 43 che la virtù suprema di un romanzo è l’illusione della vita. Maupassant, dunque, afferma che fare il vero, significa dare l’illusione completa del vero; e che i realisV di talento andrebbero piu2osto chiamaV illusionisV (Le roman). CAPITOLO 5 - NUOVE REALTÁ, NUOVE FINZIONI. 5.1. CAPOLAVORI SCONOSCIUTI - La pi2ura come metafora dei limiV e delle aporie della mimesis le2eraria: i «capolavori sconosciuV» di Balzac e di Zola. La pi2rice Virginia Woolf: la realtà come «visione». Le derive illusionis*che del realismo possono spiegare il predominio del modello pi=orico nella le=eratura o=ocentesca, di un’arte che fonda le sue credenziali mime*che in una riproduzione illusiva della realtà empirica. E la pi=ura serve agli scri=ori per tema*zzare i limi* e le aporie della mimesis le=eraria. Nel dissidio fra imitazione e creazione, troviamo il punto nevralgico del Capolavoro sconosciuto di Balzac (1831), testo ambiguo e con*nuamente riscri=o, parabola sulla le=eratura che verte sul divario tra espressione linguis*ca ed esperienza sensibile. Il protagonista, il pi=ore Frenhofer, proclama che la missione dell’arte non è imitare la natura, ma esprimerla. Il suo sogno è trovare una via per conciliare classicismo e roman*cismo, labor limae e furor divino. Da un lato, Frenhofer avverte lo sforzo di strappare alla natura il primato della creazione, dall’altro c’è lo studio per realizzare su una tela le rotondità della natura. Il racconto è suddiviso in base all’esistenza delle due donne della vita di Frenhofer: da un lato quella reale, Gille=e; dall’altro quella dipinta, Catherine Lescaut, amante segreta di Frenhofer, il quale cerca di rappresentare una sintesi fra le due figure. Ma quando termina il suo dipinto, si imba=e nel paradosso dell’imitazione perfe=a, di un’arte tanto simile al vero da diventare iden*tà e negare sé stessa, sopprimendo il supporto materiale della tela. «Non è una tela, è una donna». Ed è come se l’arte non potesse raggiungere il suo apice senza negarsi, e che quindi fosse necessario scegliere se vedere la tela o la donna. Il dubbio, il dissidio, si risolvono tristemente in un ammasso di colori confusi (la donna che dipinge è indis*nguibile, un ammasso di colori e tecniche fru=o di tan* anni di ricerca), so=o i quali era la donna, della quale si salva solo un piede, che emerge da quell’informità croma*ca (unica parte dis*nguibile e bellissima). È un dipinto muto, che mostra agli osservatori il niente della rappresentazione. Se Il capolavoro sconosciuto è davvero una parabola del realismo è perché il suo testo me=e in scena la crisi della rappresentazione, perché l’opera impossibile di Frenhofer decostruisce dall’interno il paradigma della somiglianza, alla vigilia del trionfo del realismo europeo; dimostra, of 31 43 cioè, che lo sforzo di tradurre la natura nell’evidenza sensibile della forma pi=orica, produce solo cadaveri. Altre=anto esemplare è L’opera di Zola (1886), in cui il protagonista, Claude Lan*er, si accanisce a ritrarre ogge4 e modelle dal vero, cercando di infrangere gli schemi e le convenzioni accademiche. Ciò che cerca è un rinnovamento integrale della visione. Ma Claude, come Frenhofer, lo=a contro la natura per dipingere donne di carne. E per farlo non può che cercare di affrancarsi dal vincolo dei modelli. Ritenuto incapace di cogliere le somiglianze, suscita la delusione della moglie Chris*ne, modella dei suoi quadri, che percepisce l’infedeltà mimeVca come tradimento. Dunque, alla fine il tormento del vero lo conduce all’esaltazione dell’irrealtà, dato che la realtà gli è preclusa. Anche il suo lavoro impossibile è sogge=o ad una lenta distruzione. E la figura di donna dipinta si perde in una confusione nera e informe. A questo punto pare evidente che la realtà ogge4va sia sfuggente, scomposta e frammentaria, e che cominci ad inver*rsi nel rela*vismo e nella sogge4vità della percezione. È solo nel Novecento che l’ansia di uscire dalla gabbia della figurazione trova la sua ragione. Solo dopo la crisi dell’impressionismo e le avanguardie e l’avvento della fotografia, gli scri=ori riusciranno ad affrancarsi dal paradigma della somiglianza, sempre inseguendo la vita, ma senza esserne schiavi dei profili. Ben rappresenta questo nuovo rapporto Viriginia Woolf, con Al faro (1927). Lily Briscoe è una pi=rice, infa4, che non cerca la somiglianza col modello, trovando il coraggio di ridurre l’impressionante bellezza di Mrs Ramsey, sua modella, a un gioco di luci e ombre, figure geometriche e colori improbabili. Nella prima parte del romanzo, il quadro è des*nato a fallire davan* alla bellezza ineguagliabile del suo modello. È solo dopo la morte di Mrs Ramsey che Lily, a=raverso un lento e fa*coso viaggio interiore nel passato, riuscirà a proie=are sulla tela il vuoto assoluto del punto in cui prima sedeva la sua modella e la luce che essa irradiava. Ciò che dipinge è ora lo spirito, la cosa essenziale, non più la forma esa2a. In tu4 e tre i capolavori, ciò in cui è coinvolto l’ar*sta è la sfida con la vita e la morte; la sfida di cogliere l’essenza indistru4bile che possa trasformare in perenne il momento fugace. 5.2. IL REALISMO È MORTO, VIVA IL REALISMO! - La crisi delle convenzioni del realismo tra O2o e Novecento: a2acchi al romanzo come genere, in nome di «una più vera realtà». Ancora una volta, nella storia della mimesis si trovano a mutare forme e paradigmi, alla ricerca di un punto d’incontro tra vita e le=eratura. Inghio4to da movimen* e tendenze come simbolismo, este*smo, decaden*smo, espressionismo e modernismo, il realismo sembra essere in declino. E certamente finisce un’epoca davan* a ques* profondi cambiamen*, ma il realismo ritorna seppur in forma mutata, nelle esigenze dei nuovi scri=ori che cercano una più vera realtà, ed elaborando un realismo innovatore in cui l’arte sia ricondo=a all’immediatezza. of 32 43 Arriva persino a far dubitare l’esistenza stessa di Sebas*an, che sia solo una proiezione mentale del fratellastro? O che il narratore stesso sia Sebas*an come suggerito dal finale incerto? (io sono Sebas:an, mi sento come se lo stessi impersonando). CAPITOLO 6 - DIALETTICA DEL REALISMO. 6.1. NEOREALISMI - Tra gli anni VenV e Trenta del Novecento: un nuovo bisogno di «ogge?vità». Il contributo degli Americani e il realismo socialista. Nei primi decenni del Novecento, la reazione an*-materialista, an*-ogge4va e an*-figura*va che guida l’avanguardia europea, viene contrastata sia da resistenze interne (naturalis* a=arda*, romanzi-fiume, parale=eratura), sia da una contro spinta che tende a ricondurre l’Io alla materialità del corpo, rinnegando le fron*ere conosci*ve additate dalla psicologia e dall’espressionismo. La mostra d’arte in*tolata La nuova ogge`vità e alles*ta a Mannheim nel 1925 è il segno della riscoperta della materialità, di un nuovo rapporto con il mondo delle cose ogge4ve. Scopo della mostra è documentare il lavoro degli ar*s* rimas* fedeli alla realtà tangibile degli ogge4. Ma il bisogno di una nuova ogge4vità non è ritorno alla ogge4vità del periodo pre-espressionista: è la riscoperta dell’ogge=o dopo la crisi dell’Io, nella ricerca di un rapporto spirituale con l’ogge=o che superi l’imitazione meccanica del visibile e giunga all’ogge4vità trascendente. È Franz Roh a definire il post-espressionismo realismo magico, intendendo il tra=o enigma*co delle immagini che riproducono le superfici nei minimi de2agli, per rivelarne la profondità nascosta nel reale. Al di là delle varie e*che=e (realismo magico e verismo sociale) la ricerca dell’ogge4vità esprime una nuova istanza mime*ca: il bisogno di affrancarsi dalla sogge4vità per tornare al presente di una realtà devastata da guerre, con esa=ezza lucida e impietosa. Tra gli anni Ven* e Trenta, l’esigenza di un nuovo realismo in ambito europeo riceve un grosso contributo dalla le=eratura americana. Le mille difficoltà e contraddizioni di un con*nente etnicamente composito, con un mosaico di realtà frastagliate, con problemi di lavoro, denaro, miseria, razzismo, sono state il materiale sterminato al quale hanno a4nto i grandi narratori of 35 43 americani come Anderson, Sinclair, Hamingway, Dos Passos, Fitzgerald, Caldwell, che con la loro riscoperta dell’America le=eraria hanno influenzato largamente la cultura europea. La ricchezza tema*ca si combina con una ricerca s*lis*ca e formale che riceve l’apporto da altri media espressivi e che mira a res*tuire l’immediatezza dell’esperienza vissuta. Per questo, l’apprendistato giornalis*co per mol* scri=ori è stata una lezione di aderenza al reale; ma anche il cinema e la fotografia offrono un efficace modello di trascrizione visibile con cui res*tuire il dinamismo della vita reale. E anche il ricorso al discorso dire=o, l’azzeramento psicologico: tu=o tende a ricostruire l’ogge?vità tanto ricercata. In nome della coincidenza fra esperienza e scri=ura, mol* rinunciano alle storie inventate, puntando su cronache, memorie, autobiografie, inchieste, con l’intento di comunicare come le cose sono realmente. Questo spiega, nel neorealismo Italiano, la ricorrenza di termini come cronaca e documento, che esprimono l’esigenza di forme narra*ve che realizzino il desiderio di verità. Anche i neorealis* portoghesi propugnano un’arte sociale che trova la sua forma espressiva nel reportage ar*s*co. L’arte diventa prodo=o della società a cui è figlia, dunque è punto di raccolta di istanze cogni*ve, ideologie e proge4 poli*ci. E se il marxismo pone al centro del suo pensiero il rispecchiamento della realtà ogge4va, allora l’arte è sostegno reale della cri*ca marxista e l’alleanza fra marxismo e arte realis*ca diventa essenza del movimento rivoluzionario stesso. Di qui l’idea di realismo socialista, una *po di le=eratura dai tempi verbali confusi, in cui ogni “sarà” diventa “è”. Nel 1932 Fadeev spiegava che il realismo socialista, in quanto creazione ar*s*ca, è in grado di mostrare le tendenze di sviluppo della realtà. Da qui si giunge alla conseguente subordinazione del lavoro intelle=uale alla poli*ca culturale del Par*to che, con Stalin, è sfociata nel completo rovesciamento dell’impulso mime*co nello schema*smo e nella semplificazione ideologica. Quindi, invece di giungere ad un rispecchiamento ogge4vo della realtà, si giunge all’illustrazione di un astra=o “dover essere” che l’ortodossia poli*ca vuole imporre alla realtà. Di qui, negli anni Cinquanta, un proliferare di cri*che e condanne senza appello. 6.2. DUE ETTOGRAMMI DI PIOMBO - Intorno e dopo la seconda guerra mondiale: valori e limiV del neorealismo in Italia. La breve parabola del neorealismo italiano, si consuma fra la guerra civile e l’involuzione dei primi anni Cinquanta. E sembra paradossale che la lo=a per il realismo entri in crisi proprio quando la ques*one del realismo diventa argomento programma*co. Rievocando il clima culturale da cui era nato, nel 1947 Il sen*ero dei nidi di ragno, Calvino osserva, circa vent’anni dopo, che allora era in a=o il tenta*vo di dare una direzione poli*ca alla nuova a4vità le=eraria, chiedendo allo scri=ore di creare un eroe posi*vo e immagini norma*ve, col pericolo, però, che la nuova le=eratura cadesse in una vuota funzione celebra*va e didascalica. Pericolo più insidioso se si pensa che gli scri=ori tentavano di liberarsi della vecchia retorica, cos*tu*va di una le=eratura aulica e strumento di un regime totalitario, fondato maggiormente sulla degenerazione della parola, rido=a a uso celebra*vo. of 36 43 Paradigma*ca la reazione an*umanista di Primo Levi, che solo nella chimica e nella fisica riuscì a trovare un rimedio al fascismo, perché u*lizzava verità fondate su principi inconfutabili, non su menzogne. Se il neorealismo, allora, è stato un movimento d’avanguardia è perché ha dato voce al bisogno di denunciare le menzogne del fascismo e le profonde fra=ure sociali. L’esigenza che si avver*va era quella di definire un nuovo ruolo dell’intelle=uale, affinché ques* scoprisse l’Italia reale. Questo bisogno si manifestò sopratu=o nel problema*co rapporto con la parola, nella necessità di esprimere la realtà e quindi di riempire il vuoto ormai insito nelle parole. Fu quindi necessario distruggerle e ricostruirle per far ritrovare loro una piena immanenza nelle cose, res*tuirgli una pienezza di cui ormai mancavano. Da questo punto di vista, la le2eratura della Resistenza offre esempi importanV di trascrizione verbale dell’esperienza, perché l’espressione fu costre=a a misurarsi col difficile scenario della seconda guerra mondiale, quando la società era in condizioni di estrema precarietà. Il problema fu sopra=u=o di forma e non solo di contenuto: bisognava trovare i toni, il taglio espressivo, il ritmo giusto per plasmare le storie atroci dei par*giani. Il neorealismo, però, fu anche un ventaglio di esperienze fallimentari: da un lato a causa del mito del documento, del fa=o crudo, che finiva spesso per sfociare in un arido cronachismo; dall’altro lato, le difficoltà vertevano sul difficile rapporto fra scri=ore-intelle=uale e la società, da cui derivava l’incapacità di me=ere a fru=o l’esperienza vissuta, e di dare vita ad una le=eratura come epica, carica di energia vitale, razionale, sociale ed esistenziale. Paradosso della le=eratura, in questo caso, è che lo scri=ore meno impegnato poli*camente, meno neorealista e meno polemico, sia riuscito a cogliere il senso profondo di tu=a quella esperienza esistenziale: Beppe Fenoglio, con la sua trilogia (Primavera di bellezza, Il par*giano Johnny e Una quesVone privata) è riuscito ad abbracciare la totalità del reale, sfuggita agli storici, a=raverso una scri=ura che offre una miscela di vero e straordinario, sorpresa e a=endibilità. Indica*vo il riuso consapevole del romance in Una ques*one privata, un libro dall’intreccio roman*co, ambientato però nella guerra. E l’instancabile ricerca espressiva di Fenoglio, sembra il culmine di quel tormento della parola che aveva animato le generazioni preceden*, e che troverà un altro grande successore in Gadda. Fenoglio deforma la lingua, cerca una parola altra, per ada=arla all’ogge=o e giungere alla sua piena essenza. Per questo Fenoglio è lo scri2ore del realismo liberato, che sa res*tuire l’essenza del reale ben conscio della finzione, che anzi, a=raverso il romance affranca dal peso della vita ordinaria. 6.3. SFIDE AL LABIRINTO - La seconda metà del Novecento: Robbe-Grillet e il nouveau roman; lo stru2uralismo e il primato della scri2ura; lo svuotamento post-modernista della quesVone del realismo. Il secondo Novecento è stato dominato dal paradigma linguis*co, dallo sfru=amento del potere mis*ficante della parola. Di qui, gli interven* espressivi delle varie avanguardie che hanno tentato di ripulire e deformare il linguaggio dalla dimensione ogge4vale in cui era precipitato, una sorta di of 37 43 Ma non basta limitarsi ad una semplice diagnosi della quan*tà, ovvero di tu4 i “realismi” prodo4 dalla storia, né ad inventariare posizioni e occorrenze in una enciclopedia. La logica dello scarto metodologico, invece, richiede un modello integrato e plurale, verso una concezione complessa, ar*colata in più livelli categoriali dis*n*, senza i quali il conce=o di realismo con*nua ad essere so=oposto alla mul*formità. Alla base di questo nuovo metodo c’è la riformulazione di una domanda fondamentale. Non più cosa è il realismo, ma quando è realismo, sulla scorta di quanto Nelson Goodman ha suggerito circa l’arte. Si tra=a di concepire cara=eris*che dis*n*ve o indica*ve del genere. In base a questo schema logico si possono iden*ficare gli aspe4 del realismo, livelli categoriali che giocano sia sul piano diacronico che sincronico. Qua=ro sono i livelli di ar*colazione in cui leggere e scomporre qualunque fenomeno di scri=ura realis*ca: - Livello temaVco-referenziale: ovvero il realismo del dictum, del ciò-di-cui-si-scrive, rela*vo a ogge4, personaggi, azioni, even* defini* “ogge4vità rappresentate” da Ingarden (“The literary work of art”), a cui sono a=ribuibili proprietà il più possibile omogenee con l’esperienza empirica (so=omissione alle leggi naturali, coerenza logica, contesto poli*co-sociale). - Livello sVlisVco-formale: ovvero il realismo del modus, cioè del come-si-scrive, legato ad un repertorio di tecniche, procedimen* espressivi e risorse retoriche (impersonalità, punto di vista sogge4vo, mimesi linguis*ca, de=agli, ecc.) che producono la cosidde=a “illusione realista”. - Livello semioVco: ovvero il realismo del codice, basato sulla trama culturale che regola la decodifica di un testo, stabilendone anche la conformità rispe=o a contes* storicamente determina* (opinioni, ideologie, convenzioni, modelli di comportamento, visioni del mondo, ecc.). - Livello cogniVvo: è il realismo della relazione este*ca, che proie=a il mondo del testo nell’orizzonte dell’esperienza del le=ore. De=o ciò sarebbe inu*le s*lare una tabella binaria di croce=e da compilare per ogni romanzo in modo da forzarlo in una categoria in base agli aspe4 che presentano. Ma è giusto comprendere queste categorie ed avere un quadro completo per poter analizzare le opere le=e a=raverso strumen* appropria*. of 40 43 FUGA. UNDERWORLD di Don DeLillo, 1997. 1. TEMI. Don DeLillo è maestro nell’eludere e*che=e e nomenclature. È stato definito realista, neorealista, storico del tempo, cronista di una cultura che ha trasformato il reale in “un’immagine del reale”. Sul suo realismo si è avviato un intenso diba4to, l’autore dichiara di descrivere le cose esa=amente come le vede e sente, so=olineando quanto il quo*diano possa celare elusioni e misteri intrigan*. Come controparte del quo*diano non manca la *picità sociale di ambien* e personaggi. Libra (1988) è una reinvenzione narra*va dell’omicidio Kennedy in cui si trova un’enciclopedia della vita quo*diana, una finestra sulla vita degli anni 50/60 in cui la narrazione della vita di Oswald procede in parallelo al caso dell’omicidio Kennedy. Alla fine ci troveremo con una quan*tà di da* e informazioni che però non portano a nulla, in una nota infondo al libro DeLillo stesso conferma che il romanzo non è configurato come un tenta*vo di fornire risposte concrete e per questo fa4 reali si mescolano ad altri fi4zi. of 41 43 Nel suo romanzo Underworld il mondo è fondato sullo statuto di realtà. Si pone come un’indagine della condizione tardo-capitalis*ca e postmoderna tra deliri tecnologici, schiavitù media*che, crisi energe*che e potere finanziario. Viene dato spazio ai grandi even*, il quo*diano si mescola con even* pubblici come un test nucleare sovie*co in Kazakistan, con personaggi ed even* storici (da Frank Sinatra al Vietnam, da Andy Warhol alle dimissioni Nixon): è quello che lui chiama power of history. In questo modo è in grado di scoprire la natura segreta delle cose che non appare mai nei resocon* dell’epoca e che ci perme=e di tuffarci in una dimensione lontana percependola come nostra. Interessante anche il punto di vista della dietrologia, complo4, cospirazioni e disegni segre* trovano forza nella storia creando un mondo intrigato di connessioni e coincidenze e che riempiono la vita di mistero. Per questo le sue opere vengono spesso a=ribuite ad una forma di romance reincarnato in cui è spesso dis*nguere allucinazione e realtà, quo*dianità e miracolo. La sospensione di realtà è il modo che abbiamo per sfuggire ai soprusi della storia e il linguaggio è il mezzo che ce lo perme=e. 2. FORME. Tecniche di dialogo dire=o, collocazione dei personaggi dire=amente in scena, u*lizzo di linguaggio “di strada” nella conversazioni perme=ono a DeLillo di collocarsi in una dimensione stre=amente realista dal punto di vista delle tecniche di scri=ura u*lizzate. Parla di dialogo realis*co, scambi verbali che non hanno nessuna connessione con il modo in cui la gente parla. Il punto di vista viene chiamato ristre=o perché rinuncia all’innaturale onniscienza autoriale per poter rappresentare la sogge4vità di una terza persona. Wa2 aveva segnalato come tra=o dis*n*vo del «realismo formale» una nuova rappresentazione dello spazio e del tempo: - da un lato un’ambientazione spaziale vivida e concreta, che il le=ore può in qualche modo «visualizzare»; - dal l’altro la collocazione dei personaggi in una dimensione temporale precisa, che crea il senso di uno sviluppo e di una durata (la vicenda di Underworld si colloca nel 1951 quando un ragazzino di colore si intrufola nello stadio dove si sta giocando una par*ta di baseball tra i NY Giants e Brooklyn Dodgers. Il fuoricampo segnato dai Giants perme=e di vincere la par*ta e la palla viene presa dal ragazzino. Sarà poi rivenduta dal padre, la palla diventa emblema di una storia e di un mondo perché viene passata di mano in mano e segue le vicende dalla Guerra Fredda fino agli anni 90). E in effe4 non si contano i novels se=ecenteschi e o=ocenteschi che iniziano con l’indicazione di una data e di un luogo, quasi a cerVficare l’autenVcità della storia collocandola vicina al le2ore. In questo senso l’importanza che i romanzi di DeLillo pongono alla mimesis geografica e temporale è messa in risalto dal suo desiderio di dipingere un ambiente e in periodo precisi nel quale of 42 43