Scarica Vico e la poesia: Omero, Dante e la mitopoiesi - Prof. Cristaldi e più Sintesi del corso in PDF di Letteratura Italiana solo su Docsity! Verità e finzione. Vico e un problema dantesco (S. CRISTALDI) 1. La verità che giace al fondo Nella Commedia convivono in una dialettica incessante finzione e verità, la critica dantesca ha elaborato diverse interpretazioni volte a spiegare questa dialettica. I commentatori del XIV secolo percorrono la strada dell’allegoria e quindi all’individuazione di un senso sotteso che equivale ad una lezione morale sul peccato e la virtù. Questa interpretazione cadrà in disuso tra Cinque-Seicento, ma verrà recuperata da Gianvincenzo Gravina, nel Discorso sopra l’Endimione e nel trattato Della ragion poetica. Gravina coglie un’unione viscerale che intercorre tra esercizio poetico e ricerca filosofica e attribuisce al sapiente una missione civile: trasporre in immagini le acquisizioni dell’intelletto (cfr. Gravina, Dante e la verità della Commedia). 2. Fingono e credono Giambattista Vico in un primo momento del suo pensiero abbraccerà alcune teorie proposte da Gravina nella Ragion poetica, queste lasceranno delle profonde tracce nella produzione vichiana. Tuttavia, il nome di Gravina non comparirà mai all’interno della Scienza nuova, ma compariranno le sue tesi sulla dottrina dei poeti teologi, che saranno oggetto di un attacco frontale. Il pensiero maturo di Vico ribadisce l’identificazione della poesia con la favola e celebra la creatività poetica degli inizi, ma secondo Vico non ci sono allegorie filosofiche nelle favole antiche dei poeti teologi, infatti, il popolo delle origini, quello che crea i miti, non possiede una razionalità in grado di concettose elaborazioni. Inoltre, poesia e filosofia vengono considerate incompatibili: la poesia si serve dei sensi e si rifà al particolare; la filosofia astrae la mente dai sensi e si rifà all’universale. Quindi per Vico l’idea di una nazione-pilota che inventa e diffonde favole trasmettendo conoscenze avanzate a beneficio di tutte le altre genti è inconcepibile. Vico non aderisce né alle posizioni di John Marsham (Egizi nazione- pilota), né a quelle di Herman Wits (Ebrei nazione-pilota). agli Ebrei va riconosciuto il possesso di una conoscenza matura, poiché derivante dalla rivelazione divina. In questo modo vico pone una netta divisione tra storia sacra e storia profana: abbiamo quindi da un lato un gruppo che custodisce un deposito di verità, dall’altro una frammentazione di identità nazionali che ne vengono escluse. Vico rinuncia all’ipotesi di una segreta penetrazione della bibbia nel DNA delle culture civilizzate, tuttavia questo non impedisce alla Scienza nuova di utilizzare la Bibbia come chiave di lettura degli eventi e dei processi. Il mito-poesia non ha nessi immediati con la Bibbia, perché non costituisce la trasposizione di verità rivelate, né tantomeno trova alcun corrispettivo nel testo sacro dal punto di vista strettamente poetico. Le favole sono una prerogativa delle nazioni civilizzate, di un’umanità appena riemersa dal decadimento, dotata di una costruzione sociale e istituzionale. Non a caso ad elaborare questi racconti sono stati i poeti-teologi, cioè gli artefici della prima civilizzazione. Mantenendo la categoria di poeti-teologi Vico riprende sì la tradizione di Gravina, ma privandola di sovradeterminazioni di tipo sapienziale, in altre parole, gli artefici di miti sono stati guidati unicamente dalla fantasia. Una fantasia di cui sono particolarmente dotati gli uomini primitivi in quanto appartenenti alla fanciullezza dell’umanità, i poeti primordiali sono spiritualmente giovanissimi. Nella teoria di Vico resta la coincidenza tra origini della poesia e origini della sapienza, ma si tratta di una sapienza fantastica che precede l’età della ragione. I primitivi vivificano con la fantasia i fenomeni naturali, ma non sospettano che questa sia solo una loro proiezione sulla realtà, al contrario vi credevano fermamente: mentre le metafore dei moderni vengono colte in quanto tali dai loro artefici, per i primitivi non era così. Il prospetto vichiano prevede quindi che gli uomini in un primo momento avvertono senza sentire, poi sentono con animo commosso, e infine riflettono con mente pura. Mitopoiesi (la tendenza a inventare favole, nonché il processo di formazione ideologica con cui si attribuisce a fatti reali un valore fantastico di riferimento culturale e sociale) e civilizzazione sono inscindibili: attraverso i racconti mitici, con le loro divinità pronte al premio e alla sanzione, l'umanità primitiva si è assoggettata al vivere civile. 3. Omero, Dante e la mitopoiesi Iliade e Odissea rappresentano, per Vico, una prova lampante dell’inesistenza di un temperamento filosofico a monte delle favole antiche, frutto al contrario di una sensibilità tanto robusta nelle passioni quanto debole intellettualmente. I sensi allegorici e mistici sono stati introdotti, nelle narrazioni omeriche, dalla tendenziosa manovra di filosofi tardivi. A che titolo, allora, Dante potrà di nuovo meritare il nobilitante parallelo con Omero? Il sistema vichiano faceva spazio a un’attività letteraria in regime di modernità, e la giustificava con l’individuare un rinnovato afflusso di fantasia e di sentire, che trova spazio solo dopo la temporanea eclissi della ragione analitica. Questa poesia moderna ha dei limiti: non riesce a trascendere la condizione “adulta” dei tempi evoluti (non può credere alle proprie invenzioni), né ritrova l’autentica facoltà mitopoietica, restando inidonea a produrre miti. Ma rientra anche Dante in questa tipologia? Per spiegare e legittimare la grandezza dantesca, Vico mobilita un altro complesso categoriale del proprio sistema: la teoria del ricorso storico. Nella visuale vichiana vi è la fiducia nell’organicità propria al processo temporale, la fiducia in uno storicismo che pone la fanciullezza in funzione della maturità, la fantasia in vista della riflessione, sicché il “prima” porta in grembo il “dopo”, che non appare semplicemente come superiorità, ma come esito. Ma il culmine raggiunto può regredire: la corruzione è riscontrabile e non deriva dall’intelletto in sé, bensì da un uso improprio e distorto di esso che produce aridità, eclissi dei valori. La caduta dell’Impero Romano e il subentrare del Medioevo rappresentano, agli occhi di Vico, un esempio eclatante del ricorso storico. Ora, la chiave del ricorso porta a ravvisare in Dante il protagonista di un frangente in rovina che reitera il primitivismo della Roma ai suoi inizi, nonché il grezzo esordio dei Greci. La Scienza nuova prima, valutando il processo storico nel suo insieme, valorizza l'avvicendamento delle età e colloca Dante sullo sfondo di un ricorso che riconduce la storia al punto di avvio. Centrale è l’opposizione tra metafisica e poesia («non fu mai uno stesso valente uomo insiememente e gran metafisico e gran poeta»).: la metafisica è scevra dei pregiudizi della fanciullezza, tende a indebolire la fantasia; la poesia è totalmente immersa nei pregiudizi della fanciullezza, è poggiata su una fantasia robusta. Dante rappresenta in apparenza un segno di contraddizione in grado di mettere in crisi l’intero ragionamento. Vico formula quindi una controdeduzione: Dante si è mostrato assai sensibile alle sollecitazioni di una istanza teoretica, ma quell’istanza non era certo la condizione che lo abilitava alla poesia; si trattava, al contrario, di un intralcio. Quest’asserzione colpì Croce, ispirando la sua complessiva valutazione del dantismo vichiano, ritenuto una svolta radicale all’interno di una secolare vicenda critica. Il valore del giudizio di Vico sta «nell’essere prodotto e produttore insieme di una nuova dottrina della poesia», quella che «si sarebbe chiamata Estetica», e avrebbe fissato la natura della poesia autentica, «che sorge sulle passioni e non sulle riflessioni». Vico, in realtà, non intendeva fondare un’autonoma teorizzazione dell’arte, voleva invece cogliere l’intersezione tra poesia e storia, delimitando i momenti storici dalla poesia. Non lo si può nascondere: i secoli bui del Medioevo finiscono per sfociare nell’età aurea della Scolastica, di qui la coabitazione di poesia e metafisica, ma non certo la loro sinergia, infatti, la seconda ostacolava la prima. L’energia espressiva di Dante non trova alcun supporto nella cultura da lui posseduta, al contrario la patisce. Ora Dante può ricoprire il ruolo a lui destinato e confermarsi «padre e principe dei poeti toscani», in conformità ad Omero, «padre e principe della spezie massima de’ poeti». Vico sosteneva che Virgilio non può raggiungere il culmine omerico perché esponente di un’epoca civilizzata e razionale, e difatti filosofo stoico, incline dunque alla moderazione delle passioni e allo sfoltimento delle antiche credenze. Ma Vico non è affatto indisponibile nei confronti del massimo epico latino, e se lo situa al di qua della grandezza omerica, non lo estromette da ogni grandezza. Il verdetto dell’ultima Scienza nuova ne fisserà pregi e limiti: Virgilio ha espletato i suoi racconti mitici con maniera antica, ma la sua opera è nata pur sempre da «profonda scienza; tuttavia, l’opera di Virgilio restaura un corpus di leggende assai lontane, accreditandosi come raccolta effettuata da Dante fra i dialetti della penisola, si sono lasciati impressionare dalle espressioni dantesche riscontrabili solo fuori di Firenze, sovrapponendo la loro situazione linguistica a quella trecentesca: Omero non deve fare opera di raccolta perché afferisce già a un orizzonte universale, come personaggio plasmato dall’intero popolo greco; Dante non deve farla perché trova un repertorio linguistico completo nella sua città, a cui bisogna ricondurlo e vincolarlo. I poemi omerici offrono una testimonianza preziosa in quanto documento di un’epoca . Di quale epoca precisamente si tratta? La collocazione di Omero è sì attigua all’aurora della civiltà, ma non coincide del tutto con quella striscia di partenza. L’inizio vero e proprio è rappresentato dall’età degli dèi. In seguito, il primo piano non è più per le divinità in sé e per sé: è cresciuta d’importanza la relazione degli uomini con le divinità, e ormai campeggia, generando l’età eroica. Il frangente a cui appartiene Omero è l’età eroica, la quale è dotata di un legame molto stretto con quella degli dèi, tanto che, a volte, l’esposizione vichiana sembra prospettare, piuttosto che due epoche, due aspetti della stessa esperienza mitica. Non per caso le divinità omeriche riescono tutt’altro che irreprensibili, come del resto gli eroi a cui ha dedicato il primo piano. Non riuscirà singolare che la poesia eroica, per Vico, presenti una forte attenzione alle res gestae. Vico rende di Omero un’immagine prismatica: per un verso gli assegna l’immaginazione immersa nelle favole degli dèi, per l’altro ne fa uno storico, lo storico dei tempi eroici. Fantasia e memoria costituiscono per Vico un complesso organico: le favole sulle divinità, espressione di una religiosità in accezione civile, rientrano nelle storie dei primi popoli. Entro la narrazione eroica albeggia la vera e propria narrazione storica. Omero è il «primo Storico di tutta la Gentilità». Le prime comunità umane sono state saldate dagli eroi, una tipologia che Vico riformula in termini non solipsistici, rimarcando il soccorso che queste figure d’eccezione hanno prestato all’umanità. È subentrato tuttavia un inquinamento per l’ingresso di quegli uomini che, a differenza degli optimi, si sono aggregati alle famiglie successivamente, per motivi utilitari, a costo di accettare mansioni servili. Questi servi perturbano le famiglie stesse, dando vita a rivolte solo sedate in precari armistizi e pronte a riesplodere. Proprio a causa di queste rivendicazioni e sommosse si organizza una socialità non limitata al nucleo familiare ma assurta a una misura più ampia: è la necessità di fronteggiare i rivoltosi che spinge i capifamiglia a confederarsi. Omero certifica il logoramento della supremazia e purezza della classe dominante, come dimostra la condiscendenza degli eroi, che contraggono matrimoni con straniere e generano bastardi destinati a subentrare nelle generazioni successive. L’urto fra popoli è dunque il riproporsi su un piano interetnico di una lotta di classe, e il resoconto del cantore-storiografo addita lacerazioni e compromessi, che incrinano la gerarchia di caste e di nazioni. A partire dalla Scienza nuova seconda, la comparazione tra Omero e Dante si sposta interamente su questo terreno, per cui Dante ottiene definitivamente il distintivo di «Toscano Omero», s’intende per la devozione agli accadimenti e la messe documentaria. Sappiamo che il binomio dei poeti sommi tende ad allargarsi in triangolazione, solo che adesso non è più Virgilio, ma Ennio. Posta all'inizio del Giudizio sopra Dante, la nuova terna, con Ennio al posto di Virgilio, consacra e assolutizza la dimensione storiografica dell’epos e poco importa che gli Annales muovano dalle origini di Roma, remote e leggendarie, conta invece la loro presa sulla contemporaneità, l’ampio resoconto delle guerre puniche. Quanto a Dante, non precisa quali vicissitudini egli abbia documentato, così prossimo agli scenari della penisola. Ma è da sottolineare l’attitudine di fondo che alla Commedia viene ora riconosciuta: l’autore della Commedia, per limitato che sia il suo raggio d’indagine, relativo esclusivamente a una nazione è qualitativamente al passo col magistero omerico. Vico non può ovviamente accantonare l’ambientazione escatologica della Commedia e, impegnato a fornire una ricostruzione completatenta di legittimare l’uno e l’altro genere di inquadrature praticate da Dante, ora storiche, ora ultraterrene. Primo storico italiano, Dante restava comunque poeta, e difatti rappresentava anche l’altro rispetto alla storia, al dato, al certo, coltivando con piena legittimità questo diverso ambito, in virtù appunto del proprio status. Nei poemi omerici, come negli Annales, il misto in questione risulta tale per il lettore evoluto, in grado di distinguere componenti storiche e componenti mitiche, mentre ai sensi della dottrina generale di Vico doveva sfuggire ai rispettivi autori, persuasi di aver sempre adeguato il vero. Solo in Dante il gesto che veris falsa remiscet può essere in tutto trasparente alla stessa coscienza dell’artefice. Scegliendo un nuovo terreno su cui radicare la Commedia, Vico poteva ribadire la tempra barbarica del poema dantesco e al tempo stesso esonerarlo dall’imbarazzante commisurazione con la mitopoiesi primordiale: il Dante cantore di storie vere rientrava ugualmente nella contestualizzazione del ricorso, nel quadro dell’Italia regredita e povera di cultura specialistica. Restava però la questione della componente escatologica: la risposta che Vico abbraccia è quella tradizionale, la risoluzione della scena e peregrinazione oltremondana in termini di fictio. Ora è possibile consolidare l’apparentamento tra lettere medievali e lettere classiche: ciò che hanno condiviso i fondatori di ogni epica nazionale, non è stato solo l’impegno con la storia coeva, ma lo stesso avvicendarsi di storia e di invenzione. Se non che, una simmetria del genere teneva solo a costo di alcune rimozioni: Omero ed Ennio non possono sapere che la loro è una miscela di storia e mito, Dante cristiano no. 5. Precauzioni e derive Il bilancio si può trarre è quello di un finale assestamento dell’opera di Dante su una piattaforma certamente inconsueta rispetto a un secolare indirizzo interpretativo. Se Vico, nella maturità, si è preoccupato dei possibili sconfinamenti della sua esegesi biblica, ugualmente cauto ha voluto essere riconfigurando la propria esegesi dantesca. In fondo, l’ultima parola di Vico su Dante potrebbe semplicemente risentire degli accertamenti omerici, e mirare a una simmetria maggiormente plausibile tra il poeta medievale e quello antico, simmetria imperniata sulla comune misura epico-storica, sul canto delle gesta, degli eventi e dei costumi. Vico non ha mai indicato in Dante una coscienza profetico-visionaria, né si è spinto a qualificare la Commedia come rappresentazione che il suo autore crede vera. Mancava del resto, in Vico, il passaggio intermedio indispensabile a un esito del genere, e cioè un’ accezione in chiave secolare dell’Antico e del Nuovo Testamento, un’attribuzione di entrambi all’ambito del primordiale e della mitopoiesi. Tanto che Vico, tornando a riflettere su linguaggio biblico e linguaggio poetico, finiva per rigettare alcuni spunti ambigui, che evidentemente gli apparivano troppo sbilanciati. La rottura epistemologica dell’Illuminismo e lo stesso riflusso ottocentesco avrebbero esposto l’opera di Vico proprio su quel confine che il suo artefice aveva solo avvistato, allontanandosene poi risolutamente. E a trarre conseguenze radicali sarebbe stato un lettore appassionato e debordante, Ugo Foscolo, a sua volta impegnato a cucire poesia e mito, religione e civiltà, recuperando a ritroso le origini teologiche delle nazioni. L’originalità del rilancio foscoliano deve non poco alla suggestione di un ben diverso paradigma, quello accreditato da Machiavelli e dai libertini, con la loro dottrina del legislatore e riformatore spregiudicato, disposto a perseguire il suo obiettivo anche col calcolo, e pronto a vantare un’ispirazione divina di fronte a interlocutori a un tempo refrattari e superstiziosi. Vichiano non ortodosso, Foscolo può rimuovere senza traumi un veto cruciale che l’autore della Scienza nuova si era imposto, può far scattare l’assimilazione della storia sacra alla storia profana, fino a una dilatazione universale della leva poetica e mitica. Su questa base, era lecito un passo ulteriore: autenticare un Dante arditamente profeta, forse persuaso egli stesso di aver ricevuto una visione, in ogni caso determinato a presentare le sue rivelazioni come vere e non immaginarie. Con la stesura del Discorso sul testo della «Commedia» di Dante, esito finale della riflessione sul poema sacro svolta negli anni inglesi, Foscolo compie questo passo. Non c’è dubbio: il Dante del Discorso non è quello di Vico. Eppure, è lecito sospettare che l’interpretazione foscoliana non avrebbe trovato con la stessa sicurezza la propria strada senza l’involontario input del filosofo di Napoli.