Scarica Riassunto Stoppelli Filologia Italiana (lettere moderne-uniba) e più Sintesi del corso in PDF di Filologia italiana solo su Docsity! FILOLOGIA ITALIANA La filologia è una disciplina che si colloca al crocevia di molte altre: la letteratura, la linguistica, ma anche la paleografia, la codicologia, la storia e la bibliografia. È grazie alla filologia che il testo assume la forma nella quale si presenta ai lettori. Il suo fine prioritario è quello di riportare i testi alla loro più probabile forma originaria. È compito della filologia anche accertarne la paternità o la data, leggerli alla luce dell’ambiente culturale da cui provengono, interpretarne correttamente i significati, ricostruire il percorso genetico del testo. La filologia italiana è un settore della filologia romanza. Oggetto di studio sono i testi in lingua italiana, in uno dei dialetti parlati in Italia o anche del latino scritto dal XIV secolo in poi. Il termine deriva dal greco filologìa “amante (philos) dei discorsi (logos), quindi “amante delle lettere”. o In epoca moderna la parola è venuta specializzandosi nel senso di “studio scientifico dei testi”. SUONI E SEGNI L’attività filologica si esercita sui testi scritti. La scrittura è un codice in grado di trasporre l’espressione linguistica nei segni di un alfabeto. Poiché i suoni delle lingue evolvono e gli alfabeti tendono invece a mantenersi stabili, accade che l’originale rapporto biunivoco tra suoni e segni possa, nel corso del tempo, essersi modificato. o In italiano, per esempio, per rendere il suono /k/ utilizziamo a seconda dei casi c, ch o q, oltre a k per parole importate da altre lingue. o La parola iniziale (Meravigliosamente) di una delle più note poesie di Giacomo da Lentini, si presenta nei tre manoscritti che la tramandano in tre forme diverse, con le varianti – lglio-/-glo-/-llio-. Queste grafie rappresentano un identico contenuto fonetico. o Nel corso dell’Umanesimo, da Petrarca in poi, viene introdotto l’uso di grafie modellate sul latino, e dunque le parole non hanno valore fonetico ma solo culturale. Nel Canzoniere di Petrarca troviamo, ad esempio, aspecto in rima con affetto. Non c’è dubbio che il nesso –ct- si leggesse in questo caso /tt/ Il metodo più efficace per acquisire la sensibilità necessaria a distinguere il contenuto fonetico di un testo dalla grafia che lo rappresenta è quello di trascrivere foneticamente le parole, utilizzando i simboli dell’alfabeto fonetico internazionale (IPA, International Phonetic Alfabet) Nei primi decenni del Trecento, la stampa non era stata ancora inventata. o Si scriveva a penna: gli stili di scrittura cambiavano a seconda della tipologia del libro dello status culturale e sociale dello scrivente. o Non esistevano regole ortografiche, ma solo abitudini. Nel corso della storia, l’uomo ha mutato molte volte il materiale di supporto della scrittura. o Nell’antichità, il materiale più largamente diffuso fu la foglia di papiro. Il papiro veniva coltivato soprattutto nelle zone paludose del delta del Nilo e dava luogo a fogli che si avvolgevano in un rotolo (lat. VOLUMEN, da VOLVERE “arrotolare”, da cui il nostro “volume”). o Contemporaneamente al papiro, già gli Egizi usavano la pergamena, pelle di capra, pecora o vitello opportunamente conciata. Il forte calo della produzione di papiro e le difficoltà degli scambi commerciali all’interno del Mediterraneo già prima del Mille portarono progressivamente alla sostituzione del papiro con la pergamena, ossia al passaggio dal rotolo al codice. o Già nel VIII secolo gli Arabi avevano importato dalla Cina la tecnica di fabbricazione della carta, materiale molto più economico ma anche più deperibile della pergamena. o I libri di pregio o i documenti ai quali si voleva garantire una durata nel tempo si continueranno ancora per secoli a produrre su pergamena, ma intanto la carta andava diffondendosi sempre più largamente come materiale scrittorio. o Con l’introduzione della stampa, la carta finisce per soppiantare del tutto la pergamena, diventando dalla fine del XV secolo in poi il materiale quasi esclusivo anche della scrittura a mano. o Oggi è sotto i nostri occhi un’altra trasformazione, ancora più radicale: il trasferimento del testo dalla carta al supporto digitale. I caratteri inchiostrati migrano dalla stabilità della pagina stampata all’immaterialità della memoria elettronica. Oggi scrivendo al computer possiamo scegliere tra molti set di caratteri e decidere lo stile del testo che si viene componendo. La scelta del font e dello stile ha in sé un valore comunicativo, è parte della semiologia del testo. o Il corsivo è utile per evidenziare parole che hanno particolari caratteristiche; o L’uso del grassetto serve invece a far rilevare l’importanza delle parole marcate. La varietà degli stili tipografici permessi dalla videoscrittura dà oggi, a ognuno di noi, una possibilità di scelta non dissimile da quella di cui godeva il copista medievale nell’allestire il suo manoscritto. o La disciplina che studia i testi antichi in relazione alle forme della loro scrittura è la paleografia. Dal punto di vista paleografico la tradizione letteraria italiana è interessata da diverse tipologie di scrittura: CAROLINA: Uno stile di scrittura tendenzialmente unitario, che dal nome di Carlo Magno prese il nome di scrittura carolina. La caratterizza una particolare chiarezza ed eleganza, ha andamento tondeggiante, le lettere e le parole sono tracciate senza un tratto continuo , il numero delle abbreviature è ridotto. Il disegno delle lettere riprende quello della minuscola antica, attestata dai codici latini del IV e V secolo che i dotti dell’età di Carlo Magno fecero trascrivere in gran numero. [PAG 20]. GOTICA: Si afferma definitivamente nel XII. Questa nuova maniera fu chiamata originariamente littera moderna, in contrapposizione alla littera antiqua dell’età carolingia; solo in età rinascimentale prese il nome allora spregiativo di “gotica” perché attribuita impropriamente al Medioevo barbarico. La nascita della gotica ha relazione anche con l’impiego di un nuovo strumento scrittorio: una penna, generalmente d’oca, con all’estremità un taglio obliquo (penna a punta mozza), che cambiava radicalmente il tratteggio, alternando tratti grossi ad altri sottili e dando al disegno delle lettere un andamento spezzato. Altri aspetti caratteristici della gotica sono la compattezza della linea di scrittura, l’avvicinamento delle righe fra loro. La gotica divenne la scrittura tipica del libro universitario medievale, acquisendo caratteristiche funzionali a questa tipologia libraria, per esempio l’abbondanza delle abbreviatura, rispondente a esigenze di risparmio di spazio e velocità di esecuzione. La Gotica italiana, rispetto a quella d’Oltralpe, conserva forme più morbide (detta anche gotica rotunda), dovute a una più lunga sopravvivenza nella nostra penisola della scrittura carolina. [PAG 21 ] Il commentator “il commentatore”, che combina scritti altrui con i suoi testi, ma questi hanno nell’insieme valore secondario; L’auctor “autore” che trascrive sia cosa sue che cose altrui, ma le sue hanno rilievo principale. LA TRADIZIONE Ogni passaggio di copia comporta fisiologicamente un allontanamento progressivo dall’originale. Questo può avere relazione con il trasferimento da una tipologia di trasmissione a un’altra o nascere da esigenze di adattamento a contesti culturali nuovi, o anche dipendere da accidenti involontari. La filologia lavora sui documenti esistenti del testo, i quali nel loro insieme costituiscono la sua tradizione, Ognuno di questi documenti si definisce un testimone. Si dice tradizione diretta quella del testo trascritto in quanto tale. Se invece esso è riportato parzialmente all’interno di un altro testo, oppure è tradotto in un’altra lingua, parafrasato, parodiato, se ne ha una tradizione indiretta. o Per i testi italiani le tradizioni indirette sono utili tutt’al più a documentarne la fortuna, ma risultano quasi sempre irrilevanti ai fini della ricostruzione testuale. o Nella tradizione greco-latina ci sono invece casi di autori e testi noti solo per tradizione indiretta, perché riportati da altri autori all’interno di loro opere. In questi casi la tradizione indiretta ha rilievo capitale. Altre classificazioni sono: tradizione plurima, quando il numero dei testimoni è molteplice; Manoscritta, se costituita di soli manoscritti; A stampa, fatta di sole stampe; Mista, insieme di manoscritti e stampe; Lineare, se si sviluppa in una sola famiglia; Ramificata se si distingue in più famiglie; Quiescente, quando nei passaggi di copia non si evidenziano intenzioni innovative; Attiva o caratterizzante nel caso contrario. Quando gli originali non sono conservati è compito del filologo riscoprire o ricostruirne l’autenticità della lettera. È un procedimento induttivo che giunge a risultati comunque ipotetici. Questa attività prende il nome di filologia di tradizione e riguarda sia le tradizioni manoscritte sia quelle a stampa. Se invece si conserva dalla documentazione d’autore si fa filologia a monte e non a valle dell’originale, con l’obiettivo di ricostruire il percorso genetico del testo fino a quando non raggiunge la forma definitiva. Questa pratica si definisce filologia d’autore. L’EDIZIONE Edizione deriva dal latino edere “dare fuori”. In filologia con editore si intende lo studioso che cura l’edizione critica. Un’edizione critica consiste in un’operazione di restauro. È necessario esaminare minutamente l’intera tradizione nota, cioè tutti i testimoni del testo. Il risultato è una pubblicazione in una forma ritenuta il più possibile coincidente con quella che l’autore voleva. La volontà dell’autore è dunque l’obiettivo dell’edizione critica. Si definisce ecdotica la teoria e la tecnica dell’edizione critica. L’esame critico della tradizione, finalizzato all’edizione del testo, prende invece il nome di critica del testo o testuale. Nel campo della filologia d’autore, l’edizione critica consiste nel pubblicare il testo nella forma definitiva voluta dall’autore, ma con l’intero corredo delle varianti della redazioni che hanno preceduto l’assetto finale. La qualità del testo critico di un’opera, cioè la sua prossimità all’originale, è in relazione con la qualità dei testimoni conservati. Il testo critico è il risultato di due fattori principali: Il numero e la qualità dei testimoni Il giudizio che il filologo dà di essi. Il testo critico può dunque cambiare: Perché ai testimoni noti se ne aggiungono altri prima sconosciuti; Perché l’editore, pur riferendosi a testimoni già noti, dà di essi una valutazione critica differente rispetto a quella di filologi precedenti. Un’edizione critica è però realmente tale solo se accompagnata da una nota al testo e dall’apparato critico. La nota al testo è quella parte del libro in cui il filologo-editore descrive i testimoni, traccia un profilo della tradizione, spiega le ragioni della preferenza accordata a un testimone o a una famiglia di testimoni rispetto ad altri, esplicita i caratteri da lui adottati nello scegliere o scartare le varianti, correggere gli errori. o Nella nota al testo sono definite le linee programmatiche a cui l’editore si è attenuto nella ricostruzione testuale. o Nel caso dei classici essa contiene l’indicazione dell’edizione critica o autorevole da cui il testo è stato tratto. È obbligo di chiunque pubblichi il testo di un classico dichiarare la fonte da cui lo ha acquisito. L’apparato critico è invece il diario di bordo del lavoro testuale. Consiste in una serie di note le quali danno conto, oltre che delle lezioni scelte, del perché questo sia avvenuto, della ragione di eventuali correzioni, delle possibili ipotesi alternative e di quant’altro possa essere utile a far luce sui singoli luoghi del testo. Tipologie di edizioni: Si definisce edizione meccanica la riproduzione di un documento testuale mediante fotografia tradizionale o digitale; in questo caso tra l’originale e la sua riproduzione c’è di mezzo solo un procedimento tecnologico, nessuna mediazione di ordine critico o filologico. o Il libro così prodotto prende il nome di facsimile. L’edizione diplomatica è un tipo di edizione che è una via di mezzo tra la rappresentazione fotografica del documento (edizione meccanica) e il testo ricostruito e codificato in forme moderne (edizione critica). Consiste nella riproduzione fedele con caratteri di stampa moderni del contenuto di un esemplare manoscritto. o Il nome è dato dalla modalità caratteristica con cui si pubblicano gli atti delle antiche cancellerie degli Stati (“diplomi”). o Una modalità ibrida di edizione diplomatica è la cosiddetta edizione diplomatico- interpretativa, che rispetta le particolarità grafiche del documento, dividendo le parole, introducendo i segni paragrafematici (accenti, apostrofi, punteggiature). Tale tipologia è riservata in genere alla pubblicazione di testi documentari, ma si impiega anche per i testi letterari pubblicati per un interesse prevalentemente linguistico L’edizione ammodernata è una riproduzione del testo nella forma in cui si legge oggi, cioè con parole separate o accorpate secondo il nostro uso, l’inserimento dell’interpunzione e degli altri segni paragrafematici, l’accapo dopo ogni verso. In alcune manoscritti più parole sono graficamente accorpate, vanno cioè a costruire una sola unità grafica. A questo fenomeno si dà il nome di univerbazione o anche di scriptio continua. Viene rappresentato in grafia unita tutto ciò che cade sotto lo stesso accento tonico. Ne consegue la realizzazione grafica del raddoppiamento fonosintattico (addue). Nell’italiano di oggi parole come soprattutto, affatto, pressappoco sono sopravvivenza di quell’antica pratica. La presenza di forme univerbate manifesta un’idea della scrittura come rappresentazione di un contenuto sonoro. È un segno della cultura medio-bassa del copista. Nella direzione opposta si orientano invece i latinismi grafici privi di valore fonetico (es. et). Questa tendenza andrà sempre più accentuandosi, estendendosi anche ai testi di cultura media e medio-bassa. IL MANOSCRITTO “Manoscritto” è propriamente qualsiasi documento scritto a mano. In filologia ci si riferisce solitamente a un libro cartaceo o pergamenaceo redatto a penna. Prese in latino il nome di CODEX, in origine “tronco d’ albero”, poi “tavoletta su cui si scrive” e poi per traslato i fascicoli uniti a formare un libro. o Da qui l’italiano codice, che è usato come sinonimo di manoscritto. La disciplina che studia i manoscritti nel loro aspetto materiale è la codicologia. Elementi che compongono un manoscritto: Il manoscritto è composto da una legatura di più fascicoli di carta o di pergamena, con l’aggiunta eventuale di una coperta e di fogli di guarda (inseriti a protezione della carta iniziale e finale). I fascicoli sono costituiti a loro volta da fogli piegati in due, a formare un bifolio, inseriti l’uno nell’altro e tenuti insieme da una cucitura. o Se il fascicolo è formato da due fogli bifolii si chiama “duerno” o “duernione”, da tre “terno” o “ternione” ecc… Le pagine dei manoscritti si chiamano carte e la loro numerazione avviene numerandone ciascuna progressivamente e specificando con i termini recto il lato A e verso il lato B o (es. pag. 1,2,3,4 diventano carta 1r,1v,2r,2v…). All’interno della biblioteca o dell’archivio in cui è conservato, a ogni manoscritto è attribuita una segnatura che costituisce anche il nome con cui esso viene identificato. La segnatura è costituita da due parti: o il nome del fondo a cui il manoscritto appartiene o il suo numero d’ordine interno. Quando nella biblioteca esiste un fondo unico si avrà solo il numero progressivo. o Ci sono casi in cui la pubblicazione può avvenire anche contro la sua volontà (es. Eneide che Virgilio ordinò di distruggere e Augusto fece pubblicare). L’originalità del testo è in filologia un valore primario. Leggere un testo nella forma voluta dall’autore è un’esigenza da tutti condivisa. È accaduto, in passato, che per ragioni indipendenti dall’autore i testi si siano letti o si continuino a leggere così come trasmessi inerzialmente dalla tradizione. A questi testi si attribuisce il nome di vulgata. o Nel costituirsi di una vulgata ci sono in genere ragioni storiche e non scientifiche. o La Vulgata per antonomasia è la traduzione latina della Bibbia realizzata da San Girolamo nel V secolo, per la Chiesa testo ufficiale dell’Antico e Nuovo Testamento fino al Concilio ecumenico Vaticano II. o Le Vulgate hanno un rilevante valore storico: oltre alla dimensione autoriale del testo esiste quella che riguarda la sua ricezione. IL COPISTA Prima dell’invenzione della stampa, la trasmissione del testo avveniva mediante copiatura manuale. Quella del copista era una vera e propria professione. Richiedeva, oltre alla padronanza della lettura e della scrittura, l’arte di realizzare uno stile grafico coerente o di progettare un’accettabile messa in pagina del testo. Nel Trecento e Quattrocento erano attivi nelle principali città centri scrittori legati a istituzioni, ma ne esistevano anche di privati, organizzati come botteghe artigiane. Ancora negli ultimi decenni del XV secolo, quando la stampa era già capillarmente diffusa, lettori ricchi ed esigenti rifiutavano di conoscere un posto d’onore nella propria biblioteca a libri prodotti con la nuova arte meccanica, giudicati rozzi a paragone dei bei pergamenacei scritti in elegante umanistica. I testi volgari viaggiavano in prevalenza su canali più modesti. o Il più largo bacino d’utenza e la conseguente maggiore richiesta di letteratura in volgare induceva al “fai da te”. Chiunque avesse una pratica sufficiente della scrittura poteva confezionarsi il libro che amava possedere. o I testi si trasmettevano così, passando di mano in mano, di copia in copia. L’ecdotica mostra grande interesse nei confronti dell’attività dei copisti, perché è attraverso i passaggi di copia che la tradizione si costituisce e purtroppo il testo si corrompe Il copiare comporta un aspetto mentale e uno materiale: oltre alle qualità personali contano le condizioni del momento. L’illuminazione, lo stato della vista, la stanchezza hanno infatti incidenza sulla resa qualitativa del lavoro, ma contano anche la cultura, l’origine geografica, le motivazioni personali. L’atto del copiare si realizza per tratti progressivi di testo più o meno brevi. Ogni passaggio è scomponibile in una successione istantanea di atti: o Lettura del modello; o Memorizzazione; o dettato interiore; o Esecuzione; o Ritorno al modello. A ognuna di queste fasi possono essere imputati degli accidenti che alterano il testo. LETTURA DEL MODELLO: L’atto di copia non avviene parola per parola. La prima operazione è quella di leggere dall’esemplare una pericope, cioè una stringa di testo costituita di più parole. La psicologia della lettura insegna che noi non percepiamo con l’occhio tutti i grafemi che costituiscono la parola, ma solo due-tre-quattro di essi e ricostruiamo mentalmente il resto sulla base del contesto. In questa fase si ingenerano i cosiddetti errori di lettura. Il copista può essere indotto a una cattiva lettura da una grafia poco chiara, ma contano anche il suo momentaneo stato psicofisico, la sua cultura. A seconda dello stile grafico della fonte, possono nasce equivoci nella lettura di certe lettere o di altre, come lo scambio molto comune di s e f nelle parole come sia e fia. L’errore può anche nascere dall’errato scioglimento di un’abbreviatura. Questi sono detti errori di origine paleografica. Gli errori di lettura sono quasi sempre classificabili come banalizzazioni. Le banalizzazioni sono sempre il risultato di un’interferenza tra la cultura del copista e quella dell’autore. MEMORIZZAZIONE: Dopo che la pericope è stata letta, l’occhio del copista si stacca dalla fonte per portarsi alla pagina da riempire. Questo passaggio richiede la necessità di mandare a memoria una porzione di testo. Anche in questa fase possono intervenire processi di banalizzazione. Gli errori specifici di questo passaggio riguardano per lo più l’omissione di parole per lo più brevi, soprattutto se sintatticamente deboli. DETTATO INTERIORE: La lettura di una pericope consiste in un’acquisizione visiva che nel momento della sua memorizzazione viene tradotta mentalmente in una rappresentazione acustica, prima che la mano la trasformi nuovamente in rappresentazione visiva sulla pagina. Questo passaggio mette in gioco le abitudini di pronuncia del copista. o Immaginiamo che un copista padano tre-quattrocentesco si trovi a leggere in un manoscritto toscano la forma ragione. Le sue abitudini di pronuncia non includono i suoni palatali, per cui nel passaggio dalla memorizzazione visiva alla dettatura interiore il suono si trasforma in s sonora. Ne consegue la forma rason o razon o raxon. ESECUZIONE: è il momento in cui la penna si poggia sulla carta per riportarvi quanto è stato letto, memorizzato e interiormente dettato. Nella fase di scrittura possono avvenire salti o duplicazioni di lettere o di sillabe, fusioni di parole ecc.. [VEDI PROSSIMA PAGINA LAPSUS CALAMI/TRASCORSI DI PENNA] RITORNO AL MODELLO: Dopo aver trasferito sulla carta la porzione di testo letta e memorizzata, nel ritornare alla pagina da cui si copia si cerca con l’occhio l’ultima parola trascritta. Se poco più avanti rispetto al punto in cui si era giunti è ripetuta la stessa parola o una a essa molto simile, può avvenire che si riprenda dalla seconda e non dalla prima a cui ci si era fermati. In questo modo si salta la parte di testo compresa fra le due parole identica o quasi identiche. Questo errore è detto con espressione francese saut du meme au meme, cioè salto dallo stesso allo stesso (nel gergo dei tipografi è chiamato pesce). Ognuno di noi scrivendo commette piccoli errori, chiamati TRASCORSI DI PENNA, in latino LAPSUS CALAMI. In filologia questi inconvenienti sono adeguatamente classificati. APLOGRAFIA: Omissione di una sillaba o di una parola di due consecutive identiche o molto simili. Es. filogia per filologia, mercante per mercantate. DITTOGRAFIA: Duplicazione impropria di una sillaba o di una parola , l’opposto dell’aplografia. Es. biolologia per biologia. OMOTELEUTO: Due parole contigue che terminano con lo stesso gruppo di lettere vengono fuse in un’unica parola. Es. avvoc – ato abbindol – ato = avvocato. OMEOARTO: Due parole contigue che iniziano con lo stesso gruppo di lettere vengono fuse nella stessa parola. Es. avv - ocato avv - elenato = avvelenato. ERRORE DI ANTICIPAZIONE: Una parola che ricorre più avanti nel testo viene anticipata al posto di un’altra, soprattutto se grammaticalmente compatibile con il contesto. ERRORE DI RIPETIZIONE: Errore opposto del precedente, una parola già trascritta viene ripetuta più avanti in luogo di un’altra . ERRORE POPOLARE: Sostituzione di una parola con un’altra che esprime il concetto opposto. Es. futuro dove il contesto richiederebbe passato. § ) Per il filologo il copista migliore è quello che esegue il più passivamente possibile il suo lavoro, fino ad arrivare a “disegnare” la parola se non riesce a leggerla, che difronte a un luogo che giudica corrotto non corregge facendo delle induzioni personali. § ) Il cattivo copista è quello che ha la preoccupazione della compiutezza del testo, per cui corregge dove ritiene che ci sia errore, integra di sua iniziativa e mette in gioco nella trascrizione le sue abitudini linguistiche, il suo gusto letterario e il suo giudizio morale. Un fattore non trascurabile che incide nella qualità della copia è dato dall’intrinseca autorevolezza del testo. Per le opere letterarie, quanto maggiore è l’autorevolezza del testo, tanto più l’amanuense ha un atteggiamento di rispetto nei suoi confronti. A garantire la sostanziale uniformità strutturale del testo della Commedia dantesca nella sua tradizione manoscritta contribuì l’idea di un poema divinamente ispirato, perciò in un certo modo assimilabile alle Sacre Scritture. All’altro capo troviamo i testi di circolazione popolare, passibili di subire alterazioni anche sostanziali nei passaggi di copia. Fino ad arrivare all’estremo dei testi di circolazione orale, per i quali nel momento in cui vengono fissati sulla carta ogni attestazione finisce per essere un testo a sé. In epoca di circolazione manoscritta poteva accadere che, successivamente alla pubblicazione di un’opera, l’autore ne esemplasse una copia di sua mano. Anche se l’intenzione non era quella di dar vita a una seconda redazione, era facile che nel corso della ricopiatura egli inserisse delle modifiche rispetto al testo precedente. Queste varianti entrano con piena legittimità a far parte del testo, configurando di fatto una nuova redazione. IL PROBLEMA DELLA GRAFIA: I testi in italiano antico, se resi esattamente nella forma dei documenti che li trasmettono, rischiano di essere illeggibili o quasi a lettori di oggi non specializzati. Si rende quindi necessaria un’operazione di transcodifica. Se limitata a questi aspetti, l’operazione di adeguamento alla nostra modalità di scrittura non modifica la sostanza del testo né foneticamente né graficamente. Nella nostra tradizione filologica è comune l’uso di ammodernare anche la grafia delle parole, cioè di ricondurla all’ortografia moderna, purché sia fatto salvo il rapporto fra grafia e pronuncia, ossia non si intacchi la sostanza fonetica del testo. o Se uno scrittore quattrocentesco scrive, per esempio, actione, secondo questo criterio si può stampare azione, tradendo la grafia originale, ma rispettando i suoni. o È la cosiddetta norma Barbi-Parodi, che fu applicata nell’edizione della Commedia di Dante nel 1921: la tradizione grafica non sempre corrisponde al suono, meglio è, dunque, che l’editore adotti un sistema di rappresentazione che consenta a tutti la pronta e sicura percezione del fenomeno fonetico e morfologico. Il risultato è che noi conosciamo i classici italiano dei primi secoli in una forma che potremmo definire per l’orecchio ma non per l’occhio. Questo comporta anche una perdita di informazione culturale. Fino al Cinquecento, l’unico testo che leggiamo in grafia originale è il Canzoniere di Petrarca. o Questa scelta si deve a Gianfranco Contini ed è giustificata non solo dall’autografia del manoscritto di riferimento, ma anche dalle cure che Petrarca mise nella sua redazione. o Anche l’Hamilton 90 è un autografo, ma il testo del Decameron oggi circolante è in grafia ammodernata. Questo determina un appiattimento della prospettiva storico-linguistica. I testi appaiono linguisticamente più moderni di quanto in effetti non siano nelle fonti che li trasmettono. Ma le edizioni in grafia ammodernata dopo qualche decennio potrebbero risultare insoddisfacenti. Dal Seicento in poi si stabilizza una norma ortografica, seppure non rigidissima: di conseguenza gli ammodernamenti diventano più moderati, fino a giungere ai testi ottocenteschi, che si pubblicano criticamente senza alcun intervento sulla grafia, anche dove la pratica grafica non coincide del tutto con quella attuale. L’AMMODERNAMENTO: Il criterio fondamentale che si osserva è distinguere i tratti grafici che sono portatori di specifici contenuti fonetici o culturali da quelli che, seppure disordinanti dagli usi moderni, rispondono invece a pratiche di scrittura prive di significatività. Per esempio, nella grafia del volgare dura a lungo l’abitudine di scrivere cha, cho, chu per analogia a che, chi, oppure di inserire il nesso latineggiante –ct- in parole come decto, facto, o avere in uso grafie singolari, come Machiavelli fa con la parola quore. In questi casi in genere si ammoderna. I criteri adottati nell’ammodernamento devono essere esplicitati analiticamente dall’editore in una sezione della nota al testo. Ci sono testi che si pubblicano non per un interesse solo letterario, ma perché documentano momenti o aspetti interessanti della storia della nostra lingua o dei suoi dialetti. In questi casi l’edizione deve farsi necessariamente con criteri diplomatico-interpretativi. La conservazione della grafia originale del documento ha infatti qui valore sostanziale. Ludovico Ariosto pubblicò la prima edizione dell’Orlando Furioso nel 1516. Ne avrebbe poi pubblicato una seconda e una terza nel 1521 e nel 1532. Il testo dell’Orlando che noi oggi leggiamo è quello della terza edizione, che corrisponde all’ultima volontà dell’autore. Del testo dell’edizione del 1516 è stata allestita un’edizione critica da Dorigatti e Stimato. Essa rientra nella tipologia dell’edizione unitestimoniale. o Gli editori hanno dato luogo a un’edizione conservativa: hanno sciolto le abbreviazioni, inserito i segni interpuntivi, apostrofi, accenti, distinto u da v , separato le poche forme univerbate, ma non sono intervenuti sulle grafie etimologiche, come la h iniziale , né normalizzato l’uso delle maiuscole (Re Carlo Imperator Romano). o Se avessero ammodernato questi tratti, il testo si sarebbe presentato nella forma in cui abitualmente noi leggiamo i testi rinascimentali. L’editore si fa carico anche di inserire la punteggiatura nel testo. Questa è un’operazione delicata, perché potrebbero esistere luoghi del testo che veicolano significati differenti a seconda di come li si punteggia. Un caso in cui una virgola in più o in meno mette in gioco addirittura questioni teologiche è quello dei vv 16-19 del canto II dell’Inferno di Dante. o Esaminando le edizioni Petrocchi e quella della Società Dantesca, possiamo notare come la differenza sostanziale stia nella virgola in più(Petrocchi) o in meno(Società Dantesca) che segue la parola lui. o Si parla di Enea, destinato dalla provvidenza divina a compiere un viaggio nell’oltretomba per essere investito di una missione alla quale avrebbe fatto seguito la fondazione di Roma e la nascita dell’Impero. o Nella punteggiatura dell’edizione Petrocchi è Enea, nella sua essenza e qualità, a essere giudicato “omo d’ intelletto” degno di compiere quel viaggio. o Nell’edizione precedente della Società Dantesca è invece l’operato di Dio a essere sottoposto al giudizio di “omo d’intelletto”, cosa che dal punto di vista teologico è improponibile. IL METODO DI LACHMANN Se i documenti che trasmettono il testo sono più di uno e nessuno di questi è l’originale, l’edizione critica consiste in un’operazione di maggiore complessità. Il filologo tedesco Karl Lachmann, nell’edizione del De rerum natura di Lucrezio del 1850 espose i principi del metodo che prende il suo nome. Effettuata la ricognizione dei testimoni si rende necessaria la loro classificazione. LA COLLAZIONE: Comparando le differenze è possibile tentare di ricostruire il dettato originario. “Comparare” significa confrontare tutti i testimoni parola per parola. La collazione (dal lat. COLLATIO, da CONFERRE “riscontrare, confrontare”) è il momento dell’analisi comparativa dei testi trasmessi. La collazione è un passaggio cruciale ed è il caso di ripeterla più di una volta. Non è possibile ricorrere all’uso di strumenti automatici, né sarà opportuno delegarla ad altri. È nel corso della collazione che il filologo stabilisce un contatto microanalitico con il testo, comincia a farsi una prima idea di quali siano i rapporti di parentela fra i testimoni. Se i testi da collazionale non presentano divergenze tali da essere incomparabili, il risultato della collazione consisterà in un elenco più o meno fitto di lezioni varianti. o La variante è una possibilità alternativa del testo, che non ne turba il senso quand’anche fosse poco consona con lo stile dell’autore o stilisticamente inferiore alla lezione concorrente. o Errore è invece una lezione che giudichiamo l’autore non avrebbe mai coscientemente riconosciuta come propria, perché linguisticamente inaccettabile o contraria alla logica. GLI ERRORI-GUIDA: Per stabilire i rapporti esistenti fra i testimoni si fa leva sugli errori, non sulle varianti. Si prendono in esame solo quelli giudicati significativi, detti errori guida. Un errore comune a più testimoni è detto errore congiuntivo e si considera errore-guida se si tratta di un errore ereditato da un precedente comune. Un errore presente in un testimone e non presente in un altro è un errore disgiuntivo o separativo e si considera errore-guida se è molto improbabile che nel testimone che ne è privo la lezione corretta possa essere stata ripristinata per congettura. La presenza di almeno un errore-guida congiuntivo indica parentela fra i testimoni, quella di almeno un errore-guida separativo indica una disgiunzione. Gli errori-guida sono il mezzo attraverso cui possiamo ricostruire i rapporti genetici dei testimoni. Questa operazione fa fondamento su due postulati: o l’originale è per definizione privo di errori; o non esiste passaggio di copia che non comporti l’introduzione di almeno un errore significativo. Legenda: indichiamo con le lettere dell’alfabeto latino maiuscolo gli esemplari esistenti, con quelle dell’alfabeto greco o latino minuscolo gli esemplari che si suppongono esistiti in base al riscontro di quelli disponibili. Con O l’originale, soprattutto se esistente, con ω l’originale perduto; x indica l’archetipo, cioè l’antecedente non conservato da cui tutta la tradizione dipende. Usiamo il simbolo = per indicare la presenza di un errore congiuntivo, il simbolo ≠ per indicare un errore separativo Immaginiamo di avere due testimoni A e B. Nessuno dei due è l’originale. I rapporti possibili fra A e B sono i seguenti: 1. B è esemplato da A; 2. A è esemplato da B; 3. A e B sono derivanti indipendentemente dall’originale; 4. A e B sono derivanti indipendentemente da un manoscritto che non è l’originale. B ESEMPLATO DA A: A, non essendo l’originale, avrà per definizione almeno un errore suo proprio che passa in B; a sua volta B introdurrà almeno un errore significativo nel suo testo. A invece non potrà avere nessun errore-guida separativo, avendoli B tutti ereditati. Le relazioni esistenti sono così rappresentabili A= B ; B ≠ A A ESEMPLATO DA B: A ruoli invertiti vale il procedimento è il medesimo A= B ; A ≠ B D ≠ tutti E ≠ A, B, C, D (è esemplato da lui F, quindi non può avere errori guida separativi) F ≠ tutti Un qualsiasi stemma non rappresenta l’evoluzione reale della tradizione di un testo, ma soltanto i rapporti genetici esistenti tra i manoscritti e/o le stampe conservate. Un manoscritto A collegato direttamente all’originale nello stemma potrebbe essere invece il risultato di tre copie nell’albero reale. L’assenza di intermediari nello stemma potrebbe infatti non corrispondere alla realtà di quanto avvenuto Una volta definiti nello stemma i rapporti genetici esistenti fra i testimoni, disponiamo di un nuovo strumento che ci guiderà ulteriormente nel processo ricostruttivo. Si eliminano i testimoni descritti (eliminatio codicum descriptorum) , quelli che lo stemma ci attesta essere copie di altri testimoni posseduti. Riprendendo l’ultimo stemma riportato, supponiamo che in un luogo A e B presentino la variante alfa e C quella beta. Se la lezione di A è comune a B, appartenendo i due testimoni a rami diversi dello stemma, quella lezione è necessariamente quella di ω. La variante C sarà invece una lezione singolare di questo testimone. o In questo caso la scelta della lezione è stata fatta con un criterio oggettivo, imposto dai rapporti genetici evidenziati dallo stemma. o Siamo in una situazione che in filologia si definisce recensio chiusa. o Non conta naturalmente il rapporto maggioritario di due a uno, ma la presenza della stessa lezione in rami diversi. Facciamo invece il caso che A registri una lezione alfa e B e C una lezione beta. Lo stemma ci dice che in questo caso non potremo fare una scelta automatica, dovremo regolarci sulla base di altri criteri. o Questa situazione si definisce di recensio aperta. Se la recensio è aperta, la scelta della variante si dovrà fare in base a una valutazione di ordine stilistico. Il primo criterio da considerare è quale delle due lezioni concorrenti presenti le caratteristiche di lectio difficilior e quale di lectio facilior. o La contrapposizione fra una lezione “più difficile” e un’altra “più facile” fa riferimento alla fenomenologia degli errori di copia. Si suppone cioè che le innovazioni verificatesi durante la copia siano sempre banalizzazioni della lezione originale e dunque che la lezione meno ovvia debba essere riconosciuta come quella d’autore. o Se poi si riesce a spiegare come si sia generata la facilior dalla difficilior, per esempio con uno degli errori tipici dell’atto di copia, le probabilità aumentano. Se le due lezioni concorrenti non si lasciano scegliere in base al carattere “più facile/più difficile”, si adotta un secondo criterio di scelta: l’usus scribendi. o Consiste nel valutare quale delle due lezioni concorrenti sia maggiormente rispondente agli usi stilistici dell’autore o del genere a cui l’opera appartiene. Se neppure questo secondo criterio risulta utile ad accordare la preferenza a una delle due lezioni concorrenti, siamo allora in condizioni di adiaforia (indifferenza); le lezioni attestate sono in altri termini stilisticamente equivalenti. o Siccome dovremo comunque scegliere una lezione da mettere a testo, si accorderà la preferenza a quella delle due che appartiene al testimone o alla famiglia di testimoni che risulta nel complesso qualitativamente migliore. Dopo la recensio segue la costituzione del testo che comporta l’esame ( examinatio ) del testo parola per parola per valutare ogni singola lezione, qualora vi siano divergenze tra i testimoni: è necessario stabilire quale delle lezioni divergenti debba riconoscersi come originale e quale invece variante o errore di tradizione. Nel caso in cui le lezioni siano ritenute tutte erronee, si procederà nei limiti del possibile a emendare, cioè a correggere il testo ( emendatio ). o Se l’emendamento consiste in una proposta integrativa, la porzione di testo aggiunta si inserisce fra parentesi uncinate ( < … > ); o se invece consiste in un’espunzione, la porzione di testo espunta si racchiude fra parentesi quadre ( [ … ] ). La valutazione comparativa delle lezioni divergenti potrebbe anche portare a ipotizzare che le lezioni attestate siano tutte corruzioni a partire da una forma non attestata: in questo caso avremmo diffrazione in assenza; Se alcuni testimoni divergono, ma la forma corretta è attestata da un altro o da più testimoni, le lezioni erronee divergenti costituirebbero un caso di diffrazione in presenza. Le lezioni non accolte a testo e tutte le osservazioni che si ritengono utili a giustificare le scelte operate confluiranno nell’apparato critico. L’apparato critico consiste in una serie di note che corrono parallelamente al testo con il fine di documentare e giustificare luogo per luogo le scelte effettuate dall’editore. o Vengono elencate le lezioni non accolte, con l’indicazione della sigla del testimone a cui esse appartengono ( apparato critico negativo ). A esse in genere si fa precedere per chiarezza la lezione a testa, cioè quella accettata, seguita da parentesi quadra di chiusura. o Se i testimoni sono numerosi si mette in apparato solo l’indicazione del testimone o della famiglia di testimoni portatori della lezione messa a testo (apparato critico positivo). o Una soluzione ibrida si può avere quando, per la migliore leggibilità dell’apparato, l’editore sceglie di indicare sia le fonti della lezione accettata sia quelle delle varianti non accolte. o Poiché la decisione di mettere una lezione a testo e un’altra in apparato deriva sempre da un ragionamento fondato su un criterio di probabilità, non bisogna considerare la lezione a testo come manifestazione certa della volontà dell’autore e quella in apparato materiale di scarto. Un altro filologo potrebbe dimostrare con ragioni altrettanto stringenti che è proprio la lezione in apparato quella che ha maggiore probabilità di corrispondere all’originale. METODI OBSOLETI Il metodo di Lachmann soppiantò altre procedure secolari nel campo dell’edizione dei testi. Tra queste vi sono Il codex plurimi, secondo cui si deve scegliere la lezione attestata dal maggior numero di manoscritti, indipendentemente dalla loro classificazione. o Non è un metodo scientifico perché, se anche un numero elevato di testimonianze concordasse in una lezione contro quella di un solo altro manoscritto, se questa maggioranza appartenesse a un’unica famiglia, il rapporto sarebbe comunque di uno a uno. Il codex vetustissimus, che consiste nel dar fiducia a quel manoscritto che è il più antico fra quelli conservati. o La qualità del testo di un manoscritto non dipende dalla distanza cronologica che lo separa dall’originale, ma dai passaggi di copia che sono intervenuti. Il codex optimus accorda la preferenza a quel testimone che a impressione del critico viene giudicato più affidabile. Neppure questo è un metodo scientifico : o per la soggettività della scelta; o perché, se anche un manoscritto fosse complessivamente migliore di altri, non per questo tutte le sue lezioni sarebbero sempre da preferire a quelle concorrenti. Il textus receptus, cioè la vulgata. o Il fatto che una particolare forma del testo abbia avuto prevalenza su altre dipende da ragioni storiche, spesso determinate da casualità, non implica cioè in alcun modo fedeltà all’originale. I LIMITI DEL METODO DI LACHMANN Sebbene tale metodologia si fondi su concetti di immediata evidenza e in astratto oggettivamente definibili, quando ci si cala nel flusso reale dei testi, lo statuto di questi concetti diventa quanto mai incerto e le decisioni richiedono in continuazione valutazioni soggettive. Per impiegare con risultati accettabili il metodo di Lachmann è necessario che la tradizione nota di un testo abbia caratteristiche particolari: deve essere tendenzialmente passiva e non caratterizzante; deve avere dietro di sé un archetipo; i rapporti di derivazioni devono essere solo di tipo verticale. o Non era legittimo fondare la scelta delle varianti su un’ipotesi di derivazione genetica dei testimoni giudicata soltanto plausibile e sacrificare invece forme del testo storicamente attestate come quelle documentate da manoscritti e stampe antiche. Elaborò dunque il suo metodo: Dopo aver analizzato a fondo la tradizione e avere eventualmente fatto delle ipotesi sui rapporti di derivazione dei testimoni, sta al filologo stabilire quale di essi debba essere scelto a fondamento della propria edizione. o Questo prende il nome di bon manuscrit, che può essere ovviamente integrato e corretto al confronto di altri testimoni qualora si accerti la presenza di errori. o In questa maniera il testo pubblicato avrebbe avuto comunque un fondamento storico. Questo criterio si avvicina ma non ripristina il metodo antiquato del codex optimus, la cui scelta avveniva senza analizzare la tradizione e classificare i testimoni. Il metodo di Lachmann , secondo Bedier, era praticabile fino al momento della costituizione dello stemma: poi era necessario prendere la strada del buon manoscritto. PASQUALI: Pasquali era un filologo classico, con interessi anche in ambito romanzo. Egli non demoliva il metodo di Lachmann, ma ne correggeva la meccanicità con un forte richiamo a considerare le peculiarità delle singole tradizioni. La sua dottrina non invitava a rinunciare al metodo, ma piuttosto ad applicarlo senza rigidità. La novità sostanziale della sua posizione era giungere a una persuasiva ricostruzione testuale studiando a fondo la storia della tradizione, quindi tutti i documenti che la costituiscono, le condizioni, gli ambienti in cui hanno avuto origine, la loro natura di oggetti materiali. La qualità dell’esercizio critico dipendeva in altri termini anche dalle informazioni che si riusciva a raccogliere intorno a ogni manoscritto o stampa da cui il testo veniva trasmesso. La correzione in senso storicistico del metodo di Lachmann ha dato luogo a quello che oggi viene definito neo-lachmannismo BARBI: Nell’ambito della filologia italiana lo studioso più rappresentativo della prima metà del Novecento è stato Michele Barbi. Esercitò la parte più importante della sua attività sulle opere di Dante. Barbi avvertiva come altri l’insufficienza del metodo di Lachmann, ma riteneva anche che disconoscere una procedura che in molti casi riusciva a dare risultati soddisfacenti significava rinunciare al bene per inseguire le strade incerte del meglio. In ecdotica ogni caso era un caso a sé, che bisognava affrontare valutando “qual è il problema critico che il testo presenta e risolverlo con tutti quei mezzi e per tutte quelle vie che meglio portano alla più fedele riproduzione di esso. Non esistevano dunque metodi buoni o meno buoni in generale. La preoccupazione di introdurre elementi di soggettività era anch’essa una falsa preoccupazione se chi lavorava sul testo aveva giusta disposizione e capacità sufficienti. Questo punto di vista resta a fondamento dei migliori risultati ottenuti nell’ambito degli studi filologici italiani FILOLOGIA DEI TESTI A STAMPA La riproduzione manoscritta è opera di un’unica persona e dà luogo a un’unica copia. La riproduzione a stampa comporta una lavorazione di tipo industriale, impegna più soggetti, implica una tecnologia più complessa di quella della scrittura manuale, riproduce il testo in un numero elevato di copie. Tutti gli aspetti implicati nella produzione del libro a stampa sono oggetto di studio della bibliografia. L’intreccio tra filologia e bibliografia è diventato così stretto da dare vita alla bibliografia testuale. o La bibliografia testuale è una disciplina che considera il testo come oggetto materiale e per questa via acquisisce informazioni che possono rivelarsi di importanza fondamentale nelle scelte filologiche. Nel processo di stampa manuale varie sono le figure professionali impiegate: Lo stampatore, che è responsabile dell’intero processo produttivo; I compositori che hanno il compito di costituire la forma tipografica, scegliendo i caratteri; Il correttore-revisore che corregge le bozze; I torcolieri che imprimono la forma foglio dopo foglio, inchiostrandola ad ogni passaggio Tecnica di descrizione per il libro a stampa. Frontespizio: nome dell’autore, titolo... ; Colophon: iscrizione terminale che comprende nome del tipografo, luogo e anno di stampa, registro …; Il formato; La formula di collazione; Il tipo di carattere. Alla prima edizione a stampa di un’opera si dà in filologia il nome di editio princeps. I compositori, rispetto agli amanuensi, hanno sicuramente una formazione meno letterata. Al loro mestiere è comunque connaturato un aspetto più meccanico. Come gli amanuensi, anche i compositori introducevano modifiche nei testi. o Quando nelle stampe parliamo di errori, facciamo ovviamente riferimento a quelli che hanno superato indenni il filtro della correzione delle bozze. La differenza sostanziale che corre tra il modo di operare dell’amanuense e quello del compositore riguarda anzitutto la velocità del lavoro. o La scrittura a mano è molto più rapida della composizione tipografica a caratteri mobili. o L’amanuense è portato a leggere e memorizzare dei tratti di testo di una certa ampiezza, il compositore proprio per la lentezza della compilazione non può leggere che poche parole per volta. Essendo il compositore tenuto a ritornare molte più volte con gli occhi sulla copia, aumentano soprattutto in prosa le probabilità di caduta di singola parole o di saut du meme au meme . Errori specifici della composizione tipografica possono comparire o perché si attinge a uno scomparto sbagliato delle casse o perché nella scomposizione delle forme è finito in uno scomparto un carattere sbagliato (cassa inquinata). o Lo scambio non insolito di u e n è in genere legato a questa eventualità. La filigrana è il marchio di fabbrica della cartiera da cui è uscito il foglio. In genere consiste nel disegno di una figura araldica o di un altro soggetto. La filigrana è sempre collocata al centro di una delle due metà del foglio o Nel formato in-folio cade al centro della pagina; al centro dell’altro mezzo può trovarsi talora una contromarca, un altro disegno. o Nell’ in-quarto è collocata, divisa in due parti, a metà della pagina. o Se il formato è in-ottavo risulta divisa in quattro parti sull’estremità in alto della pagina. La filigrana può fornire informazioni importanti su luogo e data di produzione della carta e di conseguenza sul libro che l’ha impiegata La scarsa disponibilità di caratteri nelle tipografie quattro-cinquecentesche richiedeva di ridurre al minimo il tempo di immobilizzazione delle forme già composte, con la conseguenza che, per guadagnare tempo, la tiratura veniva avviata mentre ancora non si era finito di correggere le bozze. Nel momento in cui si riscontrava un errore, si fermava la tiratura, si apriva la forma e si eseguiva la correzione, quindi si riprendeva la stampa. I fogli già stampati, anche se imperfetti, venivano comunque utilizzati: non si poteva mandarli al macero, incidendo il costo della carta in maniera rilevante sui costi complessivi di produzione del libro. Il risultato di questa proceduta è che dalla tipografia uscivano fogli di stampa che presentavano al loro interno delle varianti ( varianti di stato ) e dunque che non tutte le copie uscite dalla stesse tiratura erano fra loro identiche. Ne consegue che nell’allestire l’edizione critica di un testo trasmesso da stampe, si dovrebbero teoricamente collazionare tutte le copie sopravvissute dell’edizione. Dall’analisi delle varianti di stato si dovrebbe quindi arrivare a definire quale fosse la forma del testo che lo stampatore intendeva realizzare ( esemplare ideale ). Un punto di vista diverso tra manoscritto e libro a stampa riguarda anche il testo. Il costituirsi di un mercato nazionale non poteva prescindere dall’esigenza di una lingua il più possibile standardizzata. o Ciò comporta l’abbandono progressivo delle lingue di koinè regionali e il consolidamento di una tendenza unitaria. La figura professionale che porta la responsabilità di questo processo di standardizzazione è il correttore editoriale. o A svolgere questo ruolo possiamo trovare ora un vero e proprio filologo, ora un mediocre letterato o un grammatico, ora un semplice correttore di bozze. o Nel correttore filologo le scelte editoriali sono il riflesso di ben precise posizioni retorico- grammaticali; nel mestierante il lavoro di revisione avviene sulla scia di una pratica corrente, priva di coerenza teorica e incline a soluzioni semplicistiche. Come risultato vi è un abbandono delle forme linguistiche troppo localmente marcate, la tendenza alla semplificazione della sintassi, la chiarificazione (quindi banalizzazione) di passi non compresi. I modelli linguistici di riferimento finivano inevitabilmente per essere i grandi trecentisti toscani. Se il testo era già passato sotto i torchi, nessuno stampatore successivo, a meno che non fosse sollecitato da ragioni particolari, preferiva prendere a base della nuova composizione una versione manoscritta. Quando i tipografi ne hanno la possibilità preferiscono addirittura seguire pedissequamente l’edizione precedente, stampando il testo sulla sua falsa riga. La redazione iniziale dei Promessi sposi è da noi conosciuta con il titolo non ufficiale di Fermo e Lucia. Il Fermo e Lucia non sarà mai pubblicato dall’autore. Dal 1823 Manzoni ne avvia la riscrittura, che comporterà importanti modifiche strutturali, come l’eliminazione di parti anche ampie o l’aggiunta del racconto dei fatti successivi al matrimonio dei due protagonisti, ma lo scrittore sarà anche impegnato nel tentativo di volgere al toscano vivo ottocentesco la lingua del Fermo. Il lavoro durò più di tre anni e, dopo una redazione intermedia si concluse nel luglio del 1827 con la pubblicazione di un’opera completamente diversa, con il titolo che resterà definitivo: I promessi sposi. È la cosiddetta “ventisettana” del romanzo. Per Manzoni il risultato, dal punto di vista linguistico, non era ancora soddisfacente. Così, senza più mettere mano all’impianto narrativo, intraprende una nuova e definitiva riscrittura. o Lavorò correggendo a penna una copia della ventisettana e pubblicò il romanzo con il titolo definitivo di Promessi Sposi a partire dal 1840. o Questa edizione è detta la “quarantana”. Manzoni si era riservato la più ampia facoltà nella correzione delle bozze. Di questa clausola l’autore se ne giovò fino al punto di continuare a correggere il testo anche dopo che la tiratura dei fogli era stata avviata, con il risultato che anche in questo caso, gli esemplari usciti da una stessa impressione presentano al loro interno un numero considerevole di varianti di stato. FILOLOGIA D’AUTORE Nella filologia di tradizione l’impegno critico è volto a ricostruire il testo nella forma più possibile vicina a quella dell’autore. Se invece questa volontà è nota perché fissata in un autografo, un idiografo o una stampa da lui sorvegliata, ecco che il compito del critico diventa un altro: mettere in ordine nelle carte e documentare il processo attraverso cui il testo giunge alla forma definitiva. Il risultato del lavoro sarà ancora un’edizione critica, ma in questo caso la gerarchia di importanza fra testo e apparato è invertita: la parte significativa dell’edizione non è il testo, ma l’apparato che ne documenta le fasi evolutive. Quando esistono più redazioni d’autore ed eventualmente altro materiale intermedio, nella rappresentazione dell’apparato critico si possono adottare due diversi punti di vista: o Mettere a testo la sua prima forma e documentare in apparato le modifiche via via intervenuto (apparato evolutivo) o Stamparlo nella forma d’arrivo e considerare le varie fasi redazionali come momenti che portano all’esito finale (apparato genetico). Questo è possibile solo se le diverse fasi redazionali divergono fra loro per varianti di piccola entità. Quando invece il testo di una fase redazionale non è compatibile con la precedente o la successiva ogni redazione va considerata come testo a sé. o In questo caso l’editore è tenuto a scegliere in base a un giudizio critico quale fra le redazioni attestate sia più opportuno pubblicare e se non sia il caso di pubblicarle separatamente. La filologia d’autore è propria delle filologie moderne. Non esiste una forma standard per la rappresentazione dell’apparato critico di testi come invece succede nella filologia della tradizione. o L’apparato sarà organizzato tipograficamente secondo la modalità che risulterà più adeguata alla natura dei materiali di cui si dispone, con l’unico fine di rappresentare i dati con il massimo di chiarezza e leggibilità. La critica degli scartafacci: con questa formula Gianfranco Contini rende le finalità della filologia d’autore: Riordinando le carte dello scrittore e ricostruendo il percorso delle varianti è possibile entrare idealmente nella sua officina, di osservare dal vivo il divenire del processo creativo, di stabilire un contatto ravvicinatissimo con il testo. A tale attività si dà il nome di critica delle varianti. La critica delle varianti è la finalità della filologia d’autore. IL CANZONIERE DI PETRARCA: Del capolavoro volgare di Petrarca si conservano due manoscritti autografi: Il Vaticano latino 3195, che contiene la redazione definitiva del Canzoniere; Il Vaticano latino 3196, conosciuto come codice degli abbozzi. o Questo non nasce originariamente nella forma di libro, ma risulta dalla legatura realizzata in età rinascimentale di carte appartenute a Petrarca. o Alcuni componimenti del Vaticano Latino 3195 hanno nel 3196 la loro redazione precedente. L’iter compositivo del Canzoniere può essere seguito anche su altri manoscritti, che seppur non d’autore, ne riflettono gli stadi progressivi di formazione. REDAZIONE CORREGGIO: L’idea di un libro di liriche come romanzo autobiografico in versi nasce probabilmente intorno al 1350. Fin dai primi anni Trenta, egli scriveva poesie sulle scia della tradizione stilnovista. Intorno al 1342 abbiamo già indizi che l’autore pensasse a mettere insieme una raccolta. Nel 1358 prende forma un insieme di rime strutturato in canzoniere. o Il manoscritto che le conteneva, ora perduto, era dedicato al signore di Parma Azzo da Correggio. o I contenuti di quel manoscritto, portatore della cosiddetta redazione Correggio, si ricostruiscono congetturalmente, La filologia petrarchesca conviene che comprendesse i componimenti 1-142 e 264-292 o Visti i richiami lessicali tra il componimento 142 e il 264, come l’aggettivo altro ripetuto per diverse volte o Visto che i due blocchi si conservano sostanzialmente stabili negli anni a venire. o Il componimento 292 ha invece le caratteristiche di un componimento conclusivo. REDAZIONE CHIGI: Nel 1363 Boccaccio fece visita a Petrarca ed ebbe modo di prendere visione del libro di poesie che il suo grande amico stava compilando. Ebbe verosimilmente anche l’opportunità di farsene una copia. Tornato Boccaccio a Firenze, realizzò un esemplare di sua mano. Le poesie di Petrarca erano presumibilmente nel numero e nell’ordine di quelle lette a Venezia. Quel manoscritto è oggi il Chigiano L V 176. La serie di componimenti rappresentati nel manoscritto realizzato da Boccaccio dà luogo a quella che viene chiamata la redazione Chigi del Canzoniere. A questo punto il libro risulta già concepito in due tempi: tra la prima e la seconda parte c’è infatti una pagina e mezza bianca. I componimenti sono 215, di cui 174 nella prima parte e 41 nella seconda. REDAZIONE DI GIOVANNI: Nel 1336 comincia la storia di quello che sarà il Vaticano latino 3195. Petrarca si sentiva probabilmente vicino alla conclusione del libro e progettò l’allestimento di un esemplare in pergamena, affidando il lavoro al suo copista. Il 21 aprile 1367 quel copista manifestò al poeta l’intenzione di licenziarsi. Aveva trascritto i componimenti 1-190 della prima parte e 264-318 della seconda. È probabile che nell’aprile del 1337 quella fosse la forma definitiva del Canzoniere, chiamata oggi redazione di Giovanni, dal nome del copista Giovanni Malpaghini. REDAZIONE MALATESTA e REDAZIONE QUERINIANA: A quel punto Petrarca non volle più affidarsi ad altri e decise di portare a termine l’opera di sua mano. In questo tempo, Petrarca consentì che si traessero delle copie dal manoscritto che lui andava esemplando. Una prima volta per fare dono delle sue poesia al signore di Rimini, Pandolfo Malatesta, Poi a un altro dedicatario il cui nome resta sconosciuto. Entrambi i codici non sono oggi conservati ma sopravvivono grazie a una copia a loro risalente. REDAZIONE VATICANA: Nel 1374, ultimo anno della vita di Petrarca, la sequenza dei testi è quella che tutt’ora si può vedere sull’autografo e costituisce la cosiddetta redazione vaticana: 366 componimenti divisi in due parti. Il poeta ebbe un ripensamento in extremis sull’ordinamento delle ultime 31 poesie. I testi però erano già stati scritti sui fogli di pergamena e sarebbe stato un lavoro lungo e faticoso eraderli e riscriverli nell’ordine desiderato. o Petrarca risolse numerando da 1 a 31 i componimenti che vanno dal 336 al 366. o Il Canzoniere che noi oggi leggiamo tiene conto di questa indicazione finale del poeta per l’ordinamento delle ultime 31 poesie I CANTI DI LEOPARDI Delle poesie che andranno a costituire i Canti si conserva un buon numero di autografi, i quali, assieme alle testimonianze delle varie edizioni curate in vita dal poeta, consentono di seguire per la maggioranza dei componimenti il processo di elaborazione che porta alla loro forma definitiva. Sui loro margini il poeta annota una serie di varianti alternative che potrebbero provenire da precedenti stesure. Un altro tipo di annotazione sugli autografi riguarda la giustificazione delle scelte lessicali e sintattiche, a volte annota i nomi e i luoghi degli autori che prima di lui avevano citato quella parola. Con l’addensarsi di variante alternative e sostitutive, di note grammaticali, di riferimenti ad altri poeti, le pagine degli autografi, in particolare quelle delle canzoni, diventano fittissime. Con gli idilli e poi con i canti pisano-recanatesi Leopardi si libera progressivamente di tutte le preoccupazioni di ordine grammaticale ed erudito, non lavora più da filologo ma solo da poeta. STORIA DEI CANTI: