Scarica Riassunto Storia di Roma tra diritto e potere e più Sintesi del corso in PDF di Diritto Romano solo su Docsity! DIRITTO ROMANO CAPITOLO 1 – LA GENESI DELLA COMUNITA’ POLITICA 1. Le condizioni materiali nel Lazio arcaico Nell’ultimo millennio avanti cristo il Lazio era occupato da molteplici insediamenti umani che, in breve tempo, avrebbero dato origine a Roma e alle altre città del Latium vetus (il Lazio antico). Queste antiche comunità risultavano alquanto isolate a causa della conformazione geologica del territorio laziale, caratterizzato da vasti acquitrini, avvallamenti e aree boschive. Esso era limitato a Nord dal Tevere, a Ovest dal mare, a Est dai primi rilievi che segnano il confine tra i Latini e le popolazioni sabelliche e a Sud, infine dagli ultimi contrafforti dei colli Albani Dal punto di vista economico possiamo distinguere diversi settori che contribuirono allo sviluppo di queste antiche comunità: 1)il settore maggiormente sviluppato era l’allevamento: oltre alla pecora fortemente allevato era il maiale, animale capace di sopravvivere senza la necessità di particolari cure da parte degli allevatori. 2)L’agricoltura, ancorché primitiva, era praticata con successo. Dato il clima umido che caratterizzava il Lazio il prodotto prediletto dai romani era il farro, un cereale molto resistente anche se povero dal punto di vista nutrizionale. Anche gli alberi da frutto venivano sfruttati dalle comunità del Lazio antico, in particolare il fico e l’ulivo. 3)Infine non bisogna dimenticare l’importanza che il commercio rivestiva per queste comunità in ascesa. La circolazione delle merci e delle persone avveniva attraverso una serie di rotte commerciali, svolte per terra o per mare. Fra di esse ricordiamo: la rotta che univa l’Etruria e la Campania; gli scambi con le città costiere, resi possibili dai progressi realizzati nella costruzione di imbarcazioni con cui navigare sul mar Tirreno. In quest’area, sin dall’inizio dell’ultimo millennio a.C., insistevano numerosi villaggi costituiti da poche capanne. Il fattore su cui si fondava l’unione di queste comunità era la presenza di legami familiari o presudoparentali, ancorati alla memoria di una discendenza comune. Anche i vincoli religiosi contribuivano a unire queste antiche comunità: un esempio eclatante è rappresentato dai populi Albenses, un insieme di villaggi collocati nel cuore dei Castelli romani, accomunati dal culto di Iupiter Latiaris. Tuttavia, questi villaggi riscontrarono difficoltà nel dominare la natura e nella difesa dei territori motivo per cui erano di piccole dimensioni e dominati dalla povertà. 2. Villaggi, distretti rurali e leghe religiose In queste comunità primitive la funzione di guida del gruppo era connessa con l’età e con le competenze militari. È possibile distinguere due figure, in cui si concentravano tutte le funzioni direttive e organizzative: 1)I Patres: erano gli anziani della comunità, dotati della saggezza necessaria ad organizzare e guidare la collettività. Oltre a funzioni “amministrative, i patres avevano funzioni religiose che gli conferivano grande prestigio all’interno della comunità. 2)L’assemblea degli uomini in arme: i guerrieri più valorosi e capaci esercitavano una forte influenza sulle scelte della collettività. In tempo di guerra è probabile che i loro poteri risultassero decisamente preminenti rispetto a quelli dei patres. Era un mondo magmatico caratterizzato da una cultura comune, consistente anzitutto nell’uso della stessa lingua, il latino e nella partecipazione a riti e culti. Inoltre, alla vitalità di questo tessuto unitario contribuì anche una serie di interessi economici Intorno, agli anni in cui la tradizione colloca la fondazione di Roma, verso la metà dell’VIII secolo, precisamente nel 753 a.C , profonde trasformazioni sembrerebbero verificarsi nell’organizzazione economico-sociale del Lazio primitivo. Downloaded by: michele-pasqualini (
[email protected]) 1)Un notevole aumento della popolazione: reso possibile dallo sviluppo dell’agricoltura che, a parità di terreno, riesce a sostenere un maggior numero di individui rispetto all’allevamento. 2)Un importante sviluppo tecnologico: La produzione domestica dei manufatti venne sostituita da una produzione specializzata, in cui gli artigiani concentrarono la loro attenzione sui beni da produrre non dovendo più partecipare attivamente alle attività agricole o pastorali. Ciò rafforzò lo scambio fra i prodotti agro-pastorali e quelli artigianali. 3)L’affermazione di un’aristocrazia dominante, che aveva accumulato ricchezze attraverso la guerra. Attorno ai guerrieri e ai gruppi familiari più forti si concentrarono un numero crescente di seguaci, il che a sua volta dovette accentuare le differenze gerarchiche, sia in termini di forza militare che di ricchezze acquisite. 3. La fondazione di Roma Il mutamento economico-sociale, descritto nelle righe precedenti, ha portato ben presto ad un’evoluzione delle antiche comunità laziali che assunsero gradualmente le caratteristiche di vere e proprie città (si pensi, come esempio, ad Ariccia, Praeneste, Tivoli. Tutti insediamenti che assunsero una fisionomia diversa dal villaggio dell’età precedente). Fra queste realtà proto-urbane bisogna ricordare la città sorta dal sinecismo (un termine che indica la formazione di città dall’unificazione di diversi insediamenti) dei villaggi situati sul Palatino con quelli del Quirinale e del Campidoglio. Questo colle, che dopo molti secoli diverrà la residenza degli imperatori di Roma, fu il nucleo originario della città eterna. Non è un caso che i Romani credessero che il Palatino fosse il luogo in cui la lupa allevò Romolo e Remo. L’importanza del Palatino, così come del Quirinale e del Campidoglio, era anzitutto strategica: dalla sommità di questi colli era infatti possibile controllare uno dei pochissimi guadi sul Tevere, situato nel punto in cui il fiume si divide in due. Tradizionalmente la fondazione di Roma si fa risalire al 21 aprile del 753 A.C., data che ci viene tramandata da Varrone erudito romano vissuto alla fine della Repubblica. A prescindere dall’esattezza di questa data, che suscita diverse perplessità fra gli archeologi e gli storici, nella seconda metà dell’VIII secolo A.C. un vento di cambiamento investì i villaggi del Latium, spingendoli ad abbandonare le loro caratteristiche arcaiche per evolversi verso uno schema urbano. La leggenda di Romolo che traccia i confini della città (pomerium), simboleggia tutti i cambiamenti che si realizzarono con l’abbandono delle strutture tipiche degli antichi villaggi. Associata a questo evento appare la distribuzione di tutta la cittadinanza nelle tre tribù dei Romnes, Tities e Luceres, ciascuna suddivisa in dieci curie, suddivise a loro volta ognuna in dieci decurie. Ci troviamo quindi di fronte a un sistema piramidale di distribuzione della popolazione costituito da trecento decurie, trenta curie, tre tribù. Una distribuzione prioritariamente finalizzata alla guerra, giacché ciascuna curia avrebbe dovuto fornire alla città cento uomini armati e dieci cavalieri, dando così luogo alla primitiva legione di tremila fanti e assicurando il complessivo organico di trecento cavalieri. 4. Strutture familiari e altre aggregazioni sociali Le antiche comunità del Latium vetus erano connesse attraverso legami familiari o pseudoparentali. Questi legami non vennero meno con l’avvento delle città ma anzi costituirono la base su cui nacque il sistema delle gentes. Durante tutta la storia di Roma sono due le strutture centrali su cui si è fondata la convivenza delle popolazioni riunite all’interno di questa città: la familia e il gens. 1)La familia. I romani distinguevano due tipologie di familia: a) La familia proprio iure: Essa è costituita dalla coppia di sposi con i loro diretti discendenti, in altre parole gli individui che abitano all’interno della stessa casa. Nella familia proprio iure convivevano, sotto la potestas del pater, la moglie i figli e le 2. Il popolus Parlando della suddivisione effettuata da Romolo nel popolo di Roma, al tempo dei Rex la popolazione risultava suddivisa in 3 tribù le quali a loro volta erano divise in trenta curiae, ciascuna suddivisa in 10 decurie (per un totale di 300 decurie). Non è certo se l’appartenenza ad una curia fosse determinata su base territoriale o in base a legami di parentela. Sembrerebbe preferibile la tesi per cui l’appartenenza alla curia si avesse sulla base dei vincoli di discendenza in quanto essa sarebbe congrua con il fatto che, prima della fondazione della città, erano proprio i legami parentali, veri o presunti che fossero, a costituire il cemento delle varie comunità dei vari villaggi. Per quanto concerne le funzioni di queste curiae, quindi del popolo che le compone, esse avevano: 1)Una funzione militare: essendo l’esercito, come più volte ribadito, formato dalla somma dei contingenti fissi che ciascuna curia doveva fornite. 2) Una funzione cerimoniale: La nomina del Rex inauguratus richiedeva, come abbiamo visto, la partecipazione del popolo riunito nel comizio curiato. 3)Nominavano i magistrati ausiliari del rex: quelli cioè che dovevano coadiuvarlo nelle sue funzioni. 4)Partecipavano alla formazione di una serie di atti di natura privatistica: si pensi come esempio all’adrogatio con cui un pater familias si assoggettava alla potestas di un altro pater familias il quale era privo di discendenti diretti. Questa cerimonia doveva svolgersi dinanzi ai comizi curiati. Sempre rientranti in questa categoria, vanno ricordati tutti quei provvedimenti che modificavano la condizione delle gentes o relativi all’ammissione di uno straniero 5)Partecipavano alle decisioni importanti che venivano prese dal Rex e dai patres: inizialmente l’assemblea non era chiamata ad esprimere un voto ma semplicemente a manifestare il suo assenso o dissenso attraverso il suffragium (termine che con il tempo assunse il significato di voto ma che inizialmente era associato all’applauso). In ogni caso, la partecipazione dei comizi all’insieme degli atti che investivano la vita della comunità e il suo governo attesta, sin dall’inizio la presenza di un’entità politica. Verso la fine della monarchia è addirittura possibile che i comizi curiati siano giunti a esprimere formalmente un loro voto, almeno per alcuni aspetti specifici. In tal caso, la decisione dovette essere presa dalla maggioranza delle trenta curie. 3. I patres Il termine arcaico patres venne ben presto sostituito dal più moderno senatus (da senes anziano). Comunque lo si chiami il Senato è l’assemblea degli anziani. Inizialmente composta dai patriarchi (i patres) delle gentes che andarono a formare la città di Roma, le fonti ci dicono che con il tempo la sua composizione mutò non essendo più legata al numero di gentes presenti in città (ciò trova conferma nel numero di senatori, gradualmente aumentati fino al numero definitivo di trecento, decisamente superiore rispetto al numero di gentes che insieme formavano il popolo di Roma). I senatori venivano scelti dal Rex fra coloro che si fossero distinti, all’interno delle varie gentes, per ricchezza, valor militare o per le azioni compiute in tempo di pace. E’ anche verosimile che le varie gentes esprimesse un numero maggiore o minore di senatori a seconda del loro peso all’interno delle civitas. Per quanto concerne l’identificazione dei compiti cui erano preposti i senatori, ruotavano tutti intorno alla figura del Rex: 1) Procedevano alla creatio del Rex: secondo le modalità indicate nel paragrafo precedente. 2) Fornivano auxilium e consilium al Rex: circa l’incisività di questa funzione, gli storici ritengono che il senato non aveva in epoca arcaica quel potere decisionale che otterrà durante la fase repubblicana. Ciò nonostante le funzioni consultive, esercitate dai senatori nei confronti del Rex, contribuirono non poco allo sviluppo ordinato della comunità, che per molti versi risultava ancora legata alle tradizioni pre-civiche. 4-5. I Collegi sacerdotali e i pontefici Per quanto riguarda il patrimonio culturale, la continuità con il mondo precivico è più evidente, soprattutto in merito alla sfera religiosa dove si può cogliere una mistura di conservatorismo e d’innovazione. Ciò appare anzitutto nella struttura portante dei numerosi collegi sacerdotali presenti sin dalla prima età monarchica. Per comprendere il loro ruolo, appare utile esaminare l’importanza rivestita dalla religione nella Roma arcaica. In quest’epoca una serie di culti tendono a sovrapporsi, chiara manifestazione delle varie culture che attraverso processi di sinecismo, i quali hanno contribuito alla nascita di Roma. 1)Molto importanti sono, innanzitutto, i culti dei Penati e dei Lari (antenati divinizzati) propri di ciascuna famiglia, di competenza di ciascun pater familias e fondamento di una religione familiare. 2)Accanto ai culti familiari, troviamo i culti e riti delle gentes e infine i culti della città. Rispetto a questi ultimi i culti arcaici, caratterizzati dall’adorazione di luoghi sacri o da pratiche magico-animistiche (si pensi come es al collegio sei Salii, una specie di sacerdoti guerrieri impegnati in rituali magici), cominciarono ben presto ad unirsi con nuovi culti che gradatamente presero il sopravvento. Chiara manifestazione di questa trasformazione religiosa fu la sostituzione delle tre supreme divinità arcaiche (Giove, Marte e Quirino), con quelle della religione olimpica che ruota intorno alla c.d. triade capitolina (composta da Giove, Giunone e Minerva) venerata in un grande tempio edificato sul Campidoglio. Da queste premesse è possibile esaminare i vari collegi religiosi che, con le loro funzioni, influenzavano non poco la vita della città: 1)Il collegio delle Vestali: composto da sacerdotesse che vivevaano separate dalla comunità cittadine, a garantire un’assoluta purezza rituale. Loro compito era la custodia del fuoco sacro, simbolo della città di Roma, che non doveva mai essere spento. Questo culto, che la tradizione vuole sia stato creato da Numa Pompilio, venne subito incardinato nell’apparato amministrativo statuendone la dipendenza dal Rex (in epoca repubblicana le vestali dipenderanno dal pontefice massimo). 2)Il collegio dei feziali: un sacerdozio non esclusivo dei Romani, ma presente anche in altre popolazioni italiche, il cui compito era di legittimare le relazioni internazionali fra Roma e gli altri popoli. Solamente attraverso i feziali era possibile dichiarare una guerra giusta e, successivamente alla sua conclusione, stabilire le condizioni per la pace. Quanto detto fin ora non deve indurre a pensare che fossero i feziali a stipulare la pace, al contrario essi dovevano solamente garantire che gli atti internazionali venissero conclusi secondo le forme previste dai mores (le norme consuetudinarie). Questo rigido formalismo finì per tralasciare l’aspetto sostanziale delle decisioni che venivano prese dal Rex e dai patres, con l’effetto di legittimare qualunque atto (in particolare le guerre) a patto che esso venisse compiuto secondo le forme prescritte dai feziali. 3)Il collegio degli auguri: Gli auguri erano dei sacerdoti il cui compito era di intercedere presso gli dei per chiederne l’intervento. In base alla categoria di persone legittimate alla a interrogare la volontà degli dei i Romani usavano distinguere gli auguria dagli auspicia: a)Gli auspicia: non erano formulati dagli auguri ma dal Rex e dai magistrati che lo coadiuvavano nelle sue funzioni. Al momento di compiere un atto, in particolare se dotato di una certa importanza, il Rex o i suoi magistrati verificavano che non vi fossero auspici sfavorevoli (segno che una divinità non voleva che l’atto fosse compiuto in quel giorno). L’atteggiamento ostile della divinità, attestato dalla lettura degli auspici, non impediva però che lo stesso atto fosse portato a termine nei giorni successivi. Da quanto detto si capisce che gli auspici erano connessi a situazioni specifiche e immediate. b)L’augurium: può riguardare qualunque situazione, anche molto lontana nel tempo, rispetto alla quale si chiede l’aiuto della divinità (si pensi alle richieste inviate agli dei per la protezione della città di Roma). Con l’augurium il sacerdote non va semplicemente a ricercare una manifestazione della volontà divina; il suo scopo è quello di richiedere un intervento attivo degli dei. Ciò trova conferma nella nomina del rex che come abbiamo visto viene inaugurato, nominato cioè grazie all’intervento degli dei. 4)Il collegio dei pontefici: esso ebbe un ruolo fondamentale nello sviluppo del diritto. Sin dall’età dei re i pontefici oltre a registrare e trasmette oralmente il diritto, svolsero un’intensa attività di interpretazione e innovazione che finì con il portare alla creazione di nuove norme giuridiche. In età monarchica il collegio era comporto da cinque membri (portati a 13 con l’avvento della repubblica), tra cui i tre flamines maggiori ed era presieduto dal pontefice massimo. Compito fondamentale di questo collegio era la conservazione e l’interpretazione delle leges regiae, le leggi elaborate dal Rex la cui fonte primaria erano i mores (le norme consuetudinarie) di cui facevano parte anche le regole vigenti prima della fondazione della città. Tutto questo, al fine di preservare la pace sociale. A conclusione di questo discorso intorno ai collegi religiosi presenti a Roma in età arcaica, occorre notare che solamente pochissimi ruoli (ad esempio quello delle Vestali), presupponevano una totale consacrazione del sacerdote alla divinità, con la conseguente sua separazione dalla vita corrente nella città. Tutti gli altri compiti non impedivano al sacerdote di continuare i suoi precedenti affari quale normale cittadino. Si tratta di un elemento molto importante che permette di distinguere l’ordinamento romano, che potremmo definire in un certo senso laico, dalle varie società orientali caratterizzate dalla presenza di regimi teocratici. In ogni caso, in Roma quasi tutta la sfera religiosa restò sempre di pertinenza dell’aristocrazia insediata accanto al rex, al governo della città e alla testa dell’esercito cittadino 6. Le radici arcaiche del diritto cittadino A questo punto, dopo aver completato l’analisi degli organismi che componevano la città di Roma al tempo dei rex, una domanda sorge spontanea: in quell’epoca esisteva già un corpo normativo che, secondo i nostri canoni, potremmo chiamare diritto? La risposta è che in origine lo Ius (il diritto) risultava confuso e mescolato insieme con il Fas (il costume), con le credenze religiose, con le pratiche magiche e con i culti delle gentes (si pensi come esempio al culto di Venere da parte della gens Iulia). Secondo gli storici le prime norme giuridiche è probabile che si formarono proprio grazie alle gentes, o meglio alla diffusione di tradizioni e comportamenti che fino a quel momento erano rimasti circoscritti alle singole gens. Le credenze religiose, le pratiche sepolcrali, i sistemi matrimoniali delle diverse gentes contribuirono alla formazione della religione romana e di una forma embrionale di diritto. e dalla presenza di un maggior numero di individui dotati della ricchezza necessaria all’acquisto di questi armamenti. L’introduzione dello schieramento oplitico avvenne contestualmente ad una nuova divisione dei cittadini, non più in base alla discendenza ma in base alla ricchezza. Con Servio Tullio venne introdotta a Roma la prima forma di Timocrazia (termine che deriva dal greco e significa, appunto, potere della ricchezza). Questo è il sistema di suddivisione sociale voluto da Servio Tullio: Tutti i cittadini vennero distribuiti in 5 classi corrispondenti a diversi livelli di ricchezza, suddivise a loro volta in centurie che dovevano fornire cento fanti alla legione e che in epoca repubblicana consistevano in un totale di 193: 1)La prima classe era composta da coloro che avevano un capitale di 100.000 ( o 120.000 assi ). Essa forniva all’esercito, oltre alle centurie di cavalieri, che ammontavano a 18, comprensive però anche di quelle i cui cavalli erano forniti dalla città ( equo publico ) , ben quaranta centurie di juniores , cittadini tra i 18 e i 46 anni d’età che costituivano il vero corpo combattente della città , e 40 centurie di seniores, soldati più anziani che servivano da riserve. 2)La seconda classe di 75.000, la terza di 50.000 , la quarta di 25.000. Tutte e tre le classi fornivano dieci centurie di iuniores ciascuna e dieci di seniores. 3)La quinta classe era composta da chi aveva un capitale di 12.500 assi ( o 11.000).Essa forniva 15 centurie di iuniores e quindici di seniores. A queste 188 centurie si devono aggiungere ancora cinque centurie : due di soldati del genio (tecnici che si collocavano, ai fini del voto, accanto alle centurie della prima classe), due centurie di musici (posti accanto alla quarta classe) e infine un’unica centuria di capite censi (in cui erano inclusi tutti i cittadini privi di qualsiasi capitale ed estranei alla specializzazione ora ricordate). Questo sistema, pur non escludendo la vecchia aristocrazia gentilizia che normalmente era dotata della ricchezza necessaria per inserirsi nelle prime classi, garantiva una forte apertura ai nuovi gruppi sociali. E’ evidente però che la riforma serviana comportò che le classi più ricche dovevano fornire più uomini all’esercito. Ciò non solo aumentò la loro importanza nella difesa della città (e conseguentemente il loro prestigio), ma andò anche rafforzando il loro potere politico. L’ordinamento centuriano si estese, infatti, dall’originaria sfera militare alla dimensione politica (comizi centuriati) facendo si che il voto dei membri delle prime classi pesasse molto di più rispetto a quello dei soggetti appartenenti alle classi inferiori. Tuttavia, l’organizzazione centuriata dell’esercito si sarebbe tradotta in una vera e propria assemblea politica (comizio centuriato) in età repubblicana quando il popolo riunito per centurie veniva chiamato ad eleggere i magistrati cittadini. 5. Le tribù territoriali e il censimento dei cittadini La riforma introdotta da Servio Tullio, richiedeva una conoscenza precisa dei livelli di ricchezza della popolazione. A tale scopo il re etrusco introdusse due nuovi strumenti: 1)Il censimento: la conoscenza della struttura della cittadinanza e della relativa consistenza patrimoniale sarebbe stata sufficiente a permettere la distribuzione dei cittadini tra le varie classi di centurie 2)La distribuzione della popolazione in tribù territoriali: essa avvenne attraverso la sostituzione delle vecchie tre tribù dei Ramnes, Tities e Luceres, con nuove tribù suddivise a loro volta in tribù urbane (in cui erano collocati gli individui privi di proprietà fondiarie) e tribù rustiche (dove venivano raggruppati i proprietari dei fondi). In questo modo era possibile accertare con facilità la distribuzione della ricchezza fondiaria. Le tribù dovevano fornire alle varie centurie il sostentamento loro necessario attraverso un tributo che veniva riscosso dai tribuni aerarii. Questa prima forma di tassazione era proporzionata alla ricchezza dei singoli proprietari. Con il tempo il numero delle tribù rustiche andò aumentando (inizialmente 19, in età repubblicana divennero 33) lasciando al margine le 4 tribù urbane composte da cittadini nullatenenti. (Dopo Repubblica valuta pag 70) 6. Il controllo sociale e la repressione penale L’ordinamento centuriato, introdotto da Servio Tullio, ebbe fra i suoi effetti di accentuare l’intervento autoritativo della città attraverso: 1)Un diffuso controllo sociale: finalizzato ad evitare lo spreco di ricchezze spesso utilizzate dagli aristocratici per costruire tombe sfarzose più delle loro stesse dimore che alla lunga avrebbero potuto indebolire la stessa forza economica dei ceti aristocratici. Le prime leggi volte a stabilire un limite alle spese funerarie, vennero introdotte allora, per poi essere recepite nella successiva legislazione delle XII Tavole. 2)La repressione dei comportamenti individuali pericolosi per la comunità: in questo ambito l’azione del rex dovette essere più diretta e innovatrice che nel più vasto campo dei mores. Tuttavia, la repressione criminale, in realtà, risultava ancora molto circoscritta. La maggior parte dei reati, infatti, venivano puniti da singoli gruppi familiari e gentilizi, che ricorrevano al loro diritto all’autodifesa. Fra i reati puniti direttamente dalla città occorre ricordare: a) L’uccisione violenta di un membro della comunità (il c.d. perduellio) e le azioni dirette contro l’esistenza della comunità politica (la proditio). Entrambi i crimini venivano giudicati dal rex, attraverso i suoi magistrati (i quaestores parricidii e i duoviri perduellionis), e con tutta probabilità venivano puniti con la condanna a morte. b)Le condotte che violavano precetti e regole (in particolare regole religiose): queste venivano punite attraverso la sacratio, una procedura religiosa che comportava il distacco del soggetto in questione dalla città con la perdita contestuale di ogni tutela giuridica (non sarebbe stato più difeso in caso di aggressione alla sua persona o ai suoi beni). Vi sono poi altre azioni delittuose punite molto pesantemente nella legislazione decemvirale, ma che non comportano la sacratio dell’autore del reato, né il diretto risarcimento della vittima. È il caso degli atti di magia o dell’incendio doloso del raccolto la cui sanzione avveniva attraverso meccanismi di tipo religiosa. Numerosi erano anche i comportamenti lesivi dei singoli cittadini, in questi casi la comunità primitiva interveniva a proteggere il danneggiato contro l’autore della condotta illegittima solo se la stessa vittima si faceva parte attiva per difendersi. A conclusione di tutto questo discorso occorre ricordare che nonostante i grandi cambiamenti introdotti dai re etruschi, la struttura di base della società Romana rimase la famiglia proprio iure, organizzata intorno alla figura del pater familias. CAPITOLO 4 – DALLA MONARCHIA ALLA REPUBBLICA 1. La cacciata dei Tarquini e la genesi della costituzione repubblicana Alla fine del VI secolo A.C. l’espansione etrusca in Italia subì una battuta d’arresto a seguito di alcune sconfitte militari subite nelle campagne contro i greci e i loro alleati latini. L’aristocrazia Romana approfittò nel 509 a.C. della situazione e con un colpo di stato estromise Tarquinio Prisco dal trono e proclamò la fine della monarchia. Il mutamento politico che si registrò a Roma in quegli anni, cancellò in parte le riforme introdotte dai monarchi etruschi. Tutto ciò ebbe l’effetto di garantire una nuova ascesa della vecchia aristocrazia gentilizia, il cui potere era notevolmente diminuito a seguito delle riforme introdotte da Servio Tullio. Nonostante la cacciata dei Tarquini, Roma rimase per qualche tempo legata alla sfera di influenza etrusca: a) In parte a causa della reazione di Porsenna, capo etrusco dei Chiusi, che invase e conquistò militarmente Roma anche se questo processo non portò alla restaurazione di Tarquinio. b) In parte perché l’alleanza con gli etruschi risultava necessaria per contrastare il nuovo nemico di Roma: i Latini. Nei 50 anni successivi alla fine della monarchia, le gentes patrizie discussero a lungo su quale forma di governo fosse maggiormente consona alla preservazione della città, giungendo alle seguenti conclusioni: 1)Indispensabile risultava, anzitutto, la conservazione dell’ordinamento centuriato (introdotto con le riforme serviane). Il ritorno all’ordinamento curiato avrebbe, infatti, comportato un vero e proprio collasso dell’apparato militare, in un momento in cui la difesa della città risultava di primaria importanza. 2)Per lo stesso motivo appariva assurdo il ripristino dell’originaria figura del re-sacerdote. I Re etruschi, infatti, avevano rafforzato notevolmente il loro imperium, con l’effetto di avere un maggiore controllo sull’esercito e sugli organi politici della città. La decisione delle gentes patrizie fu semplice ma geniale: mantenere gli elementi fondamentali che hanno caratterizzato la monarchia etrusca, mutando solamente la figura del Rex: esso venne sdoppiato, venne soppresso il suo carattere vitalizio e i suoi poteri attribuiti a due consoli, eletti annualmente dal senato. Nacque così la Repubblica Romana: per molti secoli essa dominerà il panorama internazionale, espandendo inverosimilmente i suoi territori e la sua popolazione. Il senato, le cui funzioni erano notevolmente diminuite con l’avvento della monarchia etrusca, acquisì sempre più potere divenendo il nuovo “baricentro” della politica cittadina. Si deve ritenere che solo nella prima fase della repubblica alla magistratura consolare potessero accedere anche non patrizi e quindi è pensabile che essi potessero rientrare anche in senato, pur restando quest’ultimo una roccaforte patrizia. Tuttavia ciò dovrebbe essere accaduto solo inizialmente, registrandosi quasi subito la totale scomparsa dei non patrizi dal consolato, dalla magistratura e dal senato. Dopo l’esclusione dei plebei da queste organi politici si pone nel V secolo in primo piano il problema del conflitto tra patrizi e plebei. 2. Patrizi e plebei Un altro elemento che caratterizza gli anni successivi alla cacciata dei re etruschi, è la chiusura dei patrizi verso i plebei. Questa situazione fu alla base di: all’élite al potere, cercano di stravolgere l’equilibrio cittadino, fondato sulla concentrazione del potere e delle ricchezze nelle mani di pochi. Da Appio Claudio, ai Gracchi, fino ad arrivare a Giulio Cesare, la storia di Roma è caratterizzata dalla presenza di un’aristocrazia che agisce con uno scopo ben preciso: preservare la libertas repubblicana, intesa come libertà di pochi patrizi destinati a governare la città e a possedere la maggior parte delle sue ricchezze. Appio Claudio è un tipico esempio di patrizio che, dal punto di vista degli stessi aristocratici, ha “tradito” i suoi “simili” per schierarsi a fianco della plebe. Il decemviro, infatti, aveva fra i suoi obiettivi la concentrazione delle funzioni legislative e di governo nel binomio decemviri-assemblea popolare, con lo scopo finale di realizzare una democrazia fondata sulla sovranità del demos (popolo). Appio Claudio era sicuramente un antesignano della democrazia. Le sue proposte, ancorché valide, erano tuttavia premature per i tempi in cui visse e per questo furono la sua rovina. Nel 449 a.c., dopo la redazione delle ultime due tavole e la cacciata di Appio Claudio, il collegio dei decemviri legibus scribundis venne sciolto, restituendo il potere ai consoli e agli altri magistrati che fino a quel momento avevano governato Roma. La legge delle XII tavole, pensata inizialmente da Appio Claudio come il punto di partenza di una nuova democrazia, divenne “semplicemente” il fondamento dello ius civile (il diritto della città). Nonostante alcuni storici si riferiscano alle leggi delle XII tavole utilizzando il termine codice, esso non deve essere pensato come una raccolta normativa che raccolga tutto il diritto di un determinato settore (come faranno i codici europei a partire dal tardo 1700). I romani erano coscienti che le norme contenute nelle XII tavole presupponevano altre fonti normative: i mores ancestrali, a cui i giuristi avrebbero fatto riferimento nell’attività d’interpretatio (affidata prima ai pontefici e poi a un gruppo di giuristi laici). La novità della legge delle XII tavole non è tanto nelle norme in essa contenute, quanto nella presenza di un testo scritto. Esso permette, infatti, a tutti i cittadini di conoscere il diritto della città, condizionando l’attività dell’interprete che nel modificare/innovare le norme troverà un punto di partenza proprio in questo testo, noto e controllato da tutta la comunità. Passando ad occuparci delle norme contenute nella legge delle XII tavole, esse riguardano principalmente i rapporti tra privati, lasciando a margine quello che noi chiameremmo diritto pubblico. La legge delle XII tavole rimane, in ogni caso, una legge primitiva fortemente legata al valore della familia proprio iure e alla violenza privata come forma di tutela contro i crimini altrui. Ciò nonostante in questi anni vengono introdotti elementi nuovi: 1)Nelle obbligazioni legali contratte tra privati, la figura più importante rimane il nexum, una forma di garanzia, codificata nella tavola VI con la seguente formula: “Quando qualcuno fa un accordo o un trasferimento lo annuncia oralmente, gli sarà data ragione”. Con l'accettazione del nexum il debitore forniva come garanzia di un prestito l'asservimento di se stesso, o di un membro della sua famiglia su cui avesse la potestà (un figlio ad esempio), in favore del creditore fino all'estinzione del debito. Al nexum andò gradatamente affiancandosi il pactum, fonte di obbligazione che supera lo stadio della vendetta per trasformarsi in un accordo privato vincolante, la cui inadempienza portava a delle sanzioni. 2)Nella struttura della familia proprio iure: la legislazione decemvirare incise sulla pesante autorità del pater familias, l’unico titolare di diritti. Particolarmente importante fu il superamento del sistema patriarcale del matrimonio cum manu (che prevedeva il trasferimento della figlia sotto la potestà del marito, con un ruolo del tutto analogo alle figlie). 3)Fondamentale risulta, infine, la distinzione dei beni in due categorie diverse: le res mancipi e le res nec mancipi. Nella prima categoria sono ricompresi i beni di interesse pubblico: essi possono essere ceduti solamente tramite un negozio solenne, la mancipatio, che prevedeva il coinvolgimento di una pluralità di testimoni. 4)Ben disciplinata risulta anche il sistema della successione dei familiari nel patrimonio del defunto Nel secolo e mezzo successivo all’introduzione di questa legislazione, l’interpretazione dei pontefici, oltre che dei magistrati competenti a regolare i processi tra i cittadini, contribuì a sviluppare nella pratica un’applicazione sempre più innovativa e ampia delle regole decemvirali, adattandole alle esigenze di una società in trasformazione. 4. La conclusione di un processo. Abbiamo visto che dopo lo scioglimento del collegio dei decemviri, il potere ritornò alle vecchie istituzioni repubblicane. I Plebei, forti delle loro recenti conquiste, premevano per l’ammissione alla carica di console. Questo è probabilmente il motivo che sta alla base della frequente sospensione della coppia consolare, sostituita (negli anni che vanno dal 444 a.c. al 367 a.c.) dai tribuni militum: ufficiali delle legioni, eletti ogni anno in un numero variabile da tre a sei, erano dotati di un potere (imperium) inferiore a quello dei consoli (potevano convocare il senato solo in via eccezionale, non accedevano al trionfo, non mantenevano alcun prestigio dopo la cessazione della carica). La mossa dei patrizi non sortì, tuttavia l’effetto sperato. I Tribuni militum, infatti, erosero gradualmente la supremazia patrizia (ciò è chiaramente dimostrato dall’elezioni di plebei a tale carica). Nel corso del secolo venne introdotta anche la magistratura della censura, che aveva il compito di effettuare il censimento della città. Restava invece immutato il monopolio dei patrizi sulle terre pubbliche ed anzi si era aggravato il problema dell’indebitamento degli strati più poveri della plebe. Una svolta si registrò nel 396 a.c. quando Roma conquistò militarmente la ricca città etrusca di Veio, ultimo ostacolo all’espansione Romana verso il Nord Italia. A seguito della vittoria, che fece raddoppiare l’ager Romanus, a tutti i cittadini Romani venne distribuito un appezzamento di 2 ettari, ricavato dalle terre strappate a Veio. Questa politica di redistribuzione attenuò la lotta fra patrizi e plebei, fungendo da base per la successiva equiparazione politica dei due ceti, realizzata con le c.d. Leggi Licinie Sestie del 367 a.c. (così chiamate in onore dei magistrati proponenti). 1)La prima delle tre leggi: prevedeva che uno dei due consoli potesse essere un plebeo (facoltà che divenne un obbligo negli anni seguenti). In questo modo si garantiva la possibilità della plebe di accedere a tutte le magistrature cittadine, civili e religiose. 2)La seconda legge introduceva un limite alle terre pubbliche che potevano essere possedute da ciascun cittadino: 125 ettari. Questa norma erose il monopolio dei patrizi nello sfruttamento dell’ager publicus, rendendo lo sfruttamento di lotti minori accessibile a un maggior numero di cittadini. 3)La terza legge limitava il peso dei debiti: stabilendo che gli interessi già pagati dal debitore dovessero computarsi come parte del capitale da restituire. Una riforma che precede una ancor più importante, la lex Potelia Papiria del 326 a.c.: essa eliminava l’asservimento personale del debitore al creditore (tipica del nexum), introducendo un vincolo solo dal punto di vista economico-giuridico. Le Leggi Licinie Sestie portarono all’ascesa di una nuova aristocrazia politica, la nobilitas patrizio-plebea selezionata sulla base dell’appartenenza alle cariche magistratuali, che si sostituì nel governo della città all’antica nobiltà di nascita costituita dai patrizi. In quello stesso anno un nuovo magistrato, il pretore, viene introdotto fra le cariche cittadine. Il suo compito sarà quello di amministrare la giustizia e regolare le controversie fra privati. CAPITOLO 5 - IL COMPIUTO DISEGNO DELLE ISTITUZIONI REPUBBLICANE 1. Il consolato e il governo della città Parlando del quadro istituzione delle Roma repubblicana, occorre abbandonare l’idea moderna di ordinamento istituzionale: inteso come un insieme di organi, puntualmente regolamentati nel loro funzionamento da una norma fondamentale (una Costituzione). Nel mondo Romano non solo non esisteva una costituzione scritta, ma le stesse leggi che regolavano il funzionamento delle istituzioni, erano soggette a continui cambiamenti. Per questo motivo nell’esaminare le istituzioni repubblicane, appare preferibile concentrare l’attenzione solamente su quegli organi che si sono conservati e perfezionati nel tempo, tralasciando quelli che hanno fatto da “comparsa” nella storia della Repubblicana Romana. I Consoli: la carica consolare venne introdotta all’inizio della repubblica; tuttavia si consolidò definitivamente solo nel 367 a.c. (con l’emanazione delle Leggi Licinie Sestie). Ai consoli era conferito il supremo potere di comando, definito dai Romani imperium maius (in quanto superiore al potere di ogni altro magistrato). Parlando dell’imperium consolare bisogna distinguere: a)L’imperium domi: esercitato dai consoli all’interno dei confini della città a governare la comunità politica e la vita dei suoi membri. Nel tempo vennero introdotte una serie di limitazioni a questo potere, con lo scopo di proteggere i cittadini della repubblica (si pensi al diritto dei cittadini di appellarsi al popolo contro la repressione dei magistrati, mediante la c.d. provocatio, nonché al potere di veto, l’intercessio, esercitata dai tribuni della plebe nei confronti delle altre magistrature, compresi i consoli). Dentro la città i consoli svolgevano i seguenti compiti: -)Convocavano i comizi centuriati: attraverso l’esercizio dello ius agendi cum popolo al fine sia di proporre l’approvazione di nuove legge, sia di fare eleggere i magistrati per l’anno successivo, procedendo quindi alla proclamazione degli eletti. -)Chiedevano il parere del senato: esercitando lo ius agendi cum patribus. Questo potere era esercitato quando i consoli dovevano affrontare questioni particolarmente importanti per la città (in particolare decisioni di politica estera, politica monetaria ecc.). -)Gestivano il tesoro pubblico: sotto il controllo del senato e con l’ausilio dei questori. -)Sovrintendevano all’amministrazione delle terre pubbliche nei periodi in cui non erano in carica i censori, a ciò specificatamente deputati -)Reprimevano le condotte criminali e, fino alla creazione dei pretori, risolvevano le controversie private che insorgevano fra i cittadini. b)L’imperium militiae: minori limitazioni erano applicati ai consoli quando Venivano eletti ogni cinque anni direttamente dai comizi centuriati e duravano in carica fino al completamento del censimento, ma non oltre i diciotto mesi. A differenza degli altri magistrati superiori non erano muniti di imperium, rimanendo estranei ai compiti militari e alle dirette delibere politiche (a differenza dei Consoli non avevano il diritto di convocare il senato o i comizi centuriati). Ciò nonostante il loro rango e il loro prestigio erano altissimi, addirittura superiori ai Consoli. Un fatto che induce a pensare che né i Consoli né i tribuni della plebe potessero esercitare l’intercessio nei confronti dei Censori. I censori svolgevano alcuni compiti fondamentali: -)Effettuavano il censimento della popolazione: in modo da distinguere i cittadini dagli stranieri; gli schiavi dai nati liberi e dai liberti. Attraverso queste distinzioni era possibile collocare ciascun cittadino in una famiglia, stabilire le proprietà fondiarie a lui connesse, inserirlo nelle varie classi di censo (introdotte con l’ordinamento centuriato voluto da Servio Tullio). -)Esercitavano la cura morum: La sorveglianza sui comportamenti individuali e collettivi. In caso di comportamenti particolarmente gravi, i censori irrogavano una specifica sanzione, la nota censoria: essa comportava l’emarginazione del soggetto colpito dalla comunità, con la conseguente iscrizione in una classe di centurie inferiore a quella cui aveva diritto in base al suo patrimonio e con l’esclusione dai ranghi del senato. -)Fondamentale è il loro controllo sulle attività economiche della città, attraverso il vaglio delle entrate e delle spese pubbliche; la verifica degli appalti concessi ai privati; l’amministrazione delle proprietà e dei beni pubblici (registrati nel censimento, insieme ai beni privati). -) Selezionavano i candidati alla carica senatoriale: esercitando la c.d. lectio senatus. Non è chiaro il criterio utilizzato dai censori per selezionare i candidati al senato, anche se è probabile che essi si attenessero a criteri obiettivi scegliendo i senatori fra gli ex magistrati, partendo da quelli gerarchicamente superiori: prima venivano scelti gli ex censori ed ex consoli, poi gli ex pretori e infine gli ex questori. Con il declino e la caduta della Repubblica Romana la carica venne poi assunta direttamente dagli imperatori, spesso in chiave anti-senatoria. 2)I magistrati minori: privi di imperium e dotati di una semplice potestas che ne legittimava le azioni (magistrati cum potestas) oltre ad essere titolari degli auspicia minora. a) I questori: il cui compito primario era l’amministrazione delle finanze pubbliche, in collaborazione con i censori e sotto il controllo del senato. Introdotti in numero di due, alla fine del IV secolo furono elevati a quattro e, infine durante la prima guerra punica, raddoppiati a otto. b) I tribuni militum: magistrati nominati annualmente, alcuni dai consoli altri dai comizi centuriati, per governare l’esercito. Essi rappresentano quelli che definiremmo oggi “ufficiali superiori” dell’esercito, con funzioni di comando sulle legioni, che continuavano ad essere la struttura fondamentale dello schieramento militare romano. c) I tribuni della plebe: La loro stessa creazione avviene all’epoca della secessione dell’Aventino, per dotare la plebe di un contropotere da esercitare nei confronti delle alte magistrature e del senato. Questa particolare magistratura era dotata di una serie di poteri fondamentali: -)Il potere di intervenire contro coloro che avevano arrecato un danno ai plebei (attraverso l’emissione di una sanzione, la c.d. mutae irrogatio). -)Il potere di esercitare l’intercessio: bloccando la delibera di qualunque altro magistrato, consoli compresi. -)il potere di uccidere il trasgressore delle leggi sacrate: attraverso l’esercizio della summa coercendi potestas. Questo potere dimostra che i tribuni della plebe, ancorchè non dotati di imperium, rivestivano un’importanza fondamentale nelle istituzioni repubblicane. -)Convocare la plebe in Assemblea organizzata in tribù territoriali per l’approvazione delle leggi plebee (i c.d. plebisciti). d)Gli edili della plebe: introdotti accanto ai tribuni della plebe e dotati di compiti organizzativi all’interno della città. in seguito verrà introdotta un’altra figura, gli edili curali (così chiamati perché sedevano su un particolare sedile, la sella curale), aventi il compito di sovraintendere alla vita materiale ed economica della città attraverso il controllo: dei mercati, della viabilità, dell’igiene pubblica, dei giochi, delle cerimonie ecc. Infine vi erano magistrati minori con svariate competenze. In ogni caso, anche dopo il vertiginoso allargamento del potere e degli spazi d’influenza di Roma, l’organico delle magistrature ordinarie restò straordinariamente circoscritto. 3. Il senato Inizialmente il senato, seguendo uno schema tipico della fase monarchica, era composto solamente da patrizi. Non si deve dimenticare infatti come all’origine tale organismo fosse indicato col termine patres. Dovettero passare molti anni dall’avvento della repubblica, perché i plebei fossero ammessi alle magistrature superiori e, conseguentemente, alle cariche senatorie con il nome di conscripti. Da allora l’endidadi patres conscripti indicherà il senato nella sua pienezza. Il senato era incaricato di una serie di compiti fondamentali: 1)Approvare le leggi deliberate dai comizi centuriati. Con il tempo questo controllo successivo venne sostituito da una conferma preventiva, in cui il senato autorizzava i vari magistrati a presentare una proposta di legge ai comizi centuriati (a cui si garantiva in tal modo una maggiore libertà nella stesura della legge). 2) Delineare le linee essenziali dell’intera politica romana: in certi settori particolarmente delicati e importanti (come la politica estera, la gestione delle entrate pubbliche ecc.) si affermò una prassi in base alla quale i magistrati dovevano non solo chiedere il parere del senato (il c.d. consultum) ma anche attenersi a quanto indicato dallo stesso (quello che definiremmo oggi parere obbligatorio e vincolante). Il sostanziale monopolio del senato nel tracciare le linee di governo deriva dal carattere strettamente temporaneo delle cariche magistratuali. (Ad esempio una politica di lungo respiro negli affari interni o estera non poteva essere impostata e realizzata nel corso di un anno) 3)Mediare nelle possibili tensioni che potevano sorgere fra la coppia di consoli: per comprendere il rapporto fra i consoli e il senato occorre tener presente che i primi, una volta terminato il loro mandato annuale, entreranno a far parte del senato. Per questo motivo il loro comportamento, nel corso della carica, era profondamente condizionato dal loro collegamento con il consesso senatorio. A sua volta questo collegamento spiega perché il senato non potesse autoconvocarsi, spettando tale compito ai consoli dotati dello ius agendi cum patribus. Per quanto concerne l’organizzazione interna al senato, essa funzionava secondo una logica gerarchica legata al rango degli ex magistrati che ne facevano parte: la sua presidenza, per tale motivo, era affidata all’ex censore più anziano. In questa prospettiva possiamo cogliere quello che è stato il carattere costitutivo delle istituzioni politiche repubblicane, ossia quello della consociatività. Il sistema di equilibrio tra i vari poteri infatti non si basava né sul criterio della maggioranza né su quello della divisione dei poteri ma al contrario il governo della città richiedeva la compartecipazione di tutti i soggetti politici-. Così se è vero che alle cariche magistratuali si veniva eletti in base al gioco delle maggioranze comiziali, e che il senato prendeva le sue delibere secondo il principio di maggioranza, è anche vero che all’interno di ogni scelta di governo assunta doveva sempre verificarsi un minimo di consenso comune. Infatti dove questo fosse mancato poteva scattare il paralizzante potere di veto insito nella struttura istituzionale repubblicana. 4. il popolo e le leggi della città: i comizi centuriati e la nomina delle magistrature Fino adesso abbiamo esaminato le funzioni e i poteri delle magistrature esistenti successivamente al 367 a.c. Non è stato tuttavia trattato un tema fondamentale: come avveniva l’elezione dei magistrati? Secondo le fonti i magistrati venivano eletti annualmente dal popolo, riunito nei comizi centuriati, attraverso una votazione a maggioranza in cui ciascuna centuria rappresentava un voto. Dal momento che le centurie erano in totale 193, accadeva spesso che le 18 centurie di cavalieri e le 80 centurie di prima classe, si accordassero per votare all’unisono. In tal modo le centurie che avevano preso parte all’accordo realizzavano da sole la maggioranza, tagliando fuori dalla decisione tutto il resto della popolazione. La convocazione dei comizi centuriati avveniva ad opera di un magistrato a ciò legittimato che, avendo individuato una data consentita dal calendario politico e religioso della città, annunciava pubblicamente la loro convocazione. A questo punto bisogna fare una distinzione a seconda che l’assemblea dovesse eleggere i magistrati o dovesse approvare le c.d. leggi comiziali. 1)La scelta dei magistrati non era libera: essa, infatti, avveniva all’interno di una ristretta rosa di candidati, precedentemente selezionati dai magistrati uscenti e approvati dal senato. 2)Le leggi comiziali venivano approvate attraverso una votazione che si svolgeva subito dopo una fase di dibattito. L’assemblea poteva decidere se approvare o respingere la legge proposta dal magistrato di turno, non poteva tuttavia emendarla. Per quanto riguarda il rapporto esistente fra le leggi comiziali e i plebisciti: il superamento del conflitto fra patrizi e plebei, rese possibile il riconoscimento del valore generale dei plebisciti. La tradizione fa risalire la parificazione dei plebisciti e delle leggi comiziali alle leggi Valerie Orazie del 449 a.c. In questo contesto, il monopolio legislativo dei comizi centuriati si modificò con la nascita dei comizi tributi, modellati sulla base degli antichi concilia plebis. In particolare, essi furono integrati con la presenza anche dei patrizi e chiamati a eleggere i magistrati minori, sine imperio, assumendo un ruolo sempre più importante anche nel processo legislativo romano. In aggiunta, divennero anche la sede atta a esaltare gli interessi del ceto dei proprietari rurali, che furono una delle basi essenziali della politica d’espansionismo territoriale. Da quel momento le leggi comiziali, approvate facendo ricorso ad un apparato decisamente più pesante rispetto all’assemblea popolare in cui venivano adottati i plebisciti, vennero utilizzate solamente per regolamentare gli aspetti più importanti della vita cittadina, in particolare: solamente un giovane appartenente ad una famiglia dotata di rendite fondiarie poteva pensare di entrare in politica. Se disponeva di una condizione economica sufficiente ad esimerlo dallo svolgimento di quello che oggi definiremmo “un lavoro”, iniziava il cursus honorum di questo cittadino che può essere suddiviso in diverse fasi: 1) La prima condizione per il suo successo politico era lo svolgimento di un servizio militare della durata di non meno di 10 anni. Solo dopo questa lunga esperienza militare, egli avrebbe potuto presentarsi alle elezioni per le cariche minori di questore o edile. La velocità con cui si realizzava questa ascesa politica era, ovviamente, diversa da persona a persona: servire, ad esempio, nello Stato Maggiore di un Generale impegnato in una campagna militare e distinguersi per atti di coraggio, significava avere la strada spianata alle successive elezioni. 2)Una volta che il cittadino, deposte le armi, presentava la sua candidatura politica, l’appoggio in senato o tra i magistrati illustri diveniva fondamentale dato che il suo nome doveva essere selezionato fra una rosa di candidati. Infine non va sottovalutato l’aspetto economico della candidatura politica: il futuro magistrato, infatti, doveva impegnarsi in una campagna elettorale che con il passare degli anni diventerà sempre più costosa, costringendo i candidati a contrarre dei prestiti, con la speranza di poterli restituire con i guadagni ricavati dalle campagne militari e dalla spoliazione delle province. 3)Una volta eletti alle cariche minori si poteva aspirare a quelle superiori, fino a giungere al vertice della repubblica con l’elezione a console o censore. Due erano i principi fondamentali che regolavano l’accesso alle cariche: a)La non duplicabilità: non si poteva essere eletti alla stessa carica per due anni consecutivi. b)Gli intervalli di tempo tra la scadenza di un mandato in una certa magistratura e la possibilità di presentarsi ad un’altra. Entrambi i principi avevano come scopo di evitare un’eccessiva concentrazione di potere nelle mani di un solo uomo. Il sistema così delineato comportava che colui che veniva eletto a una carica magistraturale, era uscito da uno lungo “collaudo” in cui erano state testate anzitutto le sue capacità militari attraverso una forte selezione che premiava solamente i migliori o, come accade ancora oggi, i più fortunati. Un’ulteriore conseguenza di questo sistema, che trova le sue radici nell’impegno militare del futuro magistrato, è che le legioni romane, per secoli costituite da cittadini- proprietari che si dedicavano alla guerra non per professione ma mossi da uno spirito patriottico (oltre che da interessi economici), furono comandate da soldati esperti (i futuri magistrati) che in modo professionale assunsero tali funzioni. Ciò permise agli eserciti di Roma di fronteggiare armate ben disciplinate e addestrate come quelle dei macedoni, dei cartaginesi, dei regni d’Oriente. In conclusione occorre sottolineare che malgrado il rinnovamento del ceto dirigente, realizzato attraverso la creazione della nobilitas patrizio-plebea, la vita politica di Roma continuò ad essere controllata dalle consorterie nobiliari. Ciò trova conferma nel fatto che gli strati superiori della plebe (quelli che ambivano alle cariche magistratuali), cominciarono anch’essi ad organizzarsi in gentes. Roma rimaneva, dunque, fortemente legata alle tradizioni. La formazione politica, militare e sociale dei membri della nobilitas patrizio-plebea, si ispirava alle tradizioni familiari, al ricordo dei grandi uomini vissuti nelle precedenti generazioni. In questo contesto il “popolo minuto” era chiamato a un ruolo di comparsa. La vita della città era fondata sui rapporti di parentela, sull’appartenenza gentilizia e su un ulteriore legame molto importante: quello clientelare. All’interno della nobilitas patrizio plebea quindi si formavano raggruppamenti di famiglie che si contendevano le magistrature e le posizioni di potere e tali raggruppamenti si modificavano nel tempo a seguito del continuo comporsi e ricomporsi dei giochi delle alleanze e delle clientele. La clientela rappresentava infatti un elemento fondante costituendo un tipo di relazione straordinariamente diffuso nell’antichità anche al di fuori di Roma. Accanto alle famiglie più importanti della nobilità patrizio-plebea infatti si costruiva un reticolo di forme di lealtà subalterna, che si rifletteva anche nel momento elettorale, in un insieme di relazioni reciproche di scambio in quanto grazie alla protezione delle famiglie più importanti era possibile muovere i primi passi nella carriera politica.. Lo schema clientelare non venne utilizzato solamente a Roma. Quando, infatti, un magistrato romano otteneva la resa di una città o di una popolazione, attraverso una vittoria militare, andava immediatamente ad assumerne la protezione. Egli si faceva intermediario fra la comunità e il senato, divenendo il referente costante per ogni richiesta che la popolazione volesse fare a Roma. In cambio di questa protezione politica il magistrato esigeva un continuo supporto materiale. Questo schema verrà utilizzato in epoche successive per intere province, costrette a pagare un tributo a Roma in cambio della sua protezione. 3.Gli sviluppi sociali tra IV e III secolo a.C. Negli anni in cui si realizzò l’avvento della nuova nobiltà patrizio-plebea, Roma aveva esteso enormemente i suoi territori, fino a controllare l’intera Italia centrale. Dopo la sconfitta dei latini (nel 338 a.c.) e il conseguente scioglimento della Lega introdotta dal Foedus Cassianum, i principali nemici di Roma divennero i Sanniti (un antico popolo italico stanziato nel Sannio, corrispondente agli attuali territori della Campania settentrionale, dell'alta Puglia, di gran parte del Molise, del basso Abruzzo e dell'alta Lucania). Iniziò dunque una lunga guerra, che nel tempo porterà Roma a dominare l’intero territorio italico. Dopo una serie di vittorie delle legioni romane nel III secolo a.c. Taranto, ultima roccaforte dei sanniti, era pronta a cadere. I sanniti, certi della sconfitta, chiesero aiuto a Pirro, discendente di Alessandro Magno, per resistere alla potenza di Roma. Tutto fu vano: nel 272 a.C. le armate di Roma conquistarono Taranto, eliminando ogni residua resistenza dei Sanniti. Oltre ai Sanniti i Romani combatterono in quegli anni molti altri popoli: i Galli, gli Umbri, gli Etruschi e nel 267 a.C riuscirono ad avere il pieno controllo del Mezzogiorno d’Italia. In ogni caso, non si trattò solo di guerre, ma del nucleo iniziale di un progetto politico di vasto respiro che sembra affiorare dietro alcuni provvedimenti: nel 313 si data la colonia di Ponza, l’anno seguente l’istituzione dei tresviri navales e il raddoppio delle legioni, la costruzione della via Appia e la stipula del trattato di amicizia con Rodi. Questa ininterrotta e felice politica militare, produsse un enorme espansione di Roma non solo dal punto di vista territoriale ma soprattutto economico. Il problema è che questa grande espansione rese molto più complessa la gestione delle entrate finanziare così come delle spese, in particolare quelle utilizzare per il sostentamento dell’esercito. I magistrati, la cui carriera come abbiamo visto nel paragrafo precedente aveva una forte connotazione militare, erano incapaci di gestire adeguatamente la complessa situazione finanziaria di Roma. La soluzione fu semplice: appaltare a privati imprenditori le attività economiche di interesse statale. Eccone alcuni esempi: a)Le terre pubbliche, ottenute grazie alle campagne militari in cui Roma era costantemente impegnata, venivano affidate ai privati a fronte del pagamento di un canone periodico. Questi, a loro volta, suddividevano le terre ricevute in gestione in tanti ager publicus, che venivano assegnati a piccoli agricoltori dietro il pagamento di un canone. Gli appaltatori guadagnavano grazie alla differenza fra la somma periodica che dovevano versare allo stato e i canoni che essi ottenevano dai contadini (somme che, secondo le fonti, erano piuttosto elevate). b) b)Le riscossioni tributarie nelle province: di esse venivano incaricati dei privati (tramite un appalto). Essi si facevano carico di questa incombenza, lucrando la differenza fra il percepito e la somma da versare alle casse di Roma. c)Lo sviluppo delle opere pubbliche, l’organizzazione del vettovagliamento per gli eserciti: tutte queste attività si svolgevano mediante degli appalti stipulati dalla città con privati imprenditori. Questo complesso sistema fu reso possibile dall’affermazione di un nuovo gruppo sociale: gli equites. Si trattava di un ceto molto ricco che forniva all’esercito romano i cavalieri, e quindi in grado di provvedere a loro spese alla costosa cavalcatura. Essi quindi detenevano la ricchezza necessaria per anticipare allo stato il denaro necessario per le attività di intermediazione dette sopra, ed inoltre avevano acquisito le competenze e tecnologie necessarie per far fronte ai relativi compiti. La loro ricchezza verrà fortemente utilizzata nel corso della storia di Roma (basti pensare al finanziamento della flotta romana, durante la Prima guerra punica ovvero al sostentamento delle armate durante la lunga guerra contro Annibale). 4. Le regole di un’oligarchia L'insieme dei meccanismi istituzionali non appare designato una volta per tutti ma viene modificato senza sosta nel corso di tutta l'età repubblicana con riforme di notevole importanza: § riduzione degli spazi di autonomia ai censori nella designazione dei nuovi senatori sottoposta a criteri più stringenti § intervento legislativo nei riguardi dei comizi che videro modificarsi la composizione delle unità di voto e l'ordine che presiedeva la loro consultazione § riforme sul rapporto tra le centurie e il fondamentale sistema di distribuzione della popolazione per tribù territoriali § innovazioni relative al contenuto delle magistrature e al modificarsi delle loro originarie competenze e dello stesso percorso stabilito per il cursus honorum del cittadino ispirate alla salvaguardia della natura oligarchica della Repubblica contro la possibile prevaricazione di singole personalità politiche troppo forti che avrebbero potuto aprire la strada a un loro potere personale (i due principi della non duplicabilità delle cariche e gli intervalli di tempo stabiliti tra la scadenza da una data magistratura e la possibilità di presentarsi alle elezioni per una magistratura superiore erano finalizzati ad evitare la concertazione di potere) § lex villia annalis- 180 a.c.- ribadiva con l’età minima per l’accesso alle cariche pubbliche, derivata dall’obbligo dei preliminari dieci anni di servizio militare, l’intervallo di due anni tra l’una carica e la successiva. Malgrado ciò tutta la storia della Repubblica fu caratterizzata dalla presenza di fortissime personalità politiche che sembrano avere un ruolo di preminenza come quelli provenienti dalla dinastia Claudia ma che non giunsero mai a creare squilibri permanenti tra i poteri e gli organi della Repubblica. 5. Appio Claudio Cieco: un ardito riformatore Uno dei personaggi che meglio rappresenta il clima politico-sociale del IV secolo a.c. è Appio Claudio, discendente del famoso decemviro che ricoprì tale carica nel 451 e nel 450 a.c. Eletto ripetutamente alle massime cariche magistraturali (fu censore nel 312 a.c.), nel corso della sua lunga carriera svolse un’importante opera di modernizzazione della città, intervenendo nei più vari settori. Fra di essi particolarmente importante è l’attività urbanistica: Sotto Appio Claudio venne costruita la via Appia, chiamata dai Romani “la regina delle vie”, il cui nome deriva proprio dal personaggio di cui stiamo parlando. Questa grande opera trattato ancora più importante: il Foedus Cassianum, un patto di alleanza fra Romani e Latini che istituiva una lega comune il cui scopo era garantire la protezione reciproca dei cittadini appartenenti alle diverse comunità alleate. La logica di quest’accordo, appare ben diversa rispetto a quella che sta alla base del trattato Roma-Cartagine: esso voleva sancire una forma di comunanza giuridica tra Romani e Latini Prisci (un nome utilizzato per distinguere questi latini dai successivi abitanti delle colonie). In base a questa assimilazione giuridica fra le due comunità, ai Latini che si fossero trovati a Roma sarebbero stati garantiti alcuni diritti fondamentali: 1)Lo ius commercii: il diritto di commerciare liberamente con Roma con la possibilità di ricorrere al magistrato per la tutela dei propri atti negoziali. 2)Lo ius connubii: il diritto di contrarre matrimonio con un cittadino Romano. 3)Lo ius migrandi: questo diritto non venne introdotto con il Foedus Cassianum, bensì in epoca successiva. Esso stabiliva la possibilità dei Latini di acquistare la cittadinanza Romana, spostando la loro residenza a Roma. Gli stessi diritti ora esposti spettavano ai Romani che decidevano di intrattenere rapporti con le città Latine. In ogni caso, l’aspetto più rilevante del foedus Cassianum è che consolida una situazione politica resa incerta, sia dalle crisi interne alla società romana sia dall’ aggressiva presenza di popolazioni ostili come i volsci e gli equi e la cui pressione esercitata sulle varie città latine si sostanziò in una serie ininterrotta di scontri militari nel V secolo sui colli Albani. In questo clima incerto si colloca la Fondazione di una serie di nuove colonie da parte della Lega, nuove città destinate a divenire esse stesse parti di questa alleanza e meccanismi atti a realizzare i processi di espansione degli spazi cittadini (stessa prassi secondo cui l'intera parte meridionale della penisola la Magna Grecia è stata colonizzata dalle varie città greche) Tali operazioni avevano un significato essenzialmente militare consistente nell'invio di contingenti di cittadini romani e latini a occupare una parte dei territori conquistati e sottratti ai vinti; in questo periodo il termine colonia indicava piccole comunità urbane create ex novo dalla città madre e situate in punti strategici. 3. Una rottura nella storia Il brusco mutamento di scenario intervenuto agli inizi del quarto secolo era destinato a moltiplicare il materiale istituzionale e l'intera fisionomia politico istituzionale di Roma. Si tratta di una accelerazione che non mutò solo il paesaggio politico razziale ma quello di tutta l'Italia centro meridionale. Nel IV secolo Roma assume il controllo di numerosi territori: 1- 396 a.c.: conclusione vittoriosa della guerra durata un secolo contro Veio e la sua inevitabile distruzione, Roma e Veio erano infatti due città troppo vicine e importanti perché potessero proseguire entrambe nella loro storia; la vittoria portò a un raddoppiamento del territorio, ad un aumento della cittadinanza romana e ad un acceleramento della storia successiva 2- A partire dal 393 furono fondate colonie latine e in questi processi Roma appare muoversi in modo autonomo senza più far riferimento al consenso delle altre città latine appartenenti alla Lega e si ritiene quasi titolare di un potere eminente sulla stessa alleanza con i Latini 3- Tra il 381 e 370 a.C. la città di Tuscolo fu assorbita, dunque ora il caso di cannibalizzazione riguardava un alleato di Roma la cui indipendenza doveva essere assicurata dal Foedus Cassanium 4- L'espansione nel Lazio si completa con l'assorbimento dell'importante città etrusca di Cerveteri Questi processi determinarono una reazione dei latini che si distaccarono dall’antica alleanza e dopo aver stretto accordi con i Volsci, antichi avversari, si scontrarono a più riprese con gli eserciti romani. Questa crisi si protrasse sino al 340 a.C. , concludendosi con la definitiva vittoria di Roma sui tradizionali nemici e sugli antichi alleati, ormai tutti assoggettati al suo potere imperiale che si estendeva anche alle città campane. Il punto di rottura e di passaggio verso un'aggressività militare è determinato dal valore di svolta delle trasformazioni istituzionali avvenute nel 367 a.C. con il compromesso patrizio plebeo e il conseguente ampliamento delle élite di governo romano con l'integrazione della nuova aristocrazia plebea. In questo contesto con aumentate capacità di coinvolgimento di altri gruppi sociali, le capacità militari romane appaiono superiori rispetto alla precedente stagione così come la strumentazione e la sapienza politica nel ceto di governo che orientò la politica istituzionale romana in quegli anni di svolta. Negli anni successivi alla definitiva vittoria romana sui latini e i campani vi fu la parziale incorporazione di altre città già indipendenti nel proprio organico cittadino, l’istituzione di colonie civium Romanorum e di colonie aventi lo statuto latino. Questi meccanismi diedero a Roma la massima capacità di espansione e solidità strutturale con il modello della città-stato governato da un aristocrazia non professionale e fondata su un'economia agraria di sussistenza. 4. La svolta del 338 a.C. Nel 338 a.C. dopo la vittoria sui Latini e i Campani fu evidente la capacità di inglobare le molteplici comunità su cui sarà estesa l'egemonia romana in un tessuto unitario e forte tale da salvaguardare le specifiche identità e autonomie delle singole città. Il foedus Casssianum era venuto definitivamente meno nel 338 a.C., anno in cui Il Senato romano ridefinì in modo unilaterale la situazione giuridica di ciascuna delle città vinte con una conseguente assunzione da parte di Roma di un potere sovrano su tutte le antiche città della Lega Latina: § le più importanti come Tivoli e Palestrina continuarono a godere di un'autonomia organizzativa ma la loro sovranità dipendeva ormai dal superiore e autonomo volere di Roma. Non a caso, in questo contesto il senato decise di interrompere ogni vincolo giuridico e istituzionale intercorrente tra le varie città laziali onde ostacolare qualsiasi ulteriore solidarietà che potesse nuovamente sfociare in un'alleanza anti romana. § diverse altre città della Lega invece furono annesse direttamente da Roma nella propria cittadinanza come Tuscoli; queste comunità conservarono la loro identità cittadina e le loro forme di autogoverno ma i loro cittadini erano cives romani a tutti gli effetti soprattutto per i loro obblighi militari. In ogni caso, la concessione della piena cittadinanza riguardò fino alla guerra sociale casi estremamente rari. Da allora l'ordinamento romano dispose di una pluralità di statuti giuridici personali la cui coesistenza superava la logica della città antica dove popolazione residente e diritti di cittadinanza si identificavano; dal 338 Roma poteva disporre anche dello statuto giuridico latino. Così, I latini prisci e i cittadini nelle colonie latine entrarono a far parte della categoria dei peregrini, ossia stranieri, in ragione del loro accesso facilitato alle forme e alla tutela del diritto romano consacrato dal commercium e dal conubium. Tuttavia, le terre di loro pertinenza non facevano parte del dominium del diritto romano, e a questo proposito l’espressione ius Latii viene usata a indicare questa particolare posizione giuridica nei rapporti con Roma assicurata ai membri delle comunità del Latium vetus e ai membri delle colonie più recenti. Per tutte le altre città appartenenti sia agli antichi nemici che ai vecchi alleati e alle popolazioni campane che si sono arrese a Roma il Senato romano sancì un assorbimento solo parziale delle varie città attribuendo ad esse una cittadinanza romana limitata poiché priva diritti politici. In questi casi, le vecchie entità cittadine restavano immutate nella loro organizzazione interna pur avendo perso la loro autonomia sovrana e i loro abitanti divenivano cittadini romani ma solo per quanto concerneva l'accesso agli istituti del diritto civile romano e soprattutto per essere sottoposti agli stessi obblighi fiscali e militari. Costoro invece erano esclusi dalla partecipazione alla vita politica e agli organi deliberanti di Roma quindi mentre facevano parte delle legioni essi erano esclusi dalle assemblee cittadine e dalle tribù territoriali non potendo neppure usufruire della provocatio ad popolum. L'esclusione dalle tribù territoriali deriva dall'esclusione delle loro proprietà fondiarie dalla sfera del dominium del diritto civile romano, poiché questi territori non facevano parte dell’ager romanus. Pertanto, i cives sine suffragio potevano fruire del diritto romano nei loro rapporti con i cittadini romani o con i latini mentre le relazioni interne al loro municipio continuarono a essere regolate dal diritto locale. Tuttavia, con questo sistema i romani avrebbero incontrato enormi difficoltà ove avessero sostituito in blocco col diritto civile romano i molteplici sistemi giuridici delle città integrate. Tra queste i problemi linguistici in quanto le comunità parlavano dialetti e lingue diverse dal latino con cui veniva tramandato oralmente il diritto romano, impedendo così loro di accedervi Un elemento comune a tutte queste realtà è che sia i municipi di cittadini optimo iure sia quelli di sine suffragio, come le colonie latine e quelle romane, fruivano di una relativamente ampia autonomia organizzativa e amministrativa fondata sul funzionamento dei governi e degli ordinamenti locali. Questo comportava due risultati vantaggiosi per la potenza dominante: § soddisfaceva al fortissimo radicamento delle varie popolazioni alle proprie tradizioni § evitava di aggravare le istituzioni di governo con nuove e complicate funzioni derivanti dal diretto coinvolgimento nei governi locali. In questo contesto cambia la concezione di cittadino originariamente identificato dalla sua appartenenza anche fisica alla città e che poteva ora essere considerato tale anche se viveva in un'altra città appartenendo alla prima per tutti gli aspetti politici e giuridici; Cicerone formula l'immagine delle due patrie: §una particolare a ciascuno per nascita e residenza §l'altra comune a tutti quelli che a vario titolo erano cives romani 5. Le colonie e la “limitatio” L'unificazione della penisola sotto il dominio romano si associa ai diretti ampliamenti territoriali realizzati dai vincitori secondo la pratica corrente di multare le comunità sconfitte e sottomesse sottraendo a esse una parte del loro antico territorio. La stessa colonizzazione romana e Latina era venuta sottraendo una parte delle terre delle comunità conquistate e insediando i propri cittadini come era avvenuto nel caso della vittoria su Veio e delle ampie conquiste nel Lazio meridionale. Le dimensioni e la rapidità della conquista determinarono un notevole sforzo organizzativo da parte dei governatori romani con la progettazione di nuovi sistemi di sfruttamento e utilizzazione del vasto demanio acquisito: - solo una parte di questi fu direttamente distribuito a una fascia relativamente ampia di cittadini romani- c.d. assegnazioni viritane perché effettuate a favore del singolo cittadino (vir) - In buona parte questi nuovi territori restarono nella disponibilità della città costituendo: una parte il demanio di ager publicus lasciato allo sfruttamento dei privati dietro pagamento di un canone un'altra parte destinata alla fondazione di Colonie (prima colonia romana: Cales) Colonie con l'antico statuto delle colonie latine: erano la maggior parte e attraverso di esse Roma attuò un'efficace politica demografica e economica spostando in zone di nuova occupazione la popolazione in eccedenza e provvedendo a una redistribuzione di terre. Così, nel corso del tempo molti cittadini romani e latini si ambito territoriale. Ci fu un improvviso allargamento dell'ambito di applicazione del diritto romano a seguito dell'attribuzione della civitas sine suffragio alle comunità dell'Italia centro meridionale. Tuttavia, ciò assicurava vantaggi solo a favore di gruppi relativamente ristretti all'interno di queste società poiché sussisteva un filtro fondamentale costituito dalla capacità di utilizzare la lingua Latina che metteva quasi esclusivamente le élite locali nella condizione di poter effettivamente utilizzare le forme giuridiche romane. In aggiunta, l'accesso ristretto alle nuove forme legali corrispondeva alle gerarchie economiche interne alle varie società. Quindi la sostanziale estraneità della massa della popolazione dei nuovi municipi all'effettivo uso del diritto romano non dovete essere solo frutto di debolezza linguistica e culturale ma anzitutto espressione di un inferiorità economica. Questo accentuava le stratificazioni sociali esistenti nei vari municipi. Non a caso, c'era uno scambio di lealtà subalterna assicurata dalle aristocrazie locali al governo di Roma a garantire la tenuta delle loro comunità a fronte del supporto romano fornito loro per consolidarle nel controllo dei governi cittadini. I governanti romani quindi miravano esclusivamente a garantirsi una stratificazione gerarchica della realtà politica dei governati come dimostrato anche dal carattere mirato dei loro interventi repressivi che colpivano solo i casi in cui la condotta anti romana era stata guidata o aveva coinvolto le locali elite. In questi casi la reazione di Roma era pesante sino a giungere in alcuni casi alla dissoluzione della città. Questo ci fa capire perché l'espansione romana in Italia ha una forte struttura gerarchica tale da consolidare i rapporti di forza tra le classi sociali in funzione di una generalizzata dominanza oligarchica e di ceto. Con il tempo però si ebbe una penetrazione più estensiva del diritto romano a livello locale tale da coinvolgere crescenti strati delle popolazioni locali e nel secondo secolo i linguaggi italici e le tradizioni culturali appaiono ormai in via di dissoluzione preparando così il terreno per la concessione della cittadinanza romana a tutti gli italici. 3. Altre strade dell’assimilazione La vicenda della vittoria su Veio seguita dalle stragi, dall'asservimento di massa dei vinti e dalla dispersione dei sopravvissuti comportò anche delle massicce distribuzioni delle terre acquisite da Roma non solo ai cittadini ma anche a molti locali integrati poi nella piena cittadinanza romana e iscritti nelle relativi tribù territoriali. Ci fu dunque una rapida trasformazione di nemici vinti in cittadini spiegata dalla necessità romana di supportare la sua crescente volontà di espansione e di conquiste territoriali con adeguate forze militari e quindi con una crescita della sua popolazione. Il grande processo di acquisizione di terre confiscate dai romani ai nemici vinti e destinate a espandere l’ager romanus fu la base territoriale per la grande quantità di nuove colonie allora fondate. Questo non generò almeno inizialmente dei grandi problemi sociali perché: da un lato gli interventi romani avvennero spesso in territori poco popolati dove la perdita delle terre poté essere compensata dall'accelerazione delle forme di economia urbana favorite dai grandi circuiti mercantili che l'avvio della unificazione politica della penisola aveva reso possibili dall'altro lato molti dei gruppi sociali più danneggiati dagli espropri romani continuarono a svolgere le loro precedenti attività solo alle dipendenze dei nuovi proprietari romani Una forte funzione di integrazione tra gli antichi abitanti e i nuovi venuti fu svolta dalla colonizzazione Latina con le ampie assegnazioni di territorio collocato strategicamente al di fuori dei confini romani. L'autonomia organizzativa di tali centri che riservava ai magistrati locali l'opera di registrazione dei membri della colonia toglieva l'onere di censire gli organici ai censori romani; tagli organici non sempre si identificavano con cittadini romani disposti a perdere la loro cittadinanza o come prisci latinii ma anzi spesso per far fronte alle esigenze di reperire migliaia di coloni si lasciava che molti italici entrassero a far parte dei latini e ne acquisissero la legittima qualificazione. Infatti non bisognava trascurare che nei casi di spopolamento o indebolimento demografico delle colonie, i singoli governi coloniari erano disposti a tollerare l’arruolamento di elementi indigeni. Ci fu pertanto una generale ricomposizione di equilibri demografici, di situazioni sociali, sradicando in parte molte comunità dalle loro stesse culture e facilitando la formazione di nuovi e condivisi linguaggi. 4. La città-stato e il suo territorio: un caso particolare La mappa dell’Italia tra la fine del IV e la prima metà del III secolo a.C. appare così costituita: al centro troviamo una vasta area priva di particolarità che è il territorio proprio della Città di Roma: l’ager romanus in gran parte attribuito in proprietà privata ai cittadini e suddiviso nelle varie tribù territoriali il cui numero si era elevato a 35, consisteva in un'enorme spazio che si era allargato fino ad occupare quasi tutta l'Italia centrale. Nei suoi dintorni troviamo le antiche città del Latium Vetus (tivoli e palestrina)lasciate sussistere nella loro condizione di autonomia sovrana Ci sono poi gli enclaves ovvero singole città lasciate sussistere con un proprio statuto e una propria autonomia come camerino legata da un trattato di assoluta parità con Roma Ai margini di queste zone c'erano le colonie romane All'esterno troviamo invece i nuovi municipi sine suffragio, popolazioni vicine e in qualche modo da tempo collegate a Roma e capaci di parlarne la lingua nella restante parte della penisola (a sud in ambito Magno greco ,la Gallia cisalpina a nord, e il mondo etrusco) troviamo una pluralità di socii italici sostanzialmente privi di qualsiasi autonomia nel campo della politica estera e in ambito militare. E evidente come il processo di espansione di Roma abbia avuto due linee di sviluppo parallele: - da un lato la crescita del reticolo territoriale di alleanze dipendenti caratterizzata da una sostanziale coerenza strutturale con una larga autonomia dei tanti centri in essa coinvolti - Dall’altro la crescita dell’ager romanus e di Roma Il punto di svolta fu toccato con le grandi conquiste di Manio Curio Dentato all'inizio del terzo secolo del vasto territorio sabino e del Piceno in coincidenza con la parte settentrionale delle Marche. Questo comportava gravi problemi al governo di Roma attestati dal ritardo con cui se ne regolarizzò la condizione giuridica inquadrandole nelle ultime tribù territoriali nel 241 a.C. (35 tribù territoriali). In ogni caso, la rete politica delle città alleate si fondava sulla loro autosufficienza organizzativa che le metteva in grado di adempiere alle obbligazioni contratte nei riguardi di Roma, interesse della quale era quindi favorirne l'ulteriore rafforzamento. Pertanto, la penisola italica si configurò essenzialmente come un tessuto di città coordinato da Roma come un sistema politico unitario. In questo contesto, il processo di redistribuzione fondiaria non sembra collegarsi allo sviluppo di nuovi centri urbani, anzi diede vita ad altre forme di insediative come e fora, conciliabula, oppida, castella e vici accanto alle strutture portanti dell'ordinamento: coloniae, municipia e prafecturea. 5. I limiti dell’integrazione Enormi erano stati benefici in termini di potere economico ma anche territoriali che Roma aveva ricavato dall'insieme di vincoli con cui aveva istituzionalizzato la sua espansione politica dopo lo scioglimento della Lega. In particolare, ci fu una crescita di Roma come città stato e come centro politico di un blocco sociale e militare chiamato con il termine confederale o federale. Questo grazie soprattutto alla capacità romana di trasformare i nemici vinti in alleati sino a includerli tra i propri cittadini. Non c'era quindi alcun motivo per i romani di modificare il complesso mosaico di alleanze e forme di semi- dipendenza da loro costruito In Italia, esso era una soluzione ottimale e tendenzialmente stabile anzitutto perché l'ampio sistema di forme di autogoverno su cui si era fondato risultava agevole da controllare e garantiva la leggerezza propria del modello cittadino: quest’ultimo era caratterizzato da magistrati titolari di potere ed eletti annualmente da assemblee popolari, un organo permanente che assicurava un controllo centralizzato delle scelte politiche e la continuità negli orientamenti strategici della città, con la temperanza democratica della assemblee costituite dai cittadini-soldati. Pertanto, i romani non avrebbero ricavato alcun vantaggio trasformando questo reticolo di alleanze in una costruzione politica unitaria. In tale contesto un’ altro meccanismo di integrazione continua a funzionare: il sistema delle manomissioni in base a cui ciascun proprietario di schiavi romano poteva concedere a costoro la libertà a cui si associava automaticamente la cittadinanza romana, questo sembrava porre gli alleati italici e gli stessi Latini in una condizione addirittura inferiore agli stranieri in condizioni servili. Quando iniziò a maturare l'aspirazione degli italici a divenire romani, Roma si dimostrò incapace di venire incontro alla loro pretesa in quanto non erano in grado di progettare un'organizzazione politica diversa dalla città-stato da loro portata ai massimi livelli. Inoltre, le vecchie istituzioni cittadine come il senato o le assemblee funzionanti in base al principio della democrazia diretta non avrebbero potuto sopravvivere se la città divenisse un'intera nazione nel senso moderno. Alla fine alla rinuncia alle proprie forme politiche e alle proprie tradizioni i romani preferirono una guerra sanguinosa e rischiosa che non poterono vincere se non rinunciando a disporre di quella cittadinanza che fino all' 89 a.C. avevano esteso in forma circoscritta e in dimensioni quasi irrilevanti. La loro sconfitta fu innanzitutto politica in quanto contro di essi si scatenò la frustrazione delle elite italiche interessate alla civitas loro negata e la forzata estensione della cittadinanza che ne seguì poneva problemi quasi insormontabili attestata dal fatto che, fino a quando con Cesare non ci fu un mutamento delle istituzioni politiche a favore di un potere semi monarchico, l'accesso alla nuova cittadinanza degli italici venne attuandosi solo in limiti circoscritti. La verità è che la Repubblica si trovava di fronte a un problema di fondo rispetto a cui la cultura politica romana non disponeva dello strumento tecnico e dell'apparato ideologico in grado di risolverlo: questo porterà al naufragio della stessa Libertas repubblicana. CAPITOLO 9 – L’EVOLUZIONE DEL DIRITTO ROMANO E GLI SVILUPPI DELLA SCIENZA GIURIDICA 1. I giuristi e il diritto privato Nel diritto romano il fondamento dello ius civile si trovava nei mores e nella legge delle XII tavole. Esso rimase per molto tempo l’unica forma di diritto utilizzabile dai cittadini romani, a causa dell’atteggiamento conservatore del collegio pontificale. La svolta, in questa situazione decisamente statica, si realizzò con la censura di Appio Claudio (di cui si è parlato nel capitolo precedente), il quale laicizzò il collegio pontificale, garantendo la nascita di un’ampia comunità di giuristi laici che, nel corso di 3. L’editto del preotre, il “ius gentilium” e il “ius honorarium” Nel tempo le formule adottate dal pretore, pur derivando dalla soluzione di casi concreti, andarono trasformandosi in regole generali. Ciò derivò dal fatto che il pretore, essendo un magistrato superiore dotato di imperium, aveva la prerogativa di emanare gli editti (contenenti prescrizioni da rendere note a tutta la popolazione). Tramite gli editti i due Pretori, all’inizio di ogni anno, rendevano note alla popolazione le situazioni giuridiche non tutelate dallo ius civile, che avrebbero ricevuto la loro protezione. Le regole elaborate dal pretore peregrinus vennero a costituire un vero e proprio corpo di diritti nuovi e diversi rispetto allo ius civile, considerati come diritto proprio di tutti gli uomini (ius gentium). Tali diritti poi non restarono confinati ai soli rapporti tra stranieri e tra stranieri e romani ma vennero presto estesi a tutti cittadini e in tal modo il corpo di regole elaborato dal pretore peregrinus (ius gentium) venne a far parte del patrimonio giuridico romano a tutti gli effetti. Una importanza ancora maggiore ebbe però l’introduzione del processo formulare, che fu lo strumento principale per il pretore per essere veramente sovrano. Quest’ultimo infatti non era servo dello ius civile e quindi poteva evitare di applicarlo o poteva intervenire anche in campi non previsti dallo ius civile se lo richiedevano esigenze di equità e di giustizia. Non a caso, il pretore poteva non ammettere a tutela una pretesa processuale legittima secondo lo ius civile se lo richiedeva l’equità e poteva imporre al giudice di utilizzare come se fossero avvenuti fatti non esistenti (actiones ficticiaes) o di giudicare a favore dell’attore sulla base di fatti irrilevanti per il diritto civile (actiones in factum): quindi, sia pur su un piano solo processuale, si era formato un nuovo diritto che si sovrapponeva integrandolo allo ius civile. Inoltre, ogni pretore all’inizio della sua carica faceva proprie, nel suo editto, le regole utilizzate dal predecessore integrandole o modificandole e se nel corso dell’anno intervenivano situazioni nuove poteva assumere un provvedimento nuovo con un apposito decreto che se si rivelava efficace veniva inglobato nell’editto emanato dal successore. Gli editti emanati dal pretore quindi divennero in concreto un nuovo corpo normativo. Infatti i romani sapevano bene che l’editto del pretore prevaleva in sostanza anche sul diritto civile in quanto il diritto in sé, senza protezione processuale, valeva poco potendo realizzarsi solo grazie al buon cuore delle parti. Accanto al sistema del diritto civile venne quindi affermandosi un nuovo sistema di regole che coesistevano con esse in maniera autonoma, il cosiddetto diritto pretorio (ius honorarium). Fu proprio questa articolazione a rendere possibile il rapido sviluppo del diritto romano in funzione delle trasformazioni economiche e sociali iniziate all’epoca delle guerre puniche. Tuttavia, in questa società in forte espansione furono i magistrati giusdicenti a fornire tutela a situazioni non previste dalle vecchie norme e a cui non provvedevano ancora i nuovi criteri enunciati nell’editto. In ogni caso, a partire dal II secolo a.c. l’ordinamento giuridico romano si articola in base a due logiche parallele (destinate a restare anche nella tarda repubblica e nell’età del principato): da un lato il diritto civile esclusivo dei cittadini romani e dall’altro il diritto onorario fondato esclusivamente sulle regole dell’editto pretorio. E’ indubbio che tale bipartizione avrebbe potuto condurre a difficoltà senza la cooperazione tra pretore e scienza giuridica laica. Infatti senza la protezione processuale accordata dal pretore l’interpretazione dello ius civile da parte dei giuristi non avrebbe potuto condurre alle innovazioni concretamente verificatesi mentre senza l’assistenza dei giuristi il pretore (spesso incompetente in materia legale) non avrebbe potuto svolgere la sua opera sia negli editti che nella condotta processuale. Questo intreccio contribuisce a spiegare il netto orientamento verso gli aspetti processuali dalla scienza giuridica romana 4. La scienza giuridica romana come sapere aristocratico Da quello che abbiamo visto finora deriva che la maggior parte delle regole che disciplinavano la vita dei cittadini non derivava da una delibera dell’assemblea cittadina ma era il frutto di una specie di tacita delega prima al collegio dei pontefici e poi ad una comunità di sapienti che avevano appunto il compito di specificare quello che era il diritto nella sua applicazione concreta nella vita della città. Tale soluzione adottata dalla società romana è decisamente lontana da quella che è la nostra esperienza moderna, basata sul primato della legge, quale espressione diretta della volontà popolare attraverso gli organi costituzionali a ciò deputati. La società romana invece era basata su un sistema di reciproci controlli dei vari organi attraverso la commistione dei poteri. In essa la legge, identificata nelle XII tavole e a livello particolare nella singola norma era senz’altro fonte del diritto vincolante per tutta la società ma accanto e forse sopra ad essa si poneva l’interpretazione dei giuristi senza la quale la norma, nel suo arcaismo anche linguistico, sarebbe rimasta inoperante o avrebbe avuto più circoscritte applicazioni. Il cittadino romano infatti, di fronte all’oscurità e genericità delle norme delle XII tavole non aveva altro mezzo che ricorrere alla mediazione degli specialisti, prima i pontefici e poi i giuristi laici. L’interpretazione dei giuristi quindi era fonte autonoma di diritto, fonte che non era nelle mani del popolo in comizio né affidata al magistrato elettivo ma delegato ad un corpo di privati cittadini, i prudentes (i sapienti, gli esperti) selezionati esclusivamente all’interno dell’aristocrazia romana. I giuristi infatti appartenevano all’aristocrazia e non potevano essere altrimenti dal momento che essi assistevano i cittadini a titolo gratuito (e ciò determinava l’allargamento della loro cerchia di amici e di alleati anche in vista del voto elettorale), e pertanto coloro che dovevano lavorare per vivere erano in partenza esclusi da tale possibilità. D’altra parte nel corso del III secolo a.c. il contatto con la Magna grecia e il mondo ellenistico aveva aperto la strada alla classe dirigente romana a nuove occupazioni intellettuali come lo studio della retorica e delle correnti filosofiche greche, attività che potevano essere esercitate senza disonore dagli aristocratici e che erano in grado di dare maggiore profondità di campo alla scienza giuridica. La connotazione aristocratica della giurisprudenza repubblicana è un carattere importante e fondamentale in quanto ci permette di capire come nell’età repubblicana il diritto fosse associato strettamente alla politica come arte di governo e di disciplina sociale, in quanto con l’accrescersi della potenza di Roma era ancora più necessario organizzare e tenere sotto controllo popolazioni situate in territori diversi e differenziati e quindi il diritto diventava lo strumento con cui definire il complessivo funzionamento della società. Tale modo di operare del diritto però era reso possibile dall’esistenza di una forte compattezza di ceto e di un fortissimo controllo sociale. Infatti il fatto che una soluzione giuridica fosse adottata solo in base al prestigio del giurista che la proponeva, che uno strumento processuale potesse essere imposto o rifiutato dal pretore in virtù del suo imperium, la sostanziale assenza di una legge generale decisa dalla comunità politica poterono funzionare solo in base ad un implicito sistema di deleghe da parte della società ai soggetti portatori di autorità. Tali deleghe erano d’altra parte possibili in quanto il gruppo sociale che le esprimeva era così compatto e condivideva gli stessi interessi non richiedendo quindi la mediazione preventiva da parte della legge. Occorre anche notare che anche quando la lotta politica romperà tale compattezza di ceto l’autonomia della scienza giuridica romana sarà così consolidata da poter sopravvivere alla crisi restando al centro della vita giuridica del principato. 5. La giurisprudenza dalle guerra annibaliche alla crisi della repubblica Fu proprio la diffusione della filosofia ellenistica a creare il terreno fertile per la nascita di una vera e propria scienza del diritto. Ma a questo punto viene da chiedersi: cos’è la scienza del diritto? Per rispondere alla domanda bisogna ricordare che i giuristi romani, a partire dal II secolo a.c., cominciarono a lavorare su sistemi di classificazione, così da raggruppare i fatti giuridicamente rilevanti che avessero elementi in comune Attraverso queste classificazioni si venne formando un sistema di regole e categorie, organizzato secondo gli schemi della dialettica greca (per generi e specie). Tradizionalmente la nascita della scienza giuridica si fa risalire al 198 a.c., data in cui venne eletto console Sesto Elio Peto Cato, autore dei Tripertita, un’opera che ha come obiettivo di compiere un'analisi del diritto di quell'epoca. Per questo motivo Sesto Elio viene ritenuto il primo vero giurista romano da cui poi nacque la giurisprudenza romana. A questa fase “fondatrice” della giurisprudenza, fece seguito una fase più matura che coincide con l’età tragica delle guerre civili, dominata da due personalità: 1)Quinto Mucio Scevola: Secondo molte fonti si tratta del primo autore responsabile di una generale organizzazione del sistema giuridico. Cicerone, anche se non lo amava, ci dice che egli fu “il primo ad organizzare il diritto”. Il grande giurista, che svolse la sua carriera politica fra la fine del II secolo a.c. e l’inizio del I secolo a.c., presenta una tipica mentalità aristocratica. Egli viene ricordato per alcune opere fondamentali: a)Un libro di definizioni: il c.d. oron (che in greco significa, appunto, definizione). b)i diciotto libri del iurisi civilis: una raccolta con cui il giurista ha realizzato una prima sistemazione del diritto civile Romano. 2)Servio Sulpicio Rufo, di una generazione più giovane di Quinto Mucio Scevola (svolse le sue funzioni politiche fino al 43 a.c.) è considerato da Cicerone, suo grande amico, di molto superiore a Mucio. Un’idea, quella di Cicerone, che può facilmente essere condivisa dato che non esiste campo, nel diritto Romano, in cui Servio non abbia dimostrato la sua particolare capacità analitica. Si ritiene, infatti, che egli abbia avuto l’intenzione di riorganizzare l’intera materia giuridica all’interno di un quadro unitario nuovo (superando la frammentazione del diritto in ius civile e ius honorarium). Egli fu il primo giurista del cui pensiero resti consistente documentazione attraverso le numerose citazioni fatte dai giuristi successivi; a testimoniare la grande influenza da lui esercitata su più di una generazione 3)Resta infine un ultimo giurista da considerare, prima di terminare l’esame dell’esperienza giuridica repubblicana e passare a quella imperiale: Marco Antisio Labeone. Vissuto durante l’epoca di Augusto, si sottrasse tenacemente ai tentativi del princeps di inserirlo fra i suoi stretti collaboratori. Fu autore di un numero elevatissimo di opere, nelle quali riversò lo spirito dell’esperienza giuridica repubblicana, ormai giunta ai suoi ultimi anni di vita. CAPITOLO 10 – I NUOVI ORRIZZONTI DEL III SECOLO A.C. E L’EGEMONIA ROMANA NEL MEDITERRANEO 1. Le guerre puniche e l’eredità di Annibale La sconfitta dei Sanniti, resa definitiva dalla capitolazione di Taranto del 272 a.c., assicurò a Roma il controllo dei grandi centri mercantili e marittimi della Magna Grecia. Ciò obbligò Roma a fare i conti una realtà che fino a quel momento era rimasta a loro estranea o quasi: il mare. responsabili delle riscossioni tributarie (i c.d. publicani, chiamati in questo caso decumani in quanto riscuotevano la decima), aumentarono esponenzialmente i tributi che dovevano essere pagati dalla popolazione, in modo da aumentare la differenza fra le somme incassate e quelle da versare a Roma. I governatori, invece di condannare questo comportamento, si associarono con i publicani per lucrare anch’essi a spesa delle popolazioni sottoposte. Un altro problema fondamentale delle province era la nomina dei magistrati incaricati di governarle. Con il moltiplicarsi delle province sottomesse a Roma, i magistrati ordinari divennero insufficienti dal punto di vista numerico. A questo punto Roma, anziché nominare nuovi magistrati ordinari, utilizzò l’istituto della prorogatio imperii per affidare il governo delle province a quei magistrati (consoli e pretori) che avevano terminavano il loro anno di mandato. La prorogatio permetteva al magistrato di mantenere il suo potere di imperium, non più come magistrato ordinario in carica, bensì come pro-console o propretore, incaricato di governare una certa provincia; una carica che avrebbe conservato fino a che il senato non avesse nominato un suo successore. La nomina a governatore di una provincia divenne uno dei motivi su cui si fondarono le maggiori contese fra i magistrati superiori, data la possibilità di arricchirsi enormemente grazie allo sfruttamento delle province. DI qui la necessità di stabilire le destinazioni dei vari magistrati in modo relativamente imparziale. Per rquanto riguarda l’organizzazione amministrativa delle province, per ognuna di esse venne adottato uno Statuto, redatto da 10 cittadini (i c.d. decem legati), sotto la supervisione del Senato. Una volta completato lo Statuto veniva emanato dal governatore provinciale, nel frattempo nominato dal Senato, nell’esercizio del suo potere di imperium. Oltre al Governatore il senato nominava un gruppo di legati di rango senatorio, per coadiuvare e controllare lo stesso governatore. Importante era, inoltre, la figura del Questore: dotato sia di funzioni militari che di compiti finanziari. I poteri del governatore si estendevano, tra l’altro, al controllo del sistema giudiziario. Il diritto romano, infatti, venne utilizzato per regolamentare la vita delle comunità sottomesse a Roma (ad eccezione delle citta alleate che, in base a specifici trattati, mantenevano la loro autonomia giuridica). La repressione criminale, invece, dipendeva dall’esercizio dell’imperium militiae da parte del governatore (il potere di intervenire militarmente a difesa della provincia). 4. L’innesto della cultura ellenistica Dopo la sconfitta di Cartagine durante la Seconda guerra punica, Roma puntava a conquistare tutti i c.d. Regni ellenistici (la Grecia, la Siria, l’Egitto, il regno del Ponto, la Macedonia, i Regni dell’Asia minore). I Romani erano consapevoli che se tutti questi regni si fossero uniti insieme in un’alleanza anti-romana, Roma non avrebbe avuto scampo. Per questo, fra il 200 e il 167 a.c., venne ideata una strategia semplice e geniale: perseguire sistematicamente la divisione fra questi regni, stringendo alleanze con alcuni, isolando altri, combattendo battaglie individuali. In questo modo vennero conquistate nell’ordine: la Macedonia, la Siria, l’Egitto, la Grecia. Salvo alcuni casi isolati, in cui il Senato volle garantire a questi regni un’autonomia analoga a quella posseduta quando erano degli “Stati sovrani”, queste vittorie di Roma ebbero l’effetto di incrementare enormemente il numero di province direttamente controllate dai Governatori Romani. La conquista di questi territori, inoltre, non arricchì Roma solo dal punto di vista economico. Essa comportò l’introduzione di nuove idee, valori, modi di pensare. E’ in questo momento che la classe dirigente impara il greco come sua seconda lingua, che si avvicina alla filosofia greca e all’arte oratoria dei sofisti; tutti strumenti che influenzeranno non poco la vita politica e giudiziaria di Roma, contribuendo inoltre alla formazione di quella nuova scienza giuridica (Capitolo 8). Questo allargamento culturale di Roma, contribuì a indebolire quella certezza che i Romani avevano sempre riposto nella tradizione e nei valori costituivi della repubblica. Al contrario maturava, una tendenza di tipo universalistico e la percezione di una dignità umana indipendente da gerarchie e statu sociali. 5. L’espansione imperialistica e la trasformazione della società romana Uno degli effetti più significativi dell’espansione territoriale di Roma, fu la trasformazione della città che, nel giro di 2 o tre generazioni, mutò radicalmente le sue caratteristiche. I principali cambiamenti furono: 1)Un aumento esponenziale delle ricchezze: concentrate nelle mani dell’aristocrazia e del ceto equestre. Nell’amministrazione dei loro patrimoni, i membri della classe dirigente romana fruivano di un insieme di collaboratori con competenze commerciali e finanziarie. Fu grazie a loro e all’attività di cooperazione dei banchieri e finanzieri che si realizzarono investimenti in attività finanziarie e mercantili. 2)L’investimento di queste ricchezze in attività remunerative, che a loro volta comportavano un ulteriore arricchimento. Fra le principali attività occorre ricordare: a)Gli investimenti immobiliari: realizzati attraverso l’acquisto di insulae, grandi edifici urbani di abitazione a più piani che si andavano moltiplicando a seguito delle grande crescente quantità di abitanti. Gli strati meno elevati vivevano proprio negli appartamenti peggiori di questi insulae affittati a cifre esorbitanti. b)L’acquisto di proprietà fondiarie: un investimento facilitato dall’abbandono delle terre da parte dei contadini che, a causa della lunga guerra contro Cartagine, avevano passato gran parte della loro vita lontana dai campi. Non era facile per costoro tornare, una volta lasciato l’esercito, a “zappare la terra”. Appariva molto più conveniente trasferirsi in città per dedicarsi al commercio ovvero arruolarsi per le guerre d’Oriente, nella speranza di collezionare ricchi bottini. Si realizzò dunque un rapido inurbamento dei contadini, che favorì i membri dell’oligarchia romana che estese i suoi domini, incorporando i capi degli antichi agricoltori. 3)Il largo utilizzo di manodopera schiavista. La nascita di enormi tenute agricole, sottoposte al controllo di pochi aristocratici romani, rese necessario l’uso massiccio di manodopera schiavista. Gli schiavi vennero utilizzati in vari settori (agrario, minerario, navale). Accanto a questi schiavi “non specializzati”, ve n’erano altri la cui importanza fu fondamentale per la crescita culturale ed economica di Roma: artisti, letterali, filosofi, commercianti, esperti nelle materie economiche, artigiani. La loro influenza non deriva tanto dai servigi che essi fornivano ai loro padroni quanto dalla possibilità di questi ultimi di liberarli, riconoscendogli contestualmente la cittadinanza romana. Divenuti liberi questi schiavi costituivano un nuovo gruppo sociale, le cui differenze sociali e culturali avrebbero contribuito all’arricchimento della società romana. La manomissione degli schiavi acquista ancora più importanza se si tiene conto che i figli di ex schiavi, nati dopo che i loro genitori erano stati liberati dalle “catene del servaggio”, erano considerati ingenui, cittadini a tutti gli effetti capaci di ascendere alle magistrature superiori. Da questo punto di vista Roma è una delle società più aperte del mondo antico. 6. La teoria della “costituzione mista” Verso la metà del II secolo a.c. un grande storico greco, Polibio, si interrogò sui motivi dello straordinario successo politico di Roma. Secondo lo studioso il vantaggio di Roma sarebbe derivato dalla sua capacità di coniugare insieme le tre forme di governo che caratterizzano tutte le società umane: il potere monarchico (identificabile nella forza dei consoli); il potere aristocratico (dei senatori) e il potere democratico (dei comizi). L’analisi di Polibio è interessante in quanto ci permette di capire che a differenza degli ordinamenti moderni, caratterizzati dalla divisione dei poteri (Legislativo, esecutivo e giudiziario) fra diversi organi; nell’esperienza romana si registra una confusione dello stesso potere tra soggetti diversi. Nell’esercizio di un potere venivano, infatti, coinvolti più titolari in modo da garantire una forma di controllo reciproco (ad esempio per l’adozione di una legge era necessaria la proposta di un magistrato, il consenso del senato e la votazione dei comizi). Questi equilibri, di cui ci parla Polibio, verranno meno con la caduta della repubblica e l’ascesa di una nuova realtà fino a quel momento estranea alla comunità romana: l’impero. CAPITOLO 11-LA PROSPETTIVA DELLE GRANDI RIFORME E LA CRISI DELLA CLASSE DIRIGENTE ROMANA 1. La rottura del patto Verso la metà del II secolo si evidenziavano fattori di crisi dovuti fondamentalmente allo squilibrio tra le dimensioni di Roma e il resto del mondo da essa dominato. Roma aveva conservato quella struttura istituzionale, tipica delle città-stato classiche che era inadeguata per la sua dimensione. Al centro delle tensioni sociali vi era lo squilibrio tra la grande concentrazione di privilegi nei confronti di un gruppo sociale ristretto e l’accumularsi dei costi gravanti su una base sociale sempre più ampia (cittadini romani e alleati italici). I vari gruppi politici repubblicani si riunirono in due grandi “partiti” (linee di tendenza): gli “optimates” e i “populares”. A questo quadro deve aggiungersi l’impiego della forza bruta: “l’imperium legittimante al comando militare”, attraverso il senatus consultus ultimum che consentiva, in caso di grave ed eccezionale pericolo per la repubblica, di sospendere le ordinarie garanzie di libertà e tutela giuridica per i cittadini. Questo strumento venne utilizzato, la prima volta, per la repressione dei culti dionisiaci alla fine del III sec. a.C. (si trattò di un invenzione di un complotto ai danni del Senato. I Culti in questione, predicando l’abbandono estatico alla divinità sembravano poter sovvertire l’ordine romano). Si tentò di riproporre successivamente questo strumento (che consentì ai consoli di reprimere molto duramente il culto) nella lotta contro i Gracchi. 2. Tiberio Gracco e la distribuzione dell’ ”ager publicus” Quando, nel 133 a.C., Tiberio Gracco iniziò la sua carriera facendosi eleggere al tribunato della plebe, la situazione delle campagne romane era caratterizzata da latifondi, appartenenti alla classe senatoria e coltivati principalmente da schiavi. Era quasi completamente scomparsa la figura del contadino-soldato che costituiva il nervo della legione romana. Già nel 140 si era cercato, da parte di ambienti politici vicini agli Scipioni (parenti dei Gracchi da parte di madre) di proporre una riforma agraria che sopperisse all’impoverimento dei piccoli agricoltori. Tiberio, ispirato anche a Catone, propose ai comizi una legge che affermava un limite ai possessi di terre pubbliche a)La crisi demografica con i fenomeni di inurbamento (favoriti dalle frumentationes). b)la pressione degli Italici per la cittadinanza. Negli anni immediatamente successivi alla morte di Gaio Gracco, vi fu una difficile campagna militare contro l’invasione dell’Italia da parte di popolazioni celtiche e germaniche. La campagna venne guidata da un bravo generale di origine plebea: Gaio Mario, che riuscì a difendere la penisola. Durante questa campagna Gaio Mario dovette affrontare un problema fondamentale: la crisi dell’esercito romano, causata dall’assenza di quella classe di contadini-soldati che fino a quel momento avevano formato la base delle legioni romane. Mario, per risolvere il problema, arruolò volontari tra i cittadini nullatenenti, attirati dal soldo e dal bottino. Questo porterà ad una trasformazione dell’esercito romano: da un esercito composto da contadini-soldati fedeli alla res publica a un esercito di mestiere, i cui veterani avrebbero avuto una più diretta e esclusiva fedeltà nei confronti dei propri comandanti. Gli stessi comandanti, alla fine del loro comando, erano sempre più restii a rientrare nei ranghi come semplici membri dell’aristocrazia senatoria. Dopo la fine della campagna militare contro i celti e i germani, Mario venne eletto ripetutamente al consolato. Per lunghi anni dominò il panorama politico romano, quale membro del “partito” popolare. Nonostante il suo prestigio, la guida effettiva del “partito” era stata assunta dai più radicali Saturnino e Glaucia. Essi perseguirono una politica votata all’eliminazione fisica più che politica degli avversari. Molto pericolosa fu la lex Appuleia de maiestate minuta che precisava e ampliava il crimen maiestatis con cui si colpivano i reati politici. Tale imputazione era facilmente utilizzabile nella lotta politica che caratterizzava quel periodo. Saturnino e Glaucia raggiusero il culmine della scelleratezza quando nel 100 a.C, per farsi rieleggere tribuni della plebe, assassinarono il candidato avversario. Questo evento portò il senato a emanare il senatus-consultum ultimum, incaricando lo stesso Mario di intervenire contro i suoi alleati. La nobilitas romana perpetrò successivamente l’assassinio dei due ex tribuni dopo che erano stati disarmati e imprigionati da Mario. Questo evento segnò il tramonto politico di Gaio Mario; la guida dei popolari fu assunta da Cinna. Negli stessi anni fece la sua comparsa sulla scena politica Livio Druso (figlio dell’avversario di Gaio Gracco). La sua politica si discostò da quella paterna, essendo per molti versi molto più simile a quella dei Gracchi. Druso diede molta attenzione al problema dell’estensione della cittadinanza agli Italici: quale tribuno della plebe presentò ai comizi una proposta di legge che prevedeva una progressiva concessione della cittadinanza romana agli alleati italici. L’oligarchia senatoria, alleata con buona parte del ceto equestre ( che recentemente al seguito dell’aumento del numero dei senatori aveva visto propri membri entrare nella curia) bloccò l’approvazione della legge e i più oltranzisti assassinarono lo stesso Druso. 2. La guerra sociale e la cittadinanza agli italici Di fronte a questa chiusura dei Romani sul tema della cittadinanza, scoppio una ribellione delle città italiche, che rivendicavano quell’estensione della cittadinanza più volte promessa dai politici del partito popolare. Il motivo della rivolta degli Italici è che queste città, alcune sottomesse altre alleate di Roma, erano effettivamente oppresse da Roma che le teneva al giogo. L’ambizione della maggior parte degli Italici e dei latini era dunque quella di ottenere una completa parificazione con i Romani. Roma reagì inizialmente alla rivolta ricorrendo all’uso della forza. Ben presto, tuttavia, il senato si rese contro dell’impossibilità di piegare gli alleatici italici ricorrendo alle armi e decise dunque di seguire un’altra strada. Nel 90 a.c. venne adottata la lex Iulia de civitate latinis et sociis danda: essa riconosceva la cittadinanza romana ai Latini e a tutti le città italiche che avessero immediatamente deposto le armi contro Roma. Subito si presentò il problema della trasformazione delle numerose comunità italiche in municipi romani. L’Aristocrazia romana, inoltre, voleva evitare che queste nuove città acquisissero eccessivo potere e per questo agirono in due direzioni: a)Da un lato inquadrò i nuovi cives, ancorchè numerosi, in un numero molto limitato di tribù così da circoscrivere il loro peso politico. b)Dall’altro stabilì la regola per cui le riunioni comiziali avvenissero a Roma con l’ovvia conseguenza che non tutti poterono recarvisi. L’estensione della cittadinanza portò, in ogni caso, ad un rapido mutamento linguistico della penisola a favore del latino, e al deperimento delle tradizioni autoctone (soprattutto giuridiche). 3. Le guerre in Oriente e l’affermazione di un nuovo potere personale: Silla e le sue riforme Della crisi fra Roma e i suoi alleati Italici approfittò Mitridate, Re del Ponto che, dopo essere stato provocato da un’avventurosa spedizione contro di lui da parte di un modesto esercito locale, guidato e accompagnato da forze romane, invitò la popolazione dei piccoli staterelli ancora indipendenti e delle numerose città assoggettate da Roma a massacrare tutti i commercianti romani e italici che si trovavano nei loro territori. Roma non poteva sopportare un simile affronto; per questo venne immediatamente organizzata una campagna militare contro Mitridate il cui comando venne assegnato (anche se molti preferiscono usare il termine estorto) a Lucio Cornelio Silla, esponente del partito degli optimates (aristocratici). Durante questa campagna militare, nota con il nome di Prima guerra mitridatica, Lucio Cornelio Silla (tra l'88 a.C. e l'84 a.C.) riuscì a cacciare Mitridate dalla Grecia, ma dovette ritornare immediatamente a Roma. Durante la sua assenza, infatti, i contrasti fra optimates e populares avevano raggiunto un punto critico. Fu un susseguirsi di leggi comiziali incompatibili e contraddittorie, abusi, violazioni, procedimenti criminali de maiestate avviati dai popolari e proposte di senatus consultum ultimum dagli aristocratici. Il partito popolare, guidato dal radicale Cinna, fece uccidere familiari di Silla e membri del partito senatorio. La vendetta di Silla non si fece attendere: tornato vittorioso dalla Grecia marciò col suo esercito su Roma e, sconfitti gli avversari, impose un ordine legale fondato sul terrore. Il massacro degli esponenti popolari, anche senatori, fu attuata attraverso le famose liste di porscrizione: capi popolari e avversari di Silla vennero dichiarati “nemici della Repubblica”, i loro beni espropriati (lasciandone una parte a chi avesse denunciato il proscritto) e la loro vita lasciata alla mercè di ogni assassino legalizzato. A questo punto Silla decise che era il momento di ottenere il pieno controllo sulla Repubblica Romana. Nell’82 a.c. fece approvare dai comizi centuriati, ormai asserviti al suo volere, la lex Valeria de Sulla dictatore creando. Essa attribuì a Silla i poteri assoluti in qualità di “dittatore per ricostruire la repubblica e scrivere le leggi”. Silla rimase in carica due anni. Allo scadere del termine, pur potendo rimanere dittatore a vita, si ritirò non ritenendo più necessari i poteri che gli erano stati conferiti. Durante i due anni in cui fu dittatore, Silla introdusse una serie di riforme finalizzare a riaffermare l’antica centralità del senato come sede primaria della politica, limitare il potere del tribunato della plebe e contrastare la crescita del peso politico dei comandi militari. 1)Restituì al senato il controllo dell’intero sistema criminale romano. 2)Riaffermò il controllo senatorio sui processi legislativi: stabilendo nuovamente che una legge dei comizi potesse considerarsi valida solamente se confermata dal senato successivamente alla sua approvazione in assemblea (non era più sufficiente l’autorizzazione preventiva al magistrato che proponeva la legge ai comizi). 3)Reintegrò le file dei senatori: il cui numero era notevolmente diminuito nel corso delle lotte sociali che si susseguirono dai Gracchi fino al dominio di Silla. Quest’ultimo fisso a 600 il numero dei senatori, con il chiaro scopo di inserire nel consesso molti esponenti della classe equestre, in modo da garantire un’integrazione dei due gruppi sociali al vertice della repubblica, la nobiltà e i cavalieri, chiaramente in funzione anti plebea. 4)Ridisegno il tribunato della plebe: Con lo scopo di impedire che questi magistrati, dotati di grandi poteri (in primis l’intercessio) potessero compiere atti eversivi (che nella sua logica da patrizio significava anti-aristocratici) come era accaduto con i Gracchi. Per questo motivo stabilì: a)La preventiva approvazione dei candidati da parte del senato (fino a quel momento erano eletti liberamente dall’Assemblea popolare); b)La regola per cui coloro che avevano ricoperto questa magistratura non potevano rivestirne altre (in particolare quelle cum imperio). c)Una drastica riduzione dei loro poteri: l’intercessio, in particolare, poteva esplicarsi solo a favore del singolo cittadino colpito da un atto di un magistrato, non potendo più essere utilizzato per paralizzare decisioni che investivano l’intera città (o meglio l’intero territorio di Roma). La riforma imposta da Silla al Tribunato della plebe appare contraddittoria: con il ridimensionamento dei tribuni, Silla finì con l’intaccare la tradizione repubblicana ancora di più rispetto a quanto aveva fatto in passato la fazione da lui combattuta (i populares). 5) Soppresse le frumentationes: uno strumento utilizzato fino a quel momento dai capi popolari per ottenere il supporto della plebe urbana. 6)Accentuò la distinzione fra governo civile (imperium domi) e comando miliare (imperium militiae): Questo al fine di evitare che qualcuno, imitando il suo esempio, marciasse su Roma in armi e imponesse a tutti la sua politica. La decisione di Silla fu molto efficace: vietare l’esercizio dell’imperium militiae all’interno dei confini sacri di Roma (il c.d. pomerio), opportunamente estesi per l’occasione a tutta l’Italia peninsulare. Questa decisione spogliò definitivamente i consoli dell’imperium militiae, affidandolo alle promagistrature. I consoli, infatti, come gli altri magistrati ordinari erano vincolati a risiedere e a esercitare le loro funzioni in territorio Italico. 7)Definì più precisamente il cursus honorum : proibendo il rinnovo delle magistrature per più anni di seguito e specificando l’età per accedere a determinate cariche. di quello che viene chiamato il primo trimvirato. I protagonisti di questo triumvirato, reso legittimo nel 60 a.c. dal voto dei comizi, furono: 1)Marco Licinio Crasso seguace di Silla era un potente e ricchissimo esponente del ceto equestre; 2)Gneo Pompeo Magno: seguace di Silla e generale all’apice del prestigio; 3)Gaio Giulio Cesare: pur appartenendo all’aristocrazia, appare legato alla tradizione popolare (anche per la stretta parentela della moglie con Mario). Ognuno di essi aveva interessi personali ma l’accordo giovava a tutti: 1)Crasso intendeva rinverdire il suo prestigio militare con una nuova guerra contro i Parti (una popolazione che viveva in Medio Oriente, in un territorio corrispondente all’attuale Iran settentrionale). 2)Pompeo aveva aderito in quanto sperava di ottenere, grazie a i comizi controllati da Cesare, l’assegnazione delle province d’Asia che il senato era restio a concedergli. Inoltre tentava di uscire dall’isolamento derivante dalla gelosia dell’aristocrazia e dalle sue troppo evidenti ambizioni. 3)Cesare (che aveva mostrato quanto fosse forte la sua influenza sui comizi essendosi fatto eleggere pontifex maximus contro importanti esponenti dell’oligarchia senatoria) intendeva conseguire l’appoggio politico e finanziario di Crasso, allo scopo di completare la carriera politica con il consolato e tentare poi, con i comandi provinciali, di acquisire quella forza militare di cui era già titolare Pompeo. 2. Cesare A questo punto una domanda sorge spontanea: sono riusciti a realizzare i loro piani? 1) Crasso sicuramente no: egli, infatti, morì prematuramente durante la guerra (persa) contro i Parti. 2)Cesare: Nel 59 a.c., l’anno del suo consolato, fece adottare dai comizi una serie di leggi per ottenere gradatamente il consenso di tutta la popolazione: a)Il consenso dei militari: attraverso l’adozione di una legge agraria, ispirata al programma politico dei Gracchi, ma con una particolarità: la terra non veniva distribuita ai nullatenenti bensì ai veterani dell’esercito. b)Il consenso degli abitanti delle province: attraverso la creazione di nuove colonie in Italia (come Capua) e la riforma delle leggi sui reati di concussione a danno dei provinciali (la c.d. lex Iulia de pecuniis repetundis). c)Il consenso del ceto equestre: con la lex de publicanis egli ridusse di un terzo la somma di denaro che i cavalieri dovevano pagare allo stato, favorendo così le loro attività. d)Il consenso del popolo: attraverso una legge che imponeva al senato di stilare le relazioni di ogni seduta (gli acta senatus). Dal 58 al 50 a.c. Cesare, dopo aver ottenuto le sue vittorie sul fronte orientale, condusse le sue legioni in Gallia dove, nel giro di 8 anni, ottenne la definitiva vittoria con la sottomissione di Vercingetorige, capo degli Arverni, attorno al quale si strinsero tutti i popoli celti. 3)Pompeo: Durante gli anni del triumvirato Pompeo fu console in Italia e Proconsole in Spagna e in Siria. In realtà Pompeo Magno non si allontanò mai da Roma, governando le province per mezzo dei suoi legati ed esercitando, di fatto, il pieno controllo sulla città eterna. Il potere detenuto da Pompeo a Roma lo indussero a ritenersi superiore a Cesare con cui si trovava sempre più in conflitto. In questo contesto esplose la famosa guerra civile fra Cesare e Pompeo. Nel 52 a.c. il senato, consapevole dell’enorme potere che Cesare stava ottenendo attraverso le sue conquiste militari, voleva costringere il “conquistatore delle Gallie” a presentare la sua candidatura al consolato quale privato cittadino (senza dunque l’appoggio dell’esercito, fortemente temuto dall’aristocrazia senatoria). Lo scopo di questo invito era semplice: assassinare Cesare prima che potesse ottenere altro potere. Cesare, al contrario, intendeva rientrare a Roma solo dopo la sua elezione, in modo da essere tutelato dalla sua carica che gli garantiva (almeno formalmente) l’inviolabilità. Nel frattempo il patto triumvirale, che aveva legato Cesare a Pompeo e Crasso, era ormai del tutto inesistente. Il senato, intimorito dai successi di Cesare, aveva dunque deciso di favorire Pompeo, nominandolo consul sine collega nel 52 a.C ., perché frenasse le ambizioni del suo vecchio alleato. Cesare tentò di risolvere la situazione attraverso delle manovre politiche, in particolare invitando i tribuni della plebe ad esercitare il diritto di intercessio per limitare le decisioni del Senato, ma tutto fu vano (i tribuni furono costretti a scappare da Roma). Vedendosi con le spalle al muro Cesare, nel 49 a.c., decise di varcare in armi il Rubicone, confine politico della penisola italiana, pronunciando la famosa frase alea iacta est (Il dado è tratto). Pompeo fuggì con i suoi seguaci verso oriente (dove le sue clientele e amicizie lo avrebbero appoggiato) ma a Farsalo ( Grecia del Nord), sebbene con un esercito più piccolo, Cesare inflisse la sconfitta determinante a Pompeo, il quale, fuggito in Egitto, trovò la morte per mano di Tolomeo (che voleva compiacere l’ignaro Cesare). 3. Governo e riforme all’ombra di un potere monarchico Il potere di Cesare era fondato sulla contemporanea attribuzione di diverse cariche, solitamente appartenenti ad individui differenti: a)console(dal 45 per 10 anni). b)proconsole (per il comando dell’esercito). c)dittatore (nel 48 e nel 47 e dal 45 a vita). d)imperator: titolo attribuito ai magistrati al comando di un esercito vincitore. Con Cesare diviene parte del suo nome e trasmissibile agli eredi. e)Censore: carica attribuita a Cesare dai comizi. f)Col tempo acquisì, inoltre, poteri e prerogative del senato: come il potere di attribuire il governo delle province ai vari magistrati e il controllo dell’erario. g)Accumulò anche simboli di prestigio personale: come la toga purpurea ( che veniva indossata solo dai magistrati nel giorno del trionfo) la corona d’alloro e una guardia personale composta da cavalieri e senatori. Tutte queste cariche gli permisero, nel giro di pochissimi anni, di riformare ogni aspetto delle istituzioni e della società romana: 1)Riprese il processo di integrazione: estendendo la cittadinanza alla Gallia Cisalpina. 2)Portò a 900 i senatori: includendo tra essi alleati e Galli appena divenuti cittadini. Con il chiaro scopo di porre all’interno del senato degli uomini a lui fedeli (in modo da bilanciare gli esponenti aristocratici che, anche se celatamente, tramavano contro di lui). 3)Pose le basi per la formazione dell’impero municipale: pur mantenendo il potere centrale a Roma, organizzo un sistema periferico caratterizzato da ampi margini di autonomia organizzativa. 4)Contrastò lo sfruttamento delle province: Cesare, infatti, credeva che il loro eccessivo sfruttamento avrebbe portato a grandi tensioni oltre che alla distruzione della ricchezza presente sul territorio. Per questo limitò questo “sciacallaggio” da parte dei nobili governatori e degli speculatori equestri. 5)Favorì i processi di urbanizzazione anche nelle province. 6)Distinse le province in due differenti categorie: a seconda che fosse necessario o meno un penetrante controllo militare (di cui sicuramente abbisognavano le province di recente formazione). 7)Portò il calendario a 365 giorni. Il calendario giuliano è un calendario solare, cioè basato sul ciclo delle stagioni. Fu elaborato dall'astronomo greco Sosigene di Alessandria e promulgato da Giulio Cesare (da cui prende il nome), nella sua qualità di pontefice massimo, nell'anno 46 a.C. Esso fu da allora il calendario ufficiale di Roma e dei suoi dominii; successivamente il suo uso si estese a tutti i Paesi d'Europa e d'America, man mano che venivano cristianizzati. Nel 1582 è stato sostituito dal calendario gregoriano per decreto di papa Gregorio XIII. 8)Fece, a Roma, diversi piani di sistemazione urbanistica e vasti programmi di opere pubbliche. 9)A livello legislativo tentò di limitare le dissipazioni e i lussi eccessivi; emanò una normativa sulla utilizzazione della manodopera nei grandi latifondi a pascolo; razionalizzò il sistema normativo con la codificazione dell’intero sistema del diritto civile. 4. L’Italia romana Il processo di sostituzione del diritto romano agli ordinamenti locali si è completato nel periodo in cui Cesare estense la civitas romana agli abitanti della Gallia cisalpina, concludendo la lunga storia della graduale assimilazione del mondo italico. L'insieme dei diritti privati come la stessa proprietà riconosciuti a tutti i vecchi e nuovi cittadini fu concepito come un blocco organico indicato con l'espressione di ius italicum che assunse la fisionomia di un vero e proprio statuto giuridico. Le magistrature locali furono unificate secondo schemi generali adottati a Roma e il criterio di attribuzione della controversia alla giurisdizione centrale oppure a quella municipale fu costituito dall'entità economica della causa. Si affermò una duplice fisionomia di questi abitanti municipali: - da un lato concepiti tutti come appartenenti alla comune patria romana e quindi una comune identità giuridico istituzionale - dall'altro distinti per la minore patria che definiva l'appartenenza concreta e la località di nascita della famiglia di ciascun municeps indicata come la sua origo La potenziale partecipazione dei cittadini municipali alla vita dei comizi restò molto teorica data la difficoltà di significativi spostamenti e determinò il rapidissimo deperimento politico dei comizi stessi. ORDINAMENTO MUNICIPALE Per i vari centri cittadini fu moltiplicato in piccolo il sistema di governo romano: un Senato (i decurioni) cui spettava la gestione autonoma delle risorse finanziarie necessarie alla vita della comunità i suoi magistrati , talora i questori, quattuorviri, duoviri (organo di governo distinto al suo interno in due collegi uno con funzioni giurisdicenti (ius dicundo) l'altro con funzioni amministrative e di polizia urbana (aedilicia potestateo) le sue assemblee Ad opera di Cesare l'assetto municipale dell'Italia fece un passo in avanti avviando a soluzione l'insieme dei problemi apertisi con le grandi trasformazioni ingenerate dalla concessione della cittadinanza. 5. Nel 23 a.C. Augusto rinunciò al consolato evitando questa come ogni altra magistratura repubblicana: tuttavia insieme ad Agrippa svolse per ben due volte l’attività censoria aggiornando la lista dei senatori 6. In questo modo Augusto ottenne la pienezza dei poteri di alcune cariche magistratuali senza però la titolatura della carica stessa: § ottenne il potere tribunizio a vita che gli assicuro: 1. il carattere sacrosanto della sua persona 2. la possibilità di convocare Senato e comizi 3. il potere di veto contro ogni possibile iniziativa dei magistrati; 4. competenza anche nella repressione criminale senza essere collega degli altri tribuni ed esposto quindi alla loro intercessio § gli fu conferita anche la titolarità dell'imperium consolare legittimandolo a convocare e presiedere il Senato. Da quell'anno l'imperium di Ottaviano fu qualificato come maius superiore a quello di tutti gli altri magistrati e titolari di imperium. § ottenne lo ius auxilii esteso oltre al pomerium e il diritto di modificare la decisione delle corti giudicanti nei processi criminali aggiungendo il suo voto. 7. Nel 12 a.C. viene nominato pontefice massimo 8. Nel 2 a.C. viene designato come pater patriae, colui che dà vita alla città ricollegando una dimensione patriarcale e arcaica. La politica di Augusto fu senza dubbio geniale: onde evitare di essere accusato di voler ripristinare la monarchia, egli inizialmente conservò tutte le strutture tipiche della repubblica romana (senato, comizi e magistrature) ma arrogando a se la maggior parte dei poteri. Questo enorme potere personale, garantito dal pieno controllo dell’esercito, sono alla base dell’avvento di Ottaviano quale Imperator Caesar Augustus che evoca solo la sua discendenza da Cesare, ormai divenuto una divinità. Il suo principato durò molti anni (fino al 14 d.c.), ciò gli permise di dare stabilità al suo progetto politico realizzando la pax augustea (simboleggiata dall’Ara Pacis costruita nell’8 d.c.) e avviando , grazie alla straordinaria durata del suo impero, il secolo d’oro augusteo, caratterizzato finalmente da pace e certezze. 2. Verso una nuova legalità I due fondamentali blocchi di potere su cui s’era costruita la Repubblica e che erano anche i fondamenti della figura del princeps sono: § l'imperium come suprema funzione di governo saldandosi in Augusto quello consolare con il proconsolare e l’imperium militiae superando la scissione di silla § la potestas tribunizia In ogni caso, ci sono punti di differenza e convergenza tra i progetti di Augusto e quelli di Cesare: § Augusto non vuole smantellare l'antica forma repubblicana ma porsi in parallelo a questa come figura istituzionale nuova e centro di potere sovraordinato al vecchio § D'altra parte però entrambi i progetti sono finalizzati ad escludere radicalmente la dicotomia tra il governo civile il potere militare realizzata dalla riforme sillane Pertanto, il principe si configura come l'indiscusso titolare del potere ultimo di comando e di controllo, titolare di ogni decisione circa la guerra e la pace e la stipula dei trattati internazionali; egli ebbe il compito di definire gli assetti amministrativi e giuridici dei municipi delle colonie e di tutte le altre comunità sottoposte alla sovranità di Roma 3. Un dualismo imperfetto Augusto, a questo punto, per costruire consenso intorno alla sua figura eviterà le brusche accelerazioni che Cesare aveva tentato di dare alla complessa macchina politico- istituzionale romana; a tal fine, in questa nuova fase politica, era indispensabile che le antiche istituzioni della res publica mantenessero un ruolo non semplicemente formale. Anzitutto il senato: vediamo infatti come Ottaviano non lo amasse affatto, anche in ricordo di quando tale senato avesse appoggiato Antonio nello scontro con quest’ultimo, ma allo stesso tempo non poteva sopprimerlo definitivamente, in quanto la dissoluzione della vecchia nobilitas avrebbe smentito quel programma di stabilizzazione della società che stava promuovendo. Il suo progetto comportava quindi profonde trasformazioni ma non l’integrale cancellazione della fisionomia della città e una generale rivoluzione sociale. Il richiamo al complesso sistema della res publica romana era stato il nucleo forte del programma politico di Ottaviano contro Antonio, e diveniva ora il “cemento ideale della nuova costruzione”. Egli però, durante il suo principato, continuò incessantemente ad erodere i poteri effettivi del senato, il tutto però accompagnato sempre da numerosi atti d’ossequio verso quest’ultimo. Il suo governo che in questa situazione si caratterizza per essere fondato sul consenso popolare e sul supporto di un'armata di cui presto il grosso dell’organico si sarebbe aperto a sudditi delle province più profondamente romanizzate. In questa nuova stagione vediamo poi affermarsi la persistente forza dell’aristocrazia senatoria, oramai ai vertici di un intero sistema economico-sociale fondato ancora su quel concetto di ricchezza fondiaria di cui deteneva il potere. La figura del princeps, per concludere, vediamo come fosse poi titolare di un potere e di una ricchezza sovrastante che metteva alla mercé ogni cittadino e magistrato; ciò faceva trasparire inevitabili sfumature monarchiche a questa figura, con però evidenti limiti rappresentati dalla persistenza di numerosi blocchi sociali. In definitiva: il singolo era alla mercé del principe, non l’intero gruppo sociale cui apparteneva. Il rapporto tra il suo nuovo ruolo e questi equilibri potrebbe essere ben descritto dal termine auctoritas, il quale esprime una funzione di sorveglianza, di indirizzo e di integrazione da parte di un soggetto nei confronti dell’azione e dei poteri di un altro: la superiore volontà del princeps sembra necessaria a completare e perfezionare i processi decisionali propri degli altri organi di governo; egli è titolare di tale superiore auctoritas su tutta la Repubblica di cui non è il sovrano ma il protettore e il supremo garante. Accanto e sopra il senato e i comizi v’era ora un nuovo potere a coordinare le sempre più complesse funzioni di governo dell’impero. 4. Gli antichi organi della “res publica” Gli equilibri diseguali, disegnati da Augusto, comportavano un ridimensionamento del ruolo del senato a favore del governo del princeps : 1)Al princeps spettava il compito di definire gli aspetti strategici nel campo della politica estera e militare, dell’amministrazione provinciale e della politica finanziaria. 2)Al senato: era riconosciuto il diritto di essere coinvolto nelle scelte più importanti che dovevano essere prese dal princeps. Fondamentale era inoltre l’adozione dei senatus consulta, che in periodo repubblicano avevano lo scopo di guidare l’azione di governo dei vari magistrati, acquisirono una funzione normativa e, tra la fine del I e il II sec d.C., diventarono un’autonoma fonte normativa. In particolare, il senato consulto era emanato dal sentato in genere su una proposta del princeps, addirittura nel tempo la delibera del senato si sarebbe discostata sempre meno dalla sua opinione. Un ulteriore ruolo conservato dal senato fu quello della repressione criminale. Sotto Augusto era competente per il crimen maiestatis (alto tradimento) e il crimen repetundarum (concussione). La sua composizione, che era stata fortemente modificata da Cesare, venne riportata alle sue caratteristiche originarie. Il numero di senatori fu ridotto a 600 (con l’eliminazione di molti provinciali inseriti da Cesare). Al senato poterono aspirare solamente i discendenti (in via agnatizia o adottiva) di un senatore o coloro che venivano nominati direttamente dal principe (a cui era riconosciuta la lectio senatus, il diritto di selezionare i senatori, e la commendatio, cioè il controllo, sui comizi che dovevano eleggerli). Parallelamente, si precisò il livello di ricchezza richiesto per accedere a tale collegio: un patrimonio di almeno un milione di sesterzi. L’arruolamento dei senatori continuava ad effettuarsi tra coloro che avevano ricoperto varie cariche magistratuali. In ogni caso, da tale organismo poi il principe ricavava il maggior numero dei quadri dirigenti del governo imperiale Anche i comizi furono ridimensionati da Augusto: già sotto Silla avevano perso le antiche competenze giudiziarie in favore delle quaestiones perpetuae. Con Augusto persero anche la funzione di selezionare i magistrati, potere acquisito dal principe con la commendatio. Sotto Augusto, tuttavia, vi fu una fiorente fase legislativa comiziale (fase che scomparirà con i suoi successori che preferiranno ricorrere ai senatoconsulti). Per quanto riguarda le altre magistrature repubblicane, anche queste furono ridimensionate da Augusto e alcune eliminate dai suoi successori: 1) I consoli: selezionati sotto il controllo del principe, persero in suo favore le funzioni di governo, politiche e militari. La loro incidenza venne poi ulteriormente ridotta con l’introduzione accanto ai consoli ordinari, di altri consoli suffecti destinati a subentrare i primi nel corso dell’anno. Il consolato, tuttavia, rimase una carica importante in quanto apriva la strada a cariche ambite quali governatore provinciale, praefectus urbi o altre cariche elevate. 2) I censori scomparvero con Domiziano divenuto censor perpetuus. 3) I tribuni della plebe: furono fortemente limitati nelle loro funzioni dato che il diritto di intercessio, espressione della tribunicia potestas, venne fatto proprio dal princeps. Questa carica rimase comunque formalmente in vigore, con il consueto numero di 10 tribuni annuali. 4)Gli edili rimasero, tuttavia alcune funzioni gli furono sottratte e assunte dal principe con la cura annonae (la gestione dei mercati). 5)La questura e la pretura conservarono, almeno per un primo periodo, le loro antiche funzioni. All’importanza del pretore contribuiva la consolidata istituzionalizzazione delle quaestiones perpetuae da lui presieduta. Addirittura, sotto Auguste si giunse ad avere un massimo di sedici pretori Un ulteriore mutamento che si ebbe fu la progressiva remunerazione delle magistrature che, inizialmente erano a titolo gratuito ed era previsto solamente un rimborso spese per le missioni (viaticum). CAPITOLO 15 – UN’ARCHITETTURA DI GOVERNO 1. L’assetto istituzionale Gli equilibri di potere subirono costanti riaggiustamenti durante il principato di Augusto, consolidandosi , alla sua morte, in un sistema politico-istituzionale definitivo. Gli aspetti caratterizzanti di tale riforma furono: 1)Un compromesso tra il ruolo preminente dei vecchi gruppi dirigenti e i processi d’integrazione e d’assorbimento di nuovi gruppi ed elementi a supporto dell’ordine imperiale 2)La costruzione di un complesso sistema burocratico per la gestione dell’immenso apparato politico e territoriale che costituiva l’impero di Roma. 3)Il riordino del sistema finanziario e tributario centrale e periferico. 4. Una rete di governo Un vero e proprio salto di qualità intervenuto con Augusto è da individuarsi nel sempre più accentuato potenziamento dei meccanismi conoscitivi e decisionali posti in essere al centro del sistema, con la formazione di quella cancelleria imperiale così indispensabile al principe per governare l’universo imperiale. Questo potenziato rapporto tra centro e periferia fu reso possibile dall’istituzione di un complesso sistema di circolazione delle informazioni e delle direttive imperiali. Qui assume importanza: l’ufficio ab epistulis un fondamentale strumento di comunicazione con l’esterno del principe. In seguito tale ufficio fu diviso in due per la corrispondenza in latino e in greco e passò dalla direzione di due procuratores a quella di individui di rango equestre notevolmente retribuiti. Con radici nelle partiche d’età repubblicana proprio ad Augusto risalgono i primi edicta rivolti ad una provincia o a singole comunità all’interno di essa. Tuttavia, lo strumento principale per impartire le direttive del governo centrale erano i mandata, con cui il principe dava precise istruzioni ai governatori provinciali. Più direttamente riferiti alla sfera giuridica erano poi i decreta in cui si sostanziava una decisione giudiziale relativa a una questione sottoposta al principe. Con le epistulae e i rescripta invece l’imperatore dava risposta ai quesiti a lui rivolti da giudici (attraverso un’epistula) o da privati cittadini (attraverso la subscriptionnes). Nel corso del tempo tutte queste forme assunsero un complessivo valore normativo. Importante fu anche il funzionamento del cursus publicus, un efficacissimo reticolo di supporti che permetteva a chi ne poteva usufruire di percorrere grandi distanze in tempi veloci. Nel sistema imperiale romano, le comunicazioni tanto via terra che per mare furono essenziali al commercio e all’economia ma ancor più al governo e alla politica. 5. Il fisco Un settore dove Augusto incise profondamente fu la politica finanziaria e monetaria dell’impero. 1)Disciplinò le competenze circa il diritto di battere moneta (da sempre del senato), attribuendo a se stesso la monetazione d’oro e d’argento e al senato quella di bronzo che ovviamente era subordinata (per rispettare formalmente quel dualismo principe-senato che caratterizza il suo governo). 2)introdusse, a fianco all’ aerarium populi, un nuovo tesoro. L’aerarium populi diventò il tesoro amministrato dal Senato romano, mentre il princeps ne creò uno nuovo denominato fiscus e dallo stesso Imperatore amministrato. Vero è che il princeps aveva il controllo generale dell'intero sistema fiscale, compreso l'aerarium populi Romani. In sostanza si veniva così a creare un dualismo nell'amministrazione finanziaria imperiale con la separazione tra due fondi, uno appartenente al populus ed un altro al princeps. 3)Costruì casse separate (rationes) per vari settori della spesa pubblica: bilancio militare , spese per il sistema burocratico, acquisendo la gestione diretta delle entrare. Molto importante tra queste è l’aerarium militare(gestito da 3 praefecti di rango pretorio che rispondevano al principe, nel quale confluirono varie imposte di successione, vendite all’incanto e contributi diretti del principe) con la funzione di supportare parte delle spese militari ( non il pagamento delle truppe) e principalmente la liquidazione dei veterani (prima in terre poi in denaro) di cui doveva conservarsi la fedeltà. Questo complesso sistema fiscale lasciava ampio spazio a possibili conflitti. In aggiunta, si deve ricordare la sempre più dilatata sfera del patrimonium personale del principe garantita da nuovi flussi di ricchezza e da una massa crescente di proprietà fondiarie che dette luogo a vasti latifondi in Italia e nelle province. In queste circostanze, si affermò un nuovo criterio in base al quale questo patrimonio privato cominciò ad essere trasmesso al successore nel potere imperiale. Inoltre, esso fu affidato alla gestione di un procurator a patrimonio. Invece, per quando concerne i latifondi, raggruppati tra loro in regioni, vennero amministrati da procuratore imperiali. Questo processo di trasformazione in senso pubblico del patrimonio del principe contribuì a far emergere un altro settore finanziario costituito da un patrimonio ancora più privato del principe, la res privata, di cui egli aveva una più piena e personale disponibilità. Infine, non bisogna dimenticare che il sistema fiscale vigente nelle province era diverso: § nelle province imperiali era affidato a dei procuratori impegnati a riscuotere un'imposizione personale gravante su tutti i provinciali, tributum capitis, e un'imposta fondiaria. tributum soli § nelle province senatorie le competenze fiscali erano attribuite ad appositi questori e le varie città erano responsabili per la riscossione degli stipendia in relazione ai patrimoni fondiari. In ogni caso, il sistema di imposte indirette fu esteso e continuò ad essere affidato ai pubblicani 6. L’apparato militare Il fondamento militare del nuovo potere imperiale resterà una costante del nuovo regime e il diretto controllo degli eserciti romani da parte del principe si accompagna alla loro definitiva professionalizzazione. Nel primo secolo del principato l’organico delle legioni doveva aggirarsi intorno ai 150000 uomini ( sotto augusto 25 legioni da 5000 uomini a cui devono aggiungersi gli ausiliari e la flotta). Il servizio militare durava 16 anni ( più 4 di riserva) che divennero nel 5d.c. 20 + 5. La liquidazione era conferita principalmente in denaro e non più in terreni. I veterani ottenevano anche una serie di privilegi: la cittadinanza romana, la legittimazione del matrimonio con la convivente ( durante il servizio non potevano sposarsi) e dei figli. Salvo la sconfitta della selva di Teutoburgo (nel 9 d.c.) dove tre legioni romane guidate da Varo vennero distrutte da guerrieri germanici guidati da Arminio e salvo la conquista della Britannia meridionale sotto Claudio e della Dacia con Traiano, la strategia militare romana fu principalmente di consolidamento e difesa dei confini. Le armate romane, eccetto le poche coorti di pretoriani (italici e con maggiori possibilità di carriera), erano stanziate al di fuori dal territorio italico. Nei porti di Ravenna e Miseno (Napoli) erano stanziate le flotte romane. Venne diminuita la presenza militare in Iberia ed Egitto, ormai pacificati. Una maggior concentrazione di truppe fu conservata in Africa, Numidia, Mauritania, Palestina, Sardegna, Rezia, Britannia meridionale, Germania superiore e inferiore, Pannonia, Dalmazia e Cappadocia (a difesa dai Parti). Gli eserciti romani erano organizzati in accampamenti fortificati, collocati generalmente in regioni isolate e lontane da centri abitati. Ciò contribuì alla progressiva formazione di insediamenti con profondi effetti sul territorio. L'isolamento militare però generò molteplici problemi: conflitto potenziale tra società civile ed esercito con un sempre più frequente intervento di quest'ultimo nella politica con complotti che portarono all'uccisione di alcuni imperatori La composizione delle legioni si modificò a favore di un numero maggiore di provinciali; a questo corrispose un maggior sistema di controlli e direzione delle varie armate il cui comando diretto fu affidato a uomini di immediata fiducia del principe (legati imperiali o incaricati delle operazioni militari o comandanti delle singole legioni) CAPITOLO 16 – IL PRINCIPATO DI AUGUSTO: POLITICA, SOCIETA’ E IDEOLOGIA 1. L’aura religiosa del nuovo potere Accanto alla definizione formale di un vasto sistema di poteri, è stata di notevole importanza la politica del consenso, che contribuì a riorientare e definire pratiche e condotte collettive permettendo di stabilizzare i nuovi assetti politici allargando la base sociale del nuovo regime politico. Importanza di tali aspetti è attestata dall’attenta strategia avviata da Augusto in ogni campo della vita sociale e culturale per fondare il nuovo potere sui riferimenti storici di Roma. Un passato questo intriso di accenti religiosi e di costanti richiami alla presenza degli Dei. Pertanto, in questa strategia un ruolo fondamentale fu assolto dal fattore religioso e anche in questo campo va sottolineato quanto il nuovo si combini consapevolmente ai richiami ad una più ampia e comprensiva tradizione. Da Oriente provenivano poi nuove correnti religiose, e da ultimo erano venute diffondendosi, e poi consolidandosi nuove religioni di salvezza con una più forte accentuazione sulle speranze di una vita ultraterrena (Cristianesimo ed Ebraismo) Qui appare chiara la linea seguita da Augusto, che nel momento in cui si propone come restauratore della legalità e delle tradizioni cittadine, si rifà egualmente al loro fondamento religioso. E in questa situazione assume piena rilevanza la carica di pontefice massimo da lui stesso assunta, ritagliandogli dunque un ruolo come custode di tradizioni e della sfera propria del ius sacrum. Poi grazie all’insistenza e alla pubblicità di Augusto a questa carica, il nuovo potere sin da subito si circondò di un’aura sacra che ne rafforzava il prestigio; tale fisionomia venne confermata poi con l’iniziativa da lui assunta, consistente nella solenne inaugurazione dell’Ara Pacis Augustae a celebrare la definitiva pacificazione dell’impero. Nell’antico Pantheon poi assunse particolare risalto la divinità solare Apollo, con cui Augusto tendeva ad identificarsi; ma accanto al recupero dei valori e delle forme tradizionali si impose allora una nuova pratica culturale: in essa tradizioni aristocratiche e nuova forma della politica e del potere si saldarono. Si tratta degli antichi culti gentilizi, divenuti patrimonio comune, così che anche le pratiche religiose “private” del principe e della sua famiglia divennero patrimonio e partecipazione collettiva Parallelamente si diffuse una serie di pratiche che escludevano la separatezza tra sfera divina e umana: § In Occidente le tradizioni favorivano l'ascesa alla sfera del divino dopo la morte del principe regnante § In Oriente Augusto ancora vivente fu già adorato come un Dio Un momento in cui si coglie molto bene l’amalgama di tradizionalismo e d’innovazione nella politica di Augusto coincide con l’organizzazione dei giochi secolari (17a.C), un grande evento religioso volto a celebrare la fine del saeculum, e l'inizio di una nuova e più felice era per Roma. Il tutto fu affiancato da una politica di monumentalizzazione di Roma grazie alla quale il culto degli dei si associa alla presenza del principe. Importante fu anche la diffusione dell’effige di Augusto in ogni angolo dell’impero. è tuttavia il miglioramento della situazione generale anche se bisogna ricordare la relativa fragilità e limitatezza di questi sviluppi imperiali E’ necessario infine sapere che sul sistema economico romano pesò sempre di più il costo della macchina da guerra romana, supportato interamente dalla base economica dell’impero unificato e non autoalimentato dalla conquista come avveniva precedentemente. 5. Un bilancio complesso Con Cesare Augusto divenne possibile una piena ridefinizione dei rapporti tra dominanti e dominati tali da superare la stagione in cui questi avevano richiesto un dispiegamento eccessivo di forme di brutale potere destinate a logorare i detentori del dominio; la posizione arbitrale del princeps tra gli interessi e valori romano italici e quelli del mondo provinciale riavviava i meccanismi di integrazione e realizzava una definitiva fisionomia imperiale. CAPITOLO 17 – GLI SVILUPPI DEL NUOVO ORDINE IMPERIALE 1. Il problema della successione Uno dei maggiori problemi della nuova forma di governo era costituito dal meccanismo di trasmissione del potere. Infatti, la somma dei poteri in cui si era sostanziata la figura del princeps derivava dall’investitura formale da parte del senato e dei comizi. Della successione Augusto si preoccupò nel corso della sua vita e seguì due schemi paralleli ma distinti: 1)Da una parte, garantì la trasmissione delle sue prerogative al successore da lui selezionato facendolo sposare con la sua unica figlia Giulia e adottandolo. Inizialmente come successore venne selezionato Marcello, morto prematuramente. Il preferito divenne dunque Agrippa, storico generale di Augusto, anch’esso morto prima dell’apertura delle successioni di Augusto. Infine la scelta del princeps ricadde su Tiberio, un giovane e brillante soldato che si distinse per il suo talento militare conducendo numerose campagne lungo i confini settentrionali dell'Impero. 2)Dall’altra parte inserì immediatamente il suo successore designato all’interno dei meccanismi del potere durante la vita del predecessore: è ciò che avvenne con Tiberio, con il suo coinvolgimento nella titolarità dell’imperium proconsulare e della tribunicia potestas. Per quanto riguarda ciò che accadde dopo la morte di Augusto: nel corso del tempo la rilevanza dei comizi andò diminuendo, finché la delibera del senato non assunse la forma di una lex de imperio, una legge di investitura dei poteri del principe sancita dal popolo. A tal proposito va ricordata la lex de imperio Vespasiani nella quale sono specificatamente elencate facoltà e poteri attribuiti in blocco dal senato e dal popolo al nuovo designato. In particolare, Vespasiano ascese al potere grazie alla forza delle armi, a seguito dell’uccisione di Nerone (ultimo della dinastia Giulio-Claudia) ad opera dei pretoriani, in un periodo in cui si erano avuto quattro imperatori acclamati dal proprio esercito. Col tempo assumeranno sempre maggiore rilevanza sia i pretoriani sia le stesse legioni che nel tardo impero acclameranno sempre più di frequente i propri generali. 2. Una strada già segnata Il successore di Augusto fu Tiberio (imperatore dal 14 al 37 d.c.), un brillante soldato che si distinse per il suo talento in battaglia conducendo numerose campagne militari. In passato molti storici hanno inferito su Tiberio, criticando la sua politica anti-senatoria. In realtà Tiberio era fortemente legato agli antichi valori repubblicani di quell’aristocrazia guerriera cui apparteneva per nascita e per educazione. Il vero responsabile della politica anti-senatoria fu Seiano, suo praefectus pretorio, che sfruttò l’isolamento volontario del principe a Capri per infierire sul ceto senatorio e anche sulla famiglia imperiale. Per questi motivi la storiografia più recente ritiene che Tiberio fosse un cauto amministratore oltre che un abilissimo generale. Il suo governo contribuì al risanamento finanziario dell’impero e consolidò la strategia militare di Augusto, precisando le frontiere esterne (il limes). Alla morte di Tiberio gli succedette Caligola (che governò Roma dal 37 al 41 d.c. Un regno molto breve, caratterizzato da una serie di massacri ordinati da Caligola nei confronti degli oppositori interni e da atti che tendevano a una continua umiliazione della classe senatoria. Venne assassinato nel 41 d.c. in una congiura di Pretoriani. Il Quarto imperatore di Roma fu Claudio (governò dal 41 al 54 d.c.). Malgrado la mancanza di esperienza politica, Claudio dimostrò notevoli qualità: fu un abile amministratore, un grande patrono dell'edilizia pubblica, espansionista in politica estera (sotto il suo comando si ebbe la conquista della Britannia) e un instancabile legislatore, che presiedeva personalmente i tribunali, sostituendo definitivamente i senatoconsulti alle leggi comiziali. Con Claudio vi fu, inoltre, un maggior coinvolgimento di giuristi nell’apparato burocratico. Va ricordato che sotto Claudio vi fu la prima persecuzione dei cristiani. Morì nel 54 improvvisamente, dopo aver mangiato un piatto di funghi avvelenati Il Quinto e ultimo imperatore della dinastia giulio-claudia fu Nerone (imperatore dal 54 al 68 d.c.). Conosciuto comunemente per la dura persecuzione compiuta contro i cristiani, per l’incendio del 64 d.c. (del quale, secondo la storiografia recente non fu responsabile) e per la costruzione della famosa Domus Aurea. Di Nerone pochi ricordano l’importante riforma monetaria, che portò a un apprezzamento delle monete d’argento rispetto a quelle auree (favorendo così militari e piccoli-medi proprietari rispetto ai grandi patrimoni). 3. Il principato dei Flavi L’ascesa al potere di Vespasiano (imperatore dal 69 al 79 d.c.) segna una rottura con la precedente tradizione: era un homo novus, fattosi strada nei comandi militari e appartenente a una famiglia sabina della borghesia italica (non all’aristocrazia senatoria come gli altri pretendenti). Inoltre ottenne il potere grazie all’acclamazione e al sostegno delle truppe che comandava in Giudea. I poteri gli furono conferiti da un senatoconsulto (pervenuto a noi in un epigrafe nel Campidoglio) la lex de imperio vespasianii. Questa legge senatoria definitiva per la prima volta i poteri dell’imperatore applicando il principio del precedente: a Vespasiano sarebbero stati riconosciuti tutti i poteri esercitati dai suoi predecessori, ad esclusione di Caligola e Nerone colpiti da damnatio memoriae. Fu un grande amministratore, autoritario e autorevole, impose i valori tradizionali del mondo da cui proveniva: sapienza contadina, abitudine al risparmio, duro lavoro, cautela e tenacia. L’attenzione per il funzionamento ottimale dell’amministrazione prevalse rispetto all’etica aristocratica. Fra le sue riforme occorre ricordare: a)Un grandissimo risanamento delle finanze pubbliche ( per il quale venne tacciato di taccagneria). Recuperò, tra le altre cose, quelle parti di terre pubbliche restate indivise ma fruite da varie comunità e privati, suscitando malumori. b)Realizzò una serie di censimenti allo scopo di rivelare lo stato materiale dell’Italia: stato dei territori, città, proprietà fondiarie, assetti municipali, mappe catastali, che saranno utilizzati per molto tempo. c)Potenziò il sistema difensivo: attraverso l’assimilazione degli antichi staterelli semi-liberi e la conseguente semplificazione delle linee difensive, e attraverso la valorizzazione delle grandi barriere naturali quali il Reno e il Danubio (messe alla prova sotto il principato di Domiziano da incursioni germaniche). Va ricordato inoltre che sotto Vespasiano venne realizzato l’Anfiteatro Flavio, noto a tutto il mondo con il nomignolo inventato dai cittadini romani: il Colosseo. Alla morte di Vespasiano gli succedettero i suoi figli: prima Tito (imperatore dal 79 all’81 d.c.) poi Domiziano (che governò Roma dall’81 al 96 d.c.). Con entrambi gli imperatori si ebbe un progresso nell’assimilazione delle popolazioni extraitaliche con la romanizzazione delle elites provinciali (conferendo lo ius Latii a molte città provinciali). Domiziano fece anche un intervento di tipo protezionistico a sostegno dell’agricoltura italica. Tuttavia il suo governo fu di tipo autoritario, si sviluppò ulteriormente il sistema amministrativo accentuando le tensioni col senato che probabilmente portarono al suo assassinio. La morte di Domiziano portò alla fine degli imperatori appartenenti alla dinastia Flavia. Nelle dinastie Giulio-Claudia e Flavia, era presente un elemento fondamentale: il legame dinastico. Nel corso del primo secolo del principato questo aspetto venne accentuandosi, tuttavia, esso non divenne mai totalmente dominante per il persistente peso del sento, come componente essenziale della formazione del potere supremo, confermato ancora dall’ascesa del successore Nerva che contribuì a rafforzare il meccanismo dell’adozione sino a farne la base di un sistema d’investitura del potere. 4. Il governo dei migliori Dopo la morte di Domiziano per quasi un secolo la successione imperiale fu sottratta alla logica familiare, attraverso il meccanismo dell’adozione, se non dei più meritevoli, di soggetti già inseriti nel potere imperiale. Questa scelta non fu casuale, ma vi è l’influenza dei vari gruppi di potere ( esercito, aristocrazia senatoria..). Dopo il breve regno di Nerva (imperatore dal 96 al 98 d.c.), la guida di Roma passo a Traiano (che governò l’impero dal 98 al 117 d.c.). Il principato di Traiano è noto per i suoi successi militari: la conquista della Dacia (tuttavia non completata in quanto non si ottenne una vittoria definitiva sui parti) che portò l’impero alla sua massima estensione. Il suo successore Adriano (117-138 d.c.), uomo colto e permeato dalla cultura ellenistica, operò una politica di consolidamento dei confini ( limes) e riorganizzò l’apparato di governo definendo i tipi di carriera e le retribuzioni di diversi livelli di funzionari ( 60, 100, 200, 300 mila sesterzi l’anno). Durante il suo principato scomparvero i liberti imperiali dagli uffici di vertice a vantaggio dell’ordine equestre. Venne da lui anche favorita la presenza di giuristi nella burocrazia imperiale e venne codificato l’editto del pretore, su suo ordine, dal più grande giureconsulto dell’epoca ( Salvio Giuliano). Questa decisione sancì una svolta una vera e propria svolta nel sistema delle fonti del diritto romano chiudendo la stagione in cui i magistrati giusdicenti romani avevano contribuito alla formazione di nuove regole e meccanismi legali. I successori di Antonino Pio (138-161 d.c.) e poi Marco Aurelio (161-180 d.c.), non introdussero grandi innovazioni. Fu l’ultima fase alta dell’impero, caratterizzato da una sicurezza elevata e da una signoria pacifica e universale (bilinguismo) Con la fine del principato di Marco Aurelio e la sfortunata designazione del figlio Commodo (180-192 d.c.) si ebbero diversi problemi: la guerra con i Parti costò molto in termini economici e di vite all’impero, vi fu una grave pestilenza che portò ad una crisi demografica ed economica (in particolare un grande indebolimento del sistema finanziario municipale, molto dispendioso, che contava sempre meno investimenti privati) con la conseguenza che vennero arruolati anche dei barbari per la difesa dell’impero. Commodo, del tutto inadeguato, accentuò questa crisi e venne ucciso durante una congiura (fu il suo stesso maestro d’armi a ucciderlo mentre stava facendo il bagno). La sorte di Commodo toccò anche al suo successore, Pertinace (Imperatore per pochi mesi nel 193 d.c.) ad opera dei pretoriani ( sempre più avidi di ricchi compensi). opiniones (le opinioni fornite dai giuristi rispetto a determinate questioni giuridiche); i commenta (con cui i giuristi analizzavano singoli rami del diritto); le istitutiones (raccolte giuridiche dedicate alla didattica) ecc. Grazie a tutte queste opere si è venuta costruendo una moderna scienza del diritto, elaborata da giuristi medievali e moderni e fondata su metodi analitici e logici. 3. La matura stagione della scienza giuridica Già nell’ultima età repubblicana e in età augustea si poteva cogliere l’inizio di un mutamento nella composizione sociale dei giuristi romani causato dalla perdita del ruolo esclusivo che nell’età repubblicana la noblitas senatoria aveva avuto nell’ambito della politica e del governo. Infatti, inizialmente il ceto dei giuristi era composto solo dal ceto senatorio, poi anche da quello equestre e dopo Augusto ai ceti anche minori e provinciali. Queste circostanze portano alla nascita di due scuole di pensiero giuridiche: -Sabiniana= attenta agli aspetti più astratti e teorici; uno dei suoi discendenti è Labeone che si distaccava da politica augustea - Proculiana= da Salvio Giuliano, empiricamente orientata In questo stesso lasso di tempo il lavoro del giurista diventò una vera e propria PROFESSIONE RETRIBUITA sia nell’insegnamento sia nella partecipazione al governo imperiale attraverso il consilium, che fu fondamentale per la concentrazione nella figura del principe dei processi di amministrazione e di produzione del diritto. Di conseguenza il principe ora assolveva la funzione militare e politica e la funzione di legiferare e rendere giustizia. Possiamo considerare il punto di arrivo di tali tendenze gli anni di Adriano con il a quale si giunge al sostanziale passaggio al POTERE IMPERIALE come UNICO CENTRO PRODUTTIVO DI DIRITTO. Questo non impedì tuttavia che dopo questi mutamenti si avessi anche l’ultima gloriosa fioritura della scienza giuridica romana nell’età degli Antonini e dei Severi. In particolare con i Severi terminò quel periodo storico definito principato e la fase vitale e produttiva della giurisprudenza del periodo storico. In questa fase grandi personalità di giuristi furono ad esempio Cassio Longino, Nerazio Prisco, Salvio Giuliano, Pomponio o Ulpiano. Tra questi tutti ad eccezione di Pomponio rivestirono cariche importanti nell’amministrazione e nella politica dell’impero: dalla partecipazione al consilium, al prefetto del pretorio fino ad arrivare consolato. 4. Una lacuna dei giuristi romani I giuristi paiano disinteressarsi di quello che potremmo definire il «diritto amministrativo» della macchina di governo del principato. Infatti, la loro riflessione dell’epoca sembra dominata dalla preoccupazione di redigere dei mansionari per i vari magistrati e funzionari. Siamo ancora lontani quindi da una scienza interessata a definire un sistema di relazioni tra gli organi della res publica e tra questi e i cittadini. Probabilmente il tutto è riconducibile al fatto che ogni ambito e conflitto fosse riconducibile esclusivamente al principe; ogni parte dell’ordinamento doveva conformarsi alla sua volontà. Anche i privati si rivolgevano direttamente al principe per la risoluzione dei loro conflitti. Questo insieme di situazioni particolari portò all’elaborazione di una serie di precedenti con valore precettivo, capaci di orientare tribunali, amministratori e le successive decisioni del principe. E nulla vieta che in seguito i giuristi fecero opere di massimizzazione intorno ad essi elaborando i primi embrioni del diritto amministrativo. Tuttavia, sarebbe comunque continuato a mancare un sistema arbitrale di giudizi tra il privato e l’amministrazione. Infatti, l’esperienza romana non giunse a questo per la natura e il modo di esercizio del potere imperiale, per l’assenza di tempo e per la modestia della sfera amministrativa romana. 5. Memoria e continuità del sapere giuridico I giuristi avevano quindi una duplice funzione: affiancavano il principe ed erano custodi del sapere giuridico antico e tradizionale. Tuttavia, la crescita quantitativa dei testi della giurisprudenza imperiale rese sempre più difficile una conoscenza esaustiva di quel sapere che era alla base della stessa evoluzione della scienza giuridica. Per questo motivo, molte delle opere più antiche erano irreperibili e gran parte del pensiero dei giuristi antichi sopravviveva solo grazie alle citazioni e discussioni delle loro opinioni da parte di giuristi più recenti i quali realizzavano delle summae (sintesi) Sin dalla tarda età repubblicana molti dei saperi tecnici erano stati insegnati in vere e proprie scuole (es. retorica) in cui lavoravano professori pagati con regolare stipendio dall’erario; ciò non avvenne per il sapere giuridico: per quanto riguarda la formazione di nuovi giuristi persisteva la tradizione repubblicana di carattere aristocratico e fondata sul rapporto diretto tra giurista e suo allievo anche se dovettero pur operare sistemi di formazione con caratteristiche di scuole. Le scuole di diritto avevano poi ripreso un ruolo centrale nel III sec. quando con Diocleziano e Costantino era stato recuperato l’ordinamento imperiale precedente alla crisi. Tuttavia le condizioni erano radicalmente mutate anzitutto per il dualismo dell’impero e per la marginalità di Roma. In ogni caso, in queste circostanze si potenziarono e si moltiplicarono i centri di insegnamento e di studio del diritto situati soprattutto in Oriente. Dopo la crisi, importanti furono le istituzioni burocratiche e amministrative, che conservarono il patrimonio giuridico del principato da cui poi si innestò la restaurazione portata avanti da Aureliano, Diocleziano e Costantino. La crisi aveva quindi avuto riflesso sulla vita del diritto: -minore produzione giuridica intorno alla metà del III sec a.C. –scomparsa di grandi giuristi al vertice burocratico -indebolimento della genealogia di trasmissione del sapere tecnico Successivamente, con la restaurazione di Diocleziano i giuristi seguono una logica completamente diversa perché ormai il quadro politico è cambiato: il potere è concentrato nella mani di un singolo divenendo incompatibile con la persistenza di altri autonomi protagonisti della vita giuridica e con un libero dibattito che era stato la base della giurisprudenza precedente Il giurista era ormai mezzo del potere imperiale Nel complesso emergono pochi nomi di giuristi sotto Diocleziano tra cui quello di Ermogeniano associato alla redazione di un’importante raccolta di costituzioni imperiali e di testi giuridici Sotto Diocleziano e poi con Costantino l’apparato burocratico diventa unico luogo di elaborazione del diritto. Infatti, esistono le costituzioni degli imperatori in ogni ambito della vita giuridica e amministrativa e i giuristi sono quindi completamente immessi nella sfera imperiale. In conclusione si era ormai conclusa la lunga e complessa vita di quella pluralità di fonti giuridiche che aveva caratterizzato la storia di Roma CAPITOLO 19 – UN IMPERO DI CITTA’ 1. Il sistema municipale Municipi e colonie continuarono a fruire di ampia autonomia amministrativa ma con una maggiore flessibilità fino al punto di tollerare che i senati locali potessero modificare l’originario statuto del municipio su autorizzazione del potere centrale, facilitando così l’adeguamento dei sistemi normativi istituzionali locali ai criteri affermati a livello centrale. In questo sistema l’Italia costituisce l’area di più forte romanizzazione: la molteplicità degli istituti giuridici locali si andava dissolvendo a favore di un unico diritto centrale, le lingue locali si dissolsero a favore del latino e i magistrati locali diffondevano nei municipi il diritto vigente a Roma, sulla linea dell’azione del pretore romano. In ambito provinciale, la romanizzazione avviene sulla linea di quella portata avanti precedentemente in Italia; furono quindi riproposti i modelli del municipio e della colonia anche nel mondo provinciale. In questo modo Roma non solo plasmò la fisionomia giuridica e i valori sociali di riferimento di intere popoli ma ne favorì la progressiva assimilazione, soprattutto delle élite. Non a caso, alla gestione delle magistrature locali faceva seguito, allo scadere, l’acquisto della civitas romana. Il modello di città fu applicato anche a tutto il mondo provinciale e si vennero a creare due approcci: a) le realtà urbane già esistenti vennero legate a Roma attraverso trattati che portarono alla nascita: - di civitates foederatae che avevano una sovranità tollerata - civitates liberae - civitates liberae et immunes che erano esonerate da obblighi fiscali verso Roma b) le comunità indigene vennero inserite in nuove istituzioni cittadine sul modello delle colonie e dei municipi Tuttavia, malgrado l’uniformazione delle città e degli ordinamenti, continuava a persistere sino alla svolta nel 212 d.C. la profonda dicotomia tra civitas Romana e peregrini In ogni caso, la fioritura del mondo cittadino in tutto l’ambito dell’impero si fondava soprattutto sullo sfruttamento ottimale delle risorse locali che veniva perseguito attraverso autogoverno, evergetismo privato e per mano dell’imperatore. 2. Diritto romano e diritti locali nel mondo provinciale Per peregrino indichiamo una componente subalterna e periferica all'ordinamento romano come i sudditi provinciali o alcune categorie di ex schiavi. Nelle province troviamo: - peregrini appartenenti ai territori provinciali non organizzati in civitates, dipendenti dal governatore romano - abitanti delle civitates stipendiariae, sotto la fiscalità romana ma con istituzioni autonome - peregrini delle civitates foederatae e delle sine foedere liberae che vivevano secondo gli statuti cittadini - abitanti di colonie e municipi di diritto latino o romano Poi all’interno delle diverse comunità provinciali si generavano delle stratificazioni sociali a causa della presenza interna di cittadini romani per nascita o per promozione, ovvero membri dell’élite provinciali e veterani che individualmente acquisivano in seguito la civitas romana. Tuttavia, l’ottenimento della civitas romana comportava il rispetto del diritto romano, di conseguenza alcuni cittadini delle comunità iniziarono ad essere soggetti al diritto romano e alla loro giurisdizione autonoma. In tali contesti, l’autorità imperiale disciplinò in modo particolare questi nuovi cittadini romani, tuttora membri di comunità semi sovrane: di restaurazione dell'edificio imperiale attraverso una profonda modifica delle strutture di potere. 2. Diocleziano Manovre di Diocleziano: 1) FORMALIZZAZIONE della figura del MINOR, una figura che affiancava il principe. Diocleziano sceglie MASSIMIANO come suo collega, con cui divide competenze, nettamente ripartite con un’incidenza anche territoriale. In particolare, Diocleziano si riservava il governo della parte orientale mentre a Massimiano fu affidata la parte occidentale dell’impero. Ovviamente, l’impero conservava la sua unità politica. 2) Nomina di DUE CESARI in condizione subordinata ma con diretta competenza territoriale e nella posizione di legittimi successori ciascuno del proprio augusto. Questo sistema aveva l’obiettivo: -assicurare un capillare esercizio del potere e un più efficace governo degli eserciti -garantire un sistema ordinato di successione rafforzato anche da un sistema di matrimoni Questa costruzione non ebbe successo nei fatti ma la divisione territoriale portò alla riorganizzazione dell’apparato militare e ad una difesa migliore dei confini. 3) SPOSTAMENTO delle SEDI IMPERIALI da Roma verso aree strategiche ai fini della difesa così da facilitare tempestivamente la presenza imperale nei punti di crisi: - Massimiano: Treviri, Milano, Aquileia e Ravenna (ragioni strategiche) - Diocleziano: Sirmione, Antiochia e Nicomedia come sede definitiva 78 4) PROVINCE: - raddoppiate nel numero per suddivisione interna: da 50 a 100 - divise in 12 diocesi a capo di ognuna delle quali fu posto un vicarius delegato diretto del prefetto del pretorio 5) La quadripartizione del potere che portò ad un cambiamento degli assetti di governo: - La figura del prefetto del pretorio venne suddivisa tra due funzionari anche se continuava a conservare le supreme funzioni militari e le funzioni di diretta collaborazione con ciascun imperatore e alle sue dipendenze furono introdotti: rationalis summae rei responsabile politica monetaria e fisco e un magister rei privatae responsabile del patrimonio privato del re. 6) AMBITO MILITARE - Trasformò le legioni in unità operative più flessibili e mobili diminuendone gli organici e moltiplicandone il numero. Questo rese inevitabile una maggiore utilizzazione di individui di estrazione barbarica - Nuova strategia di difesa: comitatus, armata mobile che seguiva l’imperatore nei punti di crisi, non più affidati alle truppe di confine 7) RISANAMENTO delle CONDIZIONI ECONOMICHE: Esso operò su due piani: -mirò a bloccare inflazione attraverso la stabilizzazione monetaria -mirò a riorganizzare il sistema fiscale: l'aggravio dei costi generato dalla maggiore efficacia del governo imperiale e dalla conseguente moltiplicazione degli uffici fu bilanciato dalla politica fiscale consistente nelle requisizioni come fonte principale di entrate statali, e consistendo in trasferimenti in natura non erodevano il valore reale delle imposte ingenerato dall'inflazione. In particolare l'imposta fondiaria fu ripartita per unità fiscali (iuga) e commisurata alla qualità dei terreni e alle forze produttive (caput=1 uomo) mentre i non proprietari vennero sottoposti a un'imposizione uniforme da pagare in denaro 8)L’Augustus assunse un’AURA SACRALE sottolineata dalla sua designazione come Dominus et Deus. In parallelo, si sviluppò un pesante cerimoniale sulla sua persona che ne sottolineava la separatezza anche fisica dai sudditi. Di fatto un numero sempre minore di alti funzionari ebbe accesso diretto alla persona dell’imperatore e allo stesso tempo il Consilium principis era diventato consistorium, perchè in piedi al suo cospetto. Questo ebbe come conseguenza la nascita dell’impero romano cristiano con Costantino che infatti scelse questo culto come fondamento dell’ordine imperiale. Nel 305 Diocleziano si ritira volontariamente e il suo impero rappresenta uno spartiacque: recupera per quanto possibile elementi del principato e dell’impero precedente ma per risolvere problemi del suo tempo è portato ad applicare una svolta più autoritaria e rigida al sistema istituzionale. 3. Costantino e l’inizio dell’impero romano-cristiano Con il suo ritiro, Diocleziano obbligò anche l’altro Augusto, Massimiano, a dimettersi. In tal modo egli voleva assicurare il successo della logica insita all’ordinamento tetrarchico da lui introdotto, ma al contrario questo meccanismo portò collasso del sistema di successioni, ingenerato dalla contrapposizione tra vari aspiranti alla carica imperiale. Alla fine emersero due contendenti per il potere in Occidente: ● COSTANTINO, figlio di Costanzo Cloro, successore di Massimiano, designato secondo logica dei cesari ● MASSENZIO, figlio di Massimiano Nel 312 Costantino vinse presso Roma, forte anche dell’appoggio dell’imperatore d’Oriente LICINIO. La loro collaborazione fu però provvisoria poiché il loro diverso approccio verso il cristianesimo portò a una lotta aperta, vinta da Costantino nel 324, che portò alla scomparsa del suo avversario. Politica di Costantino: a) politica di crescita e potenziamento dell’APPARATO BUROCRATICO: - prefetti del pretorio persero loro funzione centrale: furono incardinati nelle quattro grandi aree in cui fu suddiviso l’impero, che a loro volta comprendevano ognuna più diocesi; non presiedettero più il consistorium imperiale, vennero tagliati fuori dal seguito dell’imperatore; furono posti al vertice degli uffici centrali e chiamati a far parte del censitorium imperiale nel quale vennero introdotti: il quaestor sacri palatii (legislazione imperiale), comes sacrarum largitionum (finanze), comes rerum privatarum (amministrazione) e il magister officiorum (apparato burocratico). In questo contesto, era orami inevitabile anche la definitiva obliterazione della differenza tra carriere equestri e senatorie e la netta divisione tra sfera militare e amministrazione civile b) sfera MILITARE: Furono potenziate le unità mobili poste ora in città e al diretto seguito dell'imperatore con la costituzione di una milizia palatina in sostituzione dell'antica guardia pretoriana, tale milizia era separata dall'esercito di linea che a sua volta era separato dalle truppe di frontiera. Inoltre, il corpo centrale delle armate fu dissolto in numerose unità e l'organico militare crebbe, condizioni che resero necessario una notevole mobilità dell’imperatore. Il superiore comando militare sottratto al prefetto del pretorio fu assegnato a comites e magistri militum ai quali ordini c'erano dei duces. c) scelta dei COLLABORATORI, COMITES - si trattava di funzionari e dignitari posti secondo una gerarchia interna: comites primi, secundi, tertii ordinis - poi diventò titolo onorifico, senza funzioni pratiche d) SPOSTAMENTO della CAPITALE dell’impero a Bisanzio che prese poi il nome di Costantinopoli. La nuova capitale rendeva più agevole il controllo delle danubiane, agevolava il confronto con la potenza persiana ed era strategicamente più sicura e difendibile della stessa Roma. e) POLITICA RELIGIOSA - nel 311 Galerio aveva ordinato la sospensione della persecuzione cristiana, e nel 313 Costantino e Licinio avevano proclamato con l’EDITTO DI MILANO l'uguaglianza di tutte le religioni favorendo l’ascesa del clero nelle cariche di potere - Con Costantino la religione assunse notevole forza e venne sfruttata a vantaggio personale soprattutto nello scontro con Licinio. Egli infatti mirava a utilizzare la nuova religione in funzione del rafforzamento dell’apparato imperiale. -Per questo non si limitò a una politica di tolleranza ma coinvolse la nuova religione nel governo della società - In questo modo, l’imperatore divenne custode e difensore della vera e unica religione dell’impero - Nel 324 Costantino emanò un editto a favore del cristianesimo con cui si concesse ai tribunali dei vescovi di giudicare cause tra cristiani in sostituzione dei tribunali ordinari. -In questo contesto, l’organizzazione imperiale perse la sua connotazione pagana mentre il princeps appariva ora come espressione terrena del divino, custode e supervisore della religione e della chiesa (approvazione dei vescovi fatta dall’imperatore). 4. La trasformazione de una società Punto centrale di questo periodo storico fu la profonda crisi economica che sfociò in un generale ingessamento della società imperiale. Ciò portò: -una divisione gerarchica ancora più netta legata alla collocazione di ciascun individuo nel sistema tassonomico: clarissimus/illustris; honestiores/humiliores -Le grandi ricchezze patrimoniali iniziarono ad allontanarsi dal centro cittadino. -Profondo mutamento delle élite cittadine, ossia il ceto medio, su cui si era fondata tanta parte del tessuto politico dell’impero municipale. In particolare, esse erano state indebolite dalla pressione fiscale e ora si ritrovarono imprigionate in un sistema che le rendeva ostaggio del decurionato. -Nuovo approccio a mestieri e professioni: gli individui erano legati alla storia professionale della propria famiglia e la condizione lavorativa era segnata dall’appartenenza ai collegia, che conferivano così uno statuto sociale legato alla professione. -Sviluppo di sistemi capillari di controllo individuale a fini economici e fiscali. Lo strumento fondamentale di questa politica era stata la figura dei frumentarii che avevano ruolo informativo per la sicurezza imperiale, e dopo essere stati aboliti ad opera di Diocleziano vennero ripristinati da Costantino attraverso il corpo degli agentes in rebus. Tuttavia, la loro attività poliziesca era molto oppressiva con i deboli ma non con i grandi proprietari fondiari, clero e burocrazia. Infatti, a questi ceti e alle loro proprietà venne assicurata l’immunità fiscale che portò speso alla nascita di vaste signorie agrarie, semi- indipendenti Anche la riforma monetaria di ritorno al valore effettivo dell’oro, che era stato abbassato in precedenza, comportò un danno per i detentori di moneta in bronzo e - chiesa d’occidente sotto la guida del vescovo di Roma sempre più autonomo del potere imperiale Nel corso di questa progressiva divaricazione molti ostacoli interni e molte crisi dovettero essere superati, soprattutto grandi eresie e scismi. Questa saldatura tra istituzioni politiche, vita civile e lotte religiose appare in fondo l’ovvia conseguenza del ruolo attribuito alla nuova religione come collante dell’impero. L’unità cristiana costituisce inoltre un primo punto d’incontro tra il vecchio mondo romano e le nuove popolazioni barbariche 3. I barbari e l’impero Prima veniva usato peregrinus per indicare soggetti estranei a Roma, poi era passato a indicare categorie di individui interni al sistema imperiale. Si diffuse così a indicare ogni tipo di società e individuo estraneo a Roma e alla sua sovranità il vocabolo barbarus, un termine carico di una connotazione in senso negativo Comunque vi erano rapporti più o meno positivi con i barbari: - vi erano incursioni e pressioni alle frontiere - non mancavano scambi commerciali - espansionismo romano dal punto di vista economico e culturale - spinta missionaria della nuova religione che portò alla cristianizzazione di molte popolazioni barbariche - arruolati nell’esercito e poi ascesi fino ai più alti livelli dei comandi militari diedero origine a una drammatica esplosione della pirateria e di azioni vandaliche. Sotto Valentiniano II nel 377 la popolazione dei Goti, spinta dagli Unni, venne integrata nell’impero e venne applicata nella difesa esterna; poi però ci fu una ribellione interna dei Visigoti che devastò le regioni occidentali dell’impero. Si verificarono quindi crisi interne tra popolazioni, inoltre questi eserciti barbarici al servizio degli imperatori romani venivano integrati come foederati, ovvero come legati all’impero attraverso un trattato, quindi conservavano le loro tradizioni e non erano sottoposti al diritto romano. Teodosio I usò l’assunzione in blocco di eserciti barbari affidando la difesa dell’impero al generale Stilicone, a cui attribuisce anche la tutela dei suoi figli alla sua morte (395): - Arcadio in Oriente, rivendicò subito la sua parte –Onorio in Occidente; Di fatto Stilicone potè governare fino alle rivolte anti-barbariche. 4. Il crogiuolo d’Occidente e la lunga vita dell’impero d’Oriente La caduta dell’impero romano d’occidente avviene nelle seguenti fasi: ● Nel 408 viene ucciso Stilicone per mano delle sollevazioni romane contro i barbari ● Alarico, capo dei Visigoti, marcia su Roma ● L’impero d’Oriente non riesce ad aiutare militarmente l’occidente perchè ha problemi di difesa ● Si apriva con ciò la fase finale del processo di dissolvimento dell’impero d’Occidente dando luogo ai REGNI ROMANO-BARBARICI ● Oriente finse di delegare controllo dell’occidente ai capi militari barbari esercitando così nella parte occidentale un potere di fatto ● morte di Onorio nel 423 porta ad ulteriore divisione dell’occidente: - in Gallia regno franco e regno burgundo - in Spagna regno visigotico - in Africa regno vandalo - Britannia si distaccava dall’unità imperiale con l’affermata autonomia delle popolazioni locali - Europa centrale cade sotto gli Unni di Attila ● CADUTA DELL’IMPERO si ebbe nel 476 quando Odoacre depone imperatore Romolo Augusto e afferma la propria signoria su tutta l’Italia ● In questo contesto, TEODORICO, re degli Ostrogoti, strappa il potere a Odoacre e si nomina rex dei Goti, Pertanto alla fine del V sec., una nuova realtà politica e sociale si era venuta sostituendo alle antiche forme. In queste nuove circostanze: - La popolazione locale venne portata a convivere con i barbari - L’apparato burocratico e amministrativo restò sotto i Romani mentre il monopolio della forza militare diventò di competenza germanica TEODORICO quindi cercò di: - fare politica di integrazione tra l’elemento romano e quello Ostrogoto: il suo collaboratore Cassiodoro si era riproposto di conservare il vecchio impero conciliandolo con quello barbaro, ma non riuscì a consolidarsi in una realtà permanente - mantenere le strutture centrali e periferiche del vecchio assetto imperiale - unificare l’ordinamento giuridico, pur lasciando il principio di personalità del diritto. Vi è infatti un editto di Teodorico con principi del diritto romano generalizzati per entrambi - sottrarre terre ai romani per distribuirle a ostrogoti C’è anche una forte penetrazione del diritto romano in questa nuova realtà; dimostrato da: - editto di Teodorico - Codex Euricianus e Lex Romana Visigothorum (Alarico II, 506) - Lex Romana Burgundionum In Italia, la frattura definitiva con la tradizione romana intervenne con il dominio longobardo che infatti portò ad un irrigidimento della distanza tra la minoranza guerriera dei longobardi al vertice e la maggioranza della popolazione romana assoggettata. Coerentemente, in tale legislazione ciascun ceppo conservò le proprie istituzione giuridiche secondo quella logica della personalità del diritto. La vicenda fu interrotta dal contributo del papato come difensore dei dominati e in queste circostanze, l’eredità della parte orientale dell’impero fu mantenuta nell’impero bizantino. 5. La legislazione imperiale nell’età del dominato A partire da Diocleziano si accentuò il carattere repressivo della legislazione. Infatti, ci fu una crescita dell’ambito di applicazione del crimen maiestatis, punito con particolare severità la cui imputazione dava alla luogo alla tortura giudiziaria, e di molti altri crimini come quello de repetundis e crimen calumniae ( formulazione di accuse false ed infondate nei confronti di soggetti innocenti) a un numero sempre maggiore di condotte Il tutto fu accentuato dalla cristianizzazione dell’impero: - Infatti, un nuovo settore della repressione criminale fu rappresentato dalla persecuzione delle eresie, dei culti pagani delle altre religioni, talvolta addirittura con l’applicazione della pena capitale. Ciò si verificò soprattutto a partire da Teodosio I, dal 379 al 380 a.C. con la proclamazione del cristianesimo come religione ufficiale. - Inoltre, l’influenza cristiana rafforzò la tutela del matrimonio aggravando le forme di repressione degli illeciti sessuali, anzitutto dell’adulterio, giungendo anche qui alla pena capitale. -Infine, con l’impero cristiano si configurerà come reato da punire qualsiasi forma di magia Parallelamente all’irrigidirsi della legislazione anche le pene corrispondenti erano più severe: - Spesso la morte -la damnatio ad metalla per gli humiliores, consistente nei lavori forzati nelle miniere - Deportatio o relegatio in sostituzione dell’esilio A tali condanne corrispondeva anche la perdita del patrimonio acquisito dallo stato. I procedimenti criminali poi si svolsero esclusivamente nella forma della cognitio extra ordinem dunque secondo una logica di tipo inquisitorio. In particolare, l’accusa contro un imputato iniziò a prevedere pene più gravi mentre per i crimina particolarmente gravi o accertati si generalizzò il sistema dell’appello . In questo contesto, è evidente la totale centralizzazione di tutta la politica repressiva nelle mani dell’imperatore che a partire da Costantino sostituì l’antica centralità dei rescritti con leges generales ed edicta. In quell’epoca furono anche introdotte nuove fonti normative costituite dalle pragmaticae sanctiones e dalle adnotationes. In aggiunta, a partire da Costantino e dai suoi successori questi provvedimenti potevano essere emanati sia in latino che in greco a dimostrazione della dualità dell’impero. A partire dal IV sec, la presenza di due figure imperiali faceva si che accanto alle costituzioni emanate da entrambi, vi fosse una moltitudine di altre statuizioni emesse da uno o dall’altro degli imperatori in carica. Alla morte di Teodosio I questa unità cessò di esistere. Si formò inoltre un tipo di diritto volgare come conseguenza della crescente attenzione posta da Costantino nei riguardi delle prassi e consuetudini locali, il diritto era dunque volgarizzato dalla presenza di pratiche locali. CAPITOLO 22 – DIRITTO E GIURISTI DA DIOCLEZIANO A GIUSTINIANO 1. Preservazione e recupero di un antico patrimonio Il dominio di un materiale normativo caotico ed eterogeneo se non addirittura contraddittorio in tanta parte preservato negli scritti dei giuristi del Principato oltre che nelle tante costituzioni imperiali era divenuto pressoché inaccessibile non solo ai privati ma anche alle istituzioni pubbliche che pur dovevano esserne garanti. Gli sconvolgimenti politici e la lontananza dell'imperatore da Roma nel corso della crisi del terzo secolo generò diversi problemi sul piano giuridico: -disordine delle cancellerie e difficoltà nella conservazione della documentazione -decremento della produzione legislativa nel momento di massima crisi politica -sviluppi di tipo consuetudinario che portarono alla volgarizzazione del diritto romano Con Diocleziano il funzionamento degli uffici con la presenza di adeguate competenze legali riprendeva in modo significativo; ora il problema riguarda cosa fare degli scritti dei giuristi classici (i giuristi del Principato) e come ricavare da essi le regulae iuris, regole del diritto: si trattava di riadeguare un antico sapere ad un contesto nuovo. 2. Epitomi, analogie e le “Istituzioni” gaiane A partire dalla seconda metà del terzo secolo si sono moltiplicate le raccolte e le antologie di frammenti di giuristi antichi, soprattutto le epitomi (sintesi abbreviate e semplificate di testi classici) al fine di poter disporre di strumenti operativi sufficientemente chiari e rapidamente utilizzabili dai giudici e dagli avvocati. In questo contesto, assunse notevole importanza le institutiones di Gaio (II secolo):un semplice e chiaro manuale istituzionale nel quale l'autore offriva agli studenti di diritto una sintesi dei principali istituti del diritto romano menzionando talvolta aspetti della storia più antica per far comprendere le logiche profonde che ispirano le forme giuridiche romane Nel quarto secolo incontriamo raccolte miste di: - Iura = scritti degli antichi giuristi del Principato - Leges= costituzioni imperiali Ad esempio: § I Vaticano Fragmenta (372 d.c.) → si tratta di una raccolta dei testi di alcuni giuristi classici (Papiniano, Ulpiano e Paolo) e di costituzioni imperiali dall’età di Diocleziano fino al 372 § Pauli Sententiae → insieme di frammenti di testi giuridici e costituzioni imperiali dal II al IV secolo d.c.; Diversi sono i riassunti di testi giuridici: § Epitome gai→ in cui il testo delle istituzioni Gaiane e ulteriormente semplificato e abbreviato § Tituli ex corpore Ulpiani→ una raccolta di brani appartenenti a Ulpiano con una trattazione elementare con cui si cerca di introdurre il lettore alle regole elementari del diritto In queste varie opere non si troverà quasi mai un lavoro di rinnovamento e proposizione di nuove interpretazioni ma solo una buona conoscenza e capacità di orientamento nella lettura delle opere del passato a supporto del lavoro dei pratici del diritto. Altre opere: