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Riassunto Stussi, Introduzione agli studi di Filologia Italiana, Sintesi del corso di Filologia italiana

Riassunto Stussi, Introduzione agli studi di Filologia Italiana per esame di Filologia italiana con Canfora

Tipologia: Sintesi del corso

2017/2018

Caricato il 23/07/2018

loislane6277
loislane6277 🇮🇹

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Scarica Riassunto Stussi, Introduzione agli studi di Filologia Italiana e più Sintesi del corso in PDF di Filologia italiana solo su Docsity! INTRODUZIONE AGLI STUDI DI FILOLOGIA ITALIANA A. Stussi I - Manoscritti e stampe 1. Il libro Le parole libro e volume, oggi quasi sinonime, hanno origini diverse. In latino, liber era lo strato ligneo sottostante alla corteccia, che in tempi remoti aveva fornito superfici adatte alla scrittura, mentre volumen designava il rotolo di papiro avvolto (da volvo). Col progressivo diffondersi di un più duttile materiale scrittorio, la pergamena, si passò a partire dal primo secolo d.C. al libro nel senso moderno, il quale ebbe successo grazie alla sua maneggevolezza: la sua struttura ricalcava quella dei libri romani e greci fatti di tavolette cerate, codex allora, designò prima quelle tavolette, poi per metonimia il libro. “Codice” si usa nel linguaggio filologico come sinonimo di libro antico manoscritto, nella fattispecie medievale. Dopo l’invenzione della stampa a caratteri mobili (Gutenberg, 1448), la quale fu un salto qualitativo e di grande convenienza economica e produttiva del sistema, è nata la distinzione tra 'codice' (o manoscritto) e 'libro a stampa' (o stampa). Esistono diverse discipline interessate allo studio di questi manufatti:  la paleografia studia la scrittura dei manoscritti;  la codicologia studia la tecnica di confezione, struttura, rilegatura, ecc.;  la bibliografia testuale (o analitica) si occupa delle caratteristiche materiali del libro a stampa. 2. I materiali scrittori In filologia italiana si ha a che fare con manoscritti di pergamena e di carta. - La pergamena (nome derivato probabilmente da Pergamo) sarebbe stata usata per fronteggiare la mancanza di papiro, ricorrendo alla pelle di animali come vitelli, capre e pecore. La pelle veniva trattata in modo da renderla liscia ed uniforme e presentava un lato più scuro (quello del pelo), mentre sul lato chiaro (corrispondente alla carne) si scriveva. Questo metodo causava però inevitabili sprechi. Questo materiale è molto pregiato, robusto, consente l’abrasione o il lavaggio e il riuso producendo il cosiddetto palinsesto, su cui gli studiosi, si sforzano di scoprire la scriptio inferior. Utilizzando la luce ultravioletta è possibile infatti ricavare le scritte cancellate, anche se alcuni codici hanno subito guasti irreparabili dall’uso di reagenti chimici in passato. - In latino, charta indicava in modo generico la superficie sulla quale si scriveva, per poi restringere il suo significato a quello odierno. La carta arriva in Italia nel 12^ secolo, grazie a mercanti che trafficavano con gli arabi di Spagna e nonostante venga contrastata inizialmente, sia per pregiudizi religiosi dovuti all’origine mussulmana, sia perché appariva troppo fragile per i documenti, alla fine del 13^ secolo il successo era ormai assicurato e a Fabriano e dintorni sorsero i più attivi centri di produzione. Fino al 18^ secolo, la pasta da carta è ottenuta da stracci macerati e reca in genere la filigrana della fabbrica di appartenenza. L’enorme convenienza economica restringe l’uso della pergamena a libri di particolare solennità. Per scrivere, alla fine del medioevo (fine 15^ secolo) si usava raramente una cannuccia aguzza (calamus), più frequentemente la penna di volatile, sostituita via via da strumenti metallici. L’inchiostro conteneva spesso sali metallici che resistono sulla carta anche quando l’umidità ha fatto scomparire il colore, questo permette di recuperare con la lampada di wood, scritture apparentemente svanite. L'inchiostro di altri colori si usava per dare spicco a lettere iniziali (“capilettera”), a titoli di capitoli, a parti del testo: si parla infatti di “rubriche” e “rubricatore” (lat. Ruber rosso). Al semplice cambio di colore si poteva aggiungere l'ornamento di forme grafiche elaborate e policrome, fino alle lettere miniate e alle miniature: questo lavoro non è però contemporaneo alla scrittura e spesso non è nemmeno opera della stessa persona (l'amanuense lascia lo spazio vuoto per l'intervento del rubricatore e di solito annota in modo appena visibile la lettera guida che dovrà essere disegnata. Questo programma talvolta non viene eseguito e lo spazio resta vuoto: nascono fraintendimenti e omissioni confusionarie). 3. L’allestimento del manoscritto Il punto di partenza è il foglio (lat. folio). I fogli, di forma in genere rettangolare e di uguale misura, vengono piegati a metà e inseriti l’uno dell’altro, formando fascicoli che a loro volta formano un codice. Esso può essere formato da fascicoli di carta o tutti di pergamena, verrà quindi designato con le abbreviazioni, rispettivamente 'cart.' e 'membr.' L’uso antico numerava le carte, non le pagine (quindi un totale di 40 carte sarà un totate attuale di 80 pagine), inoltre si distingue il recto dal verso. Nel caso di scrittura su due colonne, le colonne del recto sono indicate con a e b mentre quelle del verso con c e d. Lo specchio (spazio dedito alla scrittura) veniva spesso delimitato e rigato a secco, la scrittura procedeva a fogli separati, partendo dal foglio esterno e riempiendo prima solo la parte sinistra dei fogli. Sul verso dell’ultima pagina veniva scritto un richiamo, la parola iniziale del fascicolo successivo, per facilitare l’ordine nel caso di spostamenti. Nel caso di perdita di un fascicolo il codice si dice mutilo e se la perdita si colloca all’inizio, acefalo. Una volta completato, l’insieme dei fascicoli veniva spesso protetto con l’aggiunga all’inizio e alla fine di fogli di guardia bianchi e rilegato. Purtroppo la rilegatura originale dei manoscritti antichi è stata spesso sostituita, abolendo quindi un dato di importanza storica e culturale, visto che i piatti (le copertine rigide unite al dorso) contengono spesso note o scritture interessanti. Sotto la stessa rilegatura può esserci un codice unitario oppure un codice composito, cioè prodotto dall’aggregazione di due o più individui. 4. La scrittura antica È opera dello scriba. Si parla di copista in riferimento all’opera di trascrizione da un manoscritto all’altro e si distingue il copista di mestiere dal copista per passione: il primo è un lavoratore motivato da ragioni economiche che copia in modo meccanico e impersonale, il secondo ha interesse personale nel testo e talvolta lo corregge e lo migliora. La copia di servizio è quella approntata personalmente da un autore per proprio uso privato. Con lo sviluppo delle città e il sorgere di nuovi laboratori si diffondono centri scrittori (oltre che conventuali ora anche laici) dove più amanuensi lavorano secondo criteri omogenei e coordinati, tanto che è possibile riconoscere la provenienza di un codice dalle sue caratteristiche estrinseche. A volte, per dimezzare i tempi di produzione, uno stesso codice poteva essere trascritto da due amanuensi: ciascuno copiava la metà affidatagli e poi le parti venivano riunite, ciò è evidente da tipologie di scritture differenti, non sono però rari gli inconvenienti. Tipico di molte università europee dal 13^ al 15^ secolo è il sistema della - L’archivio nasce con l’organizzazione stessa del vivere sociale e con la raccolta dei suoi sedimenti scritti (archivi di famiglia, di stato, di imprese,ecc.). - Alla biblioteca invece, spetta il libro vero e proprio, contenitore di opere letterarie, scientifiche, giuridiche, religiose, ecc., prodotte da un attività creativa per lo più individuale. Questa distinzione ha una sua validità sia storica, sia funzionale, anche se è stata eccessiva la separazione fino al 1974 per cui gli archivi dipendevano dal Ministero degli Interni e le biblioteche da quello della Pubblica Istruzione; ora entrambi dipendono dal Ministero per i beni culturali e ambientali. Gli Archivi di stato italiani, uno per ogni provincia, si arricchiscono continuamente di materiali liberamente consultabili, salvo per le restrizioni fissate per legge. Le biblioteche pubbliche statali sono 36, distribuite in modo molto diseguale (Roma ne ha 9), perché lo Stato italiano le ha ereditate e non pianificate. Le biblioteche nazionali centrali di Roma e Firenze, sono le sole abilitate all’esercizio del diritto di stampa, cioè a ricevere un esemplare di ogni pubblicazione effettuata entro il territorio italiano, lo stesso diritto si applica, per quanto prodotto nel territorio di ciascuna provincia, a favore della locale biblioteca pubblica. Esistono quindi dei depositi, teoricamente completi di libri, opuscoli e stampa periodica prodotti. La continuità tra biblioteche antiche e moderne è un fatto di grande importanza dal punto di vista della storia della cultura, qui libri tanto più se conservati nelle scaffalature e con l’ordinamento originario, documentano il gusto, la vita intellettuale e l’organizzazione del sapere, nel tempo. Il lavoro dei filologo quindi è legato prevalentemente alle biblioteche, ma spostandosi verso le origini della lingua, anche agli archivi, visto che le prime testimonianze di scritture volgari sono spesso di carattere documentario, legate al mondo degli affari, alla regolamentazione giuridica, ecc. 7. Citazione e siglatura I manoscritti vengono citati per esteso indicando:  il luogo dove si trovano attualmente,  il fondo della biblioteca a cui appartengono,  la loro segnatura numerica, alfabetica, mista,  precedenti collocazioni. È necessario servirsi di sigle quando, nel corso di studi, si deve fare continuo riferimento a manoscritti e stampe quali testimoni della tradizione. Di fronte a tradizioni molto ricche conviene elaborare sistemi adeguati, partendo dal principio che la sigla deve essere breve ma anche, se possibile, non arbitraria in modo che un occhio esercitato possa decifrarla senza difficoltà; inoltre bisogna pure avere cura di evitare collisioni con eventuali altre sigle come quelle che si usano, per esempio, per distinguere mani diverse nello stesso codice. III - La trasmissione dei testi 1 Originale, copie, tradizione Il testo originale, può essere scritto dall’autore (autografo) o sotto sua sorveglianza (idiografo), oppure può essere un edizione a stampa da lui controllata e approvata. Dall’originale derivano le copie, per la prima di solito si parla di apografo, mentre si usa spesso antigrafo nel senso di copia a cui ne viene tratta un’altra, oppure esemplare nel senso di 'copia che serve da modello', ma anche copia in genere. Quando l’originale è perduto e l’opera è conservata da una o più copie, queste si designano come testimoni, che messi insieme costituiscono la tradizione di un’opera (perché sono i mezzi che l’hanno tràdita, cioè trasmessa e tramandata). Con lezione di un determinato testimone si designa un passo del testo così come compare in tale determinato testimone. Accanto alla tradizione diretta esiste la tradizione indiretta costituita da eventuali traduzioni o citazioni all’interno di un'altra opera (perciò un medesimo manoscritto fornisce testimonianza di tali citazioni, derivanti spesso da un testimone non conservato). Per particolari vicende un singolo testimone o anche un originale può risultare costituito da parti materialmente separate e talvolta divise tra diverse biblioteche, inoltre possono esserci testimoni parziali (mutili, acefali, ecc.), o frammentari, sia a causa di guasti sopravvenuti, sia originariamente. Originale manoscritto e autografo non sono sinonimi: del 'Canzoniere' di Petrarca abbiamo l’originale ma è stato scritto per lo più da Giovanni Malpaghini sotto la sua sorveglianza. Esiste anche il caso di un autografo che non è l’originale, qualora l’autore si sia fatto copista della propria opera. A parte casi non comuni, ad una copia d’autore va prestata maggiore attenzione rispetto a copie d’altra mano, essa inoltre può fare le veci dell’originale perduto in caso esso sia stato perduto. Il più antico originale autografo conservato di un opera letteraria sarebbe, secondo ipotesi recenti, il cosiddetto 'Ritmo Laurenziano', testo degli ultimi anni del 12^ secolo. Il problema di quale fosse l’aspetto di un originale non conservatosi ha spesso interesse non solo culturale e storico, ma anche strettamente testuale; ma è difficile giungere a conclusioni precise. In linea di massima la differenza tra un originale autografo e una stampa originale è che il primo è uscito dalla mano dell’autore, la seconda per quanto sorvegliata, non è altro che una copia eseguita meccanicamente e sensibile agli inconvenienti delle copie. (Si potrebbe infatti fare un lungo elenco delle delusioni provate dagli scrittori di fronte all’edizione imperfetta di una loro opera). Tipici dell’età della stampa, sono i problemi relativi all’assetto definitivo del testo infatti esistono opere stampate con l’autore in vita e consenziente, ma delegate a persona di fiducia che però subiscono revisioni di cui non si conosce l’eventuale approvazione dell’autore. La quantità dei testimoni conservati dipende da un intreccio di circostanze che occorre volta per volta valutare; il rogo e l’ostracismo della censura ecclesiastica hanno spesso impoverito la tradizione mentre in altri casi è stato il successo ad avere nefaste conseguenze perché la circolazione presso lettori avidi, ma poco interessati a ben conservare i libri, ne ha provocato un rapido deperimento e una perdita totale o parziale. Infatti come accade oggi per certi prodotti che diventano ben presto rari, nonostante le alte tirature, così in passato sono scomparsi tutti gli esemplari di moltissime stampe popolari o ne è sopravvissuto solo qualcuno, magari malconcio. Rispetto all’originale perduto, i testimoni sono talvolta anche molto tardi, come accade nella filologia classica dove, non essendoci originali conservati, si lavora su copie le quali, sono posteriori, nei casi fortunati di qualche secolo. Quindi ritenere a priori più autorevole un codice solo perché dista dall’originale qualche decennio meno di un altro, sarebbe assurdo, in quanto si ignorano le caratteristiche della tradizione: un testimone meno recente può infatti essere frutto di più e più copie e contenere maggiori alterazioni rispetto ad un testimone più recente. Occorre evitare anche giudizi basati sull’aspetto esteriore o della scorrevolezza del testo bisogna diffidare: abili artigiani e copisti erano capaci di risanare e modificare in modo da far contento un committente desideroso di possedere libri eleganti e di facile lettura. È un dato storico che i procedimenti da seguire di fronte ad una tradizione fatta solo di copie sono stati elaborati là dove tale situazione era la regola. Intorno alla metà dell’ottocento ha preso corpo il cosiddetto metodo di Lachmann. Tale metodo ha subito nel tempo, varie revisioni e critiche che ne hanno limitato il campo di applicazione piuttosto che messo in crisi il fondamento: si può infatti ormai considerare un dato di cultura comune la necessità di un confronto spregiudicato tra tutti i testimoni per valutarne l’attendibilità e i reciproci rapporti in vista di una motivata ipotesi su come doveva essere il testo originale perduto. A questo fondamentale aspetto dell’attività filologica ci si riferisce parlando di «critica del testo». 2 Errori e varianti L’atto manuale della scrittura è soggetto a diverse forme di imperfezione; sia componendo un originale, ancor di più se si sta copiando e se si tratta di un testo lungo che produce quindi distrazione e stanchezza. Di qui, comunemente, parole scritte in modo impreciso, a causa di aplografia (perdere una sillaba: statale diventa stale), dittografia (ripetizione di lettere/sillaba: sperare diventa sperperare), omissione di segni diacritici (come accenti, aposreofi, punteggiatura…). Tra le innovazioni, alcune hanno manifesti caratteri di errore, altre sono subdole, perché essendo dotate di senso, si inseriscono bene nel contesto e hanno un’aria di autenticità, che solo mediante il confronto con un altro testimone può mettere in dubbio o smascherare. Se quindi l’errore non è evidente si parlerà di variante, diversamente è un errore evidente e smascherabile a prescindere dalla sua presenza in un solo testimone, in alcuni o in tutti. Si capisce dunque che la tradizione a testimone unico comporta il rischio che passino inosservate alterazioni del copista. La qualità della copia è spesso condizionata in modo decisivo da: - tipo di scrittura del modello, - rapporto tra la lingua del copista e quella del testo - elementi imponderabili come le condizioni di luce, bontà della penna, ecc. Queste variabili influiscono su un esercizio psicofisico complesso che già di per sé è sufficiente a dar ragione ad alcuni guasti. Così è innanzitutto per gli errori puramente ottici (errori paleografici) consistenti nella confusione tra segni diversi ma di foggia simile: a parte fenomeni collegati a ductus particolari, le scritture antiche tendono «trabocchetti ai copisti» con sequenze facilmente intercambiabili come mia, ima, una, uua…; frequente è anche la confusione tra e, c, t oppure fra f ed s di forma lunga differenti solo per la mancanza del trattino centrale. È utile dunque avere dimestichezza con scritture di epoche e ambienti diversi per essere in grado di produrre verosimili ipotesi sulla forma grafica originaria di una parola fraintesa dal copista e restaurare quindi l’esatta lezione. Al fraintendimento ottico si aggiungono componenti di tipo psicologico: la lettura sintetica, si leggono solo le prime lettere di una parola e il resto si tira ad indovinare. Da qui deriva lo scambio tra parole che iniziano allo stesso modo (omeoarchia) e proseguono in modo simile (traduzione diventa tradizione). In questo modo si tende di solito a banalizzare, sostituendo l’insolito con il solito, il noto al meno noto, perciò dovendo scegliere tra lezioni equivalenti, si preferirà considerare originaria la lectio difficilior in quanto la sua stessa difficoltà spiega le lezioni concorrenti come banalizzazioni. Un altro tipo di errore legato alla meccanica della lettura-trascrizione è il saut du meme a meme, classico inganno dell’occhio possibile quando due diverse righe o versi inizino con le stesse parole, che porta a saltare delle righe provocando così una lacuna (copiando infatti si procede per brevi segmenti di testo – pericopi – ed è normale che l’occhio rintracci sul modello l’ultima parola del segmento appena trascritto e di lì prosegua). Altri errori frequenti nei manoscritti antichi sono quelli connessi al sistema abbreviativo, come il titulus che viene spesso dimenticato o aggiunto a sproposito probabilmente a Dal punto di vista della fedeltà all’originale si può spesso fare una gerarchia tra i testimoni in sede di recensio; tuttavia la fortuna di un'opera non dipende sempre dai migliori, bensì da una vulgata, magari decorosa ma non attendibile. Molte opere, soprattutto poetiche, della fine del ‘400 o del primo ‘500 furono stampate o ristampate verso la metà del 16^ secolo sottoponendole spesso a una radicale revisione linguistica. Talvolta capita anche di poter dimostrare l’intervento di un revisore, magari ritrovando il manoscritto utilizzato in tipografia: allora le stampe che ne derivano, essendo del tutto inutili, sono soggette alla eliminatio codicum descriptorum. Le innovazioni hanno spesso invece interesse per la storia della lingua e quelle lezioni scartate in sede ecdotica possono venire recuperate ad altro titolo. L’esame della tradizione apre dunque indirizzi di ricerca sull’ambiente dove tale tradizione si è sviluppata; ma anche dal punto di vista critico-testuale si fanno passi avanti analizzando i testimoni come autonomi. A proposito di Boccaccio (di cui molte copie del Decameron presentano diversità quanto ai nomi dei luoghi e dei personaggi di alcune novelle), V. Branca ha introdotto la distinzione tra tradizione caratterizzante, cioè quella relativa all’esame dei testimoni in funzione del testo critico, e tradizione caratterizzata, relativa allo studio delle vie e dei modi in cui un’opera si è riprodotto e diffusa. IV – L’edizione 1 Edizione critica dato più d’un testimone Immaginiamo che un originale perduto sia noto attraverso tre copie A, B e C e che esse presentino un certo numero di varianti (cioè divergenze). L’editore deve decidere quale dei testimoni ha ragione, evitando criteri estrinseci (come preferire il più antico o quello più curato), ma basandosi sui rapporti che sono intercorsi tra le copie, nonché tra loro e l’originale perduto. Solo così si giungerà a stabilire in modo non arbitrario cosa risale all’autore e cosa è alterazione introdotta dai copisti. Nel metodo di Lachmann col termine recensio viene designato il censimento dei testimoni dell’opera di cui si vuole fornire il testo critico (sia in modo diretto che indiretto, che per intero o in parte). Se il lavoro non è facilitato da studi preesistenti, occorre esplorare i cataloghi di manoscritti e stampe cercando di seguire un ordine prioritario in base al fatto che la diffusione dei testi segue spesso percorsi noti o prevedibili, quindi smettere di cercare quando si raggiunge la ragionevole certezza che trovare altri testimoni sia ormai improbabile. L’elenco dei testimoni comprende anche quelli non reperibili e tuttavia indirettamente noti che è opportuno segnalare perché potrebbero prima o poi essere scoperti se non è già nota la loro distruzione. Di fronte a tradizioni affollate conviene procedere presto ad una siglatura chiara e sintetica. Qualora l’esame o il confronto diretto di testimoni sia arduo per la loro distanza oppure si volesse confrontare l’uno accanto all’altro manoscritti o stampe inamovibili da diverse biblioteche, si possono usare riproduzioni (film, fotocopie), bisogna però essere prudenti poiché niente sostituisce l’esame diretto e spesso le riproduzioni hanno ingannato gli studiosi. Ciascun testimone deve essere studiato nelle sue caratteristiche materiali e in relazione all’opera, che può presentarsi integra o meno. Nel caso di codici miscellanei anche i testi che non interessano direttamente meritano quanto meno una ricerca bibliografica per accertare se son stati studiati giungendo a conclusioni di cui si debba tener conto. Conosciuti i testimoni, si procede con la collatio, cioè si confrontano parola per parola per quanto riguarda il testo in esame. Si sceglie un punto di riferimento, testo di collazione, rispetto al quale misurare divergenze e convergenze, infine se l’ipotesi iniziale dovesse poi rivelarsi erronea, non ci saranno conseguenze se il confronto è stato condotto con scrupolo. Si possono usare grandi schede o fogli protocollo, trascrivendo nella prima riga solo un breve segmento dotato di senso e le righe successive corrispondono ciascuna ad un testimone: quindi in corrispondenza della prima riga si incolonnano le varianti e si lascia spazio bianco laddove la coincidenza è perfetta, inoltre si prende nota delle particolarità di ogni testimone, come lacune, interpolazioni, macchie, fori… Questo lavoro meccanico non deve essere disgiunto dall’interpretatio, cioè lo sforzo di intendere la lezione di ciascun testimone nella sua peculiarità. 2 Rapporti tra i testimoni Quanto risulta dallo studio dei singoli manoscritti e stampe e dal loro confronto, viene utilizzato per costruire ipotesi su come, dall’originale alle copie conservate, si è articolata la tradizione. Occorre innanzitutto accertare che nessuno sia copia di un altro testimone superstite, e nel caso eliminare la copia. [Immaginiamo di avere due copie, A e B: se sono reciprocamente indipendenti essi offrono un’autonoma testimonianza e di entrambi si deve tener conto, valutandone convergenze e divergenze; se invece B è stato copiato – descriptus – da A, esso è privo di interesse ai fini dell’edizione ed è inutile perché riproduce il testo già noto di A, con l’eventuale aggiunta di ulteriori errori. Conviene dunque non tenerne conto ed eliminarlo: eliminatio codicum descriptorum si chiama infatti una fase della recensio, importante quando si ha a che fare con tradizioni affollate. L’ipotesi di dipendenza deve essere compatibile con la loro cronologia relativa: prove sono fornite talvolta dai copisti (amanuensi o tipografi) quando indicano l’esemplare di cui si sono serviti. Di solito però bisogna impegnarsi a trovare indizi, come, per esempio, un’inversione accidentale di fascicoli in A che poi si riflette in B, o anche prove esterne come trascrizioni di note di possesso, glosse, ecc. trascritte insieme al testo, da affiancare a cosiddetti errori significativi che servono a separare o a congiungere testimoni e gruppi di testimoni grazie a loro peculiari caratteristiche:  L’errore separativo è un errore che per le sue caratteristiche non può essere stato corretto da un copista (stando a ciò che si sa sulla cultura e abilità filologica dei copisti del periodo che intercorre tra i testimoni in questione). Perciò il testimone che ne è privo non sarà copia del testimone dove tale errore compare, ma indipendente.  L’errore congiuntivo, invece, ha caratteristiche tali da far ritenere improbabile che diversi copisti lo abbiano prodotto ciascuno per conto proprio ed è probabile invece che esso sia monogenetico; i testimoni dove tale errore compare sono dunque connessi. Limitando gli esempi al caso di due soli testimoni conservati, A e B, se essi hanno in comune almeno un errore congiuntivo, è possibile che siano l’uno la copia dell’altro, oppure che derivino entrambi da un terzo testimone non conservato (e si usa indicarlo con lettere greche o latine minuscole corsive), e ciascuna situazione è rappresentabile graficamente con uno stemma (stemma codicum). Pur bastando un solo errore significativo a sostegno dei ragionamenti, soprattutto nel caso di errori congiuntivi è sempre desiderabile trovarne in maggior numero per ridurre il rischio di valutazioni soggettive dei requisiti richiesti. Inoltre, riguardo gli errori separativi:  la loro presenza in un testimone più antico A e la loro assenza in uno più recente B fa escludere che B sia copia di A.  la loro assenza in A (più antico) non serve da sola come prova che B (più recente) sia copia di A Si noti poi che, essendo i requisiti di due tipi diversi, si hanno certamente errori separativi e insieme congiuntivi ma anche solo separativi o solo congiuntivi. 3 Articolazioni dello stemma Tornando ai tre casi di rapporto tra due testimoni, l’antecedente x non è l’originale, designato con O, in quanto si assume in linea di massa che all’autore non si possano imputare errori monogenetici. Si chiama archetipo la copia non conservata, guastata da almeno un errore di tipo congiuntivo, alla quale risale tutta la tradizione; di solito lo si indica con x o con ω, e a partire da esso (o in sua assenza, dall’originale) si contano le diramazioni dello stemma. Lo stemma non rappresenta dettagliatamente come in concreto è avvenuta la trasmissione di un testo, ma è soltanto lo schema dei rapporti genealogici decisivi per valutare le testimonianze. Perciò il numero dei testimoni perduti che esso contiene è quello strettamente funzionale a tale scopo, non rappresenta un’ipotesi sulla loro reale quantità. L’eventuale presenza di copie intermedie risulta ininfluente dal punto di vista del rapporto tra x e un testimone (es C), per cui sarebbe inutile inserire interposti lungo la linea che li congiunge. Occorre invece tener conto di quei testimoni perduti la cui esistenza ha condizionato i rapporti tra testimoni conservati, fatto questo che risulta dalla collazione quando, dati A B C D E F dipendenti da x, si scopre almeno un altro errore significativo che però è comune solo ad A e B, se tale errore è insieme separativo e congiuntivo, allora si conclude che: 1) in quanto separativo esso non risale ad x perché altrimenti dovrebbe trovarsi anche in C D E F; 2) in quanto congiuntivo non può essersi prodotto indipendentemente sia in A che in B, ma è verisimile la sua monogenesi in un testimone perduto a, intermedio (interpositus) tra x da un lato e A e B dall’altro. Come si è già detto, x contiene almeno un errore congiuntivo che non può risalire all’originale e che quindi nell’edizione critica verrà corretto, (emendatio). Occorre affrontare tutti i casi di lezioni divergenti, spesso dovendo scegliere tra varianti sostanziali ciascuna delle quali appare di per sé accettabile. Se la derivazione procede sempre per linee verticali (e cioè se da ogni singolo testimone conservato o no, si risale ad uno e non più di uno immediatamente precedente) è possibile per l’editore effettuare scelte meccaniche applicando per esempio la legge della maggioranza dei discendenti immediati all’interno di ciascun raggruppamento. Capita però che l’archetipo sia bipartito e che non si possa applicare la legge della maggioranza. In questo caso si parla di recensione aperta. Occorre quindi introdurre nuovi criteri per la scelta non meccanica. Si tratta di adottare la variante che meglio si adatta all’usus scribendi, cioè alla lingua e allo stile dell’autore, del genere, dell’epoca; oppure si fa ricorso al criterio della lectio difficilior. Talvolta nessuna delle varianti presenta requisiti per essere preferita ed accolta; allora conviene tentare di elaborare una lectio difficilior congetturale. Quanto detto finora parte dal presupposto che ogni copia sia stata trascritta da un unico esemplare, tuttavia succede che un copista abbia dovuto restituire un codice dal quale stava copiando e che poi ne abbia usato un altro. Nascono problemi quando le parti di diversa provenienza non sono delimitabili e quando il copista ha attinto lezioni da numerosi codici producendo contaminazione (e si parla allora di tradizione non meccanica, trasmissione orizzontale). Il fenomeno si verifica di frequente nei centri scrittori di qualche importanza dove erano disponibili più codici contenenti la stessa opera dai quali attingevano i copisti per migliorare e correggere il testo in singoli punti; c’è ragione di ritenere che talvolta a tale 7 Edizione dato un unico testimone Si lavora su un unico testimone o perché esso è di fatto unico o perché si decide di trattarlo come tale, pur essendo plurima la tradizione, e ciò si giustifica qualora interessi non ricostruire l’originale ma far conoscere la forma particolare, inclusi errori e varianti, che un certo testo assunse nella sua concreta diffusione. Dei tre tipi di edizione in uso è ben identificabile, rispetto agli altri due, l’edizione diplomatica, e molti studiosi considerano interpretative tutte le edizioni non-diplomatiche. Qui tuttavia la tripartizione è mantenuta. 8 Edizione diplomatica Essa riproduce il testo in maniera accurata e fedele al suo aspetto esteriore, risale al formarsi, nella seconda metà del secolo XVII, di una disciplina volta a fornire giudizi di autenticità sui documenti medievali, tra i quali appunto i solenni diplomata. Il collegamento con delicate questioni giuridiche impose di limitarsi alla pura e semplice trascrizione: l’ispezione diretta del testimone veniva quindi risparmiata agli altri studiosi. Non sempre però le edizioni diplomatiche riescono perfette, conviene quindi servirsene come sussidio non alternativo alla ispezione diretta del manoscritto. Con la diffusione delle riproduzioni fotografiche, questo tipo di edizione ha perso gran parte della sua ragione di esistere. 9 Edizione interpretativa Si tratta di un’inutile fase intermedia tra la trascrizione diplomatica e l’edizione critica, a meno che quel testimone non abbia requisiti tali da valere come testo autonomo ed autosufficiente. A parte il caso di manoscritti eccezionali, è frequente che copie poco interessanti dal punto di vista ecdotico siano invece preziosi documenti dell’uso antico del volgare nelle varie regioni e, come tali, devono essere pubblicati rispettando in modo integrale la loro fisionomia. Di norma l’edizione interpretativa è adatta ad antichi testi di carattere pratico e documentario per i quali o è sicuro trattarsi dell’originale o è intrinsecamente irrilevante la distinzione tra originale e copia. Si tratta di scritture interessanti dal punto di vista storico e culturale. È quindi importante che l’edizione interpretativa segua criteri rigorosi come i seguenti:  divisione delle parole, maiuscole, minuscole, punteggiatura secondo l’uso moderno;  distinzione tra u e v;  accentri e apostrofi secondo l’uso moderno;  parentesi tonde per lo scioglimento delle abbreviazioni;  parentesi quadre per lacune meccaniche;  corsivo per l’integrazione di lettere mancanti per errore di scrittura;  ecc. Successivamente al 15^ secolo si possono adottare criteri più elastici ma due sono le condizioni irrinunciabili:  il non travisamento della realtà fonetica sottostante ai fatti grafici;  l’enunciazione esplicita dei criteri seguiti. 10. Edizione critica A partire dai dati osservabili nell’unico testimone si formula un’ipotesi sullo stato dell’originale, segnalando eventuali punti in cui una conclusione sia dubbia o impossibile. Non è detto che una edizione critica su codex unicus debba essere più conservativa di quella su codex plurimi, anche se può verificarsi una istintiva inclinazione in tal senso. Si è sottolineato che accanto ai sicuri vantaggi rappresentati da un apparato critico molto agile, un testimone unico rende vulnerabile l’editore per mancanza di termini di confronto nel caso di varianti neutre e perciò inavvertitamente portato a considerarle lezioni autentiche. Si oppone la difficoltà di scelta in un proliferare di varianti ad opera di decine di testimoni e la tendenza allora ad eliminarne il maggior numero possibile, quasi puntando al codex unicus. Insomma il problema di fondo non cambia e verte sulla bontà delle lezioni, non sul numero dei testimoni: anche codex plurimi possono tendere lo stesso tranello dei codex plurimi offrendo compatti la stessa ingannevole variante. Per questa e per la precedente parte dedicata ai problemi ricostruttivi, miglior conclusione non si può trovare che citare un passo di Segre: “la ricostruzione di un testo ha limiti e gradi che di volta in volta si devono identificare, non essendo scopo dell’editore fornire un testo che plachi ogni preoccupazione di regolarità, di chiarezza, di leggibilità, ma un testo che, risultando da un calcolo esatto di possibilità e probabilità, espliciti questo calcolo per ogni ulteriore verifica o rettifica”. V – Filologia d'autore 1 Avvertenza Nei capitoli precedenti si è parlato del lavoro filologico volto a ricostruire nella sua integrità un originale perduto, eliminando le alterazioni subite da parte di copisti, tipografi, ecc.; in gran parte si trattava di testi d’età tardo medievale e moderna. Con filologia d’autore si designa invece l’insieme dei metodi e problemi relativi all’edizione di opere conservate da uno o più manoscritti autografi, o da stampe sorvegliate dall’autore e ci si sposta su testi prevalentemente moderni e contemporanei. 2 Il manoscritto moderno Varianti d’autore sopravvivono anche all’interno di pochi casi eccezionali e talvolta discutibili. Ben più frequentemente e sicuramente capita di trovarle quando si ha a che fare con originali. Ci sono scrittori moderni la cui opera è rimasta tutta o in parte manoscritta, oppure ci è giunto non solo il prodotto finito stampato ma anche una o più redazioni antecedenti, altre volte il dossier e ancora più ricco e comprende anche elenchi di personaggi, liste di parole, schemi, disegni, abbozzi, ecc. Altra abitudine diffusasi più o meno all’inizio dell’Ottocento è quella per cui molti scrittori, non fidandosi di mandare in tipografia il loro autografo, lo danno da trascrivere a copisti di professione, ma copiare vuol dire incorrere in errori e non solo nel medioevo, perciò queste conterranno e trasmetteranno lezioni diverse dall’autografo. Tutto ciò è caratteristico dell’età moderna e contemporanea: il manoscritto con l’invenzione della stampa ha cessato progressivamente di servire a diffondere la conoscenza di un’opera, a farla circolare tra le persone interessate a leggerla; esso però ha continuato a servire da supporto alla produzione del testo, accompagnandone la genesi. Questo fenomeno si ritrova massicciamente nell’età moderna e meno nei secoli precedenti probabilmente a causa delle numerose perdite e a un differente modo di procedere alla stesura che in precedenza poteva basarsi su un’elaborazione mentale più duratura senza bisogno di supporti scritti. Potenza e capienza della memoria erano infatti ben più grandi nei secoli passati e il loro lento declino dipende dalla facilità con cui si dispone di carta a basso prezzo. Paradossalmente proprio la stampa ha favorito l’inclinazione di certi scrittori a produrre stesure provvisorie. Quali che siano le cause determinanti comunque, il fenomeno tocca il suo apice nella nostra età e in quella di non molte altre generazioni precedenti: si è diffusa infatti l’abitudine di costruire un vero e proprio “archivio” privato contenente carteggi, documenti personali di carattere anagrafico, economico… e naturalmente anche tutte le carte prodotte e accumulate in vista della stesura di una poesia, di un romanzo o di un saggio. Alla morte dell’autore, magari per sua esplicita disposizione testamentaria, tale archivio finisce in una pubblica istituzione, di solito una Biblioteca. Negli ultimi due secoli non c’è quasi scrittore delle cui opere, anche se edite a stampa, non resti documentazione autografa (inclusa quella dattilografa): essa offre un punto di vista privilegiato per indagare, ponendosi all’interno del percorso creativo, il rapporto tra variabili individuali e costanti sociali nel modo di comporre. La massa superstite dei manoscritti moderni d’autore è enorme e in gran parte inesplorata essendo scarsi i censimenti e frequenti le difficoltà di accesso quando tali manoscritti sono conservati presso privati; ma è probabile che nel giro di pochi anni si arrivi a una crescita zero a causa del diffondersi di sistemi di scrittura su supporto magnetico. Fioriscono intanto iniziative che si concretizzano in veri e propri centri di ricerca specializzati. 2.1 Nel laboratorio dello scrittore L’esplorazione del laboratorio dell’opera letteraria è nata grazie all’affermarsi della nozione di autore e di proprietà letteraria e al risveglio della nazionalità, quindi dell’idea che anche scrittori moderni meritino grandi edizioni come gli antichi. In Italia la spinta eticopolitica si manifestò ovviamente in primis nella filologia dantesca e quindi promosse lo studio dei problemi editoriali afferenti la trasmissione dei testi medievali mediante copie manoscritte, tuttavia il dibattito sulla lingua del nuovo Stato unitario portò ad occuparsi dei Promessi Sposi anche come testo in movimento e quindi a produrre edizioni che dessero conto in modo efficace del passaggio dalla prima stampa alla seconda (1827, ventisettana, 1840, quarantana). 2.2 Ragioni della filologia d’autore Quando l’eccezione diventa quasi regola, quando la casistica diventa vasta e complessa allora si configura come il settore d’intervento tipico della “filologia d’autore”. Essa concentra la sua attenzione sul momento creativo e formula ipotesi, in base ai materiali conservati, sul rapporto tra autore e testo sia nella fase di gestazione, sia nella fase spesso tormentata che porta, dopo la prima pubblicazione, a rifacimenti più o meno numerosi e complessi. Si potrebbe sostenere che, in presenza di un testo a stampa, è meglio ignorare l’esistenza della relativa documentazione manoscritta di cui talvolta l’autore, non solo non ha dato pubblicità, ma ha pure espresso preoccupazione in merito all’eventualità che le sue carte fossero frugate da sguardi indiscreti (Marcel Proust). Ma seguendo questo eccesso di prudenza verso gli autori non avremmo, per esempio, alcuni capolavori assoluti di Kafka che lui aveva affidato all’amico Max Brod per essere distrutti. Si potrebbe anche sostenere che il ricorso agli autografi è lecito solo nel caso di opere tutte o in parte rimaste inedite, non quando l’autore è arrivato regolarmente alla pubblicazione a stampa, ma un criterio così schematico mal si applica a una realtà che è varia e complessa ed entra subito in crisi qualora si abbia a che fare con una stesura autografa posteriore e differente rispetto a quella stampata: sarebbe difficile sostenere la tesi che conviene ignorarne l’esistenza. Il timore d’essere indiscreti perciò non ha ragion d’essere, almeno in linea di massima, e sarebbe irrilevante di fronte al fatto che la conoscenza di come lavoravano alcuni scrittura ha aperto nuovi orizzonti all’indagine critica. Si porranno quindi, volta per volta, questioni di opportunità, ma non di principio. Opere la cui stampa non era prevista da ll’autore, o avrebbe comportato ritocchi anche sostanziali, devono essere presentate conservando lo stato fluido e non privo di contraddizioni che talvolta mostrano a vari livelli; ciò succede anche nelle Nel continuum della vicenda compositiva di un’opera, senza dubbio un momento discriminante è quello in cui essa viene stampata e diffusa ai lettori, perché così sfugge al controllo dell’autore che non può più modificarla con la tessa libertà di prima, tuttavia, studiosi italiani e tedeschi preferiscono una scansione basata sulla comparsa del testo in quanto tale, anche se manoscritto, anche se consistente in una prima stesura poi modificata. Di riflesso, tutti i materiali preparatori, fino agli abbozzi parziali compresi, sono certo da pubblicare pezzo per pezzo; ma arrivati a vere e proprie redazioni si procederà ad un’edizione critica, il che vuol dire: dato un unico manoscritto autografo costellato di cancellature, sostituzioni, spostamenti, si pubblica integralmente il testo risultante da tale processo correttorio e si segnalano a parte le varianti ricostruendo la trafila che dalla lezione originaria arriva a quella finale. Tale sistema procede con una prima fase elaborativa in cui si procede scrivendo di seguito una serie di segmenti finiti (frasi, versi, ecc…); in una seconda fase si rilegge quanto scritto e si modifica uno di quei segmenti introducendovi una o più varianti; in una terza fase lo si rilegge ancora e si apportano altre varianti e così via. Completata la stesura, si riprende in mano il manoscritto dopo un certo tempo e lo si trasforma profondamente, ritoccando in rapporto ad un diverso progetto anche gli stessi punti dove si era intervenuti la prima volta: così sopra il primo strato di varianti se ne stende un secondo. Una buona edizione critica non deve limitarsi però a registrare statisticamente il risultato terminale ma partendo da esso deve ricostruire il movimento che l’ha prodotto, cioè modi di lavorare simili a quelli appena descritti ma anche spesso più irregolari e complessi. 5.1 Tipi di varianti manoscritte Preliminare è distinguere tra varianti realizzate e varianti non realizzate (cioè annotate senza cancellare il corrispondente segmento): si riserva alle prime la qualifica di varianti senza ulteriore specificazione, alle seconde di varianti alternative. Tra le varianti (ma non tra le varianti alternative!) è possibile un ulteriore distinzione a seconda dei modi in cui vengono eseguite: aggiunta, sostituzione, permutazione, soppressione. Infine, guardando ai tempi di esecuzioni, le varianti, tutte, possono essere: immediate o tardive. Per quest’ultima distinzione, soccorre spesso l’indizio topografico cioè la posizione della variante altre volte si fa affidamento su elementi contestuali (come la concordanza grammaticale). [es. pag. 182] Bisogna quindi prestare attenzione al contesto per capire se una modifica è stata apportata subito oppure no: nel secondo caso è difficile andare oltre la constatazione della non immediatezza; è cioè impossibile precisare dopo quanto tempo lo scrittore sia tornato su ciò che aveva scritto e lo ha modificato. Tuttavia si può di solito fissare un termine ante quem: cioè circoscrivere l’arco di termine entro il quale è stata scritta la variante. Si noti che mancando prove indirette, desunte dal contesto, è inevitabile che vengano considerate tardive anche varianti immediate non identificabili come tali. La qualifica di immediata o tardiva dipende da un punto di vista estrinseco, mentre da un punto di vista intrinseco, la classificazione proposta è intersecata da quella in varianti sostanziali e formali. (l’interesse delle varianti formali dipende in larga misura dalla loro quantità e dalla loro regolarità) 5.2 Strati di varianti Strati di varianti si formano con il ritornare sullo stesso testo dell’autore che corregge, modifica, aggiunge, ecc. Poiché spesso non si arriva a stabilire con certezza la cronologia relativa tra le varianti, occorre almeno essere certi che esse facciano parte dello stesso insieme organico, cioè appartengono allo stesso strato. Spie di questo legame sono in linea di massima, sia caratteristiche materiali (colore dell’inchiostro, tipo di scrittura, posizione nella pagina, ecc.), sia la dipendenza da un medesimo progetto, da un medesimo momento creativo. Il convergere di indizi facilita il riconoscimento degli strati, che è operazione preliminare importantissima, perché serve a identificare eventuali campagne di correzione, cioè a scoprire rapporti semantici tra un gran numero di varianti e quindi a conoscere il programma che le ha ispirate e l’eventuale rapporto tra la loro immissione e fatti storici, vicende private… Talvolta ne va del buon esito del lavoro filologico poiché si rischia di attribuire a una data relazione varianti che non le appartengono, ma che in realtà sono state aggiunte successivamente. Anche quando è provata l’esistenza di uno strato sovrapposto a un altro, restano varianti di dubbia appartenenza che è buona norma distinguere sempre, con espliciti avvertimenti. 5.3 Fasi elaborative Per lo più si ha a che fare con un solo strato, al cui interno occorre stabilire quante e quali sono le fasi elaborative, tenendo presenti le varianti tardive, non ovviamente quelle immediate, che per loro natura intrinseca non danno luogo ad una fase ulteriore. Nel caso più semplice, se su un segmento testuale discreto (sintagma, frase, verso…) si deposita una sola variante, avremo una seconda fase elaborativa di questo segmento successiva alla prima che ha prodotto la lezione originaria. Se la variante viene poi cancellata e sostituita con un’altra, avremo un’ulteriore fase elaborativa, la terza, e così via. L’attribuzione di una variante a una fase rispetto ad un'altra risulta spesso dal posto che occupa sulla pagina; es: a una stratificazione dal basso verso l’alto nello spazio interlineare corrisponde una successione di fasi dalla più antica alla più recente. Non sempre però la topografia fornisce ausilio risolutivo, perché ci sono scrittori che producono configurazione difficilmente interpretabili in modo univoco. Inoltre occorre di volta in volta decidere se presentare insieme a ciascuna variante il contesto cui essa si riferisce e la sua misura. Spesso una fase elaborativa è caratterizzata da più varianti sincrone, cioè introdotte insieme in punti diversi dello stesso segmento unitario. Rivelatrici di tale sincronia compositiva sono sia caratteristiche materiali, sia implicazioni semantiche, logiche, grammaticali. A seconda che si accerti o no una sincronia compositiva, cambia dunque il numero delle fasi: se il segmento XYZA è stato trasformato in BYCA con due modifiche (X>B e Z>C) avvenute in tempi diversi abbiamo una seconda fase BYZA oppure XYCA e poi una terza BYCA; qualora invece le modifiche siano sincrone esse rientrano in una stessa fase e poiché a XYZA segue d’un colpo BYCA abbiamo due fasi soltanto. Le decisioni in merito alla presenza/assenza di sincronia sono dunque importanti, ma spesso difficili, perché lo stato dell’autografo autorizza a formulare ipotesi alternative senza che si trovino prove dirimenti nei casi dubbi. Si possono immaginare molte fasi intermedie che portano a quella finale, basta combinare in vari modi le varianti quindi dal punto di vista editoriale di fronte a casi dubbi conviene limitarsi al certo, suddividere il segmento nelle sue componenti e presentare le fasi evolutive di ciascuna senza pronunciarsi sulle sincronie compositive, ciò infatti non escluderebbe la loro presenza. 5.4 Rappresentazione in colonna Una rappresentazione consistente nell’incolonnare sulla pagina le fasi attraverso le quali è passato un certo verso, dalla più antica alla più recente che si assume come testo di riferimento. Si realizza bene soprattutto nel caso di opere poetiche perché il verso tradizionale non va oltre la misura d’una riga e quindi consente l’incolonnamento delle relative varianti in ciascuna delle righe successive. Di solito a ogni transizione corrisponde almeno una variante incastonata in un contesto invariante che non è necessario ripetere, mostrando immediatamente i mutamenti che si sono verificati. Data la sequenza XAB iniziale e XYZ finale, si ha: Simile è la rappresentazione lineare, adatta quando l’autore non prosegue la stesura d’un segmento testuale fino alla sua naturale conclusione, ma si ferma, corregge, va avanti, si ferma, corregge, ecc. Il testo cresce sull’asse orizzontale, cambia su quello verticale, quindi ogni nuovo gradino abolisce quello precedente: [vedi pag. 188] 1 S 2 XY (a) C (b) Z (a1) K (b1) Ø Questo sistema ha scarso campo d’applicazione poiché le varianti immediate sono difficili da identificare. 5.5 Rappresentazione lineare Essa può essere integrale (continua) o parziale (discontinua) secondo il modello testo- apparato presto a prestito dall’edizione critica. Un edizione cos’ condotta viene detta in Italia, di solito, “edizione critica” senza ulteriori specificazioni, o meglio come ha proposto G. Tavani, “edizione critico-genetica”. Nel caso di un manoscritto costellato di correzioni, la rappresentazione lineare integrale è in sostanza un’edizione diplomatica: consiste nel collocare le varianti sulla stessa riga insieme al loro contesto invariante, segnalandone le caratteristiche attraverso segni diacritici e magari con qualche nota a piè di pagina. Questa soluzione è compatta, per cui l’utente acquisisce varie informazioni senza spostare gli occhi dalla riga, purché non venga distratto dal numero di interruzioni e dalla difficoltà di districarsi tra i molti segni diacritici. Più diffuso è il modello testo-apparato: nella pagina in alto è collocata una porzione di testo di riferimento e in basso vengono isolate le relative varianti. Si segnala: - il punto cui ciascuna variante si riferisce premettendo la citazione completa della fase finale delimitata a destra da una parentesi quadra chiusa; seguono le varianti distinte e numerate in base alle fasi elaborative: YZ] 1AB 2YB 3YZ. - oppure, il punto del testo cui rapportare la variante è segnalato da una parola iniziale di riappicco (nella fattispecie X): 1XAB 2XYB 3XYZ. X A B Y Z C) Manzoni: «Fermo e Lucia» Manzoni rivolse la sua attenzione al genere romanzesco probabilmente a seguito degli stimolanti colloqui avuti con Claude Fauriel a Parigi nel 1820; importante fu poi tornato a Milano la lettura dell’Ivanhoe di Walter Scott. Il 24 Aprile 1821 comincia la stesura del romanzo, scrivendo proprio tale data sulla pagina iniziale; finirà il 17 settembre 1823, come si legge in fondo all’ultima carta. Il manoscritto non ha un titolo ma in un biglietto di Visconti a Cattaneo del 1822 ad esso si allude come “Romanzo di Fermo e Lucia”. Il manoscritto del Fermo e Lucia è composto da fogli interi formato protocollo, in successione, scritti sulla colonna di destra sul recto e sul verso. In alto a sinistra la numerazione progressiva per foglio ricomincia per ciascuno dei quattro tomi previsti da Manzoni su modello di W. Scott e così distinti: nessun segno per il primo, l’aggiunta del numero 2 alla numerazione dei singoli fogli del secondo, aggiunta di tre punti per il terzo e di quattro punti per il quarto. A parte alcuni fogli perduti, l’aspetto originario del manoscritto così come apparve ai primi lettori non è conservato integralmente; Manzoni infatti si dedicò ben presto ad una radicale revisione e correzione per la quale spesso non bastava la colonna lasciata libera a sinistra. Più gravi sono le conseguenze di un altro fatto: l’autore passando nella primavera del 1824 ad una seconda minuta in parte utilizzò fogli del tomo I della prima minuta, in parte ricopiò e sostituì quelli mal ridotti, in parte riscrisse ex novo. Il risultato è dunque una complessa stratificazione che occorre riconoscere soprattutto per ricostruire la parte della prima minuta corrispondente al tomo I; poi le cose vanno meglio perché si riduce e scompare lo spostamento dei fogli. (Il primo riordino fu fatto ad inizio 900 da Giovanni Sforza e, tutt’oggi, l’edizione più attendibile è quella di A. Chiari e F. Ghisalberti). Da allora gli studi sono proseguiti e hanno avuto nuovo impulso per opera di Dante Isella il quale ha già dato notizia di importanti novità intervenute. Intanto si è proceduto al distacco di alcuni cartigli che Manzoni appiccicò sui fogli della prima stesura quando non c’era più spazio sotto per scrivere; è stato quindi possibile leggere porzioni del testo sottostante fino ad ora occultate. È cambiata inoltre la prospettiva generale perché sono stati avanzati dubbi sulla possibilità di dare al Fermo e Lucia “lo statuto di un testo oggettivamente certo”. Isella suggerì che fosse evidente il fatto che in rapporto alla struttura narrativa nettamente diversa, il Fermo e Lucia è perfettamente riconoscibile come un’idea di romanzo autonomo rispetto ai Promessi Sposi. Il testo del Fermo e Lucia, perché in più punti simile piuttosto ad un’ipotesi di lavoro che a un oggetti dai contorni compiutamente definiti, può e deve sussistere soltanto in stretta connessione con il suo apparato genetico, che dia conto in modo esaustivo del formarsi della lezione messa ad esponente; e quando sia necessario, con un secondo apparato di tipo evolutivo, che evidenzi quelle varianti che pur impiantandosi sulla prima redazione costituiscono un passaggio verso la seconda. D) Manzoni: «I Promessi Sposi» La prima edizione fu pubblicata nel 1827 a Milano in tre tomi, senza illustrazioni e ciascuno con propria paginazione, dallo stesso editore-libraio Vincenzo Ferrario, il quale aveva già stampato Il Conte di Carmagnola e l’Adelchi. Si possono considerare ormai sostanzialmente risolti certi problemi relativi al testo definitivo che Manzoni pubblicò tra il novembre del 1840 e il novembre del 1842, realizzando così un progetto concepito all’indomani della ventisettana: infatti dall’estate del 1827 fino a tutto il 1828 egli pensò a una revisione linguistica che eliminasse quanto era lontano dall’uso vivo della Toscana (arcaismi letterari, francesismi, lombardismi, latinismi…). È fuor di dubbio che la quarantana doveva sostituire il precedente, tanto è vero che di fronte a persistenti ristampe abusive di quest’ultima, Manzoni avviò un’azione legale lunga e complessa e si cimentò a trattare di diritto d’autore e di proprietà letteraria nella Lettere di A. Manzoni al Sig. Prof. Gerolamo Boccardo intorno a una questione di così detta proprietà letteraria. Fare una moderna edizione del solo testo definitivo dei Promessi Sposi sarebbe dunque semplice, trattandosi di ristampare in modo fedele la quarantana. Succede però che vari esemplari di quell’edizione originale non sono identici, ma differiscono in modo incoerente quanto ad ortografia, punteggiatura e anche qualche scelta lessicale, per esempio si passa da in faccia a in viso, o da infatti a in fatti, o ancora anche lui diventa anche Ferrer. Manzoni dunque intervenne facendo modificare la composizione dei piombi nel corso della stampa e perciò dai torchi uscirono fogli conformi al suo ultimo ripensamento accanto a fogli corrispondenti a una fase anteriore. I fogli accostati e poi rilegati in modo casuale hanno poi prodotto combinazioni di vecchio e nuovo di fronte alle quali occorre risolversi poiché una e soltanto una può essere la lezione definitiva. Soccorre fortunatamente il cosiddetto “Tesoro manzoniano” della Biblioteca Naz. Braidense di Milano dove sono conservate bozze, prove di torchio e fogli di stampa già tirati e ancora ritoccati dall’incontentabile autore: è dunque possibile mettere ordine tra le varianti e riconoscere quelle che costituiscono l’ultima e definitiva volontà dell’autore. E) Leopardi: «A Silvia» Leopardi pubblicò nel 1835 i Canti (in numero di 39, mancando Il tramonto della luna e La ginestra) a Napoli presso Saverio Starita, un volume in sedicesimo piccoli di 188 pagine (sigla N), che avrebbe dovuto essere il primo delle Opere, subito bloccato dalla censura. Proprio per questo motivo di quel volume si sono salvati pochi esemplari tra i quali però importa la copia personale conservata nella B.N. di Napoli, sulla quale Leopardi in vista di una nuova mai realizzata edizione presso il librario parigino Baudry, di sua mano trasferì le correzioni dell’errata-corrige e ne aggiunse una settantina, mentre una decina ne dettò al Ranieri. Questo prezioso cimelio, la cosiddetta “Napoletana corretta” (sigla Nc) rappresenta dunque per 39 canti l’ultima volontà del poeta. Di molti canti si conservano anche autografi che documentano vari stadi del lavoro compositivo: il più arcaico è dato da appunti marginali spesso tra parentesi che registrano varianti di stesure anteriori a quella trascritta in pulito nella stessa pagina e a sua volta oggetto di cancellazioni e correzioni. Spicca fra tutti l’autografo di A Silvia. Il testo sulla colonna esterna (a destra) sembra non una prima stesura ma la copia in pulito dell’elaborazione, non terminale, come mostra al v.1 Silvia, sovvienti dove si passerò poi a rammenti e infine a rimembri. F) Leopardi: «Operette morali» Si tratta dell’opera leopardiana più bersagliata dalla censura: di qui come problema filologico centrale il fatto che il testo definitivo non coincide con nessuna delle edizioni pubblicate vivente l’autore, ma deve essere ricostruito in modo diversificato. Al periodo 1819-20 risalgono le prime manifestazioni di interessi che porteranno alle Operette, e in particolare un “disegno letterario” dove si progettano “Dialoghi Satirici alla maniera di Luciano, ma tolti i personaggi e il ridicolo dai costumi presenti e moderni, e non tanto tra i morti quanto tra i personaggi che si fingono vivi, ed anche volendo fra animali, insomma piccole commedie o Scene di Commedie”. Nello Zibaldone in data 1821 si legge “Nei miei dialoghi cercherò di portare la commedia a quello che finora è stato proprio della tragedia, cioè i vizi dei grandi, i principi fondamentali delle calamità e della misera umana, gli assurdi della politica, le sconvenienze appartenenti alla morale universale e alla filosofia, l’andamento e lo spirito generale del secolo.” Tra il 1820 ed il 1822 si collocano alcuni bozzetti di Operette come il Dialogo di due bestie p. e. un cavallo e un toro volto a saggiare la possibilità di usare personaggi del mondo animale per deridere la presunzione dell’uomo. Un vuoto di documentazione caratterizza il periodo 1822-24 intercorrente tra gli abbozzi conservati e la prima raccolta, formata da venti operette, secondo l’autografo di 276 pagine conservato nella B.N di Napoli, siglato A. Anche se niente è rimasto, è certo tuttavia che in quegli anni il lavoro preparatorio continuò dando luogo ad altri abbozzi e stesure cui Leopardi attinse, dato che A è una copia in pulito stesa molto rapidamente, quasi senza interruzione, il che non esclude che vi si trovino correzioni o aggiunte. Del libro vi fu una prima edizione milanese (sigla M), ed esaurita questa Leopardi si rivolse per farne una ristampa al libraio-editore fiorentino Piatti che la pubblicò nel 1834 (sigla F) ritoccata dall’autore e aumentata alla fine del Dialogo di un venditore d’almanacchi e di un passeggere e del Dialogo di Tristano e un amico. La vicenda editoriale delle Operette si conclude, vivente l’autore, con l’edizione napoletana dello Starita: nel gennaio del 36 esce il primo (N, con 13 testi) dei due previsti volumi, mentre il secondo è bloccato dalla censura; resta una bozza impaginata (Nbc) del Copernico. Alla fine del 1836 Leopardi inizia una trattativa con Sinner per pubblicare all’estero le Operette e comincia ad allestirne il testo per la tipografia a partire dalle due stampe disponibili, la fiorentina e la napoletana. La copia personale di quest’ultima con correzioni autografe (Nc) fornisce per le prime 13 il testo definitivo, per le altre si fa ricorso alla stampa precedente del 34 e più precisamente all’esemplare con correzioni di mano del Ranieri, certamente volute da Leopardi.