Scarica Riassunto Unione Europea e più Dispense in PDF di Diritto dell'Unione Europea solo su Docsity! DIRITTO DELL’UNIONE EUROPEA CAPITOLO 1 – I TRATTATI ISTITUTIVI E GLI SVILUPPI DELL’INTEGRAZIONE EUROPEA Il 9 maggio 1950 il ministro degli esteri francese, Robert Schuman, proponeva di mettere l’intera produzione francese e tedesca del carbone e dell’acciaio sotto una comune Alta Autorità nel quadro di un’organizzazione alla quale potevano aderire gli altri Paesi europei. Con la costruzione dell’unione carbosiderurgica si intendeva cedere un frammento di sovranità di ciascuno degli Stati membri ad un organismo sovranazionale (unione internazionale di Stati dotata di organi propri che si pone “sopra gli Stati”), che avrebbe gestito in modo autonomo la politica comune nel settore. La favorevole accoglienza alla proposta Schuman che aveva nel frattempo ricevuto l’adesione da parte dell’Italia, del Belgio, dei Paesi Bassi e del Lussemburgo, portò alla firma del TRATTATO DI PARIGI il 18 aprile 1951 (entrato in vigore il 23 luglio 1952), con il quale fu creata la CECA (Comunità economica del carbone e dell’acciaio). Firmato per un periodo di 50 anni, il 23 luglio 2002 il Trattato CECA è pervenuto a scadenza e tutte le attività e passività residuate al 23 luglio 2002 sono state trasferite alla Comunità Europea, oggi Unione Europea. La positiva esperienza della CECA indusse i governi degli Stati aderenti a promuovere nuove e più ampie forme di integrazione. Un primo progetto in tal senso fu la firma del Trattato istitutivo della Comunità europea di difesa (CED) il 27 maggio 1952 che si proponeva di creare una struttura militare comune in Europa ma la mancata ratifica da parte del Parlamento francese bloccò definitivamente il progetto. Il fallimento del progetto CED non interruppe, comunque, il cammino dell’integrazione europea, infatti, nell’incontro tenutosi a Messina il 1° giugno 1955 i ministri degli esteri dei Paesi CECA delinearono le tappe per la costituzione dell’EURATOM (Comunità europea dell’energia atomica) e della CEE (Comunità economica europea). I due testi furono ufficialmente firmati a Roma il 25 marzo 1957 e le due organizzazioni poterono cominciare a lavorare a partire dal 1° gennaio 1958. Mentre il Trattato CECA prevedeva l’instaurazione di un’area di libero scambio limitatamente al settore carbo-siderurgico (che comportava l’abolizione dei dazi doganali interni e la soppressione di qualunque limite all’importazione e all’esportazione di carbone e di acciaio tra gli Stati membri), i Trattati CEE ed EURATOM gettavano le basi per la creazione di un’unione doganale, ossia di un’area economica in cui vigono: - il divieto di applicare dazi; - una tariffa doganale comune. L’unione doganale fu realizzata il 1°luglio 1968 con l’introduzione di una TDC (tariffa doganale comune); da allora tutti gli sforzi dei paesi membri sono stati indirizzati al conseguimento di un’unione economica, ossia uno spazio interno caratterizzato dalla libera circolazione di merci, servizi, persone e capitali e da politiche economiche comuni. Nel 1968 gli Stati membri avevano realizzato l’unione doganale ma non avevano completamente liberalizzato la circolazione di merci, servizi, persone e capitali da uno Stato all’altro. Alla nuova Europa restavano ancora da eliminare molte barriere fisiche, tecniche e fiscali; fu proprio per eliminare tali ostacoli che nel giugno 1985 fu presentato a Milano il famoso “Libro bianco sul completamento del mercato interno” con il quale si individuavano tutte le azioni da realizzare per completare, entro il 31 dicembre 1992, uno spazio senza frontiere interne nel quale fosse assicurata l’effettiva libera circolazione di merci, servizi, persone e capitali. Le indicazioni contenute nel Libro bianco furono richiamate nell’ATTO UNICO EUROPEO, firmato il 28 febbraio 1986 ed entrato in vigore il 1° luglio 1987. Negli anni successivi fu avviato un intenso lavoro di armonizzazione in tutti i settori che consentì di far partire dal 1° gennaio 1993 il mercato unico. Il 7 febbraio 1992 fu firmato il TRATTATO SULL’UNIONE EUROPEA (meglio noto come TRATTATO DI MAASTRICHT), in vigore dal 1° novembre 1993. Con questo Trattato veniva creata l’Unione Europea, un’organizzazione anomala che da un lato inglobava le Comunità Europee già esistenti e dall’altro avviava la cooperazione tra gli Stati membri anche in settori non strettamente economici, come la politica estera comune, la politica di difesa europea, la cooperazione tra le forze di polizia e le autorità giudiziarie. Nasceva in tal modo un’organizzazione la cui struttura viene illustrata attraverso la figura del tempio retto da 3 pilastri: - I PILASTRO: dimensione comunitaria disciplinata dalla disposizioni contenute nei trattati istitutivi delle Comunità europee; - II PILASTRO: politica estera e di sicurezza comune (PESC); - III PILASTRO: cooperazione giudiziaria e di polizia in materia penale. L’Atto unico europeo del 1986 aveva gettato le basi per una cooperazione in materia di politica economica e monetaria, trasposta anche nel Trattato CEE all’art. 102, che prevedeva la realizzazione di una vera e propria “Unione economica e monetaria” (UEM). Le tappe di tale processo sono state individuate dal Rapporto Delors che ha scandito il processo di integrazione monetaria in tre fasi successive: - durante la prima fase (1° luglio 1990 – 31 dicembre 1993) è stato completamente liberalizzato il movimento dei capitali e si è raggiunta una maggiore convergenza economica tra gli Stati membri. Con l’entrata in vigore del Trattato di Maastricht l’UEM è stata concretamente realizzata e il suo obiettivo di introdurre una moneta unica è stato inserito all’art. 2 del TUE; - nel corso della seconda fase (1° gennaio 1994 – 31 dicembre 1998), gli Stati membri si sono impegnati a far convergere le proprie economie attraverso il rispetto di 4 criteri, detti criteri di convergenza (stabilità dei prezzi, finanze pubbliche, tassi di interesse e moneta) ed è stato istituito l’IME (Istituto Monetario Europeo) con funzioni di coordinamento tra le varie politiche monetarie; - la terza fase (iniziata il 1° gennaio 1999) ha previsto la fissazione di tassi di cambio irrevocabili fra l’euro, entrato in circolazione dal 1° gennaio 2002, e le valute nazionali dei paesi aderenti alla moneta unica. Il TUE è stato sottoposto a successive modifiche e integrazioni che già il 2 ottobre 1997 hanno condotto al firma del TRATTATO DI AMSTERDAM, in vigore dal 1° maggio 1999. La più importante novità introdotta dal Trattato è consistita nell’impegno assunto per la promozione di un più alto livello occupazionale, da attuare mediante un coordinamento tra gli Stati membri a livello europeo; si è modificato l’assetto istituzionale aumentando i poteri del Parlamento europeo, snellendo il processo di adozione degli atti comunitari e rafforzando i poteri del Presidente della Commissione. Altre modifiche rilevanti hanno investito il terzo pilastro, con la comunitarizzazione di alcune materie trattate in precedenza secondo il metodo intergovernativo (rilascio di visti, concessione d’asilo, immigrazione, cooperazione giudiziaria in materia civile etc.). di rivolgersi al Mediatore europeo nei casi di cattiva amministrazione da parte di tali soggetti e il diritto di presentare petizioni al Parlamento europeo. La prima parte dell’art. 49 TUE, è riservata alla procedura di richiesta di adesione nell’ambito del quadro istituzionale e prevede che ogni Stato europeo, che rispetti i valori di cui all’art. 2 TUE e si impegni a promuoverli può domandare di diventare membro dell’Unione. Per aderire all’Unione occorre stipulare un accordo internazionale tra gli Stati già membri del Trattato originario e i nuovi Stati, accordo che deve essere poi sottoposto alla ratifica da parte di tutti i soggetti che vi hanno partecipato. La seconda parte dell’art. 49 TUE codifica quei criteri di ammissibilità che furono stabiliti nel corso del Consiglio europeo di Copenaghen del 21 e 22 giugno 1993 (i cd. criteri di Copenaghen). Si tratta di criteri politici, giuridici ed economici: - stabilità politica e rispetto dei principi di democrazia; tutela delle regole di uno Stato di diritto e dei diritti dell’uomo e delle minoranze; - instaurazione e consolidamento di un’economia di mercato; - capacità di assumere gli impegni connessi all’adesione, compresa l’accettazione degli obiettivi dell’Unione, delle norme dei Trattati, del diritto derivato, e più in generale, all’acquis dell’Unione. L’art. 50 TUE attribuisce ad ogni Stato la facoltà di decidere di recedere dall’Unione. La procedura di recesso prevede che lo Stato membro recedente debba notificare tale intenzione al Consiglio europeo, che formula gli orientamenti in base ai quali l’Unione negozia e conclude con tale Stato un accordo volto a definire le modalità del recesso. L’accordo di recesso viene negoziato in conformità con quanto stabilito dall’art. 218, par. 3, TFUE ed è concluso, a nome dell’Unione, dal Consiglio, che delibera a maggioranza qualificata previa approvazione del Parlamento europeo. CAPITOLO 3 – LE ISTITUZIONI DELL’UNIONE La delimitazione delle competenze dell’Unione si fonda sul principio di attribuzione, in virtù del quale l’Unione agisce esclusivamente nei limiti delle competenze che le sono attribuite dagli Stati membri nei trattati per realizzare gli obiettivi da questi stabiliti (art. 5, par. 2 TUE). Pertanto l’UE può operare solo in quei settori esplicitamente contemplati dai trattati e solo per il raggiungimento delle finalità in essi previste. Tale delimitazione, con la riforma del Trattato di Lisbona, diventa più chiara e precisa. In particolare gli artt. da 2 a 6 del TFUE prevedono: - competenze esclusive: solo l’Unione può legiferare e adottare atti giuridicamente vincolanti; - competenze concorrenti: sia l’Unione che gli Stati membri possono adottare atti giuridicamente vincolanti; - azioni di sostegno, coordinamento o completamento: intraprese dall’Unione per completare l’azione degli Stati membri. L’esercizio delle competenze è sottoposto a due principi: - sussidiarietà, in virtù del quale l’Unione, nei settori che non rientrano nella sua competenza esclusiva, interviene solo se gli obiettivi dell’intervento previsto non possono essere sufficientemente raggiunti dagli Stati membri; - proporzionalità, per il quale la forma e il contenuto dell’intervento dell’Unione devono essere limitati a quanto necessario per il raggiungimento degli obiettivi stabiliti dai trattati. Con il Trattato di Lisbona il ruolo dei Parlamenti nazionali viene rafforzato. La novità di rilievo riguarda l’istituzionalizzazione della loro partecipazione all’attività dell’UE. Tale partecipazione avviene nel modo seguente: - i Parlamenti nazionali sono informati dalle istituzioni e ricevono i progetti di atti legislativi; - vigilano sul rispetto del principio di sussidiarietà; - partecipano ai meccanismi di valutazione nell’attuazione delle politiche dell’Unione; - partecipano alle procedure di revisione dei trattati; - sono informati delle domande di adesione all’UE; - partecipano alla cooperazione interparlamentare; L’art. 1 e l’art. 10 del TUE affermano che le decisioni dell’Unione devono essere prese nel modo più trasparente possibile e il più vicino possibile ai cittadini. In maniera ancora più esplicita, l’art. 15, par. 1 TFUE prevede che al fine di promuovere il buon governo e garantire la partecipazione della società civile, le istituzioni, gli organi e gli organismi dell’Unione operano nel modo più trasparente possibile. In attuazione dell’art. 255 (ora 15 TFUE) è stato adottato il regolamento CE n. 1049/2001 del 30 maggio 2001, relativo all’accesso del pubblico ai documenti del Parlamento europeo, del Consiglio e della Commissione: esso stabilisce che qualsiasi cittadino dell’Unione e qualsiasi persona fisica o giuridica che risieda o abbia la sede sociale in uno Stato membro ha il diritto ad accedere ai documenti delle istituzioni. Tale diritto non è però privo di limitazioni. L’art 4 del regolamento prevede, infatti, che un’istituzione può negare l’accesso ai documenti da essa stessa prodotti quando la loro divulgazione rischi di compromettere: - l’interesse pubblico; - la vita privata e l’integrità dell’individuo; - gli interessi commerciali di una persona fisica o giuridica. Una delle novità significative apportate dal Trattato di Lisbona è quella di permettere ai cittadini una partecipazione più ampia al processo decisionale. In base alla cd. iniziativa popolare (art. 11 TUE) i cittadini dell’Unione, in numero di almeno un milione, che abbiano la cittadinanza di un numero significativo di Stati membri, possono invitare la Commissione europea a presentare una proposta appropriata su materie in merito alle quali tali cittadini ritengono necessario un atto giuridico ai fini dell’attuazione dei trattati. Le procedure e le condizioni necessarie per la presentazione di un’iniziativa dei cittadini sono stabilite con regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio mediante la procedura legislativa ordinaria. CAPITOLO 4 – IL PARLAMENTO EUROPEO Il Parlamento europeo costituisce la più democratica tra le istituzioni dell’Unione, essendo composto da rappresentanti dei cittadini. Secondo l’art. 14 TUE il numero dei seggi del Parlamento non può essere superiore a 750, più il presidente. La rappresentanza dei cittadini è garantita in modo degressivamente proporzionale (assegnando agli Stati meno popolosi un numero di deputati proporzionalmente più alto di quello degli Stati più grandi), con una soglia minima di 6 rappresentanti per Stato membro. A nessuno Stato sono assegnati più di 96 seggi. Spetta al Consiglio europeo adottare all’unanimità, su iniziativa del Parlamento europeo e con l’approvazione di quest’ultimo, una decisione che stabilisce la composizione del Parlamento stesso. A partire dal giugno 1979, sulla base della decisione del Consiglio 76/787 del 20 settembre 1976, i membri del P.E. vengono eletti in ogni Stato membro tramite suffragio universale diretto, per un periodo di 5 anni; essi non possono essere vincolati da istruzioni né sottostare a mandato imperativo. Con la decisione del Consiglio del 25 giugno e del 23 settembre 2002 sono state apportate due sostanziali modifiche all’atto relativo alle elezioni dei rappresentanti del P.E.: - l’obbligo di adozione del sistema elettorale proporzionale; - l’incompatibilità tra la carica di parlamentare europeo con quella di parlamentare nazionale. La decisione del Consiglio del 20 settembre 1976 ha regolato anche il periodo di svolgimento delle elezioni del P.E.; esse si tengono alla scadenza del mandato del P.E. quasi contemporaneamente in tutti gli Stati membri in un giorno scelto da ciascuno Stato. L’attività del P.E. è disciplinata dal suo regolamento interno. Secondo quanto stabilito dall’art. 145 di tale regolamento interno, lo svolgimento dei lavori del P.E. si articola in: - legislature, vale a dire i periodi di durata effettiva del mandato dei parlamenti europei (5 anni); - sessioni, che hanno durata annuale; - tornate, che consistono nelle singole riunioni del Parlamento e di norma si tengono ogni mese; - giorni di seduta, ovvero le riunioni quotidiane dell’istituzione. Un’altra riunione di diritto è quella prevista dopo la sua elezione. La maggior parte dei lavori parlamentari viene svolta all’interno di singole Commissioni specializzate, suddivise a loro volta in sottocommissioni. Gli organi del P.E. sono 5: l’ufficio di presidenza, la conferenza dei presidenti, la conferenza dei questori, la conferenza dei presidenti di commissione e la conferenza dei presidenti di delegazione. L’ufficio di presidenza è composto, oltre che dal Presidente, da 14 vicepresidenti e 5 questori, in carica per due anni e mezzo. Questi ultimi svolgono funzioni consultive e sono incaricati di compiti amministrativi e finanziari riguardanti direttamente i deputati. Il ruolo del Presidente è essenziale per lo svolgimento dei lavori dell’ufficio di presidenza; le sue principali funzioni sono di protocollo, di rappresentanza e di direzione dei dibattiti parlamentari. Per quanto riguarda le procedure di voto, le deliberazioni del P.E. sono adottate a maggioranza assoluta dei suffragi espressi (art. 231 TFUE): le astensioni, quindi, non entrano nel computo dei voti. Il regolamento interno prevede anche diverse modalità di votazione: per alzata di mano, appello nominale, scrutinio segreto ed elettronica. Il quorum per la validità delle sedute è di un terzo dei membri. La funzione legislativa è condivisa con il Consiglio nel procedimento di adozione degli atti dell’Unione. Tale funzione si esplica attraverso la procedura legislativa ordinaria nell’ambito della quale Parlamento e Consiglio sono posti sullo stesso piano, o attraverso la procedura legislativa speciale che prevede l’adozione dell’atto da parte del Consiglio con la mera partecipazione del Parlamento e di altri organi e viceversa. La funzione di bilancio si estrinseca sia attraverso l’approvazione del quadro finanziario che attraverso la decisione del Parlamento e del Consiglio relativa alle spese da iscriversi nel bilancio dell’Unione. La funzione consultiva si esplica in tutti gli altri casi in cui si attiva la procedura legislativa speciale, quando al P.E. è conferito il potere di approvare o meno una decisione del Consiglio. CAPITOLO 6 – IL CONSIGLIO Il Consiglio dell’UE, oggi denominato semplicemente Consiglio, è un’istituzione dell’Unione, e come tale viene definito all’art. 13 TUE. Ai sensi del successivo art. 16, par. 1 ad esso vengono attribuite la funzione legislativa e quella di bilancio, da esercitare congiuntamente al P.E., nonché funzioni di definizione delle politiche e di coordinamento alle condizioni stabilite dai trattati. Rispetto alla Commissione e al P.E., il Consiglio si caratterizza come istituzione composta da Stati: titolare del seggio è, infatti, lo Stato membro dell’Unione, che designa il proprio rappresentante scegliendolo tra i componenti del proprio governo nazionale. Il Consiglio è composto da un membro per ogni Stato che fa parte dell’Unione. I rappresentanti statali inviati non devono necessariamente rivestire la qualifica di ministri ma è essenziale che siano abilitati ad impegnare il proprio governo. Normalmente siede in Consiglio il ministro nazionale designato in relazione all’oggetto delle questioni all’ordine del giorno. Il Consiglio si riunisce su convocazione del suo Presidente per iniziativa dei suoi membri, di uno solo di questi o della Commissione. L’art. 16 par. 9 TUE dispone che la Presidenza delle formazioni del Consiglio, ad eccezione della formazione affari esteri, è demandata a una decisione del Consiglio europeo, adottata a maggioranza qualificata, ed è esercitata secondo un sistema di rotazione paritaria. La Presidenza è esercitata da un gruppo predeterminato di tre Stati, per un periodo di 18 mesi. All’interno del gruppo, ciascun membro esercita a turno la presidenza di tutte le formazioni del Consiglio, per un periodo di 6 mesi. Il paese che a turno presiede il Consiglio: - rappresenta il Consiglio in tutte le sedi in cui ciò sia necessario; - convoca il Consiglio o di propria iniziativa o su formale richiesta da parte di un altro Stato membro o della Commissione; - risponde alle interrogazioni del P.E. per conto del Consiglio; - cura le relazioni internazionali dell’Unione. Ai sensi dell’art. 16 TUE il Consiglio esercita congiuntamente al P.E. la funzione legislativa e di bilancio. Vi sono altre funzioni che il Consiglio esercita: approva il bilancio insieme al P.E.; definisce e coordina le politiche economiche generali e sociali degli Stati membri; esercita funzioni esecutive in materia di politica estera; adotta atti di natura non vincolante di indirizzo politico generale. Nell’esercizio delle sue funzioni, il Consiglio è assistito da un Segretariato generale posto sotto la responsabilità del Segretario generale e la cui organizzazione interna è decisa dal Consiglio a maggioranza semplice. Sempre a maggioranza semplice il Consiglio decide in merito alle questioni procedurali e all’adozione del suo regolamento interno. L’accrescersi nel tempo della mole di lavoro nell’ambito dell’UE, insieme all’esigenza di un più costante contatto tra Consiglio e Commissione, ha fatto sì che con il TRATTATO DI FUSIONE DEGLI ESECUTIVI del 1965 fosse formalizzato a livello giuridico un Comitato dei rappresentanti permanenti degli Stati membri (COREPER), costituito dalle rappresentanze degli Stati membri accreditate presso l’Unione; la disciplina essenziale di tale organismo è contenuta nell’art. 240 par. 1 TFUE. Tale Comitato è responsabile della preparazione del lavoro del Consiglio e dell’esecuzione dei compiti che il Consiglio gli assegna. Il COREPER si riunisce a due livelli: - COREPER I (affari correnti, di procedura o tecnici); - COREPER II (affari di rilievo politico e relazioni esterne). Per ciò che riguarda le funzioni del COREPER abbiamo: coordinamento dei gruppi di lavoro formati da esperti dei governi nazionali; predisposizione dell’ordine del giorno delle riunioni del Consiglio; organizzazione di comitati permanenti per problemi specifici; adozione di decisioni di procedura. Le votazioni in seno al Consiglio si differenziano a seconda delle materie in discussione. È possibile enucleare tre distinti sistemi di votazione: - a maggioranza qualificata; - all’unanimità; - a maggioranza semplice. Si ha votazione a maggioranza qualificata, allorché è necessario un certo numero di voti per l’adozione di un atto. La votazione all’unanimità, che i passato costituiva la regola per le deliberazioni del Consiglio, è stata ridimensionata in seguito alle modifiche introdotte dagli ultimi trattati e di recente dal Trattato di Lisbona. Tale procedura è ancora prevista per alcune materie quali ad esempio la PESC e la politica fiscale, in materia di cittadinanza europea e in materia di politica sociale. Il par. 4 dell’art. 238 TFUE stabilisce che “le astensioni dei membri presenti o rappresentati non ostano all’adozione delle deliberazioni del Consiglio per le quali è richiesta l’unanimità. Ai sensi dell’art. 238, par. 1 del TFUE per le deliberazioni per le quali è richiesta la maggioranza semplice il Consiglio delibera a maggioranza dei membri che lo compongono. CAPITOLO 7 – LA COMMISSIONE La Commissione europea è il motore della politica dell’Unione, in quanto dotata, in via esclusiva, della funzione di iniziativa legislativa, ed è custode dei trattati, poiché vigila sul rispetto e l’applicazione tanto delle loro norme, quanto della legislazione derivata. In generale è possibile definire la Commissione come istituzione: - esecutiva; - indipendente; - collegiale; - a tempo pieno. L’art. 17 TUE dispone una procedura di nomina della Commissione che si articola in varie fasi: - il Consiglio europeo, tenuto conto delle elezioni del P.E. e dopo aver effettuato le consultazioni appropriate, deliberando a maggioranza qualificata, propone al P.E. un candidato alla carica di Presidente della Commissione; - il P.E. elegge tale candidato a maggioranza dei membri che lo compongono; - se il candidato non ottiene la maggioranza, il Consiglio europeo, deliberando a maggioranza qualificata, propone entro un mese un nuovo candidato, che è eletto dal P.E. secondo la stessa procedura; - il Consiglio, di comune accordo con il Presidente eletto, adotta su proposta degli Stati membri l’elenco delle altre personalità che propone di nominare membri della Commissione; - il Presidente, l’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza e gli altri membri della Commissione sono soggetti, collettivamente, ad un voto di approvazione del P.E.; - la Commissione è nominata dal Consiglio europeo, che delibera a maggioranza qualificata. I membri della Commissione sono scelti tra i cittadini degli Stati membri in base ad un sistema di rotazione paritaria che consenta di riflettere la molteplicità demografica e geografica degli Stati membri. I commissari sono nominati a titolo individuale e devono esercitare le loro funzioni in piena indipendenza (art. 17 TUE). Tale indipendenza è tutelata da una serie di norme che creano precisi obblighi a carico dei singoli commissari e, correlativamente, per gli Stati membri. Pertanto la Commissione è un’istituzione fondata da individui e non da rappresentanti degli Stati, e agisce nell’esclusivo interesse dell’Unione. Infine, i membri della Commissione non possono, per la durata delle loro funzioni, esercitare alcun’altra attività professionale, remunerata o meno che sia (art. 245 TFUE). La conferma dell’indipendenza dei membri della Commissione, risulta dal fatto che essi non possono essere rimossi né dai governi nazionali, né dal Consiglio. Un provvedimento in tal senso può essere preso solo dal P.E. attraverso la cd. mozione di censura (art. 234 TFUE), a condizione che dal deposito di questa siano trascorsi tre giorni: la stessa si considera approvata quando abbia riportato la maggioranza dei due terzi dei voti espressi, che rappresentano la maggioranza dei membri che compongono il P.E. In conseguenza dell’adozione del provvedimento, i membri della Commissione saranno tenuti a dimettersi. I membri della Commissione nominati per sostituire quelli “sfiduciati” durano in carica non 5 anni (termine normale), ma fino alla data in cui sarebbe scaduto il mandato dei commissari dimissionari costretti a dimettersi collettivamente. Dalla lettura dell’art. 17 TUE si evince che con il Trattato di Lisbona il ruolo del Presidente della Commissione europea è stato notevolmente rafforzato: è eletto dal P.E. a maggioranza dei membri che lo compongono. In merito alle funzioni, stando alla nuova versione dell’art. 17 TUE, il Presidente: - definisce gli orientamenti nel cui quadro la Commissione esercita i suoi compiti; - decide l’organizzazione interna della Commissione per assicurare la coerenza, l’efficacia e la collegialità della sua azione; - nomina i vicepresidenti tra i membri della Commissione. Al potenziamento del suo ruolo contribuisce tra l’altro l’assegnazione del potere di richiedere le dimissioni di un membro della Commissione, a seguito del quale quest’ultimo è costretto a dismettere le proprie funzioni. Il Presidente può modificare la ripartizione delle competenze nel corso del suo mandato e con il suo accordo il Consiglio europeo pone fine al mandato dell’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza. La sua funzione è sempre consistita nell’assicurare il rispetto del diritto dell’Unione nell’interpretazione e nell’applicazione dei trattati; la riforma di Lisbona ha però introdotto novità di rilievo. In primo luogo la Corte acquisisce una competenza pregiudiziale generale nel settore dello spazio di libertà, di sicurezza e di giustizia. Per quanto riguarda i visti, l’asilo, l’immigrazione e le altre politiche connesse alla circolazione delle persone, ora la Corte può essere adita da tutti i giudici nazionali ed è ormai competente a pronunciarsi su provvedimenti di ordine pubblico nell’ambito dei controlli transfrontalieri. Può, inoltre, pronunciarsi sulla Carta dei diritti fondamentali dell’UE, che con il Trattato di Lisbona acquisisce lo stesso valore giuridico dei trattati. Solo la PESC resta assoggettata a regole particolari e a procedure specifiche. La stessa Corte non è competente per quanto riguarda le disposizioni in materia di PESC, né per quanto riguarda gli atti adottati in base ad esse, ad eccezione di due casi: - quando si tratta di controllare la delimitazione tra le competenze dell’Unione e quelle degli Stati membri; - nell’ipotesi dei ricorsi di annullamento riguardanti le decisioni che prevedono misure restrittive nei confronti di persone fisiche o giuridiche adottate dal Consiglio, come per esempio nell’ambito della lotta al terrorismo. A. La Corte di Giustizia È l’istituzione che assicura il rispetto del diritto dell’Unione nell’interpretazione e nell’applicazione dei trattati e degli atti normativi derivati (art. 19 TUE). Il diritto di cui la Corte deve garantire il rispetto è costituito da quel complesso di norme che regolano l’organizzazione e lo sviluppo dell’UE e i rapporti tra questa e gli Stati membri, generalmente distinto in diritto originario e diritto derivato. A questo complesso normativo, che concorre a formare il diritto scritto, devono aggiungersi i principi generali del diritto che costituiscono il diritto non scritto. Gli artt. 251-254 TFUE regolano la composizione della Corte, stabilendo che di essa fanno parte 1 giudice per Stato membro e 9 avvocati generali. Sia i giudici che gli avvocati sono nominati di comune accordo dai governi degli Stati membri. L’art. 253 precisa che essi debbono essere scelti fra “personalità che offrano tutte le garanzie di indipendenza, e che riuniscano le condizioni richieste per l’esercizio della più alte funzioni giurisdizionali, ovvero che siano giuresconsulti di notoria competenza”. Il successivo art. 255 TFUE prevede l’istituzione di un comitato con l’incarico di fornire un parere sull’adeguatezza dei candidati all’esercizio delle funzioni di giudice e di avvocato generale sia della Corte di giustizia sia del Tribunale prima di procedere alle nomine. Esso delibera su iniziativa del Presidente della Corte di giustizia. Il comitato è composto da 7 personalità, scelte fra ex membri della Corte di giustizia e del Tribunale, membri dei massimi organi giurisdizionali nazionali e giuristi di notoria competenza, uno dei quali è proposto dal P.E. Le regole di funzionamento e la designazione dei membri sono adottate con decisione del Consiglio. Gli avvocati generali hanno l’ufficio di presentare pubblicamente, con assoluta imparzialità ed in piena indipendenza, conclusioni motivate sulle cause che, conformemente allo Statuto della Corte di giustizia dell’UE, richiedono il suo intervento. I giudici e gli avvocati generali restano in carica 6 anni, ma ogni tre anni si procede ad un rinnovo parziale (che riguarda 4 avvocati e, alternativamente, 14 e 13 giudici); il mandato è rinnovabile. Per ciò che attiene al funzionamento della Corte sono previsti un Presidente, nominato ogni 3 anni, che si occupa della direzione dei lavori e delle sedute; e un Cancelliere, nominato a scrutinio segreto dalla Corte dopo ogni rinnovo parziale dei giudici, che svolge sia funzioni attinenti all’attività giudiziaria sia funzioni amministrative. Di regola, i lavori si svolgono in sezioni (composte da 3 o 5 giudici), o in grande sezione (composta da 13 giudici) qualora lo richieda uno Stato membro o un’istituzione dell’Unione che è parte in causa. La procedura davanti alla Corte comprende una fase scritta, con scambio di memorie fra le parti, e una fase orale, introdotta dalla relazione del giudice relatore. Le udienze sono di regola pubbliche, diversamente dalle deliberazioni che sono e restano segrete. Alle deliberazioni partecipa un numero dispari di componenti. Le sentenze devono essere motivate e lette in pubblica udienza; sono definitive e soggette a revisione soltanto in casi eccezionali; hanno efficacia vincolante per le parti in causa e forza esecutiva all’interno degli Stati membri. Le sentenze e le ordinanze vengono pubblicate in una raccolta periodica edita dalla Corte stessa, tradotta in tutte le lingue ufficiali dell’UE. Tra le principali attribuzioni rientrano: - l’esame dei ricorsi in tema di inadempimento degli Stati; - il controllo sulla legittimità degli atti; - il controllo sul comportamento omissivo delle istituzioni; - la competenza a pronunciarsi in via pregiudiziale sull’interpretazione dei trattati e sulla validità e sull’interpretazione degli atti delle istituzioni; - l’esame dei ricorsi per il risarcimento dei danni derivanti da responsabilità extracontrattuale dell’Unione. Altre competenze della Corte riguardano le controversie tra l’Unione e i suoi agenti, i ricorsi contro le sanzioni pecuniarie, la soluzione di controversie sulla base di una clausola compromissoria. Di prevalente importanza è la funzione della Corte di assicurare un’unità di giurisprudenza e di interpretazione, necessario presupposto per un’integrazione effettiva. B. Il Tribunale Il Tribunale è competente a conoscere in primo grado di alcune categorie di ricorsi, ad eccezione di quelle attribuite a un tribunale specializzato e di quelle che lo Statuto riserva alla Corte di giustizia, e condivide con quest’ultima la funzione di assicurare il rispetto del diritto dell’Unione nell’interpretazione e nell’applicazione dei trattati (art. 19 TUE). Il TFUE non indica il numero esatto dei giudici che compongono il Tribunale ma l’art. 19, par. 2 TUE fissa soltanto una soglia minima e sancisce che: “Il Tribunale è composto da almeno un giudice per Stato membro”. La determinazione di tale numero è demandata allo Statuto della Corte di giustizia dell’UE e quello attualmente in vigore, all’art. 48, stabilisce che i giudici del Tribunale sono 28. Questi ultimi sono nominati di comune accordo dai governi degli Stati membri, per un periodo di 6 anni, con criteri analoghi a quelli adottati per la nomina dei giudici della Corte. Il Tribunale siede in sezioni composte da 3, 5 o 13; nei casi previsti dal regolamento di procedura può riunirsi in seduta plenaria o statuire nella persona di un giudice unico. Di norma le sezioni non sono assistite da un avvocato generale la cui presenza è prevista, invece, come continuativa e permanente nell’adunanza plenaria. I membri del Tribunale, per tutta la durata del loro incarico, sono soggetti alle medesime obbligazioni e beneficiano delle stesse garanzie, privilegi e immunità dei membri della Corte. È indispensabile che essi posseggano la capacità per l’esercizio delle più alte funzioni giudiziarie. Designano, inoltre, un Presidente, cui viene conferito un mandato triennale rinnovabile, e nominano il proprio cancelliere di cui il Tribunale fissa lo Statuto. L’art. 256 TFUE definisce direttamente le competenze del Tribunale. Lo stesso è competente a conoscere in primo grado: - dei ricorsi di annullamento; - dei ricorsi per carenza; - dei ricorsi per risarcimento danni derivanti da responsabilità extracontrattuale dell’Unione; - delle controversie tra l’Unione e i suoi agenti; - dei ricorsi presentati in virtù di una clausola compromissoria. È prevista in ogni caso la possibilità d’impugnazione dinanzi alla Corte di giustizia delle decisioni del Tribunale; il riesame è possibile per i soli motivi di diritto, alle condizioni ed entro i limiti previsti dallo Statuto. La procedura davanti al Tribunale è analoga a quella che si svolge davanti alla Corte, comprendendo una fase scritta e una fase orale. Come quelle della Corte, le udienze del Tribunale sono di regola pubbliche, mentre le deliberazioni sono segrete. Per la decisione della causa è necessario un quorum di tre giudici, quando il Tribunale è riunito in sezione, di nove in adunanza plenaria. Alle deliberazioni partecipano solo i giudici intervenuti in udienza. C. I Tribunali specializzati I Tribunali specializzato o camere giurisdizionali sono organismi affiancati al Tribunale incaricati di conoscere in primo grado di alcune categorie di ricorsi proposti in materie specifiche determinate dallo Statuto. Il potere di istituirli spetta al Consiglio e al Parlamento, che deliberano, mediante regolamenti, su proposta della Commissione e previa consultazione della Corte di giustizia, o su richiesta di quest’ultima e previa consultazione della Commissione. Con la decisione del Consiglio del 2 novembre 2004 è stato istituito il primo Tribunale specializzato: il Tribunale della funzione pubblica dell’UE, organo giurisdizionale specifico incaricato di statuire in primo grado in merito al contenzioso sul pubblico impiego. In sostanza esso si pronuncia sulle controversie tra l’Unione e i suoi agenti, comprese le controversie tra gli organi e il loro personale. CAPITOLO 9 – LA BANCA CENTRALE EUROPEA La Banca centrale europea (BCE) è stata istituita dal Trattato di Maastricht ed è entrata in funzione il 3 maggio 1998. Il TUE, a seguito della riforma di Lisbona, la inserisce a pieno titolo tra le istituzioni dell’Unione (art. 13 TUE). Come disposto dall’art. 282 TFUE, insieme alle banche centrali nazionali essa costituisce il Sistema europeo delle banche centrali (SEBC), diretto dagli organi decisionali della BCE e responsabile della politica monetaria dell’Unione. Lo stesso articolo stabilisce che la BCE ha personalità giuridica (essa ha il diritto esclusivo di autorizzare l’emissione di euro) ed è indipendente nell’esercizio dei suoi poteri e nella gestione delle sue finanze. La BCE può ricorrere dinanzi alla Corte di giustizia dell’UE per salvaguardare le proprie - pareggio; - unità di conto; - universalità; - specializzazione; - sana gestione finanziaria; - trasparenza. Per frodi si intendono le irregolarità commesse ai danni degli interessi finanziari dell’Ue. La base giuridica per combattere tale fenomeno è costituita dall’art. 325 TFUE, il quale: - pone a carico di tutti gli Stati membri l’obbligo di reprimere le frodi che ledono gli interessi finanziari dell’Unione con gli stessi strumenti adottati per combattere le frodi a livello nazionale. Si tratta del principio di assimilazione, che equipara gli interessi dell’Unione e quelli nazionali con la conseguenza che gli Stati sono tenuti ad agire con gli stessi mezzi e adottando le stesse misure in entrambi i casi; - prevede che le misure adottate dagli Stati contro le frodi debbano essere dissuasive e tali da permettere una protezione efficace negli Stati membri; - istituisce una stretta e regolare cooperazione tra le autorità nazionali competenti in materia di lotta alle frodi e la Commissione. Uno degli strumenti organizzativi per intensificare la lotta contro gli atti fraudolenti è rappresentato dall’Ufficio europeo per la lotta antifrode (OLAF), istituito con decisione della Commissione n°352 del 28 aprile 1999. CAPITOLO 11 – ORGANI E ORGANISMI PREVISTI DAI TRATTATI L’architettura dell’UE è completata da una serie di organi, organismi, agenzie e servizi interistituzionali che partecipano a vario titolo alla definizione e attuazione delle politiche dell’Unione; tra questi abbiamo: COMITATO ECONOMICO E SOCIALE È un organo consultivo dell’Unione previsto dall’art. 13 TUE e disciplinato in dettaglio dal TFUE (artt. 300-304). Esso è composto da “rappresentanti delle organizzazioni di datori di lavoro, di lavoratori dipendenti e altri attori rappresentativi della società civile, in particolare nei settori socio- economico, civico, professionale e culturale. I membri, il cui numero non può essere superiore a 350, vengono nominati dal Consiglio all’unanimità, previa proposta della Commissione. Il loro mandato è quinquennale e rinnovabile. Il Comitato può essere consultato dal Consiglio, dalla Commissione e ora anche dal P.E. Tale consultazione è obbligatoria o facoltativa, a seconda se sia prevista o meno dai trattati, e si concreta in pareri che non sono mai vincolanti, avendo piuttosto carattere tecnico. I pareri possono essere formulati dal Comitato anche di propria iniziativa, come disposto dall’art. 304 TFUE. COMITATO DELLE REGIONI Inserito all’art. 13 TUE, è un organo che esercita funzioni consultive nei riguardi del P.E., della Commissione e del Consiglio. Come sottolinea l’art. 300, par. 3 TFUE è composto da “rappresentanti delle collettività regionali e locali”, i quali devono essere titolari di una mandato elettorale nell’ambito di una collettività regionale o locale oppure politicamente responsabili dinanzi a un’assemblea eletta. I membri restano in carica per 5 anni e dispongono di un mandato rinnovabile. La loro nomina è effettuata dal Consiglio e il numero dei membri non può essere superiore a 350. L’attività di questo Comitato si esplica nell’emanazione di pareri che possono essere facoltativi o obbligatori ma in nessun caso vincolanti. BANCA EUROPEA PER GLI INVESTIMENTI (BEI) È allo stesso tempo un organismo dell’UE e una banca. Essa gode di una personalità giuridica distinta da quella dell’Unione e, pertanto, di finanziamenti propri, di un bilancio autonomo, nonché di organi di amministrazione e gestione propri. Le norme che la disciplinano sono state inserite nel TFUE agli artt. 308-309. Il suo compito è di contribuire, facendo appello al mercato dei capitali e alle proprie risorse, allo sviluppo equilibrato dell’Unione. ALTRI COMITATI - il Comitato consultivo in materia di trasporti; - il Comitato economico e finanziario; - il Comitato per l’occupazione; - il Comitato per la protezione sociale; - il Comitato di gestione del Fondo sociale europeo; - il Comitato speciale per la politica commerciale. LE AGENZIE Le agenzie dell’Unione sono organismi di varia denominazione (Centri, Fondazioni, Uffici, Osservatori) istituite con atti di diritto derivato e dotati di personalità giuridica e di autonomia finanziaria e di bilancio. Il compito principale è quello di fornire informazioni di natura tecnica agli Stati membri e alle parti private interessate. In funzione del mandato loro affidato, le agenzie possono essere suddivise in: - Agenzie decentrate. Tra queste figurano le agenzie settoriali, le agenzie per la politica di sicurezza e di difesa comune e le agenzie per la cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale; - Agenzie e organismi EURATOM creati per realizzare gli obiettivi del Trattato EURATOM (utilizzazione pacifica dell’energia nucleare); - Agenzie esecutive. Organismi ai quali la Commissione può affidare determinati compiti relativi alla gestione dei programmi dell’Unione; - L’Istituto europeo di innovazione e tecnologia che promuove la capacità di innovazione dell’UE, mettendo insieme le migliori risorse in campo scientifico, imprenditoriale ed educativo. CAPITOLO 12 – LE FONTI PRIMARIE DEL DIRITTO DELL’UNIONE L’ordinamento giuridico dell’UE è completamente autonomo rispetto a quello dei singoli Stati membri; l’autonomia è l’elemento essenziale per impedire che il diritto dell’Unione possa essere svuotato nei suoi contenuti dalle disposizioni nazionali. Le fonti del diritto dell’Unione possono essere classificate in: - fonti di primo grado, che comprendono i trattati istitutivi, i successivi atti di modifica e gli accordi con Stati terzi (diritto scritto) nonché i principi generali del diritto individuati dalla Corte di giustizia (diritto non scritto); - fonti di secondo grado, vale a dire atti di diritto derivato emanati dalle istituzioni dell’Unione per la realizzazione degli obiettivi individuati dai trattati. Il sistema giuridico dell’UE è costituito dall’insieme di norme che regolano l’organizzazione e lo sviluppo dell’Unione, nonché i rapporti tra questa e gli Stati membri. Il diritto europeo si distingue in: - diritto originario. Esso comprende i trattati istitutivi delle Comunità europee, nonché gli atti successivi che ne hanno operato una modifica o li hanno completati. A questi atti, che vanno a formare il diritto scritto, insieme al diritto derivato, devono aggiungersi i principi generali del diritto che costituiscono il diritto non scritto; - diritto derivato. Rientrano in questa categoria tutte le norme giuridiche emanate dalle istituzioni dell’Unione: i cd. atti tipici, che comprendono regolamenti, direttive, decisioni e pareri, e i cd. atti atipici, quali ad es. atti di autorizzazione e concessione, atti interni con i quali le istituzioni regolano il proprio funzionamento, proposte, richieste dichiarazioni etc., che si sono sviluppati nella prassi. Il diritto originario rappresenta una fonte di primo grado; il diritto derivato, invece, costituisce una fonte di secondo grado in quanto gli atti che vi fanno parte sono gerarchicamente subordinati ai trattati. L’autonomia del diritto dell’Unione non implica una netta separazione o una semplice sovrapposizione con gli ordinamenti degli Stati membri; a differenza di quanto avviene tra ordinamento interno e internazionale, nel caso dell’UE si instaura una stretta integrazione e interdipendenza con i singoli ordinamenti nazionali. Gli elementi dai quali si può desumere l’esistenza di tale rapporto sono i seguenti: - comunità di soggetti; - comunità di poteri; - comunità di garanzie. Proprio queste stretta integrazione tra i due ordinamenti potrebbe condurre in alcuni casi a situazioni di conflitto tra norme europee e nazionali. Tale contrasto, più volte verificatosi nei primi anni di applicazione del Trattato CE è stato risolto dalla Corte di giustizia dell’UE con l’individuazione dei due principi cardine che regolano i rapporti tra l’ordinamento europeo e quelli nazionali: - il principio della diretta applicabilità del diritto dell’Unione; - il principio della preminenza del diritto dell’Unione rispetto alla norma conflittuale statale. Il nucleo principale dell’ordinamento giuridico dell’Unione è rappresentato dai trattati istitutivi, vale a dire: - Trattato CECA; - Trattati CEE ed Euratom; - TUE. A questi atti devono aggiungersi quelli che nel corso del tempo hanno modificato o integrato le disposizioni originarie: - Trattato sulla fusione degli esecutivi; - Trattato di Lussemburgo (1970) e successivo Trattato di Bruxelles (1975); - Atto unico europeo (1986); - Trattato di Amsterdam; L’insieme di tali norme costituisce il diritto derivato, nell’ambito del quale è possibile distinguere, dopo la riforma introdotta a Lisbona, tra: - atti legislativi, così definiti perché vengono adottati secondo la cd. procedura legislativa ordinaria; - atti non legislativi, i quali sono atti di portata generale, adottati dalla Commissione su delega di un atto legislativo, che integrano o modificano elementi non essenziali dell’atto legislativo stesso. Gli atti legislativi si distinguono a loro volta in regolamenti, direttive e decisioni enunciati dall’art. 288 TFUE. Il medesimo art. fa riferimento ad altri due tipi di atti non vincolanti per i loro destinatari: le raccomandazioni e i pareri. Il Trattato di Lisbona ha aggiunto un’ulteriore categoria di atti: gli accordi interistituzionali che, ex art. 295 TFUE, vengono conclusi dal P.E., dal Consiglio e dalla Commissione nel rispetto dei trattati e possono assumere carattere vincolante. In molti casi i trattati specificano la tipologia di atto da emanare e quali istituzioni siano competenti a farlo. Dal mancato rispetto della disciplina in materia consegue che un atto può essere impugnato dinanzi alla Corte di giustizia dell’UE come stabilito dall’art. 263 TFUE. Nel procedimento di adozione degli atti giuridici risulta necessaria la motivazione dell’atto, si tratta di una formalità sostanziale, pena l’invalidità dell’atto. Lo scopo è quello di fornire ai destinatari le ragioni che hanno indotto le istituzioni ad agire e di consentire alla Corte di giustizia di esercitare il suo controllo di legittimità attraverso l’annullamento. Insita nella motivazione è l’indicazione della base giuridica, un altro requisito essenziale ai fini di una migliore comprensione e validità dell’atto. Si tratta dell’articolo del Trattato sul quale è fondato tale atto e sul quale si determinano le competenze delle istituzioni, i limiti delle stesse nonché il rispetto del procedimento richiesto per l’adozione; la finalità e l’oggetto dell’articolo a cui deve corrispondere l’atto. L’art. 297 TFUE impone che gli atti legislativi dell’Unione, adottati secondo la procedura legislativa ordinaria, siano firmati dal presidente del P.E. e dal Consiglio mentre quelli adottati secondo la procedura legislativa speciale siano firmati dal Presidente dell’istituzione che li ha adottati. Inoltre, per poter essere applicati e portati a conoscenza dei loro destinatari sono soggetti alla notifica o alla pubblicazione nella G.U. dell’UE. L’entrata in vigore poi è prevista il ventesimo giorno dalla loro pubblicazione o dal momento dell’avvenuta notifica. I REGOLAMENTI Sono definiti nell’art. 288 TFUE come atti: - a portata generale: il regolamento presenta il carattere dell’astrattezza, dal momento che non si rivolge a destinatari determinati né identificabili, ma a categorie considerate astrattamente e nel loro insieme. Destinatari del regolamento sono quindi tutti i soggetti giuridici dell’Unione: Stati membri e persone fisiche e giuridiche degli Stati stessi; - obbligatori in tutti i loro elementi: tale caratteristica sta ad indicare che le norme da esso poste in essere sono destinate a disciplinare la materia e vanno osservate come tali dai destinatari. Nessuno degli Stati membri, quindi, può applicare in modo incompleto o selettivo un regolamento dell’Unione. Ciò non vuol dire necessariamente che i regolamenti siano completi: anzi, spesso accade che debbano essere integrati con misure di esecuzione, che possono essere adottate sia dalla stessa istituzione che ha emanato il regolamento, sia da un’altra istituzione europea, sia dalle autorità nazionali; - direttamente applicabili in ciascuno degli Stati membri: è la caratteristica più originale del regolamento, il quale acquista efficacia negli Stati membri senza che sia necessario un atto di ricezione o di adattamento da parte dei singoli ordinamenti statali. Il regolamento ha, quindi, validità automatica negli Stati membri dell’Unione; esso conferisce diritti ed impone obblighi agli Stati membri, ai loro organi e ai privati come una legge nazionale, al pari della quale attribuisce ai singoli dei diritti che i giudici nazionali sono tenuti a tutelare. LE DIRETTIVE Secondo l’art. 288 TFUE, vincolano lo Stato membro cui sono rivolte per quanto riguarda il risultato da raggiungere, senza incidere sulla competenza degli organi nazionali in merito alla forma e ai mezzi necessari al conseguimento di detto risultato. In primo luogo, dunque, le direttive non hanno portata generale, ma hanno come destinatari i soli Stati membri. A questo proposito si suole distinguere tra direttive generali, indirizzate a tutti gli Stati membri, e direttive individuali o particolari, indirizzate ad uno o ad alcuni di essi. In secondo luogo, le direttive non sono obbligatorie in tutti i loro elementi, in quanto impongono solo un’obbligazione di risultato lasciando liberi gli Stati di adottare le misure dagli stessi ritenute opportune. Infine, per quanto riguarda l’efficacia, l’art. 288 TFUE dispone che le direttive non sono direttamente applicabili al momento della loro adozione da parte delle istituzioni; esse hanno un’efficacia mediata, nel senso che creano diritti e obblighi per i singoli soltanto in seguito all’adozione degli atti di recepimento dei singoli Stati membri. Le direttive che sono rivolte a tutti gli Stati membri devono essere firmate dal presidente dell’istituzione che le ha adottate e pubblicate nella G.U. dell’UE; entrano in vigore alla data da esse stabilita oppure, in mancanza di data, il ventesimo giorno successivo alla pubblicazione. Le direttive, invece, che designano i destinatari cui sono rivolte, sono notificate ai destinatari ed hanno efficacia in virtù di tale notificazione. Le misure nazionali di attuazione delle direttive devono essere adottate entro il termine fissato dalla stessa direttiva: in caso di inosservanza, gli Stati membri commettono una violazione. La violazione commessa dagli Stati membri può dar luogo ad un diritto al risarcimento del danno quando si verificano tre condizioni: il risultato prescritto dalla direttiva deve implicare l’attribuzione di diritti a favore dei singoli; il contenuto di tali diritti deve essere chiaramente individuabile sulla base delle disposizioni della direttiva; deve esistere un nesso di causalità tra la violazione dello Stato e il danno subito dal soggetto leso. Il compito di accertare l’esistenza delle condizioni nonché di quantificare il danno spetta al giudice nazionale. LE DECISIONI È un atto legislativo delle istituzioni europee, contemplato dall’art. 288 TFUE, il quale stabilisce che: “la decisione è obbligatoria in tutti i suoi elementi. Se designa i destinatari, è obbligatoria solo nei confronti di questi”. Nei casi in cui sono specificati i destinatari, corrisponde in sostanza, all’atto amministrativo dei sistemi giuridici nazionali e rappresenta lo strumento utilizzato dalle istituzioni quando si vuole applicare il diritto dell’Unione a fattispecie concrete per creare, modificare o estinguere situazioni giuridiche in capo a determinati soggetti. Senza l’indicazione dei suoi destinatari la decisione assume, invece, portata generale. L’art. 288 TFUE menziona altri due tipi di atti adottati dalle istituzioni dell’Unione che non hanno efficacia vincolante: le raccomandazioni e i pareri. Mentre la raccomandazione ha il preciso scopo di sollecitare il destinatario a tenere un determinato comportamento giudicato più rispondente agli interessi comuni, il parere tende a fissare il punto di vista dell’istituzione che lo emette, in ordine ad una specifica questione. Sia le raccomandazioni che i pareri possono avere come destinatari gli Stati membri, i loro soggetti di diritto interno oppure le altre istituzioni. Il Trattato di Lisbona ha previsto l’adozione, da parte della Commissione, di: - atti non legislativi di portata generale modificativi o integrativi degli atti legislativi, che possono essere emanati previa delega da parte del P.E. o del Consiglio; - atti di esecuzione. Per quanto riguarda i primi, secondo l’art. 290 TFUE, un atto legislativo può delegare alla Commissione il potere di adottare atti non legislativi di portata generale che integrano o modificano determinati elementi non essenziali dell’atto legislativo. Tale potere delegato è delimitato dagli atti legislativi, che devono esplicitamente indicare gli obiettivi, il contenuto, la portata e la durata della delega di potere. Gli elementi essenziali di un settore sono riservati all’atto legislativo e non possono pertanto essere oggetto di delega di potere. Gli atti legislativi fissano esplicitamente le condizioni cui è soggetta la delega, che possono essere le seguenti: a. il P.E. o il Consiglio possono decidere di revocare la delega; b. l’atto delegato può entrare in vigore soltanto se, entro il termine fissato dall’atto legislativo, il P.E. o il Consiglio non sollevano obiezioni. Il P.E. delibera a maggioranza dei membri che lo compongono e il Consiglio delibera a maggioranza qualificata. Per ciò che riguarda, invece, gli atti di esecuzione, secondo l’art. 291 TFUE, il compito di adottare tutte le misure di diritto interno necessarie per l’attuazione degli atti giuridicamente vincolanti dell’Unione spetta agli Stati. Tuttavia, quando sono necessarie condizioni uniformi di esecuzione degli atti giuridicamente vincolanti dell’Unione, questi conferiscono competenze di esecuzione alla Commissione o, in casi specifici debitamente motivati e nelle circostanze relative alla politica estera, al Consiglio. Il P.E. e il Consiglio, deliberando mediante regolamenti secondo la procedura legislativa ordinaria, stabiliscono preventivamente le regole e i principi generali relativi alle modalità di controllo da parte degli Stati membri nell’esercizio delle competenze di esecuzione attribuite alla Commissione. Gli ATTI ATIPICI sono atti non vincolanti, emanati dalle istituzioni dell’Unione, che non rientrano in quelli elencati nell’art. 288 TFUE ma che sono sempre più di frequente utilizzati in ambito europeo rivestendo carattere politico o amministrativo. Rientrano in questa categoria: - i regolamenti interni; - le risoluzioni e le dichiarazioni; - i programmi generali per la soppressione delle restrizioni relative alla libertà di stabilimento o di prestazione dei servizi; - gli accordi interistituzionali; - le dichiarazioni comuni; Nel caso di emendamenti il presidente del P.E., d’intesa con il presidente del Consiglio, deve convocare il comitato di conciliazione che non si riunisce se, entro un termine di 10 giorni da detta trasmissione, il Consiglio comunica al P.E. che approva tutti gli emendamenti da esso apportati. Una volta convocato, il comitato di conciliazione ha il compito di giungere, sulla base delle posizioni del P.E. e del Consiglio, a un accordo su un progetto comune, a maggioranza qualificata, entro un termine di 21 giorni dalla convocazione. Se il comitato di conciliazione non raggiunge alcun accordo antro il termine di cui sopra, la Commissione dovrà sottoporre un nuovo progetto di bilancio. - fase di seconda lettura: tale fase si instaura se il comitato di conciliazione giunge ad un accordo su un progetto comune e il Consiglio e il P.E. dispongono ciascuno di 14 giorni per approvare il progetto. A questo punto sorgono 4 possibilità: il P.E. e il Consiglio approvano il progetto, oppure non riescono a deliberare o una delle due istituzioni approva il progetto comune. Il bilancio si considera definitivamente adottato; il P.E. e il Consiglio respingono il progetto, o una delle due istituzioni respinge il progetto. In tal caso la Commissione sottopone un nuovo progetto di bilancio; il P.E. respinge il progetto comune mentre il Consiglio lo approva. La Commissione sottopone un nuovo progetto di bilancio; il P.E. approva il progetto comune, mentre il Consiglio lo respinge. Il P.E. può, entro 14 giorni dalla data in cui il Consiglio lo ha respinto, decidere di confermare tutti gli emendamenti o parte di essi. Il bilancio in tal caso è definitivamente adottato. Alla Commissione spetta il compito di dare esecuzione al bilancio in cooperazione con gli Stati membri. Il regime dei dodicesimi provvisori è un sistema che consente alle istituzioni dell’Unione, in caso di mancata approvazione del bilancio, di procedere comunque all’erogazione delle spese loro necessarie, prendendo come parametro di riferimento l’ultimo bilancio regolarmente approvato. Tali spese, considerate mensilmente, saranno sottoposte ad un duplice ordine di limiti. Esse, infatti, non potranno eccedere la soglia di un dodicesimo dei crediti regolarmente aperti nel bilancio dell’esercizio precedente, né quella di un dodicesimo dell’importo complessivo dei crediti risultanti dal progetto di bilancio elaborato con riferimento all’esercizio in corso (art. 315 TFUE). CAPITOLO 15 – LA TUTELA GIURISDIZIONALE Il sistema della tutela giurisdizionale nell’ambito dell’UE comprende: - i ricorsi diretti (giurisdizione contenziosa), che si caratterizzano per l’azione diretta dei soggetti interessati dinanzi alla Corte di giustizia, al Tribunale o al Tribunale della funzione pubblica. Sono riconducibili a questa categoria il ricorso per inadempimento, il ricorso di annullamento, il ricorso per carenza, i ricorsi in materia di responsabilità extracontrattuale e di controversie tra l’Unione e i suoi agenti, o quelli attivati in virtù di una clausola compromissoria; - i ricorsi indiretti (giurisdizione non contenziosa), proposti dinanzi ai giudici nazionali e successivamente portati all’esame della Corte di giustizia dell’UE; si risolvono nel procedimento di rinvio pregiudiziale. LA GIURISDIZIONE AVENTE AD OGGETTO IL COMPORTAMENTO DEGLI STATI: IL RICORSO PER INADEMPIMENTO Si tratta del giudizio della Corte sulla violazione degli obblighi, da parte degli Stati membri, derivanti dai trattati e dagli atti vincolanti delle istituzioni. La procedura è promossa dalla Commissione o da uno Stato membro, che deve comunque rivolgersi alla Commissione (unica responsabile della cd. fase precontenziosa). A. La procedura promossa dalla Commissione La Commissione, nell’esercizio del suo compito di vigilanza sull’applicazione dei trattati e delle disposizioni adottate in virtù degli stessi, è competente a promuovere la procedura dinanzi alla Corte. Quando reputa che uno Stato membro abbia violato gli obblighi derivanti dai trattati emette un parere motivato dopo aver posto lo Stato inadempiente in condizione di presentare le sue osservazioni. Qualora lo Stato in causa non si conformi a tale parere nel termine fissato dalla Commissione, questa può adire la Corte di giustizia dell’UE (art. 258 TFUE). Suddetto articolo distingue due fasi del procedimento: una fase precontenziosa che si instaura dinanzi alla Commissione, e una fase contenziosa innanzi alla Corte di giustizia dell’UE. La fase precontenziosa è caratterizzata dalla lettera di messa in mora e dal parere motivato. Attraverso la lettera di messa in mora, la Commissione mette in evidenza la violazione commessa dallo Stato e fissa per quest’ultimo una scadenza entro la quale deve presentare le sue osservazioni in proposito. Dopo la lettera di messa in mora, ricevute le osservazioni, oppure in assenza delle stesse, la Commissione indirizza allo Stato in questione un parere motivato. Esso è adottato soltanto nel caso in cui non si raggiunge nessun accordo fra lo Stato e la stessa Commissione. Attraverso tale parere la Commissione sottolinea l’inadempimento e invita lo Stato a conformarsi agli obblighi derivanti dai trattati, al fine di eliminare il comportamento illecito. La motivazione del parere costituisce un requisito essenziale al fine della rilevanza delle procedura, perché consente la ricevibilità del ricorso da parte della Corte di giustizia dell’UE. Qualora lo Stato interessato non si sia conformato in tempo utile al parere motivato viene avviata la fase contenziosa. Tuttavia non sussiste alcun obbligo per la Commissione di adire la Corte. Il ricorso alla Corte non ha come oggetto l’inosservanza del parere motivato, ma l’inadempimento dello Stato agli obblighi dei trattati: la non conformità alle prescrizioni della Commissione costituisce, infatti, solo il presupposto per il contenzioso. B. La procedura promossa da uno Stato membro L’art. 259 TFUE prevede che il ricorso per inadempimento può essere promosso da uno Stato membro quando reputi che un altro Stato membro ha mancato a uno degli obblighi a lui incombenti in virtù dei trattati. Lo Stato che intende adire la Corte deve ugualmente rivolgersi prima alla Commissione pena l’irricevibilità del ricorso. È tenuto, inoltre, ad esporre le ragioni sulle quali è fondata la richiesta di intervento della Commissione; quest’ultima ha il compito di conciliare le posizioni contrastanti delle parti in causa ponendole in condizione di presentare le loro osservazioni, scritte e orali, e al termine del contraddittorio emette un parere motivato sulla questione. A seguito di ciò, la Commissione può assumere diverse posizioni: - può reputare non fondate le motivazioni riportate dallo Stato che l’ha adita, ed in tal caso è sempre possibile il ricorso alla Corte; - può appoggiare la tesi dello Stato imputato di inadempienza, e anche in tal caso sarà sempre possibile ricorrere alla Corte; - può appoggiare la tesi dello Stato che presenta il ricorso, e in tal caso sarà possibile ricorrere alla Corte solo se lo Stato inadempiente, entro il termine fissato, non si conforma al parere o non pone fine all’illecito; - può non formulare alcun parere entro tre mesi, e allora sarà possibile ricorrere alla Corte. La sentenza della Corte è di mero accertamento sull’esistenza della violazione; essa, in altri termini, non può indicare le misure necessarie per far cessare l’inadempimento o stabilire misure per il risarcimento di eventuali danni: lo Stato è solo tenuto a garantire, attraverso la propria scelta dei mezzi da adottare, l’effettiva riparazione dell’illecito. Tuttavia se lo Stato non pone fine al suo illecito si ha la prosecuzione del giudizio (avente ad oggetto l’esecuzione della sentenza della Corte). LA GIURISDIZIONE AVENTE AD OGGETTO IL COMPORTAMENTO DI ISTITUZIONI, ORGANI E ORGANISMI: IL RICORSO DI ANNULLAMENTO E IL RICORSO PER CARENZA. Si tratta della giurisdizione contenziosa della Corte riguardante il comportamento delle istituzioni, degli organi e degli organismi dell’Unione nell’emanazione di atti vincolanti. Questo comportamento può formare oggetto di controversia sia sotto il profilo attivo sia sotto il profilo omissivo: una violazione dei trattati può infatti concretarsi nell’emanazione di atti illegittimi (che comporta un ricorso di annullamento) oppure nell’astensione dall’emanazione di atti dovuti (in seguito alla quale è possibile avviare un ricorso per carenza). A. Il ricorso di annullamento Ai sensi dell’art. 263 TFUE la Corte di giustizia dell’UE esercita un controllo di legittimità sugli atti legislativi, sugli atti della Commissione, del Consiglio e della BCE che non siano raccomandazioni o pareri, nonché sugli atti del P.E. e del Consiglio europeo destinati a produrre effetti giuridici nei confronti di terzi. I soggetti legittimati a presentare ricorso sono: - le istituzioni dell’UE e gli Stati membri (ricorrenti privilegiati),in quanto non devono dimostrare che un atto illegittimo li tocchi direttamente per poter adire la Corte; - la Corte dei Conti, il Comitato delle regioni e la BCE, legittimati a proporre ricorso solo per la salvaguardia delle proprie prerogative (ricorrenti semiprivilegiati); - le persone fisiche e giuridiche (ricorrenti non privilegiati), che possono proporre un ricorso, peraltro al Tribuna e non alla Corte, solo nell’ipotesi in cui gli atti di cui si chiede di dichiarare l’illegittimità le riguardino direttamente e individualmente. Il ricorso è sottoposto a un termine di decadenza di due mesi dalla pubblicazione o dalla notificazione dell’atto (in mancanza della notificazione il termine decorre dal giorno in cui il ricorrente ha avuto conoscenza dell’atto). I vizi che devono inficiare l’atto affinché si possa adire la Corte sono elencati al comma 2 dell’art. 263 TFUE e sono: - incompetenza: quando l’istituzione, l’organo o l’organismo che ha emanato l’atto non aveva il potere di emanarlo; - violazione delle forme sostanziali: mancanza di un requisito di forma essenziale per la formulazione dell’atto; - violazione dei trattati e delle norme giuridiche relative alla loro applicazione; - sviamento di potere: esercizio del potere per un fine diverso da quello per il quale era stato conferito. Una volta constatata l’illegittimità dell’atto, la Corte ha il potere di annullarlo, con effetti erga omnes e a partire dal momento dell’emanazione (annullamento ex tunc). Per ciò che attiene agli effetti della sentenza interpretativa emanata dalla Corte, è opportuno chiarire che: - essa vincola il giudice nazionale, che dovrà eventualmente disapplicare la norma nazionale confliggente con la norma dell’Unione; - il valore vincolante della pronuncia pregiudiziale si impone anche ai giudici che dovessero esaminare il caso in una successiva fase della procedura; - per quanto riguarda gli effetti nel tempo della sentenza il principio generale è quello secondo cui essa esplica i suoi effetti ex tunc, vale a dire al momento dell’entrata in vigore delle norme interpretate. Tuttavia la stessa Corte, in casi eccezionali, può limitare la portata di questo principio; - la sentenza avrà, inoltre, la sua efficacia anche al di fuori del contesto che ha provocato il rinvio pregiudiziale, per diventare vincolante nei confronti di altri giudici che saranno tenuti, in futuro, ad applicarla. Una sentenza sulla validità dell’atto, invece, produce soltanto una invalidità dello stesso, con la conseguenza che l’atto (pur ritenuto invalido dalla Corte) non viene eliminato dall’ordinamento. Soltanto l’istituzione che lo ha emanato è competente a procedere al suo annullamento; ciò non toglie che la pronuncia della Corte, oltre ad essere vincolante per il giudice del rinvio, costituisce per qualsiasi altro giudice un motivo sufficiente per considerare tale atto non valido ai fini di una decisione che esso debba emettere. Per quanto riguarda gli effetti nel tempo di una pronuncia di invalidità di un atto, anche in questo caso si applica il principio della retroattività. La giurisdizione non contenziosa della Corte vale anche per la funzione consultiva che essa svolge nei confronti delle altre istituzioni dell’Unione nei casi previsti dai trattati. Ad esempio un’attività consultiva è prevista dall’art. 218, par. 11 TFUE laddove dispone che il Parlamento, la Commissione, il Consiglio o uno Stato membro possono chiedere il parere della Corte circa la compatibilità di un accordo con le disposizioni dei trattati. Quando la Corte esprime parere negativo, l’accordo può entrare in vigore solo con modifica dello stesso o in caso di revisione dei trattati. CAPITOLO 16 – RAPPORTI TRA DIRITTO DELL’UE E DIRITTO DEGLI STATI MEMBRI Il rapporto tra diritto dell’UE e diritto degli Stati membri è un rapporto di integrazione dal momento che il primo completa gli ordinamenti nazionali ponendo in molti casi obblighi a carattere vincolante, e implica una necessaria opera di coordinamento e armonizzazione che non sempre risulta facile da realizzare, dando vita a fenomeni di contrasto tra le diverse disposizioni europee e nazionali. La questione è stata affrontata in più occasioni dalla Corte di giustizia dell’UE, che ha stabilito due principi fondamentali: la diretta efficacia del diritto dell’Unione e il primato del diritto dell’Unione. DIRETTA EFFICACIA DEL DIRITTO Secondo questo principio, qualora una disposizione dei trattati o di un atto dell’Unione presenti determinate caratteristiche, essa crea diritti e obblighi a favore dei privati, i quali sono legittimati ad esigere, davanti alle giurisdizioni nazionali, la stessa tutela riconosciuta per i diritti di cui sono titolari in base alle norme dettate dall’ordinamento interno. Effetto diretto e diretta applicabilità La nozione di effetto diretto degli atti dell’Unione non va confusa con quella di diretta applicabilità. Per poter meglio capire questa differenza, è necessario soffermarsi sulla nozione di atto e di norma. L’atto è il provvedimento emanato dagli organi competenti e contenente determinate disposizioni normative; la norma è, quindi, il contenuto di una disposizione normativa, qualunque sia la veste formale che l’atto ricopre. Ora, la diretta applicabilità è una caratteristica tipica del regolamento dell’Unione in quanto atto: sta ad indicare che esso esplica i suoi effetti negli ordinamenti statali nello stesso momento in cui entra in vigore nell’ordinamento europeo, non necessitando di alcuna disposizione nazionale di recepimento. Non è una caratteristica della direttiva che necessita di essere trasposta nell’ordinamento dei singoli Stati membri. Differente è l’effetto diretto, che è afferente alla norma ricavabile dalla disposizione. Ciò significa che se un atto dell’Unione contiene una norma precisa e ben chiara, tale norma produce effetti in capo ai singoli anche se lo Stato non ha provveduto, entro il termine stabilito, a trasporre l’atto nell’ordinamento nazionale. Di conseguenza il singolo potrà far valere i propri diritti garantiti dalla norma dell’Unione anche se lo Stato membro no ha provveduto ad adottare l’atto. Le caratteristiche che gli atti devono presentare affinché possano essere considerati direttamente efficaci sono le seguenti: - devono imporre ai destinatari un comportamento preciso e non condizionato da alcuna riserva; - devono contenere una disciplina completa che non necessita di normativa derivata da parte degli organi statali o dell’Unione. La diretta efficacia dei trattati Le disposizioni dei trattati a cui attribuire efficacia diretta sono state progressivamente individuate dalla Corte di giustizia dell’UE. In sostanza, con le sue costanti pronunce in materia, la Corte ha affermato che l’ordinamento giuridico dell’Unione, riconoscendo come soggetti non solo gli Stati membri, ma anche i singoli cittadini, impone loro degli obblighi così come attribuisce diritti soggettivi. La diretta efficacia delle direttive Molto controversa è la possibilità di una diretta efficacia delle direttive, atti che, a norma dell’art. 288 TFUE, necessitano di una disposizione nazionale di recepimento al fine di esplicare pienamente i loro effetti. Anche in questo caso la Corte si è pronunciata, entro certi limiti, per la diretta efficacia allorquando: - l’interpretazione di norme nazionali che disciplinano materie oggetto di direttive è dubbia (in questo caso la norma statale deve conformarsi al contenuto della direttiva); - la direttiva impone un obbligo sufficientemente chiaro e preciso (come nel caso delle direttive dettagliate) o chiarisce il contenuto di un obbligo già previsto dai trattati; - la direttiva, nell’imporre l’obbligo del risultato, non implica necessariamente l’emanazione di specifici atti di esecuzione, per cui in caso di inerzia dello Stato gli individui possono invocare la direttiva dinanzi ai giudici per far valere gli effetti che questa si propone. In ogni caso l’efficacia diretta delle direttive riguarda sempre i rapporti tra i cittadini e lo Stato (effetto verticale delle direttive) e solo nell’ipotesi in cui l’ordinamento dell’Unione prevede norme più favorevoli per i cittadini rispetto alla normativa interna che non è stata adeguata. Ciò comporta in primo luogo che, decorso inutilmente il termine fissato per dare attuazione alla direttiva, i singoli possono far valere in giudizio i diritti precisi e incondizionati che derivano loro dalla direttiva e i giudici devono accogliere una simile richiesta. In secondo luogo, per le autorità nazionali sussiste il divieto di opporre qualunque disposizione interna non conforme ad una disposizione della direttiva che imponga obblighi precisi ed incondizionati. Per contro, la Corte ha ribadito l’assenza di qualsiasi effetto orizzontale delle direttive, vale a dire la possibilità che queste possano esplicare effetti tra privati pur mancando una disposizione nazionale di recepimento. La responsabilità è, infatti, configurabile solo in capo allo Stato e solo a quest’ultimo si impone l’obbligo dell’eventuale risarcimento del danno causato. In assenza di provvedimenti di attuazione entro i termini prescritti, un privato non può fondare su una direttiva un diritto nei confronti di un altro privato, né può farlo valere dinanzi a un giudice nazionale. La diretta efficacia delle decisioni Dal momento che i trattati tacciono in materia di efficacia delle decisioni all’interno degli Stati membri, sancendo soltanto la loro obbligatorietà per i destinatari ai sensi dell’art. 288, comma 4 TFUE, la maggior parte della dottrina ha elaborato la tesi secondo cui l’efficacia dipende dal tipo di decisione adottata: solo se designa uno o più Stati membri come destinatari, infatti, essa risulta dotata di efficacia diretta, che è di tipo verticale poiché attiene ai rapporti tra lo Stato e i singoli. Ciò perché quando la decisione è rivolta agli Stati membri, questi sono obbligati ad adottare provvedimenti di attuazione, ma, a differenza delle direttive, non sono liberi di scegliere la forma o il mezzo di esecuzione, essendo tutto ciò già previsto dalla decisione. È proprio questo aspetto che rende la decisione obiettivamente efficace e immediatamente applicabile. IL PRIMATO DEL DIRITTO DELL’UNIONE La diretta efficacia del diritto dell’Unione non costituisce una garanzia sufficiente per i cittadini degli Stati membri in quelle ipotesi in cui una norma dell’Unione contrasta con una disposizione interna: se a prevalere fosse quest’ultima, infatti, i diritti attribuiti ai singoli dall’ordinamento europeo non troverebbero alcuna tutela. Ad evitare ciò soccorre una altro principio di derivazione giurisprudenziale: quello che sancisce il primato del diritto dell’Unione, conformemente al quale in caso di conflitto, di contraddizione o di incompatibilità tra norme di diritto dell’Unione e norme nazionali, le prime prevalgono sulle seconde. CAPITOLO 17 – ADATTAMENTO DELL’ORDINAMENTO ITALIANO ALL’ORDINAMENTO DELL’UE Il rapporto tra il diritto dell’Unione e il diritto degli Stati membri, e cioè il rapporto tra le norme europee e gli ordinamenti giuridici degli Stati membri, nei quali le stesse debbono dispiegare i loro effetti, ha suscitato ampie discussioni e prese di posizioni contrastanti in dottrina e giurisprudenza. Per quanto riguarda il nostro paese, il processo di integrazione è stato scandito da una serie di importanti sentenze della Corte costituzionale. Tale rapporto si è fondato inizialmente sul principio della separazione degli ordinamenti giuridici, secondo il tradizionale approccio dualistico; tuttavia è stata la stessa dinamica dell’integrazione europea che ha reso anacronistica questa impostazione, mostrando come l’ordinamento nazionale non potesse essere considerato totalmente distinto da quello comunitario. La tesi attualmente prevalente in dottrina è quella del rapporto di integrazione tra i due ordinamenti affermato anche dalla giurisprudenza costituzionale con la formula degli ordinamenti coordinati e comunicanti. Ciò premesso, le principali questioni che sono state messe in luce in relazione alla problematica dell’adattamento dell’ordinamento italiano all’ordinamento europeo sono due: lo strumento della legge comunitaria, è stata poi abrogata e sostituita dalla L. 24/12/2012, n. 234 entrata in vigore il 19 gennaio 2013. Lo scopo principale è quello di riorganizzare il processo di recepimento della normativa europea con lo sdoppiamento della tradizionale legge comunitaria in legge di delegazione europea e legge europea. FASE ASCENDENTE Il ruolo dello Stato italiano nella formazione delle politiche e del diritto dell’UE è ricoperto principalmente dal Governo lasciando al Parlamento un generico potere di indirizzo e di controllo. Già con alcune modifiche alla legge La Pergola si era cercato di rispondere alle istanze dal Parlamento per un maggiore coinvolgimento nella fase di predisposizione degli atti di diritto dell’UE, partecipazione ulteriormente rafforzata con l’approvazione prima della L. 11/2005 e poi della L. 234/2012. In virtù degli artt. da 3 a 17 del Capo II della Legge, la partecipazione del Parlamento italiano al processo decisionale è assicurata attraverso: - l’informazione del Governo alle Camere riguardo la posizione che intende assumere; - la trasmissione del Governo alla Camere di atti e progetti di atti accompagnati da una nota illustrativa della valutazione del Governo; - trasmissione di relazioni e note informative relative alle riunioni del Consiglio, tra P.E., Commissione e Consiglio, e degli altri organi UE, relative a procedure di contenzioso e precontenzioso avviate nei confronti dell’Italia; - partecipazione delle Camere alla verifica del rispetto del principio di sussidiarietà nell’attività legislativa dell’UE. FASE DISCENDENTE Lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano, nelle materie di propria competenza legislativa, danno tempestiva attuazione alle direttive e agli altri obblighi derivanti dal diritto dell’UE. Il Presidente del Consiglio dei Ministri o il Ministro per gli affari europei, dopo aver verificato gli atti normativi e di indirizzo emanati dagli organi dell’Unione e lo stato di conformità dell’ordinamento interno e degli indirizzi di politica del Governo in relazione a detti atti, ne trasmette le risultanze tempestivamente, e comunque ogni 4 mesi anche con riguardo alle misure da intraprendere per assicurare tale conformità, agli organi parlamentari competenti. In seguito, presenta al Parlamento, entro il 28 febbraio di ogni anno, la legge di delegazione europea e ancora, senza nessuna indicazione riguardo alla scadenza temporale, una legge europea. Nella prima sono indicate le disposizioni di delega necessarie al recepimento delle direttive e degli alti atti, nella seconda altre disposizioni tra cui: - disposizioni modificative o abrogative di disposizioni statali vigenti, in contrasto con gli obblighi UE o oggetto di procedure d’infrazione avviate dalla Commissione europea nei confronti dell’Italia o di sentenze della Corte di giustizia dell’UE; - disposizioni necessarie per dare attuazione o per assicurare l’applicazione di atti dell’UE. CAPITOLO 18 – LE REGIONI E L’ATTUAZIONE DEL DIRITTO DELL’UNIONE Con l’adesione ai trattati istitutivi delle Comunità europee e, poi, dell’UE, il nostro paese ha accettato limitazioni della propria sovranità in determinate materie, che si impongono in modo parallelo anche alle Regioni nelle materie di loro competenza per cui nasce il problema di individuare l’organo competente a dare attuazione alle disposizioni di diritto UE. Quando si tratta di materie di competenza regionale sarebbe logico attribuire tale potere alle stesse Regioni; tuttavia questa ovvia conclusione si scontra con il costante indirizzo europeo che attribuisce soltanto allo Stato la responsabilità per eventuali violazioni del diritto dell’Unione, essendo del tutto indifferente la ripartizione interna dei poteri e delle competenze. I termini della questione relativa all’esecuzione della normativa europea sono così sintetizzabili: - se il potere di dare attuazione alle disposizioni dell’Unione in materie di competenza regionale non fosse attribuito alle Regioni, si assisterebbe ad una ulteriore limitazione delle competenze loro attribuite, che risulterebbe condizionata sia dalla normativa europea che da quella statale di attuazione; - se, invece, tale potere fosse attribuito alle Regioni, una eventuale violazione delle disposizioni dell’Unione sarebbe comunque imputabile allo Stato, che si troverebbe sprovvisto di qualunque strumento per imporre il rispetto degli obblighi derivanti dal diritto europeo. La facoltà delle Regioni di dare attuazione agli atti normativi dell’UE è stata a lungo contrastata dal legislatore statale, che nei primi anni di operatività delle Regioni ha di fatto precluso ogni possibile azione in questo campo. Il sistema delle relazioni tra l’Italia e l’UE e, in particolare, la partecipazione delle Regioni all’attività normativa di quest’ultima hanno trovato una compiuta disciplina anche a livello costituzionale con l’approvazione della L. cost. 18 ottobre 2001, n. 3. Con tale provvedimento sono stati inseriti nella Carta costituzionale i principi emersi in questi anni attraverso la giurisprudenza e la legislazione ordinaria in tema di attuazione da parte delle Regioni degli atti normativi comunitari e, oggi, dell’Unione. Il primo riferimento all’ordinamento europeo è rintracciabile nel comma 1 del nuovo art. 117 Cost. laddove è prevista una clausola generale di compatibilità della legislazione con i vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario. Il comma 2 dell’art. 117 Cost. attribuisce alla potestà legislativa esclusiva dello Stato la disciplina dei rapporti con l’UE, mentre rientra nella potestà legislativa concorrente la disciplina dei rapporti tra le Regioni e l’UE (art. 117, comma 3, Cost.). La disposizione più innovativa, tuttavia, è rappresentata dal comma 5 dell’art. 117, che così recita: “Le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano, nelle materie di loro competenza, partecipano alle decisioni dirette alla formazione degli atti normativi comunitari e provvedono all’attuazione e all’esecuzione degli accordi internazionali e degli atti dell’UE, nel rispetto delle norme di procedura stabilite da legge dello Stato, che disciplina le modalità di esercizio del potere sostitutivo in caso di inadempienza”. FASE ASCENDENTE La partecipazione delle Regioni alla fase ascendente è stata successivamente disciplinata dall’art. 5 della L. 5 giugno 2003, n. 131 (meglio nota come legge La Loggia). Secondo detto articolo le Regioni e le Province autonome concorrono, nelle materie di loro competenza, alla formazione degli atti europei. Tale partecipazione è resa possibile dalla presenza di esponenti regionali nelle delegazioni del Governo che collaborano allo sviluppo delle attività del Consiglio dell’UE nonché dei gruppi di lavoro e nei comitati dello stesso Consiglio e della Commissione europea. FASE DISCENDENTE La materia dei poteri delle Regioni nell’attuazione del diritto dell’Unione è stata compiutamente disciplinata dagli artt. 30, comma 2, lett. g e 40 della L. 234/2012. I citati articoli precisano che le Regioni e le provincie autonome: - nelle materie di propria competenza (piena o residuale) possono dare attuazione alle direttive dell’UE, senza alcuna limitazione; - anche nelle materie di competenza concorrente possono dare attuazione alle direttive dell’UE, anche se in questo caso devono rispettare i principi fondamentali non derogabili individuati nella legge di delegazione europea. Nel caso in cui la legge regionale già emanata sia in contrasto con i principi fondamentali stabiliti nella legge di delegazione europea vi è una prevalenza di questi ultimi sulle disposizioni regionali (che potrebbe anche costringere le Regioni a modificare la legge già approvata). Il potere sostitutivo dello Stato, inteso come facoltà per gli organi statali di adempiere direttamente ad obblighi che normalmente sono di competenza degli organi regionali e che da questi non sono rispettati, trova il suo fondamento costituzionale nel secondo comma dell’art. 120 della Costituzione, secondo il quale “il Governo può sostituirsi a organi delle Regioni, delle Città metropolitane, delle Province e dei Comuni nel caso di mancato rispetto….della normativa comunitaria”. Una disposizione particolarmente innovativa, contenuta nel comma 2, art. 5, della L. 131/2003, è quella che attribuisce alle Regioni il potere di chiedere al Governo di proporre ricorso alla Corte di giustizia dell’UE contro gli atti dell’Unione ritenuti illegittimi, attraverso due procedure. La richiesta, infatti, può essere rivolta: - dalla singola Regione o da più Regioni. In questo caso, tuttavia, l’Esecutivo nazionale è libero di prendere in considerazione o meno la richiesta avanzata e, stando al tenore letterale della norma, non è nemmeno tenuto a motivare l’eventuale rifiuto ad agire; - dalla Conferenza Stato-Regioni con una votazione adottata a maggioranza assoluta. In questa ipotesi il Governo non gode di alcun margine di discrezionalità ed è tenuto a presentare il ricorso richiesto collettivamente dalle Regioni. CAPITOLO 19 – IL QUADRO DELLE COMPETENZE Con il Trattato di Lisbona sono state per la prima volta delineate in maniera esplicita le competenze dell’Unione. L’art. 1 TFUE, infatti, prevede che sia lo stesso TFUE a determinare i settori, la delimitazione e le modalità d’esercizio delle competenze dell’Unione. Conformemente all’art. 7 TFUE, l’Unione assicura la coerenza tra le sue varie politiche e azioni, tenendo conto dell’insieme dei suoi obiettivi e nel rispetto del principio le attribuzione delle competenze. Tale principio, sancito all’art. 5 TUE, prevede che l’Unione agisca esclusivamente nei limiti delle competenze che le sono attribuite dagli Stati membri nei trattati per realizzare gli obiettivi da questi stabiliti. Qualsiasi competenza non attribuita all’unione nei trattati appartiene agli Stati membri. Nel corso dell’integrazione europea, l’ampliarsi dei settori di intervento delle Comunità ha reso urgente definire con maggiore chiarezza il limite tra competenze nazionali e comunitarie, mediante l’applicazione del principio di sussidiarietà. L’art. 5 del nuovo TUE prevede ora che in virtù di tale principio, nei settori che non sono di sua competenza esclusiva l’Unione interviene soltanto se e in quanto gli obiettivi dell’azione prevista non possono essere conseguiti in misura sufficiente dagli Stati membri ma possono essere conseguiti meglio a livello di Unione. Dalla norma risulta che l’intervento dell’Unione in via sussidiaria è soggetto ad alcuni presupposti: è previsto solo per le materie che non rientrano nella competenza esclusiva dell’Unione; Quando lo scambio di merci tra paesi membri comporta, per motivi di trasporto, l’attraversamento di un paese terzo, è necessario porre in essere, tanto al momento dell’uscita dall’Unione, quanto al momento del reingresso in essa, un’operazione doganale, sia al fine di provare lo status europeo della merce al momento del reingresso nel territorio dell’Unione, sia a garanzia che la merce stessa non venga immessa in consumo nello Stato attraversato. Per quanto riguarda le normative sulla qualità e la presentazione del prodotto, al riguardo, si è affermato nella prassi un criterio ispiratore generale: un prodotto legittimamente commercializzato in un Paese membro deve poter essere importato e commercializzato anche negli altri Stati membri e senza intralci (principio del mutuo riconoscimento). Tali intralci, i cd. ostacoli tecnici, possono tollerarsi solo in vista della soddisfazione di esigenze imperative, relative in particolare all’efficacia dei controlli fiscali, alla protezione della salute, alla difesa dei consumatori e alla tutela dell’ambiente. B. La libera circolazione delle persone (artt. 45-55 e 66-80 TFUE) Con questa espressione si fa riferimento al diritto attribuito ai cittadini degli Stati membri di circolare e soggiornare liberamente su tutto il territorio dell’Unione, indipendentemente dall’esercizio di un’attività lavorativa. Strettamente collegata alla libera circolazione delle persone è la realizzazione di uno spazio senza frontiere interne, con l’abbattimento dei controlli tra gli Stati membri e l’aumento di quelli alle frontiere esterne. L’accordo di maggiore rilevanza è quello siglato a Schengen il 14 giugno 1985, cui l’Italia ha aderito nel 1993 applicandolo dal 26 ottobre 1997. Esso riguarda le formalità doganali per i cittadini in transito sul territorio comunitario (oggi dell’Unione). I suoi principi fondamentali sono: - libertà di attraversare i confini senza dover sottostare ad alcun controllo se non per motivi di sicurezza; - collaborazione tra forze di polizia degli Stati aderenti; - coordinamento tra gli Stati per combattere fenomeni mafiosi, di droga, immigrazione clandestina e traffico di armi; - sistema di collegamento telematico per la diffusione tra le forze di polizia di informazioni relative a persone o oggetti sospetti. Con il Trattato di Amsterdam, inoltre, è stato deciso di incorporare gli Accordi Schengen nel quadro giuridico e istituzionale dell’Unione. Importanti innovazioni nell’ambito della libera circolazione delle persone sono state introdotte dal Trattato di Maastricht, che ha attribuito a tutti i cittadini degli Stati membri la cittadinanza europea. C. La libera prestazione dei servizi (artt. 56-62 TFUE) È la possibilità garantita ai cittadini dell’Unione di prestare la propria attività in uno Stato membro diverso dal proprio alle stesse condizioni dei professionisti che vi risiedono, senza dover per questo stabilirsi nello Stato in cui la prestazione è fornita. I servizi sono le prestazioni fornite normalmente dietro retribuzione, non regolate dalle disposizioni relative alla libera circolazione delle merci, dei capitali e delle persone (art. 57 TFUE). Possono essere: - attività di carattere industriale; - attività di carattere commerciale; - attività artigiane; - attività delle libere professioni. Il prestatore di un servizio può esercitare a titolo temporaneo la sua attività in uno degli Stati membri alle stesse condizioni imposte da tale Stato ai propri cittadini. Le uniche eccezioni alla libera prestazione di servizi sono: - attività che partecipino, sia pure occasionalmente, all’esercizio di pubblici poteri; - applicazione di disposizioni legislative, regolamentari e amministrative, che prevedono un regime particolare per i non residenti e che siano giustificate da motivi di ordine pubblico, di pubblica sicurezza e di sanità pubblica. D. La libera circolazione dei capitali (artt. 63-66 TFUE) L’art. 63 TFUE vieta: - tutte le restrizioni ai movimenti di capitali tra Stati membri, nonché tra Stati membri e paesi terzi; - tutte le restrizioni sui pagamenti tra gli Stati membri, nonché tra Stati membri e paesi terzi. Risultano, dunque, contrarie a detto articolo, come anche espresso dalla Corte di giustizia dell’UE, le normative nazionali discriminatorie che vietano o sottopongono a limiti determinate operazioni caratterizzate da transnazionalità. È grazie alla direttiva 88/361/CEE che si è avuta la completa liberalizzazione dei movimenti di capitali, con la soppressione di tutti i controlli e restrizioni in materia di cambi. LE POLITICHE COMUNI La politica commerciale (artt. 206-207 TFUE) È volta all’adozione di misure uniformi applicabili in tutti gli Stati membri, che regolino gli scambi commerciali tra questi ultimi e i paesi terzi. Essa è condotta nel quadro dei principi e obiettivi dell’azione esterna dell’Unione. La competenza attribuita all’Unione in materia è esclusiva, con la conseguente perdita di autonomia negoziale da parte degli Stati membri nell’ambito di accordi e decisioni di politica commerciale e il venir meno del principio di sussidiarietà. Per la negoziazione e la conclusione di tali accordi, il Consiglio delibera a maggioranza qualificata. La politica della concorrenza (artt. 101-109 TFUE) Ha come scopo primario la creazione di un mercato, all’interno dell’Unione, dove vigano regole di libera concorrenza negli scambi commerciali tra gli Stati membri. Il TFUE contiene una serie di disposizioni in tale settore, precisamente al capo I del titolo VII, rubricato “Regole di concorrenza” e suddiviso in due sezioni: - la prima (artt. 101-106 TFUE) riguarda le regole di concorrenza applicabili alle imprese, che consistono: a) nel divieto di intese recanti pregiudizio alla concorrenza; b) nel divieto di abuso di posizione dominante; c) nella disciplina delle imprese pubbliche. - la seconda (artt. 107-109 TFUE) attiene alle regole di concorrenza applicabili agli Stati, in particolare alla disciplina di controllo sugli aiuti pubblici alle imprese. Gli obiettivi sono: contribuire a realizzare l’unicità del mercato comune a vantaggio delle imprese e dei consumatori. Ciò significa che senza la presenza di un regime di concorrenza, lo sforzo dell’Unione di abbattere qualsiasi barriera fisica, tecnica o fiscale per la realizzazione di uno spazio senza frontiere sarebbe totalmente vanificato; impedire l’abuso di potere economico, cioè non consentire che eventuali imprese sfruttino abusivamente la loro posizione economica dominante sul mercato per far cadere la regola della sana concorrenza; mettere le imprese in condizione di razionalizzare la produzione e la distribuzione, adeguandosi al progresso tecnico e scientifico. In tal modo si contribuisce ad una migliore divisione professionale e tecnica nell’ambito delle attività economiche svolte nel territorio dell’Unione e, di conseguenza, si creano le condizioni per realizzare una maggiore competitività nel mondo delle imprese appartenenti all’Unione. La politica economica e monetaria L’art. 119 TFUE prevede che per “assicurare uno sviluppo sostenibile dell’Europa basato su una crescita economica equilibrata, sulla stabilità dei prezzi e su un’economia sociale di mercato fortemente competitiva” (art. 3 TUE), l’azione degli Stati membri e dell’Unione deve perseguire una politica economica fondata sullo stretto coordinamento delle politiche economiche nazionali. Tale azione comprende una moneta unica (l’euro) e la conduzione di una politica monetaria e del cambio unica finalizzata a preservare la stabilità dei prezzi sostenendo le politiche economiche generali dell’Unione. Le disposizioni concernenti la politica economica e monetaria dell’Unione, raccolte nel titolo VIII della Parte Terza del TFUE, consistono in: - disposizioni di politica economica, che disciplinano il coordinamento delle politiche economiche nazionali al fine di raggiungere gli obiettivi dell’Unione e prevedono una rigida disciplina di controllo sulle finanze pubbliche degli Stati membri; - disposizioni di politica monetaria, che riguardano la moneta unica e affidano ad uno specifico dispositivo istituzionale (il SEBC e la BCE) la competenza esclusiva in tale materia; - disposizioni istituzionali, che disciplinano la composizione, i compiti e i poteri degli organi deputati alle politiche economica e monetaria; - disposizioni specifiche per gli Stati membri la cui moneta è l’euro, che istituiscono un regime di cooperazione speciale tra questi ultimi; - disposizioni transitorie, concernenti la disciplina applicabile ai cd. “Stati membri con deroga”, vale a dire ai paesi dell’UE che il Consiglio non ritiene soddisfare le condizioni necessarie per aderire all’euro. La definizione della politica economica è di competenza degli Stati membri, i quali devono considerare le loro politiche economiche una questione di interesse comune e, quindi, oggetto di coordinamento da parte delle istituzioni dell’Unione. Per garantire un più stretto coordinamento tra le politiche economiche nazionali e una convergenza duratura dei risultati economici degli Stati membri, l’UE ha disposto un meccanismo di sorveglianza multilaterale con cui il Consiglio effettua un costante monitoraggio delle azioni poste in essere a livello nazionale sulla base di relazioni e analisi presentate dalla Commissione, alla quale gli Stati membri comunicano le informazioni rilevanti in merito alle misure di politica economica adottate, nonché tutte le informazioni da essi ritenute necessarie. Ben più incisivi sono i poteri attribuiti alle istituzioni europee per il controllo dei bilanci pubblici: dal 1° luglio 1994, infatti, gli Stati membri devono evitare disavanzi pubblici eccessivi, potendosi attivare una procedura sanzionatoria qualora tale obbligo non sia rispettato. Per disavanzo pubblico deve intendersi la differenza negativa tra le entrate e le uscite del settore pubblico in un esercizio finanziario, riferibile sia alla differenza negativa tra entrate e uscite autorizzate sia alla differenza negativa tra le entrate effettivamente incassate e le uscite effettivamente sostenute. Nel caso in cui uno Stato membro non ottemperi alle raccomandazioni per ridurre il proprio degli interessi e della salute dei consumatori. L’azione europea si è sviluppata grazie alle nuove disposizioni dei trattati in materia di: - sanità pubblica (art. 168 TFUE), ove sono previste iniziative volte alla prevenzione e alla lotta contro la diffusione di malattie nocive per la salute umana; - tutela del consumatore (art. 169 TFUE), intesa come tutela degli interessi economici del consumatore e del suo diritto ad acquistare, nella massima trasparenza possibile, prodotti sicuri. Un settore nel quale l’Unione è particolarmente impegnata è quello della sicurezza dei prodotti alimentari, alla luce dei preoccupanti fenomeni epidemiologici di questi ultimi anni, che hanno evidenziato come la libera circolazione delle merci in ambito europeo ponga quale suo logico corollario la necessità di affrontare in modo concertato tali problematiche. CAPITOLO 21 – L’AZIONE ESTERNA DELL’UE. LA PESC Il Trattato di Lisbona ha operato una razionalizzazione delle funzioni relative alla rappresentanza e al coordinamento dell’azione esterna dell’Unione attraverso: - l’istituzione di una personalità giuridica unica dell’Unione (art. 47 TUE); - il superamento della rotazione semestrale della Presidenza del Consiglio europea ai fini della rappresentanza esterna dell’Unione in ambito PESC; - l’istituzione di un Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza; - la creazione del Servizio europeo per l’azione esterna; - l’ampliamento della politica estera di sicurezza e difesa (PESD), che viene ora denominata politica di sicurezza e difesa comune (PSDC). Di conseguenza l’Unione si adopera per sviluppare relazioni e istituire partenariati con i paesi terzi e con le organizzazioni internazionali, regionali o mondiali che condividono gli stessi principi, promuovendo soluzioni multilaterali ai problemi comuni, in particolare nell’ambito delle Nazioni Unite (art. 21 TUE). Conformemente all’art. 22 TUE, spetta al Consiglio europeo individuare gli interessi e obiettivi strategici dell’Unione sulla base di quanto disposto all’art. 21. La politica estera e di sicurezza comune (PESC) è ispirata ai medesimi principi e obiettivi sanciti dalle disposizioni generali sull’azione esterna dell’Unione; essa si fonda, in particolare: - sulla salvaguardia dei valori dell’Unione, dei suoi interessi fondamentali, della sua sicurezza, indipendenza e integrità; - sul consolidamento e sul sostegno della democrazia, dello Stato di diritto, dei diritti umani e del diritto internazionale; - sul mantenimento della pace e della sicurezza internazionale e sulla prevenzione dei conflitti. Conformemente all’art. 23 TUE la competenza dell’Unione in materia di PESC riguarda tutti i settori della politica estera e tutte le questioni relative alla sicurezza dell’Unione. Le istituzioni deputate alla gestione della PESC sono: - il Consiglio europeo, che individua gli interessi strategici dell’Unione, definisce gli orientamenti generali della PESC e adotta le decisioni necessarie; - il Consiglio, nella composizione Affari esteri, che a sua volta adotta decisioni per la definizione e la messa in opera della PESC nel rispetto degli orientamenti del Consiglio europeo; - l’Alto rappresentante, figura chiave del nuovo sistema delineato a Lisbona, che contribuisce con proposte all’elaborazione della PESC, assicura l’attuazione delle decisioni emanate dal Consiglio e dal Consiglio europeo, conduce il dialogo con i paesi terzi a nome dell’Unione ed esprime la posizione di quest’ultima nelle organizzazioni e conferenze internazionali. L’Alto rappresentante, che presiede il Consiglio “Affari esteri”, contribuisce con proposte all’elaborazione della PESC e assicura l’attuazione delle decisioni adottate dal Consiglio europeo e dal Consiglio. Nell’esercizio delle sue funzioni, egli si avvale di un Servizio europeo per l’azione esterna, che lavora in collaborazione con i servizi diplomatici degli Stati membri ed è composto da funzionari dei servizi competenti del segretariato generale del Consiglio e della Commissione, oltre che da personale distaccato dai servizi diplomatici nazionali. L’organizzazione e il funzionamento dei Servizio sono fissati da una decisione del Consiglio adottata su proposta dell’Alto rappresentante, previa consultazione del P.E. e previa approvazione della Commissione. Alla Commissione e al P.E. è attribuito un ruolo marginale: la prima garantisce insieme al Consiglio la coerenza dell’azione esterna e contribuisce all’elaborazione delle proposte da parte dell’Alto rappresentante, mentre il P.E. viene consultato e informato da quest’ultimo e può rivolgere interrogazioni o formulare raccomandazioni al Consiglio. Centrale, si rivela, invece, il ruolo degli Stati membri, che oltre ad essere rappresentati in sede di Consiglio e di Consiglio europeo, ex art. 24 TUE devono sostenere attivamente e senza riserve la politica estera e di sicurezza “in uno spirito di lealtà e di solidarietà reciproca” (cd. clausola di solidarietà sociale). L’unione conduce la PESC: - definendo gli orientamenti generali; - adottando decisioni che definiscono: a) le azioni da intraprendere; b) le posizioni da assumere; c) le modalità di attuazione di tali decisioni. - rafforzando la cooperazione sistematica tra gli Stati membri per la conduzione della loro politica. Il Comitato politico e di sicurezza (COPS), disciplinato all’art. 38 TUE, è un organo che controlla la situazione internazionale nei settori rientranti nella PESC e contribuisce a definire le politiche formulando pareri per il Consiglio, a richiesta di questo, dell’Alto rappresentante o di propria iniziativa. Esso controlla altresì, l’attuazione delle politiche concordate, fatte salve le competenze dell’Alto rappresentante. Sotto la responsabilità del Consiglio e dell’Alto rappresentante, infine, assicura il controllo politico e la direzione strategica delle operazioni di gestione delle crisi previste in ambito PESC. L’Unione può concludere accordi con uno o più Stati o organizzazioni internazionali nei settori di pertinenza della PESC (art. 37 TUE). Le spese amministrative che le istituzioni sostengono per l’attuazione della PESC sono a carico del bilancio dell’Unione; lo stesso dicasi per le spese operative, eccetto che per le spese derivanti da operazioni aventi implicazioni nel settore militare o della difesa. La politica europea di sicurezza e difesa (PESD), con la riforma introdotta dal Trattato di Lisbona, è stata rinominata politica di sicurezza e difesa comune (PSDC) e trova la sua base giuridica nel nuovo art. 42 TUE, ai sensi del quale essa costituisce parte integrante della PESC e “comprende la definizione di una difesa comune dell’Unione che condurrà ad una difesa comune quando il Consiglio europeo, deliberando all’unanimità, avrà così deciso”. Lo stesso art. 42 specifica che la PSDC “assicura che l’Unione disponga di una capacità operativa ricorrendo a mezzi civili e militari. L’Unione può avvalersi di tali mezzi in missioni al suo esterno per garantire il mantenimento della pace, la prevenzione dei conflitti e il rafforzamento della sicurezza internazionale, conformemente ai principi della Carta delle Nazioni Unite. L’esecuzione di tali compiti si basa sulle capacità fornite dagli Stati membri. Peculiare della PSDC è il fatto di continuare ad essere governata dal principio dell’unanimità; le decisioni in quest’ambito, infatti, comprese quelle inerenti all’avvio di una missione, devono essere adottate dal Consiglio con voto unanime, su proposta dell’Alto rappresentante o su iniziativa di uno Stato membro. La rigidità di tale sistema è mitigata dalla previsione dell’art. 46 TUE, secondo cui i paesi membri che rispondono a criteri più elevati in termini di capacità militare e che relativamente ad essa hanno sottoscritto impegni vincolanti possono instaurare una cooperazione strutturata permanente. Quest’ultima rappresenta una forma di integrazione differenziata introdotta dal Trattato di Lisbona in seno alla PSDC per favorire lo sviluppo delle capacità militari europee di gestione delle crisi. Al fine di dare avvio ad una cooperazione di questo tipo, i paesi che rispondono ai requisiti devono notificare la loro intenzione al Consiglio e all’Alto rappresentante. Entro 3 mesi dalla notifica, il Consiglio adotta, a maggioranza qualificata e dopo aver consultato l’Alto rappresentante, una decisione che istituisce la cooperazione strutturata permanete e fissa l’elenco degli Stati membri partecipanti (art. 46 TUE). Un’ulteriore novità introdotta dal Trattato di Lisbona nel settore della PSDC è costituita dalla clausola di mutua assistenza (art. 42, par.7 TUE); essa prevede che, qualora uno Stato membro subisca un’aggressione armata nel proprio territorio, gli altri sono tenuti a prestargli aiuto e assistenza con tutti i mezzi il loro possesso, in conformità all’art. 51 della Carta delle Nazioni Unite. Conformemente all’art. 47 TUE, che conferisce all’Unione personalità giuridica, l’Unione può stipulare accordi con Stati terzi e altre organizzazioni, in particolare per la realizzazione di un obiettivo dell’Unione e per istituire un’associazione caratterizzata da diritti e obblighi reciproci, azioni in comune e procedure particolari. La procedura presenta le seguenti fasi: - la Commissione o l’Alto rappresentante presenta raccomandazioni al Consiglio. Non si tratta di raccomandazioni rientranti fra gli atti tipici dell’Unione, bensì di comunicazioni dirette al Consiglio in merito alla necessità o alla possibilità di concludere un accordo; - il Consiglio autorizza l’avvio dei negoziati, e designa, in funzione della materia dell’accordo previsto, il negoziatore o il capo della squadra di negoziato dell’Unione; - il Consiglio, su proposta del negoziatore, adotta una decisione che autorizza la firma dell’accordo e, se del caso, la sua applicazione provvisoria prima dell’entrata in vigore. Sempre mediante decisione, procede alla conclusione dell’accordo stesso. Ulteriore novità di rilievo introdotta nel nuovo TFUE è la clausola di solidarietà, che abbraccia quella situazioni in cui uno Stato membro sia oggetto di un attacco terroristico ovvero sia vittima di una calamità naturale o provocata dall’uomo (art. 222 TFUE). Le modalità di attuazione sono definite da una decisione adottata dal Consiglio, su proposta congiunta della Commissione e dell’Alto rappresentante.