Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

Riassunto Unione Europea 2020, Dispense di Diritto dell'Unione Europea

Libro parte speciale - Unione Europea 2020. I dodici mesi che hanno segnato l'integrazione europea.

Tipologia: Dispense

2019/2020

Caricato il 29/08/2023

arianna-valente-5
arianna-valente-5 🇮🇹

5

(3)

1 documento

Anteprima parziale del testo

Scarica Riassunto Unione Europea 2020 e più Dispense in PDF di Diritto dell'Unione Europea solo su Docsity! 1 UNIONE EUROPEA 2020 – I 12 MESI CHE HANNO SEGNALO L’INTEGRAZIONE EUROPEA CAPITOLO 1 – BREXIT E OLTRE 1. Brexit: una novità senza precedenti Al 31 gennaio 2020 si è consumato il primo recesso dall’Unione Europea. Il recesso del Regno Unito sfata il mito dell’irreversibilità del processo di integrazione europea. Un mito che aveva già subito un duro colpo con l’inserimento, a seguito dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, della previsione espressa del diritto di recesso unilaterale dall’Unione Europea in capo agli Stati membri nell’art. 50 TUE. Tale inserimento sancisce il formale riconoscimento di un diritto de facto già esistente, con l’aggiunta di alcune specifiche previsioni che ne regolano l’esercizio in concreto. Il lungo e tormentato percorso che ha segnato il recesso del Regno Unito dall’Unione europea porta, però, chiara testimonianza, da un lato, delle conseguenze dell’assenza di precedenti a cui rifarsi e, dall’altra lato, delle indubbie e cospicue complicazioni giuridiche, economiche e sociali che lo scioglimento di un tale vincolo comporta in assoluto. L’iter di ricesso, come oramai ampiamente noto, ha preso avvio a seguito degli esiti del referendum svolto il 23 giugno 2016 ed è stato costellato di incertezze e imprevisti, sia sul versante interno sia su quello dei rapporti con l’Unione europea, fino al suo perfezionamento finale, coinciso con l’ultimo giorno del 2020. Sul versante interno perché contraddistinto dalle dimissioni immediate del Premier in carica David Cameron, a seguito del risultato del referendum, di quelle successive di Theresa May, dopo due anni di infruttuosi tentativi di trovare una soluzione di compromesso per darvi seguito e, infine, del risolutivo subentro di Boris Johnson, per portarne a compimento le conseguenze. Sul versante dei negoziati con l’Unione europea sono note le difficoltà e i rinvii che si sono prodotti fino al raggiungimento, prima, dell’Accordo sul recesso e, poi, all’ultimo momento, dell’Accordo sugli scambi commerciali e la cooperazione, quest’ultimo in vigore, in forma provvisoria, a fare data dal 1° gennaio 2021. 2. La capitale differenza tra recesso e secessione e il ruolo dell’art. 50 TUE L’esistenza nel TUE di una clausola espressa di recesso unitamente al suo effettivo impiego nel caso della Brexit confermano la natura internazionale, piuttosto che costituzionale, del vincolo contratto dagli Stati membri entrando a fare parte dell’Unione europea. Il disposto dell’art. 50(1) TUE è lapidario e sancisce, in modo inequivocabile, un diritto unilaterale al recesso in capo ad ogni Stato membro. Recesso ad nutum sia pure come ultima ratio, ma pur sempre svincolato da una circostanza specifica o da un particolare accadimento ovvero dalla necessità inderogabile di un preventivo accordo. Ne deriva che mentre l’ingresso nell’Unione Europea consegue a un atto volontario dello Stato richiedente, ma condizionato al consenso di tutti gli Stati già membri dell’Unione, il permanere del vincolo di appartenenza di ogni Stato membro all’Unione ha natura completamente volontaria e può venire meno a seguito di una determinazione unilaterale. L’unico vincolo al diritto unilaterale di recesso attiene al suo esercizio che deve avvenire conformemente alle norme costituzionali dello Stato recedente. Tale inciso, per non apparire completamente superfluo, implica che l’Unione europea debba vigilare a che la formazione della volontà di recesso maturi in modo assolutamente legittimo anche alla stregua dell’ordinamento costituzionale dello Stato recedente. Da quanto brevemente riportato i può cogliere la netta differenza tra il recesso e la secessione. Quest’ultima si determina quando la popolazione di una porzione del territorio di uno Stato decide di rompere il pactum unionis dotato, in principio, dei caratteri dell’assolutezza e perpetuità, e, dichiarando l’indipendenza, entra a far parte, come soggetto autonomo, della Comunità internazionale. È significativo che tale possibilità non solo non compaia nelle costituzioni scritte degli Stati ma, al contrario, si trovi in esse espresso, in modo inequivocabile, il principio dell’unità e dell’indissolubilità dello Stato. 3. L’accordo sul recesso L’accordo che sancisce il recesso formale del Regno Unito dall’UE è quello sottoscritto il 18 ottobre 2019 a seguito del travagliato iter, in precedenza evocato, di cui all’art. 50 TUE. Si è trattato di un recesso politico a 2 cui è seguito, a partire dal primo febbraio 2020, un periodo di 11 mesi di regime economico e giuridico transitorio. Il 1° gennaio 2021 con l’entrata in vigore, sebbene ancora con modalità provvisoria, dell’Accordo sugli scambi commerciali e la cooperazione (ASCC), il recesso è stato anche economico e commerciale. L’Accordo sul recesso è composto da 185 articoli, tre Protocolli e 9 Allegati, questi ultimi incentrati su vari aspetti, per lo più procedurali, conseguenti al recesso. L’impianto complessivo dell’Accordo sul recesso, benché inevitabilmente complesso ed eterogeneo, conserva una sua coerenza d’insieme probabilmente anche perché non affronta i temi economici e commerciali demandati, come si è anticipato, a un successivo accordo ad hoc. L’Accordo sul recesso ha avuto anche lo scopo, sotto tale profilo raggiunto, di consentire, tramite la previsione di un periodo transitorio di 11 mesi, lo svolgimento degli opportuni negoziati sulle future relazioni commerciali, congelando, nel frattempo, lo status quo e scongiurando, di conseguenza, il temuto scenario no deal, noto anche come hard brexit. Il negoziato che ne ha preceduto la sottoscrizione si è svolto in modo trasparente, inaugurando, forse, una nuova fase di approccio ai negoziati internazionali da parte della Commissione europea, la quale era stata oggetto in passato di critiche particolarmente aspre proprio in relazione a tale aspetto. Nell’Accordo sul recesso si è affrontata, ed è questo uno degli aspetti più rilevanti del suo contenuto, la delicata questione del destino degli oltre 4 milioni di cittadini dell’UE residenti nel UK e dei circa 850.000 cittadini britannici residenti negli stati membri, specialmente in spagna, Francia, Irlanda, Germania, paesi bassi e Italia. L’Accordo sul recesso garantisce, in linea di massima e per l’arco della loro vita, a questi cittadini e ai loro familiari, gli stessi diritti di cui disponevano prima del recesso (diritti quesiti). L’Accordo sul recesso tutela, in particolare, i minori, siano essi nati prima o dopo il recesso del Regno Unito dall’UE. Il meccanismo che dovrebbe garantire tali diritti è quello del regime di residenza permanente che i cittadini dell’UE interessati e con i prescritti requisiti di pregressa residenza debbono richiedere tassativamente entro il 30 giugno 2021. Il regime di residenza permanente sarà supervisionato da un’autorità di monitoraggio indipendente nel Regno Unito, che gestirà le denunce dei cittadini dell’UE e dei loro familiari in merito a presunte violazioni dei loro diritti derivanti dall’Accordo sul recesso e riferirà alle istituzioni miste Unione europea- Regno Unito incaricate della vigilanza sull’applicazione dello stesso. Di grande rilievo appare la circostanza che i diritti sanciti nell’Accordo sul recesso possano essere fatti valere, per espressa previsione di quest’ultimo, direttamente dai cittadini dell’Unione europea dinanzi ai giudici britannici e dai cittadini del Regno Unito dinanzi ai giudici competenti degli stati membri. I giudici nazionali potranno disapplicare le disposizioni del diritto nazionale difformi rispetto alle prescrizioni dell’Accordo sul recesso. Inoltre, ma solo per 8 anni a partire dal 31 dicembre 2020, i giudici del Regno unito potranno chiedere alla Corte di Giustizia dell’UE una pronuncia in via pregiudiziale circa l’interpretazione della parte dell’Accordo sul recesso relativa ai diritti ai cittadini. 4. L’Accordo sugli scambi commerciali e la cooperazione e le conseguenze di un compromesso Il negoziato in vista del raggiungimento dell’ASCC è stato avviato sulla base della Dichiarazione politica che definisce il quadro delle future relazioni tra l’Unione europea e il Regno Unito del 12 novembre del 2019 ed è entrato in vigore, in forma provvisoria, il 1° gennaio 2021. L’ASCC ha risentito considerevolmente degli effetti di un negoziato complesso. Il risultato è un testo che difetta di coerenza e chiarezza e, di conseguenza, potrà generare contrapposizioni interpretative rispetto al suo contenuto. Ciò che impressiona e preoccupa maggiormente è la complessità di regolazione di una pluralità di settori che pure non esauriscono del tutto la materia. Appare, a quest’ultimo proposito, particolarmente rilevante l’assenza di disciplina in ordine ai servizi finanziari, vero e proprio core business della City di Londra. L’ASCC può essere qualificato come accordo di associazione. Quest’ultimo costituisce l’evoluzione del tradizionale accordo di libero scambio che l’Unione europea conclude con i suoi principali partner commerciali. L’accordo di associazione ha l’ambizione, rispetto al tradizionale accordo di libero scambio, di impostare le rispettive relazioni commerciali in modo completo e, soprattutto, stabile, creando le condizioni di un’estensione, il più possibile ampia e coerente, degli effetti delle regole e delle libertà del Mercato unico nei territori dello Stato associato. L’ASCC ha, comunque, un tratto del tutto peculiare in quanto costituisce una prima volta di accordo commerciale che anziché accrescere e/o rafforzare il regime di libertà vigente tra le parti contraenti lo ridisegna in termini più restrittivi e limitati. 5 Durante i negoziati per il recesso del regno unito è stato chiaro fin dall’inizio che la questione di Gibilterra sarebbe stata risolta bilateralmente tra il UK e la spagna e così è stato. Sebbene all’Accordo sul recesso sia stato allegato un apposito protocollo dedicato a Gibilterra, la questione del futuro regime doganale di Gibilterra è rimasta in sospeso e ha trovato soluzione separatamente e dopo che è stato raggiunto un accordo tra il regno unito e l’UE sulle reciproche future relazioni commerciali. L’aspetto di maggiore preoccupazione ha riguardato il destino di circa 12 mila transfrontalieri che, provenendo dalle località andaluse, attraversano giornalmente i confini di Gibilterra. L’accordo raggiunto prevede la collocazione del territorio di Gibilterra nell’area Schengen con effetti piuttosto paradossali, visto che la Spagna ne è parte mentre il UK no. Ancora una volta, dunque, la frontiera, per quanto riguarda i controlli, arretra verso il UK: nessun controllo alla frontiera con la Spagna e invece controlli su chi arriva dal UK nel porto e nell’aeroporto di Gibilterra e dalla Rocca nei porti e negli aeroporti britannici. La seconda questione territoriale sollevata dal recesso riguarda le basi militari britanniche della Royal air force sul territorio di Cipro. Akrotiri e Dhekelia sono due enclave territoriali rimaste sotto la corona britannica con lo status di territorio d’oltremare britannico in base ai trattati di Londra e Zurigo del 1959 sottoscritti dai governi di UK, Regno di Grecia e Turchia in vista dell’istituzione dello stato indipendente di Cipro. Sebbene sottratto alla maggior parte delle regole dell’UE a tali territori trovano applicazione, come conseguenza dell’apposito Protocollo annesso all’Accordo di adesione di Cipro all’UE, talune disposizioni dei trattati istitutivi e delle norme di diritto derivato relative ai settori delle dogane, dell’agricoltura e della pesca. Abbastanza curiosamente nei territori in questione viene utilizzato l’euro dopo l’ingresso di Cipro nell’area euro a partire dal 2008 e il conseguente abbandono della lira cipriota. Un apposito Protocollo collegato all’Accordo sul recesso del Regno unito prevede il riconoscimento dei diritti in capo ai cittadini ciprioti di residenza e transito senza aggravi burocratici. Come per il caso di Gibilterra, la sistemazione definitiva dei molteplici aspetti contemplati nel Protocollo è rimessa a successive intese tra il Regno unito e Cipro. Le basi di Akrotiri e Dhekelia sono considerate troppo importanti e strategiche per gli interessi militari del UK in quell’area per immaginare che il territorio che le ospita passi sotto la sovranità di Cipro. Già all’esito del referendum del giugno 2016, quando il 62% dei voti scozzesi furono espressi to remain, è apparso chiaro che la Scozia avrebbe preso in considerazione ogni mezzo legale per rimanere nell’UE. Non vi è dubbio, però, che dal 1° gennaio 2021 le aspirazioni della Scozia potrebbero trovare attuazione molto più difficilmente. Solo il preventivo perfezionarsi della secessione dal UK consentirebbe, infatti, alla Scozia di avanzare domanda di ingresso nell’UE. 7. L’effetto emulativo e quello dissuasivo prodotti dalla Brexit: quale prevarrà nel futuro dell’Unione europea? Prima ancora di domandarsi se l’esempio del UK troverà emuli tra gli stati membri, possiamo chiederci a quali conseguenze andrebbero incontro i sudditi di sua maestà qualora maturassero la volontà di tornare a fare parte dell’Unione europea. L’ultimo comma dell’art. 50 TUE contempla l’eventualità di una sorta di ripensamento da parte dello Stato receduto e che chiede di tornare a fare parte dell’Unione. In tale eventualità, lo stato in questione dovrà affrontare, ex novo, un procedimento di ammissione esattamente come la precedente volta. All’indomani del referendum del 2016 non sono mancate le previsioni che la strada intrapresa dal regno unito sarebbe stata presto percorsa da altri stati membri. Questo scenario in uscita ha contemplato anche l’Italia, stato fondatore e tradizionalmente schierato a favore dell’integrazione europea. È stata altresì ipotizzata, limitatamente agli Stati dell’aerea dell’euro, la tentazione di porre fine alla propria partecipazione alla moneta unica, pur rimanendo nell’ambito dell’Unione europea. Le tentazioni, sorte nell’immediatezza dell’esito del referendum svolto nel UK, si sono progressivamente sopite e al momento dissolte. Il rinnovo delle cariche istituzionali dell’UE e della composizione del parlamento europeo, unitamente al ricambio dei vertici di non pochi governi nazionali hanno conferito nuova linfa al partito del cambiamento e delle riforme dei trattati istitutivi piuttosto che a quello del recesso e dell’isolamento. Lo tsunami conseguente al diffondersi in Europa del COVID-19 nel corso del 2020 ha fatto il resto, mettendo in evidenza come le ragioni della solidarietà dello stare insieme prevalgano di gran lunga rispetto al perseguimento degli interessi nazionali. L’evoluzione delle future relazioni tra UE e il Regno unito è difficile da pronosticare. 6 Un segnale importante rispetto alla direzione che prenderanno le relazioni commerciali tra l’UE e il regno unito si potrà ricavare dalla celerità con la quale saranno avviati i negoziati per disciplinare le materie, a cominciare da quella dei servizi finanziari, rimaste fuori dall’ASCC. CAPITOLO 2 – LA RISPOSTA EUROPEA ALL’EMERGENZA DA COVID-19 1. Introduzione Il 26 febbraio 2020 l’Italia fortemente colpita dal covid ha richiesto assistenza agli altri stati membri dell’UE. È cominciata così l’emergenza da covid, cui l’UE ha dovuto far fronte per tutto il 2020. In quest’anno, l’UE e i suoi stati membri si sono trovati per la prima volta a dover affrontare un’emergenza che colpiva tutta l’Europa, seppure con modalità e tempistiche diverse. L’UE era attrezzata solo parzialmente per far fronte all’epidemia. Non soltanto le risorse disponibili, come le mascherine, erano insufficienti. Ma l’UE aveva ed ha tuttora competenze limitate nei settori più toccati dall’emergenza, cioè sanità pubblica e protezione civile. A dispetto della limitatezza dei suoi poteri, l’UE ha sviluppato vari strumenti che le consentono di contribuire alla risposta alle epidemie. L’UE coordina, sin dal 2001, l’assistenza di protezione civile tra gli stati membri, attraverso il Meccanismo comunitario di protezione civile. L’epidemia di covid è stata la prima emergenza ad aver minacciato seriamente tutti gli stati membri. In tale contesto emergenziale, ci si sarebbe potuti attendere che gli stati membri e le istituzioni dell’UE condividessero in modo solidale oneri e responsabilità. Per solidarietà si intende la condivisione tra gli stati membri e le istituzioni degli oneri derivanti dagli scenari emergenziali cui questi devono fare fronte. Ai fini del presente contributo, la solidarietà è intesa come valore e obiettivo dell’UE, cui l’azione degli stati membri e delle istituzioni dell’UE dovrebbe mirare, anche ai sensi degli artt. 2 e 3 TUE. 2. La richiesta di assistenza da parte dell’Italia Il governo ha dichiarato lo stato di emergenza il 31 gennaio 2020, ma già il 26 febbraio i contagiati accertati in Italia erano quasi 400. Particolare preoccupazione ha destato la scarsità di dispositivi di protezione personale, specialmente di mascherine filtranti. Per rimediare alla scarsità domestica, il 26 febbraio 2020 il governo italiano, nel quadro del Meccanismo unionale di protezione civile, ha inviato una richiesta di assistenza alla Commissione per 10 milioni di mascherine filtranti, che l’ha inoltrata agli altri Stati membri. La richiesta italiana rientra sicuramente nell’oggetto del meccanismo unionale di protezione civile, che riguarda la gestione delle catastrofi, ovverosia qualsiasi situazione che abbia o possa avere conseguenze gravi sulle persone, l’ambiente o i beni, compreso il patrimonio culturale. Se il governo italiano ha discrezionalmente deciso di attivare il Meccanismo unionale di protezione civile, ha anche scelto di non invocare la “Clausola di solidarietà”, di cui all’art. 222 TFUE. Questa disposizione impone sia all’UE che agli stati membri di adottare le misure necessarie per fornire assistenza agli Stati membri affetti da disastri naturali o causati dall’uomo, a condizione che questi ne facciano richiesta. L’invocazione della clausola di solidarietà sarebbe stata difficoltosa. Sebbene il TFUE non subordini l’invocazione della clausola a particolari condizioni, il diritto derivato precisa che uno stato membro possa invocare la clausola soltanto laddove la catastrofe oltrepassi chiaramente le capacità di risposta di cui dispone. Per giustificare l’invocazione della clausola, il governo italiano avrebbe dovuto dimostrare l’incapacità di gestire la crisi (cosa non agevole) e, soprattutto, certificare di fatto la propria impreparazione, ciò che avrebbe avuto ripercussioni politiche ovvie. Non è un caso che la clausola di solidarietà, introdotta col Trattato di Lisbona, non sia mai stata invocata da alcuno stato membro. La richiesta di assistenza italiana era ambiziosa. Era forse prevedibile che gli altri stati membri difficilmente si sarebbero privati di 10 milioni di mascherine all’inizio di una pandemia – cosa che puntualmente non hanno fatto. 7 3. Il tardivo invio di assistenza all’Italia Così come la richiesta di aiuto è un atto discrezionale, anche l’offerta del medesimo è oggetto di una mera facoltà da parte degli Stati membri richiesti. Questi sono tenuti soltanto a decidere in tempi rapidi se sono in grado di soddisfare la richiesta e a informare lo Stato membro richiedente della loro decisione. La risposta di uno Stato membro può dunque essere negativa, e non deve essere motivata. La crescita esponenziale dei contagi, e la sempre più palese insufficienza delle risorse disponibili in Italia, indicavano la necessità di un intervento rapido da parte degli altri stati membri, che non si è però materializzato. Ancora il 10 marzo 2020, il Rappresentante permanente dell’Italia presso l’Unione europea lamentava pubblicamente come “not a single EU country responded to the Commission’s call. Only China responded bilaterally. Certainly, this is not a good sign of European solidarity”. Una più attenta analisi, però, rivela come gli stati membri non abbiano inviato all’Italia nemmeno aiuti simbolici. Già il 12 marzo 2020, ad esempio, la Cina ha inviato all’Italia personale sanitario e 31 tonnellate di materiale, tra cui dispositivi di protezione personale. Poco dopo, la Russia ha fornito all’Italia dispositivi di protezione individuale e un contingente di più di 80 persone, tra cui 32 operatori sanitari. Di seguito è stata fornita assistenza, fra gli altri, da Albania, Cuba, Stati Uniti e Ucraina. V’era, insomma, da aspettarsi che alcuni paesi terzi, amici o ostili, sfruttassero l’occasione per migliorare la propria immagine. L’inazione degli Stati membri ha peraltro offerto un’occasione ai paesi terzi per enfatizzare la propria generosità, comparandola alla mancanza di solidarietà nell’UE. Il primo stato membro a prestare assistenza è stata la Germania che, il 19 marzo 2020, ha inviato in Italia 7,5 tonnellate di materiale. A questo carico ne avrebbero fatti seguito altri nelle settimane seguenti. Alcuni stato membri hanno poi accolto pazienti italiani. A marzo 2020, peraltro, l’Italia ha attivato nuovamente il meccanismo unionale di protezione civile, chiedendo del personale medico. La richiesta stavolta è stata esaudita. In alcuni casi, gli stati membri offerenti hanno risposto alla richiesta dell’Italia in via bilaterale. Forse proprio perché forniti informalmente e in modo non coordinato, gli aiuti inviati dagli stati membri all’Italia sono risultati divisi in numerosi rivoli, giunti in momenti diversi, e diluiti su un periodo relativamente lungo e cioè fra il 19 marzo e il 5 maggio 2020. Ciò ha probabilmente contribuito a ridurre la visibilità dell’assistenza degli Stati membri, diversamente dall’assistenza fornita in blocco, e con grande fanfara, da Russia e Cina. 4. I divieti all’esportazione di dispositivi di protezione individuale L’aumento globale della domanda per i dispositivi di protezione individuale, nei primi mesi del 2020, ha portato all’aumento dei prezzi e a una forte competizione fra gli stati. La situazione è diventata critica quando gli stati membri e gli altri paesi europei si sono resi conto dell’ormai inevitabile diffusione del covid nel continente. Vari stati membri dell’UE hanno reagito vietando l’esportazione di dispositivi di protezione personale e ventilatori per le terapie intensive. La Germania e la repubblica ceca, in particolare, hanno vietato l’esportazione di mascherine filtranti già il 4 marzo 2020. Il governo francese ha prima vietato l’esportazione delle mascherine e poi, il 13 marzo, ne ha decretato la requisizione. Come rilevato dalla Commissione, queste azioni hanno reintrodotto frontiere interne in un frangente in cui la solidarietà tra stati membri era più necessaria che mai. Gli effetti negativi delle misure adottate sono stati moltiplicati dal fatto che la produzione di dispositivi di protezione individuale era concentrata al di fuori dell’UE e che alcuni stati membri che hanno introdotto restrizioni hanno una posizione centrale nell’importazione e distribuzione di tali dispositivi. È così accaduto, ad esempio, che la repubblica ceca abbia requisito un carico di mascherine inviate dalla Cina all’Italia, che transitavano in un aeroporto ceco. Allo stesso modo, la Germania ha bloccato per due settimane un lotto di mascherine acquistato in Cina da un’azienda italiana. Questa prassi pare incompatibile con il diritto dell’UE. Il punto merita alcuni chiarimenti che ripercorrono lo schema tipico del c.d. test di proporzionalità delle restrizioni alle libertà economiche fondamentali. Secondo la Corte di giustizia, l’approvvigionamento stabile di uno stato membro a fini medici essenziali può giustificare una restrizione agli scambi tra gli stati membri, laddove tale scopo sia riconducibile alla tutela della salute e della vita delle persone. I divieti all’esportazione di mascherine filtranti introdotti dagli stati membri nel marzo 2020 potrebbero dunque astrattamente rientrare fra le restrizioni quantitativamente compatibili con il diritto dell’UE. 10 Gli Accordi di acquisto anticipato negoziati dalla Commissione sono stati comunque criticati, per due ragioni principali. In primo luogo, essi sarebbero stati conclusi in modo poco trasparente. Secondo la Commissione, gli Accordi di acquisto anticipato non possono essere divulgati per intero perché conterrebbero elementi commercialmente sensibili; se divulgati, tali elementi potrebbero asseritamente svelare la strategia negoziale della Commissione nonché informazioni commerciali ad eventuali concorrenti delle società farmaceutiche coinvolte. Ai sensi del Reg. n.1049/2001, la tutela degli interessi commerciali potrebbe invero giustificare il rifiuto di rendere pubblico un documento. La riservatezza della Commissione pare però eccessiva. Il Reg. n.1049/2001 prevede che, in presenza di rischi per interessi commerciali, la divulgazione dei documenti debba comunque avvenire laddove vi sia un interesse pubblico prevalente alla divulgazione. Nel valutare l’esistenza di tale interesse, le istituzioni devono ponderare gli interessi in gioco, particolarmente in relazioni a documenti con incidenza sui diritti fondamentali. Il secondo aspetto problematico degli Accordi di acquisto anticipato riguarda la loro idoneità ad assicurare una fornitura tempestiva di vaccini nell’UE. Questi Accordi prevedono un piano di consegna, con precise quantità di vaccini da consegnare entro date specifiche. Gli obblighi di consegna potrebbero sembrare poco stringenti, giacche alcuni Accordi di acquisto anticipato affermano che le società farmaceutiche dovrebbero fare il loro ragionevole miglior sforzo per consegnare le quantità pattuite di vaccino entro le date precisate. Si può quindi ipotizzare che l’obbligo di ragionevole miglior sforzo consentirebbe ad AstraZeneca di ridurre le consegne per via di oggettive difficoltà, giustificate alla luce della sua dimensione e delle sue risorse. Non sembrerebbe invece consentito un ritardo arbitrario nella consegna, oppure un ritardo funzionale ad approvvigionare in maniera preferenziale un altro soggetto con cui AstraZeneca abbia concluso un contratto. 8.Conclusione La risposta all’emergenza sanitaria causata dall’epidemia di Covid del 2020 mette in luce i limiti dell’Unione europea nella risposta alle emergenze, ma anche le sue potenzialità. Nell’immediato, la reazione degli stati membri al covid è stata piuttosto sconfortante. Nel 2020, il meccanismo unionale di protezione civile è stato a lungo inutile, non tanto perché gli stati membri non potessero aiutarsi l’un l’altro, ma perché i governi nazionali non volevano inviare all’estero alcun aiuto, nemmeno il più irrisorio, pur di compiacere la propria opinione pubblica. Nel marzo 2020, gli stati membri hanno adottato misure particolarmente restrittive in modo arbitrario, senza incontrare particolari ostacoli. Se dovessero verificarsi altre simili, o peggiori, catastrofi in futuro, v’è da chiedersi fino a che punto gli stati membri sarebbero proni a dare applicazione al diritto dell’UE. Il funzionamento di rescEU, in particolare, dipende dalla cooperazione tra la Commissione e gli stati membri che ospitano le riserve. In un contesto emergenziale, gli stati membri ospiti potrebbero essere tentati di appropriarsi illecitamente del materiale rescEU per utilizzarlo a scopi domestici. Nel corso del 2020, ad ogni modo, l’UE ha anche mostrato il suo potenziale nella gestione delle emergenze. Attraverso un’interpretazione generosa delle proprie competenze, l’UE ha creato strumenti che le consentono di influire in maniera abbastanza efficace in questo settore. Non solo la commissione coordina gli stati membri, attraverso il meccanismo unionale di protezione civile e l’aggiudicazione congiunta di materiale sanitario, ma mobiliti essa stessa i mezzi di risposta contenuti in rescEU. E, soprattutto, la Commissione è riuscita a coordinare l’acquisto dei vaccini contro il covid, evitando divisioni tra gli stati membri e rafforzando la posizione negoziale dell’Unione nei confronti delle società farmaceutiche. CAPITOLO 3 – L’ASSISTENZA SANITARIA TRANSFROTALIERA ALLA PROVA DELLA PANDEMIA 1. Premessa La protezione della salute pubblica è per definizione una questione di interesse comune, ma rimane una responsabilità nazionale. Il covid ha reso evidenti i limiti che discendono dalla ripartizione di competenze 11 operata dal Trattato di Lisbona e impone di individuare, almeno in prospettiva, possibili soluzioni ai problemi concreti emersi durante la pandemia. La ridotta capacità di intervento delle istituzioni dell’UE in materia di assistenza sanitaria, invero, non ha impedito l’affermarsi di linee di azioni condivise e coordinate capaci di evitare la disintegrazione del mercato comune e salvare vite umane. Si tratta ora di riflettere, alla luce delle problematiche affrontate durante la crisi e delle nuove priorità politiche, sulle potenzialità che è in grado di esprimere il sistema attuale e sui possibili miglioramenti da un punto di vista normativo e applicativo una volta rientrata l’emergenza. 2. Brevi cenni sulle competenze dell’UE in materia di salute e sulla resilienza dei sistemi sanitari nazionali in caso di pandemia La reazione dell’UE al covid deve essere valutata alla luce dell’impianto istituzionale e legislativo vigenti nel momento della prima ondata. Ciò implica, innanzitutto, una succinta disamina delle competenze dell’Unione europea in materia di salute pubblica, lotta alle gravi minacce di carattere transfrontaliero e risposta alle calamità naturali o provocate dall’uomo. In base ai trattati, gli stati membri rimangono responsabili per la definizione della loro politica sanitaria e per l’organizzazione e la fornitura di servizi sanitari e di assistenza medica. I problemi comuni di sicurezza in materia di sanità pubblica rientrano tra le competenze concorrenti dell’Unione europea e degli stati membri, ma solo per quanto attiene alla definizione dei livelli di qualità e sicurezza di organi e sostanze di origine umana, del sangue e degli emoderivati, dei medicinali e dei dispositivi medici. Al di fuori di questi aspetti, l’UE può unicamente svolgere azioni intese a sostenere, coordinare o completare l’azione degli Stati membri. L’Unione europea, quindi, interviene per favorire la cooperazione tra gli Stati membri nel settore della salute pubblica. A tal riguardo, è utile distinguere due piani di intervento. Il primo, di più ampio respiro, ricomprende lo stimolo alla ricerca sulle cause, la propagazione e la prevenzione dei grandi flagelli come il covid, l’informazione e l’educazione in materia sanitaria, essenziale nella fase della vaccinazione di massa, e il supporto nel coordinamento delle politiche nazionali e dei programmi di prevenzione. In stretto contatto con le autorità competenti degli stati membri, la Commissione può, in particolare, intraprendere iniziative finalizzate alla definizione di orientamenti e indicatori, all’organizzazione di scambi delle migliori pratiche e alla preparazione di elementi necessari per il controllo e la valutazione periodici informandone pienamente il Parlamento europeo. Il secondo livello di intervento, territorialmente circoscritto, riguarda l’incoraggiamento e l’appoggio all’azione degli stati membri “per migliorare la complementarietà dei loro servizi sanitari nelle regioni di frontiera”. Tramite programmi dedicati dell’Unione europea, è stato possibile realizzare forme virtuose di collaborazione transfrontaliera, che consentono economie di scala e un accesso più razionale a servizi sanitari di qualità. In presenza di una calamità naturale, gli stati membri e l’UE sono tenuti ad agire congiuntamente in uno spirito di solidarietà: per un verso, sarà possibile prestare assistenza alle autorità nazionali che ne facciano richiesta mobilitando tutti gli strumenti a disposizione; per l’altro verso, il Consiglio può decidere “le misure adeguate alla situazione economica, in particolare qualora sorgano gravi difficoltà nell’approvvigionamento di determinati prodotti”. Nonostante le politiche economiche restino saldamente nelle mani degli Stati membri, a partire dal 2011 gli investimenti in salute sono oggetto di specifica attenzione nell’ambito del semestre europeo. Più di recente, invece, l’attenzione si è concentrata sulla disponibilità e qualità dei servizi sanitari, con un focus particolare su resilienza, digitalizzazione e formazione professionale. 3. L’assistenza sanitaria come valore e come parte integrante del mercato interno Il diritto all’assistenza sanitaria senza discriminazioni viene affermato come diritto fondamentale da diversi strumenti internazionali, a carattere universale e regionale: il Patto internazionale relativo ai diritti economici sociali e culturali lo annovera tra le core obligations delle parti contraenti; la Dichiarazione di Alma-Ata lo identifica come la chiave di volta per assicurare un’esistenza socialmente ed economicamente produttiva; e nell’ambito della Carta sociale europea esso viene ritenuto un presupposto essenziale per la tutela della dignità umana, tanto da dover essere esteso anche agli stranieri, indipendentemente dalla regolarità del soggiorno. A livello di UE, il diritto di ottenere cure mediche è proclamato dalla Carta di diritti fondamentali dell’UE (CDFUE) e l’assistenza sanitaria è stata inclusa tra i 20 principi del Pilastro europeo dei diritti sociali. 12 Ora, se la lotta contro le gravi minacce transfrontaliere figura tra le competenze di sostegno, occorre ricordare che la circolazione dei dispositivi di protezione personale e del materiale medico e la prestazione e ricezione dei servizi sanitari rientrano tra le competenze concorrenti, di tal guisa che alcuni aspetti strettamente connessi all’assistenza medica sono già stati oggetto di misure di normalizzazione, armonizzazione e coordinamento. Alcune delle soluzioni individuate dalla Commissione negli innumerevoli atti di soft law emanati nel 2020 sono destinate a rimanere emergenziali, altre possono essere incorporate del diritto vigente. Questo vale specialmente per il regime applicabile alla libera circolazione dei professionisti sanitati e per gli strumenti di sanità elettronica. Il sistema di riconoscimento automatico riservato a infermieri responsabili dell’assistenza generale, ostetrici, dottori, dentisti e farmacisti sulla base di un coordinamento dei percorsi formativi seguiti a livello nazionale presenta ancora importanti criticità in relazione alle formalità amministrative richieste e ai tempi per l’espletamento delle relative procedure. Quanto alle tecnologie digitali sanitarie, esse trovano già innumerevoli applicazioni nel settore pubblico e privato, a beneficio di pazienti e professionisti. Si pensi ai fascicoli elettronici e alle prescrizioni elettroniche, ma anche ai dispositivi mobili di monitoraggio e alla telemedicina. 4. La governance sanitaria dell’Unione europea nel caso di gravi minacce per la salute di carattere transfrontaliero alla prova del covid Nonostante le limitate competenze in materia di salute pubblica, l’Unione europea è dotata di un complesso e articolato sistema di governance per la gestione dei numerosi profili legati all’assistenza sanitaria transfrontaliera. Le modifiche introdotte dal trattato di Lisbona hanno valorizzato, da un lato, il ruolo dell’UE nella lotta contro le gravi minacce per la salute e, dall’altro lato, il ricorso alla solidarietà nel fronteggiare i disastri naturali e provocati dall’uomo. Sotto il primo profilo, merita ricordare che a partire dal 2001 è operativo il Comitato di Sicurezza Sanitaria (CSS), presieduto da un rappresentante della Commissione e composto dei rappresentanti degli stati membri. Competente in materia di sorveglianza, pianificazione e coordinamento della risposta ad eventi quali le pandemie, esso può contare sul Sistema di allarme rapido e di reazione per la notifica di allarmi a livello di Unione (SARR). In relazione all’assistenza sanitaria transfrontaliera, le questioni affrontate vanno dall’impiego di piattaforme per la condivisione delle esperienze maturate in ambito ospedaliero nel trattamento del covid, ovvero del livello di saturazione delle unità di terapia intensiva, alle modalità pratiche con cui facilitare il trasferimento di pazienti e l’invio di personale medico avvalendosi del SARR. Dal punto di vista operativo, la raccolta, l’analisi e la disseminazione delle informazioni relative alla diffusione del covid e la conseguente valutazione del rischio è affidata al Centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie (CEPCM). Questa agenzia dell’UE opera in stretto contatto con l’OMS e supporta i governi degli stati membri e l istituzioni nell’attività di contrasto alle gravi minacce sanitarie transfrontaliere con relazioni, studi e consulenze scientifiche sulle malattie trasmissibili utilizzando una piattaforma ad hoc, il sistema europeo di sorveglianza TESSY. Al fine di potenziare la capacità di intervento, peraltro, nel marzo 2019 è stato creato RescEU una vera e propria riserva europea di risorse messe volontariamente a disposizione degli stati membri. Ciò ha di fatto consentito di offrire, non senza problemi, assistenza sanitaria transfrontaliera già nelle prime fasi della pandemia, anche grazie ad un potenziamento della riserva nel marzo 2020 in virtù di una decisione di esecuzione della Commissione. A livello politico, invece, la capacità di risposta rapida è affidata ai Dispositivi integrati per la risposta politica alle crisi (IPCR), volti a favorire un processo decisionale rapido e coordinato in caso di crisi gravi e complesse, comprese le pandemie, come dimostra la prassi affermatasi in tempo di covid. Fondati sulla clausola di solidarietà di cui all’art. 222 TFUE, questi ultimi consentono alla Presidenza del Consiglio di indire riunioni al più alto livello politico e tecnico per condividere e valutare i dati rilevanti, nonché discutere e pianificare la risposta in funzione del rischio. 15 In una spirale sempre più rapida, è emersa una mancanza di gestione e coordinamento a livello europeo ove ogni Stato ha agito in autonomia. Tutto ciò considerato, alla base del presente lavoro vi è l’interrogativo che intende chiarire se le misure poste in essere dagli Stati, e suggerite o legittimate dalla Commissione, siano compatibili col diritto dell’Unione europea alla luce degli strumenti giuridici in vigore. 2. Le possibili misure di prevenzione e contrasto Come affermato dalla Corte di giustizia, la tutela della salute e della sanità pubblica rientra tra le ragioni imperative di interesse generale riconosciute dal diritto dell’Unione europea, idonee a giustificare l’adozione di restrizioni di libertà fondamentali. Diverse sono anche le disposizioni dei Trattati che prevedono, oltre alle misure restrittive della circolazione delle persone, restrizioni alla libera circolazione dei lavoratori (art. 45 TFUE), al diritto di stabilimento (art.52 TFUE), alla mobilità con i paesi e territori d’oltre mare (art. 202 TFUE), oltre che le restrizioni alla circolazione delle merci. L’adozione di misure idonee a prevenire la diffusione di un virus rientra tra gli strumenti cui gli Stati membri ricorrono per garantire la protezione della salute pubblica, in considerazione del livello di tutela che ritengono opportuno raggiungere e garantire e per il quale viene loro riconosciuto un margine di discrezionalità, comunque nel rispetto del principio di proporzionalità e dell’obbligo di trasparenza nell’adozione degli atti all’uopo finalizzati; questo, non solo dal punto di vista della circolazione delle persone ma, più in generale, ai fini della limitazione dell’esercizio di tutte le libertà fondamentali. In particolare, le fattispecie riconducibili alla gestione generale delle frontiere interne o esterne dell’area Schengen rientrano nell’ambito di applicazione del Codice Frontiere Schengen (CFS). 3. Le misure di natura generale: i controlli alle frontiere interne Le misure previste dal CFS riguardano la generalità delle persone che si trovano in una determinata situazione indipendentemente dal loro status; esse concernono la gestione delle frontiere da parte delle autorità nazionali e richiedono la distinzione tra la gestione delle frontiere interne all’area Schengen e la gestione di quelle esterne. In via preliminare, va notato come i provvedimenti adottati fossero finalizzati alla tutela della salute o della sanità pubblica, visto che la diffusione del covid costituiva, e costituisce, un’indubbia e sconosciuta minaccia ad esse. In tal caso, risultava intuitivo pensare che il ripristino del controllo di frontiere potesse rientrare nella causa di giustificazione della prevenzione di qualunque minaccia per la salute pubblica, definita dallo stesso CFS come “qualunque malattia con potenziale epidemico ai sensi del Regolamento sanitario internazionale dell’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) e altre malattie infettive o parassitarie contagiose che siano oggetto di disposizioni di protezione applicabili ai cittadini degli Stati membri”. Nonostante il richiamo espresso del considerando n.6 CFS, che la include tra gli obiettivi del controllo di frontiera, la tutela della salute pubblica non è tra le ragioni di natura sostanziale o procedurale che giustificano il ripristino del controllo alle frontiere interne; infatti, esse si limitano ad ipotesi collegate alla sicurezza interna dello Stato membro, all’ordine pubblico o, ancora, nel caso in cui si verifichi un grave rischio incombente sul funzionamento dell’intero sistema Schengen, a causa di gravi negligenze nella gestione delle frontiere esterne. La mancata previsione di una disposizione espressa per il caso in questione potrebbe essere riconducibile alla tipologia di misure da adottare in questi casi, finalizzate – più che alla verifica dell’identità dell’individuo – all’accertamento ed al monitoraggio del suo stato di salute, come nel caso dell’obbligo di quarantena in abitazione, imposto normalmente ai cittadini in rientro da zone caratterizzate da alt indici di contagio; insomma, una misura restrittiva idonea a prevenire la diffusione del virus, che non impedisce in sé l’ingresso e prescinde da verifiche di identità. In assenza della clausola espressa, anche al fine di riportare nell’alveo della legalità le eventuali iniziative statali, non va esclusa la possibilità di ricorrere a quella relativa alla sussistenza di minacce per l’ordine pubblico: così la misura potrebbe essere giustificata alla luce degli effetti della potenziale diffusione del virus e della conseguente reazione della popolazione interessata, più che per la diffusione di per sé stessa, od ancora per l’impatto che un numero elevato di contagi potrebbe avere sul sistema sanitario nazionale, sino a rendere possibile un suo collasso. Se, dunque, era possibile reintrodurre i controlli alle frontiere tra Stati membri ai fini della gestione dell’emergenza, in nessun caso, comunque, avrebbe potuto essere ammessa la loro chiusura completa, cosa 16 che pur si è verificata anche se limitatamente a pochi luoghi e per un breve periodo di tempo: la misura non è infatti contemplata dal CFS e, se effettivamente posta in essere, avrebbe configurato una violazione del diritto dell’Unione europea, con tutte le conseguenze del caso. 4. E la restrizione degli ingressi alle frontiere esterne Il fatto di invocare la tutela della salute pubblica per giustificare l’adozione di restrizioni agli ingressi alle frontiere esterne va inquadrato in modo differente. In questo caso la Commissione è intervenuta invitando gli Stati membri ad adottare provvedimenti che fossero idonei a limitare i viaggi non essenziali verso l’UE; un intervento sollecitato con finalità preventive ma cui è stato dato seguito quando oramai il fenomeno pandemico si era già sviluppato, con gli stati membri a rappresentare il centro della pandemia. Il CFS disciplina l’attraversamento delle persone ai valichi di frontiera, negli orari di apertura eventualmente indicati. L’ingresso, che riguarda nello specifico coloro che si trattengono per un periodo di breve durata, pari a 90 giorni su 180, è soggetto a determinate condizioni; tra queste, il fatto che la persona interessata non sia considerata una minaccia per la salute pubblica. Nel caso l’attraversamento riguardi i cittadini europei e i loro familiari, ai controlli, che normalmente si limitano alle verifiche minime sull’identità della persona e sul possesso dei documenti richiesti per l’attraversamento della frontiera, si aggiungeranno ulteriori verifiche finalizzate all’accertamento dello stato di salute. In ogni caso, non potrà essere loro rifiutato l’ingresso mentre saranno ammesse prescrizioni idonee a prevenire ogni forma di contagio, una volta entrati nell’Unione europea. Quanto ai cittadini non europei, invece, l’accertamento all’ingresso avrà natura preventiva e sarà finalizzato anche ad individuare eventuali minacce per la salute pubblica; in tale circostanza, non va esclusa l’ipotesi di diniego all’ingresso ovvero l’adozione di misure alternative, quali possono essere le misure di quarantena in strutture pubbliche o, se sufficienti, in abitazioni private o strutture alberghiere. 5. Provvedimenti adottabili e status dei destinatari Lo scrutinio di legittimità delle misure restrittive dipende anche dallo status del soggetto destinatario. È opportuno precisare, infatti, che specifici riferimenti alla possibilità di introdurre limitazioni all’ingresso sul territorio degli Stati membri per motivi di sanità pubblica sono previsti, a livello normativo, in relazione al diritto fondamentale di libera circolazione e soggiorno del quale beneficiano i cittadini dell’UE ed ai loro familiari. Inoltre, se ne compie riferimento anche in relazione ai cittadini di Stati terzi soggiornanti di lungo periodo ed ai cittadini di Stati terzi residenti nelle zone frontaliere con l’UE. Per quanto riguarda, innanzitutto, i cittadini dell’UE e i loro familiari, il considerando n.22 della Dir. 2004/38/CE prevede la possibilità di operare “restrizioni all’esercizio del diritto di libera circolazione per motivi di ordine pubblico, di pubblica sicurezza o di sanità pubblica”. Tuttavia, tali restrizioni non potranno avere carattere permanente, tanto che viene riconosciuto al destinatario del provvedimento il diritto ad ottenere una nuova valutazione dello stesso entro un congruo periodo di tempo. Come noto, il diritto di ingresso in uno Stato membro diverso dal proprio e il diritto di soggiorno per un periodo fino ai tre mesi, sono garantiti a tutti i cittadini europei in tutto il territorio dell’UE. Il primo trova applicazione nell’art. 5 della citata Direttiva cittadini, che ne individua come unica condizione per l’esercizio il possesso della carta d’identità o del passaporto. Diverso è invece il caso del diritto al soggiorno per periodi superiori ai tre mesi, che risulta garantito al rispetto di alcune condizioni predeterminate riconducibili all’essere lavoratore autonomo o subordinato ovvero in possesso di risorse economiche tali da non gravare sull’assistenza sanitaria e sociale dello Stato membro ospitante. In particolare, per la sola circolazione ed i soli soggiorni che abbiano una durata non superiore a 3 mesi, le restrizioni per ragioni di sanità pubblica trovano disciplina all’art. 29 della Direttiva cittadini, che individua due ipotesi che ne possono giustificare l’adozione: la presenza di malattie con potenziale epidemico, quali definite dall’OMS, oppure quella di altre malattie infettive o parassitarie contagiose che, seppur non individuate da specifiche misure da parte dell’OMS, siano risultate oggetto di disposizioni di protezione adottate dallo stato membro di destinazione nei confronti dei propri cittadini e di coloro che vivono sul territorio. Un eventuale provvedimento restrittivo della libertà di circolazione o di soggiorno, se concretizzato in una misura di respingimento all’ingresso nello Stato membro, richiede comunque la notifica in forma scritta all’interessato, precisando in modo circostanziato e completo i motivi che ne giustificano l’adozione. 17 La tutela della salute è prevista tra le cause invocabili per limitare gli ingressi negli Stati membri dell’Unione europea anche nelle specifiche disposizioni cui sono soggetti due distinti gruppi di cittadini non europei che riguardano rispettivamente coloro che sono soggiornanti di lungo periodo ed i c.d. cittadini frontalieri. L’art. 18 della Direttiva cittadini relativa ai soggiornanti di lungo periodo prevede la possibilità di negare l’ingresso, oltre che di respingere la domanda di soggiorno, ad un soggiornante di lungo periodo, ed ai suoi familiari, qualora ci si trovi innanzi ad una minaccia per la sanità pubblica; la misura dovrà necessariamente avere una durata temporanea e, pertanto, potrà portare ad un rinvio del soggiorno ad un secondo momento, pur se non alla revoca del permesso medesimo, diversamente da quanto previsto nel caso in cui vengano invocate ragioni di ordine pubblico e sicurezza interna. 6. Le misure-tampone adottate dalle istituzioni (e le criticità ad esse collegate) La Commissione è intervenuta in più circostanze, con atti concernenti misure riconducibili tanto alla gestione delle frontiere interne che a quella delle frontiere esterne. In particolare, è stata raccomandata la restrizione temporanea dei viaggi non essenziali verso l’UE; sono state predisposte linee guida sulla gestione delle frontiere per proteggere la salute e garantire la disponibilità di beni e servizi essenziali; infine, al fine di garantire la libera circolazione delle merci attraverso l’istituzione di corridoi privilegiati, sono state specificate le misure di attuazione per le cosiddette Green Lane. Lo scopo dichiarato della restrizione temporanea dei viaggi non essenziali verso l’Unione europea sembra però divergere da quello effettivamente conseguito. In un primo momento, l’iniziativa della Commissione era finalizzata alla riduzione dei controlli all’interno dell’area Schengen, rimarcando che le frontiere esterne ne costituiscono il perimetro di sicurezza e che, quindi, il rafforzamento delle misure di controllo anche di natura sanitaria è idoneo a svolgere una funzione protettiva per i cittadini dell’UE. Tuttavia, vista l’ampia diffusione del virus internamente all’UE, col conseguente ridimensionamento dell’iniziale obiettivo di protezione da minacce esterne, la Commissione ha sottolineato come il rafforzamento dei controlli alle frontiere esterne rappresentasse in realtà una misura funzionale alla limitazione della propagazione del virus sul piano globale. In realtà, solo al cessare dell’emergenza sul piano interno, tale misura potrebbe eventualmente assolvere all’ipotizzato compito di funzione protettiva per i cittadini europei. La situazione di particolare gravità, dovuta anche alla necessità di fronteggiare un’emergenza inaspettata, non consente di avallare la scelta compiuta della Commissione, ritenendo più opportuno un altro tipo di intervento. Infatti, la necessità di intervenire con misure ulteriori rispetto a quanto già previsto dal CFS, avrebbe ragionevolmente richiesto l’impiego di atti di diritto dell’UE: ad esempio, non sarebbe risultata inopportuna una raccomandazione, se non addirittura una proposta, al consiglio per sollecitare l’adizione di una decisione contenete le misure considerate opportune; questo, da un lato avrebbe ovviato al descritto vuoto normativo, dall’altro avrebbe introdotto un elemento di uniformità con la gestione delle frontiere interne nei casi di estrema gravità che pongono a rischio il funzionamento dell’area Schengen. La parte delle linee guida relativa alle frontiere interne risulta più articolata e, anche in tal caso, appare finalizzata a sopperire all’evidenziata carenza del titolo III CFS. L’assenza della causa di sanità pubblica tra quelle giustificatrici del ripristino dei controlli alle frontiere interne, e la conseguente assenza di una procedura ad hoc, ha indotto la Commissione a suggerire agli stati membri il ricorso alla giustificazione per ordine pubblico o sicurezza pubblica, in situazioni particolarmente critiche e come reazione al rischio rappresentato dal contagio. In tal caso, la procedura risultava chiara e gli stati membri interessati hanno dovuto ottemperare all’obbligo di notificare la propria intenzione alla Commissione: visto il richiamo alla necessità di agire in forma immediata, si è fatto principalmente ricorso all’art. 28 CFS, non escludendo tuttavia delle ipotesi di richiamo dell’art. 25 CFS, invero poco comprensibili. La descritta condotta della Commissione potrebbe anche rilevare ai fini del rispetto dei principi sui quali si basa la c.d better regulation, principalmente diretti a regolamentare l’esercizio del potere da parte della Commissione nel processo legislativo e che – con preciso riferimento al rispetto dei diritti fondamentali – vanno presi in considerazione in tutte le attività dalla stessa poste in essere, siano esse riconducibili ad atti od iniziative. Tale breve riflessione merita di essere compiuta perché le restrizioni attuate dagli stati membri e legittimate dalla Commissione sono idonee a comprimere il diritto alla circolazione, riconosciuto non solo dai Trattati ma anche dall’art. 45 CDFUE. In particolare, ad essere poste in discussione sono state la trasparenza, la necessità e la proporzionalità delle misure adottate e/o legittimate. 20 di risanamento ed alla condizionalità della c.d. Troika (Commissione, BCE e Fondo monetario internazionale) costituiva, infatti, la più importante differenza tra OMT e SMP. Tramite le OMT, la BCE avrebbe impedito che le tensioni sui mercati dei titoli di Stato causate dalla paura della reversibilità della moneta unica portassero ad un innalzamento eccessivo dei tassi di interesse di Stati membri già in difficoltà, danneggiandone i tentativi di consolidamento del debito ed aumentandone il rischio di default. A metà 2014, a fronte di un livello di inflazione be al di sotto della definizione di stabilità dei prezzi, la BCE ha lanciato l’Asset Purchase Programma. Questo programma ricomprende attualmente quattro diversi programmi d’acquisto di titoli sia pubblici che privati. Tra di essi, il Public Sector Purchase Programme 8PSPP) è dedicato all’acquisto di titoli emessi da governi, enti pubblici e organizzazioni internazionali situate nell’area euro. L’insieme degli acquisti di attività effettuati tramite l’Asset Purchase Programme, spesso descritto come quantitative easing, ha esercitato un impatto significativo sulla crescita economica in tutta l’area euro. Il PSPP, in particolare, ha contribuito a stabilizzare sia gli spread che i portafogli di titoli di stato detenuti dalle banche europee, contribuendo ad una graduale ripresa della crescita. A questo scenario si è purtroppo aggiunta, ad inizio 2020, la crisi generata dalla pandemia di COVID-19. Tra gli interventi della BCE più significativi deve essere senz’altro annoverato il Pandemic Emergency Purchase Programme (PEPP), un programma di carattere straordinario, ancorché temporaneo, ed aggiuntivo al quantitative easing con cui effettuare acquisti di titoli pubblici e privati per complessivi 750€ miliardi. Per incrementarne ulteriormente l’efficacia, a giugno e a dicembre 2020, la dotazione del PEPP è stata poi aumentata fino a raggiungere un totale di 1.850€ miliardi, estendendo l’orizzonte degli acquisti sino alla fine di marzo 2022 e comunque fino alla conclusione della fase critica della crisi causata dal covid. La legittimità del PEPP, e conseguentemente la sua efficacia, sono state però messe in dubbio dalla pronuncia del 5 maggio 2020 della Corte costituzionale tedesca qui in commento. 3. La posizione della Corte di giustizia sulla legittimità dei programmi d’acquisto di titoli pubblici adottati dalla BCE L’acceso dibattito che si è sviluppato intorno a Securities Markets Programme, OMT e PSPP testimonia la tensione tra l’operato della BCE e quanto previsto nel Trattato di Maastricht, adottato quando il consenso degli esperti ricadeva su una concezione ristretta delle funzioni delle banche centrali. In questi anni di crisi, di fronte alla inadeguatezza dell’architettura dell’Unione economica e monetaria e in assenza di un’unione fiscale, la BCE si è trovata spesso a dover svolgere una funzione di supplenza della politica, arrivando ad estendere i propri poteri di intervento fino al limite massimo della sua competenza. In particolare, gli osservatori più critici sostenevano che la BCE avesse esclusivamente il compito di garantire la stabilità dei prezzi e non quello di finanziare gli Stati membri e che quindi i programmi di acquisto di tutoli del debito pubblico della BCE violassero palesemente il principio di attribuzione e che aggirassero in maniera surrettizia il divieto di finanziamento monetario di cui all’art. 123 TFUE. La ratio della norma è quindi quella di evitare che i problemi di finanziamento di uno Stato membro possano venire risolti accollandone il costo di tutti i cittadini dell’Unione europea e di disincentivarne gli Stati membri dal perseguire politiche di bilancio imprudenti. La Corte di giustizia sembrava però aver posto termine ad ogni dubbio interpretativo sulla legittimità dei programmi d’acquisto, sancendo la conformità del programma OMT con i Trattati in una pronuncia sul primo rinvio pregiudiziale sollevato dalla Corte costituzionale tedesca. In Gauweiler, nel giudicare se il programma OMT ricadesse nell’ambito della politica monetaria o di quella economica, la Corte di giustizia aveva infatti ritenuto che gli obiettivi del programma e gli strumenti predisposti per raggiungerli rientrassero nelle attribuzioni della BCE e fossero conformi al raggiungimento dell’obiettivo primario del mantenimento della stabilità dei prezzi. Per quanto riguarda il rispetto del principio di proporzionalità di cui all’art. 5(4) TFUE, la Corte di giustizia, pur ritenendo la BCE soggetta al rispetto di alcune garanzie procedurali quali la chiara esposizione dell’iter logico della decisione e l’obbligo di motivazione della stessa, aveva riconosciuto che i Trattati conferiscono alla BCE un ampio potere discrezionale nell’esercizio delle sue competenze e ciò in funzione della complessità e della natura altamente tecnica della materia di cui essa è chiamata ad occuparsi. In merito al divieto di finanziamento monetario, i giudici di Lussemburgo avevano innanzitutto precisato che l’acquisto indiretto di titoli di Stato sui mercati secondari non poteva essere equiparato alle misure vietate 21 dall’art. 123 TFUE, tenuto anche conto del fatto che l’art. 18(1) dello Statuto del Sistema europeo di banche centrali autorizza la BCE e le banche centrali nazionali ad operare sui mercati finanziari anche con operazioni su titoli di Stato negoziati sul mercato secondario. La Corte di giustizia faceva quindi salvo il programma OMT, ma motivava la decisione evitando uno scontro diretto con la Corte costituzionale tedesca. Nel frattempo, però, alla Corte costituzionale tedesca erano stati presentati nuovi ricorsi sul programma PSPP, poi riuniti nel caso Weiss. 4. La sentenza del 5 maggio 2020 nel caso Weiss e la sfida della Corte costituzionale tedesca alla BCE I ricorrenti davanti alla Corte costituzionale tedesca nel caso Weiss sostenevano che il Governo, il Parlamento e la Banca centrale tedesca, non opponendosi all’approvazione del programma PSPP ed alla sua attuazione, avessero violato i principi supremi della Legge Fondamentale tedesca. Nel corso della procedura, la Corte costituzionale tedesca aveva effettuato un rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia sottoponendole due questioni relative al fatto che la BCE avesse travalicato i limiti della sua competenza ledendo la sovranità degli Stati membri in materia di politica economica ed avesse aggirato il divieto di finanziamento monetario sancito all’art. 123 TFUE. La Corte di giustizia si era pronunciata sul rinvio pregiudiziale della Corte costituzionale tedesca nel dicembre 2018 escludendo che la BCE avesse violato il principio delle competenze di attribuzione ed affermando la piena compatibilità del programma PSPP con la proibizione di ogni forma di finanziamento monetario degli Stati membri. La Corte di giustizia aveva innanzitutto ricondotto il programma PSPP nell’alveo della politica monetaria essendo esso indirizzato a un ritorno dei tassi di inflazione a livelli inferiori, ma prossimi, al 2% nel medio termine e a nulla valendo il fatto che esso potesse addizionalmente avere effetti considerevoli sulle condizioni di finanziamento degli Stati membri della zona euro, nonché sul bilancio delle loro banche commerciali. In merito al divieto di finanziamento monetario, la Corte di giustizia ribadiva che il Sistema europeo di banche centrali deve circondare l’acquisto di titoli di Stato sui mercati secondari di garanzie sufficienti per conciliarlo con il divieto di cui all’art. 123 TFUE, assicurandosi che detti acquisti non siano idonei a sottrarre gli Stati membri che ne beneficiano dal condurre quella sana politica di bilancio che tale disposizione mira ad instaurare. Nella sentenza del 5 maggio 2020, invece, la Corte costituzionale tedesca ha ritenuto che la Corte di giustizia avesse agito ultra vires, e dunque al di là delle competenze attribuite dai Trattati, e che la sentenza della Corte di Lussemburgo fosse incomprensibile e pertanto obiettivamente arbitraria e non vincolante. Secondo la Corte costituzionale tedesca, l’adozione di un atto ultra vires comporta una violazione del principio di democrazia e una limitazione del diritto dei cittadini tedeschi di partecipare attraverso il voto alle decisioni del Bundestag. L’ampio potere discrezionale della BCE e la sua indipendenza, unitamente al limitato standard di controllo esercitato dalla Corte di giustizia, possono infatti dare luogo ad una continua erosione delle competenze degli Stati membri. Ne consegue che, se gli Stati membri rinunciassero del tutto a condurre ogni sorta di controllo sugli atti ultra vires delle istituzioni europee, essi finirebbero per concedere alle istituzioni dell’UE un potere esclusivo sui Trattati e questo anche qualora esse adottassero un’interpretazione del diritto dell’UE che comporta una modifica di fatto dei Trattati o un ampliamento delle competenze dell’Unione europea. Giunta a queste conclusioni, la Corte costituzionale tedesca procede quindi a valutare autonomamente se la BCE abbia circondato il programma PSPP di quelle garanzie essenziali ad evitare che il divieto di cui all’art. 123 TFUE venga aggirato. In particolare, il Secondo Senato sottolinea come soltanto grazie alla presenza di tali caratteristiche cruciali sia possibile concludere che il programma PSPP non comporti una manifesta elusione del divieto di finanziamento monetario. Tra le salvaguardie ritenute essenziali dalla Corte costituzionale tedesca rientra la ripartizione degli acquisti del PSPP sulla base delle quote di partecipazione delle banche centrali nazionali al capitale della BCE, caratteristica che evita che detti acquisti possano essere mirati alle emissioni di alcuni soltanto tra gli Stati membri dell’area euro. Un intervento asimmetrico o selettivo, infatti, potrebbe portare l’Eurosistema a diventare il maggior creditore di uno Stato membro, aumentandone l’esposizione ad un rischio di default e 22 così incidendo, per quanto riguarda la Germania, sui limiti di responsabilità di bilancio stabiliti dal Bundestag in violazione dell’art. 79(3) della Legge fondamentale tedesca. Tornando ancora alla pronuncia del 5 maggio 2020, secondo la Corte costituzionale tedesca, la BCE non ha inoltre dimostrato di aver effettuato un’appropriata valutazione della proporzionalità del programma PSPP rispetto alle sue ricadute economico-sociali, che esulano dalla competenza dell’istituto di Francoforte. Secondo la Corte costituzionale tedesca, infatti, il principio di proporzionalità verrebbe ad essere manifestamente trascurato qualora gli effetti di politica economica di un programma d’acquisto di titoli pubblici venissero ignorati o non adeguatamente presi in considerazione. Pertanto, la Corte costituzionale tedesca ritiene che il Governo federale e il Parlamento tedesco siano tenuti ad adottare, nell’ambito delle loro responsabilità in tema di integrazione europea, tutte le misure necessarie a garantire che la BCE si attivi per dimostrare di aver effettivamente operato un’adeguata valutazione della proporzionalità del programma PSPP. Parallelamente, alla BCE sono concessi tre mesi di tempo per dimostrare in modo comprensibile che gli obiettivi di politica monetaria perseguiti per il tramite del programma PSPP non siano sproporzionati rispetto agli effetti di politica economica e fiscale del programma stesso. 5. Profili critici e riflessioni conclusive Numerose ed aspre sono state le critiche sollevate contro la sentenza della Corte costituzionale tedesca del 5 maggio 2020 nel caso Weiss: essa costituisce infatti un grave vulnus al principio del primato del diritto dell’Unione europea, me mette a rischio l’applicazione uniforme e apre la strada dei controlimiti alle democrazie illiberali; applica in maniera incorretta il principio di proporzionalità trasformando il controllo sull’esercizio del potere in un sindacato sulla titolarità dello stesso; compromette la credibilità della BCE e l’efficacia dei suoi interventi sui mercati ed, inoltre, incide negativamente sulla sua indipendenza. Vi è stato così chi ha ipotizzato l’apertura di una procedura d’infrazione contro la Germania; chi ha proposto di istituire un ulteriore grado di giurisdizione per dirimere i contrasti tra Corte costituzionale e Corte di giustizia; chi ha auspicato che la BCE non si piegasse alle richieste di Karlsruhe per non ledere la propria indipendenza. L’8 maggio 2020 la Corte di giustizia ha pubblicato un comunicato stampa in cui ha ribadito che “solo la Corte di giustizia, istituita a tal fine dagli Stati membri, è competente a constatare che un atto di un’istituzione dell’Unione è contrario al diritto dell’Unione. Eventuali divergenze tra i giudici degli Stati membri in merito alla validità di atti del genere potrebbero compromettere infatti l’unità dell’ordinamento giuridico dell’Unione e pregiudicare la certezza del diritto. Al pari di altre autorità degli Stati membri, i giudici nazionali sono obbligati a garantire la piena efficacia del diritto dell’Unione. Solo in questo modo può essere garantita l’uguaglianza degli Stati membri nell’Unione da essi creata”. Pochi giorni dopo, la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha dichiarato che la Commissione stava valutando l’opportunità di aprire una procedura d’infrazione contro la Germania. Su questo ultimo punto si deve sottolineare come il PEPP difetti, come sopra anticipato, di alcuni requisiti che la Corte costituzionale tedesca aveva ritenuto essenziali a riconoscere la legittimità del PSPP. Il PEPP è, infatti, uno strumento mirato a contrastare una straordinaria e acuta crisi economica la cui evoluzione è difficilmente prevedibile e che pertanto necessita in un elevato grado di flessibilità nella sua struttura e nella sua attuazione. Per questi motivi, il PEEPP prevede quindi, ad esempio, deviazioni dalla regola della ripartizione degli acquisti seconda la capital key della BCE, deviazioni che sono considerate appropriate almeno per limitati periodi di tempo. La flessibilità degli acquisti nel tempo, fra le varie classi di attività e i vari Stati membri emittenti, è infatti considerata dalla BCE necessaria a sostenere l’ordinata trasmissione della politica monetaria. Tuttavia, la ripartizione degli acquisti secondo la capital key è proprio una di quelle caratteristiche considerate dalla Corte costituzionale tedesca essenziali a garantire che il PSPP non possa costituire una forma di elusione del divieto di finanziamento monetario di cui all’art. 123 TFUE. Già a fine maggio 2020, la BCE procedeva infatti ad autorizzare la Bundesbank a lasciar visionare al Governo federale tedesco e al Bundestag tutta la documentazione sul PSPP, compresi i documenti riservati. Dopo la disamina dei documenti e un’audizione di fronte alla Commissione parlamentare per gli affari europei, il 2 luglio 2020 il Bundestag adottava una risoluzione in cui riconosceva come il Consiglio direttivo della BCE avesse sistematicamente effettuato una valutazione di proporzionalità delle sue decisioni di politica monetaria, come anche reso evidente dalle minute delle sedute stesse. La Bundesbank può dunque continuare indisturbata a partecipare agli acquisti nell’ambito del PSPP. 25 L’UE, quindi, nel suo Concept Paper del 2018 ha riservato, nella sezione dedicata alla “WTO Modernisation”, ampio spazio all’esigenza di intervenire affinché gli obblighi di notifica dell’OMC vengano rispettati. Il lavoro ha portato alla formulazione di una proposta di decisione del Consiglio generale dell’OMC per migliorare la trasparenza e rafforzare gli obblighi di notifica degli Accordi OMC. La proposta di decisione indica innanzitutto l’inserimento di un nuovo parametro obbligatorio nella revisione delle politiche commerciali dei Membri OMC. Inoltre, viene previsto l’obbligo per i Membri OMC che non notifichino di motivare tale loro inadempienza di fronte ai vari Consigli o Comitati dell’OMC dopo 6 mesi dal mancato adempimento, mantenendo il dovere di spiegare le ragioni del ritardo con una cedenza semestrale. Laddove la violazione dell’obbligo di notifica non sia intenzionale, ma dovuto a difficoltà amministrative di uno Stato in via di sviluppo, la proposta di decisione stabilisce l’assistenza del Segretariato dell’OMC, escludendoli per due anni dalle sanzioni amministrative in caso di persistenza nell’inadempimento, mentre i Paesi meno sviluppati sono del tutto esentati da ogni misura punitiva, purché richiedano assistenza indicando il tipo di capacity building loro necessario. Gli Stati, invece, che non abbiano giustificazioni, e ricorrano ad una “systematic obfuscation”, sono sottoposti a provvedimenti la cui connotazione sanzionatoria si intensifica man mano che si prolunga l’assenza di trasparenza: nella Fase 1, che scatta dopo un anno di ritardo, lo Stato inadempiente riceverà la qualificazione formale in seno all’OMC di “WTO member with notification delay”, subirà la posticipazione sistematica dei suoi interventi nelle riunioni ufficiali – ove interverrà per ultimo, prima degli osservatori – ed i suoi rappresentanti non potranno essere nominati per presiedere gli organi dell’OMC. Se le notifiche continuano a non essere perfezionate, dopo un anno di Fase 1 ha inizio la Fase 2: lo Stato in debito potrà rivolgere domande durante la revisione delle politiche commerciali, ma non avrà diritto a risposte, ed inoltre vedrà aumentata la sua quota di contributo economico al bilancio dell’OMC. 4. Il rafforzamento delle funzioni di monitoraggio dell’OMC L’UE ha presentato insieme ad altri membri OMC una proposta per migliorare e rafforzare la funzione di vigilanza sul rispetto degli Accordi di Marrakesh che i diversi organi comuni espressi da tali Accordi devono esercitare. Si intende, così, promuovere una maggiore ottemperanza agli obblighi multilaterali attraverso un esame tempestivo e approfondito dei trade concerns, ossia delle perplessità che eventualmente suscitino alcune proposte, o misure già in vigore, dei membri OMC sotto il profilo della loro compatibilità con gli impegni di Marrakesh. Attraverso un esame sistematico e approfondito tra i soggetti interessati – the members concerned, ossia “members raising a trade concern” e “members responding to a trade concern” – nell’ambito del Consiglio o del Comitato competente, si vuole favorire “the effective resolution of trade concerns among members through dialogue”, evitando di ricorrere al meccanismo di risoluzione delle controversie. Per consentire all’intera membership dell’OMC di essere pienamente e prontamente informata sul dibattito all’interno degli organi comuni, la proposta dell’Unione europea prevede la formazione di una banca dati sui trade concerns nella quale tutti i documenti relativi ai temi di preoccupazione sollevati dinanzi ad un Consiglio o Comitato OMC devono essere depositati e facilmente accessibili, con la possibilità di assistenza tecnica da parte del Segretario dell’OMC per i Paesi in via di sviluppo – in particolare, ovviamente, per le Least Developed Countries. La Commissione, infine, sostiene l’utilità di compiere un bilancio dell’azione dei vari organi OMC “al fine di individuare quali attività necessitano di maggiori risorse/attenzione e quali dovrebbero essere ridimensionate o disattivate”. La razionalizzazione che l’Unione europea vorrebbe incoraggiare per il sofisticato apparato istituzionale dell’OMC è improntata alla semplificazione e alla conseguente efficienza, concentrando risorse e lavoro nei comitati strategici per rilanciare il sistema multilaterale degli scambi. 5. E il coinvolgimento di imprese e società civile da parte dell’OMC L’art. V.2 dell’Accordo istitutivo dell’OMC prevede la possibilità, per il Consiglio generale, di adottare misure appropriate per la consultazione e la cooperazione con le ONG che si occupino dei temi del commercio internazionale, cui il Consiglio ha dato seguito con la sua importante decisione del 1996, che consente alle ONG di partecipare, naturalmente senza diritto di voto, alle Conferenze ministeriali. Quindi sono state create iniziative come il WTO Public Forum annuale, l’Opening Day all’OMC, il coinvolgimento di studenti, giornalisti, mondo delle imprese e parlamentari. Il disegno dell’UE è adottare alcuni accorgimenti tecnici che, grazie alla tecnologia, consentono di potenziare significativamente trasparenza e partecipazione, come quello di estendere la possibilità di assistere ai briefings del Segretariato dell’OMC anche alle ONG che non abbiano 26 sede a Ginevra, facendo ricorso a mezzi elettronici e piattaforme virtuali. Il digitale è da utilizzare anche per consentire al pubblico di seguire incontri e riunioni dell’OMC, aumentando significativamente la trasparenza. 6. L’impegno dell’Unione europea a riformare le regole OMC sulle sovvenzioni La presenza della Cina quale membro dell’OMC, e le sue dinamiche interne riguardo alla governance dell’economia, rappresentano la sfida più complicata rispetto all’adeguatezza delle attuali regole multilaterali in materia di sovvenzioni. Infatti, dinanzi ad un Paese con un fortissimo intreccio tra economia e Stato quale la Cina, è spesso molto problematico riuscire a ricondurre alla nozione di sovvenzione di cui all’art. 1 dell’Accordo SCM, e di prohibited subsidies di cui all’art. 3 dell’Accordo SCM, le prassi e discipline di quel Paese che sono di supporto all’apparato produttivo nazionale. Come noto, il diritto OMC definisce sovvenzione “a financial contribution by a government or any public body within the territory of a member which confers a benefit and is specific”, ossia riservato a determinate imprese o industries. L’impianto dell’economia cinese è contraddistinto dalle c.d. “State-Owned Enterprises” (SOEs), le grandi imprese pubbliche che gestiscono, in particolare, l’energia, l’estrazione di materie prime, le costruzioni, i servizi finanziari, in generale l’intero comparto dell’industria pesante e degli assets strategici per l’economia. Risulta, quindi, risolutivo, per avere condizioni di equa concorrenza, stabilire che cosa debba intendersi per 2public body”, per ente o organismo pubblico, al fine di stabilire se le condizioni particolarmente favorevoli riservate dalle SOEs alle altre imprese cinesi possano essere qualificate come sovvenzioni riconducibili all’Accordo SCM. Gli USA sostengono che una SOE sia automaticamente un public body poiché la sua proprietà, o quantomeno la suo quota determinante, sono detenuti dallo Stato, con la conseguenza che il governo può controllare tale SOE, e la condotta di quest’ultima è capace di trasmettere valore finanziario. Invece, più restrittivo è l’approccio interpretativo sinora adottato dalla giurisprudenza dell’Organo d’appello dell’OMC. Insieme a Stati Uniti e Giappone, quindi, l’Unione europea ha avviato un fruttuoso trilogo che ha portato, il 14 gennaio 2020, ad una dichiarazione congiunta con ottime indicazioni sulla revisione di alcune parti dell’Accordo SCM. Proprio con riferimento alla nozione di public body, il Ministro giapponese per l’economia, il commercio e l’industria, il Rappresentante degli Stati Uniti per il commercio, e il Commissario europeo per il commercio hanno, in primo luogo, osservato che molte sovvenzioni sono concesso proprio attraverso le SOEs, convenendo sulla necessità di assicurare che tali entità sovvenzionanti vengano ricondotte alla nozione di public body di cui all’art. 1 dell’Accordo SCM. Quindi, i tre ministri hanno assunto una posizione molto netta, scrivendo nel documento congiunto che l’interpretazione di ente pubblico da parte dell’Organo d’appello dell’OMC in diversi suoi reports “undermines the effectiveness of WTO subsidy rules”, prendendo l’impegno a continuare a lavorare per arrivare ad una definizione condivisa di ente pubblico inclusiva anche delle SOEs. UE, USA e Giappone hanno proposto di affiancare ai sussidi all’esportazione e alle sovvenzioni condizionate all’uso preferenziale di merci nazionali rispetto a prodotti importati nuovi tipi di “unconditionally prohibited subsidies”, ossia le garanzie illimitate, i sussidi a un’impresa insolvente o in difficoltà in assenza di un piano di ristrutturazione credibile, i sussidi alle imprese che non sono in grado di ottenere finanziamenti o investimenti a lungo termine da fonti commerciali indipendenti laddove dette imprese operino in settori caratterizzati da una produzione eccedentaria rispetto alle capacità di assorbimento del mercato, nonché alcune forme dirette di condono dei debiti. Riguardo alle eccessive difficoltà a raccogliere le prove attualmente necessarie per dimostrare gli effetti negativi di una sovvenzione in economie non sufficientemente trasparenti, come può essere quella cinese, i tre rappresentanti di UE, USA e Giappone propongono l’inserimento di presunzioni relative nell’applicazione dell’Accordo SCM. Tali presunzioni relative ribaltano l’onere della prova ponendolo in capo allo Stato che si considera sovvenzionante laddove, ad esempio, i sussidi siano eccessivamente ampi, oppure sostengano imprese non più competitive impedendone l’uscita dal mercato, o ancora, abbassino il livello dei prezzi dei fattori produzione interni rispetto a quello ai beni destinati all’esportazione. In presenza di un tale tipo di sussidi, se l’assenza di un serio effetto negativo non può essere dimostrata, dichiarano USA, UE e Giappone, “the subsidizing member must withdraw the subsidy in qustion immediately”. Anche nell’ambito delle sovvenzioni si presenta il problema del mancato rispetto degli obblighi di notifica posti dall’Accordo SCM. Tale carenza nell’osservanza di regole procedurali ha pesanti implicazioni sostanziali, poiché Stati ed imprenditori vengono a conoscenza di meccanismi di aiuti di Stato di Paesi terzi dopo la loro adozione ed implementazione, subendone, così, gli iniqui effetti anticoncorrenziali senza alcun tipo di informazione – mentre il quadro giuridico multilaterale è stato predisposto proprio per evitare tali circostanze, richiedendo 27 adeguate e tempestive notizie, e discussione sulle medesime. La proposta europea prevede la modifica dell’art. 25 dell’Accordo SCM, qualificando automaticamente come vietata ai sensi dell’art. 3 dell’Accordo SCM, la sovvenzioni non notificata che sia stata counter-notified – vale a dire portata a conoscenza del Comitato OMC sulle sovvenzioni – da un altro membro dell’OMC, a meno che lo Stato sovvenzionante non presenti tutte le informazioni richieste entro il quadro temporale concordato. In un tale, più ampio, contesto, nel quale anche la Cina è interessata ad avere regole certe sulla base delle quali definire le sue politiche e consentire ai suoi operatori economici di pianificare le loro attività, può non essere impossibile arrivare ad un confronto con concreti esiti positivi, pervenendo a nuove regole e/o ad interpretazioni autentiche delle disposizioni già esistenti. 7. Le proposte dell’UE per una green agenda nell’OMC Sempre per realizzare un sistema multilaterale sostenibile, protagonista nell’attuazione degli SDGs, l’UE sta disegnando una green agenda per l’OMC collegando diverse iniziative – proprie, e/o condivise da altri soggetti – in un progetto unitario. La proposta europea riceve attenzione e si rafforza per le spinte sempre più forti verso una transizione verde dell’economia dovute, in particolare, alla necessità di dare una risposta all’emergenza del cambiamento climatico, e al bisogno di predisporre una ripresa dalla crisi pandemica che converta il sistema produttivo e commerciale su nuovi modelli di resilienza, dunque di tutela ambientale e progresso sociale. La Commissione, nel suo riesame della politica commerciale, non ha mancato di precisare che l’Unione europea “nelle discussioni internazionali sulle questioni commerciali e ambientali” continuerà a sostenere “un’interpretazione delle pertinenti disposizioni dell’OMC che riconosca il diritto dei membri di fornire risposte efficaci alle sfide ambientali globali, in particolare i cambiamenti climatici e la protezione della biodiversità”. Su tale approccio interpretativo al diritto degli scambi, la Commissione colloca la richiesta di concludere in tempi stretti, possibilmente prima della dodicesima Conferenza ministeriale dell’OMC, i negoziati sulle sovvenzioni alla pesca (il c.d. Fisheries Agreement), che diverrebbero il primo Accordo multilaterale dell’OMC ad essere imperniato sull’attuazione di un obiettivo di sviluppo sostenibile, ossia l’SDG 14.6. I sussidi alla pesca, infatti, spesso determinano uno sfruttamento eccessivo delle risorse ittiche, che ne pregiudica la riproduzione cagionando notevoli danni all’ambiente. Quindi, l’UE indica una serie di misure per rinnovare le regole multilaterali e far sì che esse supportino “the global transition towards a climate neutral, and resilient economy”. Innanzitutto, la Commissione propone di riprendere e portare a compimento i negoziati per un Accordo sui beni ambientali, interrottisi a dicembre 2016, aggiornando le categorie dei prodotti per includere gli ultimi sviluppi della tecnologia. All’Environmental Goods Agreement dovrebbe poi essere affiancata la liberalizzazione dei servizi utili alla neutralità climatica; e, soprattutto, dovrebbe essere introdotta una carbon tax. Infatti, la lotta al surriscaldamento climatico richiede l’abbattimento delle emissioni di anidride carbonica, ma seguire tale obiettivo unilateralmente è, ovviamente, inefficace. Occorre, dunque, intervenire con un carbon border adjustment mechanism, un meccanismo di adeguamento del carbonio alla frontiera, che vada a contrastare la dislocazione della produzione permetterebbe di eliminare il vantaggio economico per chi sceglie di operare negli Stati con una debole normativa a tutela dell’ambiente. 8. La possibilità di ricorrere agli Accordi plurilaterali: le proposte dell’Unione europea su investimenti, digitale e servizi Benché il raggiungimento di impegni multilaterali indubbiamente sia l’obiettivo ultimo del sistema dell’OMC, far partire rapidamente la stagione delle riforme tra quei Membri disponibili a concludere Accordi plurilaterali aperti e fondati sulla clausola della nazione più favorita – suscettibili, dunque, di includere gli Stati che decidano di aderirvi in un secondo momento, con la possibilità di trasformarli gradualmente in Accordi multilaterali – rappresenta certamente un saggio approccio tattico per uscire dall’impasse politica che da troppo tempo comprime la funzione negoziale dell’OMC. Per l’e-commerce, l’UE – anche alla luce del fatto che il 60% del PIL globale è digitale, e che il 48% dei servizi, di cui l’UE è il primo esportare al mondo, è, per l’appunto, digitale – indica regole comuni sui contratti elettronici, sul flusso dei dati, sull’accesso aperto ad internet. Dette regole comuni sono rigorosamente accompagnate dal pieno rispetto del right to regulate di ciascuno Stato, tutelando, dunque, i diritti del consumatore, i dati personali, ed inserendo i non-trade values di cui agli art. XX GATT e XIV dell’Accordo 30 CAPITOLO 7 – LA RIFORMA DEL BILANCIO E LA CREAZIONE DI SURE E NEXT GENERATION EU 1. Premesse L’intensità delle restrizioni adottate per fronteggiare l’epidemia rendeva evidente che all’emergenza sanitaria si sarebbe accompagnata una crisi economico-sociale di pari gravità. Già ad aprile 2020 il Fondo Monetario Internazionale stimava una riduzione del PIL su base annua pari al 3% a livello globale, al 7,5% nell’Eurozona e al 9% in Italia. Le stime si sono rivelate troppo prudenziali e, ad ottobre 2020, lo stesso Fondo Monetario Internazionale ha previsto una recessione del 4,4% a livello globale, dell’8,3% nell’Eurozona e del 10,6% in Italia. Il presente contributo esamina la risposta dell’Unione europea alle conseguenze economiche della pandemia. 2. Il sistema di gestione finanziaria dell’UE: entrate, spese e assistenza finanziaria nel regime ante 2020 Per apprezzare le novità, è opportuno ricostruire la situazione antecedente alla pandemia, soffermandosi in particolare sulle modalità con cui l’UE si finanzia e spende e sui meccanismi mediante cui, nei limiti di cui all’unione economica e monetaria, possono aversi ipotesi di assistenza finanziaria fra Unione europea e Stati membri. Partendo dal finanziamento, alle origini del processo di integrazione europea le modalità erano quelle tipiche di un’organizzazione internazionale. Secondo il Trattato di Roma, le Comunità funzionavano grazie ai contributi obbligatori degli Stati membri secondo una ripartizione fissata dal Trattato e modificabile dal Consiglio all’unanimità. L’ammontare annuale dei contributi era oggetto di serrate trattative fra gli Stati membri via via inasprite dall’aumento del fabbisogno dell’UE per gestire le politiche attribuitele. Per ovviare a tale situazione che ne pregiudicava il buon funzionamento, ma forse anche in virtù della presa di coscienza che l’UE non è una semplice organizzazione internazionale, il regime finanziario subiva una prima modifica negli anni ’70 del secolo scorso con l’affermazione del principio della sua autonomia finanziaria. Tale principio ha comportato l’abbandono del meccanismo dei contributi obbligatori in favore del regime delle c.d. “risorse proprie” dell’UE. Alle tre categorie di risorse proprie inizialmente create (dazi doganali, prelievi agricoli e quota dell’IVA) si è aggiunta nel 1988 quella basata sul reddito nazionale lordo degli Stati membri e calcolata con un’aliquota fissa durante la procedura di bilancio dell’Unione europea. Le risorse sono “proprie” poiché soggette a un vincolo di destinazione che ne implica il trasferimento quasi automatico all’UE: gli Stati membri non hanno infatti discrezionalità né sull’an né sul quantum. Secondo una disciplina oggi confluita all’art. 311 TFUE, spetta invece agli stati membri ogni modifica delle risorse proprie che è infatti adottata all’unanimità dal Consiglio, su proposta della Commissione e previa consultazione del Parlamento. L’efficacia della modifica è inoltre subordinata al consenso dei Parlamenti nazionali. L’aumento delle risorse ha comportato una crescente attenzione per la disciplina e la programmazione del bilancio. Il tema del bilancio è invero regolato fin dal Trattato di Roma secondo una serie di principi rimasti in sostanza inalterati e oggi confluiti, in parte, agli artt. 310 e ss. TFUE e, in parte, nell’ultima versione del c.d. Regolamento finanziario. Tutte le entrate e le uscite dell’Unione europea devono essere riportate in bilancio sicché, salvo limitate eccezioni, non sono ammesse spese fuori bilancio. Il secondo principio, codificato all’art. 310 TFUE, sancisce invece che “nel bilancio entrate e spese devono risultare in pareggio”. Il fatto che le spese debbano rispettare il limite delle risorse proprie per quell’esercizio finanziario ha un importante corollario: l’UE “non accende prestiti entro il quadro di bilancio” o, in altri termini, non può fare debito per sostenere il proprio fabbisogno finanziario. Il punto è stato affrontato negli anni ’80 del secolo scorso quando un Accordo interistituzionale ha istituito le c.d. prospettive finanziarie volte a prestabilire le spese dell’UE per ogni quinquennio. Con il Trattato di Lisbona, il meccanismo è stato recepito all’art. 312 TFUE nelle vesti del c.d. quadro finanziario pluriennale, un atto programmatico che limita la discrezionalità delle istituzioni per l’adozione dei successivi bilanci annuali che devono rispettare il quadro finanziario pluriennale. Il bilancio annuale è invece adottato con la procedura legislative speciale di cui all’art. 314 TFUE. La norma prevede rigide scadenze, come accade anche per le sessioni di bilancio degli Stati membri, per evitare il c.d. esercizio provvisorio basato sul “regime dei dodicesimi provvisori” in cui le spese mensili non devono superare tale soglia del precedente bilancio. La Commissione consolida le previsioni annuali di spesa delle singole 31 istituzioni in un progetto di bilancio che sottopone a Parlamento e Consiglio. Se il Parlamento approva (o non si esprime) sulla posizione del Consiglio, il bilancio è adottato. Se invece il Parlamento propone modifiche, interviene un comitato di conciliazione composta da delegati delle due istituzioni. Con l’aiuto della Commissione, il comitato cerca di approvare un progetto comune da sottoporre a Parlamento e Consiglio. A questo punto, gli scenari si moltiplicano a seconda delle combinazioni fra le possibilità che Parlamento e Consiglio approvino, respingano o non deliberino sul progetto. L’obiettivo è comunque quello di favorire l’adozione del bilancio, sicché ad esempio l’approvazione di una delle istituzioni è sufficiente se l’altra non si esprime. L’adozione definitiva del bilancio avviene mediante un peculiare atto del Presidente del Parlamento. Con l’aumento delle competenze conferite all’UE, il sistema si è arricchito di molte variabili che ne hanno accresciuto la complessità, prima fra tutte la creazione dell’unione economica e monetaria ad opera del Trattato di Maastricht che è infatti intervenuta sui rapporti finanziari fra Unione europea e stati membri e sulle modalità di gestione delle finanze pubbliche. Mentre la politica monetaria per gli stati membri della zona euro è affidata in via esclusiva all’UE ex art. 3(1)(c) TFUE, l’UE può solo coordinare le politiche economiche degli stati membri che, come ribadito dagli artt. 2(3), 5(1), 119 TFUE, restano autonome. Il consolidamento della governance economica è stato ottenuto non solo con strumenti interni all’Unione europea ma anche con trattati intergovernativi come il c.d. Fiscal Compact e quello istitutivo del Meccanismo europeo di Stabilità (MES). Mentre il primo ha rafforzato l’obbligo del pareggio di bilancio degli stati membri anche mediante un sistema più efficace di controllo e sanzioni, con il secondo si è costituita un’istituzione internazionale adibita a sostenere finanziariamente gli stati membri della zona euro in difficoltà. L’intervento del MES è però soggetto a una rigorosa condizionalità e cioè all’obbligo per i beneficiari di adottare le c.d. riforme strutturali. La condizionalità è ritenuta un corollario del principio secondo cui gli stati membri devono rimanere gli unici responsabili delle proprie finanze per evitare che l’unione economica e monetaria finisca per ridurre l’incentivo degli stati membri a tenere politiche di bilancio sostenibili (moral hazard) con effetti negati anche sulle finanze degli altri stati membri e dell’UE (spillover effects). In quest’ottica si spiegano varie norme del Trattato che potrebbero altrimenti apparire poco in linea con altri principi generali di diritto dell’UE, primo fra tutti quello di solidarietà. Il riferimento è ad esempio al c.d. divieto di bail out di cui all’art. 125 TFUE, in base a cui né l’UE né gli stati membri possono rispondere dei debiti di altri stati membri, cosicché ogni stato membro risponde da solo degli impegni presi. 3. La risposta dell’UE alle conseguenze economiche della pandemia di covid: MES, Patto di stabilità e crescita e Pandemic Emergency Purchase Programma Pur intendendo soffermarsi sulle iniziative economiche, il settore sanitario è un punto di partenza obbligato. È proprio in tale ambito, infatti, che si è assistito al rapido adeguamento al nuovo scenario di uno di quegli strumenti di governance economica sopra esaminati, e cioè il MES. Già ad aprile 2020, infatti, si è creata al suo interno un’apposita linea di credito precauzionale attivabile dagli stati membri per far fronte ai costi diretti e indiretti dell’assistenza sanitaria per il covid. A parte il MES, in una prima fase, nell’attesa di misure di supporto attivo agli stati membri, l’UE ha elaborato soprattutto iniziative di carattere passivo, e volte cioè a favorire la spesa pubblica degli stati membri rimuovendo i limiti che l’appartenenza all’UE comporta per l’intervento pubblico in economia. Un primo intervento è consistito nella sospensione del Patto di stabilità e crescita, o meglio l’attivazione – per la prima volta – della clausola di salvaguardia introdotta con la riforma del Patto di stabilità e crescita di cui al Six Pack. A fronte del contestuale irrigidimento delle regole di convergenza e sorveglianza dei bilanci degli stati membri e all’introduzione di più rigorose misure preventive e correttive, con il Six Pack si è infatti previsto che gli stati membri possano temporaneamente discostarsi dai vincoli di bilancio in caso di crisi generali causate da gravi recessioni dell’UE o della zona euro. Oltre a certificare l’eccezionale gravità della crisi economica e della recessione causata dalla pandemia, l’attivazione della clausola da parte della Commissione ha permesso agli stati membri di erogare rapidamente risorse per mitigarne gli effetti socioeconomici, senza preoccuparsi, nel breve periodo, dei vincoli di bilancio del Patto di stabilità e crescita. La risposta dell’UE non poteva però limitarsi a misure di carattere passivo volte a favorire la spesa degli stati membri. Oltre a risultare insufficiente, tale scenario avrebbe infatti causato una risposta asimmetrica alla crisi per via delle differenti capacità di spesa degli Stati membri con conseguenti distorsioni a danno delle economie 32 più deboli. L’attesa delle iniziative più ambiziose è stata possibile in virtù della copertura offerta dalle misure monetarie rapidamente assunte dalla BCE, come il Pandemic Emergency Purchase Programme. Si tratta di una misura non convenzionale per sostenere gli stati membri della zona euro che permette l’acquisto di titoli pubblici e privati per preservare la liquidità e la capacità creditizia del sistema a vantaggio di imprese e cittadini. L’iniziale dotazione del programma era di 750€ miliardi e la durata limitata al 2020 ma la flessibilità che lo contraddistingue ha permesso di aumentarne sia la potenza di fuoco che la portata temporale: in seguito all’ultima modifica del 10 dicembre 2020, si è saliti a 1.350€ miliardi e l’azione durerà almeno fino a marzo 2022. Infine, con riguardo al funzionamento, un aspetto essenziale che ha assicurato l’efficacia del Pandemic Emergency Purchase Programme nella risposta alla pandemia è l’alleggerimento del sistema del c.d. capital key che di regola limita l’azione della BCE: per permettere mutamenti dei flussi, nell’ambito del Pandemic Emergency Purchase Programme gli acquisti possono essere effettuati con flessibilità rispetto alla tradizionale ripartizione secondo lo schema di sottoscrizione del capitale della BCE da parte delle banche centrali nazionali. 4. (segue): il SURE Ad eccezione del pandemic emergency purchase programme di cui si è detto, una delle prime iniziative di supporto attivo agli stati membri adottata dall’UE è costituita dal SURE di cui al citato Reg. (UE) n.2020/672. Pur nel limitato orizzonte temporale di tale strumento emergenziale che terminerà il 31 dicembre 2022, il SURE anticipa alcuni dei più importanti aspetti sistematici che si ritrovano anche nel contesto del Next Generation EU. Andando con ordine, il SURE affronta una delle questioni più urgenti poste dalla crisi pandemica, offrendo sostegno finanziario ai sistemi degli stati membri di contrasto alla disoccupazione, molti dei quali rischiavano di collassare per via degli effetti economici della pandemia e delle misure restrittive adottate per farvi fronte. Il sostegno è garantito attraverso prestiti concessi agli stati membri che ne facciano richiesta, fino a un massimale di 100€ miliardi. Non vi sono limiti massimi all’assistenza a un singolo Stato membro ma, per evitare usi squilibrati delle risorse, si è stabilito che non più del 60% del totale potrà andare ai tre stati membri che abbiano ricevuto più sostegno. Sul lato del finanziamento, si è detto che il reperimento delle risorse finanziarie avviene attraverso l’emissione di obbligazioni da parte della Commissione, la quale, sfruttando l’ottimo rating dell’UE sui mercati finanziari è in grado di ottenere prestiti a tassi più favorevoli rispetto agli stati membri, specie quelli più in difficoltà. Gli stati membri sono invitati (ma non obbligati) a contribuire attraverso la prestazione di garanzie a copertura del 25% del totale. La prima tranche di titoli, per 17€ miliardi, è stata quotata il 27 ottobre 2020: ad oggi, sono stati raccolti circa 40€ miliardi e la Commissione prevede di finanziare ulteriori 50€ miliardi nel primo semestre del 2021. Il SURE fornisce supporto finanziario agli stati membri che abbiano subito un sensibile aumento della spesa per gli ammortizzatori sociali a causa della pandemia. Tali ammortizzatori, dunque, continuano a operare secondo le regole interne agli stati membri, anche per quanto riguarda, ad esempio, la definizione della platea dei beneficiari. Sul punto, l’art. 1 Reg (UE) n. 2020/672 è comprensibilmente generico, limitandosi ad indicare che delle risorse del SURE possano beneficiare i “regimi di riduzione dell’orario lavorativo o di misure analoghe che mirano a proteggere i lavoratori dipendenti e autonomi e pertanto a ridurre l’incidenza della disoccupazione e della perdita di reddito, nonché per finanziare determinate misure di carattere sanitario, in particolare nel luogo di lavoro”. Le difficoltà sono state superate identificando nell’art. 122 TFUE una valida base giuridica per l’istituzione di un siffatto meccanismo di assistenza ai sistemi nazionali contro la disoccupazione in tempi di crisi. La disposizione prevede, in prima battuta, la possibilità per il Consiglio di adottare, “in uno spirito di solidarietà tra stati membri”, misure adeguate alla situazione economica. Il secondo comma aggiunge che il Consiglio può concedere assistenza finanziaria a uno stato membro quando questi si trova “in difficoltà a causa di circostanze eccezionali che sfuggono al suo controllo”. La scelta di questa base giuridica certifica la natura temporanea del SURE, il quale è pensato solo come risposta all’emergenza derivante dalla pandemia. L’erogazione dei prestiti avviene su domanda dello stato membro in difficoltà e non opera, quindi, in modo automatico. La decisione di concedere l’assistenza finanziaria è assunta dal consiglio con un atto di esecuzione, su proposta della Commissione. Prima di formulare la proposta, la Commissione deve consultare lo Stato membro richiedente e valutare se questo soddisfi le condizioni per accedere all’aiuto. In particolare, si deve 35 L’art. 6 del Regolamento fissa la procedura con la quale si può giungere a sospendere l’erogazione dei fondi. L’iniziativa spetta alla Commissione, la quale può chiedere allo Stato membro di presentare osservazioni e, se ritiene che le misure proposte dallo Stato membro non siano adeguate, può presentare una proposta di decisione di esecuzione al Consiglio. Quest’ultimo dovrà decidere sull’adozione entro un mese dal suo ricevimento, a maggioranza qualificata. 6. Conclusioni Il 2020 è l’anno che ha visto vacillare e poi cadere alcuni dei capisaldi su cui si reggeva la governance economica europea. Alcune delle misure adottate per far fronte alle conseguenze socioeconomiche della pandemia erano, almeno fino al momento della loro adozione, impensabili sul piano politico e da più parti ritenute vietate dal punto di vista giuridico. SURE e, più ancora, Next Generation EU sono le misure nelle quali tali elementi di novità trovano concreta espressione, segnando una significativa rottura con i modelli del passato. Si tratta di meccanismi creati all’interno dell’ordinamento dell’Unione europea e finanziati attraverso il ricorso all’indebitamento diretto dell’Unione europea. Nel caso del Next Generation EU, poi, i prestiti sono garantiti dal bilancio dell’UE, incrementato anche attraverso l’introduzione di nuove risorse autenticamente proprie perché espressione di una capacità impositiva dell’Unione europea. Parimenti innovative sono anche le modalità di erogazione delle risorse a favore degli Stati membri, potendo questa avvenire sotto forma di sovvenzioni a fondo perduto. Nel caso di SURE la condizionalità è stata sostituita da un vincolo di destinazione dei fondi, mentre, per il Next Generation EU, gli stati membri devono utilizzare i fondi per perseguire obiettivi definiti a livello sovranazionale nell’ambito di un quadro istituzionale che costituisce un passo deciso verso l’elaborazione di una politica economica comune. La portata innovativa delle riforme parrebbe fortemente attenuata dalla loro natura temporanea. In effetti, per lenire le preoccupazioni degli stati membri frugali, SURE e Next Generation EU sono strumenti pensati solo per rispondere alla crisi pandemica e non hanno carattere stabile. CAPITOLO 8 – LA FINE DEGLI ARBITRATI D’INVESTIMENTO TRA STATI MEMBRI 1. Introduzione Il 28 agosto 2020 è entrato in vigore l’accordo con cui si conferma che i Trattati Bilaterali di Investimento (TBI) intra-UE, cioè conclusi tra stati membri dell’UE, sono estinti. I TBI intra-UE si sono diffusi in Europa in particolare dopo la caduta del muro di Berlino, soprattutto perché si avvertiva la necessità di incoraggiare gli investimenti occidentali nell’Europa orientale durante la transizione post-comunista. Gli elementi comuni a questi trattati che rilevano in questa sede sono sei: 1) si applicano ad atti amministrativi, giudiziari o legislativi, rientrando quindi nella categoria Investment arbitration o Investor-State Dispute Settlement 8ISDS), che si contrappone all’arbitrato commerciale, il quale riguarda invece rapporti privatistici; 2) prevedono l’obbligo dello Stato ospitante di accordare all’investitore dell’altro Stato un trattamento che sia giusto, equo, non- discriminatorio e che le restrizioni degli investimenti siano giustificate e proporzionate; 3) le controversie relative all’applicazione del TBI sono rimesse ad un collegio arbitrale composto di solito da professori o avvocati; 4) tale collegio arbitrale funziona di solito secondo regole quali l’UNCITRAL o le regole della International Chamber of Commerce (ICC) di Parigi o della Camera di commercio di Stoccolma o la Convenzione ICSID; 5) il suddetto collegio decide il caso sulla base del TBI intra-UE e del diritto internazionale; 6) in caso di estinzione o denuncia del TBI intra-UE, è prevista una clausola di sopravvivenza o clausola di caducità, secondo cui il TBI intra-UE continua ad applicarsi per un certo numero di anni. I TIB intra-UE sono da distinguersi dai TBI extra-UE cioè quelli stipulati con Stati terzi. L’Accordo di estinzione non costituisce una sconfitta per la protezione, nel mercato unico europeo, degli interessi degli investitori transfrontalieri, i cui diritti sono già protetti in tutte le loro forme e in tutto il loro ciclo div ita dal diritto dell’Unione europea tramite un sistema giurisdizionale completo. L’importanza storico dell’Accordo di estinzione consiste soprattutto nell’aver confermato e rafforzato l’autonomia 36 dell’ordinamento giuridico dell’Unione europea rispetto a fughe esterne al sistema dei pubblici poteri, in particolare al sistema giurisdizionale fondato sui giudici nazionali in cooperazione con la Corte di giustizia. 2. Violazione del diritto dell’Unione europea da parte degli stati membri nella previsione di clausole compromissorie intra-UE La contrarietà dei TBI intra-UE ai Trattati dell’UE si desumeva già dalla sentenza Mox Plant del 2006, la quale riguardava la contrarietà all’art. 344 TFUE e al principio di autonomia del diritto dell’unione europea di una clausola compromissoria contenuta in un trattato internazionale plurilaterale applicabile anche tra stati membri. La contrarietà dei TBI intra-UE al diritto dell’UE fu inoltre sostenuta a partire dal 2006 dalla Commissione, la quale negli anni successivi ha perseguito procedure d’infrazione contro gli stati membri aventi sottoscritto TBI intra-UE. È poi nella sentenza Achmea che la Corte di giustizia ha dichiarato in modo espresso e specifico che gli artt. 267 TFUE e 344 TFUE ostano a una clausola compromissoria contenuta in un TBI intra- UE. Nella sentenza Achmea, la Corte di giustizia ha anzitutto ricordato che un trattato internazionale non può compromettere l’allocazione delle competenze prevista dai Trattati dell’UE e, di conseguenza, il principio dell’autonomia del sistema giuridico dell’Unione europea. Tale principio è sancito in particolare dall’art. 344 TFUE, ai sensi del quale gli stati membri si impegnano a non sottoporre una controversia relativa all’interpretazione o all’applicazione dei Trattati dell’Unione europea ad un modo di composizione delle controversie diverso da quelli da essi previsti. In tale contesto, la Corte di giustizia ha spiegato il nesso tra l’autonomia e le caratteristiche del diritto dell’Unione europea in questo modo: il diritto dell’Unione europea è caratterizzato dal fatto che proviene da una fonte autonoma, costituita dai Trattati dell’unione europea, dal suo primato sui diritti degli stati membri e dall’efficacia diretta di tutta una serie di disposizioni applicabili ai loro cittadini e agli Stati membri stessi. Il diritto dell’UE si fonda quindi sulla premessa che ciascuno stato membro condivide una serie di valori comuni con tutti gli altri stati membri. Ciò implica l’esistenza di una fiducia reciproca tra gli stati membri nel riconoscimento di tali valori e, dunque, nel rispetto del diritto dell’Unione europea che li attua. La Corte di giustizia ha pertanto sancito che per garantire il mantenimento delle caratteristiche specifiche e l’autonomia dell’ordinamento giuridico dell’UE, i Trattati dell’UE hanno istituito un sistema giurisdizionale volto a garantire la coerenza e l’unità nell’interpretazione del diritto dell’Unione europea. A tale riguardo, la Corte di giustizia sottolinea due aspetti: i) conformemente all’art. 19 TFUE, spetta ai tribunali nazionali e alla Corte di giustizia stessa garantire la piena e uniforme applicazione del diritto dell’Unione europea in tutti gli stati membri e la tutela giurisdizionale dei diritti dei singoli sanciti dal diritto dell’UE; ii) la pietra angolare del sistema giurisdizionale così concepito è il procedimento pregiudiziale di cui all’art. 267 TFUE, il cui scopo è quello di garantire l’unità di interpretazione del diritto dell’Unione europea, garantendone così la coerenza, la piena efficacie e l’autonomia e, in definitiva, la specificità del diritto istituito dai Trattati. Dopo aver ricordato tali principi e parametri, la Corte di giustizia ha verificato se essi fossero stati lesi da una clausola compromissoria come quella contenuta nel TBI slovacco/olandese, che era stato applicato in Achmea. Il ragionamento della Corte di giustizia si articola in tre fasi. In primo luogo, le controversie in questione riguardavano una legge slovacca che aveva ostacolato l’investimento effettuato in Slovacchia da un investitore olandese in materia di assicurazioni sanitarie. La Corte di giustizia mira quindi a stabilire se tali controversie possano riguardare il diritto dell’Unione europea. La risposta è affermativa, in quanto il diritto dell’UE fa parte sia del diritto in vigore in ogni stato membro sia del diritto internazionale applicabile tra gli stati membri interessati. In secondo luogo, la Corte di giustizia verifica se un tribunale arbitrale previsto da un TBI intra-UE sia un organo giurisdizionale ai sensi dell’art. 267 TFUE. Non è questo il caso, poiché non fa parte del sistema giurisdizionale stabilito negli stati membri interessati, diversamente dalla situazione di una giurisdizione comune a vari stati membri. Pertanto, un siffatto collegio arbitrale non è un organo appartenente ad uno Stato membro e non può dunque adire la Corte di giustizia in via pregiudiziale. In terzo e ultimo luogo, la Corte di giustizia verifica se il lodo arbitrale in questione sia soggetto al controllo di un giudice nazionale, il quale può sottoporre alla Corte di giustizia questioni relative al diritto dell’Unione europea. Un lodo arbitrale è, in linea di principio, definitivo e il diritto processuale applicabile è scelto indirettamente dal tribunale arbitrale quando sceglie la sua sede. L’arbitrato in questione nella presente causa non trova origine nell’autonomia della volontà delle parti bensì deriva da un trattato internazionale in base al 37 quale gli stati membri convengono di sottrarre dalla competenza dei propri giudici e, pertanto, dal sistema dei ricorsi giurisdizionali di cui all’art. 19 TUE, le controversie che possono riguardare l’applicazione o l’interpretazione del diritto dell’Unione europea. Alla luce delle considerazioni di cui sopra, la Corte di giustizia conclude che stipulando un TBI intra-UE, gli stati membri che ne sono parti hanno istituito un meccanismo di risoluzione delle controversie tra un investitore e uno Stato membro idoneo ad escludere che tali controversie, pur riguardando l’interpretazione o l’applicazione del diritto dell’UE, siano risolte in modo da garantire la piena efficacia di tale diritto. Ne segue che gli artt. 267 e 344 TFUE si oppongono a una clausola compromissoria ivi contenuta. 3. L’estinzione dei TBI intra-UE nella loro totalità In virtù del diritto dell’UE, alla luce della sentenza Achmea, gli stati membri sono obbligati a porre fine ai TBI intra-UE. In primo luogo, infatti, i tipi di investimenti protetti dai TBI intra-UE rientrano nel campo di applicazione di almeno una delle libertà fondamentali garantite dal TFUE; il diritto dell’UE prevede un sistema completo di protezione giurisdizionale in caso di violazione di tali norme sostanziali; la tutela offerta dalle norme che garantiscono tali libertà fondamentali si estende anche alla fase successiva alla costituzione dell’investimento. Ne segue che i TBI intra-UE e i trattati dell’Unione europea hanno per oggetto la stessa materia. In secondo luogo, sussiste incompatibilità tra le disposizioni del trattato successivo, e quelle del trattato precedente a tal punto che è impossibile applicare contemporaneamente i due trattati. A quest’ultimo riguardo, è evidente che goni TBI intra-UE, proteggendo solo i cittadini dei due stati membri parti, viola il divieto di discriminazione sulla base della nazionalità previsto dai trattati dell’UE. Inoltre, i TBI intra-UE comportano un rischio diretto per l’ordinamento giuridico europeo quando il diritto dell’UE prevede norme vincolanti per le imprese che il TBI intra-UE contraddice: ad esempio, le norme dell’Unione europea in materia di aiuti di stato possono, a determinate condizioni, vietare il pagamento di una somma concessa da un tribunale arbitrale sulla base di un TBI intra-UE. Analogamente, vi è anche il rischio che i requisiti imposti dal legislatore dell’UE agli investitori (come l’obbligo di contribuire ai costi derivanti dalla ristrutturazione delle banche ai sensi della Dir. (UE) n. 2014/59) possano essere considerati contrari ai TBI intra-UE, i quali quindi interferiscono con gli obiettivi del mercato interno sanciti dal Trattato. La valutazione della proporzionalità delle misure concrete adottate dalle autorità nazionali di regolamentazione finanziaria deve essere lasciata ai giudici statuali, in cooperazione, se del caso, con la Corte di giustizia. Un lodo arbitrale che condanna uno stato membro parte di un TBI intra-UE al pagamento di ingenti somme di denaro a titolo di risarcimento danni per avere adottato una tale misura di regolamentazione finanziaria è in grado di sovrapporvi la propria ponderazione degli interessi pubblici in gioco e così di interferire con l’esercizio dei pubblici poteri nell’Unione europea. Del resto, le generiche clausole di c.d. fair and equitable treatment nei TBI intra-UE si prestano ad essere interpretate in modo estensivo a favore degli investitori. Il diritto dell’UE rende inapplicabili i TBI intra-UE dalla sua entrata in vigore negli stati membri. Inoltre, questi ultimi sono tenuti a conformare il proprio ordinamento giuridico al diritto dell’Unione europea e ad evitare qualsiasi effetto giuridico dei TBI intra-UE; ciò discende dal dovere di leale cooperazione di cui all’art. 4(3) TUE e dal principio della certezza giuridica nel diritto dell’UE. L’obbligo di assicurare certezza giuridica ed effettività del diritto dell’Unione europea è stato concretizzato dalla grande maggioranza degli stati membri, coordinati dalla Commissione: essi hanno sottoscritto l’Accordo di estinzione, che è già stato ratificato da diversi stati membri ed è in via di ratifica negli altri. 4. L’estinzione e la non-applicabilità delle clausole compromissorie contenute nei TBI intra-UE per i “Procedimento Arbitrali Pendenti” Più articolato è il discorso sulla categoria “Procedimento Arbitrale Pendente”, che è definita all’art. 1 come “il procedimento arbitrale proposto prima del 6 marzo 2018 e che non si configura come procedimento arbitrale concluso, indipendentemente dalla fase in cui versa alla data di entrata in vigore del presente accordo”. È rilevante a tale riguardo l’art. 4, il quale si applica a tutti i procedimenti, ma ha ovviamente una rilevanza pratica soprattutto per i procedimenti arbitrali pendenti. Il suo par. 1 prevede che: “le parti contraenti confermano che le Clausole Compromissorie sono in contrasto con i trattati dell’Unione europea e sono pertanto inapplicabili. Per effetto di tale incompatibilità tra le clausole compromissorie e i trattati dell’unione europea, a decorrere dalla data in cui l’ultima delle parti di un trattato bilaterale di investimento è diventata stato membro dell’unione europea la clausola compromissoria di detto Trattato non può fungere da base 40 è normalmente sufficiente; per stabilirsi in un paese terzo, una società deve soddisfare una serie di requisiti spesso sostanziali e rimanere poi assoggettata al sistema giuridico, fiscale e amministrativo di tale paese. Si tratta pertanto di una scelta strategica con vantaggi e svantaggi. Inoltre, l’arbitrato internazionale, pur potendo presentare alcuni vantaggi per un’impresa, comporta anche costi considerevoli. Sebbene offra un sistema completo di protezioni normative e giurisdizionali, il mercato interno ha bisogno, essendo uno “strumento vivente”, di essere protetto e sviluppato. Alla luce delle conclusioni del Consiglio ECOFIN dell’11 luglio 2017, la Commissione sta esaminando varie possibilità per sviluppare ulteriormente la protezione degli investitori nel mercato unico europeo. Varie altre misure possono fare l’oggetto di discussione per migliorare l’effettività e la coerenza nell’applicazione del diritto del mercato unico europeo. In primo luogo, la previsione di una possibilità per l’investitore di ricorso alla mediazione anche in materia non- commerciale: il fatto per un investitore di poter obbligare, in sede pre-contenziosa, uno stato membro a sedersi ad un tavolo di trattative e di utilizzare a tale fine la guida di un professionista indipendente può essere un vantaggio pratico. Le autorità pubbliche hanno talvolta, soprattutto in materie complesse, un margine discrezionale; nell’esercizio di questo margine e nel rispetto del diritto, vi può essere un modo per evitare restrizioni sproporzionate alla libera circolazione nel mercato interno europeo. Ciò che è importante per gli investitori è spesso prevenire e, se del caso, risolvere i problemi con l’amministrazione. In secondo luogo, la possibilità per la Commissione di avere ed utilizzare in modo efficace poteri di parere, raccomandazione e, in alcuni casi, di decisione per cercare di evitare l’adozione di leggi o misure regolamentari o amministrative nazionali contrarie al diritto europeo del mercato interno. In terzo luogo, il rafforzamento del monitoraggio dell’applicazione del diritto dell’Unione europea che istituzioni europee effettuano in modo tale da massimizzare la sistematicità ed efficacia dell’enforcement. Ad avviso di chi scrive, lo scopo ultimo dovrebbe essere non solo aiutare gli investitori internazionali come fine a sé stante bensì aiutare il mercato unico europeo nel suo complesso, e ciò anche a beneficio degli investitori internazionali. CAPITOLO 9 – RIPENSARE IL SISTEMA DUBLINO 1. Il nuovo Patto europeo sull’immigrazione e l’asilo: profili introduttivi Il Patto europeo sull’immigrazione e l’asilo (il Patto) costituisce un atteso programma di riforme del sistema comune europeo di asilo (CEAS). L’eccezionale portata dei flussi migratori registrati sulle rotte del Mediterraneo meridionale e dei Balcani fra il 2010 e il 2011, a seguito delle primavere arabe, e fra il 2015 e il 2016, quale conseguenza della guerra in Siria, ha esacerbato l’inconciliabilità delle posizioni di molti degli Stati membri. Si è così giunti ad una condizione di emergenza permanente, nella quale, ormai, anche l’ordinaria gestione di arrivi – oggi numericamente più contenuti ma continui – di cittadini di Stati terzi alimenta un serrato braccio di ferro tra opposte vedute a livello nazionale. Così, per esempio, gli Stati membri del Sud dell’Europa, oggettivamente più esposti ai flussi in arrivo, invocano da tempo una più equa ripartizione degli oneri operativi e finanziari legati alla gestione del fenomeno, mentre il c.d. gruppo di Visegrad (Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia) mira sotto molti profili ad eludere gli obblighi di derivazione europea nella materia in esame e rigetta qualsiasi accezione solidaristica del sistema comune di asilo. Da un lato, molte delle iniziative intraprese dall’Unione europea in materia di immigrazione ed asilo hanno dimostrato di non raggiungere il grado di efficacia auspicato. Spesso, ciò è avvenuto a causa della carente volontà in capo a taluni Stati membri di rispettare puntualmente il diritto dell’Unione e di operare in un’ottica di leale collaborazione verso l’Unione europea e gli altri Stati membri, così come, di converso, a motivo dell’impossibilità di fronteggiare adeguatamente oneri esorbitanti le capacità operative, organizzative e finanziarie di un solo Stato membro. Dall’altro lato, si registra un perdurante stallo politico, che ha posto ostacoli decisivi ad ogni tentativo di riformare specifici aspetti della politica europea di immigrazione ed asilo, con il risultato, quasi paradossale, di perpetuare le criticità poc’anzi richiamate. 41 Il Patto si pone dunque l’obiettivo centrale di interrompere questo circolo vizioso e di traghettare l’Unione europea ed i suoi Stati membri verso una nuova e più ambiziosa fase del processo di integrazione nel settore in esame, sotto l’egida dei principi di solidarietà ed equa ripartizione delle responsabilità, consacrati dall’art. 80 TFUE quali necessari comuni denominatori dell’azione dell’Unione europea e dei suoi stati membri in materia di immigrazione ed asilo. In particolare, il programma di misure mira a promuovere l’adozione di un quadro di intervento europeo integrato, coordinato e duraturo, nella consapevolezza della inevitabile interdipendenza delle politiche e delle posizioni nazionali in materia. In quest’ottica, l’iniziativa della Commissione include, oltre ad alcuni atti di soft law, cinque proposte di regolamento dedicate a vari profili del sistema europeo comune di asilo: i criteri ed i meccanismi per la ripartizione delle responsabilità in merito all’esame delle richieste di protezione internazionale, la riforma delle procedure per il riconoscimento della protezione internazionale, la messa in opera di una procedura integrata di screening dei migranti alla frontiera esterna dell’Unione europea, la riforma della disciplina della banca dati per il confronto delle impronte digitali dei richiedenti asilo e delle persone che hanno attraversato in maniera irregolare una frontiera esterna dell’Unione, l’istaurazione di un meccanismo di reazione a situazioni di crisi e forza maggiore in materia di immigrazione ed asilo. 2. L’evoluzione del CEAS ed i criteri per l’individuazione dello Stato competente ad esaminare una richiesta di protezione internazionale Il CEAS rappresenta un quadro politico e normativo che presidia la gestione delle richieste di protezione internazionale sulla base di regole comuni agli Stati membri dell’UE. Strutturalmente orientato al rispetto della Convenzione di Ginevra del 1951 relativa allo status dei rifugiati ed al suo protocollo addizionale del 1967, il CEAS ha origine dalle conclusioni del Consiglio europeo di Tampere del 1999, che per la prima volta vi fu un riferimento esplicito. Da allora, il CEAS ha conosciuto due principali fasi di sviluppo. Una prima stagione normativa, tra il 2000 ed il 2005, si è incentrata sull’adozione di standard normativi minimi comuni agli ordinamenti nazionali. La seconda fase, avviata in seguito dell’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, ha condotto ad un ulteriore rafforzamento della cooperazione europea in materia. Ciò grazie all’approvazione di più incisive norme di armonizzazione, volte a definire, fra gli altri aspetti, una procedura comune per la valutazione delle richieste di protezione internazionale, le condizioni di accoglienza dei richiedenti e uno status uniforme a livello europeo per i titolari di protezione. Il CEAS ha colto l’eredità della convenzione di Dublino, un accordo internazionale firmato nel 1990 dagli allora 12 stati membri della Comunità europea ed entrato in vigore nel 1997. Originariamente collocata al di fuori della sistematica del diritto UE, la convenzione è stata successivamente sostituita dal c.d. Regolamento Dublino II che ha ricondotto la materia nell’alveo delle politiche dell’Unione europee e, segnatamente, dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia. Da ultimo, in corrispondenza della sopra richiamata seconda fase del CEAS, tale atto è stato abrogato dal c.d. Regolamento Dublino III, che tutt’oggi disciplina la materia. Già nell’impianto della convenzione di Dublino si evinceva chiaramente la volontà di definire criteri di allocazione delle responsabilità il più possibile chiari ed onnicomprensivi, quali elementi decisivi per l’appropriato funzionamento del sistema d’asilo. Tali criteri, infatti, intendono assicurare una rapida e certa individuazione dello stato membro competente per l’esame di una domanda di protezione internazionale, sia a beneficio dell’efficace conduzione di questa politica comune, sia a tutela dei richiedenti. In primo luogo, il tentativo di scongiurare il fenomeno dei c.d. richiedenti in orbita, ovverosia le situazioni in cui incertezza nella determinazione delle rispettive responsabilità portino ad un reiterato ed infruttuoso trasferimento del soggetto coinvolto da uno Stato membro all’altro, senza che l’esame della domanda di protezione venga condotto da alcuno di essi. In secondo luogo, la garanzia che tutte le richeiste siano valutate e che tale esame sia completato in tempi ragionevoli. Da ultimo, si persegue l’obiettivo di porre un freno ai c.d. movimenti secondari, vale a dire agli spostamenti dei richiedenti dallo Stato membro competente per l’esame della domanda ad un altro. Queste situazioni, oltre a rendere più complessa la determinazione dello stato membro competente, generano altresì il rischio di multiple richieste di protezione, dinanzi alle autorità di più stati membri, con conseguenti aggravi procedurali ed amministrativi a discapito dell’efficace gestione del sistema. La volontà di istituire un modello di individuazione dello stato membro competente il più possibile lineare ed effettivo trova riscontro nella struttura gerarchica dei relativi criteri. 42 Il primo genus di criteri richiede anzitutto un chiarimento in merito alle nozioni di familiare e parente che già si trovino sul territorio dell’Unione europea, così come definite all’art. 2, lett. G) e h), del regolamento Dublino III. Il concetto di familiare si applica alle sole relazioni personali costituitesi nel paese di origine e indica il coniuge, il partner con cui vi sia una relazione stabile – purché il diritto o la prassi dello Stato membro interessato assimilino la situazione delle coppie di fatto a quelle sposate nel quadro della normativa sui cittadini di paesi terzi – e i figli minori non coniugati. Nel caso in cui il richiedente sia un minore non coniugato, rientrano in questa nozione anche il padre, la madre o un altro adulto responsabile per il minore secondo la legge o la prassi dello Stato membro in cui si trova l’adulto medesimo. Sono invece qualificati come parenti gli zii ed i nonni. Risalta, già a prima vista, l’esclusione dei fratelli e delle sorelle. In questo quadro, l’art. 8 del Regolamento Dublino III disciplina la peculiare condizione dei minori non accompagnati. Rientrano in questa definizione i minori che giungano in territorio europeo privi della necessaria assistenza morale e materiale da parte di un adulto investito della loro responsabilità o che siano abbandonati una volta fatto ingresso in uno stato membro. In queste situazioni, il superiore interesse del minore è la prioritaria preoccupazione del legislatore dell’UE. Lo stesso dicasi per le autorità nazionali chiamate a valutare la domanda di protezione, le quali possono destinare il minore allo Stato membro in cui già si trovi legalmente un familiare, un fratello, una sorella o un parente, a patto che la valutazione delle circostanze del caso di specie non suggerisca una diversa soluzione, alla luce del prevalente interesse del minore. Questa categoria di fattori è completata da una clausola deregatoria, che, su base volontaria, consente agli stati membri di discostarsi dalla gerarchia dei criteri ove sussistano particolari condizioni di vulnerabilità. Si tratta di ipotesi in cui, a motivo di gravidanza, maternità recente, grave malattia o età avanzata, il richiedente, o un figlio/a, fratello/sorella o genitore già legalmente residente in uno stato membro, necessitino di assistenza. In simili casi, il Regolamento Dublino III assicura la priorità del ricongiungimento familiare su eventuali alti criteri rilevanti, purché vi sia dimostrazione della reale capacità di garantire idonea assistenza alla persona a carico. La seconda categoria di criteri, gerarchicamente sotto-ordinata a quelli appena esaminati, raccoglie una varietà di situazioni in cui la presenza del richiedente nell’Unione europea dipende dalla concessione di un titolo di soggiorno o di un visto da parte di uno stato membro, o dalla scelta delle autorità di uno stato membro di esentare il richiedente medesimo dall’obbligo di visto. La responsabilità dello stato membro in questione perdura anche allo spirare del termine di validità dei titoli sopra citati, entro il limite di due anni dalla scadenza dei titoli di soggiorno o sei mesi in caso di visti. La natura esaustiva dei criteri delineati dal Regolamento Dublino III è infine assicurata da una clausola di chiusura del sistema, che identifica la terza ed ultima categoria di fattori di collegamento. Si tratta della c.d. regola dello stato membro di primo ingresso, in forza della quale la competenza è attribuita in via residuale allo Stato attraverso la cui frontiera terrestre, aerea o marittima il richiedente è entrato illegalmente nel territorio dell’Unione europea. Tale criterio opera sino ad un periodo di dodici mesi dalla data di attraversamento clandestino della frontiera. Se la richiesta non è presentata entro questo termine, o se non vi sia modo di accertare le condizioni dell’ingresso irregolare, la competenza è accordata all’ultimo stato membro nel quale il richiedente ha soggiornato in maniera continuativa per almeno cinque mesi prima di presentare la propria domanda di protezione. 3. Le criticità dei “criteri di Dublino” e le iniziative intraprese per fronteggiarle: i meccanismi di ricollocazione dei richiedenti protezione internazionale e la proposta di regolamento Dublino IV Anche da questa sintetica descrizione è agevole presagire come le prime due categorie di criteri delineate riguardino situazioni marginali rispetto al volume complessivo di richieste di protezione internazionale. Ne deriva che la regola del primo ingresso, originariamente ideata quale rete di sicurezza del sistema, costituisce in realtà il fattore di collegamento elettivo in una percentuale assai significativa di casi, come le statistiche ufficiali confermano. La concentrazione di parte preponderante dei flussi di richiedenti sul versante meridionale della frontiera esterna dell’UE determina, a cascata, sensibili disparità nella ripartizione fra stati membri dei relativi oneri. Da ciò derivano conseguenze negative per la tenuta del CEAS, quali la rieterata difficoltà di stati membri come Grecia, Malta, Italia, Spagna e, più di recente Cipro di assicurare condizioni di accoglienza dignitose, di esaminare in tempi ragionevoli le domande – o di esaminarle tout court – così come di prevenire movimenti secondari. 45 poc’anzi richiamato e la gestione della procedura accelerata. In secondo luogo, la determinazione dello stato membro competente, sulla base della successione gerarchica di criteri ed alla luce della situazione in essere al momento della registrazione della domanda. Infine, onde scongiurare movimenti secondari capaci di frustrare il funzionamento del sistema, al richiedente è imposto di permanere nel territorio di tale stato membro fino a che la procedura di verifica della responsabilità per l’esame della sua domanda non sia conclusa. Il Patto annovera alcuni meccanismi idonei a mitigare parzialmente l’elevazione degli stati membri di primo ingresso a perno operativo del sistema. La prima opzione riguarda il meccanismo per le situazioni derivanti da sbarchi ricorrenti in occasione di operazioni di ricerca e soccorso. Questo schema viene attivato laddove la Commissione, in una annuale relazione sulla gestione della migrazione, rilevi che uno o più stati membri si trovino a fronteggiare sbarchi ricorrenti o ad accogliere richiedenti vulnerabili. Sotto il coordinamento della Commissione, gli altri stati membri devono adottare un “piano di risposta solidaristica”, contenente l’indicazione delle misure di sostegno operativo e sviluppo di capacità che intendono realizzare. A ciò si affianca una quota obbligatoria di migranti dei quali è necessario accettare la redistribuzione, sulla base di una chiave di calcolo basata per il 50% sull’entità della popolazione nazionale e per il restante 50% sul PIL. Il secondo e complementare strumento è denominato “meccanismo per le situazioni derivanti da pressione migratoria”. D’ufficio o a seguito di una segnalazione dello stato membro interessato, la Commissione opera una valutazione sui flussi migratori relativi ai sei mesi precedenti e può indicare – anche in questo caso nella relazione sulla gestione della migrazione – le misure che gli altri stati membri sono chiamati a adottare. Ciascuno di essi sottopone dunque ad una valutazione preliminare della Commissione i propri impegni, che possono di regola spaziare da sponsorizzazioni di rimpatri a ricollocazioni di beneficiari protezione internazionale o di migranti non sottoposti alla procedura accelerata di frontiera. In una ideale progressione di gravità ed urgenza della situazione migratoria, un terzo ed ultimo meccanismo è dedicato alle situazioni di crisi. Dal punto di vista procedurale, questo strumento è molto simile al precedente, ma presenta tre caratteristiche distintive. In primo luogo, le sole misure disponibili sono ricollocazioni e rimpatri sponsorizzati. In secondo luogo, l’ambito applicativo soggettivo è molto più esteso, poiché coinvolge anche coloro che siano sottoposti a procedura di frontiera e i migranti che soggiornino irregolarmente nel territorio di uno stato membro. Infine, la procedura segue una tempistica rigorosa, stante l’urgenza dettata dalla situazione di crisi. 5. Conclusioni: un nuovo inizio o vecchie criticità? Come si è cercato di evidenziare, il Patto rappresenta in linea generale una possibile occasione di rilancio per il processo di integrazione europea, affossato nell’ultimo decennio da forze centrifughe e particolarismi nazionali. Nel pur comprensibile tentativo di evitare al Patto una rapida condanna all’oblio, la Commissione ha ideato un modello di gestione dei flussi migratori e delle richieste di protezione internazionale caratterizzato da alcuni apprezzabili elementi di novità, ma ampiamente tributario di soluzioni operative già sperimentate nel recente passato, peraltro quasi sempre senza apprezzabile successo. La risposta al quesito introduttivo circa la reale portata innovativa del Patto non può dunque che essere negativa: nonostante alcuni meriti, il Patto non appare il nuovo inizio che la Commissione stessa annuncia. Oltre a questo aspetto strutturale, i profili del Patto analizzati manifestano tra principali criticità. Anzitutto, il modello di gestione dei flussi migratori è improntato ad una netta anticipazione cronologica e territoriale della valutazione sulla situazione delle persone interessate e delle procedure applicabili nei loro confronti, a dispetto della complessità di queste operazioni e della necessità di individualizzare ogni esame di merito. Questo approccio determina una seconda problematica: anche alla luce della prassi attuale, è ragionevole prevedere che la gestione alla frontiera di molte procedure decisive per il funzionamento del sistema crei – in assenza di correttivi – un “collo di bottiglia” rispetto alla mole di oneri operativi in capo agli Stati membri frontalieri, con conseguenze deleterie per il CEAS nel complesso. Infine, è giocoforza dubitare della scelta della Commissione di puntare in maniera decisiva sullo strumento delle ricollocazioni. Benché i meccanismi prospetati superino i principali difetti degli schemi attuati sinora, molti stati membri hanno a più riprese dimostrato una contrarietà radicale all’istituto in esame. Una contrarietà che la previsione di misure più diffusamente accettate quali i rimpatri sponsorizzati potrebbe non bastare a superare. 46 CAPITOLO 10 – IL GREEN DEAL EUROPEO 1. Introduzione al Green Deal europeo Il c.d. “Green Deal europeo (GDE)” figura al primo posto fra le sei priorità elencate negli orientamenti politici presentati dalla Presidente della Commissione von der Leyen per il suo mandato quinquennale. Si tratta di un programma politico di ampio respiro e di lungo periodo volto a rendere sostenibile l’economia, affrontando le sfide dell’inquinamento ambientale e del cambiamento climatico e trasformandole, al contempo, in opportunità di crescita ed occupazione. L’obiettivo del GDE è duplice: da un lato, giungere, entro il 2050, alla c.d. “neutralità climatica”, in modo da ridurre progressivamente la concentrazione atmosferica di CO2 e di altri gas ad effetto serra che causano il riscaldamento globale; dall’altro lato, scollegare la crescita economica dall’utilizzo delle risorse naturali. Entrambi questi obiettivi devono essere perseguiti “senza lasciare indietro nessuno”, mettendo quindi a disposizione adeguate risorse finanziarie per permettere a tutti i territori di raggiungerli. Una transizione energetica che diminuisca le emissioni di carbonio ha senso solo nella misura in cui ciò non aggravi il bilancio ambientale in altri comparti, tenendo conto dei possibili trade-off, come avviene, ad esempio, quando si incrementa la produzione di energia da fonti rinnovabili o considerate tali senza tenere in debito conto le esigenze della biodiversità. 2. Lo stato dell’ambiente La politica e il diritto dell’Unione europea per l’ambiente si sono fortemente sviluppati negli ultimi quaranta anni. Le normative ambientali nazionali e regionali negli stati membri sono pressoché tutte, direttamente o indirettamente, ispirate a norme o policies dell’UE. I risultati raggiunti non sono però sufficienti. Le ragioni sono molteplici. In primo luogo, molte tematiche ambientali, dai cambiamenti climatici all’uso intensivo delle risorse, all’inquinamento dell’aria e dei mari, hanno carattere globale. Possiamo quindi migliorare l’efficienza energetica e rendere più puliti i processi produttivi, ma l’efficacia delle misure attuate nell’UE rimane circoscritta, poiché l’economia degli stati membri dipende in gran parte da risorse provenienti o utilizzate in altre parti del pianeta. In secondo luogo, perché alcuni progressi ottenuti – come la riduzione di certi inquinanti atmosferici – sono negativamente compensati da modifiche demografiche o degli stili di vita: è sufficiente ricordare il costante aumento della popolazione complessiva a livello globale, che è triplicata dal 1950, e di quella che vive negli agglomerati urbani, che è persino quadruplicata nello stesso arco temporale; oppure si pensi all’aumento esponenziale del turismo legato ai voli low-cost. in terzo luogo, esiste un “deficit di attuazione” a livello nazionale, regionale o locale, che spesso limita l’efficacia delle normative. Infine, si accetta che l’economia si fondi in larga parte su processi o prodotti che hanno un impatto sull’ambiente, col risultato che spesso i progressi finiscono per essere solo marginali, o comunque insufficienti, a fonte delle reali esigenze dell’ambiente. Il risultato è che siamo, a detta della scienza, ad un punto di svolta: la finestra temporale per agire prima che le problematiche ambientali finiscano per impattare in modo irreversibile, determinando catastrofiche estinzioni, si sta progressivamente riducendo. Tutto ciò impone un radicale cambio di paradigma. Non è più sufficiente affrontare in maniera settoriale i problemi dell’ambiente, ma occorre ripensare gli stessi modelli di produzione e consumo e di attribuzione dei prezzi alle variabili ambientali, superando l’artificiosa divisione fra politica ambientale e altre politiche; si tratta dell’approccio che nel GDE viene indicato con il termine “transformative change”. 3. Ambiente e clima nei Trattati istitutivi e portata giuridica del Green Deal europeo Dal punto di vista delle competenze, la tutela dell’ambiente trova nei Trattati diversi riferimenti. Secondo l’art. 3(3) TUE, l’Unione europea “si adopera per lo sviluppo sostenibile dell’Europa basato su un elevato livello di tutela e di miglioramento della qualità dell’ambiente”. L’art. 4(2) (e) TFUE include la tutela dell’ambiente tra le competenze concorrenti fra Unione europea e stati membri. Infine, il titolo XX TFUE, composto dagli artt. 191-193 TFUE, rappresenta la base giuridica vera e propria delle disposizioni ambientali. La tutela dell’equilibrio climatico è parte integrante della politica ambientale. Fra gli obiettivi di tale politica, enunciati all’art. 191(1) TFUE, figura la “promozione sul piano internazionale di misure destinate a risolvere i 47 problemi dell’ambiente a livello regionale o mondiale e, in particolare, a combattere i cambiamenti climatici”. Ai sensi dell’art. 191(2) TFUE, la politica dell’Unione europea in materia ambientale “mira a un elevato livello di tutela tenendo conto della diversità delle situazioni nelle varie regioni dell’Unione”, ed è fondata sui principi della precauzione e dell’azione preventiva, della correzione in via prioritaria alla fonte dei danni all’ambiente e sul principio “chi inquina paga”. Dal punto di vista giuridico, la Comunicazione sul GDE in quanto “atto atipico”, non è vincolante. Sarebbe tuttavia riduttivo considerare il GDE alla stregua di mera soft law, nella misura in cui la Comunicazione sul GDE prelude ad una cospicua serie di proposte legislative da sviluppare nei prossimi anni. La Comunicazione sul GDE è invece un quadro d’insieme di un processo destinato a condizionare la legislazione dell’Unione europea e, di conseguenza, quella degli stati membri. Inoltre, quale programma politico a lungo termine, il GDE si sovrappone ai PAA che, dal 1973, sono periodicamente approvati per delineare gli obiettivi di politica ambientale e il quadro di insieme delle misure da approvare. Come enunciato dalla Commissione nella proposta del 14 ottobre 2020, l’8° PAA, che condivide con il GDE la visione a lungo termine e gli obiettivi, “sosterrà l’impegno comune dell’UE a favore della ripresa verde”. Tale programma, valido fino al 2030, “mira ad accelerare, in modo equo e inclusivo, la transizione a un’economia climaticamente neutra, efficiente sotto il profilo delle risorse, pulita e circolare, e sostiene gli obiettivi in materia di ambiente e clima del Green Deal europeo e le relative iniziative. Pertanto, l’8° PAA rinforza gli impegni del GDE, coinvolgendo, almeno negli obiettivi, il Parlamento ed il Consiglio e prevedendo inoltre un nuovo quadro di monitoraggio. 4. I contenuti del Green Deal europeo A parte l’introduzione, la Comunicazione sul GDE si compone di tre capitoli: “Trasformare l’economia dell’UE per un futuro sostenibile”; “L’UE come leader mondiale”; e “Il momento di agire insieme: un patto europeo per il clima”. Il contenuto di gran lunga più importante del GDE si trova nel capitolo 2, il quale a sua volta è suddiviso in due parti, la prima dedicata all’elaborazione delle “politiche profondamente trasformative” e la seconda, che tratta degli aspetti economico-finanziari e dell’integrazione “della sostenibilità in tutte le politiche dell’UE”. La prima area tematica riguarda gli obiettivi climatici per il 2030 e il 2050. L’obiettivo della neutralità climatica entro il 2050 era stato proposto dalla Commissione nel 2018 nella long term vision e avallato nel 2019 dal Consiglio europeo e dal Parlamento europeo, che ha inoltre dichiarato l’emergenza climatica. Nel GDE, la Commissione si è impegnata su due fronti: da un lato, a proporre una legge europea sul clima per rendere vincolante l’impegno verso la neutralità climatica; dall’altro a proporre una modifica verso l’alto dell’obiettivo di riduzione delle emissioni di gas a effetto serra stabilito per il 2030, e la conseguente modifica dei rilevanti strumenti legislativi già in vigore in materia di clima ed energia. In assenza di norme vincolanti a livello globale, al fine di prevenire la delocalizzazione delle imprese nonché di evitare che gli obiettivi di riduzione vengano negativamente compensati da emissioni in altri Paesi legate alla produzione di beni di importazione (il c.d. carbon leakage), la Commissione proporrà un meccanismo di adeguamento del carbonio alle frontiera”: vale a dire un sistema di tariffe all’importazione volto a equilibrare il prezzo di prodotti importati con quello degli stessi prodotti fabbricati nell’Unione europea. Tale strumento dovrà essere concepito in modo da non violare gli accordi commerciali multilaterali. La seconda area tematica riguarda “l’approvvigionamento di energia pulita, economica e sicura”. La produzione e l’utilizzo dell’energia, incluso il settore dei trasporti, contribuisce per oltre il 75% delle emissioni di gas a effetto serra nell’Unione europea. Nel 1999, l’Unione europea ha adottato un regolamento sulla governance dell’Unione dell’energia e dell’azione per il clima, che obbliga gli stati membri a trasmettere alla Commissione, a scadenze di dieci anni a partire dal 2019, piani nazionali integrati su energia e clima. La Commissione li valuta e, se ritiene, adotta raccomandazioni. Fra gli obiettivi di questo sistema vi è quello di creare un quadro che faciliti gli investimenti, promuova la cooperazione fra gli stati membri e riduca i costi amministrativi. Poiché i piani presentati dagli stati membri nel 2019 erano fondati sull’obiettivo di riduzione delle emissioni del 40% entro il 2030, gli stessi dovranno essere aggiornati per tenere conto del nuovo e più ambizioso obiettivo di una riduzione pari al 55%. La terza tematica è riferita all’industria e all’economia circolare. L’industria, compreso il settore dell’estrazione di materie prime è in buona parte responsabile, oltre che di una rilevante quota di emissioni di gas a effetto 50 7. Valutazione e prospettive Sicuramente il programma politico in favore dell’ambiente e del clima rappresenta un cambio di passo rispetto al passato, in particolare considerando l’annunciata modifica della legislazione in molti settori. Inoltre, il GDE punta a superare la frammentazione normativa e a promuovere un approccio coerente in cui la coperta corta non implichi che il perseguimento di un obiettivo possa andare a scapito di altri. L’ulteriore merito del GDE è quello di avere messo in evidenza l’urgenza di agire, in un ambito in cui, in particolare con riferimento al cambiamento climatico, i frutti delle azioni odierne potranno essere colti solo dalle generazioni future, fatto che limita l’impegno della politica, che per lo più punta alla crescita dei consensi nel breve periodo. La sostenibilità non viene più considerata un “dovere morale a cui adempiere”, ma una necessità per la sopravvivenza stessa del genere umano e un’opportunità di crescita e di radicale trasformazione della società. Il legame fra crescita e investimenti verdi non è più visto come una nicchia limitata ai settori della green economy, ma come il fulcro dell’intera economia. L’art. 192(4) TFUE stabilisce che “fatte salve talune misure adottate dall’Unione, gli stati membri provvedono al finanziamento e all’esecuzione della politica in materia ambientale”. L’esperienza nei quattro passati decenni mostra che gli stati membri, pur con grandi differenze, sono restii a prevedere nei propri bilanci le risorse sufficienti per attuare gli impegni ambientali presi nell’ambito dell’Unione europea. L’ambiente continua a primeggiare nelle statistiche sulle procedure di infrazione legata alla cattiva attuazione della normativa dell’Unione europea. L’avere previsto un’agenda politica che prende in considerazione contestualmente l’aspetto normativo e quello finanziario, integrando la dimensione ambientale nelle altre politiche e nei relativi capitoli di spesa, è di fondamentale importanza. Una preoccupazione evidenziata in dottrina si riferisce al fatto che le priorità politiche potrebbero nuovamente cambiare, e anzi la pandemia ha già avuto come conseguenza prese di posizione contro il GDE da parte di esponenti di governo in Cechia e Polonia. Tuttavia, si deve obiettare, proprio il legame fra pandemie, tutela dell’ambiente e benessere è una ragione in più per rafforzare l’attuazione del GDE, non per indebolirla. Un ulteriore elemento di prudenza deriva dalla possibile sottostima del reale fabbisogno finanziario per attuare il GDE, o sovrastima delle possibilità di mobilitare gli investimenti privati, oltre che dal pericolo di greenwashing, per esempio calcolando come investimenti verdi spese che in realtà hanno poco a che vedere con reali progressi per lo stato dell’ambiente. La forza del GDE dipenderà tuttavia in parte da come i suoi obiettivi e strumenti influenzeranno il resto del mondo. La Commissione ha annunciato di voler subordinare la conclusione di futuri accordi commerciali globali alla ratifica e attuazione efficace dell’Accordo di Parigi. Inoltre, di fondamentale importanza saranno le misure volte a prevenire e limitare il c.d. carbon leakage, come il meccanismo di adeguamento del carbonio alle frontiere, che devono ancora essere elaborate. CAPITOLO 11 – LO STATO DI DIRITTO PRESO SUL SERIO 1. Introduzione Gli ultimi mesi del 2020 hanno visto una significativa escalation della tensione politica tra gli Stati membri rispetto al tema dello Stato di diritto. Lo scontro ha in particolare riguardato la proposta di regolamento concernente la tutela del bilancio dell’Unione europea in caso di carenze generalizzate riguardanti lo Stato di diritto negli stati membri. Presentata due anni prima dalla Commissione europea, la proposta prevedeva l’introduzione di un meccanismo di condizionalità volto ad impedire che violazioni dello Stato di diritto da parte di uno Stato membro dell’Unione europea potessero minare la fiducia reciproca e la solidarietà finanziaria tra gli stati membri, ingenerando anche perdite per il bilancio sovranazionale. Polonia e Ungheria, i due stati membri che, in tempi recenti, hanno manifestato maggiormente l’inclinazione a dare vita a violazioni sistematiche dello stato di diritto procedendo verso l’affermazione di un modello di democrazia illiberale, hanno lanciato una sfida politica senza precedenti agli altri stati membri e alle istituzioni dell’Unione. Con una dichiarazione congiunta adottata il 26 novembre 2020, i Capi di governo di Polonia e Ungheria hanno concordato di non accettare alcuna soluzione volta a ricondurre l’approvazione della suddetta proposta nell’ambito del processo di adozione del nuovo quadro finanziario pluriennale (QFP), determinando 51 di fatto uno stallo nel negoziato sulle risorse finanziarie dell’Unione e mettendo così a rischio l’intesa raggiunta in luglio per il rilancio comune dell’economia europea stremata dalla pandemia. Il Consiglio europeo del 10 e 11 dicembre 2020 ha quindi sbloccato lo stallo politico determinato dalla posizione assunta dai due stati membri, consentendo l’adozione del QFP 2021-2027 di Next Generation EU e, con essi, del Regolamento sulla condizionalità per la protezione del bilancio dell’Unione europea. Il presente contributo intende mettere in evidenza la portata innovativa di tale regolamento nel più generale contesto concernente la reazione dell’Unione europea a violazioni gravi e persistenti dello Stato di diritto da parte degli stati membri. 2. La tutela dello Stato di diritto nell’Unione europea ed il c.d. “dilemma di Copenaghen” Se si esclude il “precedente” costituito dalla reazione nei confronti dell’Austria, dopo l’ingresso nel governo di Vienna della forza politica di estrema destra e xenofoba guidata da Jorg Haider, è solo in seguito all’adozione della nuova costituzione ungherese (2011), ed alle successive riforme introdotte nello stato magiaro, che il tema del rispetto dei valori fondamentali dell’UE si è nuovamente posto con forza nel dibattito sovranazionale. Come noto, l’art. 2 TFUE chiarisce che l’”Unione si fonda sui valori del rispetto della dignità umana, della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, dello Stato di diritto e del rispetto dei diritti umani, compresi i diritti delle persone appartenenti alle minoranze”. Tali valori si identificano a tal punto con l’essenza del processo di integrazione che al loro rispetto è subordinata l’adesione di nuovi Stati all’Unione europea. Vi è dunque una chiara e diretta connessione tra la membership all’Unione europea e il rispetto dei suoi valori fondanti. A richiamare in particolare l’attenzione delle istituzioni europee sono state le minacce al valore dello Stato di diritto derivanti da diverse riforma adottate in Ungheria e, più recentemente, in Polonia. A livello europeo, anche grazie all’azione svolta in seno al Consiglio d’Europa dalla c.d. Commissione di Venezia, si è giunti a ricostruire una nozione largamente accettata che individua nello Stato di diritto un meta-valore, o meta- principio. In particolare, la Commissione di Venezia, composta da esperti nel campo del diritto e della scienza politica, ha elaborato una Rule of Law Checklist messa a disposizione degli stati parti del Consiglio d’Europea, che, prendendo le mosse dalla celebre definizione data da Lord Bingham, realizza un collegamento stabile tra Stato di diritto, tutela dei diritti umani e democrazia. Ora, come noto, il diritto primario dell’Unione europea prevede una procedura di controllo politico, rimessa all’apprezzamento delle due istituzioni ove siedono i rappresentanti degli stati membri, volta a verificare l’esistenza di un rischio evidente di violazione grave dei valori di cui all’art. 7 TUE o di una violazione grave e persistente di tali valori. Si tratta di un meccanismo di peer review dalla matrice squisitamente intergovernativa. Nell’ipotesi più grave, quella cioè in cui si certifichi l’esistenza di una violazione grave e persistente dei valori dell’Unione europea, è possibile adottare una decisione che introduce sanzioni nei confronti dello Stato membro interessato. In pratica, si può decidere di sospendere alcuni dei diritti di cui esso gode in quanto Stato membro, a partire dai diritti di voto in sede istituzionale. Non è invece contemplata, diversamente da altre organizzazioni internazionali, la possibilità di espulsione dello stato membro che abbia commesso tale violazione. Probabilmente a motivo della natura intergovernativa della procedura, l’art. 7 TFUE non ha rappresentato sino ad oggi una risposta adeguata alle derive illiberali emerse nei due stati membri dell’Unione europea. Su questo ha certamente pesato anche la narrazione che circonda tale disposizione in quanto tale da attivarsi solo in casi estremi. Ed in effetti, ad oggi, la disposizione, che è stata introdotta nel 1997 con il Trattato di Amsterdam, è stata attivata solo due volte: il 20 dicembre 2017, da parte della Commissione, contro la Polonia e il 12 settembre 2018, da parte del Parlamento, contro l’Ungheria. In entrambi i casi si è deciso di avviare il meccanismo di c.d. early warning, volto a verificare il rischio di una violazione grave e persistente dei valori dell’Unione europea; entrambe le procedure, tuttavia, risultano ancora pendenti. L’incapacità del Consiglio di applicare efficacemente l’art. 7 TFUE continua a compromettere l’integrità dei valori comuni europei, la fiducia reciproca e la credibilità dell’Unione nel so complesso. Questa valutazione richiama il c.d. “dilemma di Copenaghen”, descritto nel 2012 dall’allora vicepresidente della commissione, la signora Viviane Reading, nel corso di un dibattito ospitato dalla plenaria del Parlamento europeo sulla situazione politica in Romania: il fatto cioè che le istituzioni sovranazionali siano particolarmente rigorose nel valutare il rispetto dei valori su cui l’Unione europea si basa nel contesto del processo di adesione di un nuovo Paese, risultando poi sostanzialmente prive 52 di strumenti per verificare che tale rispetto permanga una volta che tale Paese è divenuto uno Stato membro dell’organizzazione. È evidente che una violazione sistemica dello Stato di diritto, che si manifesta anche attraverso la violazione di norma puntuali di diritto dell’UE, deve essere valutata per quello che è: una rottura del fondamento valoriale su cui si regge il processo di integrazione europea. Il rischio, cioè, è che la valutazione del comportamento dello Stato membro alla luce di obblighi non direttamente riconducibili a quello avente ad oggetto il rispetto dei valori fondamentali dell’UE finisca con il banalizzare la condotta controversa, non consentendo di predisporre una reazione adeguata ed efficace. Paradigmatico appare da questo punto di vista il caso Commissione c. Ungheria, deciso dalla Corte di giustizia nel novembre 2012. Esso ha avuto ad oggetto la compatibilità con il diritto dell’Unione europea dell’introduzione, in Ungheria, di un regime nazionale che ha bruscamente abbassato l’età pensionabile per giudici, procuratori e notai. Si tratta peraltro di una misura che, come si vedrà, è stata poi riproposta anche nella riforma del sistema giudiziario messa in opera in Polonia. Dietro un simile provvedimento, avente portata generale e apparentemente neutro, si cela un disegno politico preciso: procedere con la sostituzione sistematica dei magistrati e notai formatisi prima dell’avvento al potere del partito di maggioranza con soggetti più vicini a quest’ultimo. La misura dà vita, insomma, ad una indebita interferenza sull’indipendenza del potere giudiziario e come tale può senz’altro essere qualificata nei termini di una violazione grave e sistemica dello Stato di diritto. Significativamente, però, nel procedimento avviato innanzi alla Corte di giustizia la Commissione non ha ritenuto di dover menzionare la dimensione valoriale, che rimane pertanto indistinta, sullo sfondo. Essa ha chiesto invece alla Corte di giustizia di valutare se la misura controversa risultasse in contrasto con la disciplina contenuta nella Direttiva n. 2000/78/CE sul divieto di discriminazioni in materia di occupazione. Alla base della richiesta della Commissione vi era la tesi che il nuovo regime pensionistico discriminasse sulla base dell’età giudici, procuratori e notai rispetto agli altri dipendenti pubblici. Nella propria sentenza, la Corte di giustizia ha avallato la ricostruzione offerta dalla Commissione, senza compiere alcun riferimento, nemmeno indiretto, all’art. 2 TUE. Si è in tal modo trasformato un comportamento in evidente conflitto con l’impianto valoriale dell’UE in una semplice violazione di un singolo atto di diritto derivato. Nel 2014, la Commissione ha adottato un Nuovo quadro per rafforzare lo stato di diritto. Si tratta di un meccanismo, facente leva sul potere della Commissione volto a formulare raccomandazioni agli stati membri, e consistente nell’introduzione di un dialogo strutturato tra l’istituzione e lo stato membro ove sussistono chiare indicazioni di una minaccia sistemica dello Stato di diritto. Laddove il dialogo instaurato non consenta una soluzione condivisa, la Commissione potrà adottare una raccomandazione sullo Stato di diritto che indichi i motivi della preoccupazione e inviti lo Stato membro a risolvere i problemi individuati. Ove anche questo intervento non desse risultati, la Commissione potrà valutare di attivare uno dei meccanismi previsti dall’art. 7 TUE. In pratica, il Nuovo quadro introduce un’articolata procedura che precede un’eventuale attivazione dell’art. 7 TUE, posticipandone pertanto la messa in opera. Anche questo strumento, tuttavia, si è dimostrato nei fatti poco efficace. Nel gennaio 2016, la Commissione ha deciso di avviare un dialogo strutturato con la Polonia a motivo delle riforme al sistema giudiziario introdotte nel paese. Il risultato di ciò si è tradotto in quattro raccomandazioni sullo stato di diritto in Polonia, cui tale stato membro non ha dato alcun seguito, approfittando invece del tempo a disposizione per portare a compimento alcune delle riforme contestate dalla Commissione. 3. L’affermazione, in via giurisprudenziale, di una c.d. mutual membership europea fondata sullo Stato di diritto Un punto di svolta importante nella reazione alle violazioni dello Stato di diritto si è avuto nella primavera del 2018 quando, a pochi giorni di distanza, la Corte di giustizia ha pronunciato due sentenze con le quali ha delineato un approccio più efficace per il controllo dell’operato degli stati membri alla luce dei valori fondamentali dell’Unione europea. Più precisamente, la Corte di giustizia si è interessata di definire la possibilità – e l’ampiezza – di un proprio sindacato sui sistemi giudiziari degli stati membri. In Associacao Sindical dos Juizes Portugueses e Achmea, concernenti rispettivamente le misure di austerity adottate dagli stati membri e gli accordi bilaterali di investimento conclusi tra stati membri dell’Unione europea, la Corte di giustizia, facendo leva sulla ricostruzione dell’Unione europea nei termini di una Unione di diritto, ha individuato un collegamento diretto tra l’art. 2 TUE, che, come visto, menziona lo Stato di diritto 55 predeterminato per giustificare l’esercizio di un potere sanzionatorio e se quello rappresentato dalle linee guida costituisca lo strumento più opportuno per precisare la portata dell’atto. Le considerazioni appena svolte rilevano anche per due ulteriori possibili profili di illegittimità del regolamento che meritano di essere menzionati e che riguardano il rispetto dell’art. 4(2) TUE, da un lato, e del principio di attribuzione delle competenze, dall’altro. In pratica, essi farebbero leva sul fatto che il Reg. (UE) n.2020/2092 darebbe vita ad una indebita invasione di campo, limitando le funzioni essenziali degli stati membri e le loro esclusive competenze. Si tratta, peraltro, di profili che è ben possibile che Polonia e Ungheria abbiano richiamato nei rispettivi ricorsi sul regolamento. 5. Considerazioni conclusive: Taking the rule of law seriously Se c’è un dato che tutte le crisi cui è stata sottoposta l’Unione europea negli ultimi anni ci consegnano – dalla crisi dei debiti sovrani a quella, senza precedenti, determinata dalla pandemia di Covid-19 – è che la salvaguardia del processo di integrazione dipende dalla capacità di individuare soluzioni condivise. Perché ciò possa avvenire occorre valorizzare la dimensione multilaterale dei vincoli di partecipazione all’Unione europea nonché proteggere i valori che ne costituiscono la base e la premessa. Di tutto questo dovrà occuparsi anche la Conferenza sul futuro dell’Europa, chiamata nei prossimi mesi ad aprire uno spazio di discussione per affrontare le sfide e le priorità dell’Unione europea. Tra le domande alle quali si dovrà cercare di dare una risposta vi è anche quella relativa a quanto ancora possa tollerarsi una situazione in cui il comportamento di pochi stati membri, impegnati nello sviluppo di democrazie di stampo illiberale, condizioni l’evoluzione del processo di integrazione nel suo insieme. È circostanza nota che nella reazione alle crisi di questi anni si siano evidenziate diverse situazioni nelle quali anche le istituzioni dell’Unione europea hanno mostrato una certa fatica ad aderire al modello dell’“Unione di diritto”, dando vita a prassi e soluzioni giuridiche fortemente discutibili, rispetto ai quali la Corte di giustizia non sempre ha esercitato un controllo puntuale. Coerenza vuole che le istituzioni dell’Unione, a partire dalla Corte di giustizia, mostrino il medesimo rigore tanto nello scrutinare i comportamenti degli stati membri quanto nel valutare l’azione dei soggetti che operano nel contesto del quadro istituzionale allargato dell’Unione. CAPITOLO 12 – IL DIGITAL MARKET ACT DECODIFICATO 1. Introduzione Il 2020 è stato l’anno in cui l’Unione europea ha preso la guida del movimento, che sta diventando planetario, diretto a sottoporre al vaglio dei principi di leale concorrenza i giganti digitali, quali, in primis, Google, Amazon, Facebook, Apple e Microsoft, giganti che spesso sono collettivamente indicati con l’acronimo GAFAM, composto dalle iniziali degli stessi. L’Unione si è mossa su due diversi fronti. Sul primo, più tradizionale, la Commissione ha continuato ed allargato la sua azione di controllo del rispetto degli artt. 101 e 102 TFUE da parte dei GAFAM: il 16 giugno 2020 ha aperto un’istruttoria contro Apple relativamente ai termini di utilizzo di alcune sue app; il 10 novembre 2020 ha inviato una comunicazione di addebiti ad Amazon in relazione alle condotte commerciali tenute nella sua duplice veste di marketplace e di rivenditore; il 17 dicembre 2020 ha autorizzato, ma solo a certe condizioni, l’acquisizione di Fitbit da parte di Google, nei confronti della quale peraltro aveva già adottato tra il 2017 e il 2019, tre decisioni sanzionatorie che le infliggevano ammende per un valore complessivo pari a 8.25€ miliardi. Sempre nel 2020, all’azione di enforcement dell’Unione si è affiancata anche quella di taluni Stati membri, fra i quali ad esempio vanno ricordati Germania, Italia e Francia. Su altro fronte, più innovativo, l’Unione europea ha avviato una procedura legislativa diretta all’adozione di norme specificamente applicabili alle più grandi piattaforme digitali. A tal fine, il 15 dicembre 2020, la Commissione ha presentato una proposta di regolamento relativo ai mercati equi e contendibili nel settore digitale, già nota come Digital Market Act, o meglio ancora con il suo acronimo DMA. La base giuridica della proposta è costituita dall’art. 114 TFUE, relativo all’armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri per il funzionamento del mercato interno. Gli elementi più innovativi del DMA sono due: 56 anzitutto, l’introduzione della figura dei gatekeeper, ossia i “controllori dell’accesso” ai mercati nel settore digitale e, in secondo luogo, l’elaborazione di specifici obblighi in capo ai suddetti gatekeeper, diretti a scongiurare pratiche “sleali o che limitano la contendibilità del mercato”. diversamente, dal punto di vista procedurale e sanzionatorio, il DMA riflette gli schemi del Reg. (CE) n.1/2003 concernente l’applicazione degli artt. 101 e 102 TFUE. Come tale regolamento, esso contempla infatti ampi poteri di indagine e di accettazione di impegni della Commissione e di comminazione di ammende il cui ammontare può raggiungere il 10% del fatturato totale del gatekeeper. Mentre la finalità e il contenuto della nozione di gatekeeper sono relativamente chiari, non altrettanto può dirsi degli obblighi ad essi imposti. Infatti, gli artt. 5 e 6 DMA contengono complessivamente ben 18 tipi di prescrizioni estremamente eterogenei e tra loro assai dissimili, classificati semplicemente in obblighi auto- applicativi e in obblighi suscettibili di essere oggetto di ulteriori specifiche concordate con la Commissione. 2. I caratteri specifici delle grandi piattaforme digitali e rischi per la concorrenza Le grandi piattaforme digitali, categoria a cui i GAFAM appartengono, sono connotate da tre caratteri specifici. In primo luogo, dal punto di vista della struttura imprenditoriale, esse sono contraddistinte da costi fissi molto significativi – si pensi ad esempio ai costi dei motori di ricerca o di sviluppo di un sistema operativo o quelli connessi alla attività di R&S informatico – e da costi marginali e variabili invece prossimi allo zero: l’incremento di offerta di un particolare servizio non comporta effettivi aumenti di costi di produzione. Inoltre, le grandi piattaforme digitali spesso beneficiano di economie di scala e di economie di scopo. Queste ultime, in particolare, sono importanti, poiché con la medesima strumentazione informatica e produttiva le piattaforme sono in grado di operare in molti mercati diversi. In secondo luogo, i servizi prestati attraverso le piattaforme digitali sono caratterizzati da un rilevantissimo effetto di rete (c.d. network effect), vale a dire che il numero di utenti che utilizza un servizio favorisce, di per sé, l’incremento degli stessi: ad esempio, se Amazon rappresenta il marketplace con il più grande numero di imprese venditrici, questa sola circostanza implica che un sempre maggior numero di consumatori sarà indotto ad utilizzare Amazon per i suoi acquisti online; questo a sua volta spingerà altre imprese ad aggiungersi al marketplace di Amazon con il risultato di attirare su di esso un ancor più alto numero di potenziali acquirenti, e così via. Tale network effect è dovuto al fatto che, normalmente, le piattaforme digitali operano su un mercato caratterizzato da due o più versanti (multi-side market), ossia da almeno due diverse categorie di utenti le quali sono, al tempo stesso, i fruitori di un servizio offerto in un versante e, per così dire, il prodotto venduto agli utenti dell’altro versante. Infine, la terza specifica caratteristica delle piattaforme digitali è rappresentata dal ruolo cruciale dei dati, che costituiscono l’asset fondamentale di tali imprese, in quanto sono il nutrimento quantitativo e qualitativo dei loro software di funzionamento. Tanto più alto è il numero e la varietà dei dati, quanto più rapidamente e precisamente gli algoritmi elaborano e producono i servizi per gli utenti. Le suddette caratteristiche salienti delle piattaforme digitali sono suscettibili di rendere le loro attività particolarmente sensibili dal punto di vista antitrust. In senso concorrenziale, le grandi piattaforme digitali appaiono spesso in grado di espandere rapidamente le loro attività su diversi mercati, offrendo servizi e beni in maniera efficiente ed innovativa. In senso anticoncorrenziale, tuttavia, una volta assestatesi quali incumbent, tali piattaforme digitali, da un lato, possono imporre condizioni di utilizzo onerose o discriminatorie ai loro utenti finali e/o commerciali per i quali esse rappresentano imprescindibili portali (c.d. gateways) di intermediazione tra i diversi versanti del mercato e, dall’altro, beneficiano di importanti barriere protettive che rendono la loro posizione difficilmente contendibile anche da parte di imprese altrettanto o maggiormente efficienti. La particolare forza competitiva delle piattaforme digitali deriva principalmente dalle economie di scopo. Come ricordato, queste consentono di produrre beni o servizi diversi con l’utilizzo dei medesimi fattori produttivi, con conseguenti notevolissimi risparmi di costi rispetto a concorrenti non altrettanto digitalizzati. Come accennato, questa vis espansiva delle piattaforme digitali, sebbene possa destare delle preoccupazioni per i rischi di esclusione dei concorrenti (meno efficienti), costituisce un elemento fortemente positivo nella prospettiva della tutela dell’interesse degli utenti, in quanto spesso si esprime nell’offerta di servizi innovativi e meno costosi rispetto a quelli prestati in maniera tradizionale. 57 Venendo invece ai rischi posti dalle piattaforme digitali, questi derivano anzitutto dalla circostanza che tali piattaforme, quali gateways tra i diversi versanti del mercato, beneficiano di un forte squilibrio in termini di diritti e di obblighi nei confronti dei loro utenti finali e commerciali. Ciò permette loro di porre in essere eventuali condotte abusive, come l’imposizione di condizioni di utilizzo onerose e/o discriminatorie. In secondo luogo, una volta affermatesi come incumbent la posizione delle piattaforme digitali risulta difficilmente contendibile anche per i concorrenti in grado di offrire beni o servizi di pari o addirittura maggiore efficienza. Questa ridotta contendibilità discende fondamentalmente da due ordini di ragioni. Per primo, il network effect, che rappresenta una formidabile barriera all’ingresso per potenziali concorrenti. La seconda ragione per la quale la posizione di una piattaforma incumbent è difficilmente contendibile è rappresentata dalla difficoltà dei concorrenti ad accedere ai dati degli utilizzatori, dati che, come osservato, rappresentano l’asset cruciale per la fornitura dei servizi digitali. Nella raccolta dati giocano di nuovo a favore della piattaforma incumbent il network effect e le economie di scopo. Il primo, provocando un incremento esponenziale del numero degli utenti, produce inevitabilmente un aumento qualitativo e quantitativo del flusso dei dati; le seconde perché l’aumento del numero e della varietà di servizi offerti dalla piattaforma incrementa le fonti e i tipi di dati collezionabili. Per contro, i concorrenti, nel momento in cui cercano di accedere al mercato, hanno normalmente a disposizione pochi dati e di scarsa qualità. 3. Il gatekeeper e i suoi obblighi Si è accennato nel paragrafo 1 che il DMA individua come oggetto degli obblighi da esso previsti una nuova figura, denominata gatekeeper, vale a dire il “controllore dell’accesso” ai servizi di base della piattaforma. Le ragioni dell’introduzione di tale figura, che si affianca e in parte si sovrappone a quella dell’impresa in posizione dominante, sono evidenti. Per i motivi indicati nel precedente paragrafo, un numero ridotto di grandi fornitori di servizi digitali è dotato di notevole potere economico. L’applicazione delle norme antitrust classiche, che comunque rimane possibile, rischia di non essere proficua per la tutela della concorrenzialità dei mercati interessati. Anzitutto essa è spesso solo eventuale ed ex-post, e non è in grado, pertanto, di scongiurare il perdurare, anche per lungo tempo, di condotte nocive per l’interesse dei consumatori e dei concorrenti. In secondo luogo, nel caso di condotte unilaterali, l’applicazione delle norme antitrust implica, in successione, la definizione dei mercati rilevanti – operazione che nel mondo digitale presenta spesso complessità ancora maggiore che in quello fisico – nonché l’accertamento di una posizione dominante nel mercato individuato – posizione che, nel caso dei fornitori dei servizi digitali, può non sussistere in termini tradizionali. Per cercare di risolvere queste difficoltà, il DMA individua i gatekeeper sulla base di parametri completamente diversi da quelli utilizzati dall’art. 102 TFUE per stabilire il dominio su un mercato: il primo è relativo al tipo di servizi offerti dalla piattaforma, il secondo riguarda gli elementi dimensionali della stessa. Per quanto attiene ai servizi offerti, l’art. 2 DMA dispone che un gatekeeper è un fornitore di almeno un servizio di piattaforma di base, vale a dire uno dei seguenti: a) servizi di intermediazione online; b) motori di ricerca online; c) servizi di social network online; d) servizi di piattaforma per la condivisione di video; e) servizi di comunicazione interpersonale indipendenti dal numero; f) sistemi operativi; g) servizi di cloud computing; h) servizi pubblicitari, compresi reti pubblicitarie, scambi di inserzioni pubblicitarie e qualsiasi altro servizio di intermediazione pubblicitaria, erogati da un fornitore di uno dei servizi di piattaforma di base elencati alle lettere da a) a g). Per quanto riguarda invece il profilo dimensionale, l’art. 3 DMA prevede che, oltre a prestare servizi di piattaforma di base, il fornitore è designato come gatekeeper se soddisfa cumulativamente tra condizioni: 1) ha un impatto significativo sul mercato interno; 2) gestisce un servizio di piattaforma di base che costituisce un punto di accesso (gateway) importante affinché gli utenti commerciali raggiungano gli utenti finali; 3) detiene una posizione consolidata e duratura nell’ambito delle proprie attività o è prevedibile che acquisisca siffatta posizione nel prossimo futuro. Sono inoltre definite talune presunzioni relative al soddisfacimento di tali tre condizioni. La prima è soddisfatta se l’impresa cui appartiene il fornitore dei servizi di piattaforma di base raggiunge un determinato fatturato annuo nel SEE o una certa capitalizzazione di mercato, nonché se esso fornisce un servizio di piattaforma di base in almeno tre stati membri. Il secondo requisito è rispettato se il fornitore presta un servizio di piattaforma di base che annovera nell’ultimo esercizio finanziario più di 45 milioni di utenti finali attivi mensilmente, stabiliti o situati nell’UE, e oltre 10.000 utenti commerciali attivi annualmente stabiliti nell’UE. Infine, la detenzione consolidata e duratura della posizione di punto di accesso, 60 Queste disposizioni sono funzionalizzate a rendere più certo il quadro giuridico, ma non innovano significativamente rispetto ai divieti che già discendono, in particolare, dall’art. 102 TFUE. Infatti, le pratiche leganti applicate dalle grandi imprese digitali sono già state diverse volte ritenute incompatibili con le norme antitrust del trattato. Assai più innovativi sono gli obblighi qualificabili come divieti di bundling, tutti raccolti nell’art. 6 DMA. La disposizione impone al gatekeeper: i) di consentire agli utenti finali di disinstallare qualsiasi applicazione software preinstallata sul loro servizio di base; ii) di consentire l’installazione e l’uso effettivo di applicazioni software o di negozi di applicazioni software (app store) di terzi che utilizzano sistemi operativi del gatekeeper o che sono interoperabili con essi, iii) di consentire l’accesso a tali applicazioni software o negozi di applicazioni software con mezzi diversi dai servizi di piattaforma di base di tale gatekeeper; iv) di astenersi dal limitare a livello tecnico la possibilità per gli utenti finali di passare e di abbonarsi a servizi e applicazioni software diversi, cui hanno accesso avvalendosi del sistema operativo del gatekeeper; ciò vale anche per la scelta del fornitore di accesso a Internet da parte degli utenti finali. 6. Gli obblighi di non-discriminazione Nell’art. 6 DMA sono inclusi alcuni obblighi riconducibili al divieto di non discriminazione. Si tratta di tre ipotesi qualificabili come segue: i) divieto di “appropriazione dei dati” dei concorrenti (data grabbing); ii) divieto di auto-preferenza (self-preferencing) e iii) divieto di condizioni discriminatorie di accesso all’app store. Partendo dal divieto di appropriazione dei dati dei concorrenti, questo si riferisce ai casi in cui un gatekeeper riveste il doppio ruolo di fornitore di servizi di base della piattaforma a favore di utenti commerciali, nonché di fornitore di servizi in concorrenza con quelli offerti da tali utenti commerciali. In queste circostanze, un gatekeeper potrebbe utilizzare i dati generati dai servizi di base per avvantaggiarsi sui mercati in concorrenza. Per evitare tale distorsione concorrenziale l’art. 6(1)(a) DMA prevede che il gatekeeper debba astenersi dall’utilizzare, in concorrenza con gli utenti commerciali, dati non accessibili al pubblico generati attraverso le attività di tali utenti ovvero forniti da questi o dai loro utenti. Un secondo obbligo di non-discriminazione imposto ai gatekeeper è rappresentato dal divieto di auto- preferenza. L’art. 6(1)(d) DMA dispone infatti che i gatekeeper debbano astenersi dal garantire un trattamento più favorevole in termini di posizionamento ai servizi e prodotti da loro stessi offerti rispetto ai servizi o prodotti analoghi di terzi e impone ai gatekeepers di applicare condizioni eque e non discriminatorie a tale posizionamento. La pratica, che è già nota come self-preferencing, presenta una sua specifica categorizzazione giuridica rispetto all’obbligo generale di non-discriminazione perché presuppone la capacità della piattaforma di classificare o ordinare, secondo uno o più criteri da essa stessa stabiliti, i prodotti o i servizi delle imprese che operano attraverso i suoi servizi. Pertanto, non riguarda tutte le ipotesi in cui un soggetto discrimina un prodotto o servizio dei concorrenti rispetto al proprio, ma solo i casi in cui ciò avviene a mezzo di un ranking. 7. Gli obblighi relativi all’accesso ai dati Nel DMA è presente un gruppo di obblighi relativi all’accesso da parte di utenti commerciali o di utenti finali ai dati ottenuti dal gatekeeper mediante la prestazione dei suoi servizi. In via di principio la condivisione obbligatoria di un asset di un’impresa, non solo viola il diritto di proprietà, ma rischia anche di diminuire significativamente gli incentivi agli investimenti e all’innovazione, dato che i risultati degli stessi possono dover essere spartiti con i concorrenti. Per tali ragioni i giudici europei hanno ammesso che il rifiuto di fornire un bene o un servizio, anche se opposto da un’impresa dominante, possa costituire un abuso solo alle condizioni molto restrittive definite nella c.d. dottrina delle essential facilities. Il DMA non contempla un diritto di accesso generalizzato ai dati, ma prevede tre obblighi specifici. Il primo è previsto all’art. 6(1)(g) DMA e prevede che il gatekeeper debba fornire a inserzionisti ed editori, su loro richiesta e a titolo gratuito, l’accesso ai propri strumenti di misurazione delle prestazioni e le informazioni loro necessarie affinché possano effettuare una verifica indipendente dell’offerta di spazio pubblicitario. Tale obbligo è previsto per contrastare il fatto che spesso le condizioni in cui i gatekeeper forniscono servizi pubblicitari online agli utenti commerciali sono opache e non trasparenti con la conseguente limitata disponibilità di informazioni per gli inserzionisti e gli editori sull’effetto di un determinato annuncio. Il secondo obbligo riguarda i dati generati dagli stessi utenti, sia commerciali che finali. Si tratta di una vasta quantità di informazioni che sono preziose dal punto di vista economico. Per garantire che gli utenti 61 commerciali abbiano accesso ai dati pertinenti così generati, l’art. 6(1)(i) DMA prevede l’obbligo del gatekeeper di fornire a titolo gratuito agli utenti commerciali, o a terzi da loro autorizzati, l’accesso efficace a dati aggregati e non aggregati, e di garantire alle stesse condizioni l’uso dei dati che sono forniti o generati nel contesto dell’uso dei servizi di piattaforma di base da parte di tali utenti commerciali nonché degli utenti finali che si avvalgono di prodotti o servizi forniti dagli utenti commerciali. L’art. 6(1)(j) DMA prevede che il gatekeeper debba fornire a qualsiasi fornitore terzo di motori di ricerca online, su loro richiesta, l’accesso a condizioni eque, ragionevoli e non discriminatorie ai dati di posizionamento, interrogazione, click e visualizzazione in relazione alla ricerca gratuita e a pagamento generata dagli utenti finali sui motori di ricerca online del gatekeeper, previa anonimizzazione per l’interrogazione, click e visualizzazione dei dati che costituiscono dati personali. Un diverso, ma collegato, profilo dell’accesso ai dati è rappresentato dalla possibilità per gli utenti commerciali e finali di trasmettere i propri dati a fornitori di servizi digitali concorrenti. Una delle soluzioni che possono essere esplorate per mantenere viva la concorrenza è prevedere che gli utenti commerciali e finali possano trasferire i loro dati ad altri fornitori di servizi digitali concorrenti. Facilitare lo switching da un fornitore all’altro o il multi-homing conduce ad una maggiore scelta per gli utenti commerciali e per gli utenti finali e a un incentivo per tutti gli operatori ad innovare. In quest’ottica, l’art.6(1)(h) DMA stabilisce che il gatekeeper debba garantire l’effettiva portabilità dei dati generati mediante l’attività di un utente commerciale o utente finale e debba fornire in particolare degli strumenti agli utenti finali per agevolare l’esercizio della portabilità dei dati, in linea con il citato regolamento sulla privacy, anche per mezzo della fornitura di un accesso continuo e in tempo reale. Ciò implica che l’interessato abbia il diritto di ricevere dal gatekeeper i dati da esso generati e di trasmetterli ad un soggetto terzo in un formato strutturato, di uso comune e leggibile da un dispositivo automatico. 8. Conclusioni Se analizzato nella prospettiva di cogliere la sua efficacia sulla concorrenzialità dei mercati digitali, il DMA risulta piuttosto confondente. La circostanza che taluni obblighi imposti ai gatekeeper siano auto-applicativi ed altri invece possano eventualmente richiedere, per il loro rispetto, un dialogo con la Commissione rende poco chiara la portata della proposta normativa in termini di garanzia della concorrenzialità dei mercati interessati. In maniera più trasparente e intellegibile si sarebbe potuto collocare tali obblighi secondo una tassonomia antitrust classica e individuare in una norma ad hoc quali di essi erano auto-applicativi e quali potevano necessitare di un intervento di specificazione da parte della Commissione. In ogni caso, l’articolazione in dettaglio degli obblighi concorrenziali, la precisazione che in taluni casi è necessario l’intervento delle istituzioni pubbliche (la Commissione) per l’identificazione delle condotte concorrenziali e l’individuazione della figura del gatekeeper sulla base di parametri qualitativi e quantitativi sufficientemente certi spostano il baricentro della applicazione dei principi di concorrenza da ex post a ex ante. E ci pare questo l’elemento più qualificante della proposta di DMA.