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Se non diventerete come bambini, Sintesi del corso di Letteratura Contemporanea

Libro scritto dal professore. Il riassunto è integrato anche con gli appunti del corso

Tipologia: Sintesi del corso

2021/2022

Caricato il 27/11/2023

giuliamusumeci-1
giuliamusumeci-1 🇮🇹

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Scarica Se non diventerete come bambini e più Sintesi del corso in PDF di Letteratura Contemporanea solo su Docsity! SCIENZE DELLA FORMAZIONE PRIMARIA PROVA ITINERE DICEMBRE 2022 Insegnante: Salvatore Ferlita 30 novembre 2022 Capitolo 1 Bambini di carta Il capitolo 1 si apre con un aforisma dell’autore Pel di carota, citando la frase ‘’ Non tutti i bambini hanno la fortuna di essere orfani’’. Il personaggio che si presenta per definizione alla dimensione romanzesca è l’orfano maschio, dinanzi al quale si spalanca la strada dell’avventura, perché le orfanelle sono destinate a rimanere in famiglia in balia di una matrigna che quasi sempre ha la meglio sul padre della ragazza. I meccanismi della fiaba prevedono che matrigna e orfana entrano in conflitto. Le dinamiche della rivalità e della sfida mettono in un primo momento l’orfana in un angolo, la affliggono fino all’inverosimile e facendole rischiare un processo di disumanizzazione fino a quando accade qualcosa che controbilancia le parti fino alla compensazione vera e propria che consiste in un matrimonio importante. È questa la logica del riequilibrio che nella fiaba interviene a favore dei più deboli. Tra le mire della matrigna può esserci quella di sostituire l’orfana con le proprie figlie. È la narrativa d’avventura per i ragazzi che per i protagonisti orfani ha un debole. Questi riferimenti ci possono portare a pensare all’isola del tesoro di Stevenson: il padre di Jim, proprietario di una locanda, passa a miglior vita ma senza creare troppo chiasso, come se fosse un fatto come tanti, destinato a confondersi con gli altri: Jim si sente in dovere di rimarcare l’accaduto. Nei romanzi di Dickens, gli orfani spuntano come funghi: nelle storie raccontate dall’autore di “grandi speranze”, gli orfani sono i motori mobili di vicende terribili. Infatti come possiamo vedere nell’opera intitolata David Copperfield, possiamo notare come il protagonista David, figlio di una vagabonda destinato a stazionare in un orfanotrofio, ricapitola la sua venuta al mondo. Per essere ancora un bambino David è uno che parla con proprietà di causa alla stregua di un adulto. Un altro esempio possiamo vederlo nell’opera “che cosa sapeva Maisie“ di Henry James. Questo romanzo descrive una storia di adulterio filtrandola attraverso lo sguardo di una bambina che ne piange le conseguenze, chi osserva ma non comprende quanto accade sotto ai suoi occhi. Il romanzo è raccontato dal punto di vista della bambina ma non tramite la sua voce: 1 l’autore non ricorre mai ad uno stile che provi a riprodurre un linguaggio infantile. Un altro romanzo definito capolavoro è intitolato “il giovane Holden” scritto da Salinger. Ciò che fa di questo romanzo un capolavoro e che l’autore si cala perfettamente nella sensibilità e nella psicologia di un ragazzo di 12-14 anni: il linguaggio è quello degli adolescenti che si muove toccando appena la parolaccia. Finalmente Salinger accantona tutte quelle sciocchezze alla David Copperfield e si cala subito dentro la psicologia di Holden. Un collega di Salinger e Mark Twain. Secondo Ernest Hemingway tutta la letteratura americana moderna derivava da un libro di Mark Twain, intitolato “le avventure di Huckleberry Finn“. Il colpo di genio di Twain fu di combinare uno stile colloquiale a una narratore immaturo e ingenuo, un ragazzino adolescente che però è più saggio di quanto egli stesso immagini, la cui versione del mondo adulto colpisce per onestà. Walter Benjamin scrive: c’è voluto un bel po’ di tempo prima che ci si rendesse conto che i bambini non sono uomini o donne in scala ridotta, per non parlare delle bambole che li rappresenterebbero. La storia che racconta Salinger nel suo capolavoro è in gran parte composta di avvenimenti banali. Il fatto è che i bambini e la letteratura sono degli alieni: vedono cose che gli adulti non intercettano, entrano in dimensioni che per i grandi nemmeno esistono. Rendono strano ciò che agli occhi degli altri è normale. In un saggio pubblicato per la prima volta nel 1917, Victor Sklovskij sostenne che lo scopo dell’arte è superare gli effetti causati dall’abitudine mediante la rappresentazione di cose familiari in modi non familiari. Come dimostra il capolavoro di Collodi intitolato Pinocchio, il protagonista in realtà non è un burattino in cui si introduce la mano, è una specie di androide: non ha orecchi e i suoi capelli sono appena accennati sul cranio. La sua è una natura lignea, eppure sente la sofferenza e il piacere come un essere umano: si stanca e ha bisogno di riposo, ha fame e ha sete. Alessandro Cutrona ha spiegato nel suo libro intitolato “Questioni di sguardi” un punto di vista bino. Pinocchio comunque può abbandonare questa sua natura lignea per mostrarsi in sembianze umane. Si tratta di un personaggio dannato ad un ondeggiamento tra la condizione di ragazzo e quella di androide. La legge della metamorfosi l'affrontiamo anche con Emmanuel Carrère, il quale al destino della sirenetta fa riferimento al suo libro intitolato “La settimana bianca”. Nei capolavori della letteratura per ragazzi domina sempre l’infanzia, l’ambiguità. Un esempio è il romanzo di Golding intitolato “Signore delle mosche”. Il “Signore delle Mosche” è un romanzo memorabile che si basa su due elementi fondamentali: 1. conflitto mondiale (dove l’umanità ha fatto i conti con l’ordigno atomico); 2. apocalisse. La storia parla di un gruppo di ragazzini che naufragano e arrivano in un isola deserta (ci fa pensare a Robinson Crusoe). Ad un certo punto si avverte la necessità di riproporre gli stessi schemi che ci sono nel mondo degli adulti e quando scimmiottano al mondo degli adulti, si scopre che non c’è differenza tra ragazzini e adulti. Da qui si parla di utopia a cui si oppone la distopia (come una mela marcia) (se metti il suffisso ‘dis’ la parola diventa negativa). La distopia è un mondo peggiore di tutto ed il 900 è il secolo della distopia dove 2 Le fiabe raccontano passaggi ineludibili, sono passaggi che ci fanno crescere, spesso questi passaggi sono dolorosi perché portano a constatare che i sogni che avevi da bambino si distruggono e avverti l’infanzia come condizione perdura per sempre. I passaggi nella quale andiamo incontro ci svelano la nostra fragilità, il nostro timore (di sentirci inadeguati), anche se i dolori concorrono nella formazione dell’essere umano e sono ineludibili. Formandoci riusciamo a capire la differenza tra passato -presente- futuro, e si scopre il valore fondamentale della memoria. Quello che noi siamo, che noi diventeremo, dipende tutto da ciò che ci accade dai primi ai 5/6 anni d’età (se ho avuto un’infanzia schifosa diventerò il risultato della mia infanzia). Tutto questo si trova sedimentato nelle fiabe, che spesso sono racconti che si sviluppano in contesti particolari nei quali il protagonista è messo a dura prova. Le fiabe ci trasmettono dei racconti che sono talmente noti che è come se noi li avessimo appresi prima di conoscerli, incrociarli, come se noi fossimo già predisposti ad essi. Non possiamo fare a meno di queste storie ed inoltre sono nella nostra memoria e sono diventate archetipe. I romanzi dell’800 e del 900 affondano le loro radici nel loro humus millenario. Le fiabe che noi conosciamo sono la rielaborazione di antichissimi racconti. In seguito questi racconti sono diventati emblemi e archetipi. In questo periodo si utilizza la tecnica dell’illusione. Capitolo 2 La “cattiva” scuola La “buona” scuola è solo un’invenzione dei politici, in modo da alimentare false speranze. Esistono buoni insegnanti, ma la cattiva scuola è sempre esistita. Pensiamo alla figura del maestro che usa la bacchetta non per mostrare sulla cartina un fiume ma per intimorire e minacciare. Già nel IV-III millennio a.C. la scuola ha mostrato il suo aspetto minaccioso come testimonia una tavoletta sumera sulla quale, in carattere cuneiformi, uno scolaro ha lasciato traccia della sua quotidiana via crucis. Dalla Mesopotamia all’Egitto il passo è obbligato: alcuni papiri, collocabili tra i XIII e XII secoli a.C, alludono a castighi corporali riservati a studenti svogliati e distratti. Pure in Grecia dove a volte una punizione poteva essere trasformata in esercizio ginnico; oppure a Roma dove godeva di una certa fama il maestro Orbilio Pupillo, descritto come <<plagosus>>, cioè uno che procurava ferite. Lo stesso Orbilio, in un’opera di Domizio intitolata “Il tribolato”, diede sfogo alle amarezze che gli procurava l’insegnamento in un quaderno di lagnanze che sembra listato l’altro ieri. Per i bambini dell’antichità la scuola è stata un luogo della mortificazione: l’ha confermato Agostino di Ippona nelle “Confessioni”:<<mi mandavano a scuola per imparare a scrivere e a leggere, anche se non capivo a cosa potesse servire, e se non capivo e non imparavo mi picchiavano perchè così si usava>>. La scuola appare come un “carcere di gioventù prigioniera”, e come disse Montaigne, <<andateci al momento della lezione>>. È con Manganelli che la scuola diventa uno dei temi letterari più frequentati nell’Ottocento. La scuola di Salem House, che si eleva dalle pagine di Copperfield, assomiglia a un luogo di tortura e sfruttamento. Con De 5 Amicis, nel libro “Cuore” non si vedono mai i maestri all’opera, invece con Domenico Starnone, autore di “Denti”, in quelle classi doveva passare, gran parte del tempo, nella rissa, nella punizione e nella fatica di stare in una stanzetta fatiscente in silenzio. Verrebbe da dire con Pinocchio che la scuola fa venire i dolori di corpo. Come fa notare il dottor Boccadoro alla mamma di Giannettino (protagonista di libri scritti da Carlo Collodi prima di far uscire Pinocchio), i ragazzi sono come i puledri e i puledri hanno bisogno fin da subito di accorgersi della loro vita. Quella di chi guida i scolari-puledri è stata una delle categorie più soggette all’attenzione di giornalisti e scrittori. Prendiamo in causa due autori siciliani: ● Giovanni Verga: nella novella intitolata “Il maestro dei ragazzi”, descrive l’insegnante con le scarpe sempre lucide, i baffetti color caffè e col cappelluccio stinto sull’orecchio; ● Luigi Pirandello: nel romanzo intitolato “La maestrina Boccarmè”, descrive la mestra vestita di nero, dolce, paziente e affettuosa con le bambine della scuola. Federigo Tozzi diede forma ad un ritratto di maestra adottando il punto di vista dei bambini, quindi osservando dal basso verso l’alto: «Era una maestra elementare. Aveva un rocchio di capelli che sarebbe bastato al meno per due donne, rossi e grossi: il viso giallo, sparso di lentiggini che pareva una pelle di sughero; gli occhi strabici e con lo sguardo da bove; una bocca così larga che non riusciva mai a chiuderla, i piedi enormi, e quando camminava teneva i piedi accanto e le punte in fuori. Aveva un sudore che si sentiva a parecchia distanza. In quei momenti credeva che avrebbe potuto essere amata; mentre quel viso giallo sotto le trecce rosse, certe trecce di canape greggia, faceva schifo». Si tratta di un identikit che non risponde all’icona della maestra cui la letteratura per ragazzi ci è abituato. I maestri possono essere sia brutti che cattivi. Infatti Leonardo Sciascia, maestro di Racalmuto, ha poi stilato le sue cronache scolastiche, confluite nelle “Parrocchie di Regalpetra”. Cronache che restituiscono il resoconto di un’esperienza infernale. Come ha scritto Giuseppe Pontiggia, la differenza rispetto al passato è che oggi la violenza sugli indifesi non viene più legittimata, ma questo non basta a reprimerla. Bettelheim nell’opera “Il mondo incantato uso importanza e significati psicoanalitici” è stato un’educatore duro, assumendo atteggiamenti crudeli non solo verso i bambini ma anche verso i colleghi. Bettelheim, ha subito la violenza dei campi di concentramento ed ha concepito un mondo in cui trionfasse amore e libertà. Appunti De Amicis scrive un romanzo dove fa la scuola padrona, nel romanzo ambientato nella scuola primaria , comincia con il primo giorno di scuola e finisce con l’ultimo, questo romanzo ci restituisce l’atmosfera che si respirava in una scuola italiana di fine 800. Le classi erano solo classi di almeno 45-50 allievi. De Amicis non ci dice mai di cosa parava il maestro in quell’aula, ma ci dice soltanto del tentativo del maestro di leggere il racconto del mese. Sicuramente non ci parla della lezione del maestro perché in quell’aula c’era 6 talmente tanto casino da non riuscire a fare lezione. È desolante quest’immagine della scuola, pur nella finzione narrativa. Uno scrittore, Leonardo Sciascia che non si laureò mai, fece domanda e fu chiamato ad insegnare nella scuola elementare. Quando arriva nell’aula scolastica, prova un trauma così violento che inizia a prendere le parti degli scolari che non vanno a scuola . Scrive in una rivista e diventa il diario di un maestro. Lui dice che il suo animo la mattina quando va a scuola è come quello dell’anima di un zolfataio che si alza la mattina per scendere nelle caverne e non sa se farà ritorno. Sciascia dice che fanno bene i genitori a non mandare i bambini a scuola. Lucio Mastronardi scrive “il maestro di Vigevano”, un racconto autobiografico. Capitolo 3 Dio se ne frega dei più piccoli? Per Chazkele, il protagonista del racconto “Il blasfemo”di Isaac Bashevis Singer, si può avere più pietà. Del resto è lui stesso che un giorno a scuola chiede al maestro <<se Dio è misericordioso, perché muoiono i bambini piccini?>>. Il maestro risponde che se muoiono i bambini allora dio non è misericordioso. Ad una bambina morta fu dedicato un libro di Dario Piombino-Mascali intitolato “Lo spazio di un mattino”, che di mestiere fa l’antropologo, specializzato nello studio delle mummie. Questa sua passione per i cadaveri imbalsamati, fa pensare a Leopardi e alle mummie di Federico Ruysch. Da quando la mummia ha fatto il suo ingresso nell’immaginario occidentale grazie alla campagna d’Egitto condotta da Napoleone buona parte alla fine del 1600, continua a presidiare quel suggestivo ripostiglio della fantasia, attirando curiosità e brividi. Le mummie di Leopardi non sono mummia egizie ma preparati anatomici che il medico Frederik Ruysch aveva allestito con tecniche di imbalsamazione. La bambina si chiamava Rosalia Lombardo, morta a quasi 2 anni e che da un secolo dorme il suo sonno nelle catacombe dei cappuccini di Palermo. La bambina è soprannominata “bella addormentata”, capolavoro dell’imbalsamatore Alfredo Salafia. A lui si deve un metodo di conservazione della materia organica che si basa sull’iniezione di sostanze chimiche che esperimento su cadaveri umani presso la scuola anatomica del professor Randaccio. In questo libro il lettore troverà informazioni che riguardano la famiglia Lombardo, avrà modo di immedesimarsi nel dolore della perdita. Inoltre si imbatterà nella precisione dello stato di conservazione della bambina. Cristina Campo disse: tutti i piani dell’esistenza sembra investire questo tenace rapporto tra l’infanzia e la morte. Piombino-Mascali, dà conto alle relazioni che legano i bambini all’aldilà. Il racconto, che parte dalla vicenda di Rosalia lombardo sotto il profilo antropologico e medico, sfiora certi aspetti della cultura di massa e si arricchisce di dettagli che l’autore recupera dallo scrigno della letteratura. A cominciare dal titolo bellissimo, preso in prestito dai versi di Francois de Malherbe, con cui lo scrittore francese rendeva omaggio alla memoria di una bambina morta cinque anni. Prima di Piombino-Mascali l'aveva fatto Laura Pariani in un romanzo terribile, intitolato “Dio non ama i bambini” ambientato a Buenos Aires ed ispirato agli avvenimenti accaduti tra il 1904 e il 1912 in mezzo ad associazioni a delinquere (conventillos). È lì che si verificano alcuni delitti feroci di 7 ad uno stupro commesso da un uomo sposato (stupro che si somma all’adulterio). La fiaba va avanti con il parto della fanciulla che si chiama Talia, la quale dà alla luce due gemelli: uno di questi le ciuccia il dito e le tira fuori una lisca di lino. Poi è la volta del re cacciatore-traditore, che si compiace: 1. Dei figli messi al mondo; 2. Del tentativo di mettere a parte la moglie dell’adulterio compiuto; 3. Di farle conoscere il frutto del suo nuovo amore; 4. Della reazione bestiale della moglie, che indossa la maschera della donna docile invitando il marito ad affrettarsi per organizzare il pranzo assieme alla sua nuova fiamma e ai pargoli. La storia sembra un certo punto precipitare dalle parti dello split (violento): la moglie tradita quando arrivano gli ospiti prendi in carico i piccini e con una scusa li conduce in cucina, dove lo chef dovrà preparare un pranzo per il suo signore: il menù prevede la carne della carne del padrone. Adesso ci si sposta nel salone: sul basso gli luccicante dovrebbero giacere i figli della colpa. La regina invita il marito a servirsi. Per fortuna il cuore dello chef è più tenero della carne stessa che dovrebbe cuocere: i bambini sono al sicuro e a farne le spese saranno due capretti.ma il disegno diabolico della moglie contempla un rogo preparato per accogliere Talia. Le chiavi di Basile sono destabilizzanti. A cominciare dal racconto che apre il "pentamerone" e che presenta il caso del re di Vallepelosa che aveva una figlia di nome Zoza. La fanciulla era così triste che il padre nella speranza di farla ridere non sapeva più a quale rimedio ricorrere; fino a quando un giorno Zoza assiste al battibecco tra un paggio è una vecchia: la donna rivolge al giovane un gesto osceno, mettendo in mostra il suo sesso e suscitando nella fanciulla una risata incontenibile. Come mi ha spiegato Salvatore Silvano Nigro, Basile è un campione del comico. I suoi “Cunti” sono una parodia delle novelle di Boccaccio. Il divertimento della principessa manda in bestia la vecchia e per questo motivo ricorre una maledizione: la fanciulla andrà in sposa il principe di camporotondo, Tadeo, il quale però giace senza vita in un sepolcro con un epitaffio inciso sulla pietra in base alla quale si potrà prendere in moglie soltanto con lei che sarà riportarlo in vita riempiendo di lacrime in tre giorni una brocca. Qui iniziamo subito lo schema capovolto: c’è una fanciulla che deve superare delle prove al fine di rompere il sortilegio di un principe. Questo elemento ci consente di fare un salto temporale che ci porta a Tommaso Landolfi, autore di “il principe infelice”. Questa fiaba è capovolta perché qui c’è un giovane in difficoltà prigioniero di una malinconia che non perdona: per salvarsi principe dovrà fare un bel sogno e tre principesse sono disposti ad aiutarlo. Per questo motivo partono alla volta del paese dei sogni per mettere in fuga quella tristezza e conquistare la sua mano. Nel Cunto emerge un gran numero di figure femminili e pochi personaggi maschili i quali risultano passivi al volere delle donne. 10 Capitolo 6 Contro Pinocchio, viva Pinocchio Non ci sono più le bandelle di copertina di una volta. Prendiamo il risvolto di “contro Pinocchio”, che così esordisce: nessuno scrittore è come Aurelio Picca. Nel 2021 Picca si era affacciato lateralmente dalle pagine di un romanzo di Fabio Stacy intitolato “maestro Geppetto” che in realtà è centrato sulle vicende del falegname, avvocato a una sofferta paternità per ripresentarsi il burattino poco dopo nel libello pamphlet “contro Pinocchio“ scritto non a favore del personaggio di Collodi ma “contro“. Ma Pinocchio è riemerso anche grazie a Giorgio Agamben. Pinocchio ha dato forma a una lingua nazionale, come ha già scritto Marcello Fois. A pagarne le conseguenze e la retorica della tradizione che c’è della scena ho parlato nervoso.c’è davvero Collodi venisse preso sul serio oggi sarebbe riconosciuto con me e nazionale. Pinocchio è un romanzo che ha prodotto sistemi linguistici generando luoghi comuni della nostra koinè (o la borsa o la vita, sei un pezzo di legno). Questo è un aspetto che accomuna i grandi romanzi: pensiamo ai “promessi sposi“ laddove si legge “verrà un giorno, tizzone d’inferno”, espressioni più vive che mai. La stessa cosa la possiamo vedere nel libro di De Amicis “cuore” cui si è occupato di recente fois in un libro intitolato “l’invenzione degli italiani”. Torniamo alla pars destruens, quella allestita da Picca, che ha fatto notizia all’uscita del volume in difesa di Pinocchio. In sostanza Picca racconta di un incontro mancato: il suo, da bambino, con il capolavoro di Collodi. Epperò Pinocchio non mi ha mai chiamato. Lo leggo solo ora; e l’unica cosa che mi piace sta scritta la fine della prima versione di Collodi (quello in cui fino a che ora sta un pezzo di legno; che non hai sgravato nel futuro con la carne e sangue dei bambini). A Picca non piace il Pinocchio bino, per dirla con Emilio Garroni, che abbandona le atmosfere del romanzo gotico per aprirsi alla scrittura. Ma qui si scrive non può che bel ragione a Picca: la storia di un burattino che si estende dal primo al 15º capitolo e il racconto perfetto dell’infanzia crudele di Pinocchio. Non c’è spazio per la metamorfosi consolante: le vicende narrate danno forma a un piccolo universo dominato dal male, dalla furbizia e dalla cattiva fede. In forza di ciò Picca avrebbe dovuto scrivere un libro nonno contro Pinocchio tout court ma contro il Pinocchio del ravvedimento, della metamorfosi finale (perché come spiega Agamben, non si registra nessuna trasformazione o chiusura della storia). Riguardo al riscatto finale cui va incontro il burattino che si mette da parte a favore del bambino per bene, Alberto Savinio ha scritto una nota geniale che sembra preannunciare il “libro parallelo“ di manganelli. Seppure poco tagliato alle idee morali, anche Collodi come Dostoevsky libera in ultimo Pinocchio. Sempre Savigno aggiunge dopo: la vera redenzione di Carlo Lorenzini era un’altra: passare egli stesso da piccolo burocrate della prefettura di Firenze a ciò che in segreto egli era: un burattino di legno. Tutto questo perché Collodi potesse rientrare fra i suoi simili, cioè tra i figli e i sudditi di mangiafuoco. Se Savigno ha ragione, il burattino sarebbe la figurazione di una segreta personalità del suo autore. Pinocchio allora è l’autobiografia dello stesso Lorenzini, burattino dalle fattezze umane. Picca disse che siccome non bisogna mai trattare un bambino come un bambino, 11 dobbiamo rapportarci alla pari. Quindi il primo libro da strafare è Pinocchio. È vero, trattare i bambini come bambini può risultare controproducente. Infatti Alberto Savinio in un suo pezzo dal titolo “come vanno trattati i bambini, gli animali e le piante“ l’aveva pure spiegato: gli adulti che trattano coi bambini pargoleggiano: Bibi, zizzi. Pensano così di entrare in confidenza. L’autore di “narrate, uomini, la vostra storia“ ricorda la rabbia, il dispetto che provava da piccolo quando i grandi cominciavano a far pargoleggiare con lui. “Aurelietto“ non ha letto Pinocchio soltanto perché era un pezzo di legno che fingeva di essere un bambino. Quindi gli studenti dalla prima alla quinta elementare non devono leggere Pinocchio. I libri giusti sui quali la maestra o il maestro devono lavorare sono: cuore e i ragazzi della via Paal. Pinocchio nelle pagine di Picca sembra quasi un pretesto per parlar bene del romanzo di De Amicis e di quello di Ferenc Molnàr. A questo punto ed obbligo chiedersi per quale motivo l’autore non si sia occupato direttamente di cuore e dei ragazzi della via Paal. Picca disse che l’angoscia più grande dell’infanzia è quella di non essere adulti. Questo commento può fare da trait d’union con il saggio di Agamben, che nel suo volume illustrato dialoga con Giorgio Manganelli che scrisse “Pinocchio: un libro parallelo”. Il filosofo parla del burattino come di una “cifra dell’infanzia” a patto di intendere che il bambino non solo non è un adulto in potenza, ma la sua non è nemmeno una condizione ho un’età: è una via di fuga. Ma se davvero il bambino provo a tenersi lontano dall’età adulta, se gli non è un adulto in potenza, è vero che da piccoli si guarda al mondo degli adulti come l’universo delle possibilità negate. I bambini, per Savinio, sono come prigionieri, come uomini che sognano e nel sogno non possono quello che vogliono. L’infanzia è un’agonia, un’aspirazione che sembra senza fine. L’infanzia e la disperata lotta per uscire dall’infanzia. Cristina campo ha definito l’infanzia rebus di limiti illimitati, di confini mal certi, magnificate dalla piccola statura. Lo scritto di Savinio intitolato “lasciate che l’infanzia…” (titolo evangelico) e prende avvio da una riflessione che non pensa mai alla formazione delle cose in forza di una specie di classicismo ontologico. Savinio istituisce una similitudine tra la lingua nazionale e gli adulti, quelli che hanno dimenticato la propria infanzia. I popoli che hanno tagliato i ponti tra sé e il proprio passato assomigliano ai grandi che hanno rotto i ponti tra sé e la propria infanzia. Anche Natalia Ginzburg non ha mai smesso di affrontare il tema della fanciullezza. In un racconto intitolato “infanzia” fa un cenno agli adulti che da bambina l’hanno circondata. Adulti terribilmente adulti, così nemici di ogni storia infantile così incapaci di tornare all’infanzia pure per un istante. Se è vero che i bambini avvertono una mutilazione per non godere delle possibilità che agli adulti sono concesse, è anche vero che gli adulti risulterebbero come amputati se dovesse rinunciare all’infanzia. Pinocchio fa pensare al libro scritto da Hillman intitolato “puer aeternus“, cioè eterno bambino, convinto di vivere in un eden senza fatica né studio né doveri morali. Per Pinocchio la morte non ha importanza perché “il puer aeternus dà l'impressione di poter ricominciare“. Appunti Pinocchio diventa il romanzo più popolare. I libri più prodotti al mondo, sono: la Bibbia, Pinocchio e Fantozzi. Pinocchio è stato anche tradotto nei vari dialetti ed è stato riscritto in chiave fascista. Pinocchio è il libro illustrato che ha avuto più successo nella storia 12 di Pinocchio”. Forse Pinocchio è una sorta di via di fuga dal mondo degli adulti, mondo della corruzione (corruzione dei sentimenti). Pinocchio è quel romanzo che ti costringe a ritornare alle origini di noi stesso. Alberto Savinio leggendo Pinocchio scrive che l’età per eccellenza è quella dell’infanzia. Pinocchio fugge dall’età adulta, che senza tregua ci prende in giro e ci accompagna=puer aeternus. Quando Pascoli diceva che il poeta è come il fanciullino ci stava dicendo che è come il poeta, cioè colui che cerca di stupirsi, torna a meravigliarsi, suscita la sua curiosità. L’infanzia è la disperata lotta per uscire dall’infanzia e scoprire che una volta usciti non farai altro che rimpiangerlo. Se è vero che l’infanzia è una tragedia, dall’altro lato Savinio dice che odia gli adulti assoluti. Il puer aeternus è convinto di essere al riparo dalla morte, al riparo dai doveri morali, dallo studio. Capitolo 7 Le fiabe di Capuana, il “verista magico” Il capitolo inizia con la frase “Le fiabe saranno il lavoro nel quale vivrà il mio nome” scritta da Luigi Capuana per il suo amico Corrado Guzzanti il 31 dicembre 1882. Poco prima Capuana aveva rivelato a Verga “Non ho fatto e non farò nulla di meglio delle Fiabe”. Questa affermazione sembra custodire l’eco di una profezia alla luce del volume intitolato “stretta la foglia, larga la via“ che l’editore Donzelli ha mandato in libreria nel quale sono allineate tutte le fiabe dello scrittore di Mineo, pubblicato in occasione del centenario della morte di Capuana. Del resto ad eliminare il Capuana dai romanzi ci avevano già pensato: 1. Cesare Cases: a riguardo del “marchese di roccaverdina" dove scrisse che si trattava di una squallida risciacquatura da Maupassant, buona tutt’al più per entrare in cinquina allo strega. 2. Giorgio Manganelli: affermò una volta che l’opera “Giacinta” non era niente in realtà e propose di espellere il signor Capuana dal territorio nazionale. L’autore di “Scurpiddu“ fu in realtà un verista sui generis, appassionato di spiritismo, vampirismo e autore di alcune novelle inverosimili. Capuana infatti banditore dell’opera letteraria come “Documento” e “analisi”, si dimostra un Dottor Jekyll e mister Hyde: da un lato giura riguardo alla necessità di censire e raccontare il vero; dall’altra guarda all’universo della metapsichica. Ogni qualvolta si parla di scienze occulte, i nomi che vengono in mente appartengono a scrittori operanti tra la fine del XIX secolo e i primi anni del XX secolo ossia all’epoca d’oro del gusto del soprannaturale laddove le ghost story sono di casa. Dobbiamo immaginare Capuana di giorno a scrivere la storia del marchese di roccaverdina e di Giacinta; di notte in contatto con le forze dell’aldilà. Da un lato c’è in lui la volontà di catturare il vero e imprigionarlo nella pagina scritta; dall’altro il tentativo di acciuffare ectoplasmi (fantasmi). Viene da dire che Capuana sia stato in bilico tra questa vita, divisa tra Mineo e Firenze, Milano e Roma. Capuana inoltre è anche interessato al magnetismo, all’ipnosi e alla fotografia, infatti lo possiamo notare nel pamphlet intitolato “spiritismo?”. Per Capuana il demone della scrittura trasformerebbe chi scrive in una specie 15 di medium, facendo cadere l’artista in un’allucinazione. Tra i lettori del libello ci sarà Cesare Lombroso al quale è indirizzata la lettera dedicatorie che nel 1907 accompagnava la novella “un vampiro“. Espulso dalle nostre patrie lettere dalla porta del romanzo, Capuana vi ritorna oggi intrufolandosi dalla finestra della fiaba: a leggere i racconti delle sue cinque raccolte si rimane sedotti da una pronuncia abilissima. Gli incipit di Capuana sono sempre efficaci, trasformano subito elettori in complici arresi, introdotti in piccoli universi. Universi ricreati sulla base del patrimonio folklorico isolano, da Capuana saccheggiato, vampirizzato: perché i motivi ricorrenti, i temi, i personaggi che avevano popolato l’infanzia dello scrittore, vengono rimescolati nel calderone della sua fantasia con un’abilità da far pensare ai grandi del passato tra cui Perrault e Andersen. Queste sono pagine popolate da reginotte, reucci, ministri, che gestiscono la ricchezza e il potere ai quali si affiancano gli umili e i vinti: i contadini che faticano per garantirsi il pane e i falegnami con i loro attrezzi. I regnanti sono spesso capricciosi e vanitosi e lo possiamo vedere nel volume “Donzelli” scritto da Rosaria sardo. Nei confronti dei politici lo scrittore di Mineo e sempre insofferente: li considera senza scrupolo, come viene fuori da una delle fiabe più note ossia “Topolino“, quasi alla fine: quando il re ordina la strage dei topi temendo di perdere il trono e distribuendo titoli nobiliari in abbondanza, dal momento che non gli costa nulla. << date fuoco>>, ordine del re, << ma non appena il carnefice ebbe accostata la torcia la trappola, ecco che insieme con la trappola scoppia in fiamme il trono reale.levante avvolgere il re e i ministri che non trovarono scampo>>. In questa fiaba dell’antipolitica, in realtà la metamorfosi non è quella del topolino che si muta in un bellissimo giovane ma bensì quella del regnante che viene resuscitato pentito di tutte le malefatte. Ci sono grilli del focolare nelle fiabe di Capuana, assieme a ranocchini, bambini minuscoli, principesse-serpenti, nani gobbi, una tartaruga con la testina da bambino, una bimba piccina che viene donata ad una sirena. E vecchie, pronte a lanciare maledizioni: qui si sente l’eco di Basile, che apre il suo Pentamerone con la principessa Zoza. Ma un bel giorno, mentre si affaccia alla finestra della sua stanza, si abbandona una risata liberatoria nel momento in cui osserva una vecchia che cade e che poi compie un gesto osceno. La vecchia si vendica della risata della giovane principessa elevando una maledizione: Zoza potrà sposarsi solo con Tadeo, un principe che a causa di un incantesimo giace in un sepolcro e che potrà risvegliarsi solo se una fanciulla sarà in grado di riempire in tre giorni un’anfora con le sue lacrime. Da qui prende nasce la fiaba più graziosa di Capuana intitolata “piuma-d’oro”.questa fiaba parla di una principessa irrispettosa che si diverte a tirare smorfie ai danni di una vecchia cenciosa. Non tardò ad arrivare alla punizione meritata: una metamorfosi che rende la reginotta sempre più leggiera. I genitori per rendere meno monotona la reclusione della figlia trascorrono le giornate a soffiarlo intorno e a farla volare lungo i corridoi e nelle grandi stanze del Palazzo Reale; Sofia e Sofia e i due si ritrovarono con i musi allungati.in balia del vento la principessa vola via lontano in un palazzo incantato scolpito nel sale nel Tevere. Di queste spesse la fanciulla si ciberà per riacquistare il peso perduto (sembra una fiaba contro l’anoressia). L’opera intitolata “Mastro acconcia-e-guasta” parla di un carpentiere alle prese con i suoi attrezzi che di notte si animano assumendo forma umana.sembra l’anticipazione del cartone animato “Handy Manny tuttofare“. L’elemento fantastico nelle fiabe di Capuana si sposa con un’attenzione verista nei confronti del quotidiano che viene 16 fuori dalle descrizioni dei poveri paesi, di stradine animate da ragazzacci che si inseguono. Il vero messo al servizio del meraviglioso. Appunti Le fiabe di Capuana, “il verista magico”: nasce in un piccolo paesino Mineo. Capuana insieme a Verga e De Roberto sono la triade del verismo. Quando si pensa alla letteratura siciliana dell’800 si pensa al verismo, in Francia si pensa al naturalismo e in Russia al realismo. Secondo Aristotele l’arte non era altro che minesi, cioè si ispirava al reale. Ma siamo sicuri che la letteratura possa essere usata per spiegare la realtà? Nell’800 l’ossessione è quella di rendere meno presente l’autore e dare spazio alla vita e quindi si parla di una regressione dell’autore rispetto a quello che racconta per dare spazio allo spazio e i personaggi risentivano la voce dell’autore. Quanto uno scrittore può nascondersi dietro la sua opera? In letteratura lo scrittore condizionerà la sua opera pur cercando di sforzarsi al massimo quindi l’idea era quella di trasformare la letteratura in un’esperienza asettica, quindi uno legge una storia e deve entrare nella storia. Quindi le parole di Verga “bisogna dare l’impressione che l’opera si faccia da sé", non si devono prendere alla lettera. Lo scrittore si sente in dovere di rappresentare la realtà in cui vive. Lo scrittore deve andare talmente a fondo per trovare la natura di tutto. Verga per dare l’impressione che i personaggi parlassero si inventa “l’indiretto libero” (piace molto a Pasolini). Quando si fa riferimento a Capuana nei manuali di letteratura, si mette in evidenza il suo ruolo di teorico. Capuana ha scritto vari libri di teoria letteraria dove sposa la causa del verismo. Fu un critico letterario militante. Capuana ha anche scritto delle novelle e dei romanzi tra cui Giacinta. Lui vuole far vedere casi umani estremi, ad esempio una ragazzina che viene violentata e poi viene data in sposa ad uno sciocco. Capuana in realtà è un Capuana che non è all’altezza né di Verga né di De Roberto. I suoi romanzi sono romanzi invecchiati infatti fatichiamo anche a leggerli. Il meglio di Capuana non sta nei romanzi, quindi il Capuana che a noi interessa è il “Capuana Notturno”. L’altra faccia del verismo: ci dobbiamo immaginare un Capuana inimmaginabile. L’illustrazione ci mostra un Capuana con dei baffoni che si dilatano che si trasformano come se fossero due fantasmi (ha un qualcosa di Mussoliniano), perché Capuana tendeva a dire che la parte non visibile all’occhio aveva lo stesso peso della parte visibile all’occhio. La parte non visibile ha a che fare con paure, allusioni. Possiamo vedere un Capuana attento al reale, ma anche un Capuana fantastico, quello notturno. Quando Capuana partecipava alle sedute spiritiche portava con sé la macchina fotografica (invenzione della tarda modernità utilizzata per certificare le cose in vita dell’esperienza visibile). Sia Verga che Capuana erano appassionati di 17 altro modello della favola: quella del principe un tempo bellissimo ma poi trasformata in una bestia, un mostro che vive accanto alla bella, è la sorella e spera di sposarla per diventare uomo e ritornare alle sue antiche sembianze. Il dramma comincia a consumarsi quando il protagonista comprende che la condizione animale è l’unica che gli si adatti. Allora Kafka ha affidato ai lettori una favola rovesciata: la bella non può riconoscere la bestia, ormai è tardi perché si possa consumare il riconoscimento di erede. È la bella a decretare la morte della bestia: non voglio fare il nome di mio fratello dinanzi a questo mostro e perciò dico solo che bisogna liberarsene. Siamo di fronte a qualcosa di inaccettabile: la bella vuole liberarsi della bestia. La spiegazione di tutto questo può fornircela Primo Levi grazie a un suo pezzo dedicato agli scarabei che di solito innescano in chi lo serva reazioni complesse come stupore e orrore. Un altro scrittore che ha preso seriamente in esame la “fantasia entomologica“ di Kafka e Vladimir Nabokov, che nelle sue “lezioni di letteratura“ ha messo in evidenza gli abbagli dei commentatori: uno scarafaggio è un’insetto di forma piatta con grosse zampe e Gregor è tutto tranne che piatto: è convesso da entrambi le parti, ventre e schiena, ha le gambe piccole. È simile ad uno scarafaggio solo per la colorazione bruna. A parte questo ha un enorme ventre convesso diviso in segmenti a una solida schiena arrotondata che fa pensare elitre. Questo coleottero bruno, convesso e grande quando un cane. Levi sa bene che gli scarabei hanno dimostrato capacità di adattamento a tutti i climi e riescono a mangiare di tutto. Nel tempo hanno sviluppato una corazza resistente agli urti, alle radiazioni e agli agenti chimici. Alcuni fra loro scavano rifugi nel suolo profondi metri. Nel caso di una catastrofe nucleare sarebbero gli unici a sopravvivere. Levi affermò: da quando il pianeta sarà loro, dovranno passare milioni di anni prima che uno scarafaggio trovi sul foglio che l’energia è pari alla massa moltiplicata per il quadrato della velocità della luce. Gregor Samsa in quanto enorme coleottero risulta talmente disumano che nessuno dei suoi cari può riconoscerlo. Appunti Kafka è nato a Praga, che è la città degli alchimisti. Kafka fa l’impiegato di giorno e di notte si chiude in uno scantinato dove scrive i suoi capolavori. Il padre era terribile, non gli frega nulla della sua aspirazione letterale e rappresenta tutto ciò che Kafka negava. Kafka è l’emblema dello scrittore che prova a ribellarsi dell’autorità del padre per mettere in evidenza la sua diversità. Incarna il dissidio profondo che si crea tra figli e padre. Tutto questo ricade nel complesso edipico di Freud. La presenza del padre è una presenza inibitoria. Kafka diventa quel grande scrittore sviluppando questo rapporto contraddittorio con il padre (il padre lo legava al balcone per punizione). Di notte Kafka scrive storie strane, storie misteriose, inquietanti o divertenti a volte. Quando Kafka si vedeva con gli amici rideva a crepapelle leggendo le sue opere (umorismo ebraico: ridere delle sciagure). In vita pubblicherà pochissimo. Non è particolarmente appagato dalla sua produzione letteraria pur avendo scritto capolavori assoluti. Si lega a Max Brod. Kafka scrive una leggera a Bros dove dice “io ho scritto quello che tu sai e 20 considero degno di essere pubblicato due o tre cose per il resto brucia tutto”. Lui aveva un’idea estrema: voleva distruggere tutte le sue lettere. Brod da amico del cuore disattende le sue richieste e non brucia nulla, quindi tradisce l’amico solo per salvare tutto quello che Kafka aveva scritto. Brod scrive un libro intitolato “Kafka” dove lo interpreta e in questo libro ci riporta molte notizie bibliografiche importanti, dal punto di vista ermeneutico (interpretazione dell’opera) il suo saggio è fuorviante (ci mette fuori strada). La fortuna di Kafka è una fortuna dopo la morte e lentamente si afferma forse come lo scrittore più importante di tutto il 900. Come si fa a dire che kafka è quello che rappresenta più di tutti le temperie del secolo? Noi studiamo Kafta per la Metamorfosi, ma sappiamo anche che Kafka non ha scritto solo questo (Il processo o il castello). Noi ci concentriamo sulla Metamorfosi. Quando esce la Metamorfosi, Kafka non vuole che lo illustrano. Sembra paradossale perché è il racconto più illustrato di tutto il 900 perché sapeva che una volta che veniva illustrato un personaggio, l’immaginazione si fermava e non lo immaginavi, ma lo vedevi secondo l’illustrazione. Gregor Samsa è il protagonista del racconto, che fa il commesso viaggiatore (viaggia per lavorare). Quell’insetto di cui Samsa si trasforma è una metafora talmente ingombrante che tu pensi all’insetto: vuoi capire le sue dimensioni e le sue forme prima di pensare a cosa potrebbe fare. Siamo ad una svolta, fino a prima di Kafka la metamorfosi era giustificata perché c’era un elemento che aiutava a spiegare la trasformazione. Kafka si sentiva un estraneo, diceva che aveva il corpo troppo spigoloso come se fosse dentro una corazza che non gli apparteneva. Infatti questo racconto nasce perché lui non si accettava per come era, si sentiva diverso. Era ossessionato a tal punto da farlo sentire un insetto gigantesco e raccapricciante. Quindi la spinta generativa che forma questo racconto affonda le radici da questo tormento: sentirsi un estraneo, vedere il corpo come un qualcosa di alieno. Questa metamorfosi fa riferimento al non sentirsi amato di Kafka. Diventa un racconto dalla tramatura simbolica così forte che sulla metamorfosi possiamo scrivere molti saggi, articoli. Nella letteratura fantastica si viene a stabilire un patto tra scrittore e lettore: lo scrittore sa di scrivere qualcosa che non appartiene a qualcosa di comune, invece il lettore lo sa ma deve tenere il gioco fino alla fine per capire la storia che piega prenderà. Nel gioco delle parti il lettore deve stare al bluff. Cosa innesca questa trasformazione nella vita della famiglia. A poco a poco sia la madre che la figlia vedono l’insetto ma non sanno come comportarsi. La cosa più inverosimile è la reazione del padre che rimane indifferente nella sua poltrona. Kafka adotta una strategia narrativa geniale: sceglie il restringimento di campo, cioè fa vedere solo ciò che lui vuole fare vedere. Il restringimento di campo permette di omettere le cose più importanti: perché era diventato quella specie di insetto. A mano a mano Samsa comincia a perdere 21 alcune caratteristiche che sono prettamente umane. In che modo percepiva le parole e i suoni? Samsa da uomo non aveva nessuna attrazione nei confronti della musica, mentre da insetto ascoltava le note del violino e viene rapito dal suono, ora ama la musica. Per tanto tempo si è commesso l’errore di catalogare Samsa trasformato come scarafaggio, ma Kafta non dice mai scarafaggio o coleottero, questa definizione lo dà la serva. Kafta parla sempre di insetti, ma noi possiamo ricavare l’idea e provare a catalogarlo. Samsa non è uno scarafaggio. G. Giudice: definì scarafaggio erroneamente. Se spogliamo Samsa della sua corazza e facciamo finta che si tratta di un racconto di un'esperienza reale possiamo vedere la reazione della madre e della sorella che ci stanno poco a dire “come ce ne sbarazziamo?’ La madre è l’unica che ha pietà. La sorella è il personaggio più terribile e dice alla madre di convincersi che non è Gregor e di sbarazzarsene. Gregor esce dalla stanza, va dalla sua famiglia e il padre scocciato dalla presenza di questo mostro dentro la sua casa compie il gesto di chi vuole ferire l’altro e avere la meglio sull’altro e alza il piede per schiacciarlo. Ma quando il padre solleva il piede e Gregor si trova davanti la suola dello stivale possiamo notare come ci spostiamo nella biografia di Kafka che teme il padre. Il padre si scoccia a tal punto che comincia a lanciargli addosso delle mele fino a quando lo colpisce e Samsa ferito comincerà lentamente a spegnersi fino a quando non si decide in famiglia di farlo morire e disfarsene. Questo racconto è la quintessenza della letteratura erotica perché quando Samsa sente suonare la sorella il violino se ne innamora e ha il desiderio di baciarle il collo nudo (scena tra l’erotico e l’horror). Situazione incestuosa (fratello che si innamora della sorella). Capitolo 9 Il lupo questa volta la sa troppo lunga, Le favole per adulti di Leonardo Sciascia Questo capitolo parla di Leonardo Sciascia, in particolare dell’opera intitolata “le favole della dittatura” una selezione di testi brevi che videro la luce nel 1950 cioè quando il suo autore si muoveva tra Racalmuto e Caltanissetta. A mettere fuori strada i lettori fu lo stesso autore il quale convinse Claude Ambroise a tenere fuori “le favole” dal primo volume delle opere che uscì nel 1987 per i tipi di Bompiani allineando i titoli di Sciascia 3956 (l’anno delle parrocchie) e il 1971. Leonardo Sciascia la pensava come Italo Calvino, quindi il primo libro sarebbe meglio non averlo mai scritto. Finché il primo libro non hai scritto, si possiede quella libertà di cominciare che si può usare una sola volta nella vita, il primo libro gatti definisce mente tu in realtà sei ancora lontano dall’essere definito e questa definizione poi dovrei portare tre dietro per la vita cercando di darmi conferma o correzione ma mai più riuscendo a prescindere. Sarebbe meglio per uno scrittore non è tradire mai infatti come mi ha spiegato Franco Cassano: esordire non vuol dire come vorrebbe l’etimologia 22 Racalmuto: villaggio di morti (significato). Calvino sosteneva che SAREBBE MEGLIO CHE UNO SCRITTORE NON ESORDISSE MAI (lo dice nella prefazione della ristampa del suo primo romanzo). Perché? Calvino dice immaginatevi lo scrittore che deve esordire e lui ha la possibilità di scegliere qualsiasi cosa , punto di vista, di cosa parlare. Lui è uno scrittore libero, ha una libertà senza fine. Lo scrittore si ubriaca di questa libertà deve scegliere e decidere. Nel momento in cui si fa una scelta si decide di rinunciare alla libertà. Esordire significa rinunciare alla libertà e scegliere. Calvino afferma che dopo aver fatto il capolavoro sarai lo scrittore perennemente frustrato perché vuoi arrivare all’altezza di quel capolavoro e non ci riuscirà mai. Invece se il tuo esordio è negativo dal secondo libro dovrei fare un libro migliore per far dimenticare il primo. Quindi abbiamo uno Sciascia che quando decide di esordire decide di pubblicare un libro di favole. Perché è un libro fondamentale? Perché è come se in quel libro ci fosse tutto lo Sciascia che sarà dopo. Sciascia nascondeva quelle poche copie che aveva di quelle favole. In un cofanetto dove ci sono tutte le sue opere la prima è “le parrocchie di Regalpetra”. Sciascia diventa collaboratore di una casa editrice e si occupa della rivista Galleria—> rivista sorprendente perché qui scrivevano i grandi scrittori di quel periodo. I modelli stilistici di Sciascia sono : Quasimodo - Brancati. Ci sono altri modelli come riferimento e lo notiamo sfogliando il suo libro e leggendo l'epigrafe (ovvero delle citazioni ad inizio libro che lo scrittore dà) e lui cita Longanesi e Orwell: ● Di Orwell, Sciascia riprende “La fattoria degli animali” e quando prova a pubblicarlo gli viene rifiutato e gli viene rifiutato perché Eliot aveva commentato… Sciascia della fattoria riprende un passaggio significativo (maiale). La fattoria degli animali (animali che si ribellano) è il libro più vicino al signore delle mosche (bambini che si ribellano). Da utopia si passa alla distopia. ● Di Longanesi invece il libro è “Parliamo dell’elefante”, con la sua frase si riferiva al fascismo, Mussolini, Hitler. Longanesi ci vuole dire con la sua frase che è vero che abbiamo vissuto il peggio, ma al peggio non c’è mai fine. Sciascia così ci sta dicendo che non legge solo lo scrittore serio come Orwell, ma anche una branca della letteratura che prova a far sorridere sulle disgrazie. Orwell dice che qualsiasi utopia si può capovolgere con la distopia e Longanesi ci dice che tra 30/40 anni gli storici non sapranno spiegarci la storia. La favola cos’è? È un genere letterario scritto in prosa o versi, con componimento brevi, i protagonisti sono essenzialmente gli animali ma possono esserci uomini o bestie. La favola classica è caratterizzata da due poli: 1. polo distoripo 2. polo peggiorativo: l’animale prende dagli uomini il peggio che può dare; 3. polo utoripo: polo positivo. Le due epigrafi (le due frasi di O. e L.) rappresentano una soglia: un varco di attraversamento . Dentro Sciascia c’è contenuto Fedro (superior stabat lupus). 25 Fedro: c’è il lupo più in alto in un corso d’acqua e l’agnello più in basso. Il diverbio nasce dal fatto che il lupo è sempre cattivo e c’è il lupo che si lamenta con l’agnello che gli dice che stava sporcando l’acqua che lui beveva. (In realtà era al contrario). È un apologo che sta a racchiudere il significato dell’arroganza assoluta —> il potente che diventa prepotente. Sciascia ci sta dicendo che lui sta partendo da questo modello però lui poi aggiunge qualcos’altro. Il lupo di Sciascia dice all’agnello che è inutile che parla che se io sto sopra sono io a sporcarti l’acqua perché io gia lo so e quindi è una specie di Orwell del Grande fratello ed è quel lupo che già sa cosa pensa l’agnello—> il controllo del pensiero, il potente che controlla l’opinione altrui e sa che argomenti utilizza per l’autodifesa e non gli da nemmeno spazio. L’universo di Sciascia è terribile e dal punto di vista lessicale lui prende le difese di chi il potere lo subisce quindi è indispensabile per capire il 900. Perché diventa un libro necessario quello di Sciascia? Perché lì dentro ci sono tutti i temi che poi avrebbe affrontato , quindi la storia come una serie infinita di violenza. Lessico cristallino. Quindi queste non sono favole per bambini, ma per adulti. E quindi attraverso il codice favolistico e tipico lo scrittore ci riesce a dare uno sguardo del 900. Capitolo 10 Il mondo salvato dai ragazzini. Anna e la post-apocalisse siciliana Nicolò Ammaniti scrisse nel 2015 il romanzo Anna che però é ambientato nel 2020. La protagonista del romanzo è Anna, una ragazzina di 13 anni. Il romanzo è ambientato in Sicilia in un’epoca post apocalisse, dove non c’è internet, tecnologia e luce. Prima di morire la mamma di Anna ha compilato un quaderno delle cose importanti, ed in una pagina si legge: l’elettricità presto finirà e non ci sarà più la luce, la televisione, la musica, il telefono e il frigorifero. In questo romanzo vi sono situazioni di pericolo, prove da superare e lotta alla sopravvivenza. La piaga, detta anche rossa, è una peste che da febbre e macchie rosse al primo accenno di sviluppo ormonale. L’insorgere dell’adolescenza rappresenta l’anticamera della morte. L’idea della storia è stata quella di immaginare cosa potrebbero fare dei bambini abbandonati a loro stessi, costretti a muoversi in una realtà ostile. Accanto ad Anna troviamo Astor, suo fratello minore, che pretende spiegazioni alle quali la sorella non riesce a dare delle risposte pur cercando delle soluzioni nel quaderno scritto dalla madre. Anna non si perde d’animo nemmeno quando il fratellino viene rapito. Astor scappa, si sente al sicuro ma poco dopo viene raggiunto e portato via. Mentre Anna attraversa la siepe si accorge di qualcosa di bianco e tondo, lo prese in mano e tra le dita stringeva il cranio di sua madre. Anna ritrova il fratello. È la festa del fuoco, celebrata il 2 novembre 2020 ed Anna pensa che il suo rifugio, il potere del gelso, è stato violato e andare in Calabria senza il fratello non ha senso. Il romanzo di Ammaniti si può leggere come una storia d’amore che prende la forma di una fratellanza quale unico rimedio alla peste. Anna ed Astor sono le due facce di una stessa medaglia, che insieme diventano la forza. Anna si imbatte in un gruppo di ragazzi, chiede il cibo e si unisce a loro ma ad un 26 certo punto qualcuno parla della Picciridduna (una ragazza che si chiama Katia che è immune alla peste perché nel sangue ha una sostanza che distrugge il virus). Anna poco dopo ha un diverbio con un mutandone: rischia di lasciarci la pelle ma poi inizia la festa del fuoco e tutto si ferma. Ad un certo punto arriva il grande scheletro e un camion irrompe la scena con sopra 10 bambini blu che impugnano bastoni e fiaccole come su un carro di carnevale. La marionetta prende fuoco, la folla scappa impaurita e Anna viene raggiunta da Pietro, un ragazzo che già aveva incontrato. Pietro tieni in braccio Astor, il bambino solleva il capo guarda la sorella e lungo un braccio. Da questo momento Anna, Pietro, coccolone ed Astor si spostano verso Palermo. Mentre stavano proseguendo verso Cefalù Anna capisce che si era innamorata di Pietro. Non aveva mai avuto bisogno di nessuno e adesso dipendeva da quel minchionaccio. La convivenza con lui e il fratello fanno di Anna la moglie premurosa. In quei giorni Anna compie gli anni e le mestruazioni arrivano. La comparsa del ciclo è un segno: mentre solitamente rappresenta il momento in cui si diventa fertili, nel romanzo indica la possibilità alla morte. Nel frattempo Pietro, che è segnato dalle macchie del virus, ha un incidente con la moto ma prima di morire ha il tempo di raccomandare ad Anna di cercare le scarpe, come se la salvezza possa arrivare solo da un paio di Adidas. L’amore sai cos’è quando te lo levano; l’amore è mancanza e senza Pietro il mondo era tornato ad essere minaccioso. Sono diretti a Messina e si manifesta una mandria di mucche dietro alla quale corrono decina di bambini armati di bastoni. Un bambino prova a colpire l’animale e il cane lo fa cadere a terra. Anna e Astor fanno mettere a cuccia il cane mentre scende una biondina dicendo cane cattivo. La biondina si avvicina e allunga la mano verso la testa del cane e per fortuna questi non ce la stacca con un morso. Finalmente arrivano a Messina, trovarono un pedalò ed Anna e il suo fratellino cominciano a pedalare a malincuore. I due fratelli si intrufolano in uno stanzone, accendono la torcia e appesi ai muri vedono magliette, stivali e jeans. Il romanzo finisce qui (il finale è aperto). Tutto lascia presumere che in Calabria i grandi siano stati sterminati dalla rossa, forse in questa storia non si scampa la morte ma ci si salva perché si rimane insieme. La fratellanza è l’unico rimedio alla peste. Ammanniti si rifà: ● Maccarthy con l’opera “la strada” dove affronta il tema del viaggio; ● Golding con il “signore delle mosche” perché si rifà al gruppo di bambini soli in un’isola deserta; ● Jack London con “la peste scarlatta” che racconta di un’epidemia scoppiata nel 2013 che cancella la razza umana; ● Carrere con la “settimana bianca”. Ammaniti crede nel talismano per garantire la sopravvivenza quindi crede al feticismo delle merci (scarpe Adidas). 27